Corsa contro il tempo. L’anarchico Cospito rischia di morire di Federica Olivo huffingtonpost.it, 28 gennaio 2023 In sciopero della fame da 100 giorni contro il carcere duro. Al 41 bis per una bomba che non causò né vittime né feriti. La Cassazione anticipa al 7 marzo l’udienza sul ricorso. Il garante dei detenuti chiede il trasferimento immediato in una struttura in grado di dare più assistenza sanitaria. L’uomo ha perso 40 chili. Silenzio dal Guardasigilli. Alfredo Cospito è al centesimo giorno di sciopero della fame. L’anarchico, ristretto al 41 bis nel carcere di Sassari, è in protesta contro il regime del carcere duro e contro l’ergastolo ostativo, al quale rischia di essere condannato dalla Corte d’Appello di Torino, con l’accusa di strage politica. Il processo a suo carico, molto complesso, verte su una bomba a basso potenziale che l’anarchico avrebbe posto, di notte, davanti a una caserma per allievi carabinieri. Un gesto che non causò vittime, né feriti. Il caso è ora davanti alla Corte costituzionale, ma l’uomo dal 20 ottobre ha iniziato a digiunare e negli ultimi giorni, secondo i racconti della dottoressa di fiducia che lo ha visitato, le sue condizioni stanno peggiorando. Cospito, infatti, ha perso più di 40 chili ed è sempre più debole. Per questo motivo il Garante dei detenuti, Mauro Palma - che per giorni ha seguito la vicenda senza intervenire pubblicamente - ha chiesto con chiarezza che l’anarchico “sia trasferito con urgenza in una struttura in grado di garantire un immediato intervento di carattere sanitario in caso di situazioni di alta gravità, rischio, peraltro, elevato dato il forte stress a cui è sottoposto da mesi il suo organismo”. Il carcere di Sassari, continua il garante, “non è dotato di un centro clinico interno e nel territorio limitrofo non vi sono strutture sanitarie in grado di assicurare eventuali interventi urgenti con la dovuta sicurezza”. Fonti del garante fanno sapere ad HuffPost che si tratta di una richiesta fatta in via preventiva, per fare in modo che se la situazione dovesse aggravarsi ulteriormente Cospito si troverebbe già in una struttura adeguata. Al momento, però, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non sono arrivate risposte. Né il ministro della Giustizia sembra intenzionato a revocare il 41 bis. In via Arenula si insiste sul fatto che il carcere duro per Cospito è stato motivato dalla necessità di interrompere le comunicazioni tra l’uomo e la galassia anarchica e che prima che il provvedimento, firmato da Marta Cartabia, fosse emesso, erano arrivate le richieste e i pareri della direzione distrettuale antimafia di Torino e della Direzione nazionale antimafia. Non è da escludere, però, che si lavori a una soluzione per tutelare la vita del detenuto. Ufficialmente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non sono state prese iniziative per trasferire Cospito, ma fonti ben informate fanno notare che il primo passo anche per un eventuale spostamento di un detenuto va fatto dal sistema sanitario nazionale. Deve essere, insomma, il medico del carcere a chiedere di intervenire e solo allora il Dap si può muovere. A quanto risulta, però, dai sanitari del penitenziario di Sassari non sono arrivate richieste ufficiali. La situazione di Cospito viene considerata in maniera differente rispetto a quella di chi ha una malattia grave, come Matteo Messina Denaro, perché ritenuta maggiormente gestibile anche in un penitenziario apparentemente meno attrezzato. Chi, però, segue da vicino la situazione ritiene che sia necessario agire in fretta, per scongiurare ulteriori aggravamenti della salute dell’uomo, che al momento è sulla sedia a rotelle e ha molto freddo, al punto che è costretto a indossare tre paia di pantaloni e tre maglioni. Cospito, appello del Garante Palma: “Trasferitelo subito” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 gennaio 2023 Ricorso contro il 41bis, la Cassazione anticipa l’udienza al 7 marzo. Il medico: “Non basta”. Mauro Palma: “La tutela della salute di chi è nella disponibilità dello Stato, in quanto privato della libertà personale, è responsabilità della Amministrazione che lo ha in carico”. Dopo l’appello lanciato dalla dottoressa Angelica Milia sulla gravità delle condizioni di salute cui è ormai giunto il suo paziente, l’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre come forma di protesta contro il regime di 41bis con il quale è recluso nel carcere di Bancali, a Sassari, ieri la Cassazione ha anticipato dal 20 aprile al 7 marzo l’udienza nella quale tratterà il ricorso contro il carcere duro disposto nei confronti del detenuto per altri tre anni e quattro mesi. Il ricorso ai giudici del Palazzaccio è stato presentato dall’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini dopo che il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato la richiesta di revoca del 41bis imposto otto mesi fa dall’allora ministra Cartabia perché l’uomo è stato giudicato ancora un ideologo del Fai, l’organizzazione anarchica in nome della quale nel 2012 Cospito gambizzò l’Ad di Ansaldo, Roberto Adinolfi, e nel 2006, insieme alla sua compagna Anna Beniamino, piazzò un ordigno davanti alla caserma allievi carabinieri di Fossano senza produrre vittime. Recentemente il legale ha depositato una nuova istanza al Guardasigilli Nordio sulla base di “nuovi fatti emersi dalla sentenza di assoluzione della Corte d’Assise di Roma sulla cosiddetta operazione Bialystok” riguardante una cellula eversiva anarco-insurrezionalista e i presunti (ma dichiarati inesistenti dai giudici) legami fattuali con il detenuto Cospito. “Un fatto positivo - ha commentato Milia, la dottoressa che lo tiene in cura - ma si tratta di aspettare ancora 30 giorni, e nelle condizioni di Cospito può succedere di tutto. Stiamo camminando sul filo del rasoio e si può cadere da un minuto all’altro”. Per questo, rompendo il riserbo con il quale il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà ha trattato questa vicenda fin dall’inizio, pur visitando Cospito in carcere in questi mesi, Mauro Palma è intervenuto ieri pubblicamente per chiedere che l’uomo venga “trasferito con urgenza in una struttura in grado di garantire un immediato intervento di carattere sanitario in caso di situazioni di acuzie, rischio peraltro elevato dato il forte stress a cui è sottoposto da mesi il suo organismo”. Il carcere di Sassari infatti, spiega Palma, “non è dotato di un centro clinico interno e nel territorio limitrofo non vi sono strutture sanitarie in grado di assicurare eventuali interventi urgenti con la dovuta sicurezza”. Il Garante, inoltre, “ricorda che la tutela della salute di chi è nella disponibilità dello Stato, in quanto privato della libertà personale, è responsabilità dell’Amministrazione che lo ha in carico e ritiene che un trasferimento di Alfredo Cospito non sia più procrastinabile”. Infine Palma auspica “che - nel pieno rispetto delle Istituzioni che si stanno occupando della vicenda - si giunga in tempi rapidi a una soluzione che permetta che sia posto fine allo sciopero della fame che prosegue ormai ininterrotto da cento giorni”. Tra i tanti appelli che in questi giorni si levano in favore dell’anarchico da ogni parte politica - perfino dall’ex leader di Forza Nuova Giuliano Castellino, fondatore di Italia Libera - c’è chi come Luigi Manconi dalle colonne de La Stampa si rivolge direttamente a Papa Francesco per chiedergli di dedicare con umana compassione “una sua parola”, “utile affinché la vicenda di quest’uomo, oggi ridotto alla “nuda vita”, non cada nell’oblio”. Mentre i capogruppo di Senato e Camera dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Peppe De Cristofaro e Luana Zanella, avvertono: “È in gioco non solo la vita di una persona, di per sé importantissima, ma l’umanità e la forza delle istituzioni e del Paese”. E Carlo Calenda, leader di Azione: “Il 41 bis è un carcere particolarmente duro e questo signore, anche se ha commesso atti gravi, non ha nulla a che vedere con quel regime carcerario ed è malato, va trasferito”. Più attenti al messaggio politico e meno all’aspetto umanitario, alcuni attivisti hanno manifestato ieri pomeriggio davanti al ministero di Giustizia per supportare la lotta nonviolenta di Cospito e dire che “41 bis e ergastolo sono torture di Stato”. L’anarchico Cospito deve morire? I pareri opposti di Davigo e Colombo di Giulia Merlo Il Domani, 28 gennaio 2023 Davigo: “Lo Stato non può cedere ai ricatti” - Lo sciopero della fame non può essere un modo per ricattare lo Stato, è la posizione dell’ex magistrato Piercamillo Davigo. Il tema è tornato d’attualità perché il detenuto anarchico, Alfredo Cospito, condannato per strage e in carcere da dieci anni, sta digiunando da più di cento giorni per protestare contro il regime di carcere duro a cui è stato sottoposto e ora rischia la vita. “Non conosco nel dettaglio il suo singolo caso, ma constato che in passato anche alcuni detenuti per gli attentati dell’Ira sono morti in carcere a causa di scioperi della fame. Ovviamente nessuno auspica che finisca così, tuttavia lo Stato non può cedere ai ricatti”, è il ragionamento del magistrato. Del resto, è la legge stessa che impone allo stato la fermezza. Per esempio, in caso di sequestro a scopo di estorsione, i pm devono sequestrare i beni del rapito e dei suoi familiari, esponendo la vittima a gravi rischi ma con lo scopo di evitare di scendere a patti coi sequestratori: “Il risultato è stato il crollo dei sequestri di persona. La linea della fermezza paga sempre”. Nulla contro lo strumento dello sciopero della fame in quanto tale, “che è un’arma di lotta seria, per come lo utilizzò Gandhi per esempio. Nel nostro paese invece in generale è una buffonata, come nei casi degli scioperi della fame a staffetta, che sono sostanzialmente delle diete”. L’interrogativo concreto che pone il caso Cospito, però, è se la vita umana non valga comunque più di un principio. Domanda sbagliata, secondo l’ex magistrato: “Il rispetto per la vita umana non c’entra. Perché lo sciopero della fame abbia senso bisogna che i valori in discussione siano commisurati all’entità del rischio. La vita e il regime di 41 bis non possono stare sullo stesso piano. Contro un regime detentivo si può fare richiesta di revoca oppure istanza di grazia al presidente della Repubblica”. Secondo Davigo, infatti, il 41bis è uno strumento che va considerato sulla base dell’obiettivo che raggiunge: impedire a chi ha commesso delitti gravissimi di mantenere contatti con il contesto associativo criminale. Per spiegarlo, cita le parole che gli disse il collaboratore di giustizia Angelo Epaminonda nei primi anni Ottanta: la forza di una organizzazione criminale all’esterno e proporzionale alla forza che ha dentro al carcere. “Chi appartiene a queste organizzazioni non deve avere poteri dentro il carcere, perché altrimenti rischia di continuare ad averlo anche fuori”. Epaminonda, infatti, gli raccontò che uno degli omicidi a che aveva ordinato era quello dell’avvocato del boss Francesco Turatello, il quale portava gli ordini di Turatello fuori dal carcere e venne ucciso dagli altri associati perché ritenevano che il vecchio capo fosse in galera da troppo tempo per avere una visione chiara di come agire. “Epaminonda mi spiegò che Turatello aveva ancora un primato d’onore ma non più di giurisdizione sulla sua organizzazione criminale, inoltre l’avvocato che veicolava gli ordini all’esterno ci metteva del suo, quindi lo uccisero per dare un segnale al boss. Basta questa storia per capire l’utilità di provvedimenti come il 41bis, che mostrano ai criminali che contro lo stato sono perdenti”. A dimostrare che la fermezza paga è un dato, confermato durante l’apertura dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio: dai 1700 omicidi del 1992, oggi il numero è sceso a 310. Rispetto allo sciopero della fame Cospito, quindi, Davigo è pragmatico: l’obiettivo del detenuto dovrebbe essere quello di ottenere la revoca della misura se ritiene che nel suo caso specifico non sia coerente, ma non di lasciarsi morire per protestare contro uno strumento fondamentale per la lotta alla criminalità organizzata. Colombo: “Salviamo Cospito e cambiamo il carcere duro” - L’anarchico Alfredo Cospito sta andando verso la morte in carcere ed è in sciopero della fame da oltre cento giorni per protestare contro la misura del “carcere duro”, il regime del 41 bis a cui è sottoposto. Ho sottoscritto l’appello per la modifica della misura a suo carico per una ragione: l’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, deve essere applicato. La Carta, infatti, è la prima legge dello stato, quella su cui si fonda il nostro stato di diritto, non un suggerimento che va seguito a piacere. Non è un caso che il 41 bis venga gergalmente chiamato “carcere duro”, non per la prevenzione o per la sicurezza, ma duro. Rappresenta, infatti, l’esasperazione del sistema e così come viene applicato è uno strumento punitivo, molte caratteristiche del quale hanno poco o nulla a che fare con la finalità per cui è concepito, ovvero evitare la partecipazione del detenuto all’associazione criminosa di cui era membro attivo da libero. Per questo credo che il 41 bis vada cambiato in modo sostanziale in alcune parti della sua formulazione e nelle modalità con cui viene applicato, che sono in contraddizione con il precetto costituzionale. La tutela della collettività attraverso l’impedimento dei contatti tra il detenuto e il suo contesto criminale di riferimento, infatti, può avvenire senza disumanizzare chi sta scontando la pena. Della realtà concreta di come il 41 bis viene applicato e di come ciò sia spesso incompatibile con il dettato costituzionale esiste ampia letteratura. In particolare lo dimostra il rapporto della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi del 2018. Basti un esempio, che viene proprio dal caso Cospito: in forza del regime di 41 bis, gli è stato vietato di tenere in cella le foto dei genitori defunti, perché viene richiesto il riconoscimento formale della loro identità da parte del sindaco del paese d’origine. Davanti a questo, a mio parere trova spazio la disobbedienza civile dello sciopero della fame. A chi sostiene che sia un’indebita arma di ricatto rispondo con la constatazione che la vita in gioco è quella di Cospito, che sta vivendo sulla sua pelle la sofferenza e il rischio di morire. La domanda da fare è una sola: c’è una persona che, se continua lo sciopero della fame, muore. La salviamo o no? Non importa che si sia messo da solo in questa condizione, la domanda rimane la stessa. Se una persona libera si getta nel fiume per suicidarsi, la si lascia annegare o ci si tuffa per salvarla? La risposta a questa domanda viene prima di ogni coerenza giuridica o di sistema e io rispondo che prima si salva una vita, poi si riflette sul resto. Credo peraltro che la morte di Cospito sarebbe contraria agli interessi di chi ritiene che il 41 bis sia una misura compatibile con la Costituzione e alla domanda “lo salviamo?” risponde a forza di distinguo: se Cospito morisse, infatti, se ne farebbe martire. Nel merito invece, che fare per far sì che il detenuto sospenda lo sciopero della fame? Le risposte di giustizia possono essere molteplici. Una sarebbe quella di ricorrere agli articoli 146 o 147 del codice penale, che prevedono che l’esecuzione della pena venga differita nel caso in cui il detenuto sia in condizioni di salute incompatibili con la detenzione il primo, oppure sia in condizioni di grave infermità il secondo. Anche queste disposizioni, come il 41 bis, sono una legge dello stato. Oppure si potrebbe modificare il regime carcerario: il Garante per i detenuti, per esempio, ne chiede il trasferimento in una struttura idonea. Salvare Cospito, ma non basta: il “no” al 41 bis deve valere per tutti di Davide Varì Il Dubbio, 28 gennaio 2023 Salvare l’anarchico Alfredo Cospito, certo. Salvarlo subito perché le sue condizioni di salute precipitano e non sono più compatibili col 41bis, forse neanche col carcere “normale”. Interpellato più volte e sollecitato da intellettuali e politici di vari partiti, il ministro Nordio è stato chiaro: la liberazione di Cospito dal 41bis dovrà necessariamente passare per una richiesta dell’autorità giudiziaria, che, “a fronte dell’aggravamento delle sue condizioni di salute può disporre una sospensione della pena o chiedere al Ministro una revoca del regime speciale”. Un modo per lavarsene le mani? Forse. Del resto, dopo le sue uscite su intercettazioni, separazione delle carriere e abuso d’ufficio, il ministro Nordio è sotto stretta osservazione, e via Arenula è l’avanguardia di uno scontro ormai conclamato con una parte della magistratura che considera la ‘rivoluzione copernicana’ annunciata dal Guardasigilli come un attentato alla sua indipendenza; o al mantenimento delle sue rendite di posizione, dipende dai punti di vista. Salvare Cospito, dicevamo, liberarlo dalla tortura del 41 bis. Giusto, sacrosanto. Ma Cospito è solo uno degli 800 detenuti murati vivi in una cella di 4 metri per 4 e isolati da qualsiasi forma di contatto umano. E chi oggi chiede la sua “liberazione”, forse, dovrebbe avere il coraggio di chiederla anche per le altre 799 persone. Se il 41bis è tortura, lo è per tutti. Anche per un certo Matteo Messina Denaro, tanto per essere chiari e brutali. Perché qui non c’è in gioco solo la dignità di chi è rinchiuso lì dentro, ma il nostro grado di civiltà giuridica e il nostro senso di umanità. Vincenzo Paglia: “Va bene la certezza della pena ma serve umanità, non giustizialismo” di Domenico Agasso La Stampa, 28 gennaio 2023 Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ieri Luigi Manconi dalle pagine de La Stampa ha lanciato un appello al Papa affinché intervenga per Alfredo Cospito, detenuto al 41bis, in sciopero della fame nel carcere di Sassari da ottobre: che cosa ne pensa? “La sorte dei detenuti deve riguardare tutta la società. Ci deve riguardare. In questo senso, bene ha fatto l’amico Luigi Manconi a sollevare l’attenzione su Alfredo Cospito. Ora Cospito è in condizioni gravissime sia per le conseguenze di una caduta, sia per la profonda debilitazione fisica provocata dallo sciopero. Manconi si appella a papa Francesco, non perché si debba intromettere nelle questioni carcerarie italiane ma perché questa vicenda non cada nell’oblio”. Qual è la sua personale opinione? “Vorrei che un analogo appello giungesse al Ministro della Giustizia, ai magistrati, al governo nella sua interezza, perché ci sia sempre un “di più” di umanità nell’applicazione della legge, per non dimenticare il legame tra la giustizia e la possibilità di ripensamento e riscatto per i colpevoli”. Intravede mancanze nella gestione di questo caso? “In