L’anarchico Cospito è grave: “ridotto su una sedia a rotelle” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 gennaio 2023 L’allarme del medico, diffidata dal Dap: “è caduto sul piatto della doccia e si è fratturato il naso. La situazione è in discesa”. Alfredo Cospito, recluso al 41 bis di Sassari e da oltre 100 giorni in sciopero della fame, è a rischio di edema cerebrale perché gli elettroliti stanno calando inesorabilmente. Non riesce più a muoversi bene, se non grazie a una sedia a rotelle. Indossa quattro maglie e tre pantaloni addosso, ma nonostante ciò ha sempre freddo. Ha provato a farsi una doccia calda, ma è caduto rovinosamente per terra sbattendo la faccia e si è fratturato il naso. Questo è ciò che emerge dalla visita effettuata dal suo medico. In un’intervista a “Radio Onda d’Urto”, l’emittente radiofonica alla quale la dottoressa Angelica Milia, nonostante la diffida del Dap a non rilasciare dichiarazioni, ha spiegato che dopo la caduta Cospito “è stato portato al Pronto Soccorso dove hanno ridotto la frattura e poi riportato in carcere. L’emorragia è stata forte, aveva la maglietta tutta sporca di sangue, anche perché i valori dell’emocromo sono bassi e il numero delle piastrine è ridotto. La situazione è in discesa, può correre il rischio di vita da un momento all’altro”. Una condizione inaudita, ma tutto tace. Anzi, la Cassazione alla quale pendeva il ricorso dell’avvocato Flavio Rossi Albertini sul rigetto dell’istanza di revoca del carcere duro, ha fissato la data dell’udienza al 20 aprile. Per quella data, Cospito non ci sarà più su questa Terra. La Cassazione, di fatto, passa la patata bollente al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Da oramai più di una settimana, è sul suo tavolo del ministero una nuova richiesta di revoca del 41 bis. Come già scritto più volte sulle pagine de Il Dubbio, l’avvocato difensore ha potuto inoltrarla perché nel frattempo sono sopraggiunti “nuovi elementi” che dimostrano l’inesistenza della Federazione anarchica informale come organizzazione, e che appunto non è subalterna all’anarchico. Ovvero, lui non è il capo di nulla. Come ha sottolineato l’avvocato Albertini, non c’è alcuna “organizzazione” da dirigere. E Cospito, che si definisce un “anarchico individualista,” non può di certo essere un capo né dare ordini ad altre persone. Ricordiamo che nel 2013 Cospito viene condannato a 10 anni e 8 mesi di carcere per la gambizzazione di Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Una volta in carcere è accusato di aver piazzato due ordigni davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano (in provincia di Cuneo), nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006. Le bombe erano esplose a distanza di mezz’ora di distanza tra loro, senza però causare danni a persone o immobili. Per quell’episodio, Cospito è condannato in primo e secondo grado (nel 2017 e nel 2020) a vent’anni di reclusione per il reato di “strage contro la pubblica incolumità,” previsto dall’articolo 422 del codice penale. Mentre ha rivendicato il ferimento di Adinolfi, ha sempre negato ogni responsabilità per gli ordigni di Fossano. A luglio la Cassazione, su richiesta del procuratore generale, ha riqualificato il reato: non più “strage contro l’incolumità pubblica” ma “strage politica” in base all’articolo 285 del codice penale, che prevede l’ergastolo anche in assenza di vittime o danni. Se la pena fosse rideterminata in questo senso, Cospito rischierebbe l’ergastolo ostativo. Nel dicembre del 2022, tuttavia, la Corte d’assise d’appello di Torino - a cui sono stati rinviati gli atti - ha deciso di sollevare una questione di legittimità costituzionale, ravvisando la possibilità che a Cospito possa essere riconosciuta l’attenuante della “lieve entità” dei fatti. Da sottolineare che a seguito delle varie condanne l’anarchico viene trasferito nei reparti alta sicurezza “As2” delle carceri di Ferrara e Terni, che prevedono diverse limitazioni ma salvaguardano alcuni diritti, permettendo ad esempio ai detenuti di scrivere verso l’esterno. L’uomo aveva così continuato a mandare testi a pubblicazioni di area anarchica. Questo per molto tempo, fino a quando - sotto indicazione delle autorità giudiziarie - il ministero precedente ha predisposto il 41 bis. Chi scrive è ben conscio che si tratta di una “patata bollente”, frutto della deresponsabilizzazione del potere giudiziario e che scarica tutto su quello politico. Ma il ministro Nordio, indubbiamente sensibile al tema penitenziario e alle evidenti storture del sistema giudiziario, può prendere coraggio e revocare il 41 bis. Nessuno, nemmeno il Movimento 5stelle, avrà il coraggio di criticare questa eventuale scelta. Cospito sta morendo. Non si tratta di scarcerarlo, ma recluderlo nella sezione di alta sicurezza come da anni vi era già ristretto. Altro regime differenziato, e certamente non “tenero” come il regime medio. Il 41 bis è già al limite della costituzione e in un Paese civile andrebbe abolito. Però viviamo in uno Stato che si fonda sulle dietrologie e sappiamo quanto il teorema trattativa sia diventata una spada di Damocle sopra la testa di qualsiasi governo. Il potere politico è soggiogato da questa narrazione e passeranno decenni quando finalmente ritornerà il lume della ragione. Per ora, si possono fare dei piccoli, ma grandi gesti. Cospito, il quale fortunatamente non ha nulla a che fare con la criminalità organizzata, può essere salvato. Paradossalmente, nel contempo si “salva” anche il 41 bis stesso. Negli ultimi anni alcuni aspetti del carcere duro sono stati censurati dalla Corte Costituzionale e da organismi internazionali come la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) e il Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt). Ancora un altro abuso e la tenuta del carcere duro cadrà definitivamente. Ma in questo caso l’abuso è quello di portare in fin di vita un essere umano. Caro Papa, intervenga per Cospito. Con lui morirebbe la nostra dignità di Luigi Manconi La Stampa, 27 gennaio 2023 L’appello al Pontefice: è un uomo non innocente che soffre, il 41bis umilia i detenuti. La mancanza di contatti con altri esseri umani aumenta la tendenza al suicidio. Caro Papa Francesco, vorrei parlarle di un uomo che soffre. Un uomo che non ho mai incontrato in vita mia e di cui conosco poco, ma di cui posso immaginare e quasi avvertire - tangibilmente - i patimenti, perché so dove egli si trova, come siano i suoi giorni e quale sia l’oppressione fisica, psichica e mentale cui è sottoposto. Sono milioni, nel mondo, gli esseri umani che vivono il dolore più crudele, ma poi sono i nomi e i tratti del volto a farci sentire tutto il peso di ogni singola sofferenza. L’uomo di cui le parlo si chiama Alfredo Cospito. Per i parametri convenzionali, che sono fatalmente anche i miei, non è un innocente, ha commesso gravi reati e per questi ha subito condanne severe. Ora quest’uomo è in fin di vita, perché ha deciso di reagire a quella che considera una inaudita ingiustizia, mettendo a rischio la propria vita e sottoponendo il proprio corpo a un durissimo digiuno. Anche io considero una intollerabile iniquità la sorte alla quale sembra destinato, pure se è stato egli stesso ad avviarvisi intraprendendo lo sciopero della fame. Cospito è al centesimo giorno della sua protesta. Ha perso oltre quarantadue chili e - come mi ha detto il suo medico di fiducia, la dottoressa Angelica Milia, - “si sta auto-digerendo, in quanto non ricevendo più introito proteico dall’esterno, lo sta ricavando dal suo corpo, in particolare dal suo apparato muscolare”. Si deve evitare che quella morte sopraggiunga perché, se così avvenisse, oltre a sopprimere una vita umana, ciò significherebbe confermare una concezione del sistema penale che contraddice i principali fondamenti della nostra civiltà giuridica. E che nega quella che è stata, negli ultimi decenni, la più intelligente elaborazione sulle categorie di pena e di carcere, per la quale il contributo del Magistero, suo e del suo predecessore, è stato determinante. Nel 2007, Joseph Ratzinger affermò: “Quando le condizioni delle prigioni non tendono al processo di riconquista del senso della dignità, con i doveri a essa correlati, le istituzioni mancano di perseguire uno dei loro fini essenziali”. Non penso in alcun modo che spetti a un’autorità religiosa giudicare sotto il profilo giuridico e normativo le leggi di uno Stato sovrano e laico, come è l’Italia, ma quella stessa autorità religiosa può valutare se un regime carcerario “tenda al processo di riconquista del senso della dignità”. Ora, Alfredo Cospito si trova sottoposto, unitamente ad altri 748 reclusi (di cui 13 donne) a una forma di detenzione differenziata che umilia - in molte circostanze e per molte misure adottate - quella stessa dignità. Caro Papa Francesco, tra le sue riflessioni, trovo quelle che seguono e che interessano le ragioni per le quali mi sono permesso di rivolgermi a lei: “Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti”, il regime detentivo differenziato ha come sua principale caratteristica l’isolamento esterno. Ancora, “la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”. Ecco, penso che quanto appena descritto non sia troppo diverso dall’attuale quadro clinico di Alfredo Cospito. Per questo ritengo che una sua parola possa essere utile affinché la vicenda di quest’uomo, oggi ridotto alla “nuda vita”, non cada nell’oblio. Con fiducia e speranza. Perché le condizioni detentive di Matteo Messina Denaro riguardano anche noi di Marco Beltrandi Il Riformista, 27 gennaio 2023 Nelle liberal-democrazie, meglio, in tante di esse, si condanna la pena di morte. Sono tante le ragioni: relative al Diritto e ai Diritti, al rispetto della vita umana, alla certezza di una pena che non può essere una condanna senza fine, possibilità di ravvedimento, di crescita, persino di espiazione, di una “nuova vita”. Anche in caso di colpevolezza, in cui il giudicato rifletta una verità storica. Perché sappiamo, sull’esempio di uno dei Paesi più trasparenti, gli USA, che ancora la applicano in alcuni Stati, quante persone giustiziate sarebbero state negli anni scagionate, se ancora in vita. È difficile pensare che Matteo Messina Denaro possa essere considerato “vittima” di un cumulo di errori giudiziari, vista la mole di sentenze definitive e di delitti che ha determinato o a cui ha collaborato secondo le autorità competenti. Ma proprio questo rende la sorte di Messina Denaro della massima importanza per ciascun di noi. Soprattutto per due ragioni. La prima: se persino uno dei “Caini” per eccellenza vedesse i propri diritti e la propria vita rispettati, allora lo sarebbero anche quelli di tutte le per-* sone detenute. E, quindi, per questa via, avremo maggiori garanzie anche per i diritti, le vite e la sicurezza di tutta la società, anche quella non ristretta in istituzioni totalitarie. Ma l’altra ragione è forse ancora più importante. Messina Denaro non può non sapere tante cose forse neppure immaginate dalla pubblica opinione, su fatti del nostro Paese e forse non solo. È sicuramente stato testimone di fatti importanti. Conosce complicità. Conosce colpevoli, ma pure innocenti. Potrebbe fare luce su tanti accadimenti. Ma noi già sappiamo che con ogni probabilità Messina Denaro finirà sepolto nei meandri più inaccessibili del 41 bis; quindi, per lui nessuna possibilità di riabilitazione sarà possibile, anche a prescindere dall’eventuale alea dell’ergastolo ostativo che purtroppo il Governo non ha abolito per reati di mafia e terrorismo malgrado la pronuncia della Consulta del 15 aprile 2021 che valeva, e non poteva essere diversamente, per tutti i reati. Sarà sottoposto a un regime carcerario duro e afflittivo dove subirà una accelerazione del decorso delle sue gravi patologie. Perché questo comporta il 41 bis. Già per i detenuti “comuni” le cure mediche e psicologiche sono un miraggio sovente lontano. E abbiamo anche il drammatico precedente di Bernardo Provenzano, tenuto in 41 bis invalido e di fatto incapace di intendere e volere, fino alla morte. Una pena disumana. Non giustizia, ma l’opposto: vendetta pura e semplice. O il silenziamento di un possibile testimone di eventi scomodi o compromettenti. Come accadde, per fare un esempio, a Saddam Hussein che fu catturato, processato e giustiziato a gran velocità alla fine del 2006. Marco Pannella tentò di salvarlo - e con lui il “diritto alla conoscenza” - con la campagna “Nessuno tocchi Saddam” e uno sciopero della sete drammatico che lo portò alla soglia della dialisi. E lo fece perché aveva un valore per i “Caini ignoti”, per qualsiasi altro detenuto e per qualsiasi altro cittadino. Persino per la nostra sicurezza, per e grazie al “diritto a conoscere”. Le condizioni di salute, di cura e di detenzione di Matteo Messina Denaro diventeranno emblematiche, e potrebbero suscitare una vera presa di coscienza della realtà del carcere, del suo significato costituzionale tradito, del diritto alla dignità, alla salute, e al reinserimento di tutte le persone detenute. E anche la conoscenza della giustizia in Italia, delle tante sue necessità di riforme strutturali. Proprio negli scorsi giorni il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha illustrato in Parlamento un ambizioso piano di riforme, ma per realizzarle serve una opinione pubblica informata. Questo richiederebbe che si potesse dibattere sui media principali dei problemi di giustizia, carceri, e delle pene, così come delle proposte e soluzioni radicali di riforma. Cosa da sempre negata, vietata. Anche e soprattutto sulle reti del servizio pubblico radiotelevisivo esercitato in condizioni di monopolio dalla RAI. Una RAI che resiste persino alla condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 31 agosto 2021 nei confronti dello Stato italiano per tanti anni di informazione non completa, legale e pluralista nei talk show. Per riformare una qualsiasi cosa serve che tutti coloro che possono portare contributi possano far conoscere le loro opinioni e proposte alla pubblica opinione. Mentre, anche in occasione dell’arresto di Messina Denaro, abbiamo unicamente la sfilata televisiva di chi è per mantenere lo stato attuale inaccettabile delle cose, leggi d’emergenza e regimi speciali. Hanno spazio solo, direbbe Sciascia, i “professionisti dell’antimafia”, magistrati e opinionisti giustizialisti. I garantisti, o meglio i riformatori, mai. Anno giudiziario, Curzio: lento ma progressivo miglioramento della situazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2023 “I dati confermano il quadro in chiaroscuro descritto nelle precedenti relazioni. Molte delle valutazioni fatte un anno fa devono essere riproposte. Si assiste ad un lento ma progressivo miglioramento della situazione”. “L’analisi dei dati sull’amministrazione della giustizia in Italia nell’anno appena trascorso conferma il quadro in chiaroscuro già descritto nelle precedenti relazioni. Molte delle valutazioni fatte un anno fa devono essere riproposte e delineano il consolidarsi di alcune tendenze. Si assiste ad un lento ma progressivo miglioramento della situazione”. Lo ha detto questa mattina il primo presidente della Corte di cassazione, Pietro Curzio, nel corso della Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e delle più alte cariche dello Stato. “Continua - ha proseguito Curzio - il processo di riduzione del contenzioso, tanto civile che penale. Il numero dei processi civili pendenti al 30 giugno 2022 è di 2.881.886 unità, con una decrescita del 7,2% rispetto al 2021. Quello dei processi penali è di 2.405.275 unità, in questo caso la decrescita è del 4,5%. Il fatto importante - sottolinea Curzio - è che la riduzione delle pendenze è dovuta al saldo positivo tra sopravvenienze e definizioni dei giudizi: tanto nel civile che nel penale si è deciso un numero di cause superiore a quello delle sopravvenute. Si sta dunque lentamente ma progressivamente riducendo l’arretrato”. Primi passi su riduzione tempi giustizia chiesti da Pnrr - “Il dato sui tempi di decisione ha sempre costituito il punto più debole del sistema italiano, il motivo per cui numerose volte siamo stati condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. È questa la ragione per cui il PNRR ha assunto la riduzione del disposition time come obiettivo primario fissando la meta, da raggiungere entro il 2026, di una riduzione del 40% per il civile e del 25% per il penale rispetto alla situazione del 2019 (c.d. baseline)”, ha proseguito Curzio. “Nel 2022 - ha aggiunto - sono stati fatti i primi passi su questa strada, impostando un cammino che ha già dato i suoi primi frutti. Nel civile i tempi di decisione dell’anno 2021/2022 sono stati ridotti rispetto al 2020/2021 del 8,6% nelle Corti d’appello, del 6,5% nei Tribunali, del 5% dai Giudici di pace e dell’1,9% nei Tribunali per i minorenni. Per il penale la riduzione è stata del 14,7% nelle Corti d’appello, 9,4% nei Tribunali, 0,9% nelle Procure della Repubblica e del 7,6% per i Giudici di pace. Interventi su riforme Cartabia causa di criticità - “Non spetta a noi dare giudizi sulle scelte di politica legislativa che il Parlamento ed il Governo hanno operato. Alla giurisdizione spetta interpretare ed applicare le leggi. L’applicazione delle nuove norme - ha spiegato il primo presidente della Corte di cassazione - è come sempre la fase più critica e delicata. In questo caso poi, il ventaglio delle riforme è amplissimo ed il programma attuativo originariamente fissato dal legislatore è stato da ultimo modificato, posticipando alcune parti ed anticipandone altre, il che crea un motivo aggiuntivo di criticità perché disarticola la programmazione che i nostri uffici si erano dati”. Arretrato ridotto in modo corposo - “Negli ultimi due anni l’arretrato è stato ridotto in modo corposo. Nel civile all’inizio del 2021 erano pendenti 120.473 processi. Abbiamo chiuso il 2022 portandoli a 104.872. Quindi, 15.601 in meno. Questo miglioramento è derivato soprattutto dal numero delle decisioni: nel 2021 più di 40.000, quest’anno più di 36.000. Sono livelli mai raggiunti nei cento anni di vita della Cassazione civile. Nel penale, all’inizio del 2021 i procedimenti pendenti erano 24.478. Abbiamo chiuso il 2022 portando questo numero a 18.323. La differenza in meno è di 6.155 processi. Anche nel penale il numero delle decisioni è cresciuto: nel 2021 sono state 47.040, nel 2022 si è superato il livello di 50.000 (precisamente 50.775)”. Su durata processi risultati positivi - “Risultati molto positivi - ha proseguito Curzio - sono stati conseguiti anche con riferimento alla durata dei processi. L’Unione europea chiede al sistema giustizia italiano di ridurre i tempi di decisione entro il 2026 del 40% nel civile e del 25% nel penale assumendo come base di partenza i dati del 2019 (baseline). Come è noto, il criterio di calcolo europeo dei tempi processuali è costituito dal disposition time, il cui target 2026 per la Corte (risultato da raggiungere in quella data) nel civile è di 976 giorni, rispetto ad un baseline 2019 di 1302 gg. È un risultato che possiamo raggiungere: a fine 2022 siamo giunti a 1063 gg, riducendolo di 239 gg, bisogna sino al 2026 ridurlo di ulteriori 87 giorni. È una meta sicuramente raggiungibile nei prossimi tre anni, probabilmente anche prima. E possiamo anche superarla. La situazione del penale è ancora più favorevole perché il target è stato già raggiunto e