Ergastolo ostativo, Pilato in Cassazione di Francesco Grignetti La Stampa, 26 gennaio 2023 Viene voglia di dare ragione a Carlo Nordio, che prova “venerazione per la magistratura” e mai vorrebbe vederla cadere in fallo. Epperò, che possiamo dire quando la Cassazione decide di non decidere su questioni urgentissime quali la sorte di Alfredo Cospito, l’anarchico sottoposto al carcere duro che da 100 giorni protesta con lo sciopero della fame? C’era stato un ricorso in tutta fretta. Risultato: i magistrati del Palazzaccio affronteranno la questione il 20 aprile. Con molta calma. Le uniche parole degne sono quelle di Angelica Milia, la sua dottoressa di fiducia: “Il 20 aprile Alfredo sarà morto”. Ieri però si registrava anche un altro incredibile rinvio in Cassazione, guarda caso ricollegabile anche questo al dolente mondo delle carceri. La prima sezione penale doveva stabilire se la legge Meloni sull’ergastolo ostativo sia in odore di incostituzionalità e nel caso girare la questione alla Consulta. La Corte Costituzionale ormai da tempo ha fissato il principio che l’ergastolo ostativo non può imperniarsi solo sulla mancata collaborazione del detenuto con i magistrati. Basta automatismi e considerare caso per caso. La Meloni ha però reintrodotto dalla finestra quello che era uscito dalla porta, imponendo condizioni pressoché irrealizzabili. “Così è pure peggio”, dice l’avvocatessa Giovanna Beatrice Araniti, che aveva vinto davanti alla Consulta nel 2020 e ora ha riportato il tema davanti ai giudici. Ebbene, in forza di un errore formale, un difetto di notifica tra la stanza dove si fissa il calendario delle udienze e la vicina stanza dove ha sede la procura generale, errore ancor più marchiano nella stagione delle Pec, del decreto sull’ergastolo ostativo se ne parlerà l’8 marzo. La Suprema Corte, insomma, che sarebbe regolatrice del diritto, tutrice delle forme e delle procedure, non riesce a rispettare le procedure più basilari. Si sono perduti la mail in corridoio. E così la procura generale non ha avuto modo di prepararsi per tempo all’udienza. Poco male, si dirà, dato che gli interessati sono tutti ergastolani. Gente che sta in carcere da anni se non decenni. Che volete che sia l’attesa di qualche settimana in più per sapere se il meccanismo diabolico voluto da questo governo rispetta la Costituzione oppure la tradisce? Il risultato di questo provvidenziale errore è che oggi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, solenne cerimonia con gli Ermellini e il Capo dello Stato, alla presenza del governo, non ci sarà quella decisione che avrebbe potuto creare non pochi imbarazzi all’esecutivo di destra-centro. Non si può dimenticare la conferenza stampa di Giorgia Meloni che affermava essere il decreto sull’ergastolo ostativo “importante e simbolico”. Meglio far passare serena la cerimonia e parlarne più in là. Ergastolo ostativo, la Cassazione rinvia la decisione all’8 marzo di Giuseppe Legato La Stampa, 26 gennaio 2023 La prima sezione penale della Corte ha rilevato una irregolarità nell’instaurazione del contraddittorio. Bisognerà attendere l’8 marzo per la decisione della Cassazione sulla dibattuta questione dell’ergastolo ostativo, tornata nelle mani degli “ermellini” dopo che lo scorso 8 novembre la Consulta gli ha rimesso la questione chiedendole di valutare se le nuove norme - contenute nel cosiddetto dl “rave” - varate dal governo Meloni, il 31 ottobre 2022 (n.162) continuano a destare dubbi di costituzionalità. Il deposito del verdetto - che rischia di rimbalzare nuovamente nella competenza della Corte Costituzionale - era inizialmente previsto per domani, nella stessa giornata in cui si svolge l’inaugurazione dell’anno giudiziario alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma la Prima sezione penale della corte di Cassazione, nel procedimento a carico di Salvatore Pezzino, ha rilevato una irregolarità nell’instaurazione del contraddittorio in forma scritta e pertanto ha rinviato la trattazione del ricorso da parte del medesimo collegio proprio alla udienza dell’8 marzo. A insistere affinché gli atti tornino alla Consulta, è l’avvocatessa Giovanna Araniti, del Foro di Reggio Calabria e legale di Salvatore Pezzino, detenuto all’ergastolo ostativo in carcere dal 1982, quando aveva 22 anni. È stato condannato a 30 anni per un omicidio - organizzato con altri familiari dopo che avevano subito un attentato - commesso nel 1984 durante un permesso premio, e a 5 anni e 4 mesi per associazione mafiosa, reato del tutto espiato. Sia nel 2013 che nel 2019, il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila gli ha negato la liberazione condizionale perché non ha collaborato, come invece ha fatto un cognato. Adesso si trova in cella a Tempio Pausania Ad avviso dell’avvocatessa Araniti, le nuove norme “sono deteriori” rispetto alle precedenti e deve essere rispettato “il diritto al silenzio”, specie quando si temono rappresaglie sui parenti e quando c’è già chi ha raccontato la storia del crimine. Pretendere il risarcimento del danno poi - ritiene Araniti - è “discriminatorio” quando le parti lese non si sono costituite parte civile e non hanno chiesto alcun indennizzo, come avvenuto per il delitto nel quale è implicato Pezzino, per non parlare del fatto che il suo assistito non ha alcun bene, né risorse. Secondo Araniti, la riforma dell’ergastolo ostativo è “frutto del facile moralismo propagandato dal dilagante populismo, una sorta di manifesto d’intenti, senza rendersi conto che il cambiamento si opera attraverso la cultura della legalità, combattendo la mafia e la criminalità col puro diritto, col rispetto sacro dei valori costituzionali che valgono per tutti indistintamente, con la fiducia nell’uomo e nella sua capacità di recupero, qualunque uomo, quale che sia il reato commesso”. La Procura della Cassazione, all’udienza del febbraio 2020 conclusasi con l’invio della questione alla Consulta, aveva chiesto il rigetto del reclamo della difesa di Pezzino e non avrebbe presentato un nuovo parere, in base a quanto risulta alla difesa del detenuto. Relatore del provvedimento sarà lo stesso “ermellino” che scrisse il verdetto due anni fa, si tratta di Giuseppe Santalucia, attuale presidente dell’Anm. “Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41bis” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 gennaio 2023 Appello di associazioni, giuristi, addetti ai lavori del mondo penitenziario e della cultura. Parte da Napoli una piattaforma per chiedere l’abolizione del 41 bis e l’ergastolo ostativo. Un documento sottoscritto da oltre sessanta gruppi e associazioni, e centocinquanta tra artisti, intellettuali, docenti universitari, ricercatori, avvocati, attivisti. Tra i sostenitori ci sono anche Zerocalcare, Elio Germano, Ascanio Celestini e Luigi Manconi, avvocati, attivisti e addetti ai lavori dell’universo penitenziario. Ma anche realtà impegnate per la tutela dei diritti, come la casa editrice NapoliMonitor e l’associazione Yairaiha Onlus. L’obiettivo è quello di una sensibilizzazione dell’opinione pubblica rispetto al necessario superamento degli istituti penitenziari dell’ergastolo e del 41bis, dopo che il caso dell’anarchico Alfredo Cospito ha sollevato indignazione e ha mobilitato personalità e realtà collettive in tutto il Paese. “Fin dalla sua nascita - denuncia il documento - il 41bis si è mostrato come uno strumento di ricatto per spingere i detenuti alla collaborazione con la magistratura, fondato su pratiche di vera e propria tortura. Le condizioni inumane di detenzione previste da questo istituto si concretizzano in isolamento in celle di pochi metri quadri, limitazioni all’ora d’aria, sorveglianza continua, limitazione o eliminazione dei colloqui con i familiari, controllo della posta, limitazione di oggetti in cella persino come penne, quaderni e libri. Un progressivo annientamento che provoca danni incalcolabili nel corpo e nella psiche dei detenuti”. Il documento sottolinea che “l’ergastolo, assimilabile in tutto e per tutto alla pena di morte, è invece l’istituto con il quale lo Stato prende possesso del corpo di un individuo, arrogandosi la prerogativa di decidere discrezionalmente se, come e quando restituirgliela attraverso la “libertà condizionale” per “buona condotta”, senza che questi possa mai venire a conoscenza dei tempi e dei modi del suo eventuale rientro nel consesso sociale”. E conclude che “al netto della inumanità di una punizione a vita, che cancella nell’individuo le idee stesse di “speranza” e di possibile reinserimento nella comunità, l’ergastolo è incompatibile con la Costituzione e con l’idea di “rieducazione” del condannato”. Il comitato promotore della piattaforma annuncia che nel corso delle prossime settimane organizzerà iniziative di divulgazione, sensibilizzazione e dibattito nelle principali città. Sul caso dell’anarchico Cospito è intervenuto anche Amnesty International con un tweet: “Alfredo Cospito è arrivato a quasi 100 giorni di sciopero della fame. Ribadiamo che è dovere delle autorità italiane adempiere agli obblighi di protezione e rispetto dei diritti umani del detenuto, tenendo anche conto delle dure condizioni del regime del 41 bis cui è sottoposto”. L’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini, come già riportato su Il Dubbio di ieri, comunica di aver saputo dal medico di Cospito che “le condizioni di salute del proprio assistito stanno precipitando e che nel penitenziario dove sta al 41 bis non troverebbe alcuna possibilità di cura e/ o intervento salvifico della vita”, perché il Bancali “non ha un centro clinico”. Sul caso della diffida nei confronti del medico, interviene il capogruppo dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Peppe De Cristofaro: “La comunicazione del ministero della Giustizia che autorizza la dottoressa Milia, che segue le condizioni di salute di Alfredo Cospito, a visitarlo ma le vieta di parlare con i giornalisti, in particolare con Radio Onda d’Urto, presumibilmente delle condizioni di salute di Cospito, è inaudita. Attendiamo a questo punto un chiarimento direttamente dal ministro Nordio, sia rispetto a questa assurda comunicazione, che alle nostre interrogazioni su cui attendiamo ancora risposta”. Cospito, sul 41 bis dal Palazzaccio la palla passa al