questi nostri tempi dobbiamo combattere l’oblio e dobbiamo riaffermare il valore della vita umana, sempre, in qualunque condizione. La giustizia si basa sulla pena e sulla certezza di questa. Qui, non c’è dubbio, una pena è stata erogata al termine di un iter giudiziario in un paese democratico. Ma dopo, non possiamo lasciare i carcerati lì, dove si trovano, in quel limbo di quattro mura dove, se va bene, se sono fortunati, trovano una situazione favorevole ed hanno delle possibilità di riflettere, redimersi, riscattarsi, lavorare o studiare, qualificarsi, per vivere una seconda vita, positiva, una volta terminata la pena. Ovvero, se non sono fortunati, si trovano in condizioni poco umane e la pena non diventa motivo o possibilità di riabilitazione ma ulteriore condizione afflittiva, nella dimenticanza, nell’oblio, nell’indifferenza”. Di che cosa c’è bisogno? “Non solo di applicare la Costituzione e la più avanzata legislazione, quando dispone che il carcere sia strumento di riabilitazione. Ma dobbiamo ricordarci che il valore della vita è un bene supremo. E non perché lo dice la Chiesa, ma piuttosto perché è un valore ragionevole, è un valore di civiltà, è alla base di ogni società che abbia a cuore il progresso umano, culturale, sociale, economico, dei propri concittadini”. Anche quando sbagliano gravemente? “A maggior ragione, proprio quando sbagliano ed hanno bisogno di espiare i torti commessi, ma anche di potersi redimere per la società e per loro stessi”. Lei conosce Cospito? Che effetto le fa saperlo nelle condizioni attuali? “Non lo conosco di persona. Però colpisce che un uomo si infligga un durissimo sciopero della fame, che lo porta a mettere in pericolo la vita. E dico come cristiano, come cittadino e come persona, che non è possibile. Certamente tutte le leggi sono state rispettate nel suo caso, come in tanti altri. Ma l’opportunità di riscatto, di revisione di vita, di un supplemento di umanità, deve essere offerta a tutti e non solo a qualcuno”. Le vengono in mente riferimenti biblici? “Pensiamo a Caino, omicida, quando dice: sono forse io il guardiano di mio fratello? Ebbene sì, la grande storia della Bibbia ebraica e del cristianesimo, è una vicenda umana di rapporti, di relazioni, con la parola di Dio che invita il popolo ebraico e tutta l’umanità a guardare agli altri esseri umani come fratelli e sorelle, non degli sconosciuti. E in ogni incontro c’è una possibilità di vita in più, una relazione aggiuntiva, una possibilità di umanità. La democrazia diventi per noi non solo espressione di un regime di benessere economico e materiale, ma sinonimo di umanità e di attenzione agli altri, di rispetto per il valore della vita umana”. Come descriverebbe la situazione attuale della giustizia e delle carceri italiane? “Qualche anno fa, ragionando proprio con Manconi - riflessioni poi confluite nel nostro libro “Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un poco credente” (Edizioni Einaudi) - concordavamo nel sottolineare che non possiamo retrocedere sulla concezione redentiva del carcere e della pena. E una questione di civiltà. La distrazione da tale obiettivo diventa complicità con una cultura giustizialista e, alla fine, crudele. Le carceri devono essere la cartina al tornasole della capacità di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure sagacemente pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Lo snodo essenziale è la relazione”. Ci spiega? “Tutti sono protagonisti, dagli operatori dell’amministrazione alle famiglie dei detenuti, agli stessi detenuti. Vale per tutti, e anche nelle carceri: isolamento non deve voler dire solitudine. Possono essere necessarie forme di isolamento: ma guai a favorire la solitudine! In questo campo vanno trovate e investite risorse sulla formazione degli operatori, sul potenziamento del volontariato, sugli strumenti tecnologici che possano consentire ai detenuti di studiare e acquisire professionalità. E per il reinserimento nel mercato del lavoro una volta scontata la pena”. Qual è il pensiero del Pontefice su questi temi? “Papa Francesco nel settembre 2019 in piazza San Pietro, nel discorso rivolto al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile, sottolineava la necessità di fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro”. Caro Scotti, il 41 bis non deve costringere alla delazione di Michele Passione* Il Dubbio, 28 gennaio 2023 Una replica alle dichiarazioni dell’ex ministro dell’interno su Messina Denaro. Gent. Direttore, ho letto l’articolo a firma dell’ex Ministro Scotti, pubblicato sulla Stampa lo scorso 21 gennaio, che si inserisce nell’ambito del dibattito in corso su quel giornale e che ha già ospitato gli autorevoli interventi di Roberto Saviano, Gaetano Silvestri e Donatella Stasio. Prendendo le mosse dall’arresto di Messina Denaro l’ex ministro dell’Interno abbozza una riflessione sull’ergastolo ostativo, per poi passare senza soluzione di continuità ad alcune considerazioni sul 41 bis, inducendo confusione nel lettore tra le due modalità di esecuzione della pena. Le parole sono importanti; ritengo quindi doveroso offrire un contributo di chiarezza. Dei circa 1.800 ergastolani italiani il 70% è ostativo, mentre circa 750 persone sono detenute in regime differenziato di 41 bis. Queste cifre aiutano a capire che non tutti i detenuti sono uguali (ed anzi, ognuno di loro ha una storia diversa anche al momento di scontare la pena). In breve, se la disciplina in materia di ergastolo ostativo è stata appena riformata per renderla conforme con l’art. 27, comma 3, della Costituzione (ma non esattamente in linea - per usare un eufemismo - con le indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 253/ 2019 e con l’ordinanza n. 97/2021), resta sullo sfondo una malcelata idea della ragion d’essere sottesa sia a questa modalità di esecuzione della pena sia, soprattutto, a quella del 41 bis, che l’onorevole Scotti esprime in questi termini: “ basta che ci dica quelle cose” perché si aprano “ se non le porte del carcere almeno quelle che li separano dal mondo”. In sostanza, l’ex ministro ci sta dicendo che quel regime ha lo scopo di indurre a collaborare, più che a tagliare i legami con l’esterno. Al di là di ogni valutazione sulla sospensione delle regole trattamentali per effetto del 41 bis (strumento eccezionale, diventato normale), questo regime differenziato dovrebbe servire, appunto, a interrompere i rapporti con le consorterie di appartenenza (non con il resto del mondo, o magari con una specifica radio libera, e solo quella…), e non già a costringere alla delazione e a seppellire dei vivi per decenni qualora non collaborino per i più diversi motivi. In uno Stato costituzionale di diritto questo non è consentito mai. Per mantenere credibilità, se lo Stato oltrepassa il limite dei diritti finisce per sfigurarsi, assumendo il volto di chi vuole combattere. Lo dico da cittadino, prima ancora che da avvocato che da anni si occupa di tortura, anche per il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. *Avvocato La grande ingiustizia: organici all’osso, strutture a pezzi, processi infiniti e boom di prescrizioni di Francesco Grignetti La Stampa, 28 gennaio 2023 Così l’effetto dei tagli ha ridotto il sistema italiano uno dei peggiori d’Europa. Non saranno forse le sette piaghe bibliche che schiantarono l’Egitto dei faraoni, ma certo anche la giustizia italiana ha le sue piaghe. Croniche. Immutabili. E sotto gli occhi di tutti: tempi troppo lunghi per la definizione dei processi, massiccia prescrizione dei reati, giudici in perenne affanno per via di immani carichi di lavoro, personale amministrativo demotivato e paurosamente sotto organico, stabili vetusti e anche quelli abbastanza nuovi già pieni di acciacchi, caos tra leggi in continuo divenire e sentenze spesso in contraddizione tra di loro. Ce n’è abbastanza per alzare le braccia e scappare. E infatti. Il nuovo ministro Carlo Nordio, che da qualche settimana è passato dalla posizione di fustigatore a quella molto più scomoda di responsabile del buon andamento della giustizia, si è sfogato così in Parlamento: “Ho avuto vari contatti con autorità e con colleghi stranieri, ho ricevuto molti ambasciatori, e la lamentela unanime è che in Italia non si possa investire, perché l’incertezza del diritto e la lunghezza dei processi rendono antieconomico l’investimento”. Al di là dei massimi sistemi, insomma, e senza impantanarsi nel dibattito se le intercettazioni siano troppe e poche, se occorra la separazione delle carriere dei magistrati o in fondo basti la semi-separazione delle funzioni com’è oggi, è alle cose concrete che bisogna guardare. Se nell’anno appena trascorso ci sono state 104 mila prescrizioni, ovvero altrettanti processi andati in fumo nei diversi gradi di giudizio, di chi è la colpa? Di magistrati e dipendenti lavativi o di un sistema che è sull’orlo del collasso ogni giorno? E ancora: con chi prendersela se nei tribunali ordinari nel 2019 servivano 392 giorni per una sentenza di primo grado e ora ne servono 414? Va peggio nelle corti d’appello: nel 2019 ci volevano 835 giorni (835 giorni! Due anni e rotti) per definire un processo e nel 2021 siamo passati a 906 giorni (due anni e mezzo)? Si aspettano anni per avere giustizia. E se non si invertirà presto la rotta, arriverà come una mannaia la riforma Cartabia - colpa dei partiti della maggioranza Draghi che non si mettevano d’accordo su nulla - che ha inventato un cervellotico sistema di prescrizione processuale, per cui se in secondo grado si sforeranno i 730 giorni il processo sarà annullato senza speranza. In fondo c’è poco da meravigliarsi se le cose nei tribunali vanno male, così come vanno malissimo negli ospedali pubblici. Siamo in Italia e il problema è sempre lo stesso: da troppi anni nel settore pubblico si fanno tagli, a ogni livello, in ogni direzione. E alla fine se ne paga il prezzo. Due giorni fa, all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, il Primo presidente di Cassazione, Pietro Curzio, ha aperto il suo intervento con parole amare: “Non bisogna essere esperti di scienza delle organizzazioni per comprendere che senza risorse umane, strumentali e finanziarie adeguate non si possono ottenere buoni risultati. Per molti anni si è praticata una linea di intervento sulla giustizia affidato a riforme a costo zero. Per decenni le assunzioni di personale sono rimaste bloccate, non vi è stato turn over e l’età media del personale è progressivamente cresciuta”. No, non bisogna avere una laurea in gestione dei sistemi complessi per capire che i meccanismi non possono filare lisci se mediamente nelle cancellerie manca un’unità ogni quattro. Ma le statistiche, poi, ingannano. Senza scomodare i polli di Trilussa, è verissimo che qualche ufficio giudiziario mangia quasi il suo pollo intero e un altro digiuna. Da un recente monitoraggio dell’Associazione nazionale magistrati, si scopre che alla procura di Gorizia manca il 52% del personale amministrativo, al tribunale di Spoleto la scopertura è del 50%, a Varese del 44%, a Sondrio del 43%, alla corte d’Appello di Genova del 47,9%, a Imperia del 47%. Con i magistrati il discorso è lo stesso. A fronte di un organico di 10.558 unità, risulta scoperto il 13,7% dei posti. Le cose sono peggiorate rispetto all’anno scorso. In sostanza mancano 1.458 magistrati all’appello e non è affatto facile trovarli. I concorsi arrancano. Non parliamo poi dei ritardi per il Covid. Qui la voce del ministro Nordio assume sfumature di sconforto: “Dal momento della consegna della domanda dell’aspirante magistrato al momento della consegna della toga passano cinque anni. Voi capite che questo sistema non è molto razionale e, in un modo o nell’altro, dovrà essere cambiato”. Il nodo è che non si riescono a coprire i posti a disposizione dei candidati magistrati. Ma così nel tempo le scoperture aumenteranno, anziché diminuire. Dice ancora il ministro: “Accade che, a fronte di una media di domande di circa 13 mila aspiranti, soltanto 3 o 4 mila candidati mediamente consegnino gli elaborati alla fine delle prove scritte. Di questi 3 mila, circa 400 o 500 vengono ammessi alle prove orali, durante le quali avviene un’ulteriore selezione. Il che significa che questi posti, che noi pure mettiamo a concorso e che dovrebbero essere destinati a colmare gli organici in sofferenza della magistratura, non vengono occupati”. È una situazione che angoscia gli stessi magistrati in servizio. Si rischia un pericoloso testacoda, come spiega Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anm: “I vincitori del prossimo concorso per cinquecento magistrati saranno immessi in servizio non prima del 2025, mentre gli obiettivi di ridurre del 40% i tempi dei processi civili dovranno essere raggiunti, con le risorse ora disponibili, entro la fine del 2024”. Rischiamo grosso, perché il taglio dei tempi è uno degli impegni presi per avere il Pnrr e Bruxelles potrà chiederci indietro i miliardi se la velocizzazione non ci sarà. La giustizia divide la destra. Su cimici e abuso d’ufficio FI riscrive l’agenda Meloni di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 28 gennaio 2023 All’apertura dell’anno giudiziario, le toghe sono allarmate da “riforme gravide d’incertezza”. La frattura a destra frena Nordio. Rilancio dei berlusconiani su intercettazioni e inappellabilità, valutano la proposta di indulto. Meloni e Nordio ritrovano la sintonia, come si evince dall’immagine face to face che li ritrae sorridenti a palazzo Chigi. Ma non ci sono altrettanti “sorrisi” sulla giustizia tra i partner della maggioranza. I lunghi coltelli prevalgono. E le divisioni sulle leggi sono ormai cronaca. Mentre si apre l’anno giudiziario in tutt’Italia e le toghe sono in allarme, come dimostra il presidente della Corte d’Appello di Palermo Matteo Frasca quando parla di “riforme gravide d’incertezza”. Certo, l’incertezza c’è, per via di contrasti, anche lapalissiani, che emergono di continuo. Al punto da frenare la voglia del Guardasigilli Carlo Nordio di passare dalle parole ai fatti. Basta una rapida carrellata sui temi più caldi dell’agenda della giustizia per rendersi conto che Fratelli d’Italia e Lega remano in una direzione, mentre Forza Italia ha tutt’altri obiettivi. Storicamente, una spiegazione potrebbe anche esserci. Visto che, per alcune personalità di spicco, esiste un antico rapporto di gemellaggio. Basti il caso di Giulia Bongiorno, un tempo deputata di Alleanza nazionale di stretta osservanza finiana, che oggi conserva un background che l’avvicina più ad Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, che non a Francesco Paolo Sisto, il forzista di stretta osservanza berlusconiana, che a via Arenula è vice ministro. Tant’è. Lo dimostra la battaglia sull’abuso d’ufficio. Nordio vuole abolirlo. Lega e FdI l’hanno stoppato. Modifiche e attenuazioni sì. Cancellazione no. Arrivare in Aula e portare a casa la nuova legge diventa un problema. Anche se i forzisti dicono di essere disponibili a un compromesso. E lo stesso accade per il traffico di influenze, reato che ci ha chiesto l’Europa, quindi inamovibile secondo i giuristi, ma che, giurano buone fonti berlusconiane, impone “un’assurda pena draconiana”, da uno a quattro anni e sei mesi, “per colpa di un rapporto aleatorio”, come “le relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale”, indimostrabili. Su quell’ “asserite” i commenti acidi si sprecano. Non è un segreto che FI punti a ridimensionare soprattutto i reati contro la pubblica amministrazione. Berlusconi lo dice da sempre. A chiederlo ora sono i suoi colonnelli. Trovando però il muro dei “gemelli”, Lega e FdI. Proprio come sulle intercettazioni e sulla microspia Trojan. Qui la battaglia dei forzisti è senza quartiere. Tant’è che il deputato Tommaso Calderone esce allo scoperto, deposita una proposta di legge, e dichiara pure che “se due persone al telefono parlano di una terza, accusandola di un reato, questa non può finire in carcere”. La battaglia contro le cosiddette intercettazioni “indirette” non è di oggi, ma nessun magistrato manda in galera qualcuno sulla base di simili conversazioni che necessitano di riscontri. Ma se Lega e FdI - ancora Bongiorno e Delmastro - dicono che il problema è soprattutto la pubblicazione degli ascolti, FI vuole eliminarli proprio. Come fa sin dai tempi dei governi Berlusconi. Una battaglia a cui si è aggiunta adesso pure la crociata contro il Trojan, la microspia accusata di ogni nefandezza. Pierantonio Zanettin, il capogruppo forzista della commissione Giustizia del Senato, accumula prove sulla sua invasività ed è pronto a chiederne un drastico ridimensionamento. Non è certo un caso se Pietro Pittalis, alla Camera, ha rilanciato la commissione d’inchiesta sulla magistratura, se si infittiscono le voci di una possibile proposta di amnistia e indulto, se FI chiede che sia fatte subito la separazione delle carriere, la discrezionalità dell’azione penale, nonché l’inappellabilità delle sentenze, riedizione della legge Pecorella bocciata dalla Consulta. Mentre Meloni chiarisce che le sue leggi non saranno contro le toghe, tant’è che ha messo una toga in via Arenula, i berlusconiani vedono rosso solo se una toga nera gli passa davanti. Da processi infiniti a processi morti: i guai della riforma Cartabia di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 gennaio 2023 La riforma dell’improcedibilità voluta dall’ex Guardasigilli, senza risorse, rischia di far saltare migliaia di procedimenti penali. “La riforma Cartabia sull’improcedibilità costituisce una toppa peggiore del buco, e ce ne accorgeremo tra poco”, dice al Foglio un autorevole magistrato di Corte d’appello, riferendosi al meccanismo della tagliola introdotto nel 2021 per evitare il processo eterno “alla Bonafede”: trascorsi tre anni in appello e un anno e sei mesi in Cassazione, i procedimenti penali - salvo quelli per reati gravi come mafia e terrorismo - si interrompono (i termini diventeranno di due anni in appello e un anno in Cassazione dal 2025). Nella logica dell’ex Guardasigilli Marta Cartabia, l’intervento avrebbe dovuto essere accompagnato da una serie di misure volte a velocizzare i processi ed evitare la tagliola. A distanza di un anno e mezzo, però, di queste misure non c’è traccia. Insomma, dopo il guaio sui reati procedibili solo a querela e sui mancati arresti obbligatori in flagranza, che ha costretto il ministro Nordio a intervenire d’urgenza, la riforma Cartabia torna a far parlare di sé. Il tema è stato trattato in maniera solo marginale giovedì all’inaugurazione dell’anno giudiziario alla corte di Cassazione. Il primo presidente della Suprema corte, Pietro Curzio, nella sua relazione ha evidenziato che, anche se non si registrano ancora applicazioni delle norme sull’improcedibilità, “alcune corti di appello valutano con preoccupazione le ricadute sulla complessiva organizzazione dei ruoli”: poiché la disciplina sull’improcedibilità si applica ai processi per reati successivi al primo gennaio 2020, il rischio concreto è che i processi preesistenti vengano lasciati morire, e che per quelli successivi le risorse in mano alla magistratura non siano sufficienti per rispettare i tempi previsti prima che scatti la tagliola. Così, se da un lato Bonafede ha cancellato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, Cartabia rischia di essere ricordata per aver introdotto direttamente la cancellazione dei processi. “La riforma Cartabia - prosegue il magistrato d’appello - non è stata motivata da ragioni legate ai massimi sistemi giuridici. Non si poteva toccare la norma Bonafede, perché il M5s faceva parte del governo, e allora si è introdotta l’improcedibilità. Si è trattato di un pastrocchio motivato esclusivamente dal riuscire a mettere mano ai soldi dell’Unione europea”. “Eppure il vero obiettivo non dovrebbe essere quello di diminuire in maniera astratta il numero dei processi, ma di migliorare l’efficienza del servizio offerto ai cittadini. C’è forse qualcuno oggi in grado di dire che quello offerto dall’amministrazione della giustizia è un servizio che funziona?”