superato. Infatti, la meta è 166 gg, mentre siamo giunti a 132 giorni. Qui si tratta di amministrare saggiamente l’importante risultato raggiunto”. “Non si fanno processi alla storia”. La lezione del Pg Salvato di Valentina Stella Il Dubbio, 27 gennaio 2023 In scena oggi, come ogni anno, l’inaugurazione dell’anno giudiziario: la prima del ministro Nordio e pure del nuovo Consiglio superiore della magistratura post scandalo Palamara, rappresentato dal neo eletto vice presidente, avvocato Fabio Pinelli. Assente la premier Giorgia Meloni che ha mandato il sottosegretario Alfredo Mantovano; così pure il presidente del Senato La Russa impegnato in Aula con la Giornata della memoria, e sostituito dalla vice presidente dem Anna Rossomando. In prima fila il Capo dello Stato e vertice del Csm Sergio Mattarella. La relazione di Curzio - Tra i concetti più importanti espressi dal primo presidente di Cassazione Pietro Curzio c’è sicuramente il seguente: “Come si è autorevolmente sostenuto in sede dottrinale, e di recente anche in sede istituzionale, l’area dei reati dovrebbe essere concentrata su ciò che effettivamente richiede l’intervento della sanzione penale, evitando proliferazioni delle fattispecie, spesso affidate a definizioni vaghe. Ciò a fini di garanzia dei cittadini, ma anche per una maggiore efficacia dell’intervento repressivo laddove necessario, evitando dispersioni di impegno e risorse”. Dunque muoversi verso un diritto penale minimo per non soffocare la macchina giudiziaria, promuovere tassatività e determinatezza dei reati in molti settori, depenalizzare. Curzio stigmatizza il fatto che “oggi la legge è molto di più, si è decodificata, è dispersa in un mare di normative speciali, disordinate, alluvionali, spesso collocate in provvedimenti che contengono previsioni sui temi più disparati. L’ordinamento giuridico ha assunto in molti tratti le sembianze di un labirinto. La tecnica legislativa ha subito un’involuzione, il ritmo legislativo è divenuto incalzante, spesso spaesante”. Nel nostro Paese infatti siamo abituati a dar vita ad una nuova legge per ogni vera o presunta emergenza: vedasi il falso problema dei rave party. Per il magistrato i problemi, “che segnano profondamente la nostra società, solo in parte possono essere affrontati con una risposta di carattere penale. Necessitano di interventi di più ampio respiro. Persino la criminalità mafiosa non può essere contrastata solo su questo piano, perché si rafforza quando e dove le istituzioni non svolgono il loro ruolo di tutela dei diritti e di mediazione e regolazione dei conflitti, lasciando spazio alla “supplenza criminale”. Dunque meglio prevenire che mettere in campo un diritto penale del nemico. I dati - Secondo Curzio, “si assiste ad un lento ma progressivo miglioramento della situazione. Continua il processo di riduzione del contenzioso, tanto civile che penale. Il numero dei processi civili pendenti al 30 giugno 2022 è di 2.881.886 unità, con una decrescita del 7,2% rispetto al 2021. Quello dei processi penali è di 2.405.275 unità, in questo caso la decrescita è del 4,5%”. Conseguenze delle riforme - Con riguardo all’istituto della improcedibilità, “non vengono segnalate significative applicazioni processuali, ma alcune Corti di appello valutano con preoccupazione le ricadute sulla complessiva organizzazione dei ruoli. Viene segnalato che l’istituto in parola ha di fatto determinato l’introduzione di un’ipotesi di priorità processuale di trattazione, che va ad aggiungersi a quelle preesistenti attinenti al merito e alle relative tipologie dei reati”. Ciò “determina la necessità di una revisione del sistema tabellare delle priorità, affinché vengano soddisfatte contemporaneamente le esigenze di limitare i casi di prescrizione dei reati commessi prima del 1° gennaio 2020; di evitare che abbia luogo l’improcedibilità delle azioni penali promosse in relazione ai reati commessi da tale data; di ridurre il disposition time del 25% entro il 30.6.2026”. Infine, per quanto concerne la modifica che ha escluso la possibilità di accedere al rito abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo, essa ha determinato la diminuzione delle risorse umane disponibili per lo smaltimento del “pesante carico di lavoro” dei Tribunali, “almeno in quelle sedi in cui i magistrati siano chiamati sistematicamente a svolgere anche il ruolo di componenti togati delle Corti di assise ivi operanti”. La relazione di Salvato - Su una simile, in parte, scia culturale si è mosso il procuratore generale di Cassazione Luigi Salvato: “Volgendo l’attenzione al diritto penale, va ribadito che è questo il luogo eccezionale della violazione di un precetto tipico, dovendo la relativa sanzione essere riservata ai casi di grave lesione di interessi costituzionalmente rilevanti. Compito della giustizia penale è giudicare fatti, non processare la storia”. Tema questa affrontato ultimamente dalle pagine di questo giornale con gli interventi di firme importanti come Spangher, Fiandaca, Cisterna, Barbano, Roppo, criticando la funzione del processo come strumento di lotta. Salvato ha poi ricordato che “il pubblico ministero costituisce un “organo di giustizia” che nella dialettica del processo riveste il ruolo formale di parte, ma con il compito di cooperare con il giudice in vista dell’attuazione del diritto, a garanzia dei valori di legalità. Tanto dà ragione della sua collocazione ordinamentale, perché deve alimentarsi della cultura della giurisdizione, che vuol dire altresì saper misurare l’esito dell’azione penale, come rimarcato dalla recente riforma”. Dunque il pm, anche alla luce della recente riforma Cartabia, deve sempre più porsi nell’ottica di esercitare l’azione penale e chiedere un giudizio solo laddove ci sia una ragionevole previsione di condanna, deve appropriarsi pertanto della cultura del giudice e badare all’esito sotto il profilo della prognosi, non incaponirsi in inchieste che porteranno ad un nulla di fatto, ingolfando solo gli uffici giudiziari e rovinando le vite degli innocenti. Il procuratore generale poi attacca anche il ruolo dell’avvocato, quale difensore dei mafiosi. Parlando infatti di Cosa nostra agrigentina scrive: “La strumentalizzazione delle prerogative connesse alla professione di avvocato ha consentito di creare un canale di comunicazione con esponenti apicali di Cosa nostra dei territori di Agrigento, Trapani e Caltanissetta, sottoposti allo speciale regime detentivo di cui all’art. 41-bis ord. pen., così consentendo loro, dopo anni di isolamento, di ricevere e inviare messaggi da e verso i sodali in libertà”. Una espressione alquanto grave: c’è da chiedersi se ci siano sentenze definitive nei confronti di questi avvocati, presunti fiancheggiatori, quante siano. E se questa generalizzazione giovi al dialogo tra gli attori della giustizia. Giustizia: Masi (Cnf), bilancio negativo, avvocati ai margini di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2023 “L’inaugurazione dell’anno giudiziario è l’occasione di bilanci e di valutazione, non solo della produttività ma anche dell’effettività della Giustizia, nella sua funzione essenziale, quella a tutela dei cittadini. Ebbene, il bilancio e la sua valutazione, purtroppo, non possono essere che negativi, e quel che più preoccupa, o sarebbe meglio dire angoscia, è la cupa prospettiva del nuovo anno giudiziario che oggi inauguriamo”. Lo ha detto la Presidente del Consiglio Nazionale forense Maria Masi intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Masi ha poi commentato negativamente l’anticipo della entrata in vigore riforma civile. “Il difficile coordinamento - ha detto - delle disposizioni contenute nella legge di bilancio e nel decreto milleproroghe, l’anticipazione di molte (troppe) norme relative nello specifico al processo di primo grado e a quello di persone, famiglia e minori, in una alla delicata questione dei termini processuali, alla loro natura, rende il quadro attuale frammentario, confuso e incerto, incompatibile con le esigenze di garanzia e certezza, necessarie, anche e soprattutto, in questa fase di prima applicazione”. Nel civile, dunque, per Masi un “rimedio immediato” è ripristinare l’originaria entrata in vigore, “almeno, di quelle norme che rischiano di peggiorare sensibilmente le condizioni già precarie del sistema, anche dal punto di vista logistico e strumentale e intanto, mettere mano ai correttivi, necessari, per evitare il fallimento delle riforme”. Contestualmente, prosegue la Presidente del Consiglio nazionale forense, si deve intervenire “sugli aspetti organizzativi per eliminare quelle che sono state definite ‘le crepe che non si vedono’, crepe che minacciano però il crollo dell’edificio e dell’intero sistema. Non è assolutamente concepibile che a risorse invariate, non solo nei numeri ma anche nella qualità, si possano attuare le riforme approvate”. “Oggi - ha proseguito - e non più a causa dell’emergenza sanitaria, gli Avvocati (non siamo più neppure tanti) e quindi i cittadini, cui questa Cerimonia è rivolta, poiché la Giustizia è amministrata in nome del popolo italiano, sono fuori dai tribunali e dalle sedi di giustizia e non solo fisicamente. Sono, siamo fuori perché i nuovi processi, la c.d. “nuova Giustizia” ci vede ai margini di un sistema, funzionalmente e strutturalmente inadeguato, compresso in formalismi che rischiano di far prevalere lo sbarramento alla domanda di giustizia, la statistica al diritto dovere di difesa. È avvilente dover essere costretti a comprimere il diritto di essere difesi in griglie di valutazioni, schemi, atti e breviari”. Separazione tra operatori di giustizia - “La Giustizia continuerà a non funzionare o a funzionare male se, in attesa della annunciata separazione delle carriere, si continuerà ad alimentare la separazione tra loro degli operatori di giustizia: Giudici e Avvocati sono oramai distanti, lontani (anche le istanze di conferimento e colloquio accolte sono oramai rarissime). Avvocati e Cancellieri separati al punto che un secondo accesso alle cancellerie potrebbe essere segnalato come molesto”. Digitalizzazione, riforme, ripristino originaria entrata in vigore - “La digitalizzazione, ad esempio, è una scommessa su cui ha puntato anche l’Avvocatura, facendosi carico della formazione, della “sperimentazione” dei protocolli, nel civile dalla prima ora e nel penale poi, e soprattutto dei rischi a suo esclusivo carico. Oggi rappresenta premessa e fine dell’azione forse più importante per l’attuazione del PNRR in tema di giustizia e delle riforme stesse. Difficile, allora, comprendere la scelta operata, con la legge di bilancio, di ridurre i fondi e ridimensionare i due programmi (per il civile e per il penale) destinati alla digitalizzazione e agli uffici giudiziari”. Coinvolgimento avvocati nell’organizzazione uffici giudiziari - Torna poi uno dei temi forti dell’avvocatura: “si cominci a realizzare - ha detto Masi - quello che, seppur in maniera embrionale, la riforma dell’ordinamento giudiziario ha previsto come opportuno, ovvero lo stabile e funzionale coinvolgimento dell’Avvocatura, nell’organizzazione delle attività degli uffici giudiziari e quello che il Ministro Nordio ha più volte richiamato, come necessario, ovvero il coinvolgimento effettivo di magistratura e avvocatura nella discussione ed elaborazione delle riforme”. Carceri - La Giustizia, ha concluso la Presidente Masi - è certamente assente nelle carceri “dove qualità e dimensione degli spazi della pena violano, quotidianamente, offendendola, la dignità delle persone detenute”. I numeri (e le preoccupazioni) sullo stato della giustizia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 27 gennaio 2023 Occorre porre rapidamente rimedio alle principali disfunzioni. E l’ordine giudiziario non sarà veramente indipendente finché occuperà i vertici del ministero, perché indipendenza comporta separatezza dal potere esecutivo. Se i problemi della giustizia continuano ad essere trattati come ai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini (e dei Neri e dei Bianchi), non vi sono vie di uscita. Vediamo quali sono i problemi, uno per uno, e quale giudizio dare sulla situazione e sulle proposte. 1) Lo stato della giustizia. Al termine del terzo trimestre dell’anno scorso, erano pendenti complessivamente 4 milioni e 400 mila cause civili e penali. La situazione dell’arretrato è migliorata nell’ultimo decennio, ma è egualmente grave: è da maglia nera nell’area del Consiglio d’Europa, secondo i dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia. Perché un giudizio di primo grado, civile o penale, venga concluso è necessario, in media, un tempo tre volte superiore a quello europeo; in appello il tempo è sei volte superiore per un giudizio civile e dieci volte superiore per un giudizio penale; in Cassazione è nove volte superiore per un giudizio civile e due volte superiore per un giudizio penale. Se questi sono i dati, si può dire che la giustizia non abbia bisogno di una riforma profonda? 2) L’opera della ministra Marta Cartabia. Ha avviato e realizzato la creazione dell’ufficio per il processo, ha avviato, con due apposite deleghe, seguite dai decreti delegati, la riforma dei processi civili e penali, ha affrontato la questione della separazione delle carriere, delle porte girevoli tra politica e magistratura, dell’ordinamento giudiziario e dell’elezione del Csm. Si è discusso a lungo, animatamente e con ingiustificato allarmismo, nei giorni scorsi, della questione dell’ampliamento dei processi a querela di parte per i reati minori. E si è rilevato che non dovevano esservi inclusi i reati contro la persona e il patrimonio, quando aggravati dal metodo mafioso (un problema, peraltro, che già si poneva per qualsiasi reato procedibile a querela da quando esiste l’aggravante mafiosa, cioè dagli anni Novanta). Il governo in carica ha preparato un correttivo, esteso a un altro problema che addirittura esiste dal 1930 e che riguarda tutti reati procedibili a querela: non si può eseguire un arresto in flagranza se è assente o irreperibile la vittima e non può quindi essere presentata una querela. Si può negare che mai era stato fatto tanto, nella direzione giusta, in così poco tempo, e che il giudizio positivo sull’intero disegno di riforma - assai esteso - non può esser diminuito dalla correzione operata, limitata ad aspetti molto circoscritti e peraltro prevista dalla stessa legge di delega, che dava al governo il potere di correggere i decreti delegati? 3) La disciplina delle intercettazioni. I dati del Ministero della Giustizia dicono che nel 2021 sono state 95 mila, tre volte quelle che si fanno in Francia e più di trenta volte quelle che si fanno nel Regno Unito, due Paesi che hanno ora più di 8 milioni di abitanti rispetto all’Italia (ma meno infiltrazioni mafiose di quelle del nostro Paese). Il costo annuale, in Italia, è di 200 milioni, e ogni Procura faceva fino a ieri per conto suo, tanto che un decreto interministeriale del 6 ottobre dell’anno scorso ha dovuto definire in maniera uniforme prestazioni, obblighi dei fornitori, garanzie di durata, comunicazioni amministrative, procedure di fatturazione, controlli e monitoraggio. Sulle intercettazioni la questione è se debbano essere uno strumento generale o (come oggi avviene) limitato a taluni reati particolarmente gravi; se possano essere estese a procedimenti penali o persone diverse da quelle per cui le intercettazioni sono autorizzate dal giudice; se debbano coinvolgere anche i reati connessi; se e in quali limiti debbano essere rese pubbliche. Alcuni limiti sono stati disposti due anni fa con la riforma del ministro Orlando, ma sembrano insufficienti. Lo dimostra la pubblicità data a una conversazione intercettata in Veneto qualche giorno fa, tra persone non indagate. Come si può negare che il rispetto della libertà e della vita privata delle persone richieda norme più stringenti, limitate strettamente a particolari reati, alle sole persone indagate e con rigido rispetto della riservatezza, come dispone espressamente anche la Costituzione? Tanto più che le intercettazioni non possono esser considerate mezzo esclusivo di prova e che la pubblicità che in modi diversi finiscono per avere inquina il dibattito pubblico e si presta ad usi politici di parte. 4) La giustizia nello spazio pubblico. Rispetto all’immagine tradizionale del magistrato appartato, silenzioso, che parla con le sentenze, rispettato nella società, l’attuale immagine pubblica del magistrato (quale si evince dal comportamento di quelli più chiassosi) è molto diversa: loquace, battagliero, onnipresente, sindacalizzato, circondato da crescente sfiducia. Il pubblico ha l’impressione che la magistratura costituisca un corpo che prende parte alla politica dei partiti, quindi non imparziale: vede magistrati in servizio attivo impegnati nella preparazione delle leggi, ai vertici del corpo esecutivo della giustizia (il ministero), operanti in regioni ed enti locali con funzioni amministrative. E tutto questo mentre più di 4 milioni di controversie attendono un giudizio. Qualche volta, il magistrato-procuratore appare come un giustiziere pronto a comprimere quelle libertà di cui dovrebbe essere il difensore istituzionale. La stessa circostanza che la giustizia sia divenuta uno dei principali problemi politico-partitici segnala un’anomalia del sistema, perché dalla giustizia ci si aspetta un passo diverso rispetto a quello della politica, in quanto essa è legittimata dal diritto, non dal voto. Si ha, quindi, l’impressione che i magistrati che stanno sulla ribalta stiano facendo un danno a sé stessi, al proprio ruolo e alla categoria alla quale appartengono, perdendo autorevolezza, apparendo meno imparziali e distruggendo quell’immagine di terzietà e quel patrimonio di fiducia che la magistratura deve assolutamente conservare. 