ministro di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 gennaio 2023 La Cassazione fissa l’udienza al 20 aprile. Orlando: “Troppo tardi, intervenga il Ministro”. Sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame ormai da quasi cento giorni nel carcere Bancali di Sassari per protesta contro il regime di 41 bis cui è sottoposto da otto mesi, “la Cassazione ha deciso di non decidere”, per prendere in prestito le parole con le quali l’ex Guardasigilli Andrea Orlando ha accolta la decisione della Corte suprema. La Cassazione infatti ha fissato al 20 aprile prossimo (rendendolo noto ieri) la decisione sul ricorso presentato contro il carcere duro, dopo il no del Tribunale di sorveglianza, dai legali di Cospito. “Ha perso più di 40 chili - spiega la dottoressa Angelica Milia, suo medico personale - La letteratura medica dice che quando si perde la metà del proprio peso si verificano danni irreversibili. Non può aspettare tanto, potrebbe avere un crollo da un momento all’altro e a quel punto dovrà essere ricoverato e alimentato forzatamente. Solo che lui ha già scritto che rifiuta l’alimentazione forzata”. Nei giorni scorsi il suo avvocato, Flavio Rossi Albertini, ha presentato ricorso al ministro Nordio portando “nuovi elementi” che potrebbero dimostrare come i movimenti anarchici non siano subalterni ai proclami di Cospito, sebbene solidali. A questo punto, come esorta il dem Orlando, “l’unica possibilità sta nell’intervento del Ministro. Credo ci siano i presupposti. Sicuramente c’è l’urgenza”. Cospito, in sciopero della fame da 100 giorni, sta sempre peggio e rischia la vita di Frank Cimini Il Riformista, 26 gennaio 2023 Ma la Cassazione se la prende comoda e fissa ad aprile l’udienza per il ricorso contro il 41bis. L’avvocato: “Tempi non compatibili con le sue condizioni di salute, ho chiesto di anticiparla”. E il Dap: “Trasferirlo in un carcere con centro clinico? È stabile e tranquillo”. L’anarchico in sciopero della fame da 100 giorni, ha perso 42 chili. Tutto va bene madama la marchesa. È questo il succo di un comunicato ufficiale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulle condizioni di Alfredo Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre con 42 chili persi. “Risulta a questa direzione che le condizioni del detenuto Alfredo Cospito al momento siano stabili e che lo stesso riferisce benessere psico-fisico” si legge nella nota inviata all’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini. “Il soggetto appare tranquillo” si legge nella presa di posizione assunta formalmente dal Dap ieri mentre il giorno prima nel cercare di smentire senza peraltro riuscirci la diffida al medico di fiducia per l’intervista rilasciata a Radio Onda d’Urto il dipartimento si era espresso attraverso le agenzie di stampa come non meglio definite “fonti”. Insomma una sorta di gioco a nascondino, di dire e non dire ufficialmente che dovrebbe essere estraneo a un apparato dello Stato. “Cospito continua le attività sociali e usufruisce del tempo di permanenza nei passeggi - prosegue il Dap - È regolarmente seguito sia dal cardiologo della ASL sassarese che dal cardiologo di fiducia e le prescrizioni di entrambi vengono scrupolosamente osservate. In caso di necessità la richiesta di trasferimento presso altro istituto penitenziario dotato di assistenza intensivo potrebbe essere avanzata dal competente dirigente sanitario dell’istituto”. In realtà il trasferimento in una prigione dotata di centro clinico è già stato chiesto formalmente dall’avvocato difensore, Flavio Rossi Albertini, che replica brevemente: “I toni rassicuranti del documento del dipartimento destano stupore e sconcerto perché contrastanti con le informazioni in possesso della difesa. La nota ministeriale rappresenta inoltre una ostentata assunzione di responsabilità per ogni conseguenza del caso. Il riportare che Cospito riferisca un benessere psicofisico per giustificare l’inerzia dimostra la mancanza di conoscenza delle conseguenze di un prolungato digiuno”. Quella del Dap sembra il quadro di un paziente ricoverato in una casa di cura con qualche problema e non quello di un detenuto che sta mettendo a rischio l’incolumità e la vita per tutelare i suoi diritti e i diritti dei quasi 800 “ospiti” del 41 bis. Comunque oggi pomeriggio come ogni giovedì Cospito sarà visitato dalla cardiologa di fiducia Angelica Milia che relazionerà l’avvocato, sperando che non venga diffidata persino da questa attività. La dottoressa spiega di essere scettica su quanto afferma il Dap secondo cui i parametri sarebbero nei limiti, aggiungendo che i medici del carcere si sono detti favorevoli al trasferimento in una prigione con un centro clinico dopo aver cercato di dissuadere Cospito dal proseguire il digiuno. Intanto la Cassazione ha fissato al 20 aprile prossimo l’udienza in cui sarà discusso il ricorso presentato dalla difesa contro il provvedimento con cui il Tribunale di Sorveglianza aveva confermato l’applicazione del regime di carcere duro previsto dall’articolo 41 bis del regolamento penitenziario. Si tratta di un termine di tempo lunghissimo altamente incompatibile con le condizioni di salute di un recluso in sciopero della fame ora da quasi 100 giorni. Anche se i tempi della Suprema Corte sono questi per tutti i tipi di ricorsi la questione resta drammatica con il rischio di finire in tragedia. La difesa comunque chiede di anticipare la data a causa delle ragioni di salute del detenuto. A Cospito arriva la solidarietà degli imputati del processo al centro sociale torinese di Askatasuna. “Solidarietà e sostegno alle battaglie di civiltà contro l’ergastolo ostativo e il 41 bis”. E dopo le prese di posizione dei consigli comunali di Torino e Nuoro per la revoca del 41bis a Cospito il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo invita a fare altrettanto il consiglio comunale di Pescara la città natale dell’anarchico. “Non si tratta di simpatizzare con le idee e le azioni di Cospito ma di chiedere l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione che prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Caro ministro Nordio, ho già visto morire Ebru, ora la prego: salviamo Cospito di Ezio Menzione* Il Manifesto, 26 gennaio 2023 È importante dimostrare che in Italia non possono accadere le stesse tragedie che caratterizzano un sistema autoritario come quello turco, che ha lasciato morire l’avvocata curda nelle prigioni di Erdogan dopo 238 giorni di sciopero della fame Egregio Ministro Nordio, ho seguito molto da vicino nel 2020 lo sciopero della fame intrapreso dalla avvocatessa turca Ebru Timtik perché la avevo personalmente conosciuta e poi, nel mio ruolo di Osservatore Internazionale per l’Unione delle Camere Penali, perché mi pareva che si fosse di fronte ad una stortura dovuta all’autoritarismo del sistema giuridico turco per il fatto che la si lasciasse morire senza che alcuno si degnasse di conoscere quali fossero le sue estreme condizioni, i motivi della sua protesta e come si potesse interrompere il braccio di ferro in corso. Non ci voleva molto a capire che in questo braccio di ferro la parte più fragile era ovviamente lei e dunque, rimanendo ferme le cose, il destino di Ebru era segnato. Infatti, dopo cinque mesi di sciopero totale della fame, Ebru morì, senza essere stata rimessa in libertà né dalle corti turche né dalla Corte Europea. Commentando sulle pagine di questo stesso giornale la sua morte, scrissi allora che simili cose potevano avvenire solo in una società antidemocratica, incapace di far intervenire quelle “agenzie” di intermediazione (giudiziarie, legali, cliniche ed anche, perché no? morali o religiose) che invece nel nostro assetto democratico abbondano e sono in grado di impedire che certe tragedie si compiano suggerendo o imponendo decisioni coraggiose, o anche solo di buon senso (che a volte sono le più coraggiose) che dicano alt ad una tragica deriva. Ognuno assumendosi le proprie responsabilità. Infatti, nella storia che ricordo io, nessuno che abbia intrapreso lo sciopero della fame in carcere ne è morto, contrariamente a quanto accaduto in altri paesi occidentali (Irlanda, quando era ancora Gran Bretagna). Ma attorno al caso Cospito ho veramente paura che le mie deduzioni di allora circa il caso Timtik vengano smentite. In molti, non solo giuristi, di un’area molto vasta, si sono mobilitati e stanno chiedendo a gran voce di riconoscere che il 41 bis applicato al Cospito è un nonsenso e che comunque ci si aspetta un gesto politico che scongiuri un esito estremo. Le condizioni di salute del detenuto, dopo 4 mesi di sciopero della fame, sono ormai molto gravi. Certamente l’amministrazione penitenziaria lo monitora, o almeno così si spera. Però è molto strano che il Ministero non abbia mandato nemmeno un’ispezione clinica per capire quanto gravi siano tali condizioni. Il detenuto ha perso 40 chili: assai più di un quarto, valicando dunque quella soglia che - almeno tradizionalmente, basandosi su altri casi di sciopero della fame - anche i giudici considerano pericolosa, potenziale portatrice di un esito infausto o comunque tale da rendere difficilissimo un recupero anche se domani cessasse la protesta. Purtroppo non sono rari i casi - e anche qui Turchia docet - in cui il detenuto muore dopo essere stato rimesso in libertà perché non ce la fa a recuperare. La dottoressa che lo sta seguendo ha rilasciato una dichiarazione alle agenzie in cui si dice che apparentemente, nonostante il dimagrimento, Cospito non è in articulo mortis, è ben orientato, sia pure con cali e sbandamenti; ma non ha più nessuna riserva né di grassi né di zuccheri e quindi potrebbe crollare da un momento all’altro: crollare nel senso letterale di cascare in terra morto. Tant’è che lei lo ha consigliato di mantenere la socialità dell’unica ora d’aria con altri tre detenuti che gli è concessa, ma di non camminare nemmeno (e lui invece vorrebbe) per non consumare le ultime energie rimaste. Ove si dovesse raggiungere un punto di crisi finale i giudici potranno intervenire non certo con cure o alimentazione coatta (ambedue vietate dalla nostra Costituzione, stando alla giurisprudenza della Corte Costituzionale), ma sospendendo la pena per agevolare una ripresa; intanto si continuerà a discutere se il 41 bis si attaglia