. “Cosa faremo? Andremo in Europa e diremo: ‘Questo è il numero di processi che abbiamo definito, ma non chiedeteci come’?”. Più caute ma nella stessa direzione le riflessioni di Francesco Mollace, sostituto alla procura generale di Roma, che al Foglio dice: “Nel complesso, lo spirito della riforma Cartabia, cioè l’accelerazione dei processi, è da salutare con favore. Del resto, questa accelerazione è dovuta anche alla spinta dell’Ue e alla necessità di accedere ai fondi del Pnrr”. “Rispetto ai tempi standard europei di trattazione dei processi, infatti, l’Italia è indietro - aggiunge Mollace - e l’elevato numero di decisioni per prescrizione del reato fa capire che c’è un meccanismo che non funziona alla perfezione”. “Diverso è il problema dell’impatto della riforma dell’improcedibilità. Credo che le strutture giudiziarie, e mi riferisco soprattutto agli uffici giudicanti, non siano pronte a recepire una riforma con effetti così radicali. Ci sono problemi di organico, di distribuzione delle risorse, di supporto degli uffici più esposti”. In certi casi gli effetti dell’improcedibilità processuale rischiano di risultare paradossali. Nel 2021 il Centro studi Livatino aveva citato con grande efficacia l’esempio dell’omicidio non aggravato. Il termine di prescrizione sarebbe di 24 anni (corrispondente al massimo della pena prevista dalla legge). Se giudicato in primo grado a distanza di tre anni dal momento in cui è stato commesso, il reato potrebbe diventare improcedibile, nella peggiore delle ipotesi, allo scadere dei successivi sei anni, per un totale, quindi, di soli nove anni. Non è una sorpresa, così, se qualcuno ora chiede il ripristino della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio. A fine dicembre il governo ha dato parere favorevole a un ordine del giorno presentato dal deputato Enrico Costa (Azione) che va in questa direzione, superando sia la riforma Bonafede sia quella Cartabia. Intercettazioni, ripartiamo dalla Costituzione di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 28 gennaio 2023 Un cruciale dibattito democratico viene affrontato con rodei polemici, ma senza una reale conoscenza del fenomeno e delle sue conseguenze. Premessa di ogni discussione seria: non è consentito a tutti di parlare di qualsiasi argomento. C’è un limite naturale, che è dato dalla complessità e dalla specialità del tema. Non c’entra nulla la libera espressione delle opinioni. È certamente questo il caso delle intercettazioni telefoniche, tema complesso e delicatissimo perfino per gli addetti ai lavori, sul quale occorrerebbe fare innanzitutto una buona informazione, prima di dar vita a interminabili ed infuocati rodei polemici in tv, sui media e - non ne parliamo - sui social. Proviamo a mettere ordine. Partiamo dalla Costituzione, articolo 15: la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono “inviolabili”. Per limitare quel diritto fondamentale, occorre un atto motivato dell’autorità giudiziaria che sia rispettoso delle “garanzie stabilite dalla legge”. Queste garanzie normative, proprio perché derogatorie rispetto ad un così forte principio costituzionale (“inviolabilità”), non potrebbero mai essere governate dal principio di utilità. Certo che ascoltare persone sospette di commettere reati torna utile agli investigatori; ma poiché questo di per sé ovvio interesse confligge con un diritto di libertà della persona di primario rango costituzionale, quell’interesse (alla sicurezza ed al perseguimento dei reati) dovrà necessariamente essere assistito da una tutela affievolita rispetto al primo. I tifosi della sicurezza come interesse sociale primario occorre se ne facciano una ragione, fino a quando si intenderà rispettare il patto costitutivo della nostra società. Ecco allora che le intercettazioni sono consentite solo per alcuni reati, considerati di maggiore allarme sociale, ma soprattutto solo quando già sussistano “gravi indizi” (non il mero sospetto, o la ipotetica probabilità) che quei reati siano commessi; hanno una durata limitata nel tempo; le proroghe devono essere rigorosamente motivate; possono essere utilizzate solo per i reati e nello stesso procedimento rispetto al quale i giudice le ha autorizzate; sono inutilizzabili se non pertinenti e rilevanti. Se poi le intercettazioni sono “ambientali”, esse non possono essere disposte in luoghi di privata dimora, salvo che non vi sia “fondato motivo” di ritenere che proprio in quei luoghi “si stia svolgendo l’attività criminosa”, ad eccezione di alcuni gravissimi reati (di criminalità mafiosa, principalmente). Quanto poi al c.d. trojan, che trasforma il cellulare stesso in un microfono, così da rendere impossibile predeterminare in quali luoghi esso intercetterà, questa micidiale intrusione, ancora una volta, potrà riguardare solo reati di eccezionale gravità, connotati strutturalmente da una inespugnabile organizzazione omertosa. Queste regole fondamentali sono effettivamente rispettate nella quotidianità giudiziaria? Nossignore, no, e per moltissime ragioni. Scarsa indipendenza e terzietà del giudice delle indagini preliminari, che tende ad assecondare acriticamente la richiesta del pm, soprattutto delle Procure forti politicamente e mediaticamente (a quando i dati sulle percentuali di rigetto delle richieste dei pm? Ad oggi non a caso è un segreto inviolabile); costante deriva verso un indebito uso “a strascico” alla ricerca dei reati, oltre l’ambito autorizzativo del giudice; uso disinvolto della nozione di “rilevanza” della conversazione. A ciò si è aggiunta la furia giustizialista del recente legislatore populista, che ha esteso smisuratamente il catalogo dei reati intercettabili e l’uso del trojan. Dunque, un quadro che necessita interventi forti, rigorosi, mirati, restituendo quello strumento agli stringenti confini della sua eccezionalità. Quali? Ritornare almeno alla normativa pre-governo populista; limitare rigorosamente e senza eccezioni l’utilizzabilità ai soli reati per i quali il giudice ha concesso l’autorizzazione; sanzionare efficacemente la pubblicazione delle intercettazioni, almeno nella fase delle indagini. Si tratta di idee che, diversamente da quanto contrabbandato dai cultori della giustizia securitaria, non appartengono a fiancheggiatori della criminalità ed alla casta dei “colletti bianchi”, ma ad ampi strati del pensiero giuridico liberale e democratico, anche nella magistratura. Se i polemisti di accatto che avvelenano i pozzi di questo cruciale dibattito democratico leggessero, insieme alla migliore dottrina processual-penalistica, qualche sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione anche recente, o perfino qualche recentissimo intervento - per fare un esempio - di magistrati come Nello Rossi o Alberto Cisterna, la discussione potrebbe prendere la piega giusta. Il fatto è che, oltre a leggere quegli scritti - cosa che già non fanno - dovrebbero poi anche comprenderli. E qui l’impresa diventa disperata. *Presidente Ucpi Intercettazioni, il pg Riello: “Nessun abuso, una stretta sui reati di corruzione sarebbe sbagliata” di Manuela Galletta La Stampa, 28 gennaio 2023 Sulla riforma Cartabia: “Questa legge ha seguito una strada apparentemente efficace ma semplice: eliminiamo i fascicoli. Ma eliminare i fascicoli è un’operazione burocratica, fare processi significa dare giustizia”. Diminuisce, seppur in maniera sensibile, il numero di omicidi e tentati omicidi (inclusi quelli legati alla criminalità organizzata), ma si avverte un aumento dei reati che hanno minori protagonisti, siano essi carnefici o vittime. Una deriva che va di pari passo alla “crisi di valori” alimentata (anche) da genitori sempre più assenti e da una scuola troppo remissiva. Nella tradizionale conferenza stampa che anticipa l’inaugurazione dell’anno giudiziario nelle sedi di Corte d’Appello, il procuratore generale di Napoli Luigi Riello scatta la fotografia delle criticità e delle note positive di un anno di attività giudiziaria nel distretto di Napoli, senza dimenticare di toccare i temi di stringente attualità come la riforma Cartabia o il rovente dibattito sulle intercettazioni. Procuratore Riello, partiamo proprio dalle intercettazioni. Il ministro Nordio parla di “abuso”... “A livello di questo distretto non mi risulta che si sia fatto un uso eccessivo di questo strumento di indagine. Se poi parliamo di gogna mediatica, parliamo di altro. La legge ha fatto una distinzione tra segretezza di atti e loro pubblicabilità: se un’intercettazione entra in un’ordinanza di custodia cautelare non è segreta, ma non è pubblicabile. Ma se si imbocca questo terreno, i giornalisti parlano di bavaglio alla stampa. Mettere insieme le esigenze di indagine e la tutela della dignità della persona è molto difficile, ma io credo che siamo in un momento in cui le fughe di notizie, le conversazioni relative a fatti privati e comunque non aventi rilevanza processuale, si sono ridotte quasi a zero”. La possibile stretta sulle intercettazioni di cui si parla da settimane potrebbe riguardare anche i reati di corruzione. Cosa ne pensa? “C’è un legame profondo tra i reati di mafia e di pubblica amministrazione. Pensiamo ad esempio a cosa è accaduto nel 2022 vicino a noi: i comuni di Torre Annunziata e Castellammare di Stabia sono stati sciolti per infiltrazioni camorristiche. Questa è una delle tante dimostrazioni che queste tipologie di reati vanno a braccetto. Scindere questi reati significa approcciare in modo sbagliato al fenomeno criminale, avere una visione schematica della criminalità, che non riflette la fluidità e la complessità della realtà, che non si distingue per compartimenti stagni”. Anche sulla riforma Cartabia ha delle riserve... “La legge Cartabia viene criticata da tutti i procuratori generali di Italia, e anche da buona parte della magistratura. A mio parere questa legge ha seguito una strada apparentemente efficace ma semplice: eliminiamo i fascicoli. Ma eliminare i fascicoli è un’operazione burocratica, fare processi significa dare giustizia. Le vere vittime di questo tipo di politica giudiziaria sono i cittadini onesti, le persone offese, perché parlare di errore nel rendere perseguibile a querela reati anche particolarmente gravi e allarmanti è forse poco”. Procuratore, qualche esempio concreto dell’impatto negativo di questa legge nella lotta alla camorra... “Il reato di sequestro di persona diventa perseguibile solo su querela. Non ci vuole la zingara, a Napoli, per capire che ci saranno sempre intimidazioni alle persone offese per non sporgere querela. E poi dobbiamo valutare quanto pesano queste regole sulle forze dell’ordine: si può arrestare in flagranza di reato, ma poi ci vogliono 48 ore per cercare le parti offese e verificare se vogliono sporgere querela. Non è un’operazione semplice”. Quindi la riforma va nella direzione sbagliata? “La strada imboccata, pur nel tentativo buono nelle intenzioni di volere dare delle risposte sul Pnrr, è stata però una risposta che rischia, se non razionalizzata, di attaccare le difese immunitarie dello stato di diritto”. Procuratore, stringendo l’obiettivo sul distretto di Napoli come è cambiato il fenomeno criminale nel 2022? “Sono diminuiti i reati di sangue, omicidi e tentati omicidi. Ma questo ovviamente non significa che la camorra è stata sconfitta. Semplicemente si spara di meno, ma si fanno più affari. Contestualmente c’è stato un aumento dei reati di furti, rapine, estorsione, nonché un boom dei reati informatici che tra il 2021 e il 2021 ha fatto registrare un +92,17%”. I dati evidenziano anche un particolare allarme per i reati commessi da minori... “Purtroppo sono diventati frequenti gli accoltellanti tra minorenni. Come ha sottolineato anche il procuratore per i minorenni di Napoli, stiamo assistendo a una “guerra di sguardi”. Basta uno sguardo per innescare accoltellamenti e azioni violente” Da cosa dipende questa aggressività nei giovanissimi? “Stiamo assistendo a una vera e propria crisi di valori. Abbiamo genitori assenti da un lato ma anche una scuola che non educa al sacrificio e all’impegno. Oggi il 99,7% degli studenti viene promosso, moltissimi anche con la votazione del 100, ossia il massimo… Siamo pieni di geni, ma qualche dubbio io lo nutro. Oggi abbiamo ragazzi di 13 anni che di notte vanno per strada da soli. E abbiamo ragazzi esposti alle insidie delle Rete e che non hanno tutela” Che intende? “Sappiamo che ci sono videogiochi che istigano a far male agli altri o istigano ad atti di autolesionismo. Questi ragazzi sono lasciati soli di fronte a queste insidie. Occorrono delle regole per controllare la Rete che è ormai fuori controllo”. La crisi di valori riguarda solo i minori? “Assolutamente no… Il fatto che nel centro storico di Napoli si sarebbe messo in vendita il cappotto di montone simile a quello indossato da Matteo Messina Denaro e che qualcuno lo compri è un fatto di una tristezza incredibile. Se fosse uno scherzo, sarebbe di cattivo gusto ma non credo che lo sia. Indica invece un capovolgimento di valori in atto. E l’episodio non è unico”. Ci dica… “Penso ad esempio ai murales che raffiguravano alcuni ragazzi morti e sono stati fatti per celebrare la criminalità. Mi dispiace che questi ragazzi siano morti, ma non sono morti morti cadendo da un’impalcatura o, come accade ad alcuni carabinieri e poliziotti, svolgendo il proprio lavoro, ma facendo rapine. Mostrare la loro effige significa che per quel quartiere quelle persone sono eroi”. Cosa si può fare e si deve fare? “Si deve lavorare per bonificare e diffondere la cultura della legalità. E la società civile, la borghesia devono fare la loro parte” Non lo fanno? “C’è una scarsa reattività della borghesia degli intellettuali, la società civile è silente. Torno a Torre Annunziata e Castellammare: nonostante siano state ampiamente diffuse dai giornali le ragioni dello scioglimento di questi due comuni, c’è stata una scarsa reattività della società civile. Non c’è stata una reazione vera. Sono rimasto scandalizzato nel verde che qualcuno dei politici faceva campagna elettorale per le Politiche, facendosi fotografare, come se nulla fosse”. Da magistrato vi dico che Nordio ha ragione sulle intercettazioni di Piero Tony* Il Foglio, 28 gennaio 2023 Il guardasigilli non scopre l’America ma dice cose assolutamente ovvie: i più grandi errori giudiziari nascono dall’abuso delle intercettazioni. Perché una svolta è giusta e necessaria, contro l’Italia alla Kafka. Dando per scontato che la riforma Nordio sulle intercettazioni fosse ormai cosa ovvia e tutta piana tranquilla ed in discesa, mi sono distratto e sono andato a sciare. Sono pentitissimo perché pare che molti non siano d’accordo sui suoi propositi nonostante la drammatica esperienza degli ultimi circa 70 anni. Nonostante il fatto che, come era prevedibile nella patria del diritto naturale e della Costituzione materiale, le riforme Orlando e Cartabia siano rimaste per ora lettera morta un po’ dappertutto. Roba da non credere. Ero convinto che molti fossero davvero stufi e pensassero che, nelle indagini, fosse ormai passato il tempo dell’utilizzo a tutti i costi di qualsiasi ciarpame, della visione spregiudicatamente sostanzialistica che raccoglie tutto e mai butterebbe via la polpetta caduta nel piatto. Ci si riferisce soprattutto alla parolina intercettata e poi disinvoltamente usata come tessera di un mosaico in ottica verificazionista. Non è così, evidentemente ancora molti vogliono la polpetta e se intercettano qualcuno che dice all’amico “mio nonno 30 anni fa, prima di morire, mi disse di aver dato un kalashnikov 7,62 mm a Sua Santità il Papa” si eccitano, avviano complesse indagini ed auspicano che i media ne parlino, sperabilmente pubblicando il nome degli investigatori. E allora si critica il guardasigilli che, quanto al tema delle intercettazioni, lo voglio dire - e non me ne voglia - con tutto il rispetto per il vecchio e autorevole magistrato che è stato, non scopre l’America ma dice cose assolutamente ovvie. Non ha fatto che leggere il codice ad alta voce, ma ciononostante in piccionaia hanno fatto tanto chiasso. Ma lo ha fatto con molto coraggio. Ammirevole, straordinario coraggio per osare di voler ripristinare una corretta interpretazione della legge in contrasto con l’opinione pressoché generale dei PM. Talmente ovvie che dovrebbero rendere superflua qualsiasi discussione con il senno di oggi, ossia con il senno di chi ha potuto assistere, dalla nascita dell’art. 15 della Costituzione ai nostri giorni, ad una perniciosa deriva della nostra cultura investigativa, sempre più acriticamente e soprattutto esaustivamente incardinata sul mero risultato delle intercettazioni. È grave criticare Nordio, perché dice cose lapalissiane e propone un sacrosanto richiamo a logica e legalità. Basta controllare il codice (artt. 266-271 cpp), che venne introdotto dal legislatore (la lettura dei lavori preparatori potrebbe essere utile) quale trampolino di lancio verso l’acquisizione probatoria, quale transitorio strumento atto a ricercare la prova e che viene ora scorrettamente valutato, invece, come vera e propria prova, come traguardo e successo probatorio grazie ad una ormai sperimentata insipienza interdisciplinare. Allo stesso modo in cui sarebbe scorretto giudicare prova a carico il mero fatto dell’avvenuta perquisizione (altro mezzo di ricerca della prova) e non l’effettivo rinvenimento, in flagrante possesso, del corpo del reato