5) Che cosa è urgente fare. Se questa è la situazione della giustizia, occorre porre rapidamente rimedio alle principali disfunzioni. L’ordine giudiziario non sarà veramente indipendente finché occuperà i vertici del ministero, perché indipendenza comporta separatezza dal potere esecutivo. In secondo luogo, una giustizia che arriva in ritardo - generando nel processo penale elevati tassi di prescrizione dei reati - è necessariamente ingiusta e quindi occorre misurare la performance e aumentare la produttività, anche attraverso la digitalizzazione su cui ha puntato la recente riforma, ciò che si può fare senza interferire con la piena indipendenza. In terzo luogo, occorre creare un archivio e un osservatorio delle migliori pratiche (che vi sono e sono facilmente identificabili), perché tutti vi si ispirino. Infine, ci si dovrebbe rendere conto che magistrati combattenti, anche negli studi televisivi e sui giornali, finiscono per essere (o per essere considerati) magistrati di parte. La Costituzione si preoccupa di assicurare l’indipendenza dell’ordine giudiziario da invasioni esterne. È accaduto il contrario: l’affermarsi di magistrati combattenti, organizzati in associazioni che ritengono l’ordine giudiziario un corpo separato dotato di autogoverno, salvo partecipare all’attività legislativa e amministrativa, e quindi scavalcare la separazione dei poteri, ha finito per creare una politicizzazione endogena del corpo. Giustizia, la cura degli ermellini: meno riforme e più risorse di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 gennaio 2023 Anno giudiziario. Niente toni da battaglia nella cerimonia solenne in Cassazione eppure le ricette del ministro Nordio vengono tutte smentite. Per il primo presidente Curzio, alla sua ultima relazione, “la situazione dei processi è in lento miglioramento”. Ma “il ritmo legislativo incalzante ha fatto assumere all’ordinamento giuridico le sembianze di un labirinto”. Bisogna aver dimenticato quello che succedeva vent’anni fa esatti, in giornate come questa, per raccontare dell’inaugurazione solenne dell’anno giudiziario in Corte di Cassazione come di un momento di tensione tra magistratura e politica. Certo, il ministro Nordio, che ieri mattina ha ascoltato in prima fila la relazione del primo presidente Curzio prima di intervenire brevemente, in tre mesi ha fatto tutto il possibile per mettere in allarme le toghe. Non con fatti o proposte di legge ma con una sequenza micidiale di dichiarazioni e annunci. Eccolo però, il ministro, giurare adesso di “credere nella sacralità dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”. E farlo sotto lo sguardo del presidente Mattarella che nell’ultima settimana glielo ha ricordato quasi ogni giorno. E farlo subito prima di andare a incontrare la presidente del Consiglio che lo pregherà di stare più accorto. Così le barricate difensive del presidente Curcio sono solo quelle della ragionevolezza, quando ricorda che la situazione della giustizia - arretrati, tempi dei processi - è in lento miglioramento e il problema semmai è “il ritmo legislativo incalzante” che ha fatto assumere all’ordinamento giuridico “le sembianze di un labirinto”. Meglio quindi che il ministro pensi bene, prima di partire con altre riforme. Vent’anni esatti fa l’anno giudiziario si apriva con il procuratore generale della Cassazione che lungamente infilzava il lì presente capo del governo, Silvio Berlusconi, e i suoi propositi di stravolgimenti del codice penale a uso personale. E con i magistrati che preparavano le copie della Costituzione con le quali sfilare nei distretti per “resistere, resistere, resistere”, Nel frattempo il rito stesso è cambiato, il pg è un comprimario e il protagonista è adesso il (generalmente) più compassato primo presidente. Il (la) presidente del Consiglio non è più invitato, la cerimonia per il Covid abbreviata e sterilizzata. E così le tensioni - che c’erano l’altro ieri e torneranno domani - scivolano in secondo piano, dietro la compostezza degli abiti da cerimonia. Il ministro si contiene. Il neo eletto vicepresidente del Csm dà immediata prova della sua annunciata diplomazia: “Parleremo poco e lavoreremo tanto”, dice Fabio Pinelli. Che promette “ascolto” di tutti i consiglieri e “leale collaborazione” con i poteri dello stato. Qualcosa in più dice quando disegna l’ideale di magistrato: “Si distingua per il rigore professionale, il riserbo in tutti i comportamenti e il rispetto della dignità delle persone”. Parole che vanno quasi a braccetto con quelle del pg Luigi Salvato (verosimilmente un suo elettore nel plenum del Csm di mercoledì): “Compito della giustizia penale è giudicare fatti, non processare la storia, né influire sull’assetto politico”. Intanto ad alterare la cura con la quale Pinelli si è voluto presentare come indipendente ci prova Salvini, che pensa bene di intestarsi il colpaccio: “Lo conosco e lo stimo da anni, lavora benissimo, lo abbiamo proposto noi ed è un amico”. Pietro Curzio legge la sua ultima relazione sull’anno giudiziario: andrà in pensione ai primi di marzo. Alle sue spalle siede la presidente aggiunta, Margherita Cassano, che tra pochi giorni potrebbe diventare - lo deciderà proprio il nuovo Csm - la prima presidente donna al vertice della Cassazione. Il quadro che presenta Curzio è di “lento ma progressivo miglioramento”. C’è un contenuto calo del “contenzioso” (il carico delle cause) sia nel civile che nel penale, mentre il tempo di durata dei processi che secondo gli impegni del Pnrr dovrà diminuire del 40% nel civile e del 25% nel penale entro il 2026 si è ridotto ancora troppo poco (risultato migliore nelle corti di appello penali, dove il calo della durata è stato del 14,7%). La Cassazione può vantarsi di traguardi più alti. Nel penale, sostiene il primo presidente, è già stato raggiunto l’obiettivo di riduzione dei tempi fissato per il 2026, nel civile si raggiungerà senz’altro e potrà essere superato. Quanto ai reati, sempre molto bassi gli omicidi: trent’anni fa erano quasi duemila l’anno, nell’anno passato appena 310. I reati violenti che preoccupano, secondo Curzio, sono ancora quelli commessi in famiglia o all’interno degli affetti, vittime invariabilmente le donne, e le morti sul lavoro che anche nel 2022 sono state più di mille. Agli ospiti, e soprattutto al ministro che ha il compito costituzionale di garantire “organizzazione e funzionamento” del servizio giustizia, la relazione ricorda i buchi nelle piante organiche degli uffici giudiziari. I posti scoperti nelle cancellerie sono persino in aumento, mentre gli assunti per l’ufficio del processo sono tutti a tempo. Soprattutto, in Italia mancano quasi 1.500 magistrati. Oggi sono meno di 12 ogni 100mila abitanti laddove in Germania sono 25. È a questo che bisognerebbe pensare prima di lanciarsi in nuove modifiche dei codici, è il senso molto chiaro del discorso di Curzio. Anche perché siamo appena in un momento di applicazione di una riforma (Cartabia) “come sempre la fase più critica e delicata”. Non solo, stavolta “il programma originariamente fissato dal legislatore è stato da ultimo modificato, il che crea un motivo aggiuntivo di criticità perché disarticola la programmazione dei nostri uffici”, scrive il presidente nella relazione, criticando le prime scelte di via Arenula. Ma questo passaggio decide di non leggerlo. È stata in fondo una giornata tranquilla. Allarme sicurezza? Solo propaganda. I dati della Cassazione smentiscono Salvini e Piantedosi di Federica Olivo huffingtonpost.it, 27 gennaio 2023 Il primo presidente della Suprema corte: “Omicidi in diminuzione, negli anni 90 erano 1.900 all’anno, ora sono 300. Italia tra i Paesi più sicuri in Europa”. Restano stabili i femminicidi: “122 donne uccise nel 2022, ombra inquietante”. “Un dato cruciale” che “colloca l’Italia tra i paesi più sicuri in Europa e” a maggior ragione “nel mondo”. Bastano poche parole, pronunciate dal primo presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, e corroborate da qualche dato sulla riduzione degli omicidi, per spazzare via la narrazione di un Paese insicuro, dove i cittadini corrono un rischio costante di essere aggrediti in mezzo alla strada. E per ridimensionare i vari allarmi lanciati negli ultimi mesi da vari esponenti del governo. Matteo Salvini e Matteo Piantedosi in primis. La lista sarebbe molto lunga, ma ci limiteremo a qualche esempio. Il 6 novembre, pochi giorni dopo che il governo con il suo primo decreto aveva creato un altro reato, Salvini diceva: “L’emergenza insicurezza a Milano è degenerata ormai da tempo, nel frattempo il sindaco di sinistra Sala fa finta che vada tutto bene. Pugno duro contro delinquenza e illegalità”. Qualche tempo dopo rincarava la dose e annunciava: “Il ministro degli Interni sta lavorando a un pacchetto sicurezza soprattutto per le città, penso alla mia Milano che è a livelli di allarme”. Piantedosi, dal canto suo, annunciava in pompa magna mega operazioni di sicurezza nelle stazioni: “Servono azioni sempre più incisive per aggredire i fenomeni di criminalità che si verificano nei dintorni di queste aree urbane”. Ora, nessuno vuole dire che in Italia non vengano commessi più reati, ma i dati citati oggi in Cassazione ci dicono - o meglio, ci confermano - che i crimini più efferati sono in diminuzione. E che quelli che ancora purtroppo avvengono, per la metà non sono compiuti in strada o in contesti di criminalità organizzata, ma in contesti familiari e affettivi. Elemento molto grave - anche perché, mentre gli omicidi in generale diminuiscono, i femminicidi restano stabili - ma che ha radici molto diverse da quelle che sono le tesi della destra securitaria. Curzio, in particolare, analizza i dati delle persone uccise negli ultimi decenni: “Nel corso di tutti gli anni Novanta del 900 erano circa 1.900 ogni anno, in parte cospicua commessi da esponenti della criminalità organizzata. Si sono poi lentamente ma progressivamente ridotti sino ad attestarsi nell’ultimo lustro intorno a 300. Quest’anno se ne contano per l’esattezza 310”, spiega, citando i dati di un report della Polizia aggiornato al 9 gennaio 2023. A voler essere puntigliosi, correrebbe l’obbligo di notare che i due alti magistrati della Cassazione non si sono coordinati sui dati. Il primo presidente, infatti, cita il dato aggiornato. Il procuratore generale, Luigi Salvato - anche lui intervenuto con una relazione - cita, invece, cifre che si fermano solo a ottobre 2022. Le proporzioni sono le stesse, ma prendiamo a riferimento i dati del primo presidente, perché più aggiornati. Perché gli omicidi continuano a diminuire? “Le ragioni sono molteplici - argomenta Curzio - ma di esse merita di essere sottolineata perché attiene all’efficacia del sistema: nel corso degli ultimi trent’anni l’accertamento dell’autore del reato è passato dal 40% degli anni Novanta al 73% del 2016, percentuale che, in base alle rilevazioni in corso, tende ulteriormente a crescere”. Significa, quindi, che la giustizia funziona: che chi commette un omicidio, 7 volte su 10 viene perseguito. Una nota molto negativa riguarda, come anticipavamo, i femminicidi. Mentre gli omicidi vanno via via diminuendo, il dato dei femminicidi resta sostanzialmente stabile: “Un’ombra inquietante - spiega Curzio - rimane per il fatto che circa la metà degli omicidi sono avvenuti nell’ambito dei rapporti familiari ed affettivi e una parte molto consistente, 122 su 310, vede come vittima la donna, spesso ad opera del partner o ex partner. Il dato è ormai costante, anche se proprio nell’anno appena concluso in leggera flessione”. Un elemento, questo, che è stato rilevato anche da Salvato. Ed è alle parole del procuratore generale che si rivolge la senatrice dem Valeria Valente, già presidente della commissione d’inchiesta per il femminicidio, quando dice: “Rendere le donne libere dalla violenza è una questione strategica per la democrazia, la società e anche per l’economia del nostro Paese. E per farlo non basta la repressione: abbiamo un patrimonio legislativo adatto a questa sfida. Servono soprattutto politiche positive per promuovere il necessario cambiamento culturale, bisogna investire in modo ingente sulla formazione e la specializzazione di tutti gli operatori della giustizia per evitare la vittimizzazione secondaria di donne e minori e servono imponenti campagne di informazione e sensibilizzazione”. Il precario equilibrio tra politica e magistratura di Massimo Franco Corriere della Sera, 27 gennaio 2023 Il chiarimento tra la premier e il Guardasigilli non cancella il nervosismo all’interno della maggioranza. L’insistenza con la quale esponenti di Fratelli d’Italia sottolineano il colloquio di ieri a Palazzo Chigi tra la premier Giorgia Meloni e il Guardasigilli Carlo Nordio rischia di essere fuorviante. Si spiega che l’incontro dimostrerebbe il clima disteso nel governo; e smentirebbe le ricostruzioni strumentali dell’opposizione. Che ci sia chi ha cercato di soffiare sul fuoco dei contrasti nella maggioranza è indubbio. E l’impressione è che ieri si sia avuto un chiarimento tra Meloni e il suo ministro della Giustizia. Ma dare importanza a qualcosa che dovrebbe essere fisiologico finisce per accreditare e perfino dilatare le tensioni dei giorni scorsi. Il comunicato col quale da Palazzo Chigi si spiega la “priorità assoluta” di “dare ai cittadini una giustizia giusta e veloce” in realtà non dice molto. La sensazione è che sia stata raggiunta un’intesa sull’esigenza di trovare un equilibrio, forse nei toni più che nella sostanza. Temi come la limitazione delle intercettazioni o la separazione delle carriere tra pm e giudici sono potenzialmente incendiari. Sollevarli senza diplomatismi significa provocare la reazione di chi, nella coalizione, vorrebbe una resa dei conti con la magistratura: almeno quella accusata di essere “politicizzata”, che secondo Silvio Berlusconi ha usato strumentalmente anche la lotta alla mafia. E rianima quanti, all’opposizione, imputano al governo Meloni di volere subordinare l’ordine giudiziario alla politica. Rispetto a questi estremi, l’esecutivo cerca di evitare scontri istituzionali e di non intaccare l’indipendenza della magistratura. Su questo, due giorni fa il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha detto parole chiare davanti al nuovo Csm, del quale è presidente. La volontà di Meloni sembra quella di seguire il più possibile le indicazioni del Quirinale, pur senza rinunciare a una riforma invocata da più parti: anche a costo di scontentare chi, in particolare dentro FI, ha sostenuto le più recenti prese di posizione di Nordio. Di più: in qualche modo ha cercato di farle proprie, estremizzandole. Il tentativo, per il momento riuscito, è invece quello di ricondurre la discussione dentro confini meno conflittuali. Probabilmente, è l’unico modo per scongiurare un muro contro muroche già in passato ha prodotto non solo veleni ma immobilismo; e impedito riforme condivise della giustizia, esasperando una contrapposizione tra potere politico e giudiziario, usata dalle frange estreme dell’uno e dell’altro. Ma non sarà un percorso facile. Ieri la Lega ha presentato in Parlamento una proposta per la separazione delle carriere dei magistrati. Il tema sembra raccogliere anche il consenso del “Terzo polo” di Carlo Calenda e di Matteo Renzi. E promette di creare nuove divisioni. Meloni e il patto con il Guardasigilli per stoppare le iniziative di Lega e FI di Ilario Lombardo La Stampa, 27 gennaio 2023 Faccia a faccia disteso con il ministro dopo una settimana di polemiche sulle intercettazioni e di tensioni con i magistrati. Non c’è un cronoprogramma per la riforma ma una prima road map. Si comincia dall’abuso d’ufficio e dal piano carceri. Il cronoprogramma vero e proprio non c’è. C’è una prima mappa ideale sulla riforma della giustizia, alcuni punti fermi, qualche ragionamento più vago e qualche auspicio. Ma dopo tre ore di riunione, prima a due, e poi estese ad altri partecipanti, quello che emerge è un metodo, orientato a mantenere la tenuta politica della coalizione, a disinnescare le pressioni degli alleati di Lega e Forza Italia. L’esempio di come le cose non devono andare, secondo Giorgia Meloni, viene servito dal Carroccio. In particolare, da Giulia Bongiorno, senatrice, avvocata di Matteo Salvini, e regista per conto del partito delle materie di giustizia. È lei che annuncia di aver depositato una proposta di legge sulla separazione delle carriere proprio mentre Meloni sta incontrando il Guardasigilli Carlo Nordio a Palazzo Chigi, dopo quasi una settimana di polemiche e di distinguo che hanno lacerato la maggioranza e imbarazzato Fratelli d’Italia. Ovviamente nessuno pensa a una casualità. Anche Forza Italia ha presentato una norma simile. E, all’opposizione, il Terzo Polo non ha perso neanche ieri l’occasione per mostrarsi disponibile a un accordo. “La separazione delle carriere si farà, è nel programma - dice Meloni durante la riunione - Ma non così, senza inserirla in una riforma organica della giustizia che resta un nostro obiettivo di legislatura”. Tanto più che servono modifiche di rango costituzionale. Sono iniziative spot, secondo Meloni, utili magari a drenare un po’ di consenso per le elezioni regionali in Lombardia, dove la Lega è in sofferenza, ma che rischiano di mandare in confusione il lavoro del governo. È quello che la premier spiega anche a Nordio e al sottosegretario Andrea Delmastro, pregandoli “di coordinarsi meglio sulle dichiarazioni”. I due, l’ex pm veneto e il fedelissimo di Meloni spedito in via Arenula, si sono resi protagonisti per giorni di un duello a distanza. Per questo, la leader li incontra da soli, uno alla volta, prima di allargare il vertice a quattro anche al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Nordio calibri meglio le parole sui magistrati - e ieri lo ha fatto intervenendo all’apertura dell’anno giudiziario; Delmastro eviti di fare il controcanto al ministro: questo il senso delle raccomandazioni di Meloni. Il clima è abbastanza disteso. C’è voglia di sanare le incomprensioni e di chiarire il migliore percorso per la riforma. Il nodo delle intercettazioni viene sciolto con un compromesso che sembra dare ragione più alla posizione storica di FdI e meno a Nordio. “Non va colpito lo strumento in sé, ma l’uso distorto che se ne fa”, concordano tutti: “Vanno fermati i processi sommari sulla stampa, la gogna mediatica”. “Anche le fughe di notizie, però”, aggiunge il ministro. Nordio in Parlamento aveva proposto una stretta all’uso delle intercettazioni da parte dei pm. Delmastro lo aveva corretto, sostenendo che andava invece colpita la pubblicazione sui giornali delle trascrizioni irrilevanti. Una soluzione non c’è. La formula legislativa verrà pensata nei prossimi mesi. Sono altre, confida Meloni, le urgenze sulla giustizia. Ognuno dei partecipanti ha la sua idea. Per la premier è indispensabile “iniziare da un grande piano sulle carceri”, contro il sovraffollamento e “per affermare la certezza della pena”. La presidente del Consiglio parla di “giustizia più giusta e più vicina ai cittadini”, e così indica la necessità di un inasprimento della lotta contro “la criminalità diffusa, compresa quella che qualcuno definisce minore”. Per rendere “più veloce la giustizia” Nordio invece suggerisce di partire dall’abuso d’ufficio, dai reati contro la Pubblica amministrazione che definisce “evanescenti”, come il traffico di influenze. “La paura della firma blocca l’economia ed è un problema per la realizzazione del Pnrr”. Un concetto che il ministro ha ribadito più volte in questi mesi. E che potrebbe essere, quello sì, il primo vero mattoncino della riforma. Nordio abbassa i toni ma non arretra sulla riforma della magistratura di Giulia Merlo Il Domani, 27 gennaio 2023 Il ministro ha detto che lavorerà “alacremente” sull’attuazione della legge delega sull’ordinamento giudiziario, vale a dire sulle nuove norme che regolano la vita professionale delle toghe, approvate dal precedente governo come risposta agli scandali passati che hanno travolto il Csm. Doveva abbassare i toni e lo ha fatto come gli ha imposto la maggioranza di cui fa parte, ma il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non ha arretrato del tutto e ha mandato qualche messaggio indiretto mai chiaro alle toghe. L’occasione per farlo è stata l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, momento solenne e occasione di bilanci per il settore giustizia, in cui il guardasigilli si rivolge formalmente a tutti i soggetti della giurisdizione. Nel suo discorso, infatti, Nordio ha voluto rispedire al mittente le critiche di chi lo ha accusato di voler indebolire la magistratura, minandone l’indipendenza e l’autonomia. “Sono principi inderogabili, che hanno accompagnato tutta la mia lunga attività professionale in procura. Se non avessi creduto e non credessi nella loro sacralità, non avrei rivestito la toga, come spero di aver fatto, con dignità e onore”, ha detto con un riferimento personale che è suonato anche come una difesa delle ragioni del