oppur no al caso Cospito; potrebbe intervenire, sia pure tangenzialmente, anche la Corte Costituzionale, già investita di alcuni aspetti della sua detenzione; potrebbe intervenire addirittura la CEDU, se adita in via incidentale e d’urgenza, senza attendere tutto l’iter interno e l’Italia con ogni probabilità non vincerebbe la causa e ci farebbe una ben meschina figura. Ma c’è una cosa specifica che il Ministero potrebbe fare, anzi due, collegate: primo, mandare domani stesso un medico ispettore che accerti le condizioni del detenuto. Secondo, se tali condizioni sono quelle che noi sappiamo per averle pacatamente, ma drammaticamente descritte la sua dottoressa, il Ministro può sospendere l’applicazione del 41 bis. Nel suo potere di decretare l’applicazione del 41 bis o revocare la stessa, ci sta sicuramente - anche per solo buon senso - anche il potere intermedio di sospenderla per un congruo periodo di tempo. Intanto quelle “agenzie” di intermediazione potranno far valere la loro voce sull’assurdità del 41 bis in questo caso concreto (e magari, chissà, anche in generale). L’importante è dimostrare che in Italia non possono accadere le stesse tragedie che caratterizzano un sistema autoritario come quello turco. Mi vanto di dire che noi siamo più avanti in tema di democrazia e rispetto dei diritti umani, anche dei detenuti, anche dei detenuti che hanno scelto una legittima forma di protesta: anche se non si fosse d’accordo coi motivi di questa protesta. Confido che possa essere presa da Lei, signor Ministro, un’iniziativa del genere che, quanto meno, ribadirebbe i connotati democratici del nostro paese. La ringrazio per l’attenzione che vorrà dedicare a questo mio appello. *Osservatore internazionale Ucpi Solo e malato in cella, le paure di Messina Denaro dimenticato dai parenti di Lirio Abbate La Repubblica, 26 gennaio 2023 Nei primi dieci giorni neanche una visita. La nipote-avvocata ha telefonato. Il telegramma degli altri familiari. “Disposto al dialogo” è la terminologia che userebbe il funzionario giuridico pedagogico dopo aver trascorso alcune ore con Matteo Messina Denaro. In dieci giorni di detenzione il boss ha incontrato solo i medici che si stanno prendendo cura di lui in carcere. E con loro parla della sua malattia, di cui è molto preoccupato. Della terapia a cui viene sottoposto. Conosce le caratteristiche di tutti i farmaci che gli vengono somministrati, gli effetti collaterali che possono avere su di lui. La paura di morire e la solitudine - I suoi modi sono felpati, il tono di voce moderato e garbato, anche quando parla di cure farmaceutiche “che ci sono solo in Israele” e potrebbero fare al suo caso. Ne avrà saputo dell’esistenza attraverso internet, la rete. Non si sa. Ma quello che appare evidente è la sua paura di morire. In questa prima settimana di detenzione, la prima della sua vita, oltre ai medici e agli agenti, non ha visto nessun altro. Non è andato a trovarlo il suo difensore, che poi è la nipote, ma si è limitata a fare una telefonata. E non sono andati a vedere come sta nemmeno gli altri familiari che teoricamente non lo incontrano da trent’anni. Il boss in carcere è solo. In compenso gli hanno scritto un telegramma che in questi giorni ha riletto più volte. Seduto per quasi tutte le ore della giornata, quei due fogli di carta sono le uniche brevi letture. Quei messaggi, telegrafici, li tiene stretti fra le mani, li osserva parola per parola, come se fosse in una moviola. Tutto a rallentatore. Li prende più volte i fogli dal piccolo tavolo dove sono adagiati e li guarda a lungo. Poi li ripone, e con il gesto della mano li stira, come ad accarezzarli. E tutto con movimenti del corpo delicati. Appare come una persona preparata a trascorrere la sua vita in carcere. Rassegnata. E nonostante fosse abituato ogni giorno a fare una corsetta di cinque chilometri, come ha detto lo stesso boss agli agenti e la muscolatura delle gambe mostrano un fisico allenato, qui non vuole nemmeno andare a fare la passeggiata da solo nell’ora d’aria che gli è consentita. “Non creo problemi” - “Non creo problemi” ha continuato a ripetere agli agenti penitenziari del Gom. E a loro chiede: “Ditemi cosa devo fare”. Il boss ha voglia di dialogare. E mentre riceve la visita quotidiana di medici o agenti, ha voluto dire: “Non sono la persona che viene descritta” mentre con il dito della mano indica lo schermo della televisione, che per i primi sei giorni ha tenuto volontariamente spenta. Il riferimento esplicito è al mondo della comunicazione che parla di lui e della sua storia criminale e di come viene raccontato. Non si ferma a questa affermazione difensiva, va oltre, e ha voluto pure dire che lui “non ha mai ucciso donne e bambini”. Fra le sentenze definitive che lo vedono condannato all’ergastolo ci sono pure quelle che lo accusano dell’omicidio del quattordicenne Giuseppe Di Matteo, della giovane di Alcamo, Antonella Bonomo che era incinta, e poi della strage di via dei Georgofili a Firenze, dove muoiono lo studente Dario Capolicchio, e con lui un’intera famiglia: il vigile urbano Fabrizio Nencioni, la moglie Angela e le due figlie, Nadia, otto anni, e Caterina di cinquanta giorni. Messina Denaro, però, alle persone che vede per la prima volta in carcere, ci tiene a dire che lui degli omicidi di donne e bambini non è responsabile. I fatti dimostrano il contrario. “Sono innocente” - Questo metodo difensivo lo aveva messo in atto pure nel 1993, quando si doveva congedare da una delle sue amanti, e le aveva scritto una lettera: “Ciao, non so se hai capito che nell’operazione di ieri da parte dei carabinieri c’è anche un mandato di cattura nei miei confronti, quindi anche io ora sono ricercato. Non so ancora il motivo, ma qualunque cosa abbiano messo è soltanto una grande infamia, perché sono innocente della qualsiasi e sono rimasto vittima soltanto del mio nome e di qualche essere che profitta del proprio potere”. La filosofia di questo boss è tutta qui, riassunta in questa lettera trovata nel 1993 da un ispettore della squadra mobile di Trapani a casa di Sonia M., a Mazara del Vallo. Sonia e Matteo all’epoca hanno una relazione. Il capomafia probabilmente frequenta pure altre donne, ma è a lei che decide di lasciare il suo epitaffio: “È iniziato il mio calvario, e a 31 anni, e con la coscienza pulita, non è giusto né moralmente né umanamente, tutto ciò. Spero tanto che Dio mi aiuti \[...\] Spero tanto, veramente di cuore, che almeno tu nella vita possa essere fortunata, la meriti perché sei una brava ragazza. Non pensare più a me, non ne vale più la pena, perché so quali orrori passerò una volta entrato innocentemente in questa spirale infernale”. La destra garantista? Non ne vedo traccia di Luigi Manconi Il Riformista, 26 gennaio 2023 Accusa la sinistra di giustizialismo, ma nel proprio campo i principi garantisti scompaiono di fronte ai deboli, ai poveri, ai migranti e agli avversari. Ecco perché la destra non può dare lezioni. Caro Direttore, per i partiti e per i giornali di destra è stato un gioco fin troppo facile quello di denunciare la vocazione giustizialista della sinistra in occasione della polemica sul ministro della Giustizia Carlo Nordio e sulle sue intenzioni di ridurre il ricorso alle intercettazioni telefoniche. Fin troppo facile, e posso dirlo a ragion veduta, perché di quella sinistra - ancorché faticosamente - faccio parte. E, dunque, posso affermare che la vocazione giustizialista alberga tuttora nella maggioranza di questa area politica. Ma non riesco, non riesco proprio, a evitare la replica (un po’ puerile, lo ammetto): e allora voi? Qui, l’abusata parabola della pagliuzza e della trave si impone, e non solo per ripicca: perché, piuttosto, colpevolizzare esclusivamente la sinistra, come si merita, rischia di assolvere la destra italiana. Che è, poi, la più giustizialista d’Europa. Come sempre, bisogna salvaguardare e valorizzare le eccezioni, ma se i garantisti collocati a sinistra possono contarsi sulle dita di due mani, o poco più, quelli collocati a destra (nei media e nel sistema politico) non superano le dita di una. Innumerevoli le conferme. La fallacia di un presunto garantismo di destra rivela impietosamente tutta la sua povertà rispetto a tre regole fondamentali. Uno: il garantismo vale per tutti, amici e nemici, alleati e avversari, sodali e competitori. Due: il garantismo deve essere universalista. Cioè capace di tutelare ricchi e poveri, potenti e deboli, privilegiati e non garantiti. Tre: il garantismo si afferma a prescindere dall’identità di colui al quale va applicato, dunque a prescindere dal curriculum criminale, dalle idee politiche, dall’adesione al sistema democratico, dalla simpatia che suscita o dalla riprovazione che ispira. Quanto i partiti e i media di destra facciano strame di questi principi, è sotto gli occhi di tutti. Basti notare che, in occasione delle due più recenti vicende giudiziarie “di sinistra” (caso Soumahoro, Qatar gate) la destra compattamente, come un sol uomo e un solo vocabolario, come un unico pensiero e un’unica postura, si è scatenata contro il campo avversario, senza la più esile preoccupazione garantista. (Ricordo una sola eccezione: Iuri Maria Prado). E così è andata, inesorabilmente, nel corso degli ultimi trent’anni. D’altra parte, il connotato classista del garantismo della destra è lampante: non vale mai, dico mai, quando diritti e garanzie dovrebbero tutelare gli individui più deboli e in particolare gli stranieri e le persone private della libertà personale. I decreti sicurezza del ministro Salvini hanno fatto scempio di tutte le garanzie, processuali e penali, e hanno contribuito all’introduzione di un “diritto diseguale” per chi non sia titolare della cittadinanza italiana. L’abolizione di un grado di giudizio per coloro che ricorrono contro il mancato riconoscimento dello stato di rifugiato (introdotta, peraltro, da un governo di centro - sinistra), la pratica dei respingimenti collettivi, le limitazioni al diritto - dovere di soccorso in mare, sono altrettanti strappi inferti al sistema delle garanzie. Infine, mentre una dozzina di anni fa, la difesa della causa di Stefano Cucchi veniva assunta anche da esponenti della destra (da Melania Rizzoli a Flavia Perina), oggi nulla del genere. Non un solo esponente