o di cose pertinenti al reato. È grave non essere d’accordo con il ministro perché tutte le intercettazioni, sia preventive sia istruttorie, a parte la diversa ostensibilità secondo il codice dovrebbero avere solo fini investigativi e dunque preludere ad uno sperato conseguimento di prove. È grave perché l’abuso di atti invasivi come le intercettazioni in genere (non a caso se ne occupò l’Assemblea Costituente all’art. 15 e la Convenzione Europea agli artt. 8 e 10) e con l’uso del captatore informatico in particolare (che entra financo nella camera da letto - si suol dire in modo figurato - e che consente addirittura l’intrusiva messa a fuoco della persona nelle propensioni culturali e sessuali e commerciali) può pregiudicare in modo irrimediabile diritti fondamentali della persona, per primi dignità e libertà, soprattutto se supportato mediaticamente, come troppo spesso avviene. Male non fare, paura non avere. Può tranquillizzare il detto di una mia vecchia domestica fino al punto di criticare il progetto di riforma? Va di nuovo segnalato che il ministro Nordio, nel ricordare che ex art. 267 cpp le intercettazioni possono essere disposte solo se “assolutamente indispensabili”, ha precisato a chiare lettere, ripetendolo più volte per i poco vispi, che intenderebbe limitare gli eccessi e gli abusi nelle intercettazioni solo per i reati comuni di scarsa offensività ma che ritiene assolutamente irrinunciabile il loro uso in materia di mafia e terrorismo. Siccome nessun atto più o meno concludente contrasta dette enunciazioni, pare davvero che qualsiasi critica non possa fondarsi che su miserabili pre-giudizi di corridoio. O che comunque sia formulata senza aver considerato attentamente tutti gli aspetti della questione oppure senza aver mai visto importanti atti processuali gonfi, mediante il comodo metodo taglia/incolla, di interminabili verbali di trascrizione che vengono inseriti dal pm nelle sue richieste e poi, a cascata, rimangono per anni negli atti fino a definizione del procedimento, così coinvolgendo l’intera vita di relazione dell’ascoltato, compreso qualsiasi pettegolezzo, naturalmente meglio se pruriginoso. O senza sapere che con il captatore informatico detto trojan, originariamente bagaglio da intelligence in quanto eccezionalmente insidioso e penetrante, i malintenzionati possono anche operare in qualsiasi modo a nome dell’intercettato perché notoriamente possono determinare una pervasiva lesione del domicilio informatico, con conseguenti violazioni a cascata. Sono d’accordo con Nordio perché siamo l’unico paese al mondo in cui, nel corso delle indagini preliminari e dunque prima che un giudice si sia espresso sulla fondatezza dell’ipotesi accusatoria, l’indagato può finire sotto i riflettori mediatici per colpa di una parolina intercettata. E non solo lui indagato ma anche lo sfortunato che nelle intercettazioni appare solo incidentalmente. In tal caso i media prudentemente scrivono “spunta il nome di… o “parrebbe coinvolto anche...” o persino “pare che non si possa escludere che sia implicato anche…”. Ecco una delle ragioni, la diffusa sciatteria giudiziaria, che non consente di esprimere meraviglia per le ingenti riparazioni pagate dallo Stato in relazione all’ingiusta custodia cautelare in carcere di 3 innocenti al giorno, mediamente negli ultimi anni; o per i clamorosi errori giudiziari, riconosciuti anche dopo decenni in sede di revisione; o per le assoluzioni dopo il calvario di 3 gradi di giudizio. Sono stato sempre in cuor mio, anche per quanto riguarda Nordio, molto critico quanto alla discesa in campo politico di un magistrato, ancora più se per fare il ministro come nella specie. Ma come si fa a non essere d’accordo con Nordio quando finalmente qualcuno ci propone un salto di civiltà epocale che ponga fine all’andazzo di questi anni, all’assillo del parlare a telefono con il timore di essere ascoltato o frainteso da un terzo incomodo? Quando finalmente quel qualcuno è apparso sulla scena e con coraggio - ed a prescindere dal contesto congiunturale, in quanto da sempre farina del suo sacco - ha reso manifeste alcune delle sue sensibilità civili, proprio quelle di cui abbiamo estremo bisogno? come ad esempio difendere le persone dai riti barbari di gogne e berline e, soprattutto, dalle curiosità morbose, da quello schadenfreude che ha sempre fatto la fortuna di anfiteatri romani e tricoteuses. Come si fa, quando quel qualcuno pensa che - guarda un po’! - parlare a telefono con l’amico non è come sottoscrivere davanti al notaio e che, dunque, sarebbe bello non dover soppesare le parole? Ma soprattutto come si fa a non essere d’accordo con il Guardasigilli quando, in estrema sintesi, pretende solo di applicare la legge che regola la ricerca della prova mediante intercettazioni e di evitare gli abusi, con ciò restituendo ai cittadini la libertà - fa proprio ridere il doverlo rimarcare - di parlare a telefono senza ansie. Nordio ha coraggio e credo vada sostenuto nella sua battaglia contro le vergognose storture del sistema delle intercettazioni. Ricordo lo sfogo di un vecchio magistrato che anni fa, dopo aver ricordato in udienza la differenza normativa tra prova e sua ricerca, per molte settimane avvertì, con preoccupazione, di essere guardato con sospetto non solo dai colleghi ma anche dagli avvocati. Mi hanno colpito le argomentazioni di alcuni detrattori: sarebbero in realtà inesistenti i tanti strombazzati e pregiudizievoli errori giudiziari causati dall’abuso o dal malgoverno di strumenti di tal fatta. Codeste paiono affermazioni temerarie solo che si rammenti il dramma di Giuseppe Gulotta e quelli di Paolo Melis (assolto per revisione dopo anni 19 di detenzione per errori nelle intercettazioni), Angelo Massaro (muert anziché muers, in dialetto tarantino). O solo che si legga la sentenza di annullamento della Cassazione 13 giugno 1917 sulla custodia cautelare di Alfredo Romeo, che opportunamente passa in rassegna tutti gli abusi esperiti o esperibili in tale materia. Per non ricordare l’intercettazione del compagno della ministra Guidi o quelle delle vicende Palamara e Amara e Open Firenze. Concludo. Trovo Nordio straordinario, non per le cose sacrosante ed in sé ovvie che propone, in pratica, come già ripetutamente accennato, si limita a leggere ad alta voce la normativa che molti ignorantoni non conoscono, ma per il grande coraggio di voler apertamente smantellare quello che, con l’unicità della carriera ed il concorso esterno, pare allo scrivente elemento portante dei bastioni del castello di Kafka. *Ex magistrato, già capo della procura di Prato. “Il trojan? Un fucile che spara da solo”. L’allarme in Senato lanciato dai tecnici di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 gennaio 2023 Alle audizioni per l’indagine sulle intercettazioni aperta in Commissione Giustizia, gli esperti svelano i rischi del virus-spia. Manes: “Va limitato a mafia e terrorismo”. Si sono tenute ieri in Commissione giustizia del Senato delle nuove audizioni nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni. Come già accaduto nelle sedute precedenti, i vari tecnici forensi auditi hanno posto l’attenzione sul captatore informatico, comunemente chiamato trojan, il software dalle potenzialità sconosciute che sta mettendo in allarme tutti i commissari, a iniziare dalla stessa presidente della Commissione, la senatrice leghista Giulia Bongiorno, che ha fortemente voluto l’indagine conoscitiva. Il trojan, si è scoperto ieri, è in grado di inviare, all’insaputa del possessore del cellulare nel quale è stato installato, non solo messaggi o mail, ma addirittura “vocali”, ricreandone la voce, con conseguenze facilmente immaginabili sul fronte delle prove realizzate “a tavolino”. E questo anche perché non esiste la possibilità di tracciare le attività svolte da parte degli inquirenti che lo programmano. Sul punto è stato particolarmente esplicito l’ingegnere Lelio Della Pietra che ha portato come esempio un caso di utilizzo del trojan ormai noto al grande pubblico, quello nell’indagine nei confronti di Luca Palamara. La società Rcs di Milano, che aveva fornito alla Procura di Perugia e al Gico della Guardia di finanza il software, ha depositato agli atti del procedimento, a luglio del 2019, i log di programmazione del trojan inoculato nel telefono di Palamara in ordine alfabetico piuttosto che nella loro naturale consequenzialità cronologica. I file di log possono avere soltanto un ordinamento cronologico quindi su quel documento è intervenuta “la mano dell’uomo” che lo ha alterato. Nelle giornate clou dell’indagine, Rcs ha apposto degli “zeri” solo innanzi ad alcune date del log della programmazione in modo da “interferire” sull’ordine dei comandi impartiti al captatore. Inoltre vi sono numerose registrazioni “orfane”, vale a dire senza una programmazione che risulti dal documento fornito da Rcs. Della Pietra è ricorso a un esempio molto esaustivo parlando di un “fucile che spara da solo”. Ciò dimostrerebbe che il documento di Rcs è stato alterato dalla “mano dell’uomo” poiché è stato cancellato il comando che ha generato quella registrazione. Come se non bastasse, sono scomparsi ben quattro file audio. Vi è prova documentale che questi quattro file sono stati regolarmente trasmessi da un server con funzioni di transito a uno “a valle”, ragion per cui il primo non ha manifestato, al riguardo, alcun errore di funzionamento. La soppressione di questi quattro file audio dimostrerebbe che Rcs ha “scelto” quali atti di indagini depositare nel procedimento penale e quali atti invece non depositare. Il documento fornito da Rcs, in altre parole, non rispecchia le modalità di utilizzo dal trojan ma risulta predisposto a posteriori, essendo le operazioni cessate il precedente mese di maggio, con evidenti alterazioni e manomissioni che non sono in grado di documentare e spiegare le operazioni effettuate, né la soppressione agli atti di ben quattro registrazioni. Dopo Della Pietra ha preso la parola Luigi Cattaneo, presidente dell’associazione “Law Interception”, che vede tra i propri associati quasi tutte le società che eseguono intercettazioni per conto dell’autorità giudiziaria quali Sio, Area e la stessa Rcs. Quest’ultima società è stata oggetto di un formale provvedimento di esonero adottato dall’allora procuratore di Napoli Giovanni Melillo poiché all’interno della Procura partenopea aveva installato ad aprile del 2019 un server che raccoglieva le intercettazioni effettuate da tutte le Procure d’Italia senza che però nessuna fosse stata avvisata. Tale “irrituale” dislocazione del server è stata scoperta dai consulenti tecnici degli indagati essendo stata fino all’ultimo negata dall’ingegnere Duilio Bianchi di Rcs anche in sede di testimonianza al Csm. Cattaneo, a proposito dunque del funzionamento del trojan, ha riferito circostanze del tutto contrarie e opposte rispetto a quelle riferite da Della Pietra. A precisa domanda della senatrice della Lega Erika Stefani se i file estratti dal telefono intercettato potessero essere “manipolati”, Cattaneo ha risposto “assolutamente no. I file estratti vanno direttamente al server della Procura. Non possono essere manipolati”. Una affermazione che suscita perplessità alla luce delle dichiarazioni di Della Pietra relativamente al fatto che sui server installati nelle Procure le società fornitrici degli apparati operano da remoto con i privilegi di amministratore e quindi possono compiere qualunque “manipolazione”. “Urge intervenire quanto prima sul trojan”, ha affermato al termine il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin. “Per la sua eccezionale invasività va limitato ai soli reati di mafia e terrorismo”, sono state le parole invece di Vittorio Manes, professore di diritto all’Università di Bologna. “23 anni ai domiciliari”: è il codice penale riscritto dalla stampa di Camera Penale di Livorno Il Dubbio, 28 gennaio 2023 “Scarcerato l’omicida. Uccise un 94enne durante una rapina. Ha trascorso 17 mesi in cella: sconterà gli ultimi 23 anni ai domiciliari”. Non è una boutade: è il titolo di prima pagina de Il Tirreno del 25 gennaio. Saremmo curiosi di leggere il provvedimento che ha dichiarato che i 23 anni comminati con condanna non definitiva saranno tutti scontati ai domiciliari. Ci piacerebbe perché una volta tanto potremmo buttare nel macero quei fastidiosi codici di procedura penale e occuparci di altro. Ma stanno lì, anno dopo anno, a riempire le nostre librerie, a ricordarci di onorare sempre l’imperativo socratico del “sapere di non sapere”: hai voglia ad affannarti, salterà fuori sempre quella piccola postilla inserita da un decreto legge emergenziale, oppure si aprirà qualche varco all’interpretazione creativa della giurisprudenza. Insomma non dormiamo mai sogni riposanti, noi difensori. Quando abbiamo letto quel titolo ci siamo chiesti se nottetempo avevano messo mano proprio ai principi basilari. Ma il dubbio è durato poco. E in fondo, di fronte ad un titolo del genere: “omicida scarcerato passerà i prossimi 23 anni ai domiciliari”, non occorre affannarsi un granché. Ci viene in soccorso subito una certezza. Non c’è neppure bisogno di aprirlo il codice per comprendere che non è possibile. Che il titolo del Tirreno è sbagliato e che, come al solito, l’informazione veicolata è palesemente, gravemente errata. L’omicida - come lo chiama il Tirreno - è un uomo condannato a 23 anni in primo grado (non sappiamo ancora bene quali sono le ragioni di questa pena: le motivazioni della sentenza neppure risultano depositate) e quindi non sta scontando la pena, che non è definitiva. È in carcere - ancora per poco, a quanto pare - in esecuzione di un’ordinanza cautelare. Riavvolgiamo il nastro ai principi generali. Le misure cautelari sono comminate a chi risulta raggiunto da gravi indizi di reato (e qui certamente ci sono essendoci una prima sentenza di condanna, ancorché non definitiva). Ma non basta: c’è bisogno di un ulteriore accertamento che serve proprio a stabilire in che modo la libertà possa concretizzare un particolare pericolo (anzi tre, quelli tipizzati dalla norma) che si vuole evitare. La libertà personale può essere limitata, prima di una sentenza di condanna definitiva, solo se ci sono esigenze cautelari, appunto, di protezione di alcuni beni. Per chiarire: se il giudice ritiene che un imputato, lasciato libero, possa commettere un altro reato, inquinare le prove, darsi alla fuga, può limitare la sua libertà persona. Se così non fosse, il sistema soffrirebbe un’insanabile contraddizione: da una parte - articolo 27 della Costituzione - impone che l’imputato non sia considerato colpevole sino alla condanna definitiva e, dall’altro, consente di mettere in carcere un imputato non ancora considerato colpevole in via definitiva. Come stanno insieme queste due situazioni apparentemente non contrasto? Proprio in virtù delle esigenze cautelari che consentono di intervenire prima di una condanna in molti modi. Con il carcere - extrema ratio-, con gli arresti domiciliari, con l’allontanamento dalla casa familiare, con il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, con l’obbligo o divieto di dimora in un determinato Comune, con l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (il c.d obbligo di firma). C’è anche un’altra condizione imprescindibile: si usa, per definirla, una parola chiara, la proporzionalità. In sostanza il giudice deve rispondere a questa semplice domanda: per garantire il processo e la collettività da quei tre rischi, quale misura devo applicare? Quella più proporzionata per evitarlo. La domanda, dietro l’angolo, ce l’aspettiamo: come è possibile però che un omicida, reo confesso, condannato a 23 anni non stia in carcere? Semplice: perché quella condanna non è ancora definitiva e non può essere eseguita. Ma state pure sereni: non è tecnicamente possibile che esegua la condanna, se sarà confermata nei gradi successivi a 23 anni, agli arresti domiciliari che sono e restano una misura provvisoria e cautelare che durerà fintanto che il processo non sarà concluso. In quel caso, l’imputato condannato ad una pena così elevata, se confermata in tutti i gradi di giudizio, tornerà in carcere. Ma per tenere dentro un imputato non ancora condannato in via definitiva, il giudice deve verificare se ci sono ancora esigenze cautelari e, se ci sono ancora, deve individuare - lo deve fare necessariamente per legge - quale misura risulti adeguata a fronteggiare quei rischi. Supponiamo che sia stato valutato un probabile rischio di recidiva (anche se il tipo di delitto commesso, legato alla droga, come pare leggersi dall’articolo, sembrerebbe irriproducibile ora che si è disintossicato): come è possibile che commetta un altro delitto chi è ristretto gli arresti domiciliari con un braccialetto elettronico che monitora i suoi movimenti persino in bagno? Quest’uomo, sia chiaro, non torna libero. Dovrà stare in casa con un dispositivo elettronico che darà un impulso in caso di fuga. Perché l’arresto domiciliare con braccialetto elettronico, è stato considerato adeguato, legittimamente, a fronteggiare il rischio - non sappiamo quale dei tre visto che l’articolo non si preoccupa di darci questa notizia - rilevato dai giudici. Vi diciamo di più: quest’uomo poteva anche tornare libero, se non fossero stati ravvisati dei rischi. Perché non basta essere gravato da indizi di reato, anche se robusti, per essere ristretti nella libertà personale prima di una condanna. La misura cautelare, piaccia o non piaccia (e sappiamo che non piace finché non vengono toccati interessi personali, finché il lettore ben pensante leone da tastiera, o suo figlio o figlia, suo padre, suo marito, sua moglie, sua madre non hanno problemi con la giustizia, allora sì che diventerà garantista e sarà felice di avere un difensore che si batte per i suoi diritti) non è una sentenza di condanna. Non le somiglia per niente: non le deve somigliare finché avremo questa Costituzione, che traballa, vacilla, ma vivaddio, resta ancora in piedi, a far da argine a notizie scandalistiche e all’indignazione di chi, anche in questo caso, ha propiziato i social con la solita litanìa delle minacce e con la consueta idolatria della legge del taglione. “Andresti beccato ogni volta che esci di casa, bastardo”; “deve marcire in carcere”; “non vale nulla, legge del taglione” (cioè per intendersi: pena di morte), “come fanno a dormire i giudici?”; “Poi se uno si fa giustizia da sé”. Sono solo alcuni dei commenti pubblicati a margine dell’articolo. Vi diamo l’ultima notizia: dente per dente, occhio per occhio (se il dente e l’occhio sono reati) sono a loro volta nuovi reati, buoni solo a innalzare il livello di violenza e la spirale di reazioni anch’esse criminali a cui faranno seguito altre