proprio operato da ministro. Il vero avvertimento, però, è arrivato quando ha parlato delle riforme. Ha elencato l’immissione in ruolo di nuovi magistrati, la digitalizzazione del processo grazie al Pnrr per ridurre i tempi dei giudizi e la prospettiva di una nuova giustizia di prossimità. Soprattutto, però, ha ribadito che nel 2023 lavorerà “alacremente” sull’attuazione della legge delega sull’ordinamento giudiziario, vale a dire sulle nuove norme che regolano la vita professionale delle toghe, approvate dal precedente governo come risposta agli scandali passati che hanno travolto il Csm. Nell’annunciarlo, ha citato testualmente le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un richiamo non causale quasi a voler prevenire qualsiasi futura critica - che quasi certamente arriverà dalle toghe - ricordando i desiderata del Quirinale di “proseguire nel percorso di “rivitalizzazione delle proprie radici deontologiche”, con l’auspicio di realizzare “quel profondo processo riformatore e quella rigenerazione etica e culturale”. L’apertura dell’anno giudiziario è stata anche l’occasione per la prima uscita pubblica del neo vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, il laico in quota Lega che riporta il ruolo nelle mani del centrodestra dopo trent’anni. “Parleremo poco e lavoreremo tanto. Dovranno parlare i fatti. Credo ci sia bisogno, innanzitutto, di questo”, ha detto Pinelli, ribadendo la sua volontà di confronto e ascolto e guadagnandosi così l’apprezzamento anche dell’Anm. Magistrati - L’inagurazione è stata anche occasione di bilanci sulla qualità della giurisdizione da parte del primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, che tra due settimane andrà in pensione. Ha parlato di un 2022 con “luci ed ombre” ma con un progressivo miglioramento della situazione sia nel settore civile che in quello penale: “Il numero dei processi civili pendenti al 30 giugno 2022 è di 2.881.886 unità, con una decrescita del 7,2 per cento rispetto al 2021. Quello dei processi penali è di 2.405.275 unità, in questo caso la decrescita è del 4,5 per cento. Si sta dunque lentamente ma progressivamente riducendo l’arretrato”. Ha sottolineato poi come le riforme per ridurre i tempi dei giudizi richiedono grandi sforzi organizzativi ma gli obiettivi europei del Pnrr di ridurre del 40 per cento i tempi del civile e del 25 per cento quelli del penale sono raggiungibili. Nel civile, infatti, i tempi si sono già ridotti rispetto all’anno scorso “del 8,6% nelle Corti d’appello e del 6,5 per cento nei tribunali” e nel penale “del 14,7 per cento nelle Corti d’appello e del 9,4 per cento nei tribunali”. Ha però sottolineato le carenze di personale: “A fronte di un organico di 10.558 unità risulta scoperto il 13.7 per cento dei posti, percentuale anch’essa in crescita rispetto allo scorso anno. In sostanza oggi mancano 1.458 magistrati”. Sul fronte dei reati, infine, ha sottolineato la riduzione del numero degli omicidi, 310 nel 2022, di cui però “circa la metà sono avvenuti nell’ambito dei rapporti familiari” e 122 su 310 hanno “come vittima la donna, spesso ad opera del partner o ex partner”. Altro dato preoccupante è quello degli infortuni e delle morti sul lavoro, “che anche quest’anno ha superato il livello di 1.000 casi, con l’inquietante ritmo di tre morti al giorno”. Avvocati - Voce dissonante è stata invece quella dell’avvocatura, con la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, che ha parlato di “valutazione negativa” per l’anno appena concluso. In particolare, ha criticato “l’anticipazione di molte, troppe norme relative al processo di primo grado”, con la creazione di un “quadro attuale frammentato e incerto, incompatibile con le esigenze di garanzia”. Inoltre è tornata a criticare la scelta di tenere fuori gli avvocati “dai tribunali e dalle sedi di giustizia”, con un nuovo processo che “ci vede ai margini” e che “fa prevalere lo sbarramento alla domanda di giustizia”. Masi, infatti, ha accusato un mancato ascolto dell’avvocatura in occasione delle scelte di giustizia, a partire dal l’anticipazione dell’entrata in vigore della riforma civile e avvertito che “la giustizia continuerà a non funzionare o a funzionare male se, in attesa della annunciata separazione delle carriere, si continuerà ad alimentare la separazione tra loro degli operatori di giustizia: giudici e avvocati sono oramai distanti, lontani”. Un messaggio soprattutto al ministro Nordio, che dopo l’inaugurazione ha incontrato la premier Giorgia Meloni per stabilire il cronoprogramma delle riforme, per riassorbire le crepe in maggioranza degli ultimi giorni. Carriere separate: la vera sfida ma i tempi saranno lunghi di Liana Milella La Repubblica, 27 gennaio 2023 La premier frena gli alleati sulla riforma che prevede quattro passaggi parlamentari e un possibile referendum finale. La sfida “costituzionale” sulla separazione delle carriere dei giudici è partita. Univoca, stavolta. Perché non ci sono né divisioni né contrasti, neppure nelle sfumature, nella maggioranza. La voce è coesa, le intenzioni pure. Tutti vogliono dividere per sempre i pm dai giudici. Con un appoggio che conta soprattutto nei numeri. Quello del Terzo polo dove, tra Azione e Italia viva, da Costa a Giachetti a Calenda a Boschi a Renzi, non c’è un solo deputato o senatore che non voterebbe un sì convinto per due carriere, due concorsi, due Csm. E stop con il capo dello Stato presidente pure del Csm. Un simbolo intangibile, uno scudo che da sempre ha protetto le toghe. Invece i due futuri Csm vedrebbero al vertice il primo presidente della Cassazione per i giudici, e il procuratore generale della Cassazione per i pm. Magistrati potenti, ma che certo non hanno, né potrebbero avere, l’autorevole peso del capo dello Stato. Basti ricordare le volte in cui Napolitano prima, e Mattarella poi, pur bacchettando i magistrati, ne hanno garantito la credibilità. Tutto questo potrebbe diventare solo storia. Non solo perché Forza Italia e Lega si sono appena scatenati nel depositare altrettante proposte di legge per separare le carriere sia alla Camera che al Senato, che vanno ad aggiungersi a quella dell’apripista Enrico Costa di Azione, che già una settimana dopo il voto del 25 settembre l’ha consegnata alla Camera. Una legge costituzionale che, di per sé, escude accelerazioni. Proprio come chiede Meloni. Nei frontespizi, ecco i nomi del Carroccio che contano, al Senato la leghista Erika Stefani, che segue le indicazioni della responsabile Giustizia Giulia Bongiorno. E alla Camera il suo alter ego Jacopo Morrone. Dice ora Bongiorno: “Separare le carriere è un nostro cavallo di battaglia. Sia alla Camera che al Senato siamo pronti a contribuire affinché vada in porto una separazione indispensabile per rendere una giustizia credibile, e da noi sostenuta con i referendum”. Primavera 2022, la Lega si salda con i Radicali e si butta nella raccolta di firme. Ma perde ai numeri. Ma stavolta, proprio i numeri arridono a chi coltiva l’eterno progetto di Berlusconi, stop “al pm che va col cappello in mano dal giudice”. Maggioranza schiacciante. Sia alla Camera che al Senato. Lo dice Enrico Costa che al governo chiede “il primo atto concreto e coerente con le linee programmatiche del Guardasigilli Nordio”. Lo sostiene il forzista Pietro Pittalis, avvocato, vice presidente della commissione Giustizia della Camera, che ha seguito Costa visto che la sua proposta è stata appena calendarizzata per il 2 febbraio nella commissione Affari costituzionali. Pittalis non ha dubbi: “Il Paese è con noi. Senza fare torto a nessuno, è tempo di ristabilire il giusto equilibrio tra accusa e difesa, e le condizioni per farlo, per i numeri della maggioranza e il consenso dell’opinione pubblica, ci sono”. La capogruppo del Pd a Montecitorio Debora Serracchiani minimizza: “Ancora una volta si agita un tema divisivo senza tener conto del lavoro fatto e senza nemmeno verificare gli effetti della riforma Cartabia, votata anche da partiti oggi al governo, che prevede un solo passaggio tra pm e giudice”. Pittalis la butta in politica. “Anche se si andasse al referendum siamo sicuri di vincere”. È vero che il referendum radical leghista è andato a buca, ma non c’era stato l’en plein di Meloni alle politiche. Ma non è detto che, dopo quattro votazioni, due alla Camera e due al Senato come prevede la Costituzione, si vada al referendum. Come fa notare Pierantonio Zanettin, capogruppo forzista al Senato in commissione Giustizia, non bisogna tralasciare l’ultimo comma dell’articolo 138 della Carta che esclude il referendum “se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna Camera a maggioranza di due terzi”. Certo, la coperta per la maggioranza è corta, ma con il Terzo polo una sfida simile non si può escludere. Sulle intercettazioni ora serve silenzio e “mira” chirurgica di Ennio Amodio Il Dubbio, 27 gennaio 2023 Bisognerebbe proprio fare una pausa. Smettere di discutere e strepitare sulle intercettazioni telefoniche nelle indagini penali, per almeno una settimana. E approfittare della moratoria per dare una occhiata alla Costituzione e al codice di procedura penale, leggere qualche sentenza della Cassazione e mettere in fila le diverse modifiche intervenute in materia negli ultimi dieci anni. Il dibattito che si è svolto in questi giorni nelle sedi politiche e nei talk show televisivi è davvero penoso e “tumultuario”, per usare il lessico di Cesare Beccaria. Ricorda certe scene chiassose della Commedia dell’arte in cui si improvvisa a getto continuo mandando in soffitta il buon senso. Qualcuno indossa i panni del Dottor Sottile e predica come un sacerdote della scienza processuale, senza però riuscire a nascondere di aver appreso quanto riesce a dire da un amico magistrato la sera prima. Altri recitano la parte del Burbero Moralista accendendosi di indignazione per la presunta imminente abolizione delle intercettazioni nella lotta alla mafia, senza avvedersi che una simile prospettiva ha una plausibilità uguale allo zero. Nemmeno in una Repubblica delle banane si rinuncerebbe alla captazione investigativa delle comunicazioni per combattere il crimine organizzato. È vero però che chi si è spinto fino ad ignorare il diritto pur di far salire il livello dello scontro politico può invocare l’attenuante del procurato allarme. Senza avere in mano una mappa anche provvisoria dell’itinerario riformatore, il Ministro della Giustizia ha acceso una miccia che ha fatto esplodere una guerra sulle intercettazioni. Più che la ragion, poté la sfida, si potrebbe annotare nell’eco di un verso dantesco. Perché è sembrato a tutti che il Ministro abbia voluto esternare una perentoria dichiarazione di intenti demolitori piuttosto che un invito a riflettere insieme su nuovi orizzonti di riforma. Ho lavorato per molti anni al Ministero della giustizia per scrivere con i colleghi della Commissione Pisapia le norme del codice di procedura penale vigente, ma non mi è mai capitato di vedere uno dei Guardasigilli di quel periodo, Mino Martinazzoli o Giuliano Vassalli, affacciarsi a una finestra del palazzo di via Arenula per proclamare all’universo mondo che stava per arrivare la rivoluzione copernicana della giustizia penale. E sì che era proprio vero. Se si vuol ora mettere un po’ d’ordine in quell’attività investigativa che la Cote Suprema statunitense definisce “sequestro di voce”, si deve procedere distinguendo almeno due piani. Il primo è quello che investe il problema della pubblicazione dei contenuti delle conversazioni intercettate. Qui il legislatore ha già provveduto nel 2017 vietando opportunamente di divulgare i colloqui captati che sono ritenuti dal giudice irrilevanti. Ma non basta, c’è un grave abuso che va bloccato. I pubblici ministeri, quando vogliono far patire all’indagato la gogna mediatica, infilano nella loro richiesta di custodia cautelare i passaggi più coloriti dei colloqui intercettati, per farli poi arrivare ai media attraverso la pubblicazione dell’ordinanza del gip che dispone la misura restrittiva. Bisogna quindi chiudere questa valvola di sfogo mediatico introducendo il divieto di pubblicare l’ordinanza cautelare la cui diffusione viola la presunzione di innocenza dell’indagato. Non va poi dimenticato l’abuso consistente nell’usare l’intrusione nei colloqui telefonici come una rete a strascico, da gettare nella speranza che qualcosa venga fuori. È una operazione che talvolta dura anche più di un anno e può generare il fenomeno del pubblico ministero “a sdraio”, come si dice nel gergo forense. Il magistrato attende comodamente che la polizia gli porti su un piatto d’argento qualche buon risultato esonerandosi dal fare qualsiasi indagine. Anche qui è necessario un ritocco legislativo per rendere invalicabili i confini temporali di una attività che scandaglia la vita privata di decine o centinaia di persone in violazione del dettato costituzionale. Ha perciò ragione il Ministro: le prassi abusive ci sono e vanno estirpate. Ma non si può vendere la pelle dell’orso ancor prima di aver mirato con cura per cercare di colpire le parti giuste del bersaglio. “Le intercettazioni sono violenza mediatica. Quella del ‘bavaglio’ è una lagna ipocrita” di Salvatore Merlo Il Foglio, 27 gennaio 2023 Intervista a Michele Serra: “Il problema è dei giornali che le pubblicano spacciando il vouyerismo per libertà di stampa. Noi giornalisti siamo spesso pronti a gridare alla censura, meno pronti a prendere le misure del nostro lavoro e dei nostri limiti”. Non gli piace la parola “bavaglio”, quella che alcuni giornali utilizzano per contrastare la sola idea che si possa limitare la pubblicazione delle intercettazioni. Non la condivide. “Noi giornalisti siamo una categoria che confonde spesso la libertà di stampa con l’impunità di casta”, dice. E infatti Michele Serra pensa che le intercettazioni siano state, e siano ancora, uno strumento di violenza mediatica. “Se il colpevole finisce in galera o sputtanato sui giornali, per lui quello è rischio d’impresa, lo mette nel conto. Ma se l’innocente finisce in galera o finisce sputtanato sui giornali, quello è un uomo morto. Ecco. Questo i giornali non lo capiscono. Chi fa il nostro mestiere invece dovrebbe partire da questa orrida certezza: l’innocente muore”. Così, da uomo di sinistra quale ovviamente è, Michele Serra, uno dei più importanti giornalisti del nostro paese, si chiede infine anche quale sia la ragione per la quale la “sua” sinistra stia di fatto difendendo, ancora oggi, l’abuso delle intercettazioni. Per ragioni forse strumentali. Politiche. “Dai tempi di Tangentopoli la sinistra ha sposato una specie di scorciatoia giudiziaria. Ciò che non poteva essere affrontato politicamente trovava una insperata soluzione giudiziaria. Non solo non ha funzionato (il potere, se questo era il problema, è arrogante come prima, la corruzione più vitale di prima), ma ha avuto effetti collaterali devastanti. La cultura delle garanzie, un tempo cavallo di battaglia della sinistra, è andata a pallino. E la spirale moralistica ha alimentato il populismo”. Nella sua storica rubrica su Repubblica, “l’Amaca”, recentemente Serra ha scritto che se vedesse una sua intercettazione telefonica su un giornale, un’intercettazione non di rilievo pubblico, si sentirebbe violato. Insomma gli girerebbero le scatole. Ma cos’è il “rilievo pubblico”? Qual è il famoso confine che giustificherebbe la pubblicazione di una conversazione privata, e penalmente irrilevante, su un giornale? “Bella domanda. Io ho scritto che riconosco agli inquirenti (giudici, polizia) un diritto di intrusione - chiamiamolo così - che non riconosco ai media, almeno non nella stessa misura. Il problema è che il ‘rilievo pubblico’ non è un criterio oggettivo. Cambia, e parecchio, a seconda dei punti di vista, delle opinioni personali, della politica editoriale. Esempio classico: per un giornale governativo sputtanare un politico di opposizione è sicuramente molto più ‘rilevante’. E viceversa. Esattamente per questa ragione (il rilievo pubblico è un concetto soggettivo) il dibattito è destinato a rimanere inconcluso per l’eternità, e credo che nessun aggiustamento di legge, o pronunciamento politico, basterà a trovare una regola condivisa. Resta la facoltà, per ciascun giornale e ciascun giornalista, di riflettere sul proprio mestiere e sul proprio potere. Ma mi sembra una facoltà molto inutilizzata”. Anni fa l’ex ministro Federica Guidi, non indagata, è finita sui giornali perché si lamentava del suo rapporto di coppia con il suo fidanzato (indagato e poi assolto). La frase è notissima: “Mi tratti come una sguattera del Guatemala”. Dopo qualche giorno dalla pubblicazione, sugli stessi giornali che l’avevano data, partì anche un filone di interviste a “sguattere del Guatemala” che si sentivano insultate dalla Guidi. Sembra un film comico. Ma forse è drammatico. “Beh, se sei il ministro Guidi è sicuramente drammatico. E anche se fai la colf e vieni dal Guatemala. Capisco il sottile godimento del gossip, ma non riesco a non considerare tra i diritti della persona anche il diritto al rispetto della sua vita privata”. E siamo sempre lì: rispetto della vita privata o diritto d’informare, cosa prevale? “Ovvio che se si scopre che un politico che prende voti come paladino della famiglia tradizionale, e poi nella sua vita privata frequenta i bordelli, o anima orge gay, un interesse pubblico c’è, ed è pure evidente: si tratta di smascherare un ipocrita che inquina il discorso pubblico. Ma in molti altri casi il diritto/dovere di informare c’entra come i cavoli a merenda. Si tratta solo di raggranellare qualche lettore in più, incrementare il voyeurismo di massa, accanirsi contro un avversario politico per il puro piacere di farlo. Con un’aggravante: che la lagna corporativa contro ‘il bavaglio’ approfitta comodamente di una causa nobile e nevralgica, che è la libertà di stampa, la libertà di espressione. Ci sono cronisti di mafia che rischiano la vita, e ci sono giornalisti rovinati economicamente da cause civili micidiali. Parlare solo di intercettazioni è così determinante, o piuttosto è fuorviante? Mi faccio anche un’altra domanda: che cosa attenta di più alla libertà di stampa, eventuali limiti alla pubblicazione di documenti giudiziari, oppure il gigantesco mutamento degli assetti editoriali e del modo di produzione delle ‘notizie’? Molte ‘notizie’ vengono confezionate non più per scelta redazionale ma sulla base di selezioni algoritmiche e pubblicitarie. La decisione di pubblicare qualcosa, e non qualcos’altro, è pesantemente influenzata (eufemismo) dalla dipendenza delle imprese editoriali da vari service esterni alle redazioni. Giudicate voi quanto si è parlato di intercettazioni, nelle ultime settimane, e quanto di questa stravolgente metamorfosi strutturale dell’informazione”. E allora, è evidente, c’è un problema che riguarda la categoria cui apparteniamo, quella dei giornalisti. Incapaci di riflettere su se stessi. Che lavoro facciamo? Alcuni giorni fa in un paio di articoli è comparsa questa intercettazione: un Carneade di consigliere regionale di FdI a Brescia, poiché arrabbiatissimo con Daniela Santanchè, dice una cosa del genere: “Quando morirà, perché morirà, cagherò sulla sua bara durante la cerimonia”. Forse fa ridere. Però allo stesso tempo uno può legittimamente chiedersi quale sia esattamente il rilievo pubblico di questa informazione sulle urgenze per così dire viscerali del