dell’attuale maggioranza ha pronunciato una sola parola sulla vicenda dello sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il 41-bis. E appena un paio di anni fa, in occasione della “mattanza” (parole della procura) ai danni dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere, i parlamentari di destra che si sono espressi lo hanno fatto per comunicare la propria solidarietà agli aguzzini. In conclusione, mi sembra innegabile che non possa essere la destra a dare lezioni di garantismo alla sinistra. Come non può essere il contrario. E la cosa riguarda anche il cosiddetto Terzo Polo. Come dimenticare che, al momento della formazione del suo esecutivo, Matteo Renzi, per il Ministero della Giustizia, fece al capo dello Stato il nome di Nicola Gratteri, il più lisergico e spensierato (in senso letterale) dei giustizialisti italiani? E nel corso di quello stesso governo, le preoccupazioni garantiste del premier si adattavano agevolmente alla valutazione delle opportunità. L’intransigenza garantista di Renzi è, ahi lui, acquisizione più recente. Quindi, come si vede, il più pulito c’ha la rogna (anche io, e ne ho fatto pubblica ammenda proprio su queste colonne). La conseguenza è una sola: rinfacciare tentazioni manettare all’opposto schieramento non porta da nessuna parte. Fino a che qualcuno non dismetterà per primo le armi e, dunque, non rinuncerà a colpevolizzare un avversario perché avversario, il populismo penale umilierà tutte le nostre migliori intenzioni. Cordiali saluti. “Legge Cartabia da promuovere”. Magistratura democratica sconfessa gli “allarmisti” di Errico Novi Il Dubbio, 26 gennaio 2023 Giudizio positivo su perseguibilità a querela e pene extracarcerarie: “È la via da seguire”. Di recente anche il magistrato Raffaele Cantone aveva approvato la riforma. Finalmente c’è un settore della magistratura che lo dice: sulla riforma Cartabia c’è un prevalere di toni allarmistici. Dopo le prese di posizione di singole, autorevoli figure dell’ordine giudiziario (come Raffaele Cantone, che ne ha parlato anche in un’intervista al Dubbio), una corrente dell’Anm si espone e si schiera a favore delle norme volute dalla ex guardasigilli: si tratta di Magistratura democratica, uno dei due gruppi progressisti delle toghe - l’altro è Area - che conferma, con un documento sul nuovo assetto della giustizia penale, il proprio orientamento aperto sulle riforme. Soprattutto, Md si rivela ancora una volta contraria ai riflessi pavloviani giustizialisti, e capace di guardare dunque a un sistema più chiaramente ispirato a quell’approccio “costituzionale” difeso innanzitutto dall’avvocatura. Sembrerebbe paradossale, considerato che garantismo e diritto penale “liberale” sono prospettive culturali intimamente legate fra loro: sembrerebbe paradossale considerato che l’ispirazione liberale non dovrebbe essere esattamente il riferimento di Md, la corrente dal tratto più chiaramente “di sinistra” dell’Anm. Ma in realtà l’analisi del gruppo guidato dal segretario Stefano Musolino dimostra ancora una volta come il giustizialismo non sia un’opzione naturale, per la sinistra. Aspetto sul quale lo stesso Pd dovrebbe forse riflettere, quando si schiera contro un guardasigilli garantista come Carlo Nordio o converge con il Movimento 5 Stelle su riforme come quella dell’ergastolo ostativo. In ogni caso, l’esecutivo di Md ha diffuso tre giorni fa un documento analitico sulla riforma penale di Cartabia in cui si arriva a due conclusioni: innanzitutto, a proposito della perseguibilità a querela estesa a un nuovo catalogo di reati, si nota come la scelta possa “rispondere all’interesse della giustizia”. E più in generale, il gruppo ritiene che la riforma, “pur migliorabile”, sia “da salutare positivamente”, anche se non soprattutto per la parte sul “sistema sanzionatorio”. Vale a dire le norme della “legge Cartabia” che ampliano i casi di “applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto” o “le ipotesi di possibile ammissione alla messa alla prova”, e che introducono “nuove pene sostitutive”. L’analisi è ampia, approfondita. E ha forse il solo limite di non essere aggiornata alle novità previste dal ddl “correttivo” varato la settimana scorsa in Consiglio dei ministri, con il quale è stato posto rimedio alla questione dei reati perseguibili a querela che, a prescindere dalla loro relativamente bassa offensività, possono comunque essere commessi in un contesto mafioso, in cui la vittima è tendenzialmente dissuasa dallo sporgere querela. Com’è noto, il testo messo a punto dal guardasigilli Nordio ripristina la perseguibilità d’ufficio laddove compaiano metodo o finalità mafiosi. Ma al di là di questo, è molto interessante anche l’appello conclusivo di Md sulla riforma Cartabia: che, notano le toghe progressiste, fissa “obiettivi ambiziosi e impegnativi”, consegnati a “tutti gli operatori giudiziari: funzionari dell’amministrazione penitenziaria, magistrati e avvocati”. Ciascun operatore, dunque, “sarà chiamato a esercitare responsabilmente la propria funzione per avvicinare l’esecuzione penale al “volto costituzionale della pena” (Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 1980) che la Carta ci chiede esplicitamente di ricercare. Nessuno si senta escluso”. Che si tratti di una lettura controcorrente rispetto al mainstream giornalistico e al resto dell’Anm, lo si coglie già nello spunto “di cronaca” da cui Magistratura democratica parte: la recente riforma penale, ricorda il documento, ha suscitato “reazioni molto accese, tanto nell’opinione pubblica quanto tra gli operatori giudiziari: con la consueta oscillazione del pendolo, tra chi vuole semplicemente più carcere e chi pensa invece che lo strumento del diritto penale vada usato in maniera ridotta, ma efficace e coerente con la Costituzione e i diritti”. E appunto, nel “pendolo” fra “panpenalisti” e “liberali”, nota Md, “prevalgono i toni allarmistici e sta affermandosi l’idea che la riforma indebolirà la risposta statuale contro il crimine, impedirà di arrestare pericolosi delinquenti e mina la certezza della pena”. Da qui l’analisi sui due aspetti chiave dell’improcedibilità a querela e della “introduzione nell’ordinamento di un catalogo di pene sostitutive, da irrogare in alternativa alla reclusione”. Innanzitutto si osserva, come detto, che “rimettere alla persona offesa la scelta sulla perseguibilità di un certo reato - quando riguarda un bene giuridico disponibile e, comunque, leso in modo non irreversibile - possa rispondere all’interesse della giustizia”. Mentre la seconda parte del documento, concentrata sulle pene extracarcerarie e in generale sulla “deflazione sanzionatoria”, si ricorda, fra l’altro, come il ricorso a soluzioni “sostitutive” della detenzione (tra gli aspetti a cui la stessa Marta Cartabia più ha tenuto a introdurre) fosse necessario per evitare due conseguenze negative: da un lato “le carceri sovraffollate” non in grado di garantire “il reinserimento sociale”, dall’altro la condizione di “alcune decine di migliaia di persone che - essendo state condannate a pene detentive brevi in astratto eseguibili - sono in attesa di vedere esaminate da tribunali di sorveglianza sempre più oberati le loro richieste di accesso alle misure alternative alla detenzione (si allude al fenomeno dei cosiddetti liberi sospesi)”. Sono aspetti ben descritti nelle stesse relazioni tecniche che accompagnano la riforma. E che vengono finalmente valorizzati anche da chi, come i magistrati, quelle norme sarà chiamato a far funzionare. Prima intercettano poi indagano: perché così non va di Alberto Cisterna Il Riformista, 26 gennaio 2023 C’è qualcosa di non chiarito che resta nascosto nel polverone sollevato sulle intercettazioni dopo il discorso del ministro Nordio in Parlamento e dopo la cattura di Matteo Messina Denaro. Esiste un non-detto, una sorta di metatesto tra le righe delle dichiarazioni che nasconde agli occhi dell’opinione pubblica meno esperta quale sia il reale terreno di scontro tra quelle che appaiono a prima vista due fazioni furiosamente in lotta. Sia chiaro non vogliamo scoprire l’acqua calda, ma solo segnalare ciò che in parecchi sanno, ma semplicemente tacciono. In questi giorni turbolenti tra articoli, prese di posizione, polemiche affiora carsicamente quale sia la sostanza della questione sul tavolo e quale l’effettivo bersaglio della riforma che il ministero di via Arenula potrebbe avere in mente. Si è parlato di intercettazioni a strascico, di centinaia di migliaia di bersagli che ogni anno cadono nella rete delle captazioni e di milioni di dati di traffico che vengono drenati sulle reti. Per capirsi occorre una certa precisione. Il codice di procedura penale, ovviamente, contiene norme generali. Descrive quali siano gli adempimenti e le prove necessarie per sottoporre a intercettazione una persona in relazione alle indagini per un certo reato. Ciascuna di queste scansioni è minutamente regolata dal codice Vassalli. Ci vogliono quasi sempre gravi indizi di un reato, c’è un soggetto da ascoltare, c’è un decreto che autorizza. Ad esempio, ci sono elementi concreti per ritenere sussistente una corruzione e così si intercettano i due soggetti coinvolti. Sennonché, nel corso delle intercettazioni, si scopre che uno dei due - conversando con altri - sta portando a compimento anche un peculato di cui non si sapeva nulla e per il quale non c’era alcuna evidenza prima. Allora il pubblico ministero acquisisce quelle conversazioni e le utilizza in un nuovo procedimento. Caso facile, facile, ma in realtà - soprattutto dopo alcune sortite legislative del Parlamento in risposta a una certa prudenza, in questa circolazione delle intercettazioni da un processo all’altro, che era stata raccomandata dalle Sezioni unite della Cassazione - i numeri sono sicuramente altissimi. Anzi si può dire che, quasi sempre, questa sia la regola. Si intercetta partendo da un reato del quale poi non si scopre nulla, ma grazie agli ascolti (soprattutto se molto estesi) si mettono le mani su altre piste investigative totalmente sconosciute e qualcuno ci resta impigliato. La rete a strascico di cui si discute è questa e riposa su una precisa norma del codice di procedura penale (articolo 270) non a caso oggetto di un nugolo di interventi legislativi e di pronunce