reazioni criminali e così via, senza soluzione di continuità. Un articolo di stampa deve spiegare come funziona un sistema, non strizzare l’occhio all’allarmismo mistificando la realtà. Non che questo, al giorno d’oggi, basterebbe a placare animi incrostati d’odio, ma almeno restituirebbe dignità ad un servizio pubblico essenziale. Una processione di magistrati per interrogare Messina Denaro di Giuseppe Sottile Il Foglio, 28 gennaio 2023 La verità non è mai a portata di mano: per acciuffarla, servono tempi lunghissimi. Nel frattempo si scaldano le altre magistrature: se non sarà possibile scrivere il grande libro della verità si potrà sempre scriverne uno sul patto sporco che ha portato all’arresto del boss. Partiamo da una domanda semplice semplice: ma noi sapremo mai la verità? Riusciremo mai a scoprire che cosa ha combinato lo stragista Matteo Messina Denaro in trent’anni di latitanza? Riusciremo a scrivere la parola fine nella disputa da bar nella quale si esercita in queste ore il fior fiore dell’antimafia? Li avete già visti: da un lato ci sono quelli che credono nell’eroismo del Ros, e rendono doverosamente onore ai carabinieri che hanno buttato sangue e sudore pur di arrestare il boss che, con i sanguinari corleonesi di Totò Riina, seminò tra il ‘92 e il ‘93 morte a terrore a Capaci e in via d’Amelio, massacrò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e non esitò a sciogliere un bambino nell’acido. Dall’altro lato ci sono invece quelli che non credono all’indagine da manuale - senza soffiate e senza pentiti - e vanno in televisione a sostenere che il clamoroso blitz del 16 gennaio alla clinica “Maddalena” di Palermo altro non era che la cinica sceneggiatura di una fiction, la trama insopportabile di una nuova trattativa, il capitolo finale del patto scellerato che da tempo immemorabile lega gli uomini mascherati dello stato al limaccioso mondo delle mafie. “Si è consegnato”, dicono. E così dicendo gridano allo scandalo, alla mistificazione, all’imbroglio. Fra poco - diciamolo per paradosso, ma diciamolo - chiederanno ai Ros di pentirsi, di discolparsi, di vestire il saio della gogna, di sfilare come magliari e millantatori negli studi televisivi di Giletti e di genuflettersi davanti Salvatore Baiardo, il sensale dei fratelli Graviano già pronto per altre interviste e altre profezie e già in corsa, perché no, anche per una comparsata al festival di Sanremo. No. La verità, nelle cose di mafia, non è mai a portata di mano. Per acciuffarla, come per i latitanti, servono tempi lunghi, lunghissimi. Biblici. Pensate che, dopo trent’anni, procure, tribunali e corti d’appello sono ancora lì che cercano di fare luce sul mistero delle stragi; che indagano sulle trame oscure e sulle complicità eccellenti; che non si accontentano degli ergastoli già inflitti a mandanti ed esecutori. Vogliono a tutti i costi aprire i tabernacoli del terzo livello e neutralizzare, in un colpo solo, padrini e papaveri della politica seduti al tavolo ovale. Nessun ostacolo li farà retrocedere. E se, in questa lotta eroica e sbalorditiva, qualcuno gli ricorderà che Giovanni Falcone, il giudice che per primo portò dietro le sbarre la cupola di Cosa nostra, non credeva al terzo livello né al tavolo ovale, loro risponderanno che tra le dichiarazioni dell’ultimo pentito ci sono sufficienti spunti investigativi per superare quelle convinzioni; e chi se ne frega di Falcone. Durano trent’anni le latitanze e durano trent’anni anche i processi per mafia. Una eternità. Nel giorno successivo alla cattura, Matteo Messina Denaro era atteso nell’aula della Corte d’Assise di Caltanissetta dove, manco a dirlo, si stava celebrando l’ennesimo processo sulle stragi di Capaci e via D’Amelio e dove l’imputato era proprio lui, il terribile boss di Castelvetrano. Giudici togati e giudici popolari erano già in gran fermento. Giornalisti e operatori della tv facevano a gomitate per assicurarsi l’inquadratura più ravvicinata. Il collegamento con il carcere di massima sicurezza dell’Aquila era stato collaudato nelle prime ore del mattino e il grande schermo campeggiava già alla destra del presidente della Corte, Maria Carmela Giannazzo. Dentro il grande schermo però c’era solo una sedia vuota, guardata a vista dall’agente penitenziario che avrebbe dovuto sorvegliare il detenuto mentre il procuratore generale Antonino Patti gli avrebbe rivolto le domande più affilate, quelle studiate da chissà quanto tempo per scavare nella memoria del boss e scrivere così la prima pagina del libro più ambizioso e aleatorio: il libro della verità. Ma il boss, che è ammalato di tumore, non si è presentato: “ragioni di salute”. E il rappresentante dell’accusa ha chiesto il rinvio dell’udienza al 9 marzo. Chi vivrà vedrà. Quella sedia - dicono i mafiologi - resterà vuota ancora a lungo. Anche perché, tra non poco, al carcere dell’Aquila, dove Matteo Messina Denaro è ristretto al 41 bis, si snoderà la lunga processione degli inquirenti e degli inquisitori che, da trent’anni e passa, vogliono scrivere - o riscrivere - una pagina di verità. Il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia, e l’aggiunto Paolo Guido lo hanno già sentito subito dopo la cattura: avevano coordinato loro l’operazione dei Ros ed è toccato a loro stendere il prima verbale. Ma siamo ancora alle informazioni sommarie, tutto il resto è da venire. Intanto però si scaldano le altre magistrature. Volete che Luca Tescaroli, della direzione distrettuale antimafia di Firenze, non si faccia sentire? Nelle segrete stanze della procura fiorentina ci sono fascicoli ancora caldi e ancora aperti: c’è l’inchiesta sulla strage dei Georgofili, il capitolo più nero dell’assalto mafioso alle città del nord Italia; nero e straziante: non è facile dimenticare la commovente poesia - un presagio in quel titolo: “Tramonto” - scritta da Nadia Nencioni, la ragazzina di nove anni uccisa il 27 maggio del 1993 assieme al padre, alla madre e la sorella nella devastante esplosione. E c’è soprattutto l’inchiesta che tira in ballo - come registi occulti dei Georgofili e delle altre stragi - due teste coronate della politica: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ex presidente del Consiglio e l’ex senatore di Forza Italia sono stati già indagati e archiviati, per le stesse accuse, in tre altri procedimenti avviati, con il conforto dei pentiti, dalla procura di Caltanissetta. Ma non si sa mai. Tescaroli, che è un magistrato coraggioso e di grande esperienza, saprà come inchiodare Matteo Messina Denaro ai propri rimorsi e alle proprie responsabilità. E chissà che le sue domande non portino il boss verso i lidi rassicuranti della collaborazione giudiziaria. Se parlerà, ci saremo tolti un peso: avremo finalmente la prova che per trent’anni l’Italia è stato il paese degli inganni, delle verità nascoste, del doppio gioco, delle nefandezze, delle indicibili collusioni tra potere politico e potere criminale. Se non parlerà si cercheranno altre prove, altre testimonianze, altri documenti. Si impiegheranno, se necessario, altri trent’anni ma la verità, come i latitanti, non la farà franca: prima o poi un magistrato coraggioso la afferrerà per i capelli. Dopo Tescaroli, probabilmente andrà all’Aquila, per cercare un indizio o una rivelazione, pure Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e punta di diamante del processo sulla ‘ndrangheta stragista. Lui ha avuto tra le mani i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss di Brancaccio, già condannati all’ergastolo per tutte le stragi. Il più anziano dei due, Giuseppe, ha inviato alla Corte d’Assise del capoluogo calabro un lungo memoriale con il quale si è sciacquata la bocca nei confronti di Berlusconi: ha scritto che suo nonno aveva portato a Milano carrettate di piccioli, almeno venti miliardi di lire, quando il Cavaliere cercava ancora capitali per costruire il proprio impero. Ma poi Berlusconi, anziché mostrare una doverosa gratitudine verso tutta la famiglia palermitana, ha misteriosamente agevolato la sua cattura. Giuseppe Graviano ha lasciato cadere la cosa con nonchalance, senza spingersi oltre. Ma la toccatina di polso, come dicono i picciotti di mafia, non è sfuggita a chi da anni dà la caccia al kaimano. Volete che il procuratore Lombardo non vada da Messina Denaro per decifrare i messaggi sparsi nelle cinquanta pagine inviate dal boss ai giudici di Reggio Calabria? Al tempo delle stragi i Graviano rappresentavano, come Matteo Messina Denaro, detto “u siccu”, l’ala più giovane, più istruita e più spregiudicata di Cosa nostra. Si spostavano da Palermo a Roma e da Roma a Milano. Traccheggiavano con la politica e con la finanza. Se Messina Denaro parlerà conosceremo i segreti nascosti nei sotterranei del potere. Se non parlerà, diremo - per altri dieci anni o altri sette o sette volte sette - che il boss di Castelvetrano ha voluto coprire, con il suo ostinato silenzio, gli stessi uomini delle istituzioni che per trent’anni hanno coperto e protetto, con un gioco losco, la sua latitanza. Sì, sarà una processione. Se non bastassero le procure di Palermo, Firenze e Reggio Calabria, si muoverà la procura nazionale di Giovanni Melillo dove fra poco rientrerà, con gli onori di ex membro del Csm, Nino Di Matteo, il più coraggioso tra i magistrati coraggiosi. Prima di approdare al Consiglio superiore della magistratura, è stato l’eroe della Trattativa. Per cinque anni ha battagliato nel bunker dell’Ucciardone per dimostrare, davanti alla Corte d’Assise, le accuse contenute nella mastodontica istruttoria condotta, fino al rinvio a giudizio, da Antonio Ingroia e incardinata sulle rivelazioni del pataccaro Massimo Ciancimino, figlio di quel don Vito che fu sindaco di Palermo e, all’un tempo, affiliato alla cosca corleonese di Totò Riina. Era, quel processo, la summa teologica di tutti i complotti e di tutte le dietrologie. Una “boiata pazzesca”, l’ha definita Giovanni Fiandaca, ordinario di diritto penale all’università di Palermo. Ma Nino Di Matteo ci ha creduto fino in fondo: non ha disertato un solo dibattito televisivo, ha girato in lungo e in largo l’Italia, ha scritto libri, ha ricevuto più di cento cittadinanze onorarie ed è stato lì per lì per diventare, su indicazione di Beppe Grillo, ministro della Giustizia. I giudici di primo grado gli hanno dato comunque ragione ma la Cassazione, con la sentenza di assoluzione per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ha smontato il teorema. Ora la stessa Cassazione dovrà dire la parola definitiva sull’assoluzione in appello degli altri imputati - Mario Mori, Giuseppe Di Donno, Antonio Subranni: tutti alti ufficiali del Ros - che, a differenza di Mannino, non hanno scelto il rito abbreviato e hanno affrontato, assieme ad alcuni malacarne del calibro di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, il dibattito d’aula. Di Matteo però non è un pubblico ministero votato alla rassegnazione. E Matteo Messina Denaro potrebbe essere, per tutta la filiera di magistrati che hanno creduto nella Trattativa, l’uomo del miracolo. Della rivincita, si stava per dire. Per togliersi dall’impaccio di lunghi e faticosi interrogatori basterebbe che il boss, ora detenuto a l’Aquila, dicesse in quale covo ha nascosto i documenti che - secondo le rivelazioni dei più autorevoli pentiti della stagione maledetta - si trovavano fino all’alba del 15 gennaio 1993 nella villa di Totò Riina, al centro del quartiere Uditore di Palermo. E che furono trafugati, subito dopo l’arresto del Capo dei Capi, dai picciotti della cosca, agevolati dal fatto che il colonnello Mario Mori e il capitano Ultimo, autori del blitz, avevano rimandato di qualche giorno la perquisizione delle stanze e della cassaforte. Quelle carte, così scottanti e così compromettenti, sono state consegnate - sempre secondo i pentiti - al giovane Messina Denaro che, nei giorni del trambusto e dello smarrimento, veniva considerato il più probabile successore di Riina. Se quelle carpette saltassero fuori sarebbe un momento di gloria per l’antimafia dei retroscena. Si alzerebbero, con un solo scatto, tutti i sipari. Si allontanerebbero le ombre, si diraderebbe tutta la nebbia. I giornalisti e i dietrologi che da anni fanno da corona a Nino Di Matteo già pregustano l’anteprima che inevitabilmente spetterà a loro, solo a loro; ma, pur con tutta la fantasia di cui sono portatori i romanzieri di mafia, è difficile ipotizzare quali accordi malsani potranno rivelare i documenti consegnati dagli uomini di Riina a Matteo “u siccu”. Sempre che esistano. Verrà fuori un accordo sottoscritto, con tanto di firme in calce, tra il boss e alcuni uomini politici? Un’intesa ferrigna e irreversibile tra il boss e alcuni imprenditori? Un patto di sangue tra il boss e Marcello Dell’Utri o tra il boss e Silvio Berlusconi? Ci sarà il pizzino di un capo della polizia o di un generale dei carabinieri consegnato brevi manu al boss o un papello trasmesso, sempre brevi manu, dal boss a vertici istituzionali dello stato? Si troverà finalmente la prova scritta e lampante di una mano d’aiuto data ai mammasantissima di Cosa nostra da un agente dei servizi segreti, ovviamente deviati, o di altri funzionari dello stato, ovviamente inquinati? Quelli che già immaginano un faccia a faccia tra Matteo Messina Denaro e Nino Di Matteo, ammettono candidamente che non sarà un pranzo di gala. Ma l’antimafia che gioca in grande sa che nessuna battaglia è mai persa. Se non sarà possibile scrivere il grande libro della verità si potrà sempre scrivere un libro sul patto sporco che ha portato all’arresto del boss di Castelvetrano. O un libro sulla nuova Trattativa. E poi andare in giro per l’Italia e predicare, con lo zelo dei catecumeni o dei chierici vaganti, che la mafia è invincibile e che i Ros, spaccandosi le ossa per catturare i latitanti, hanno solo perso tempo. La testa del serpente chissà dove sarà. Ne parleremo per altri trent’anni. Uno Bianca, nessun beneficio per i fratelli Savi: per i giudici non hanno completato la riabilitazione di Gianluca Rotondi Corriere della Sera, 28 gennaio 2023 Per il tribunale di sorveglianza Fabio e Roberto Savi non hanno mai spiegato le vere motivazioni alla base delle loro azioni sanguinarie. Nessun beneficio per Fabio e Roberto Savi, i fratelli assassini della Uno Bianca. Sia il lungo che il corto della banda si sono visti respingere dai giudici le richieste, rispettivamente, di lavoro esterno e di liberazione condizionale, cioè la possibilità di scontare il resto della pena fuori dal carcere in libertà vigilata. In entrambi i casi i giudici non hanno ritenuto completato il percorso di reinserimento e riconciliazione con le vittime. Nei tanti anni passati in carcere - 28 dal giorno dell’arresto che mise fine all’epopea criminale della banda - Fabio Savi ha maturato una riflessione condivisa del suo vissuto e riconosciuto come gravissimi i reati commessi, mostrando una “accettabile consapevolezza critica delle proprie responsabilità”. Diversamente dal passato, il lungo della banda, l’unico a non vestire la divisa nella holding criminale che dal 1987 al 1994 si è lasciata dietro 23 morti e un centinaio di feriti, ha provato a rompere la spirale che lo portava a percepire se stesso come una vittima di un sistema vessatorio. I giudici: “Fabio Savi non si è riconciliato con le vittime” - Ma il percorso di revisione critica nei confronti delle sue vittime e delle ragioni che lo hanno spinto a vestire i panni del killer sanguinario, liquidate con un semplice e irrefrenabile bisogno di denaro, è in corso ma non ancora completato. Per questo motivo il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha respinto il reclamo presentato da Savi contro il diniego al lavoro esterno al carcere disposto a ottobre, pur essendo maturati i presupposti di legge. Contro la concessione del beneficio si era espressa anche la Procura generale. Secondo il collegio presieduto dalla giudice Giovanna Di Rosa, a latere Simone Luerti, pur mostrandosi aperto a un percorso di mediazione, Savi non ha fornito segni tangibili di riconciliazione con le vittime. Il motivo lo ha spiegato lui stesso agli operatori del carcere che hanno stilato le relazioni di osservazione: “Ogni gesto verso le parti offese provocherebbe un effetto contrario a ogni riparazione e apparirebbe strumentale a ottenere benefici. Non mi perdoneranno mai, non posso inviare loro lettere di scuse”. “Mai spiegati i motivi delle azioni criminali” - Per i giudici, che pure danno atto dei “progressi nel lungo periodo della detenzione dal punto di vista trattamentale, è “necessario testare realmente la bontà del percorso compiuto anche per escludere la pericolosità sociale del condannato”. Per i magistrati di sorveglianza Fabio Savi non ha mai spiegato davvero i motivi delle sue azioni criminali e ciò rappresenta un passaggio decisivo per valutare la “genuinità delle sue intenzioni” anche per scongiurare la possibilità di utilizzare la giustizia riparativa a fini utilitaristici. Da qui l’impossibilità di escludere per ora profili di pericolosità sociale. Il lungo è recluso nel carcere di Bollate, lo stesso che ospita il fratello e complice Roberto, dove sta scontando l’ergastolo e lavora per una cooperativa. Dietro le sbarre ha frequentato anche un corso di informatica. A ottobre la cooperativa che si occupa di mediazione dei conflitti ha indicato in una relazione la possibilità per Savi di accedere “a un livello riflessivo legato alle vittime” e l’individuazione di “una persona potenzialmente idonea al percorso di mediazione”, dunque un parente delle vittime della Banda, alla quale Savi ha prestato il suo consenso. I familiari delle vittime: “Sono ancora pericolosi” - Roberto Savi, infine, si è visto rigettare alla fine del 2022, dopo il parere negativo dell’istituto penitenziario, la richiesta di libertà condizionale. “Sono violenti e ancora pericolosi, non meritano benefici. Devono patire un pò del dolore che hanno provocato - dice la presidente dell’associazione delle vittime Rosanna Zecchi. Vorrei perdonarli ma non ci riesco. Tutti i giorni mi confronto con chi ha perso figli o genitori per mano loro. Non si può dimenticare. Parenti pronti a fare un percorso di mediazione? Non mi risulta”. Per Ludovico Mitilini, fratello di Mauro, uno dei carabinieri trucidati al Pilastro “quella della Uno Bianca è una vicenda ancora aperta per parlare di sconti e permessi”. Germana Stefanini. Il sacrificio della “secondina” uccisa come Aldo Moro di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 gennaio 2023 Il 28 febbraio 1983 fu assassinata a Roma, unica donna vittima dei gruppi armati “rossi”. Il cadavere fu riconsegnato nel bagagliaio di un’auto come cinque anni prima quello dello statista. Il cadavere fu riconsegnato nel bagagliaio