consigliere di Brescia. “Guarda, io sono il tipico giornalista seduto”, risponde Serra. “Per dirla tutta non so nemmeno se sono ancora un giornalista. Diciamo che scrivo sui giornali, e non è la stessa cosa. Ma dopo trent’anni di parole scritte da seduto non ho dimenticato che mestiere difficile e importante sia fare il cronista, fare inchieste. Ho letto quell’articolo. Pubblicare quella frase non era un atto gratuito, serviva a rendere il clima di un durissimo regolamento di conti politico all’interno di Fratelli d’Italia. Ma ho pensato, leggendola, che sono contento di non fare più il cronista. Ogni due parole mi domanderei se è lecito scrivere quello che sto scrivendo, e sulla base di quale autorità, o di quale investitura, mi sento autorizzato a scriverlo. Credo che sarei stato un pessimo giornalista d’inchiesta. Un cronista riluttante. E’ anche per questo che nella vita ho fatto tutt’altro”. Ecco, appunto. Ti interrogheresti. Noi giornalisti non dovremmo chiederci ogni tanto che mestiere facciamo? Anche senza scomodare la deontologia. Apparteniamo a una categoria che riflette sulle grandi questioni che riguardano la nostra epoca, scriviamo dei diritti civili in Iran e dell’aborto negli Stati Uniti, del protezionismo di Biden e delle necessarie risposte europee, analizziamo il comportamento della Bce e della Cina, di Putin e di von der Leyen, invitiamo i governi a fare le riforme, indichiamo soluzioni e pericoli, poi però non siamo in grado di riflettere su noi stessi? “No, evidentemente non siamo in grado. Ci sono giornali che hanno sputtanato vite altrui in totale spensieratezza, sulla base del loro puro e semplice arbitrio, e in conclamata falsità, con sanzioni ridicole, o del tutto assenti, da parte del cosiddetto Ordine, che per statuto dovrebbe occuparsi della famosa deontologia professionale. Lo ripeto, siamo una categoria che confonde spesso la libertà di stampa con l’impunità di casta. Pronti a gridare alla censura e al bavaglio, meno pronti a prendere le misure del nostro lavoro e dei nostri limiti. Dare le notizie è un dovere e un servigio alla democrazia, accanirsi senza rispetto umano su chi finisce nei guai, perfino quando è colpevole, è una manifestazione di insensibilità. Non solo di insensibilità umana, anche di insensibilità democratica, perché inquina il discorso pubblico. Lo avvelena e lo falsifica. E’ il contrario di quanto la stampa presume di essere, e dovrebbe proprio essere: un servizio di tutela dell’opinione pubblica”. E allora Serra in realtà sembra dire che il problema non è nemmeno la legge sulle intercettazioni. Che peraltro già c’è, anche se largamente non applicata dai magistrati che dovrebbero selezionare e cancellare dai fascicoli pubblici quelle intercettazioni che non hanno rilievo penale. Non tutti lo fanno. Quindi i giornalisti pubblicano. Assai spesso senza farsi domande. “Parlando della sua categoria il giudice Woodcock, certamente non diventato celebre per esitazione garantista, ha detto una cosa sacrosanta: ci sono le leggi, ‘il resto è rimesso al senso di responsabilità degli esseri umani espressione delle istituzioni’. Questo vale anche per noi giornalisti. Accapigliarsi sulle regole può perfino essere utile, ma è del tutto inutile se manca ‘il senso di responsabilità degli esseri umani’”. Ai tempi di Cuore, la grande rivista satirica nata con l’Unità e fondata da Serra, non ci si andava mica tanto piano. “Certo che no, ma era satira. Una volta facemmo questo titolo ‘Omicidio Pecorelli, si alleggerisce la posizione di Andreotti: non era il mandante, era il killer’”. Fa ridere. “Infatti. È satira. Un altro mestiere. L’esagerazione, la provocazione... Io oggi in giro vedo giornalisti picchiatori e giornali urlatori che amano passarsela da paladini della verità, e pretendono che chiunque avanzi dubbi sui limiti dell’informazione sia un venduto al potere, o un cacasotto. E questa non è satira”. È giornalismo andato a male? “Anni fa uno di questi indefessi testimoni della ‘verità’, che non nomino perché adoro gli omissis, mi accusò di essere diventato garantista perché ‘noto renziano’. Non era nemmeno una fake, era una coglionata. Gli scrissi privatamente per farglielo notare, non mi degnò di due righe di risposta. Il fanatismo, e la violenza morale che ne consegue, non è un problema solo della politica. C’è chi crede che la verità sia più vera se viene servita come una testa mozza su un vassoio. Sono felice di non fare il suo stesso mestiere”. La teoria di Scarpinato sulla cattura di Messina Denaro demolisce procura e 41-bis di Luciano Capone Il Foglio, 27 gennaio 2023 La spiegazione “dietrologica” della cattura di Matteo Messina Denaro, frutto di una “trattativa” tra stato e mafia svelata da Baiardo, fornisce un’immagine desolante di inquirenti e carcere duro: i magistrati non si accorgono di niente e i boss all’ergastolo parlano con tutti. Per fortuna sono ipotesi campate in aria. Nulla è come appare. Roberto Scarpinato, ex magistrato ora senatore M5s, fornisce una spiegazione dietrologica - nel senso del disvelamento di ciò che “sta dietro” - dell’arresto di Matteo Messina Denaro. Non è stato un semplice blitz, ma il frutto di una “trattativa” segreta tra apparati dello stato e mafia. Sul Fatto quotidiano l’ex procuratore generale di Palermo parte con un preambolo, che è un po’ un’excusatio non petita, in cui cui scagiona gli inquirenti (“la Procura di Palermo e il Ros sono pervenuti alla cattura di Messina Denaro in esito a una indagine impeccabile”) per poi arrivare al sodo. Cos’è successo davvero? La spiegazione è nell’intervista rilasciata a Massimo Giletti di Salvatore Baiardo in cui l’amico dei fratelli Graviano, mafiosi al 41-bis, preannunciò che, parole di Scarpinato, “Messina Denaro si sarebbe fatto catturare come epilogo di una complessa e segreta trattativa la cui posta in gioco è la sua speranza di uscire dal carcere”. Ovviamente, questa ricostruzione non ha alcun senso: Baiardo disvela, in anticipo, la trattativa “segreta” e indicibile con il possibile effetto di farla saltare mettendo una pietra tombale sull’uscita di galera dei boss. In questo senso il “portavoce di Giuseppe Graviano”, così Scarpinato definisce Baiardo, avrebbe agito contro gli interessi del suo principale. Essendo la contraddizione evidente, Scarpinato elabora un’interpretazione dell’accaduto molto più sofisticata. La “trattativa” per la consegna di Messina Denaro sarebbe avvenuta, alle spalle di Graviano, tra altri boss di Cosa nostra e elementi politico-istituzionali dello stato, più o meno deviati e non meglio identificati. Ma Graviano viene saperlo e così decide di inviare un “messaggio” attraverso la tv: “Una pubblica esibizione di forza dimostrando di essere in grado di venire a conoscenza di informazioni segretissime nonostante il regime del 41-bis e di essere pronto a fare in pubblico altre rivelazioni molto più compromettenti se qualcuno dovesse pensare di non mantenere le promesse che lo riguardano personalmente”. In sostanza, il boss ricatta i due contraenti del patto, stato e mafia, che, secondo Scarpinato, hanno escluso Graviano dallo scambio per le verità che quest’ultimo avrebbe da dire su Berlusconi. “Un doppio avvertimento - scrive Scarpinato - per un verso ad altri boss stragisti che non hanno condiviso affatto le sue plateali dichiarazioni di sfida e i suoi annunci nel dibattimento ‘Ndrangheta Stragista e che potrebbero aver fatto la scelta di condurre per loro conto una trattativa segreta che è passata sulla testa di Graviano e che potrebbe sacrificarlo e, per altro verso, agli interlocutori di costoro che hanno commesso l’errore di sottovalutare le sue risorse”. La ricostruzione del senatore del M5s è un castello di ipotesi e supposizioni che si appoggiano su affermazioni apodittiche. In sostanza, non c’è una prova. E questo non è neppure un grosso problema, almeno ora che Scarpinato fa il politico e non più il magistrato. I problemi più seri emergono supponendo come vero tutto il castello di Scarpinato. Perché vorrebbe dire che le cose sono andate in questo modo. Alcuni boss stragisti di Cosa nostra, rinchiusi al 41-bis, e quindi impossibilitati comunicare data la loro pericolosità, hanno intavolato una trattativa con la politica e pezzi delle istituzioni da un lato e gli altri boss di Cosa nostra che sono in libertà dall’altro, convincendo Messina Denaro a consegnarsi in cambio di un allentamento del 41-bis. Graviano, un altro pezzo della Cupola, anch’egli rinchiuso al 41-bis, viene a sapere di questa trattativa da cui è stato escluso e, a sua volta, lo fa sapere al suo portavoce Baiardo ordinandogli di svelare l’indicibile in tv. In pratica, tutti sanno tutto e parlano con tutti. Tutti tranne la procura di Palermo e il Ros che, sempre seguendo Scarpinato, credono di aver arrestato Messina Denaro autonomamente senza rendersi conto che si è trattato del frutto di una trattativa tra stato e mafia. Ma allora gli inquirenti elogiati da Scarpinato più che dei segugi sono degli allocchi, visto che di questa trattativa mica tanto segreta se n’è accorto in anticipo persino Graviano, che è al 41-bis e a cui neppure i boss di Cosa nostra volevano farla sapere. La ricostruzione di Scarpinato, qualora fosse vera, certificherebbe la perfetta inutilità del 41-bis. Ciò che non si capisce allora, sempre seguendo la sua logica, è perché ritenga essenziale per reprimere e disarticolare la mafia non toccare questo regime carcerario che dovrebbe impedire qualsiasi contatto dei boss con l’esterno e invece è un colabrodo: consente a Cosa nostra di trattare, comandare e comunicare a piacimento, addirittura in prima serata sulla televisione nazionale. Solidarietà dei penalisti a Fiandaca: “Aggredito verbalmente a La7” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 gennaio 2023 La Giunta delle Unioni delle Camere penali ha espresso incondizionata solidarietà al professor Giovanni Fiandaca per la indecente aggressione verbale da lui subita nel corso della trasmissione “Atlantide” su La 7. “Il giornalista Saverio Lodato - si legge nel comunicato dei penalisti -, ospite della trasmissione, nel ricostruire il profilo degli intellettuali che egli considera fiancheggiatori della mafia ha inequivocabilmente fatto riferimento, pur non nominandolo, al professor Giovanni Fiandaca, citando testualmente il giudizio che egli diede della indagine del dottor Di Matteo sulla trattativa “Stato- mafia”: “una boiata pazzesca”. L’Unione delle Camere penali, prosegue nella nota sottolineando che “non meno grave è stato il silenzio non solo dell’intervistatore, ma anche del dottor Di Matteo, presente in quella trasmissione. L’aggressività verbale e la sistematica denigrazione del pensiero diverso da parte di questi professionisti dell’antimafia in servizio permanente effettivo, ha superato ogni limite di decenza, non meno della vergognosa acquiescenza dell’intervistatore”. Infine i penalisti concludono: “Il professor Giovanni Fiandaca è un giurista insigne, maestro e formatore di intere generazioni di avvocati e magistrati: dargli del fiancheggiatore della mafia offre la più nitida fotografia della povertà di pensiero di questi signori e della inattendibilità delle tesi da essi sostenuti”. Ma non sono solo gli avvocati a rivelare questi retropensieri oramai molto in voga. Durante la trasmissione “L’aria che tira” su La7 Armando Spataro, l’ex magistrato antimafia e antiterrorismo, ha criticato fortemente le modalità di comunicazione dello stesso Di Matteo e del suo ex collega, ora senatore grillino, Roberto Scarpinato. Ciò che Spataro stigmatizza è la narrazione dietrologica, priva di fatti. “Se sono cose che non si possono provare, è ebbene che magistrati ed ex magistrati si astengano dall’alimentare pulsioni inaccettabili”, ha sottolineato Spataro. Ha anche aggiunto: “Ho letto che Scarpinato parla di impedimenti che sono stati frapposti all’arresto, quando stava per avvenire, di Messina Denaro. Se lo sapeva come magistrato, mi chiedo perché non ha proceduto!”. Marche. Il 67% di chi ha scontato la pena dietro le sbarre torna a commettere reati centropagina.it, 27 gennaio 2023 Presentato il Report dell’associazione Antigone. Nei sei istituti di pena marchigiani sono detenute 864 persone, su una capienza regolamentare di 828 posti. “Il carcere, un luogo di tutti”. È questo il titolo del Report 2021-2022 con cui Antigone Marche, associazione regionale per i diritti e le garanzie del sistema penale, racconta delle sue attività negli istituti di pena, delle persone incontrate e delle situazioni di vita “dentro”. Il Report si compone di 16 pagine e contiene informazioni numeriche e dati statistici raccolti sia a livello locale che nazionale (con un sunto del rapporto nazionale 2022 di Antigone, “Il carcere visto da dentro”), ma anche alcuni racconti di vita e una panoramica delle iniziative pubbliche sviluppate. “Il Report non vuole e non può riuscire a riassumere tutto quanto l’associazione ha fatto in questo biennio, ma vuole offrire un racconto di quello che in carcere vediamo e tocchiamo con mano”, spiega la presidente di Antigone Marche Giulia Torbidoni. “Tra quelle mura vivono delle persone, persone che forse conosciamo, che fino a pochi giorni fa erano nostre vicine di casa o che sono state nostre compagne di scuola. Lì dentro potrebbe finirci davvero chiunque, perché il confine è molto spesso facilmente valicabile. È nostro interesse capire come lì dentro si viva e come se ne esca, anche in un’ottica di prevenzione, soprattutto tra i più giovani. Il carcere è, dunque, un luogo di tutti perché ci riguarda tutti”. E poi aggiunge: “Dei dati che riportiamo nel Report, uno tra i più emblematici resta per noi il tasso di recidiva, che si attesta a circa il 67% tra chi ha scontato la pena dietro le sbarre ma scende al 19% tra chi ha avuto accesso a misure alternative. Una differenza enorme che dimostra come dalle misure alternative possano arrivare maggiore efficacia nel trattamento e un calo della pressione sulle strutture detentive e che ci fa dire che è su queste e sulla ristrutturazione degli istituti esistenti, piuttosto che nella costruzione di nuovi carceri, che si deve fare leva”, continua Torbidoni. L’associazione, che porta avanti con regolarità l’attività di Osservatorio, visitando ogni anno tutti e sei gli istituti regionali (grazie alla specifica autorizzazione all’ingresso per quattro volontari rilasciata dal Ministero di Giustizia-Ufficio Dap) e pubblicando le rispettive schede post-visita al sito web www.antigone.it/osservatorio_detenzione/, nel 2022 ha aumentato il numero dei suoi Sportelli Tutela Diritti, arrivando a coprire gli istituti di Pesaro-Villa Fastiggi, di Fermo e di Ancona-Montacuto. “Significa un grande impegno nell’ascolto e nel sostegno ai detenuti, ma anche nel confronto con gli Istituti, con l’area educativa e la polizia penitenziaria, sempre con la volontà di contribuire a rendere meno dura, per tutti, la vita dentro”, conclude la presidente. Nel rapporto si evidenzia come in media vi sia una percentuale pari a 2,37 reati per detenuto. Al 31 dicembre 2008 il numero di reati per detenuto era più basso di 1,97. Dunque diminuiscono i reati in generale, diminuiscono i detenuti in termini assoluti ma aumenta il numero medio di reati per persona. Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38% era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato in precedenza 5 o più volte. Tassi di recidiva dunque alti. I numeri della detezione nelle Marche - Nelle Marche ci sono SEI istituti di pena e una Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Al 30 novembre 2022, secondo i dati del Ministero, nei sei istituti di pena c’erano 864 persone detenute su una capienza regolamentare di 828 posti. L’unica sezione femminile della regione è nell’istituto di Pesaro e ospitava 23 donne. In totale, i detenuti stranieri erano 302. Le persone in semilibertà erano 25, di cui 7 straniere. Ecco i numeri aggiornati al 30 novembre 2022: Montacuto aveva 316 presenti (di cui 120 stranieri) su una capienza di 256 posti; Barcaglione aveva 80 presenti (di cui 38 stranieri) su una capienza di 100 posti; Marino Del Tronto aveva 103 presenti (di cui 24 stranieri) su 103 posti; Fermo aveva 58 presenti (di cui 20 stranieri) su 41 posti; Fossombrone, che ha un’ala chiusa per ristrutturazione, aveva 93 presenti (di cui 2 stranieri) su 185 post,i Pesaro aveva 214 presenti (di cui 98 stranieri) su una capienza di 143 posti. Le donne erano 23. Le donne sono una minoranza in carcere, nel 2021 rappresentavano solo il 4,2% della popolazione carcerario italiana. Le Articolazioni per la tutela della salute mentale (le cosiddette Atsm) oggi attive in Italia sono concentrate in 32 istituti penitenziari e sono in tutto 34 (29 maschili, 5 femminili). Vi sono ospitati 261 uomini e 21 donne, dunque meno di 300 persone in totale. Nelle Marche, l’Atsm si trova nel carcere di Marino del Tronto. Sicilia. Totò Cuffaro: “Per gli ex detenuti strade chiuse ed ergastolo sociale” La Sicilia, 27 gennaio 2023 L’ex presidente della Regione che ha scontato una pena per favoreggiamento e rivelazione di segreto ha postato la sua riflessione sul sociale commentando le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Oggi, purtroppo, la pena è ben distante dalla funzione rieducativa di cui parla la Costituzione. Chi come me è un ex detenuto trova tutte le strade chiuse e in alcuni casi non può nemmeno utilizzare la propria laurea per rimettersi al servizio della collettività. Chi ha persino scontato per intero la pena con buona condotta subisce delle pene afflittive da scontare dopo la detenzione e volte ad impedire ogni forma di reinserimento lavorativo e sociale”. Lo ha detto l’ex governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, in un post su Facebook, esprimendo, “da ex detenuto”, “il mio sincero apprezzamento per le parole recentemente pronunciate dal Capo dello Stato quando ha ribadito che la detenzione ‘non si tramuti in alcun caso in una sorta di macchia indelebile, perché non è così, è una cicatrice che scompare, perché lo Stato ha il dovere di agevolare il reinserimento, il protagonismo nella vita sociale. Ciascuno di noi, ciascuno di voi, ha un’esperienza umana non ripetibile che può contribuire in maniera preziosa, importante nella vita di tutti. E’ persino pericoloso fare lavorare un ex detenuto che ha scontato certi reati ed ha mostrato di essere fuori dall’ambiente criminale perché al datore di lavoro potrebbero negare la certificazione antimafia - aggiunge Cuffaro, che ha scontato 5 anni in carcere per favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio - In questo modo si condanna l’ex detenuto ad una sorta di ergastolo sociale, che ricorda tanto la capitis deminutio del diritto romano”. Aggiunge Cuffaro: “Lo Stato, per quelle che sono le norme attuali, sembra dire a chi attraversa l’esperienza del carcere: “è inutile che provi a cambiare vita. Per te non c’è speranza quando sarai fuori. Puoi soltanto tornare a delinquere”. Per l’ex governatore “Quando si nega il diritto alla speranza si consegnano gli ex detenuti nuovamente alla tentazione di perdersi nell’abbraccio mortale della criminalità organizzata”. “Per questo ho apprezzato il pressante appello del presidente Mattarella che ha esortato a cambiare rotta “però non a parole”, perché questa nuova prospettiva, in linea col dettato costituzionale “va garantita nei comportamenti dell’ordinamento con