della Corte di cassazione dal 2017 sino ai nostri giorni (sentenza n. 37911 del 2022). È il cuore del sistema, il nocciolo duro del potere investigativo a disposizione degli inquirenti. È la ragione per cui le indagini si prestano a essere orientate non verso i reati, ma verso i soggetti di interesse; tanto in un paese che galleggia tra mille illegalità e tra mille debolezze personali, qualcosa vien fuori per incastrarli o per deturparli con qualche giornalista compiacente. Spezzata la relazione decreto-reato-persona e aperto a dismisura il compasso delle intercettazioni utilizzabili verso ogni reato che venga a galla è chiaro che si opera a mano libera e, potenzialmente, per un periodo praticamente illimitato. Il codice non detta un termine di durata massima delle captazioni che, di proroga in proroga, possono durare anche due anni. È questa, sia consentito dire, la sostanza “occulta” del dibattito in corso. Né il ministro Nordio sostiene, né alcun altro può seriamente sostenere che le intercettazioni siano uno strumento inutile; in alcuni casi sono fonti insostituibili e necessarie. Certo per le mafie e per il terrorismo, ma anche per la corruzione o la pedopornografia. Il punto è limitare, circoscrivere, se del caso anche sopprimere la possibilità di utilizzarle per un reato diverso da quello per il quale si stava procedendo inizialmente; in modo da privare gli inquirenti della paranza che l’articolo 270 attualmente consente. L’obiezione è evidente: e se nel corso delle intercettazioni si scopre che tizio, presunto corruttore, ha fatto assassinare un rivale come si procede? Si rinunzia alla prova? Ma qui il tema smarrisce i suoi connotati giudiziari e diventa tutto politico e ideologico. Teoricamente installando un Grande Fratello in tutta Italia si scoprirebbero migliaia e migliaia di reati di cui non si sa nulla con somma gioia di tanti, sia chiaro. La società sorvegliata (David Lyon, Feltrinelli, 2002) è la più sicura delle aggregazioni umane che, ahimè, paga questa tranquillità con un sacrificio immane delle proprie libertà. Certo ci sono le Carte internazionali, c’è la Costituzione, ma se basta un provvedimento giudiziario per procedere agli ascolti e si abbassa la soglia degli elementi di prova per intercettare, in teoria (è una provocazione, chiaro) tutti potrebbero essere sottoposti a intercettazioni, minori compresi perché non si deve essere sospettati di aver commesso un reato per esserlo, è sufficiente anche esserne una potenziale vittima. Proprio perché la questione è tutta politica e ideologica, si deve prendere atto che la quasi totalità delle democrazie occidentali non consente un uso così ampio, come in Italia, delle intercettazioni giudiziarie, ossia da utilizzare come prove. Prediligono altri paesi quelle preventive e di intelligence con l’evidente limite che mai potranno essere utilizzate e men che meno divulgate; chissà quanti delitti restano impuniti in Usa o in Germania. Certo sopportano un costo e ne devono rendere conto ai propri cittadini. In Italia, si obietta, ci sono le mafie che hanno commesso stragi. È vero e nessuno discute che si deve continuare a intercettare per scoprire tutti i reati commessi dai mafiosi; quelli che il ministro Nordio ha chiamato i reati “satellite” delle associazioni. Ma il Parlamento deve essere lasciato libero di decidere come realizzare il miglior bilanciamento degli interessi costituzionali in discussione e di cercare un punto di equilibrio tra istanze repressive e tutela della privacy e della dignità mediatica delle persone. Per farlo non è molto appropriato, in una democrazia liberale, che il legislatore operi sotto la minaccia di passare per colluso o lassista e che ogni intento riformatore sia denunciato come una resa al nemico. Si deve decidere con la necessaria serenità e, soprattutto, potendo disporre di un adeguato patrimonio di informazioni. Tutti conoscono le cifre dell’attività di intercettazione in Italia; parlare del loro costo è francamente marginale a fronte del prezzo pagato dalle libertà individuali, mentre sarebbe molto più utile verificare - anche nel corso delle audizioni parlamentari in corso in questi giorni innanzi alla Seconda Commissione al Senato - quale sia la concreta applicazione dell’articolo 270 del codice di procedura. Ammesso che qualcuno abbia i dati e abbia voglia di renderli noti; ma senza tutto rischia di ridursi solo a un vuoto dibattito su questioni astratte. Le intercettazioni fanno paura al potere, non agli innocenti di Fabio Anselmo* Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2023 Le intercettazioni sono il principale strumento di ricerca della prova nelle indagini del processo penale. Quando divengono oggetto del diritto-dovere di informazione spesso accade che mettano a nudo il potere. O meglio, coloro che ne sono in qualche modo i detentori. Intercettazioni e diritto di cronaca sono da decenni temi caldi della discussione politica che, tuttavia, non infiamma certo i cittadini normali per il semplice fatto che non se ne sentono coinvolti. Tutti sanno, invero, che sono indispensabili per arrivare alla verità e assicurare i colpevoli di gravi reati alla giustizia. Le temono, pertanto, criminalità e potere per motivi diversi. La prima vorrebbe non esistessero o, quantomeno, fossero ridotte al lumicino. Il secondo che rimanessero segrete per non perdere consenso con l’accidentale rivelazione di particolari imbarazzanti della vita privata di coloro che lo esercitano sui cittadini. La storia recente di questo Paese ha visto numerosi momenti di accesa polemica sul tema delle intercettazioni. Per primi i governi Berlusconi che hanno tentato invano di vietarne, in un qualche modo, la pubblicazione suscitando lo sdegno dell’opinione pubblica a seguito della rivolta di tutta la libera stampa. La Costituzione, evocata in modo sentitamente unanime, ha fatto da scudo alla tutela della libertà di informazione. Ma il ‘problema’ non è stato mai abbandonato. Le intercettazioni fanno sempre paura al potere. E anche la magistratura, nell’esercizio della sua attività giudiziaria, è espressione di un potere dello Stato che, sempre, deve essere indipendente da quello della politica. O almeno così dovrebbe. Accade così che proprio la magistratura, che sempre ha difeso intercettazioni e libertà di stampa, ha perso forza in occasione di alcuni drammatici scandali che ne hanno messo in crisi credibilità e funzione. Ecco quindi che viene partorita la cosiddetta ‘Riforma Orlando’ attualmente in vigore. Un argine alla pubblicazione delle intercettazioni particolarmente scomode per il potere. Siccome, si dice, sono gli avvocati a darle ai giornalisti allora non le diamo più agli avvocati. Diamo loro solo quelle strettamente rilevanti. E chi lo decide quali sono? La Polizia giudiziaria, che è l’unica che effettivamente le sente tutte perché le fa materialmente. Al giudice arrivano solo queste filtrate da Polizia e Carabinieri. Gli avvocati, si dirà, possono ascoltare le altre senza poter farne copia alla presenza di un poliziotto. Cosa che è, per un insieme di cose, materialmente impossibile. Nemmeno il Pm le conoscerà veramente. Tantomeno il giudice. Il tutto con buona pace del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Ecco come, oggi, ci ritroviamo, ancora, al centro del dibattito politico le tanto vituperate intercettazioni attraverso i proclami del ministro magistrato Carlo Nordio. I cittadini sfiancati da una crisi sociale, sanitaria ed economica di cui non hanno memoria di precedenti analoghi, e con la guerra alle porte, vi assistono inconsapevolmente impotenti. “Vanno abolite tranne poche eccezioni. Anzi no. Vanno fatte solo per i reati di mafia”. “Non vanno pubblicate pena il carcere”. “Anzi no solo quelle cosiddette non attinenti all’indagine”. Slogan che sono del tutto avulsi da qualsiasi seria analisi logico giuridica dei fenomeni criminali. Qualche commentatore si spinge a lodare proprio quella riforma Orlando che avrebbe già risolto ogni problema in modo più che dignitoso. Inorridisco e vi racconto una delle numerose vicende di vita vissuta di cittadini che hanno avuto la propria vita appesa proprio al filo delle intercettazioni. Una normale vicenda di cosiddetta malagiustizia, come io amo definirla. La dott.ssa Raffaella D’Atri (non è nome di fantasia), nel 2014 è stimatissima direttrice dell’Ispettorato del Lavoro di Rimini. Collabora fianco a fianco con le Procura nella lotta al lavoro nero e all’evasione contributiva. Ha a sua disposizione ispettori e carabinieri. Viene incaricata di reggere, temporaneamente, la sede di Ravenna che è vacante. Vi si deve recare per gli affari urgenti una o due volte alla settimana. Riceve una lettera anonima che denuncia fatti di corruzione che si verificherebbero proprio in quell’ufficio di Ravenna. Parte l’inchiesta della Procura con uso di intercettazioni telefoniche e ambientali anche con video riprese. Vengono riscontrati fenomeni di piccola corruzione, ma viene scoperto anche il fenomeno dei cosiddetti furbetti del cartellino con tanto di video riprese. A fine 2015 arresti e risultanze investigative occupano le cronache giornalistiche anche nazionali e televisive. Le indagini sono oramai chiuse quando, inopinatamente, il 18 febbraio del 2016 le locandine e le televisioni danno notizia di una clamorosa perquisizione eseguita nella sua casa di Rimini proprio alla dott.essa D’Atri con sequestri di computer tablet e cellulari anche personali. Due funzionarie di Ravenna l’avrebbero accusata di essere connivente ai reati commessi dai suoi sottoposti per esserne stata perfettamente a conoscenza senza intervenire come sarebbe stato suo dovere. L’onda di un’infamante pubblica accusa che viene seguita dal pedissequo procedimento disciplinare da parte del ministero del Lavoro. È estate quando la incontro ovviamente disperata. L’udienza preliminare incombe. Ho il fascicolo del Pm e noto che, nonostante non siano indicate come prova a suo carico, è stata eseguita una mole importante di intercettazioni telefoniche e ambientali con tanto di filmati. Strano. Come è mio costume io ne voglio copia di tutte. Allora mi era consentito perché il buon Orlando non era ancora intervenuto con la sua magnifica riforma per impedirmelo. Incontro, tuttavia, notevoli e inusuali (all’epoca) difficoltà. Ma alla fine riesco ad averle. Il problema è il tempo necessario per ascoltarle tutte. Tantissimo. Ci dividiamo il lavoro tra me, il mio studio e la stessa dott.ssa che vi si dedica giorno e notte. L’esito? Con grande sconcerto non solo non emerge nulla a carico della D’Atri ma, anzi, si percepiscono chiarissime le voci di coloro che, coinvolti nell’inchiesta e coimputati, parlando tra loro esprimendo tutto il loro astio nei suoi confronti e la propria rabbia per la sua presenza in ufficio in quei pochi giorni in cui essa era prevista perché, di conseguenza, non avrebbero potuto fare ciò che illecitamente facevano quando la direttrice era in ufficio a Rimini e, quindi, non poteva essere lì. All’udienza preliminare si è pure costituita l’avvocatura di Stato per chiedere i danni alla D’Atri e il Pm ne ha pure chiesto la condanna. Scontata l’assoluzione piena della dott.ssa Raffaella D’Atri. Oggi, con la riforma Orlando, non avrei mai potuto conoscere quelle intercettazioni. Qual è la morale? Chi deve avere paura delle intercettazioni? La D’Atri, innocente, si è salvata grazie a loro. Non le era stata risparmiata, però, tutta la pesantissima gogna mediatica creata non certo “dagli avvocati”. *Avvocato Penalista Davigo: “Nordio smetta di dire bugie, è la politica che ostacola i giudici” di Andrea Malaguti La Stampa, 26 gennaio 2023 “Il ministro usa la fantasia. Le norme contro gli abusi delle intercettazioni esistono già. Cospito al 41 bis? I terroristi dell’Ira che hanno fatto lo sciopero della fame sono morti”. Dottor Davigo, il Parlamento italiano è supino ai magistrati? “Parliamo del ministro Nordio?”. Di lui e delle intercettazioni. “Direi che il ministro Nordio è dotato di una notevole fantasia. Quello che succede è l’esatto opposto. Ho dedicato l’intera seconda parte di un libro (“L’occasione mancata”) al racconto delle iniziative poste in essere dalla politica per tentare di fermare indagini e processi. Di indagini ne hanno fermate poche. Ma di processi molti. Lei ricorda chi era Dato Param Cumaraswamy?”. Temo di no. “Dovrebbe”. Perché? “Era un giudice malese inviato dall’Onu in Italia perché le Nazioni Unite erano preoccupate per la perdita di indipendenza dei nostri giudici. Scrisse due relazioni terribili, in cui segnalava che i nostri politici cambiavano le leggi, azzeravano le prove o abolivano reati per non finire in tribunale. Eravamo all’inizio del nuovo millennio. Il ministro della giustizia era Roberto Castelli. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi”. Siamo ancora nella situazione del giudice malese? “No. L’indipendenza della magistratura fino ad ora ha retto. Ci sono in giro pessime intenzione, ma per fortuna tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare. E, soprattutto, la Costituzione, i trattati e le corti internazionali”. Crede che Nordio voglia ridimensionare i magistrati? “Io non lo so che cosa abbia in testa Nordio. Mi baso sulle cose che dice. E oggettivamente sono cose non vere”. Che cosa c’è di male nel combattere l’abuso delle intercettazioni? “Nulla, infatti è già previsto. Proprio da quel reato di abuso d’ufficio che il ministro vuole abolire”. Nessun altro Paese intercetta quanto noi. “Bugie, appunto”. Sono numeri. “Ma quali numeri? Il punto è che la nostra Costituzione prevede che tutte le intercettazioni debbano avere il lasciapassare dell’autorità giudiziaria. Persino quelle dei servizi segreti. In Francia, in Canada, o in Inghilterra, dove ne fanno milioni, non è così e la polizia si muove per conto proprio”. Uso le parole di Silvio Berlusconi al Corriere della Sera: non possiamo trattare ogni singolo cittadino come se fosse un sospetto mafioso. “Ma di che parla? Per autorizzare le intercettazioni servono indizi di reato e l’assoluta indispensabilità delle stesse”. Il Cavaliere le rinfaccia anche la famosa frase: non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora scoperti. “Di nuovo? Spiego per la ventesima volta. Parlavo di un caso specifico. Le tangenti per la linea 3 della metropolitana di Milano, in cui l’impresa capogruppo raccoglieva denaro dalle imprese associate e consegnava le tangenti a un referente politico che divideva tra tutti i partiti. Nessuno che avesse vinto quegli appalti era estraneo, c’era un sistema. Che infatti portò al 100% di condanne”. Che cosa pensa quando le danno del giustizialista? “Chi lo sostiene appartiene invariabilmente a due categorie. A quella dei ladri e degli amici dei ladri (e allora non me ne curo). O a quella meno nutrita di chi è in buonafede ma non sa di che cosa parla”. Dottor Davigo, nella cattura di Matteo Messina Denaro hanno contato di più le intercettazioni o le trattative sottobanco? “Non credo a trattative sottobanco. Se ci fossero state, Matteo Messina Denaro sarebbe stato preso da solo, senza coinvolgere altre persone. E non sarebbero state trovate tutte quelle tracce biologiche e documentali”. Il ministro Piantedosi si era augurato l’arresto di U Siccu pochi giorni prima. “Forse un caso. O forse sapeva che le indagini erano in fase avanzata. Magari, più semplicemente, le cose capitano”. Capita anche che Salvatore Baiardo, considerato vicino ai fratelli Graviano, annunci a Giletti malattia e arresto imminente del super boss. “Baiardo ha detto cose che chiunque abbia conoscenza di quel mondo avrebbe potuto dire, immaginare o dedurre. Suppongo sapesse che Messina Denaro è malato. E gli uomini malati tendono ad abbassare la guardia”. Perché ci sono voluti trent’anni per prenderlo? “Perché una catena è debole quanto il più debole dei suoi anelli”. Non mi è chiaro. “Sono operazioni difficilissime. Che coinvolgono migliaia di persone. Basta che una di loro sia infedele, o superficiale, perché salti tutto”. Lei non pensa che esistano due Stati, uno che agisce alla luce del sole e uno che si muove nell’ombra? “Bah. Ovviamente esistono anche i servitori infedeli dello Stato. Ma non mi sentirei di dirlo”. Lei citava prima le corti internazionali. Quella di Strasburgo per i diritti dell’uomo ci ha condannato più volte per il ricorso al 41 bis e al carcere ostativo. “Forse perché a Strasburgo non siamo stati capaci di difenderci bene”. Deduco che lei sia favorevole a entrambi. “Non si tratta di essere favorevoli e contrari, ma di spiegare la reale situazione italiana. Altrove non hanno avuto la strage di Capaci. E subito dopo quella di via D’Amelio. Non hanno avuto via dei Georgofili o l’attentato fallito a 500 carabinieri davanti allo stadio Olimpico. Non credo esista un altro paese del G7 che ha dato la caccia per 30 anni a latitanti come Riina, Provenzano o Messina Denaro”. Capisco il punto. Capisco meno perché uno Stato forte rinunci a riabilitare anche i criminali più incalliti o a trattarli con maggiore umanità. “Non rinuncia affatto. È sufficiente che i condannati recidano i loro legami con la mafia”. E se non lo fanno vai con il carcere duro. “Non è duro. Serve per impedire che i mafiosi ordinino omicidi dal carcere come è successo in passato. O che continuino a guidare la loro organizzazione dando ordini e facendosi ubbidire. Angelo Epaminonda, collaboratore di giustizia, una volta mi disse che la forza di un’organizzazione all’esterno del carcere è direttamente proporzionale a quella che ha in carcere”. Serve il 41 bis se l’avvocato di Matteo Messina Denaro è sua nipote? “Questo è un altro problema da affrontare”. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Articolo 27 della Costituzione. “Lo conosco bene e lo condivido. Ma fino a quando l’obiettivo non è raggiunto la collettività ha il diritto di difendersi”. Conosce anche la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito? “Certo”. Si sta lasciando morire in carcere. “In Gran Bretagna i combattenti dell’Ira che hanno fatto lo sciopero della fame sono morti”. È disumano. “Non è questione di umanità, ma di credere nei valori delle nostre leggi”. Sembra disumano anche credendoci. “Uno Stato non può lasciarsi ricattare se crede nei suoi valori. Per altro il ministro può revocare il 41 bis. E il presidente della Repubblica può concedere la grazia”. Dottor Davigo, dichiarando il non luogo a procedere nei confronti della sua ex segretaria, Marcella Contraffatto (accusata di calunnia nel caso Amara-Loggia Ungheria), il gup di Roma, scrive che lei si sarebbe “spinto ben oltre i confini dei poteri conferitigli come membro togato del Csm”. Vuole rispondere? “No. Non voglio parlare delle vicende che mi riguardano come imputato, perché anche da imputato mi comporto come un fedele servitore dello Stato e certamente non attacco i giudici”. Ma si fida ancora di loro? “Assolutamente sì. Magari possono anche sbagliare, ma qual è l’alternativa, mi giudico da solo?”. Il Csm si divide in due, ma il neo vicepresidente promette unità di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 26 gennaio 2023 Eletto al terzo voto Pinelli, indicato da Salvini: “Sono indipendente”. Mattarella raccomanda: “Il Consiglio è presidio di autonomia, cerchi la condivisione”. Sconfitto Romboli, indicato dal Pd. Decisivi il consigliere renziano e le astensioni al primo scrutinio. È stato eletto solo al terzo scrutinio e con tre voti di margine, ma Fabio Pinelli, l’avvocato padovano indicato da Salvini nel Consiglio superiore della magistratura che ieri mattina ne è diventato il vicepresidente, ha detto subito che “l’unità del Consiglio” sarà il suo “fine superiore”. Emozionato accanto a Sergio Mattarella, si è messo nella scia del presidente che concludendo il suo lavoro di guida del plenum ha di nuovo ricordato che “il Csm è il presidio dell’autonomia e indipendenza della magistratura”. Raccomandando a Pinelli di “rappresentare, ascoltare e garantire tutti i consiglieri”, anche perché “le delibere condivise sono più efficaci e autorevoli”. “Garantisco il massimo ascolto - l’impegno di Pinelli - e possibilmente la condivisione di ogni scelta”. Lo si vedrà, ma che Pinelli sia uomo capace di mediazioni è certo. Ha estimatori anche a sinistra, molte relazioni a cominciare dall’appartenenza alla fondazione dell’azienda dell’aerospazio Leonardo presieduta da Luciano Violante, che però ha dovuto precipitosamente lasciare vista l’incompatibilità con il ruolo di consigliere. Soprattutto ha espresso di recente posizioni sulla giustizia