di un’auto, come cinque anni prima quello di Aldo Moro. Ma stavolta la vittima era molto meno famosa, e persino inattesa: una signora di 57 anni che i giornali dell’epoca definirono “anziana”, vigilatrice del carcere femminile di Rebibbia addetta al controllo dei pacchi per i detenuti, nubile, di origini umili e popolari. Una secondina, si diceva allora. Assassinata a Roma il 28 gennaio 1983. Si chiamava Germana Stefanini, ed è l’unica donna uccisa perché bersaglio designato del terrorismo rosso in Italia; l’altra vittima, Iolanda Rozzi, morì nel 1980 dopo un attentato incendiario alla casa dove viveva con la sorella militante democristiana, obiettivo della banda che appiccò il fuoco. Ma nonostante questo triste primato, Germana Stefanini ha faticato e fatica ancora oggi ad uscire dall’anonimato. È rimasta una tra tante, mai o quasi mai ricordata anche a quarant’anni esatti da quell’efferato delitto, commesso nella fase ormai discendente della lotta armata in Italia, quando non c’era più nemmeno il flebile collegamento con le pulsioni rivoluzionarie degli anni precedenti. E le azioni dei sedicenti guerriglieri incutevano solo terrore. La rivendicazione - A rivendicare l’omicidio fu un piccolo gruppo vicino alle Brigate rosse-Partito guerriglia, battezzatosi Nucleo per il Potere proletario armato, formato da poche e giovanissime leve; autori di “una spietata esecuzione - scrisse il giudice istruttore nell’ordinanza di rinvio a giudizio - che soltanto paranoici e schizofrenici potevano compiere nell’attento, silente, rabbioso sgomento dei sani di mente, e in particolare dei veri “proletari” che nelle SS non si sono mai identificati”. Parole che trasudano sdegno per un’azione difficilmente comprensibile per chi aveva vagheggiato (o ancora vagheggiava) prospettive insurrezionali, mentre le Br e i gruppi affini decimati da arresti e “pentimenti” tentavano di resistere al ritmo di un attentato all’anno, destinati all’estinzione nel giro di un lustro. Prima di ucciderla, i terroristi che l’avevano sequestrata in casa sua sottoposero Germana Stefanini a un “processo proletario”. La fotografarono davanti a uno striscione pieno di slogan, (“Accerchiare, smantellare e distruggere il carcere”, “Annientare il personale politico-militare che lo attiva”, eccetera), infagottata nel cappotto, le mani giunte in grembo, il capo reclinato e l’aria rassegnata. La registrazione dell’interrogatorio emerse dal covo dei suoi assassini, insieme ai bossoli degli spari con cui fu eseguita la sentenza di morte. Che due mesi prima avrebbe dovuto colpire anche una dottoressa del carcere, rimasta miracolosamente in vita con un proiettile in testa. “Errori di questo tipo non si ripeteranno più”, avvisarono i “proletari armati” nel documento di rivendicazione. E con Germana Stefanini mantennero la minaccia. Il volantino fatto ritrovare dopo il delitto la bollò come “aguzzina” impegnata a “manomettere, sezionare e distruggere” i pacchi destinati ai reclusi di Rebibbia, mentre svolgeva semplicemente il proprio lavoro di vigilatrice. La registrazione - La trascrizione dell’interrogatorio doveva essere un atto d’accusa nei suoi confronti, ma ha solo svelato la crudeltà dei suoi assassini. “Hai la licenzia media?”. “No”. “Che c’hai?”. “La quinta elementare”. “Perché hai scelto questo mestiere?”. “Perché non sapevo come poter vivere… Mio padre è morto nel ‘74 e nel ‘75 sono entrata a Rebibbia”. “Che funzione hai?”. “Io faccio i pacchi… (…) È poco che sto ai pacchi?”. “Ah è poco? Sono sei anni”. “Prima lavoravo all’orto. Reparto orto di Rebibbia”. “Controllavi il lavoro delle detenute?”. “No, lavoravo pure io. Se parli con le politiche (detenute per fatti di lotta armata, ndr) nessuna mi dice male, a me tutte mi portano così. Io le ho sempre trattate bene. Loro c’hanno l’idea loro e io la rispetto”. “Spiegaci come sei entrata a Rebibbia”. “Ho una cugina suora e lei me l’ha detto, perché lì non dovevo fare grosse fatiche e non dovevo tenere le mani a bagno. Io risposi “proviamo”“. (…) “Ma è il primo lavoro che facevi, questo?”. “Sì, perché avevo papà invalido di guerra”. “Tuo marito che stava…”. “Non sono sposata. Se avessi avuto marito mi contentavo di quello che portava lui…”. A un tratto nella registrazione si sente il pianto di Germana e uno dei sequestratori che dice “Nun piagne, tanto non ce frega un cazzo!”, ma la donna insiste: “Ve l’ho detta la mia vita, perché ve la dovete prendere con me?”. La stessa voce risponde: “Te l’ho detto, nun piagne, nun me commuovi proprio”. La risposta del nipote - Tutto questo avvenne nell’appartamento della vittima, dove i terroristi l’avevano aspettata e bloccata al suo arrivo. Nello stesso palazzo, un piano più su, abitava un’altra guardia carceraria in servizio a Rebibbia, Mirella; i “proletari armati” provarono a rapire anche lei facendola chiamare da Germana dalla finestra, ma la donna rispose che non poteva perché aveva il bambino malato. Con lei c’erano pure Marisa e Massimo, la nipote di Germana e il suo futuro marito; lui si affacciò e chiese se voleva che scendesse Marisa, ma Germana rispose brusca: “No, non mi servite a niente”. Massimo si stupì per il tono sbrigativo, senza immaginare in che situazione si trovasse la quasi-zia acquisita. Né si accorse di quello che avvenne dopo: i sequestratori che portano via l’ostaggio per ucciderlo e restituirne il cadavere nel vano di una Fiat 131 rubata Oggi, dopo quarant’anni, Massimo ha ancora in testa quei momenti e la fine assurda di “zia Germana”: “Non aveva paura, nemmeno dopo l’attentato alla dottoressa, che appunto era una dottoressa, non un’operaia. Per noi era un’azione impensabile, e invece quei terroristi l’hanno pensata e portata a termine. Da vigliacchi. Hanno preso una donna del popolo, come Anna Magnani in Roma città aperta” Massimo ricorda il funerale al quale volle partecipare il presidente della Repubblica Sandro Pertini, “in forma privata” recita il registro del Cerimoniale conservato al Quirinale: “Ci ha abbracciato commosso. Da partigiano aveva combattuto una guerra vera, ma nemmeno in quel contesto si fucilavano le donne. Con zia Germana invece l’hanno fatto, ed è stato un boomerang, perché dopo quel delitto la dissociazione dalla lotta armata ha preso ancora più piede. Insieme a zia Germana quegli assassini hanno ammazzato l’idea stessa della rivoluzione che dicevano di inseguire. Noi li abbiamo ignorati, senza odio né rancore. Hanno rovinato la nostra famiglia ma anche le loro, per le quali proviamo compassione”. Il contrappasso - I tre condannati all’ergastolo per l’omicidio Stefanini - Carlo Garavaglia, Francesco Donati e Barbara Fabrizi - arrestati quattro mesi più tardi a seguito di una fallita rapina a un ufficio postale, sono ancora in carcere dopo quattro decenni. Fanno parte di quella sparuta pattuglia di “irriducibili” che non hanno mai chiesto benefici (permessi, lavoro esterno o altro) non volendo instaurare alcun rapporto con le istituzioni. Anche a “guerra finita”. Prigionieri del proprio sanguinoso passato. Uno di loro fu processato (e infine assolto) per aver rivendicato dalla cella l’assassinio del professor Massimo D’Antona, nel 1999, ma oggi sembra aver preso le distanze anche da quegli epigoni brigatisti. Un altro è ancora in regime di alta sicurezza, mentre Barbara Fabrizi, da qualche mese, è stata “declassificata” in media sicurezza. E coltiva l’orto, come faceva a suo tempo la sua vittima. Nello stesso penitenziario che oggi si chiama “Casa circondariale Germana Stefanini”. Una sorta di contrappasso, che Massimo non manca di sottolineare: “Ogni volta che deve fare una domandina alla direzione del carcere, nell’intestazione quella detenuta deve leggere o scrivere il nome di zia Germana. Va bene così”. Palermo. “Ripristinate i colloqui telefonici quotidiani”: la petizione degli 800 detenuti del Pagliarelli di Alessia Candito La Repubblica, 28 gennaio 2023 La sospensione faceva parte delle precauzioni adottate nel periodo più duro della pandemia. La richiesta firmata - si legge nel testo - “figurativamente da 55.000 detenuti di cui 84 già suicidati nel 2022”. Lo stato di emergenza da Covid è finito, le restrizioni che ha imposto in carcere no. Quasi 800 detenuti del carcere Pagliarelli di Palermo hanno firmato una petizione per chiedere il ripristino dei colloqui telefonici quotidiani con familiari e avvocati. Un tempo diritto garantito, l’accesso quotidiano ai telefoni era stato sospeso nel periodo più duro della pandemia per evitare occasioni di assembramento. Il 16 dicembre scorso però - spiega l’avvocato Vito Daniele Cimiotta, legale del primo firmatario della petizione Ludovico Collo, che nei mesi scorsi aveva scritto a Repubblica - al Paglierelli è stato esposto un avviso secondo cui i colloqui sarebbero stati ripristinati ma “con forti limitazioni rispetto al recente passato”. Fra i detenuti del Pagliarelli, dove Repubblica Palermo ha voluto tenere una delle sue riunioni di redazione nelle prime settimane di gennaio, è partita prima la discussione, poi la mobilitazione. Ne è venuta fuori una richiesta di otto pagine, con in calce 793 firme ma siglata - si legge nel testo - “figurativamente da 55.000 detenuti di cui 84 già suicidati nel 2022”. L’istanza, è stata inviata tramite l’avvocato Vito Daniele Cimiotta, alla direzione del carcere e al Dap, ma per conoscenza anche al Tribunale di sorveglianza di Palermo, alla Commissione giustizia della Camera, al Garante regionale per i diritti dei detenuti (Giovanni Fiandaca) e all’associazione Antigone. “Si ritiene opportuno - aggiunge il legale - che l’avviso del 16 dicembre scorso venga revocato con effetto immediato al fine di consentire a tutti i detenuti di avere contatti più frequenti, anche se telefonici, con i propri familiari e legali”. Trento. Carcere, mille giorni in 2 metri quadrati. Il ministero deve risarcire il detenuto di Dafne Roat Corriere del Trentino, 28 gennaio 2023 Per la giudice le condizioni erano inumane. L’uomo divideva una cella piccola con altre due persone. Un detenuto ha denunciato condizioni inumane all’interno della cella. Aveva uno spazio vitale di circa due metri quadrati. Il Tribunale ha condannato il ministero Mille giorni con uno spazio vitale di poco più di due metri quadrati. Una cella di nove metri quadrati calpestabili in totale, esclusi il bagno e le due ante dell’armadio fissate al muro, che doveva condividere con altri, due, tre detenuti. Durante l’epoca Covid sarebbe rimasto all’interno della propria cella ventiquattro ore su ventiquattro, a quanto pare qualche volta senza la concessione dell’ora d’aria, trascorrendo quindi le sue giornate all’interno della propria cella. Una condizione ritenuta inumana dal Tribunale che ha condannato il ministero della giustizia a pagare 8.400 euro di danni al detenuto, un cinquantenne italiano, riconoscendo, come chiesto dal suo avvocato Nicola Degaudenz, il rimedio riparativo determinato in otto euro per ciascuna giornata trascorsa all’interno della cella. Nel provvedimento la giudice Claudia Pedergnana si richiama all’orientamento della Corte di Giustizia Europea secondo il quale nei casi in cui lo spazio vitale a disposizione è inferiore a tre metri quadrati il trattamento è inumano. E sarebbe questo il caso. La Corte di Giustizia Europa ha infatti individuato i principi del trattamento penitenziario delineando l’ipotesi in cui il regime di carcerazione può essere ritenuto o meno conforme al senso di umanità. I documenti raccontano la sofferenza del cinquantenne che era entrato nel carcere di Spini di Gardolo il 9 gennaio del 2019 ed era rimasto fino al 24 novembre 2020, 1.050 giorni complessivi, un periodo infinito per chiunque vive una condizione di privazione della libertà, ma per il cinquantenne la situazione sarebbe diventata quasi insostenibile. Il motivo? I metri quadrati disponibili erano pochissimi. L’uomo trascorreva in cella circa sedici ore al giorno, tre erano le ore dedicate al lavorio e le restanti cinque ore le trascorreva nei corridoi insieme ad altri detenuti, ma i rapporti non erano sempre facili. Poi il 22 dicembre 2018 scoppia la rivolta. Per alcune settimane il cinquantenne rimane chiuso in cella 24 ore su 24, a quanto pare senza l’ora d’aria. Giornate interminabili trascorse in uno spazio ridotto, come evidenzia l’avvocato. E sono numeri a dare il senso della situazione in cui viveva il detenuto. Ogni cella misurava nove metri quadrati che dovevano essere condivisi da tre detenuti. Lo spazio a disposizione era di poco più di due metri a testa, la cella più grande che l’uomo ha occupato nel periodo di detenzione misurava dieci metri quadrati, ma gli “ospiti” in questo caso erano quattro. L’arredamento: tre letti fissi, un tavolo da due e tre sgabelli, l’armadio a muro un termosifone e poi altri piccoli ospiti, le formiche, che - è la denuncia - condividevano gli spazi con i detenuti. Condizioni ritenute inumane secondo il legale del tenuto e anche per il Tribunale. Monza. Ilaria Cucchi: “Parlo di carceri: si può fare la differenza dentro e fuori le istituzioni” mbnews.it, 28 gennaio 2023 Monza e la Brianza aprono le porte a Ilaria Cucchi, attivista per i diritti umani e dallo scorso 25 settembre senatrice della Repubblica. Un passaggio avvenuto nella serata di ieri, giovedì 26 gennaio a Monza in sala Maddalena, organizzato dal gruppo di Sinistra Italiana e dai Verdi MB. L’occasione, la campagna delle elezioni regionali del 12 e 13 febbraio prossimi dove il gruppo a sostegno di Pierfrancesco Majorino tenta una storica vittoria dopo 28 anni ininterrotti di governo di centro-destra. Ilaria Cucchi, la sua mission delle carceri italiane - Non ha bisogno di presentazioni Ilaria Cucchi: romana, classe 1974, negli ultimi 13 anni ha combattuto una battaglia dura e difficile dentro e fuori le istituzioni per ottenere verità e giustizia riguardo la morte del fratello, Stefano Cucchi, deceduto nell’ottobre del 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare. “Allora è iniziata quella che io chiamo la mia seconda vita - spiega la senatrice alla platea monzese, numerosa, giunta per ascoltare la sua esperienza - e per oltre un decennio ho sacrificato tanto, anche i miei affetti personali e il rapporto con mia figlia che all’epoca dei fatti aveva solo due anni, con il solo obiettivo di ottenere la verità. Oggi posso dire che un piccolo cambiamento nel nostro paese lo abbiamo portato”. Ilaria Cucchi nella sua nuova veste da senatrice racconta di star intraprendendo un viaggio all’interno delle carceri italiane. “Sono visite a sorpresa - prosegue - per verificare lo stato delle strutture, le condizioni dei detenuti e dei lavoratori che quotidianamente operano lì dentro. Ho visto situazioni agghiaccianti e penso sia sconvolgente che il Governo invece che agire sulle gravi criticità che ci sono, faccia dei tagli mettendo ancora più in difficoltà sia i detenuti sia gli operatori che in quelle strutture ci lavorano. Io non mollo: sono senatrice anche per portare a galla questo mondo che la politica troppo spesso dimentica o peggio relega in un angolo”. L’incontro con i candidati: “A voi la parola, siete il futuro” - La senatrice ha voluto ascoltare e conoscere i candidati della lista SI-Verdi in Brianza che corrono a sostegno di Pierfrancesco Majorino e sono in campo per costruire un’alternativa all’attuale governance di Regione Lombardia. “Siete brave persone, oneste, e per me siete il cambiamento. Ai più giovani dico: siete il futuro, non mollate, non fatevi scoraggiare e siate sempre voi stessi. Le cose le possiamo cambiare”. Caserta. Il “mondo” dei Consoli entra nelle carceri ifattidinapoli.it, 28 gennaio 2023 Progetti e idee per un nuovo concetto di recupero sociale e speranza per i detenuti. “L’Essenziale è invisibile agli occhi”. Con questo titolo è stata inaugurata ieri, la prima visita ufficiale di una delegazione di Consoli e Diplomatici di carriera nella Casa Circondariale Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, una della più grandi strutture penitenziare in regione e prima tappa di un tour nelle carceri del mezzogiorno, che vede la diplomazia napoletana capofila di un ambizioso progetto di solidarietà e inclusione di rilievo internazionale. La delegazione guidata dal Console Onorario della Repubblica del Nicaragua, avv. Gerry Danesi, dal Console dello Zambia dott. Francesco Cossu e dalla detta Consolare della Repubblica del Venezuela, dott.ssa Indira Pimienta, tutti in rappresentanza della FE.N.CO. (Federazione Nazionale dei Consoli Onorari e di Carriera) è stata calorosamente accolta dalla dott.ssa Donatella Rotundo, direttrice del penitenziario sammaritano. Nel corso dell’emozionante recorrido all’interno della struttura, nel più completo rispetto di ogni garanzia sanitaria e di privacy, circondata dal suo dinamico staff - tutto al femminile - composto dalla Commissaria e vicecomandante delle guardie dott.ssa Simona Razzano e dalla dott.ssa Giovanna Tesoro, la dott.ssa Rotundo ha così consentito ai diplomatici di apprezzare le numerose iniziative culturali e di aggregazione sociale di cui beneficiano gli oltre 850 detenuti della struttura. Dal teatro, all’opera, dai corsi di formazione per cinofili, alla produzione interna di camicie inviate in tutti i penitenziari italiani, alle mascherine anti-covid artisticamente disegnate contro la violenza sulle donne, di cui la direttrice ha voluto fare dono ai delegati. L’avv. Danesi ha rappresentato la volontà dei Consoli campani, di partecipare in maniera fattiva e sinergica ad iniziative condivise con le direzioni carcerarie, che vedano nella lotta all’indifferenza, un fine comune per il ripristino della legalità attraverso un percorso più umano, giusto e virtuoso, che possa riavvicinare i detenuti e le detenute ai loro figli e affetti, assicurandone la definitiva fuoriuscita da quel circuito. Si è discusso inoltre della necessità di interagire tra le differenti normative carcerarie dei tanti paesi presenti, approntando un tavolo di studi tra i diplomatici e l’amministrazione giudiziaria e penitenziaria, ciò nel tentativo di armonizzare le differenti norme esistenti in materia, rendendole più intellegibili e accettabili anche per i tanti detenuti stranieri. La delegazione ha offerto inoltre collaborazione ad inviare, attraverso il Consolato del Venezuela, l’Ensemble musicale dell’orchestra dei ragazzi della Sanità e dei Quartieri all’interno della struttura, per l’occasione citando l’esempio del M.