i suoi interventi, le sue regole, le sue procedure, le sue iniziative, e con il comportamento sociale delle altre persone, con la speranza e la fiducia che occorre avere e sviluppare in maniera particolarmente forte”“. “L’appello del presidente della Repubblica Mattarella fatto durante la visita ai detenuti del carcere minorile di Nisida costituiscano un insegnamento elevato e profondo di cui essere particolarmente grati - conclude Cuffaro - Nella sue parole trovano concretezza i valori costituzionali sull’azione punitiva dello Stato e la funzione rieducativa della pena. Chi ha sbagliato deve assumersi le proprie responsabilità verso l’intera società e portarne il peso secondo ciò che la legge prevede. Ma il Capo dello Stato ha voluto autorevolmente richiamare come nella prospettiva costituzionale la persona rimane sempre qualcosa di più grande dell’errore che pure ha commesso e questo chiama, a sua volta, la società e le stesse Istituzioni ad altrettante responsabilità, necessarie a dare concretezza a questo primato della persona”. Pescara. Detenuto morto in carcere, i familiari presentano un esposto Il Messaggero, 27 gennaio 2023 Hanno presentato un esposto in procura i famigliari di Simone Maccarone, il 52 enne di Vasto morto nella mattinata di martedì scorso all’ospedale Santo Spirito di Pescara. L’uomo, già ricoverato in precedenza per un malore mentre era detenuto nel carcere della cittadina adriatica, è stato poi dimesso, ma una volta tornato in cella si è sentito nuovamente male. È stato immediatamente trasportato nel nosocomio pescarese, dove purtroppo è in seguito deceduto. I familiari però, sconvolti dalla morte di Simone, non riescono a darsi pace e vogliono fare chiarezza sulla precisa dinamica che ha portato al decesso del loro caro. Hanno quindi deciso di presentare un esposto presso la procura della Repubblica di Pescara richiedendo di effettuare un esame autoptico sul corpo di Simone, che a tal fine non è stato ancora tumulato. Il loro dubbio risiederebbe in particolare sui tempi e sulle modalità delle cure somministrate all’uomo nell’ospedale della cittadina adriatica. Nei giorni scorsi, fortemente preoccupati per le condizioni fisiche in cui versava Simone, avevano presentato ben sette istanze, l’ultima mercoledì scorso, ma sono state tutte rigettate. E adesso sono in attesa di ricevere la risposta della procura, che entro la giornata di oggi dovrebbe decidere se effettuare l’autopsia. Ancona. Acqua fredda e sovraffollamento: il dossier sul carcere di Montacuto di Marina Verdenelli Il Resto del Carlino, 27 gennaio 2023 Il report racconta di 316 detenuti, di cui 116 sono stranieri, per 256 posti. Il tasso di recidività è del 67%. L’impianto idraulico vetusto consente disponibilità solo per fasce orarie, celle ancora troppo piccole. Internamente è per buona parte ristrutturato ma l’impianto idraulico vetusto e la caldaia ormai datata non permettono di garantire acqua calda a tutte le ore del giorno quindi c’è disponibilità solo per fasce orarie. La struttura dispone di biblioteca e un’area verde esterna usata per gli incontri e i colloqui nella stagione mite ma le celle sono ancora troppo piccole per garantire il rispetto dello spazio per ciascun detenuto visto che ne ospita 5 alla volta. Poi c’è il problema del sovraffollamento: 316 detenuti (116 stranieri) per 256 posti disponibili. Sono alcune delle criticità e dei vantaggi che emergono per il carcere di Montacuto (aperto nel 1984) dal report sulle carceri italiane effettuato dall’associazione Antigone Marche, che si occupa dei diritti e delle garanzie del sistema penale, una associazione autorizzata dal ministero della Giustizia a visitare i penitenziari italiani (ce ne sono quasi 200) per redimere un rapporto dettagliato sulle condizioni di detenzione. L’ultimo pubblicato, il 18esimo, riguarda il biennio 2021-2022. “Il report non vuole e non può riuscire a riassumere tutto quello che l’associazione ha fatto - dice Giulia Torbidoni, presidente di Antigone - ma offre un racconto di quello che in carcere vediamo e tocchiamo con mano. Lì dentro potrebbe finirci chiunque, è nostro interesse capire come si viva e come se ne esca”. Dei dati riportati uno dei più emblematici che emerge è che il tasso di recidività è pari al 67% per chi è stato in carcere e solo il 19% per chi invece ha avuto forme alternative alla detenzione in penitenziari. Così per l’associazione è “meglio ristrutturare quelli presenti che farne dei nuovi”. Tra le criticità spiccano quelle per le pareti esterne del rivestimento a mattoncini, una delle urgenze dal 2020. Il pernottamento vede quasi tutte camere ristrutturate di recente e in buone condizioni, presentano una doccia interna alla stanza, situata insieme ai servizi igienici, in apposto vano separato dalla camera da una parete e una porta per garantire privacy. Ci sono camere anche per disabili. In media una camera ospita 5 soggetti ristretti e mancato il rispetto dei tre metri quadrati a persona. Carenza di educatori, difficoltà collegata anche alla diffusione del Covid-19, convivenze difficili tra detenuti di religioni diverse. C’è una stanza adibita a moschea, una biblioteca che fa prestiti di molti libri. I casi di autolesionismo registrati sono stati 48, sette tentati suicidi, sette aggressioni al personale di servizio e 35 tra detenuti. Trani (Bat). “Senza sbarre”: un’alternativa al carcere è possibile di Benedetta Torsello italiachecambia.org, 27 gennaio 2023 Il sistema carcerario italiano mostra da tempo la necessità di un profondo cambiamento che sposti il proprio baricentro dallo scopo repressivo a quello rieducativo, così come è sancito dalla Costituzione. Il progetto Senza sbarre nasce per immaginare un’autentica alternativa alla detenzione, fatta di lavoro, integrazione e riscatto. “Era il 2007 quando per la prima volta varcai le soglie del carcere di Trani”, esordisce Don Riccardo Agresti, parroco per ventisei anni della sua città - Andria - e oggi alla guida della parrocchia di Castel del Monte. Da allora, in carcere, ci è tornato tutti i giorni. “Andavo a trovare i miei parrocchiani che si trovavano lì. Non potevo abbandonarli”, mi racconta indaffarato dall’altro capo del telefono. Non si prende mai una pausa da quel lavoro a cui ha deciso di dedicarsi anima e corpo. Non sentirsi abbandonati, pur nella consapevolezza di aver sbagliato e di dover pagare per tale errore, è d’aiuto a molti detenuti. “Mi resi conto che dovevo fare qualcosa per loro e così iniziai a portarli in parrocchia, ma mi accorsi sin da subito che lì non potevano imparare un mestiere”. Don Riccardo capisce che solo un lavoro può dare realmente una possibilità ai detenuti e ricucire quello strappo profondo che li allontana dalla società e che con il carcere finisce per diventare sempre più ampio. “Il progetto della Diocesi di Andria Senza sbarre nasce quindi per rieducare al senso della vita e del lavoro chi ha perso la speranza”, chiarisce Don Riccardo. “La formazione in carcere è spesso sterile: bisogna affiancare chi ha sbagliato e tirarlo fuori da lì, dargli una possibilità”. Il lavoro è il vero campo di battaglia, dove ci si deve sporcare le mani e ritrovare la dignità di riguardare gli altri negli occhi, riscattandosi dalla vergogna e dal peso del fallimento che affliggono chi ha sbagliato. L’idea è di immaginare un’autentica alternativa al carcere - senza sbarre appunto - dove si lavora fianco a fianco con chi in passato si è macchiato di un reato e oggi prova a riscrivere le proprie sorti. La testimonianza di Don Riccardo ci porta dritti in contrada San Vittore, ad Andria, dove un’antica masseria fortificata circondata da oltre dieci ettari di terreno, tra uliveti e campi coltivati poco distanti da Castel del Monte, è diventata un luogo di riabilitazione e reinserimento per decine di detenuti. L’esperienza della cooperativa A Mano libera, nata dall’impegno dell’associazione Amici di San Vittore di cui Don Riccardo è presidente, dimostra che rieducare chi ha sbagliato è possibile anche fuori dal carcere. Da ormai quattro anni infatti, la masseria San Vittore - nata come cohousing e comunità per detenuti che possono accedere alle misure alternative alla reclusione - ospita un tarallificio artigianale, in cui si utilizzano unicamente materie prime di qualità e a km0. A mettersi per primo all’opera è lo stesso Don Riccardo, instancabile lavoratore, convinto che non basti amare coloro che hanno sbagliato, ma che occorra dar loro gli strumenti per non commettere gli stessi errori di prima. E il lavoro è forse l’unica via percorribile. “Ricordo ancora la prima volta che sfornammo i taralli”, sorride ripensandoci. “Era una vecchia ricetta della nonna, ma quello che venne fuori fu un autentico disastro: avevamo tutto da imparare, insieme. È da quello sbaglio che siamo partiti”. I taralli a Mano Libera, fragranti e gustosi, sono soprattutto una metafora: “Quelle mani un tempo macchiate di errori e di sangue, oggi finalmente si sporcano di farina, imparano a creare, rendono questi uomini di nuovo liberi”, aggiunge Don Riccardo. E poi alla fine di una lunga giornata in laboratorio, si torna a casa o in cella per chi è in regime di semilibertà. Sono più di quaranta i detenuti che hanno partecipato negli anni al progetto Senza sbarre e oggi a produrre i taralli sono in sette. “Non è sempre facile gestire le conflittualità o far comprendere a queste persone così sfiduciate che qualsiasi risultato richiede fatica, impegno e dedizione”, commenta Don Riccardo. Senza dubbio il lavoro coordinato con le équipe educative delle carceri italiane è fondamentale per individuare quei soggetti, senza distinzione di pena o reato, che possono accedere alle misure alternative e desiderano profondamente cambiare vita. Il carcere non dovrebbe essere una misura afflittiva, repressiva, ma rieducativa. Don Riccardo lo ripete con tutte le sue forze perché “la possibilità di riscattarsi deve essere concessa a tutti coloro che vogliono rimediare agli errori commessi”. E la comunità deve cambiare approccio, per abbattere il muro di silenzio e invisibilità che confina perennemente i detenuti e gli ex detenuti e che va ben al di là delle mura del carcere stesso. Senza sbarre è un progetto pugliese che guarda lontano, non solo al di fuori del carcere, ma ben oltre. Grazie infatti al sostegno della Saint Pio Foundation, le scorse settimane mille scatole di taralli prodotti alla masseria San Vittore sono volate oltreoceano. “Il miglio verde non è un corridoio verso il braccio della morte, ma è simbolicamente un passaggio verso la speranza del riscatto di vita - spiega Don Riccardo -, quella speranza che ognuna di queste persone non dovrebbe smettere di coltivare”. In tutti questi anni Don Riccardo ha incrociato storie, persone e vissuti molto diversi. Quando gli chiedo cosa o chi gli sia rimasto più impresso, non ha dubbi: “Penso ogni giorno a tutti quelli che sono passati da qui, ma soprattutto ai fallimenti”. Ci vuole grande dedizione per conquistare la fiducia di chi ormai pensa di essere giunto alla fine, di aver toccato il fondo della disperazione e della solitudine più assolute. “Il vero comune denominatore di tutte le storie di chi ha trascorso troppi anni in carcere e deve imparare nuovamente a vivere è la fragilità - mi dice Don Riccardo prima di tornare al lavoro - l’incapacità di affrontare i propri errori con coraggio. Loro devono mettercela tutta, non c’è dubbio, ma la comunità non può solo restare a guardare”. Volterra (Pi). Dentro al carcere arriva un teatro (per i detenuti e non solo) di Aldo Tani Corriere Fiorentino, 27 gennaio 2023 Mancano ancora una serie di passaggi istituzionali, che daranno poi anche la tempistica per la posa della prima pietra. Quattrocento metri quadrati di spazio e 250 posti a sedere. Dentro al carcere di Volterra (Pisa) si sogna in grande e dopo anni di inseguimenti vani, la realizzazione di un teatro è quasi realtà. Mancano ancora una serie di passaggi istituzionali, che daranno poi anche la tempistica per la posa della prima pietra, ma a questo giro, la Compagnia della Fortezza e il direttore artistico Armando Punzo sono ormai prossimi al traguardo. L’ultimo pezzo di strada lo hanno percorso insieme a Mario Cucinella, incaricato di dare vita al progetto. L’obiettivo è rendere l’opera armonica con la struttura carceraria che la ospita. “Faremo una cosa semplice che si possa modificare - ha spiegato l’architetto nel corso della presentazione. Una struttura non rigida, dove all’interno avremo la possibilità di fare varie forme organizzative. L’idea è che da una parte il teatro si possa aprire verso l’esterno”. L’intervento andrà a sublimare una storia durata 35 anni, che ha visto man mano la compagnia strutturarsi e acquisire quasi un’unicità sul panorama nazionale. Al punto che il presidente del Consiglio Regionale, Antonio Mazzeo, ha annunciato l’intenzione di proporre per questa realtà il riconoscimento del Gonfalone d’argento. Dietro questa narrazione c’è la determinazione di Punzo, appena premiato con il Leone d’ora alla carriera per il teatro, che nonostante il traguardo non sia ancora tagliato, guarda già avanti. “Si potrebbe arrivare a selezionare, tra la popolazione detenuta nazionale, i più dotati come attori, cantanti, ballerini, musicisti, drammaturghi - ha affermato il direttore -. Una compagnia formata in questo modo può lavorare tutto l’anno e produrre più spettacoli da portare in tournée nei festival e nei teatri più importanti d’Italia”. La Compagnia della Fortezza ha operato finora in una stanza, chiamata “il riflettorio”. L’intenzione, ribadita da Punzo, è di non abbandonarla. Il progetto prevede uno stanziamento di 1,2 milioni di euro. Volterra (Pi). Teatro in carcere, alla Compagnia della Fortezza il Gonfalone d’argento intoscana.it, 27 gennaio 2023 Massima onorificenza del Consiglio regionale della Toscana alla compagnia di Armando Punzo. La Compagnia teatrale della Fortezza, attiva dal 1988 dentro il carcere di Volterra, sarà insignita del Gonfalone d’argento, massima onorificenza del Consiglio regionale. La decisione è stata presa sulla scia della presentazione del progetto per il nuovo teatro stabile all’interno del carcere in un padiglione di 450 metri quadrati e con 250 posti. Il progetto è affidato all’architetto Mario Cucinella. La struttura sarà completamente rimovibile per garantire ai cittadini di avvicinarsi all’esperienza del teatro carcerario anche rimanendo all’esterno della Fortezza. “Oggi siamo qui per il sogno di Armando Punzo - ha detto il presidente del Consiglio regionale, Antonio Mazzeo intervenendo alla presentazione - che dal 1988 accompagna i detenuti in un percorso che aveva l’obiettivo di far nascere e affermare il teatro in un carcere per ridare senso al teatro e dignità ai detenuti”. Il presidente del Consiglio regionale ha ricordato che “il sogno di Punzo è diventato una realtà e in 35 anni ha prodotto spettacoli premiati più volte ed eventi culturali di livello internazionale. In questi giorni a questi riconoscimenti si è appena aggiunto il Leone d’oro alla carriera della Biennale Teatro 2023”. Non solo, in questi 35 anni, “è cresciuto nel tempo il rapporto con il territorio e molti detenuti hanno potuto fare formazione professionale ai diversi mestieri del teatro”. I lavori del nuovo teatro si concluderanno nel 2024. “Il carcere - prosegue Mazzeo - nell’idea architettonica di Cucinella e teatrale di Punzo prova così ad andare oltre, a diventare allo stesso tempo istituto di cultura, luogo di produzione e laboratorio per la formazione. Questa è la dimostrazione che anche un’istituzione come il carcere può non essere sempre uguale a sé stessa, può non ripetersi all’infinito, può felicemente tradire la concezione comune e migliorarsi”. Per tenere viva la memoria della Shoah bisogna ricordare tutti gli altri genocidi di Vito Mancuso La Stampa, 27 gennaio 2023 Erigere l’Olocausto a paradigma in cui riconoscere le tante atrocità vissute e prevenire quelle del futuro. Liliana Segre ha affermato: “Fra qualche anno della Shoah ci sarà una riga nei libri di storia, e poi nemmeno quella”. È possibile evitare un simile esito? Cominciamo col dire che dare un nome agli eventi è essenziale. Significa com-prenderli, prenderli con, farli propri: un evento, che prima era fuori dalla mente, poi, mediante il nome attribuito, le entra dentro e, da oggetto muto, assume un significato. Churchill aveva parlato dello sterminio degli ebrei a opera dei nazisti come di un “crimine senza nome” perché non c’erano precedenti nella storia, per quanto assai sanguinosa, dell’umanità. Poi però il bisogno di comprendere della mente iniziò a proporre dei nomi per l’evento e tra questi, alla fine, se ne impose uno: Shoah, termine ebraico che significa “catastrofe”. Ma che tipo di catastrofe si nomina dicendo Shoah? Catastrofe, infatti, può essere riferita a molte cose e noi nel linguaggio quotidiano ne usiamo il nome anche per eventi ben poco catastrofici, come quando, a proposito di uno spettacolo, diciamo “a teatro è stata una catastrofe”. Occorre quindi specificare la tipologia di catastrofe nominata dicendo Shoah, chiarire quale fu la peculiare catastrofe che i nazisti misero in atto con l’operazione da loro detta Endlösung, “soluzione finale”. La risposta migliore è quella fornita dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin con il termine che coniò per nominare il contenuto specifico della Shoah: “genocidio”. La Shoah è la catastrofe consistente nel genocidio del popolo ebraico. Di ogni termine il dizionario Zingarelli riporta l’anno della prima occorrenza nella nostra lingua e per “genocidio” l’anno è il 1950 (per Shoah è il 1985). Il termine era stato coniato da Lemkin sei anni prima, nel 1944, sulla base di due antiche parole: il greco “genos”, popolo, e il latino “cidium” (dal verbo “caedere”, “colpire a morte”) da cui “homicidium”. Genocidio è l’omicidio di un intero popolo. Prima della Shoah vi furono altri genocidi? Almeno due: quello degli armeni a opera della Turchia dal 1915 al 1916 con 1,5 milioni di vittime, e quello pianificato da Stalin contro gli ucraini con la grande carestia del 1933-34 detta Holodomor con 3,5 milioni di vittime. A quei tempi però non esisteva una Giornata della Memoria e per questo Hitler nel 1939 poté dichiarare: “Chi parla ancora oggi dell’annientamento degli armeni?” (dal report dell’ambasciatore britannico del 25 agosto 1939). È evidente che il silenzio in cui era caduto il genocidio degli armeni lo incoraggiava a mettere in atto il genocidio che stava programmando per gli ebrei e che attuò da lì a poco. Il che dimostra che esiste un profondo legame tra le forme di male estremo che gli umani sono capaci di commettere, ed è compito del pensiero individuare tale legame. Esiste però anche un legame almeno altrettanto profondo tra le forme di bene estremo che gli esseri umani sono pure in grado di praticare, ed è sempre compito del pensiero individuarle e compito del cuore celebrarle. È quello che fa da oltre vent’anni Gariwo, una fondazione con sede a Milano e con numerose collaborazioni internazionali, il cui nome è un acronimo che sta per “Gardens of the Righteous Worldwide”, “Giardini dei Giusti di tutto il mondo”. Presieduta dallo scrittore ebreo Gabriele Nissim, e da lui fondata nel 2000 insieme allo scrittore armeno Pietro Kuciukian, Gariwo si occupa di ricercare le figure esemplari di Giusti dell’umanità, di farle