più vicine a quelle della minoranza (del resto le ha espresse sulla rivista della corrente di sinistra, Magistratura democratica) che a quelle del governo, avendo sostenuto che non c’è alcuna fretta di cambiare le regole su intercettazioni, obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere. In poche parole di ringraziamento, Pinelli è riuscito anche a infilare il nome di Rosario Livatino, al quale è dedicata la fondazione che riunisce l’altra candidata del centrodestra alla vicepresidenza, Daniela Bianchini, e il di lei sponsor numero uno, il sottosegretario meloniano Mantovano. Un modo per stemperare la vittoria di Salvini - “ringrazio la parte politica che ha investito su di me, sono una figura indipendente”, ha detto subito - e addolcire la sconfitta di Fratelli d’Italia. Sconfitta annunciata, mentre quella del candidato sulla carta più autorevole, il costituzionalista Roberto Romboli, indicato al Csm dal Pd, è maturata nel primo scrutinio, quando ha mancato la soglia della maggioranza assoluta per via di alcune astensioni. Tra le quali quelle dei due consiglieri di diritto, primo presidente e pg della Cassazione, e verosimilmente del laico indicato dai 5 Stelle, il professore Michele Papa, che solo per qualche minuto, ieri mattina era stato proposto come possibile soluzione unitaria. Alla fine nei 17 voti di Pinelli sono confluiti, oltre a quelli dei 7 togati della corrente di destra, Magistratura indipendente, e dei 7 laici di centrodestra, che non sono mai mancati, anche quelli del laico renziano Carbone (Renzi ha subito rivendicato con giubilo l’elezione, segnando la terza tacca di fila nel computo dei vicepresidenti del Csm da lui promossi), del pg Salvato e del togato fuori dalle correnti Mirenda. Un giudice questo, veneto anche lui, con una lunga storia in Md che ha poi abbracciato la causa anti correntizia, convinto che l’elezione di Pinelli aiuterà a non allargare la faglia tra politica e magistratura. Per Romboli 14 voti, rintracciabili (voto segreto) nei 6 togati di Area (sinistra), 4 di Unicost (centro), la togata di Md (sinistra), l’indipendente di sinistra Fontana e uno tra il laico M5S e il primo presidente Curzio (l’altro è l’unico astenuto). Se l’asse Mi-destra-Renzi reggerà, si rischia una consiliatura blindata. Viceversa questo Csm potrebbe essere più fluido, anche considerando che il vicepresidente non vota. Con le nuove regole e le incompatibilità, la formazione delle commissioni è oltretutto più complessa. D’altra parte, se il ministro Nordio - veneto anche lui - dovesse decidere di seguire sul serio la linea che ogni tanto annuncia è probabile che la componente dei 22 togati torni a fare blocco difensivo, in tal caso i laici di centrodestra finirebbero marginalizzati. Ma intanto c’è da registrare un primo segnale importante. Malgrado l’elezione di Pinelli sia avvenuta con uno schieramento essenzialmente tutto di destra, omogeneo quindi alla maggioranza che tanto sta preoccupando l’Associazione magistrati, fino a ieri sera né Unicost, né Area, né Md avevano fatto una nota di critica. Anche questo è un benvenuto. Csm, l’auspicio di “leale collaborazione” che unisce Meloni e Nordio di Giacomo Puletti Il Dubbio, 26 gennaio 2023 Congratulazioni da tutto l’arco parlamentare, e non solo, sono arrivate a Fabio Pinelli, avvocato eletto alla vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura. Tra i messaggi ricevuti quello della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che gli ha augurato buon lavoro “nella certezza della leale collaborazione col governo per migliorare la giustizia in Italia”. Auguri anche dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “Nel solco dei principi costituzionali - spiega il Guardasigilli - sono sicuro che saprà assolvere con equilibrio, rigore e leale collaborazione al delicato compito assegnato in seno all’organo di autogoverno della magistratura”. La presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, ha inviato un telegramma di congratulazioni a Pinelli, in cui esprime, anche a nome di tutto il Cnf, “gli auguri di sereno e proficuo lavoro” assicurando la “consueta disponibilità” dell’avvocatura istituzionale “nel comune interesse per il bene del Paese e per il miglioramento del servizio giustizia”. Masi, sempre a nome del Consiglio, ha recapitato un messaggio al vicepresidente uscente del Csm, David Ermini, ringraziandolo per la fattiva e leale collaborazione istituzionale sempre dimostrata nei riguardi del Consiglio nazionale. Pinelli, che si è detto “onorato per un incarico gravoso”, era stato eletto membro del Csm in quota Lega, ed è per questo che le prime reazioni sono arrivate proprio dal Carroccio. “La Lega augura buon lavoro a tutti i nuovi eletti del Csm - ha detto il leader Matteo Salvini in una nota - Profili di alto livello che auspichiamo combattano le patologie del correntismo e il carrierismo sfrenato nell’interesse del Paese”. Con Pinelli si congratula direttamente Andrea Ostellari, senatore della Lega sottosegretario alla Giustizia. “Ho molto apprezzato le sue prime dichiarazioni - ha detto Ostellari - Ora c’è bisogno di una nuova stagione e di scelte. condivise e trasparenti, nell’interesse del Paese”. Soddisfazione è stata espressa dall’intero centrodestra, con il senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, che spiega come “per la prima volta nella storia un laico di centrodestra viene eletto vicepresidente del Csm”, un incarico che lo stesso esponente azzurro definisce “importante e delicato”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche le opposizioni, e se per il leader di Italia viva, Matteo Renzi, Pinelli è “serio, autorevole e credibile” e dunque quella del Csm è stata “un’ottima scelta”, per la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del Pd, Anna Rossomando, “ora il Csm può mettersi subito al lavoro accompagnando il necessario processo di rigenerazione e rinnovamento della magistratura”. Secondo l’esponente de “ora è il tempo di applicare davvero le riforme per una Giustizia al servizio dei cittadini, evitando di tornare a un clima di contrapposizione tra politica e magistratura che in passato ha impedito ogni riforma utile”. Pinelli, il cui lavoro di avvocato si svolge prevalentemente a Padova, ha ricevuto gli auguri anche dal sindaco di Venezia e presidente di Coraggio Italia, Luigi Brugnaro, e dal presidente del Veneto, Luca Zaia. “È stato premiato l’impegno di un tecnico, del quale ho sincera stima - ha detto Brugnaro - che ora avrà il compito di fare squadra con tutti i componenti del Consiglio che saranno chiamati a dare autorevolezza a questo organo di garanzia, collocato dalla Costituzione a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”. Secondo Zaia Pinelli è “un professionista che ha scelto il Veneto come sede della sua attività professionale e una figura che ha rappresentato anche con passione e competenza importanti iniziative in ambito culturale sui temi giuridici”. Doti che, prosegue il presidente veneto, “insieme con l’esperienza forense, certamente saranno un bagaglio importante nel nuovo prestigioso impegno alla vicepresidenza dell’organo di autogoverno della Magistratura”. Intercettazioni, il verbale di trascrizione non sottoscritto dall’interprete non è nullo ma pienamente utilizzabile di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2023 Solo se manca anche l’indicazione del soggetto scatta una nullità relativa, sanata se la questione è posta per la prima volta in appello. Non va sottoscritto dall’interprete, che ha curato la traduzione, il verbale di trascrizione di intercettazioni contententi la comunicazione con soggetto straniero. Non scatta quindi alcuna nullità, men che mai assoluta, del verbale non sottoscritto dall’interprete. Inoltre, nessuna lamentela può essere elevata contro la validità del verbale se comunque, come nel caso concreto, esso riporta nell’intestazione il nome dell’interprete. Infatti, chiarisce la terza sezione della Cassazione penale, la trascrizione va sottoscritta solo ed esclusivamente dal suo redattore - agente o ufficiale di polizia giudiziaria - che deve però dar conto dei soggetti intervenuti nell’opera di trascrizione, come il caso dell’interprete linguistico. La sentenza n. 3242/2023 nel respingere il ricorso, che sosteneva la totale inutilizzabilità del contenuto delle intercettazioni perché la trascrizione non era sottoscritta dall’interprete, coglie l’occasione per raffrontare almeno tre orientamenti della Cassazione sulle nullità assolute o relative dello strumento d’indagine e la conseguente utilizzabilità o meno nel processo. Le cause di inutilizzabilità delle intercettazioni sono tassativamente indicate dalle norme codicistiche in materia. E come afferma la Cassazione oggi, tra tali casi non figura la mancata sottoscrizione dell’interprete. Per completezza la Cassazione penale fa rilevare altri due indirizzi relativi a casi in cui alla trascrizione abbia partecipato un interprete. Uno afferma che la totale assenza di indicazioni sulle generalità dell’interprete comporta sì una nullità, ma relativa, e che essa viene sanata se la questione è posta all’attenzione del giudice di appello per la prima volta. L’altro propende per la nullità assoluta conseguente alla mancata indicazione dell’interprete, ma con la conseguente inutilizzabilità delle sole conversazioni in lingua stranira trascritte e oggetto di traduzione. Lasciando quindi salvo e utilizzabile il resto del contenuto delle trascrizioni. Nel caso concreto però non si trattava di totale assenza di generalità dell’interprete sul verbale di trascrizione, ma di mancata sottoscrizione del documento. E appunto, né l’una né l’altra mancanza di forma rientrano tra gli elementi richiesti dalla legge a pena di nullità. Sempre che, va ribadito, il redattore del verbale di trascrizione abbia assolto al suo obbligo di indicare il coinvolgimento di terzi nell’opera di traduzione e di trascrizione in generale. Impugnazione ai soli interessi civili, riforma Cartabia in vigore per i processi pendenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2023 Per la Quarta sezione penale, sentenza n. 2854 depositata oggi, la norma che attribuisce la competenza al giudice (o sezione) civile è immediatamente applicabile. È immediatamente