° Abreu quale antesignano dei laboratori musicali nei luoghi di detenzione. L’iniziativa Consolare vede la partecipazione, oltre che dei Consoli presenti avv. Gerry Danesi, avv. Esquia Rubin e dott. Francesco Cossu delle loro rappresentative diplomatiche del Nicaragua, Venezuela e Zambia, del Console Generale di Bulgaria e Coordinatore nazionale FE.N.CO. avv. Gennaro Famiglietti, del Console d’Austria, avv. Eugenio Patroni Griffi, del Console del Brasile, avv. Mario Luis de Menezes, del Console dello Sri Lanka, avv. Carmine Capasso, del Console della Colombia, avv. Antonio Maione, della Mauritania, avv. Francesco Napolitano, della Lituania, dott. Vincenzo Russo, Regno Unito e Irlanda, avv. Pierfrancesco Valentini, oltre alle altre rappresentative diplomatiche partecipanti. Nel salutare la direttrice del penitenziario sammaritano, la delegazione ha già confermato la visita di tutti i Consoli citati, successivamente alla prossima tappa già prevista per il 7 febbraio presso la Casa Circondariale femminile di Pozzuoli, struttura anch’essa diretta da un’altra brillante donna, la dr.ssa Maria Luisa Palma. Giornata dellla Memoria, tema shock a scuola a Napoli. Un solo rigo: “So’ tutt muort abbruciat” di Bianca de Fazio La Repubblica, 28 gennaio 2023 Il caso all’Archimede di Ponticelli. La preside ai prof: “Agghiacciante, frase ignobile, abbiamo il dovere di educare”. Chiamiamolo Gigi, tanto il suo nome non ha importanza e gli va garantito l’anonimato. Contano di più l’età: quasi 18 anni; e la provenienza da una famiglia di lavoratori nella quale i soldi circolano con faciltà e convincono il ragazzo di una sua presunta superiorità sui compagni di scuola - e di quartiere - spesso costretti a contare gli spiccioli. Il quartiere, dunque: Ponticelli. E la sua scuola, che lì rappresenta un presidio dello Stato e, concretamente, il luogo del confronto, dell’accoglienza, della crescita da cittadino. Ma che cittadino dimostra di essere Gigi? Lo studente che due giorni fa ha liquidato il tema in classe sulla Giornata della Memoria con un rigo e quattro agghiaccianti parole: “So tutt muort abbruciat”. Un rigo e basta, nonostante la traccia proponesse tanti spunti per articolare lo sviluppo del componimento. Un episodio che all’Isis Archimede non è passato sotto silenzio. Anzi. Quando la prof d’italiano di Gigi ha mostrato il tema alla preside Maria Rosaria Stanziano, questa ha immediatamente scritto a tutti i suoi docenti. “Dobbiamo trovare le parole per evitare che quella ignobile frase, graffiata su un foglio bianco, passi inosservata. Abbiamo da educatori il dovere di accogliere e rilanciare. E di interrogarsi su una deriva delle giovani generazioni: “Sempre più spesso - dice Stanziano - si mostrano incapaci di cogliere le emozioni, di entrare in sintonia con i drammi dell’altro, di mostrare empatia. È una vera patologia, l’alexitimia, ma se ne parla poco”. L’incapacità di riconoscere ed esprimere stati emotivi colpisce sempre più spesso i ragazzi ed ha serie ripercussioni sui rapporti sociali. Ma la frase di Gigi va oltre. Sfiora il razzismo, sembra aderire all’antisemitismo. O alla negazione - con la semplificazione estrema - di quanto avvenuto in Europa durante il nazismo. La preside Stanziano, nella lettera ai suoi docenti, si interroga: “Quel ragazzo ha voluto fare lo splendido? O l’irriverente? O ancora l’ironico barzellettiere? Ha voluto lanciare una aperta sfida alla scuola, all’autorità dei docenti, mostrandosi disincantato e irrispettoso? Ha interpretato la bieca sintesi dell’aggressività più vigliacca ed immorale che guarda a fatti umani e storici gravissimi con indifferenza, distacco e cinismo? Ha inteso interpretare per iscritto le mille battute caustiche ed imperdonabili che rimandano ai forni crematori, alle saponette, al gas letale...; oppure ha usato formule verbali aggressive pari a quei violenti cori da stadio che inneggiano al Vesuvio?”. Quale che sia la risposta, la gravità di questo che gli esperti definiscono lo analfabetismo affettivo apre le porte a comportamenti, nella vita dei ragazzi, inclini alla violenza, alla provocazione, all’aggressione verbale e fisica. “Eppure - aggiunge Stanziano - parlare a scuola della Shoah serve anche a scongiurare questo tipo di condotte”. Stigmatizzate, ieri, dai compagni di scuola di Gigi. Che si ribellano all’idea che la loro scuola, l’Archimede, e il loro quartiere, Ponticelli, finiscano all’indice. “Proprio mentre la nostra compagna Natalie, proprio stamattina, ha ricevuto al Mercadante il premio Valenzi. O mentre, ancora stamattina, abbiamo incontrato lo scrittore Paolo Miggiano e il papà di Paolino Avella (il diciassettenne ucciso da chi voleva rubargli il motorino) nell’ambito del premio letterario Dumontet, grazie al quale alcuni di noi hanno borse di studio per frequentare l’università”. Per fortuna conclude la preside Stanziano - i nostri ragazzi sono anche questo e molto di più”. Sul caso interviene il coordinatore di Forza Italia in Campania, Fulvio Martusciello: “Possibile che nessuno provi indignazione di fronte al tema dell’alunno del liceo Archimede sul giorno della memoria? Il ragazzo andrebbe bocciato senza indugi. È incredibile - aggiunge Martusciello - che nessun consigliere comunale proferisca parola su quanto accaduto. Il sindaco ha forse perso la voce? Chiediamo provvedimenti esemplari. Quel tema - conclude l’esponente forzista - e’ una vergogna nazionale che ci fa rabbrividire”. Quelle vite spezzate dal rito della velocità nell’Italia rassegnata alla nuova mattanza di Stefano Massini La Repubblica, 28 gennaio 2023 I 5 ragazzi morti nello schianto della Fiat 500 sulla Nomentana a Fonte Nuova (Roma). Uno dei più antichi riti di iniziazione tribale consisteva nel domare la bestia. Restare in sella al puledro scalciante, resistere alla furia del toro, agguantare il cobra per il collo: se ci riuscivi, eri pronto a vivere. Oggi la prova da superare si traduce invece in un corpo a corpo con il motore, con la velocità, con la strada. E dunque non stupisce che con l’ennesimo massacro sulla Nomentana, abbiamo appena aggiornato la lista dei morti con altri ragazzi. La rassegnazione e la resa - Io faccio parte della moltitudine di coloro che hanno conosciuto, nella propria cerchia familiare, la mattanza della strada. Ogni volta che sei il prescelto, ciò avviene sempre con un’aura di epilogo condiviso, come se il tuo dramma fosse apocalittico e definitivo, simile a un gigantesco punto fermo. Ma è un istante che quel punto si riapre in una virgola. Perché altri morti verranno, altri seguiranno, altri addii assurdi e tragicamente inutili, che a ben guardare rendono le morti sulla strada analoghe a quelle sul lavoro, la cui Spoon River si popola inesorabilmente, con ritmo quotidiano, anch’essa alimentata da un senso generale di rassegnazione e malcelata resa. Un danno ‘fisiologico’ - Abbiamo accettato l’assunto, ci è entrato sottopelle, si è tramutato in uno sconsolato stringersi di spalle, mentre mormori che sì, un operaio nel turno di lavoro può anche morire, e così un diciottenne per strada. Ma certo. È diventata un’ipotesi plausibile, ammessa nel perimetro delle eventualità, secondo quel tipico percorso deleterio che annacqua lo scandalo per sopprimere il senso di colpa. E allora chissà che la vera barbarie non stia più che mai qui, proprio in questa sostanziale assoluzione, bonaria, sbrigativa, a sottintendere che quella Fiat 500 ribaltata e distrutta con sei ragazzi a bordo è tutto sommato un danno fisiologico, maledettissimo ma inevitabile, per il quale non esistono prevenzioni. La prevenzione è possibile? - Irrilevante far notare che la sorveglianza sulle strade è nottetempo una specie in estinzione. Irrilevante chiedersi perché mai una burocrazia iper-kafkiana renda miracolosa la comparsa di dossi e rallentatori su certi tratti-killer. Ma soprattutto: è così impossibile applicare alle automobili lo stesso metodo del tabacco, lanciando sui social (agorà dei giovanissimi) intensive e durature campagne choc con le immagini dei coetanei cadaveri? E poi perché il solo menzionare l’educazione stradale muove smorfie di sorriso come se proponessi di insegnare a scuola la mazurka? Sono domande destinate a gravitare nel vuoto, mentre la contabilità mortuaria preme l’acceleratore. Dopodiché, senza dubbio, potremo (e dovremo) chiederci quale sia la causa scatenante che traslittera una Fiat 500 in una belva da imbrigliare fra gli applausi del rodeo. La tecnologia oggi è il destriero del cavaliere, e su questo non ci sono dubbi, essendo peraltro il sottotesto implicito di tutto il marketing del settore: l’automobile che non acquisti più per utilità, ma per una forma nietzschiana di trionfo esistenziale. L’ebbrezza della sfida alla morte - Eppure c’è anche altro, credo. Non è solo la dipendenza da adrenalina a spingere sei ragazzi a sfidare il contachilometri in una sarabanda da rally, incastrati in un abitacolo omologato per quattro. Molto più sottilmente è come se cercassero nella morte quello che la vita non gli offre. Porte sbarrate, ovunque, esattamente come nelle parole di Rilke a Kassner, ma con il dettaglio essenziale che qui non c’è una diagnosi di imminente decesso organico. La malattia è dentro, la malattia sta nella decadenza di tutto il contesto, nello sgretolarsi, rapidissimo e convulso, di quell’involucro di certezze su cui ponevamo il nostro baricentro. Come lo costruisci, su cosa lo costruisci, un paradigma di futuro? Se ogni prospettiva di vita si liquefa appena la interpelli, non sarò tentato di sperimentare, per paradosso, la vitalità della morte? Questo cercherò magari di afferrare, mentre lancio una Fiat 500 come fosse una Lamborghini, anche tre volte oltre i limiti consentiti, fra le rotatorie della Nomentana e le strisce pedonali di Tor Lupara, fingendo di essere a Indianapolis. Cercherò l’immediatezza di un brivido a comando, adesso, subito, senza sentirmi dire che “potrebbe”, “vedremo”, “le faremo sapere”, “aggiorniamoci”, “valuteremo”, “attendiamo di capire” e via col repertorio. Se la vita diventa una perenne sala d’attesa, la sfida alla morte ti può garantire l’apparente ebbrezza dell’attimo, un meccanismo elettrizzante, una scossa che attiverai tu come fosse un interruttore ON-OFF, stavolta finalmente illudendoti di essere padrone di qualcosa, non solo un ostaggio di “poi chissà”. Educazione alla ‘vitalità’ - Questa è la mia sensazione. Per cui, mi si perdoni l’azzardo, dovremmo davvero pensare di inserire nelle scuole (accanto a quella stradale di cui sopra) una qualche “educazione alla vitalità”, che tolga alla morte il fascino perverso che sta assumendo, ogni giorno di più. Ma non sorprende: è un grande sabba quello in cui siamo, danzando disperatamente fra un portavoce del Cremlino che annuncia di volerci sterminare tutti e il permafrost che si scioglie promettendo nuovi virus letali. La morte, insomma, non è mai stata così a portata di mano. Un tempo le davamo del voi, poi del lei, adesso del tu. Anzi, ce l’abbiamo proprio dentro. La morte sono io. Difesa, la strategia: più spese militari di Francesco Verderami Cordiere della Sera, 28 gennaio 2023 Nonostante sia finita la stagione delle larghe intese, in Parlamento non sembra terminata la politica bipartisan sulla Difesa. E con una guerra in corso, l’unione di scelte e la convergenza di vedute si impone. “La minaccia russa è una spinta a investire nella Difesa più di quanto fatto finora”. Parla Meloni ma sembra di risentire Draghi. A quasi un anno dall’inizio del conflitto è evidente la continuità tra i due governi. C’è una tale convergenza di vedute che in Parlamento il discorso di Crosetto si è letteralmente sovrapposto a quello pronunciato dal suo predecessore, Guerini. “Va diffusa la cultura della Difesa”, ha detto l’altro giorno alla Camera il ministro di Meloni. “Bisogna far crescere la cultura della Difesa”, disse a suo tempo il ministro di Draghi. È un concetto che cela l’obiettivo di innalzare fino al 2% del Pil gli stanziamenti per il settore. Una necessità dettata - più che dagli accordi Nato - dagli eventi della Storia, che ha provveduto a sconfessare visioni consolidate e indotto addirittura la Germania a investire cento miliardi nelle Forze armate. Quelle italiane “stanno più o meno con le pezze alle terga”, a sentire il vice presidente della Camera Mulè, che fino a pochi mesi fa era sottosegretario alla Difesa con Draghi. Non c’è solo il problema di “ripristinare le scorte” - come ha spiegato Crosetto - visti gli aiuti di armi e munizioni offerti in questi mesi a Kiev. È una questione strutturale che riguarda tutte le Armi e che il ministro ha lasciato trasparire nella sua audizione. Secondo fonti militari del Dicastero, infatti, il grado di efficienza dell’artiglieria pesante in dotazione all’Esercito è ora valutato “intorno al 25%”, per l’obsolescenza dei mezzi e la cannibalizzazione dei pezzi di ricambio. L’Aeronautica può vantare aerei di ultima generazione ma non dispone di un’adeguata quantità di missili. La Marina ha navi all’avanguardia ma non altrettanto personale. Nonostante sia finita la stagione delle larghe intese, in Parlamento non sembra terminata la politica bipartisan sulla Difesa, che secondo il democratico Borghi “è l’attuazione di una linea di politica estera. E con una guerra in corso, con lo scontro globale tra democrazie e autocrazie, una capacità di sintesi e di scelte comuni si impone”. Insomma, l’intesa s’ha da fare. E su questa linea è anche il Terzo polo. Perché l’obiettivo del 2% non può essere vissuto come un sacrificio sull’altare del militarismo, “se è vero che - prosegue il dirigente del Pd - dentro quella spesa ci sono investimenti in innovazione e ricerca che hanno ricadute sul settore civile e producono occupazione”. Certo, in una fase economica e sociale molto delicata, può apparire paradossale inserire il dossier tra le emergenze. Un sondaggio di Swg per Greenpeace Italia sottolinea come il 55% degli intervistati - malgrado il conflitto in Ucraina - sia contrario ad un aumento del budget nel settore. Il governo ne è consapevole, ha chiesto a Bruxelles di poter scorporare gli investimenti per la Difesa dal patto di Stabilità, sapendo di contare sul sostegno di tutte le forze parlamentari. Tutte tranne i Cinquestelle. Eppure era stato Conte ad innalzare il bilancio della Difesa quando sedeva a palazzo Chigi, invertendo la regola dei tagli che andava avanti da ormai venti anni: 4 miliardi in più per tener fede alla promessa fatta a Trump di “arrivare al 2% del Pil”. Sarà stato anche quello “un errore di gioventù”. Come la decisione di cedere armamenti all’Egitto per 4 miliardi durante il governo con la Lega. E di firmare un accordo per la vendita di navi e aerei militari, sempre all’Egitto ma durante il governo con il Pd. Chissà quale sarà la reazione del leader grillino appena saprà che il ministro degli Esteri Tajani - nella sua recente visita al Cairo - ha discusso dell’imminente passaggio di 24 Eurofighter all’aviazione di Al Sisi per 3 miliardi: è parte della commessa che aveva firmato da presidente del Consiglio. La Difesa ha bisogno di investimenti, almeno su questo non ci può essere guerra in Parlamento. L’Italia non vuole la guerra: “Basta con l’invio di armi” di Alessandra Ghisleri La Stampa, 28 gennaio 2023 Sondaggio Euromedia: la maggioranza contro nuovi aiuti militari e intervento Nato. Il Festival di Sanremo è sempre stato, per gli italiani, lo spettacolo nazional-popolare per eccellenza. È bastato l’annuncio del possibile - per non dire certo - intervento del Presidente ucraino Zelensky, per mettere in secondo piano gli altri filoni informativi della guerra. Il dibattito di questi giorni si è riunito sulle diverse possibilità di questo importante evento mediatico - e politico - tornando a scatenare le rispettive fazioni legate al conflitto che per qualche mese si erano eclissate, complici le proteste dei benzinai e il ritorno del dibattito nel campo di esistenza delle intercettazioni. Pacifisti anni 90, filo-putiniani, intellettuali “reazionari”, atlantisti, governisti, polemisti... Sono in molti a dibattere sul tema proprio perché la kermesse ha sempre avuto un’audience veramente importante. In sostanza, come esprimono i sondaggi realizzati per “Porta a Porta”, gli italiani in maggioranza sentono il conflitto russo-ucraino lontano (78,2%) con una percentuale superiore a quella di metà dicembre. Nei cluster analizzati solo i giovani tra i 18 e i 25 anni si differenziano nelle risposte: il 15,8% sente vicine le ostilità della guerra rispetto all’8,2% del dato nazionale, mentre il 51,2% le sente prossime e ben il 33% non ha saputo offrire una valutazione. Nei dati si conferma quella tendenza che perdura dai primi mesi delle ostilità in cui gli italiani continuano a mostrarsi in maggioranza contrari all’invio delle armi all’Ucraina (52%). Questo trend non ha mai presentato una singola inversione. Si può dire che solo gli elettori di Pd, FI e Azione con Italia Viva si dichiarano maggiormente favorevoli. Così se il 33,9% degli intervistati ritiene doveroso il sostegno all’Ucraina con l’invio dei Panzer - Leopard tedeschi, ben il 58% non legge positivamente questa scelta principalmente perché teme l’inasprirsi della guerra con la possibilità che la Nato sia costretta ad entrare come parte attiva nel conflitto. Naturalmente, su questa possibilità il 68,5% del campione si dichiara contrario e il giudizio appare trasversale dal punto di vista dell’elettorato politico. Questo pensiero stimola le paure più profonde degli italiani che, pur comprendendo l’aiuto necessario e dovuto nei confronti di un Paese che è stato violato nei suoi confini e nei suoi principi, leggono tutto ciò come un’importante crisi per la sicurezza europea. Ed è proprio lo stesso termine dei carrarmati “panzer” che evoca i terribili scenari legati alla seconda guerra mondiale in territorio europeo. Il possibile sfondamento della guerra da fatto locale a fatto europeo spinge il 38,2% dei cittadini ad augurarsi un negoziato di cessate il fuoco con i russi “alle spalle” degli ucraini per imporlo agli aggrediti. Il 25,6% è convinto che riducendo il sostegno militare a Kiev si potrebbe riuscire a convincere Zelensky dell’impossibilità di vincere e quindi giungere ad una sorta di negoziato. Infine, l’8,4% auspica un impegno diretto di tutti gli “alleati” per salvare l’Ucraina andando direttamente al confronto militare con la Russia, anche a rischio di perdite importanti per il nostro Paese. In queste tre opzioni ben il 41,4% degli elettori del Partito Democratico non si ritrovano. Tuttavia i dati cambiano di poco quando la domanda viene posta in termini previsionali seguendo le indicazioni di un recente articolo di Lucio Caracciolo su questo giornale. Uno su tre degli elettori (il 32,5%) è convinto che prima o poi si riuscirà a negoziare con i russi imponendo all’Ucraina una soluzione. Un cittadino su quattro (il 24,9%), invece sostiene che piano piano si ridurrà il sostegno militare a Kiev, mentre il 10,2% pensa che alla fine si entrerà in maniera attiva