conoscere e di celebrarle. Lo fa piantando alberi, un albero per ogni Giusto, in ognuno degli oltre duecento Giardini da essa istituiti e coltivati in tutta Italia e in una dozzina di Paesi, tra cui, non a caso, Armenia, Germania, Israele, Argentina, Kurdistan iracheno. In questa prospettiva Nissim conduce da anni la sua battaglia per far comprendere come il senso della Giornata della Memoria debba essere duplice: in ordine al passato ricordare i nomi e i volti di coloro che furono uccisi nei campi di sterminio; in ordine al futuro prevenire ogni possibile nuovo genocidio. Infatti, come prima del genocidio ebraico si ebbero i due genocidi ricordati, così dopo ne seguirono altri. Quanti? Secondo Gregory Stanton, fondatore di Genocide Watch, dal 1948 a oggi si sono avuti più di 55 stermini definibili “genocidio” con 70 milioni di vittime. Di recente Nissim ha scritto un saggio dal titolo Auschwitz non finisce mai, sottotitolo La memoria della Shoah e i nuovi genocidi, la cui tesi è che la Shoah non deve essere considerata qualcosa di unico e di conseguenza di irripetibile nella storia, ma deve piuttosto essere considerata come il genocidio paradigmatico del Novecento, una lente di ingrandimento per individuare e impedire ogni altra possibilità di genocidio. La Shoah come genocidio “paradigmatico”: il paradigma è il modello grammaticale della coniugazione di un verbo. In esso non sono contenute tutte le possibili forme che il verbo assumerà, ma grazie a esso è possibile riconoscerle. Così, per Nissim e altri studiosi ebrei, dovrebbe essere la memoria della Shoah: rappresentare un paradigma che consente di riconoscere tutte le forme possibili della coniugazione del verbo del terrore e dell’odio. Il primo a parlare della Shoah come genocidio paradigmatico è stato lo storico israeliano Yehuda Bauer, il quale poi però aggiunse: “Non c’è differenza tra la sofferenza degli ebrei, dei tutsi, dei russi e dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi popolo che si sia trovato in un omicidio di massa genocidario. Non esiste una gradazione nella sofferenza… non esiste dunque alcun genocidio peggiore di un altro. L’idea di competizione non è solo ripugnante, ma totalmente illogica”. Questo è il punto delicato della questione: definire la Shoah genocidio “senza precedenti” facendo uso di una categoria storica, oppure definirla come “unicità assoluta” incomparabile a ogni altro genocidio facendo uso di una categoria metastorica e giungendo persino a differenziare il valore delle vittime e della loro sofferenza riconoscendo il titolo di Giusto solo a chi salva ebrei e non invece altri esseri umani (come sostengono alcuni esponenti dell’ebraismo). Per Nissim, e prima ancora per Bauer e per Lemkin, la Shoah è un genocidio senza precedenti (ma che, come ha scritto Primo Levi, “è avvenuto, quindi può accedere di nuovo”) e il titolo di Giusto spetta a chi salva vite umane di qualunque popolo, senza nessuna differenza. Liliana Segre ha affermato che “fra qualche anno della Shoah ci sarà una riga nei libri di storia, e poi nemmeno quella”. Evitare un simile esito è un dovere di ogni essere umano dotato di retta coscienza morale, perché la Shoah deve continuare a essere studiata e ricordata da tutti, semmai ancora di più. Ma come? A condizione di quanto scrive Anna Foa, storica ebrea: “L’unico modo di tener viva la memoria della Shoah è quella di aprirla ai genocidi che hanno costellato il Novecento e che continuano a realizzarsi, in questo nostro terzo millennio, nel resto del mondo”. Viceversa, prosegue la studiosa, “se ci limiteremo a raccontare quello che è successo al popolo ebraico nella Shoah, se ci chiuderemo in una visione difensiva della memoria, avremo perso la battaglia in partenza”. Aprirsi a una visione non difensiva della memoria significa erigere la memoria della Shoah a paradigma in base a cui riconoscere ogni altro genocidio, iniziando a parlare, come avrebbe desiderato Lemkin, di “Giornata della Shoah e della prevenzione dei genocidi”. E significa anche esercitare tutte le possibili pressioni su Israele perché riconosca finalmente lo sterminio degli armeni operato dalla Turchia come “genocidio”, come finora hanno fatto numerosi Stati, tra cui l’Italia. Israele non può non ricordare le parole di Hitler del ‘39 sul genocidio dimenticato degli armeni! Anche perché, se c’è un popolo che può capire l’atrocità di non veder riconosciute le proprie sofferenze, è proprio il popolo ebraico. Ha scritto Gabriele Nissim: “Si diventa maturi quando si includono le sofferenze degli altri nella nostra memoria”. Quando lo accusarono di tradire la religione perché accoglieva anche i paria infrangendo l’ordinamento delle caste, il Buddha rispose: “Il sangue di tutti è rosso, e le lacrime di tutti sono salate. Tutti siamo esseri umani”. La Giornata della Memoria trasformata in “Giornata della Shoah e della prevenzione dei genocidi” ce lo potrebbe ricordare con maggiore efficacia, evitando così che la Shoah si riduca a una riga nei libri di storia e poi un giorno neppure a quella. Rapine, risse e omicidi: la carica di violenza dei ragazzi post Covid di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 27 gennaio 2023 Dati quasi raddoppiati rispetto al periodo pre virus, crescono anche i reati commessi in branco. Di recente l’aggressione nel market a colpi di pietra e lo studente spinto sotto un treno. Marzio Barbagli: “Non solo il lockdown, la crisi economica come detonatore”. La sindrome post-Covid è uscita dagli ospedali e non è più solo materia per dottori. È in sella a uno scooter che a Napoli investe il carabiniere che sta provando a fermarlo. È nelle mani dei due minorenni che alla stazione di Seregno spingono un coetaneo contro il treno che sta arrivando. È nella bicicletta che, lanciata senza motivo, spacca la testa di un ragazzo che sta entrando in un locale dei Murazzi a Torino. Appare la sera del 10 gennaio davanti agli occhi del cassiere di un minimarket di Anagnina colpito con 29 sassate da due studenti romani. È ogni giorno nei mattinali quotidiani di carabinieri e polizia, nella cronaca dei giornali, nei racconti dei professori delle scuole (superiori certo, ma arrivano denunce anche dalle elementari). Ed è, infine, nelle statistiche 2022 del Viminale che raccontano incontrovertibilmente un dato: i reati commessi dai minori sono in costante e preoccupante crescita. L’avevano previsto nel 2020. Durante le riunioni del Comitato tecnico scientifico in cui si discuteva del lockdown e delle altre misure d’emergenza per contenere il virus, si era già consapevoli che chiudere gli adolescenti in casa, condannarli alla socialità virtuale delle call di gruppo, privarli dei contatti che a quell’età formano la persona e l’accompagnano nella fascia degli adulti, non sarebbe stato indolore e privo di conseguenze. Tre anni dopo i dati dimostrano che si era trattato di una previsione corretta nei numeri, seppur probabilmente più complessa nelle motivazioni. Per alcune fattispecie di reato, come le rapine, siamo quasi al raddoppio rispetto a quando il contagio non c’era. I dati, dicevamo. Pur nella loro asetticità, le tabelle della Direzione centrale della polizia criminale diretta dal prefetto Vittorio Rizzi sono chiarissime. Fino al 31 ottobre del 2019 - il mondo di prima quando solo gli epidemiologi sapevano cos’è e come si diffonde un coronavirus - i minori denunciati e arrestati in Italia erano stati 25.261. Gli under 18 avevano compiuto 13 attentati, 17 omicidi volontari, 43 tentati omicidi, erano stati protagonisti di 2.382 episodi di lesioni, 390 percosse, 1.693 rapine di cui quasi 1.200 non in appartamenti ma per strada. Esattamente tre anni dopo, qualsiasi indicatore della microcriminalità giovanile è schizzato in alto. Omicidi: + 35,3 per cento (23). Tentati omicidi: +65,1 per cento (71). Percosse: + 50 per cento (585). Rapine: + 75,3 per cento (2.968). Le rapine per strada segnano addirittura un incremento del 91,2 per cento. E, rispetto al 2019, i minorenni denunciati e arrestati sono 28.881. Il 14,3 per cento in più. Hanno 14 e 15 anni i due studenti romani, accusati di rapina aggravata, che due settimane fa sono entrati un market in zona Anagnina con la scusa di comprare una bottiglietta d’acqua e hanno rubato l’incasso (300 euro), pestando con i sassi il bengalese che era al banco. E hanno 14 e 15 anni anche i due che a Seregno hanno spinto un quindicenne contro il treno perché aveva mandato dei messaggi a una ragazza. Prima hanno tentato di rubargli una felpa, poi lo hanno rincorso e buttato contro il convoglio in transito, facendogli sbattere la testa contro le lamiere di una carrozza. La vittima è caduta sul binario, rimanendo incastrata tra la banchina e le ruote. Ha una caviglia fratturata. I due minorenni sono accusati di tentato omicidio e sono ora nel cpa di Torino. “Diversi studi hanno evidenziato come la recente pandemia da Covid-19 abbia avuto un forte impatto sulla quotidianità dei ragazzi, causando un peggioramento delle condizioni oggettive e soggettive di benessere personale”, si legge nell’ultimo dossier di Transcrime sulle gang di minorenni, realizzato in collaborazione con l’Università cattolica del Sacro Cuore, il Viminale e il ministero della Giustizia. “Questa situazione si innesta in un contesto già critico, con significativi livelli di abbandono scolastico e difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro”. Ed è proprio alla scuola, ma non solo, che si è rivolto il capo della Polizia, Lamberto Giannini: “Serve l’aiuto del sistema - ha spiegato - Senza un impegno grosso della società per creare una serie di strutture che possano offrire dei momenti e dei punti di aggregazione ai ragazzi”. Marginalità, dunque. Ma anche l’efferatezza della violenza gratuita, l’analfabetismo delle emozioni, la crescita esponenziale dei reati commessi in branco, in particolare in Puglia, Emilia-Romagna, Trentino, Salerno e Messina. Nel 2019 erano 107 i giovani presi in carico dagli Uffici dei servizi sociali, nel 2021 sono aumentati a 186. Stando al dossier di Transcrime, le gang sono composte da meno di 10 individui, in prevalenza maschi di cittadinanza italiana e di età compresa tra i 15 e i 17 anni. Risse, percosse, lesioni, vandalismo e bullismo sono i crimini più frequenti. Meno frequenti e di solito commessi da gruppi più strutturati lo spaccio e i reati appropriativi. “I numeri però vanno letti nella loro complessità” ragiona Marzio Barbagli, tra i più importanti sociologi italiani e professore emerito a Bologna, “non bisogna cedere, come troppo spesso si fa, al lato più semplice. È vero: il Covid ha cambiato le carte in tavola. Ma dietro le motivazioni di certi reati non ci vedo rabbia bensì disperazione”. Il sociologo così argomenta: “Se crescono dell’80 per cento le rapine commesse da minori il motivo va ricercato non nel fatto che siano stati chiusi per due anni in casa e debbano per questo sfogarsi, ma perché, probabilmente, dopo gli anni di pandemia hanno bisogno di soldi. Si rapina per denaro, non perché si è arrabbiati. Ecco perché penso che nelle statistiche, nell’aumento di quei reati, si debba leggere prima di tutto la crisi economica a cui, anche e forse soprattutto, il Covid, ci ha costretto. Come sempre avviene in questi casi, colpisce per primi i più deboli. Dunque i più giovani”. Migranti. Ong, respinti i ricorsi leghisti. La Ue punta tutto sui rimpatri di Carlo Lania Il Manifesto, 27 gennaio 2023 Fratelli d’Italia rassicura Salvini: “Sui migranti un provvedimento specifico”. Matteo Salvini ci tiene a mostrarsi tranquillo: “Ho piena fiducia nel ministro Piantedosi”, dice il leader della Lega dopo che anche i ricorsi presentati contro la bocciatura di 14 emendamenti del Carroccio al decreto legge sulle ong ieri sono stati respinti. Apparentemente, dunque, nessuna irritazione verso gli alleati di Forza Italia e Fratelli d’Italia che mercoledì, nelle Commissioni Affari costituzionali e Trasporti della Camera dove il provvedimento è in discussione, hanno dichiarato inammissibili le proposte di modifica della Lega spaccando clamorosamente la maggioranza e lasciando da soli i leghisti. La tensione resta, ovviamente, ma meglio andare avanti. “Sono soddisfatto, i due capigruppo della Lega seguono la vicenda”, assicura quindi il leader. Quello di Salvini potrebbe essere descritto come il classico caso di chi fa buon viso a cattivo gioco. Solo in parte però. Se è vero, infatti, che il blitz tentato mercoledì per cancellare la protezione speciale, rendere più difficili i ricongiungimenti familiari e allungare i tempi di detenzione dei Centri per il rimpatrio, insomma per riportare in vita i vecchi decreti sicurezza modificati dal parlamento è fallito, è vero anche che il decreto pensato da Piantedosi per rendere più difficile il lavoro della ong nel Mediterraneo va comunque avanti e che di nuove e più severe regole sull’immigrazione si potrebbe tornare a parlare presto con un nuovo provvedimento. “Quanto deciso oggi non modifica in alcun modo l’attenzione che il governo di Giorgia Meloni conferisce al tema dell’immigrazione, che sarà trattato con l’incisività che merita e in maniera organica”, hanno rassicurato l’alleato i due capigruppo di Fratelli d’Italia in prima e nona commissione. Anche perché non sono certo gli inasprimenti delle norme che mancano, come dimostra uno dei tre emendamenti presentati ieri dai relatori del decreto. Prevede la possibilità di sanzionare la nave di una ong che ha effettuato soccorsi multipli anche se l’accertamento della “violazione” avviene dopo lo sbarco. “È una misura che dà il senso dell’intero provvedimento, basato su un atteggiamento persecutorio nei confronti di chi salva vite umane in mare. Politicamente inaccettabile, eticamente barbarico” commenta Filiberto Zaratti, capogruppo Alleanza Versi e Sinistra in commissione Affari costituzionali. Le altre due modifiche intervengono invece sulla competenza di chi stabilisce le sanzioni (“il prefetto del luogo in cui ha sede l’autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare”) e sulla possibilità di destinare i proventi delle sanzioni ai Comuni interessati dai flussi migratori. Le commissioni torneranno a riunirsi lunedì in modo da consentire l’arrivo in aula del decreto per il 2 febbraio. Di immigrazione hanno parlato anche i ministri dell’Interno dei 27 riuniti ieri a Stoccolma. Tutti, a cominciare dalla Commissaria Ue per gli Affari interni Ylva Johansson e dalla ministra svedese e presidente di turno Maria Malmer Stenegaard, hanno spinto per un rafforzamento della politica dei rimpatri dei migranti irregolari. “Ritengo - ha detto il ministro Piantedosi - che sia opportuno sviluppare un terzo modello di rimpatrio, che potremmo chiamare ‘rimpatrio forzato accompagnato’. Un’operazione di ritorno che sia associata a progettualità di reintegrazione, anche in caso di rimpatri forzati”. A Stoccolma i ministri hanno però ricordato anche l’importanza di bloccare i cosiddetti movimenti secondari. Intanto il Viminale continua ad assegnare alle navi delle ong porti estremamente distanti. Mentre l’arrivo della Geo Barents a La Spezia è previsto per sabato, la Ocean Viking, con 95 migranti a bordo, ha ricevuto come porto di destinazione quello di Carrara: “È a 1.500 chilometri di distanza dalla zona delle operazioni”, ha protestato ieri la ong Sos Mediterranée. “Ciò comporta una navigazione di 3 giorni ed espone donne, uomini e bambini ad onde, pioggia, vento e freddo”. Migranti. Il piano di Ursula von der Leyen: fondi Ue per costruire barriere ai confini di Marco Bresolin La Stampa, 27 gennaio 2023 La svolta: rimpatri più rapidi, motovedette a Tunisia ed Egitto. Attenzione rafforzata nei Balcani, ci saranno hotspot. Ursula von der Leyen apre alla possibilità di utilizzare i fondi del bilancio Ue per costruire muri anti-migranti. La svolta è confermata dalla lettera che la presidente della Commissione europea ha inviato ieri sera a tutti i leader Ue in vista del summit straordinario del 9-10 febbraio. Nell’allegato, von der Leyen presenta un piano in 15 punti, il primo dei quali prevede di “rafforzare le frontiere esterne attraverso misure mirate da parte dell’Unione”: tra queste c’è la “mobilizzazione di fondi Ue per aiutare gli Stati membri a rafforzare le infrastrutture per il controllo delle frontiere”. La parola “infrastrutture” - che sta appunto a indicare la costruzione di muri e barriere - non era presente nella precedente bozza visionata da La Stampa, ma è stata inserita dopo una lunga giornata di trattative e alla luce del confronto tra i 27 ministri dell’Interno che si sono riuniti a Stoccolma. Con questo passo, la Commissione rompe un altro tabù e cambia decisamente posizione rispetto a una questione sulla quale era sempre parsa intransigente. Poco più di un anno fa, quando alcuni Stati avevano chiesto la possibilità di usare i fondi del bilancio Ue per le barriere anti-migranti, la Commissione aveva negato questa possibilità. Ora, evidentemente, i tempi sono cambiati. Per contrastare i flussi lungo la rotta balcanica, l’Austria ha chiesto di finanziare con i fondi europei (2 miliardi) la costruzione di una barriera tra Bulgaria e Turchia. Frontiera che secondo von der Leyen “deve essere una priorità”. La commissaria Ylva Johansson ha spiegato che “nel bilancio non ci sono sufficienti risorse per finanziare i muri”, ma ha lasciato intendere che se gli Stati dovessero ridefinire le loro priorità, allora sarebbe possibile. Orientamento confermato dalla lettera di Von der Leyen. Oltre al rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, la presidente della Commissione propone anche di aumentare “il supporto per le attrezzature e la formazione” per Tunisia, Egitto e Libia, che dovranno “rafforzare le loro capacità di ricerca e soccorso” nel Mediterraneo. Tradotto: più motovedette per monitorare le loro acque territoriali e riportare a terra i migranti intercettati. C’è anche l’idea di avviare partnership con Tunisia ed Egitto per contrastare la tratta di esseri umani attraverso pattugliamenti congiunti composti da poliziotti e magistrati europei. Nei Balcani sarà rafforzata la presenza di Frontex e “nella prima metà del 2023” verrà lanciato un progetto pilota per istituire hotspot in cui eseguire le cosiddette “procedure di frontiera” che prevedono un esame accelerato delle domande d’asilo alle frontiere Ue, con relativo rimpatrio rapido per chi non ha diritto. Von der Leyen vuole poi stringere accordi con i Paesi d’origine - usando la leva dei visti e degli accordi commerciali - per costringerli a riprendersi i loro connazionali. Ma al tempo stesso dice che bisogna intensificare i corridoi umanitari e avviare progetti “per attirare lavoratori qualificati”. Al vertice di Stoccolma, il ministro Matteo Piantedosi ha proposto di introdurre una terza via tra i rimpatri forzati e quelli volontari assistiti: i “rimpatri forzati accompagnati”, vale a dire “un’operazione di ritorno” dei migranti “associata a progettualità di reintegrazione”. Uno dei quattro capitoli del piano è dedicato all’equilibrio tra solidarietà e responsabilità, tema di scontro tra i Paesi di primo approdo e quelli del Nord. Von der Leyen chiede di accelerare con il piano per la redistribuzione dei richiedenti asilo, in modo da aiutare gli Stati che come l’Italia subiscono più degli altri la pressione degli sbarchi. Ma in parallelo avvierà un monitoraggio sui movimenti secondari e sulla corretta applicazione dei trasferimenti dei cosiddetti “dublinanti” nei Paesi di primo approdo, in collaborazione con l’Agenzia europea per l’asilo. Quest’ultima dovrà anche fare dei report regolari sulle condizioni dei richiedenti asilo nei centri di accoglienza. La questione immigrazione è “una delle principali sfide globali della nostra epoca” - scrive la presidente nella lettera - ed è “in cima alla lista delle questioni per le quali i cittadini si aspettano una forte risposta da parte dell’Ue”. La strada maestra, sottolinea, resta l’adozione del Patto sulla migrazione e l’asilo, “ma l’imperativo di concordare una soluzione strutturale non significa che non possiamo agire ora”. E questa volta l’Europa ha deciso di cominciare con la costruzione dei muri sponsorizzati dall’Ue. Governo in armi, crepe nella maggioranza di Francesco Olivo La Stampa, 27 gennaio 2023 Fronda di Lega e Forza Italia sull’invio di missili a Kiev. Salvini va all’attacco del leader ucraino: “Ha tempo da perdere”. Che Matteo Salvini non voglia vedere il Festival di Sanremo per intero, di per sé, potrebbe essere una notizia trascurabile. Ma se la parte che il leader della Lega vuole evitare deliberatamente è l’intervento del presidente ucraino al quale il suo governo sta inviando le armi, allora la questione canora prende una piega necessariamente politica e anche a Palazzo Chigi se la stanno ponendo. La partecipazione di Volodymyr Zelensky in collegamento all’Ariston ha distratto per una volta Salvini dai cantieri e dalle opere pubbliche sulle quali, da ministro delle Infrastrutture, si mostra concentratissimo: “Se Zelensky ha il tempo di andare agli Oscar o al Festival di Sanremo, lo sa lui - ha detto il leader della Lega ospite di Otto e mezzo su La 7. Ogni contesto merita serietà, anche Sanremo. Mi chiedo quanto sia opportuno che il festival della canzone italiana abbia un momento con la guerra e le morti in corso, non mi sembra che le cose vadano d’accordo”. Toni sprezzanti verso il leader ucraino dal quale Meloni si recherà in visita nei prossimi giorni. Già la decisione di accettare l’invito di Lilli Gruber, in una trasmissione percepita come ostile nella Lega, dà la misura del cambio di passo nella comunicazione di Salvini. Il motivo è chiaro: fra due settimane si vota in Lazio e soprattutto in Lombardia, dove il vicepremier si gioca tanto del suo destino politico. La fibrillazione dei soci di minoranza era stata messa ampiamente nel conto a palazzo Chigi, ma l’aspetto che preoccupa è che la Lega abbia scelto anche la guerra in Ucraina come tema per smarcarsi. E se lo ha fatto c’è un motivo: i sondaggi. Tutte le analisi concordano sul fatto che gli italiani sono sempre più angosciati dal conflitto, soprattutto per le conseguenze sull’economia: “Cresce il rischio che ci sia qualcuno che dia la colpa all’Ucraina, spaccando i nostri Paesi - ha detto ieri Guido Crosetto, a La Stampa - È quello su cui punta Putin”. Per la Lega tentare di cavalcare questo malessere significa anche provare a recuperare consensi rispetto a Fratelli d’Italia. L’Ucraina, infatti, è per il momento l’unico grande tema sul quale la presidente del Consiglio, che non ha mai messo in discussione l’appoggio all’Ucraina, non intercetta appieno gli umori della maggioranza del proprio elettorato, e quindi per il Carroccio da questo punto di vista c’è margine di crescita. I social media manager di ministri ed esponenti del centrodestra se ne sono accorti da tempo: ogni post pubblicato sulla guerra genera centinaia di commenti con critiche o insulti. E non è un caso che persino sulle pagine social di Meloni siano pressoché scomparsi i riferimenti al conflitto, specie se collegati all’invio di armi all’Ucraina. Salvini in tv è stato attento a non dare l’idea dell’alleato indisciplinato e ha difeso l’operato del governo, “abbiamo sempre sostenuto la difesa dell’Ucraina aggredita, è quello che stiamo continuando a fare in Europa e in Italia, né più né meno”. Ma con forza è tornato a chiedere “l’apertura di dialogo di pace” auspicando che Zelensky e Putin “si parlino” e allontanare da sé il passato apertamente putiniano: “Non c’è nessun accordo in corso con chi ha scatenato una guerra contro un popolo in pace”. Molto più netto, invece, è il suo capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, che fuori da Montecitorio ha criticato il governo, “bisognerebbe parlare un po’ meno di armi, l’Italia dovrebbe fare di più sulla pace”, sostenendo che la stessa Meloni avrebbe dovuto essere più incisiva nell’invitare gli Stati Uniti ad aprire una via negoziale della guerra e poi ha aggiunto “sarebbe meglio meno atlantismo assoluto e più atlantismo ponderato”. Una presa di distanza piuttosto chiara dalla politica estera del governo era arrivata dallo stesso Romeo durante il dibattito in Senato sul decreto Ucraina: “È un’ipocrisia dire che l’Ucraina può vincere”, chiedendo di “non umiliare Putin”. La Lega anche in quell’occasione ha votato sì al provvedimento, ma nel governo l’atteggiamento non è piaciuto, “anche perché - dice un esponente dell’esecutivo - se gli americani avessero voluto davvero umiliare la Russia lo avrebbero fatto da tempo, quindi quella della Lega è una posizione pretestuosa”. La linea di Forza Italia è meno critica, ma qui e là emergono dissensi. Quello di Silvio Berlusconi è ormai arcinoto: “La nostra solidarietà non è in discussione, ma sono angosciato dal fatto che nessuno, se non il Papa, sembra avere soluzioni che vadano verso una soluzione pacifica di un conflitto per il quale stiamo pagando un prezzo intollerabile”. Come per la Lega c’è un senatore più esplicito del leader, in questo caso Maurizio Gasparri: “L’escalation degli Stati Uniti e della Germania è preoccupante”, considerazione fatta prima di passare ad attaccare la partecipazione di Zelensky a Sanremo. Fine sostegno mai. In un orizzonte nebuloso, nessuno oggi può escludere una guerra diretta di Giulia Belardelli huffingtonpost.it, 27 gennaio 2023 Esercitarsi in previsioni sul conflitto in Ucraina si è rivelata spesso una pratica fallace. Per questo le rassicurazioni di Biden o Scholz lasciano il tempo che trovano: l’Occidente deve porsi il tema delle ulteriori possibili forme di coinvolgimento e del grigio che può esserci fra una vittoria e una sconfitta. Bertolotti (Start Insight): “Le guerre sono imprevedibili, l’Afghanistan insegna”. Se il Magnifico insegnava che non ci può essere certezza del domani, dopo undici mesi di previsioni spesso smentite e travolte dagli eventi chi può onestamente mettere la mano sul fuoco che l’Occidente non sarà costretto presto a un ulteriore coinvolgimento nella guerra fra Russia e Ucraina? Con il sì all’invio dei carri armati più avanzati tra quelli impiegabili in battaglia, l’Occidente ha di fatto superato, seppur con riluttanza, una linea rossa che aveva tracciato mesi fa, quando il discorso era esteso tanto agli aerei da guerra quanto ai mezzi corazzati. Un procedimento analogo ha accompagnato il via libera alla fornitura di altri sistemi d’arma, dai lanciarazzi multipli Himars al sistema missilistico Patriot. Per quanto simbolico, il superamento di quest’ultima soglia (l’invio di carri armati Leopard 2, Abrams e Challenger 2) solleva l’interrogativo di se, come e quando avverrà il prossimo step (quantitativo e/o qualitativo), materializzando una realtà evidentemente scomoda da ammettere: data la dipendenza ucraina dalle forniture militari occidentali, e date le capacità di combattimento ancora in possesso di una Russia che vuole mantenere e ampliare le sue conquiste, l’Occidente non ha altra scelta che continuare ad armare Kiev sperando di logorare Mosca quanto basta, oppure arrendersi all’idea che la Russia si tenga le sue conquiste (ad oggi circa il 18% del territorio ucraino) usandole come trampolino di lancio per un’eventuale terza guerra d’Ucraina. È un bivio reso ancora più spietato dalla volontà di Mosca di andare avanti whatever it takes, in termini di costi politici, economici e soprattutto umani. Ed è un bivio che, malgrado le rassicurazioni di Joe Biden o di Olaf Scholz sul fatto che l’Occidente non sta entrando in guerra, costringe a prendere consapevolezza che nessuno, oggi, può sapere come evolveranno gli eventi. Secondo Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight e associate research fellow di Ispi, la svolta dei carri armati è “solo simbolica, ma apre a un’ipotesi di ulteriore maggiore coinvolgimento: servirebbero centinaia di carri armati per garantire all’Ucraina di poter vincere, numeri che ovviamente, per ora, rimangono nella lista dei desideri di Zelensky”. Per Dan Sabbagh, editor specializzato in Difesa e sicurezza del Guardian, “la fornitura di diverse decine di carri armati è un significativo passo in avanti, ma potrebbe non essere militarmente decisivo”: entro poche settimane, l’Occidente potrebbe dover prendere in considerazione di testare la propria unità su un’altra decisione sulle forniture militari all’Ucraina, come l’invio di caccia F-16 (una delle richieste del governo ucraino, assieme a F35, Eurofighter, Tornados e navi da guerra). Il punto è che è molto difficile, oggi, prevedere quali saranno i prossimi step, considerando che quasi tutte le previsioni fatte finora sono state smentite. Il primo ad aver sbagliato tutti i suoi calcoli, va da sé, è Vladimir Putin: convinto di fare un Blitzkrieg, si è ritrovato impantanato in una guerra molto più grande di lui. All’inizio era stato previsto che l’Ucraina si sarebbe schiantata in breve tempo sotto il peso dell’invasore russo; poi era stato previsto che la Russia avrebbe pagato in fretta il prezzo del proprio azzardo, con un tracollo economico e politico che invece ancora non c’è stato. “Le stime che erano state fatte (un calo del 10% del Pil russo quest’anno) non si sono avverate”, osserva Ettore Greco, direttore di Istituto Affari Internazionali. “C’era la scommessa che la Russia potesse entrare abbastanza rapidamente in una situazione di collasso: così non è stato, essenzialmente perché ha continuato a beneficiare di grosse entrate dalla vendita di prodotti energetici. Se i prezzi rimarranno a questo livello e scenderanno ulteriormente, potrebbero esserci riflessi significativi in Russia, ma non c’è dubbio che i calcoli occidentali fossero sbagliati”. Sconfiggere Putin si sta rivelando più difficile di quanto molti in Occidente avevano sperato. “Quello che sappiamo è che la Russia gioca principalmente sul tavolo delle quantità: non si fa problemi a subire tantissime perdite di uomini e di mezzi, pur di trattenere del territorio o avanzare”, commenta Andrea Gilli, senior researcher al Nato Defense College. Per Bertolotti, l’accento va messo sull’aspetto comunicativo, dunque sulla percezione di un tracollo russo, più che sulle previsioni errate. “C’è stata una corrente che ha sposato i report fatti uscire dall’intelligence britannica, che però avevano un chiaro scopo: quello di convincere l’opinione pubblica (ad esempio, quando si parlava delle malattie di Putin o di un imminente colpo di Stato). Si voleva decostruire, da un punto di vista comunicativo, la figura del leader russo, anche nei confronti dell’opinione pubblica russa che ha accesso a quelle informazioni sul web. La comunicazione è uno strumento di guerra per tutti: lo utilizzano i russi, lo utilizzano benissimo i britannici e gli statunitensi, mentre noi non siamo ancora ben strutturati in questo”. “La Russia (lo dicevo esattamente 11 mesi fa) aveva la capacità di sostenere una guerra da un punto di vista logistico e dei rifornimenti per un anno”, prosegue l’analista. “Nei magazzini c’erano i ricambi per una guerra di un anno. Il problema comincerà a porsi a partire da febbraio in avanti, quanto le scorte convenzionali inizieranno a venire meno e si dovrà dare fondo a quelle che invece sono le riserve strategiche, a meno che non intervengano altri elementi a supporto della Russia, come la collaborazione di altri Paesi che potrebbero contribuire (ad esempio con scambi aerei contro carri armati, aerei contro sistemi anti-missili, e così via) a ripristinare quello che serve a Mosca”. Piaccia o meno, l’imprevedibilità di questi fattori - unita alla possibilità che Mosca possa ottenere più sostegno (diretto o indiretto) da parte di attori esterni, a cominciare dalla Cina - rende aleatoria qualsiasi previsione su fino a dove dovrà spingersi l’Occidente per fare in modo che gli ucraini non perdano una guerra che ormai lo riguarda direttamente, visti gli sforzi fatti finora e la posta in gioco per la tenuta dell’ordine liberale internazionale. “Ad oggi diciamo che no, i jet non arriveranno in Ucraina”, commenta ancora Bertolotti, ma “nella pratica, dobbiamo partire da quello che è l’obiettivo, una questione di cui si parla sempre troppo poco. Qual è l’obiettivo dell’impegno della comunità internazionale in Ucraina? È logorare la Russia, non sconfiggerla imponendo una batosta militare umiliante (e anche deleteria per la stessa tenuta delle istituzioni russe), ma indebolirla progressivamente. L’obiettivo è questo non tanto perché la Russia sia una minaccia (cosa che comunque è, almeno per i Paesi del fianco est della Nato) ma perché la Russia è un alleato della Cina, che è il vero competitor degli Stati Uniti e risente dell’indebolimento di un suo partner, trovandosi meno forte in quello che sarà il confronto di domani”. La Cina non ha ancora detto mezza parola sulle forniture di tank occidentali all’Ucraina. Intelligentemente, si tiene fuori dal dibattito: Pechino si esprime solo per opportunità o per necessità, e qui mancano entrambe. Al contrario, le cancellerie occidentali si affrettano a sottolineare che l’invio di tank non significa un coinvolgimento diretto nella guerra contro la Russia, malgrado la svista della ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock (“noi combattiamo in una guerra contro la Russia e non fra noi”, ha dichiarato, fornendo un assist alla propaganda russa ma allo stesso tempo mostrando la scivolosità della questione). Oggi nessuno può escludere che si debba andare oltre rispetto alla linea rossa di un tot di carri armati. Tanto per cominciare, nessuno ha detto che saranno gli ultimi. Su questo Bertolotti è categorico: “Se i numeri sono quelli attuali, prevedo che nei prossimi mesi non cambierà nulla sul fronte, se non un lavaggio di coscienza da parte delle cancellerie occidentali, che potranno dire: noi lo abbiamo fatto. La sostanza, però, andrà pesata in tonnellate di carri armati che verranno effettivamente dati”. Il motivo per cui è così difficile prevedere come evolverà la guerra - malgrado le rassicurazioni di Biden, Scholz o Macron - è intrinseco nella natura stessa della guerra. La guerra va così: se la combatti, è perché vuoi vincere o quanto meno uscirne bene; se l’altro vuole andare avanti a oltranza, non puoi che andare avanti anche tu, altrimenti è una sconfitta. “Le guerre sono imprevedibili”, conclude l’esperto Ispi. “Nessuno è certo dell’esito di una guerra. O meglio, partono tutti certi di un esito che poi, nella maggior parte dei casi, viene smentito. L’Afghanistan, l’Iraq, il coinvolgimento nella guerra dei Balcani, la Cecenia per la Russia, l’Afghanistan per i sovietici prima ancora... sono tutte guerre andate diversamente rispetto ai piani sui quali si erano basati i politici per prendere le decisioni. Ad oggi, è molto difficile dire cosa succederà. Il rischio di escalation e coinvolgimento progressivo, ovviamente, c’è e nessuno lo può negare, neanche il governo di turno che dice: ci limiteremo all’invio di questi equipaggiamenti. La realtà è che non è vero perché è impossibile fare valutazioni sul futuro”. La guerra in Ucraina manda in macerie il campo progressista di Stefano Fassina huffingtonpost.it, 27 gennaio 2023 L’autoesclusione del Parlamento per un anno dove in Ucraina e dintorni può accadere di tutto, votata anche da quel centrosinistra sempre pronto a ricordare la “fiamma” ancora ardente tra i Fratelli d’Italia oggi a Palazzo Chigi, è un macigno politico. Con la guerra non si scherza. Non si possono minimizzare visioni ed atti politici divergenti. La guerra è la questione più rilevante che la politica affronta. In particolare, quando la guerra ridisegna il campo geo-politico globale e determina il tramonto di qualsivoglia possibilità di soggettività politica dell’Unione europea. Tanto più quando le conseguenze economiche, oltre che sul martoriato popolo ucraino, piagano anche i nostri lavoratori e le nostre piccole imprese. Ancor di più quando l’economia di guerra è assurdamente aggravata dalla normalizzazione della politica monetaria disposta dalla BCE. Pertanto, è seria e profonda la spaccatura nell’area progressista determinata dal voto sulla conversione del Decreto Legge per l’invio delle armi a Kiev, fino al 31 dicembre 2023, attraverso Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, quindi senza il coinvolgimento delle Camere e del presidente della Repubblica. Da una parte il M5S e Sinistra Italiana, dall’altra il Pd, con Azione e Italia Viva. In mezzo, la sorprendente, preoccupante, nascosta, astensione di Europa Verde, nonostante gli impegni in campagna elettorale presi insieme a SI. È vero che decreto analogo era già stato votato a marzo 2022 dalla maggioranza a sostegno del governo Draghi (non dal sottoscritto). Ma allora eravamo alla fase iniziale dell’invasione. Si riteneva necessario e urgente garantire il diritto alla difesa dell’invaso. Ora, il contesto è drammaticamente più grave. Nelle stesse ore in cui i nostri parlamentari votavano l’auto marginalizzazione della loro funzione sul nodo di maggiore portata politica possibile, il governo Sholz capitolava sull’invio dei carri armati “Leopard 2”, dopo aver ottenuto la “copertura” dall’invio di mezzi analoghi dalla Casa Bianca. In sintesi, siamo a un salto di qualità nel coinvolgimento bellico della Nato. Un’ulteriore tappa dell’ininterrotta escalation militare, in completa assenza di iniziative per il cessate il fuoco da parte degli USA e dell’UE. Anzi, scrive il Financial Times oggi, siamo nel quadro della discussione nei principali governi europei, oltre che a Washington, sull’invio di Jet a Kiev: via Varsavia, F-16 oppure jet sovietici rimpiazzati da F-16 per la Polonia. Un’altra delle linee rosse, tracciate a inizio del conflitto per scongiurare lo scenario nucleare, rischia di essere oltrepassata. In sintesi, l’autoesclusione del Parlamento per un anno dove in Ucraina e dintorni può accadere di tutto, votata anche da quel centrosinistra sempre pronto a ricordare la “fiamma” ancora ardente tra i Fratelli d’Italia oggi a Palazzo Chigi, è un macigno politico. È tale anche lungo la strada della ricomposizione dell’alleanza progressista. Non può essere messo sotto al tappeto in nome del pericolo della destra. Va affrontato. Altrimenti, dalle macerie non si ricostruisce. Ps: il senso politico del voto di martedì scorso non è sfuggito a un acuto osservatore come Paolo Mieli. Dall’editoriale de Il Corriere della Sera, esplicita anche la vera ragione della fine del Governo Draghi: “Allo stesso modo, ha dello straordinario il fatto che il Parlamento italiano si sia impegnato a comportarsi nel 2023 negli identici modi degli undici mesi trascorsi. Certo, si è perso per strada il M5S. Ma Giuseppe Conte già a luglio provocò la crisi del governo Draghi per rimettere in discussione le modalità del sostegno italiano all’Ucraina”.