nel conflitto. Ancora una volta il 41,4% dell’elettorato del Pd non sa indicare una sua visione nel merito. Questa situazione rischia di incancrenirsi in un conflitto che si protrarrebbe sine die sulle macerie di un Paese aggredito e che salverebbe le nostre coscienze nella libertà della nostra quotidianità. Nell’elenco delle paure nulla trova assoluzione. L’ingresso dei carri armati tedeschi e americani, gli interessi Usa e la strategia di Biden, la debolezza europea, Putin e Zelensky... Tutto questo mina le nostre abitudini mettendo in luce tutto il nostro egoismo, senza comprendere che anche noi ne facciamo parte. E allora il dibattito tende a salvaguardare quello spazio e quel “luogo sacro” del nazional popolare che è il Festival della canzone, perché non vedendo e non sentendo i drammi di una guerra ci possiamo sentire un po’ più liberi... E sì è così, perché Sanremo è Sanremo! Ucraina. L’impensabile ora diventa necessario, verso la voragine di Francesco Strazzari Il Manifesto, 28 gennaio 2023 Ciò che ieri non era nemmeno preso in considerazione diventa oggi “una necessità alla quale non ci si può sottrarre”. I carri armati per l’Ucraina sono pronti. Il campo di battaglia muta: per quanto Mosca minacci, lo spettro del nucleare russo pare far meno paura. Prevale l’imperativo di rompere lo stallo sul fronte, mostrando a Mosca come l’inverno non abbia piegato la determinazione di chi difende l’Ucraina. Più cingoli e potenza di fuoco, prima che sia Putin a lanciare l’offensiva. Tutto segue un copione di escalation prevedibile (e previsto) ma dagli esiti quantomai incerti: il protrarsi della guerra getta le condizioni per l’espansione della guerra stessa, e per un ulteriore nostro coinvolgimento. Negli Usa, i senatori repubblicani affermano di ragionare “a mente aperta”, e di non avere tabù nel considerare nuove spedizioni di armi, aggiungendo che occorre capire “verso cosa ci stiamo dirigendo”. Gli Abrams M1 statunitensi non saranno operativi al fronte entro la primavera. Tuttavia, essi servono a superare le cautele di una leadership tedesca che deve ripensare tutto, sentendo il centro d’Europa scivolare a Est. Fino a poco fa gli alti comandi del Pentagono mettevano in discussione le chances di vittoria militare, lasciando pensare alla soluzione politica; oggi paiono invece dar corda all’idea della riconquista integrale. Così i comandi ucraini annunciano che faranno tremare la Russia in profondità. È verosimile che Washington mantenga aperta l’opzione negoziale, partendo dall’assunto che con Putin si tratta solo da una posizione di forza: ma certo non ne parla, e davanti abbiamo combattimenti più intensi. Torneremo dunque a vedere la guerra come scontro fra apparati industriali, e battaglie fra carri armati? I 31 Abrams americani sono in primo luogo un segnale politico: l’aspetto più rilevante non è il loro impatto militare, a fronte delle decine di tank che gli ucraini perdono ogni mese. Certo, se si aggiungono i Leopard tedeschi, più di 100 tank occidentali, opportunamente concentrati, possono rappresentare un grosso problema di tenuta per le linee di difesa approntate dai russi. Ma i carri, da soli, si sono rivelati più che vulnerabili alle armi anticarro (di cui peraltro gli ucraini abbondano). Gli ucraini finora hanno puntato su una strategia di corrosione delle linee di rifornimento del nemico, più che su un assetto lineare o di sfondamento frontale. Scardinare la logistica russa significa indebolire le posizioni conquistate dai russi, costringendoli a ripiegare, come è accaduto a Kherson. I comandi russi però hanno appreso dai propri errori, e hanno iniziato a disperdere le proprie dotazioni sul territorio, soprattutto nella regione di Rostov, a 80-100 km dalla linea del fronte. Oggi è più difficile colpire i depositi di munizioni e gli snodi logistici. Questa è la giustificazione addotta da Kyiv nel chiedere armi a gittata più lunga. E così, avuta la certezza dell’arrivo dei carri armati, gli ucraini hanno iniziato a chiedere jet da combattimento. Lockheed Martin ha subito annunciato che aumenterà la produzione di F-16. Fra i pubblici segreti, possiamo annoverare anche il trasferimento, la scorsa primavera, di diversi MiG-29 dalla Polonia all’Ucraina, operazione mascherata in forma di invio di ricambi e componenti smontate. La Russia, per converso, punta soprattutto sull’ampiezza delle perdite e delle sofferenze che può infliggere e che può tollerare. L’esercito resta incapace ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi ricevuti. Dopo aver sacrificato migliaia di uomini nel tritacarne di Bakhmut, Wagner fatica a ottenere forze fresche, trovando resistenze anche nel bacino dei carcerati. Ormai cerca reclute in Asia Centrale, mentre considera improbabili fusioni con le forze cecene, e discute di trascinare al fronte i renitenti alla leva e i disertori. Non basterà, perché servono decine di migliaia di uomini: una nuova mobilitazione, o il passaggio formale alla legge marziale in Russia sono ipotesi plausibili. L’ondata di dimissioni di politici e funzionati colpiti da accuse di corruzione a Kyiv assume le sembianze di una purga che non risparmia nessuna personalità su cui i media abbiano sollevato ombre. Siamo davanti a un cambio di priorità politica: nell’assorbire il rilancio degli aiuti finanziari e delle forniture militari dai propri partner occidentali, l’immagine di integrità diventa ben più importante che non il rispetto dei sodalizi a cui è stata a lungo legata l’unità politica. L’Ucraina dipende interamente da assistenza e investimenti. Zelensky non si è fatto pregare nel tessere le lodi, fino ad apparirne un testimonial, delle grandi companies americane, citate come esempio di come “ciascuno possa diventare big business” prendendo parte a grande opportunità che è l’Ukraininan way, dove si difendono “libertà e proprietà”. Nel frattempo, sui social media imperversa la cosiddetta ambush pornography: video che ritraggono l’uccisione del soldato nemico a bruciapelo, accompagnati da colonne sonore sarcastiche, che irridono chi sanguina a morte, e suscitano caterve di commenti compiaciuti. Un esercizio di disumanità senza fine alla quale ci stiamo abituando sulle nostre frontiere. Ucraina. La morte di Andy Rocchelli alla Corte dell’Aja di Luigi De Biase Il Manifesto, 28 gennaio 2023 La famiglia porta al procuratore sui crimini di guerra il caso del fotoreporter ucciso nel 2014 nel Donbass a colpi di mortaio da truppe ucraine. Un vizio di forma annullò la sentenza. “Ancora una volta la nostra è una irrisolta domanda di verità e giustizia per un delitto che la magistratura italiana definisce un crimine di guerra, ma su cui si stende l’oblio”. Con queste parole Elisa Signori Rocchelli, la madre di Andrea Rocchelli, ha spiegato sul portale internet dell’associazione Articolo 21 la scelta di rivolgersi alla Corte penale internazionale dell’Aja per ottenere una nuova indagine, ora che la Cpi ha deciso di verificare attraverso un apposito organismo presieduto dal procuratore Kharim Ahmad Khan tutti i possibili crimini di guerra commessi in Ucraina a partire dal 2013. Andrea Rocchelli era un fotoreporter del collettivo Cesura. È stato ucciso dall’esercito ucraino nel mese di maggio del 2014 mentre era al lavoro nel Donbass con l’attivista russo Andrei Mironov, anch’egli morto nell’agguato. Rocchelli aveva trentun anni, Mironov sessantuno. Un altro fotoreporter, William Roguelon, di nazionalità francese, è miracolosamente sopravvissuto alle ferite. Proprio le sue dichiarazioni hanno permesso di ricostruire quanto accaduto. Fatali per Rocchelli e per Mironov sono stati i colpi di mortaio esplosi in una lunga e terribile sequenza da una collina chiamata Karachun, nei pressi della cittadina della Slovyansk, che era sotto il completo controllo della 95esima brigata delle forze armate e della Guardia nazionale ucraina. Con una brillante inchiesta giornalistica realizzata per l’Espresso e RaiNews, i giornalisti Andrea Sceresini, Giuseppe Cataldo e Giuseppe Borello hanno ricostruito la catena di comando degli uomini appostati a Karachun e sono arrivati al generale Mikhailo Zabrodksyi. Sempre nel 2014, pochi mesi dopo la morte di Rocchelli e Mironov, Zabrodksyi è entrato alla Rada con il partito dell’ex presidente Petro Poroshenko. Nel corso della legislatura ha persino fatto parte del gruppo parlamentare di amicizia Italia-Ucraina. Sull’andamento delle indagini hanno pesato le sospette omissioni delle autorità ucraine. Soltanto nel 2017 i carabinieri del Ros di Milano sono arrivati all’arresto di un uomo della Guardia nazionale, Vitaly Markiv, con doppio passaporto, italiano e ucraino. Due anni più tardi il Tribunale di Pavia lo ha condannato in primo grado a ventiquattro anni di carcere per il ruolo nel duplice omicidio. Tanto la fase delle indagini è stata segnata da omissioni, quanto il processo da una pesante campagna di interferenze e intimidazioni che ha avuto fra i protagonisti un ex ministro dell’interno ucraino, Arseny Avakov, legato agli ambienti ultranazionalisti. Di fronte a distorsioni, forzature e depistaggi usati per riscrivere le circostanze intorno alla morte di Rocchelli e Mironov, l’Italia si è mostrata passiva forse anche alla luce di considerazioni di carattere politico. Nel 2020 la Corte di Appello di Milano ha confermato per intero la ricostruzione degli eventi che aveva portato alla condanna di Markiv. Eccependo, tuttavia, sul metodo con cui erano state raccolte le testimonianze di otto dei suoi commilitoni. Quegli uomini, secondo i giudici, dovevano essere sentiti “alla presenza di un difensore” dato che potevano esistere “fin dall’inizio della loro deposizione, indizi di correità”. La Corte ha, quindi, escluso le deposizioni, senza ordinare nuovi esami. Di conseguenza Markiv è stato scarcerato “per non avere commesso il fatto”. Una volta a Kiev ha ripreso servizio al ministero dell’interno, nell’ufficio che si occupava dei rapporti con i governi della Nato. Nel 2021 la Cassazione ha confermato l’orientamento della Corte di Appello. Si è così arrivati alla paradossale situazione per cui da una parte la giustizia italiana ha chiarito le responsabilità del duplice omicidio, ma dall’altra ha stabilito che i responsabili non si possono perseguire. “Oggi abbiamo la verità, ma non la giustizia”, hanno detto Elisa Signori e il marito Rino Rocchelli, difesi dall’avvocato Alessandra Ballerini e sostenuti dalla Federazione nazionale della stampa, alla vigilia dell’ultima sentenza. “L’obiettivo che ci proponiamo da otto anni e più”, ha detto Elisa Signori Rocchelli ad Articolo 21, “è di porre fine all’impunità per questo delitto, consapevoli che in tal modo difendiamo la vita dei civili e dei giornalisti che operano in scenari di crisi e di guerra. L’impunità è una garanzia e una rassicurazione per chi, colpevole di crimini, può continuare a commetterli. Dunque va combattuta”. Stati Uniti. Tyre Nichols pestato a morte da 5 agenti: il video choc scuote Memphis di Viviana Mazza Corriere della Sera, 28 gennaio 2023 Diffuso ieri dalla polizia il video dell’arresto di Tyre Nichols, 29 anni: è stato picchiato a morte dalla polizia che lo ha fermato per eccesso di velocità. Le sue ultime parole: “Mamma, mamma, mamma”. Pestato a morte da cinque poliziotti, Tyre Nichols, 29 anni, ripeteva: “Che cosa ho fatto?”. “Mamma, mamma, mamma” sono state le sue ultime parole, riprese in video dalle bodycam degli agenti e da una telecamera di sorveglianza a 90 metri da casa sua a Memphis, in Tennessee. Una vicenda che ha turbato e indignato le stesse autorità della polizia, che hanno pubblicato il filmato ieri notte su YouTube. Nichols, afroamericano, un figlio di 4 anni, è stato fermato al volante della sua auto sabato 7 gennaio alle 8:30, da cinque agenti, anche loro neri. Tadarrius Bean, Demetrius Haley, Emmitt Martin III, Desmond Mills Jr e Justin Smith sono stati licenziati e poi incriminati con accuse che includono omicidio di secondo grado, aggressione aggravata, rapimento aggravato. Il rapporto degli agenti parla di fermo per eccesso di velocità; ma Cerelyn Davis, la prima donna nera a capo della polizia di Memphis, ha detto che non ci sono prove di alcuna infrazione da parte di Nichols e ha paragonato il suo pestaggio a quello di Rodney King, che scatenò le rivolte del 1992 a Los Angeles. I genitori e le autorità, inclusi il presidente Biden e il ministro della Giustizia Merrick Garland che ha aperto un’inchiesta separata, hanno lanciato molteplici appelli che le proteste siano pacifiche. I cinque poliziotti fanno parte di un’unità chiamata Scorpion (Street Crimes Operation to Restore Peace in Our Neighborhoods), creata nel 2021 per riportare “la pace nei nostri quartieri” dopo un aumento dei crimini e della violenza a Memphis. Il noto avvocato dei diritti civili Ben Crump, che rappresenta i genitori di Nichols, ne chiede lo scioglimento: “Altri cittadini neri innocenti fermati, picchiati e minacciati in cerca di droga e di armi da quell’unità ne avevano denunciato gli abusi alla polizia ma non sono stati ascoltati”. Già quando i cinque agenti fermano Nichols “c’è un livello di aggressione inspiegabile”, nota la dirigente della polizia. Lui cerca di scappare a piedi e il fatto stesso che lo faccia scatena la rabbia degli agenti. Usano spray al peperoncino e taser all’inizio, poi dopo averlo catturato lo picchiano per tre minuti di seguito. Cruciali, più delle riprese delle bodycam, sono state quelle di una telecamera su un palo della luce nel quartiere: mentre sentiamo gli agenti mentire, ad un certo punto, come se parlassero alle loro bodycam affermando che il sospetto aveva cercato di strappare ad uno di loro la pistola , la telecamera dall’alto mostra la brutalità immotivata delle loro azioni. Usano un bastone di metallo estraibile, lo prendono a pugni ripetutamente, “uno lo prende a calci come fosse una palla da football”, ha notato il padre Rodney Wells. “La cosa più significativa - per lui - è il fatto che ci sono forse dieci agenti e nessuno cerca di fermare il pestaggio di mio figlio, nemmeno dopo: fumano sigarette, come fosse tutto tranquillo. Lo appoggiano all’auto, lui si accascia e un agente grida: “Siediti, figlio di puttana”, ma è ammanettato. Lo devono tirare su, più di una volta. Ma nessuno gli presta soccorso”. Si vedono due agenti del dipartimento dei vigili del fuoco che non prestano aiuto (sono stati sospesi) e Davis, la dirigente della polizia, sospetta lo stesso dei paramedici coinvolti quella notte. “È stato un fallimento non solo professionale - dice - ma dell’umanità nei confronti di un altro essere umano”. Mezz’ora dopo Nichols riesce a comunicare che non riesce a respirare e viene portato in ospedale. La polizia avverte la madre, RowVaughn Wells, ma le vieta - ha affermato lei - di raggiungere il figlio sostenendo che è in arresto. Alle 4 del mattino, il medico le telefona e le chiede come mai non sia in ospedale: il figlio sta andando in arresto cardiaco. Quando la madre arriva in ospedale, Tyre “non era più tra noi”. Tre giorni dopo è spirato. L’autopsia richiesta dalla famiglia confermerebbe il “sanguinamento interno causato dal pestaggio”. Memphis è una città di 628 mila abitanti, un terzo dei quali neri. Il colore della pelle dei cinque agenti è un motivo in più di dolore e indica che è necessaria una riforma della “cultura della polizia”. L’avvocato ha elogiato la rapidità nell’incriminarli in meno di venti giorni; ha notato che c’è voluto più di un anno in casi precedenti di afroamericani uccisi dalla polizia: “Questa prontezza e rapidità ora è ciò che ci aspettiamo anche quando gli agenti sono bianchi”, ha sottolineato. Anche George Floyd morendo invocò la madre, che era scomparsa due anni prima. Quella di Nichols ha scelto di parlare ieri, in conferenza stampa, accanto alla foto del figlio scattata in ospedale, “con lividi ovunque, la testa gonfia come un melone, il collo e il naso rotti”. Ha ricordato il suo ragazzo come un giovane che adorava la mamma al punto di tatuarsi il suo nome e che, dopo il lavoro come fattorino di FedEx, al crepuscolo, andava spesso a fotografare il tramonto, come quella sera. Ha chiesto giustizia: una legge intitolata a Tyre, una riforma vera della polizia. Etiopia. La profezia di Jan Nyssen di Paolo Lepri Corriere della Sera, 28 gennaio 2023 L’uomo che ha svelato ad un mondo distratto che quel conflitto è stato uno dei più sanguinosi del ventunesimo secolo, provocando la morte di circa 600.000 civili. È un professore belga di geografia, Jan Nyssen, l’uomo che con le ricerche del suo team ha svelato ad un mondo distratto che il conflitto in Etiopia - due anni di combattimenti tra l’esercito di Addis Abeba, affiancato dalle milizie amhara e da reparti militari eritrei, e il Fronte di liberazione del Tigray - è stato uno dei più sanguinosi del ventunesimo secolo, provocando la morte di circa 600.000 civili. Di questo incredibile numero di vittime, che supera in una atroce classifica dell’orrore quanto è avvenuto in Siria e nello Yemen, hanno parlato, dopo di lui, anche l’Alto rappresentante europeo per la politica estera Josep Borrell e il mediatore dell’Unione africana per il Corno d’Africa, l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo. “È stata usata la fame come arma di guerra”, ha detto a El País il docente dell’università di Gand, che da tempo dedica i suoi studi a quest’area di crisi di un continente instabile. Le ricerche di Nyssen - che ha sessantacinque anni, è nato a Voeren, nella provincia fiamminga del Limburgo, e ha fatto il postino a Liegi mentre si manteneva agli studi - si sono basate, come ha spiegato al quotidiano spagnolo, sulle vittime di bombardamenti e massacri, i morti per mancanza di assistenza medica dovuta alla chiusura o allo smantellamento delle strutture sanitarie e le persone che hanno perso la vita per carenza di alimenti. Il blocco degli aiuti umanitari - cui è stato impedito di arrivare a destinazione - ha aggravato la situazione in modo irreparabile. Secondo i calcoli dell’équipe belga varie centinaia di persone sono state uccise ogni giorno dalla denutrizione. Nel novembre scorso è stata raggiunta una fragile pace, che lascia aperti enormi interrogativi sul futuro, il primo dei quali riguarda il ritorno dei profughi. Rimane aperta, naturalmente, la questione delle responsabilità. A essere chiamati in causa sono soprattutto il premier etiope Abiy Ahmed Ali (paradossalmente insignito nel 2019 del premio Nobel per la pace) e il dittatore eritreo Isaias Afewerki. “Si è voluto - ha affermato Nyssen - convertire il Tigray in un nuovo Biafra. Privare la popolazione civile del cibo è un crimine di guerra, ma sembra che nessuno ne risponderà”. Una profezia, questa, destinata purtroppo ad avverarsi.