applicabile ai giudizi pendenti la riforma Cartabia del processo penale nella parte in cui prevede che l’impugnazione ai soli fini civili della sentenza penale, se non inammissibile, deve essere rinviata dal giudice d’appello o dalla Cassazione al giudice o alla sezione civile competente. Lo ha stabilito la quarta sezione penale con la sentenza n. 2854 depositata oggi. Al centro della decisione vi è dunque l’applicazione, secondo il principio tempus regit actum, dell’articolo 33, comma 1, lettera a), n. 2, Dlgs 10 ottobre 2022, n. 150, che ha modificato l’articolo 573, cod. proc. pen., inserendo il comma 1-bis, a decorrere dal 30 dicembre 2022, ai sensi dell’articolo 6 del Dl n. 162 del 2022, convertito con modificazioni dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199. Il testo introdotto con la novella così recita: “Quando la sentenza è impugnata per i soli interessi civili, il giudice d’appello e la Corte di cassazione, se l’impugnazione non è inammissibile, rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile”. Diverse, spiega la Cassazione, le ragioni a sostegno della immediata operatività. Per prima cosa, il difetto di una disposizione transitoria: “il legislatore, ove ha inteso regolamentare la successione di leggi processuali nel tempo, lo ha fatto”. Inoltre, a favore della immediata operatività depongono “la ratio della riforma” e “le ragioni sottese alla sua attuazione”, il riferimento è alla scelta di “implementare l’efficienza giudiziaria nella fase delle impugnazioni”. Inoltre, come chiarito anche dalla Corte costituzionale, viene preservata la coerenza “in ordine all’oggetto dell’accertamento” che “in nessun caso, potrà più riguardare profili inerenti alla responsabilità penale”. Il giudizio, infatti, concernerà soltanto gli effetti civili e seguirà le relative regole. Infine, non vi sono “esigenze di tutela di ragioni di affidamento della parte impugnante”. Questo è un altro passaggio importante, la Corte chiarisce infatti che il giudice al quale l’impugnazione va proposta “resta quello penale e anche la regola di giudizio è invariata”. Quello che cambia è la sua competenza che “viene circoscritta alla sola verifica della ammissibilità dell’impugnazione, dal positivo vaglio della quale deriva, quale effetto automatico, la prosecuzione del processo davanti al giudice civile”. L’immediata operatività della norma novellata, dunque, “non lede in alcun modo il principio di affidamento” perché la parte civile “non perde, né vede minacciato il suo diritto all’accertamento del danno e all’eventuale riconoscimento della pretesa risarcitoria”. Una posizione che “resta sostanzialmente invariata, a prescindere dall’assegnazione della cognizione al giudice penale o civile, rispetto all’eventualità di un accertamento dell’illecito in sede civile”. Inoltre, il giudice civile decide utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile (articolo 573, c. 1-bis, ultimo periodo). Come detto, con il trasferimento dell’appello o del ricorso al giudice civile, “l’oggetto dell’accertamento non cambia, ma si restringe, dal momento che la domanda risarcitoria da illecito civile è implicita in quella risarcitoria da illecito penale (il secondo implicando il primo)”. “Non vi sarebbe, pertanto, alcuna modificazione della domanda risarcitoria nel passaggio dal giudizio penale a quello civile, avendo il legislatore previsto la “prosecuzione” davanti alla sezione civile competente di questa Corte (o, per il caso di appello, davanti al giudice o alla sezione civile competente)”. A onore del vero, argomenta la Cassazione si perverrebbe ad un risultato non dissimile anche a voler ritenere che - con riferimento ai provvedimenti già resi o alle impugnazioni già proposte prima del 30 dicembre 2022 - la decisione sui soli interessi civili resti di competenza del giudice dell’impugnazione penale. “Anche in questo caso - si legge nella decisione - la cognizione del giudice dell’impugnazione penale sarebbe funzionale alla conferma delle sole statuizioni civili … Il giudice penale dell’impugnazione, dunque, sarebbe chiamato ad accertare solo la fattispecie aquiliana, senza alcun riferimento a profili inerenti alla responsabilità penate dell’imputato…”. Anche il giudice penale, infatti, quando è chiamato a decidere sulle questioni civili, “deve utilizzare la regola di giudizio della probabilità prevalente” e comunque deve applicare “le regole processuali e probatorie proprie del processo civile”. Lecce. Detenuto morto in carcere: ci sono i primi 4 indagati Gazzetta del Mezzogiorno, 26 gennaio 2023 Ci sono i primi indagati nell’inchiesta aperta dalla Procura di Lecce sulla morte di Francesco Novellino, 42 anni originario di Taranto, avvenuta lo scorso 19 gennaio nella cella della casa circondariale di Borgo San Nicola dov’era detenuto. La pm Francesca Miglietta ha iscritto nel registro degli indagati i nomi della dottoressa e di tre infermiere che erano in servizio nel carcere la sera del decesso avvenuto dopo un malore. L’ipotesi di reato contestata è omicidio colposo. Si tratta di un atto dovuto in vista dell’autopsia fissata per venerdì prossimo. Secondo quanto sostenuto dai familiari dell’uomo nella denuncia querela sporta, ci sarebbero stati dei ritardi nei soccorsi da parte del personale medico in servizio. A nulla sarebbe valso la disperata richiesta di aiuto del suo compagno di cella e di altri detenuti. Il prossimo luglio Novellino avrebbe finito di scontare la pena per reati legati al mondo della droga. Udine. Delitti da Codice rosso, alert per le vittime se il detenuto esce dal carcere telefriuli.it, 26 gennaio 2023 Sistema di prevenzione in caso di uscita di detenuti. Firmata una convenzione tra la Questura di Udine e l’amministrazione Penitenziaria del Triveneto. Prevenire le situazioni di pericolo è fondamentale, in particolare nei casi dei reati previsti dal Codice rosso. Proprio per aumentare la soglia di prevenzione, eventuali ritorsioni e recidive, la Questura di Udine ha firmato un protocollo con l’amministrazione Penitenziaria del Triveneto affinché tutti gli istituti di pena presenti in Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, con cadenza mensile o, se necessario, per le vie brevi, comunichino l’imminente uscita, per scarcerazione, revoca della custodia cautelare, permesso, riammissione in libertà, uscita a vario titolo, dei detenuti che in provincia di Udine abbiano residenza, domicilio, o anche abbiano commesso i delitti previsti dall’accordo. La comunicazione arriverà alla Divisione Polizia Anticrimine della Questura di Udine che adotterà in tempo utile ogni iniziativa volta ad evitare nuove situazioni di rischio, avvertendo quando necessario anche le vittime e gli uffici delle forze dell’ordine competenti per territorio. I delitti cui si riferisce la convenzione sono in particolare quelli previsti dagli articoli 572 (maltrattamenti contro familiari e conviventi), 609 bis (violenza sessuale), 609 ter (violenza sessuale aggravata), 609 quater (atti sessuali con minorenne), 609 quinquies (corruzione di minorenne), 609 octies (violenza sessuale di gruppo), 612 bis (atti persecutori) del codice penale, consumati o tentati, dall’art. 575 (omicidio), tentato, e dagli articoli 582 (lesione personale) e 583 quinquies (deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso) in alcune ipotesi aggravate. Il documento è stato firmato dal Questore di Udine Alfredo d’Agostino ed il Provveditore del Triveneto Amministrazione Penitenziaria, Maria Milano Franco d’Aragona. Torino. Una vita dopo il carcere, mano tesa per aiutare i detenuti a ricominciare torinoggi.it, 26 gennaio 2023 Parte lo sportello Dimittendi: una volta a regime potrà aiutare circa 200 persone a reinserirsi nella società una volta scontata la pena. Ricominciare, dopo aver scontato la pena dietro le sbarre. E’ una mano tesa, un aiuto a per reinserirsi nella società quello che lo Sportello dimittendi garantirà ai detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Lo sportello, costato alla Città 480.000 euro e nato dalla sinergia tra il settore Lavoro e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, è un servizio dedicato a quei detenuti che si trovano nell’ultima fase pena e che hanno la prospettiva di uscire dal carcere entro 24 mesi. Nel concreto, lo sportello aiuterà i detenuti nella compilazione dei documenti necessari per l’iscrizione ai centri per l’impiego, a redarre le domande per cercare casa e a svolgere un’attività formativa al fine di trovare un lavoro una volta usciti dal carcere. “Lavorare in rete è motivo di orgoglio: sarà importante coordinare tutti gli enti che in questi anni hanno cercato di dialogare tra loro”, ha affermato la Garante Monica Gallo. “Vogliamo fare in modo che le persone che escono dal carcere riescano a reinserirsi nella società, grazie ad attività che iniziano a svolgere all’interno della Casa Circondariale e che trovano una corrispondenza con il mondo esterno” è il commento dell’assessora al Lavoro del Comune di Torino, Gianna Pentenero. Dentro il carcere i detenuti avranno la possibilità di svolgere attività di formazione innovativa come la robotica, ma anche sportiva, con un progetto legato al rugby. Importante il coinvolgimento delle associazioni del terzo settore, indispensabili per garantire il personale necessario alla gestione dello sportello dimittendi. Una volta a regime, lo sportello sarà in grado di aiutare e accompagnare circa 200 detenuti. Venezia. “Scatti sospesi”. Immagini di teatro in carcere di Elena Buccoliero azionenonviolenta.it, 26 gennaio 2023 La porta è piccina, la figura in smoking rosso deve chinare il capo. Varcando la soglia si lascia alle spalle i colori. Dalla sua immersione sono affiorate migliaia di immagini, una selezione delle quali è esposta alla Fondazione Venezia fino al 31 gennaio. La mostra “Scatti sospesi” raccoglie fotografie di Andrea Casari che, a partire dal 2006, documenta i laboratori condotti da Michalis Traitsis, direttore di Balamòs Teatro, nelle carceri maschile e femminile di Venezia. È stata pensata in occasione di “Destini incrociati”, la rassegna internazionale che si è svolta dal 23 al 25 novembre 2022 presso l’Università di Ca’ Foscari, promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno del Ministero per i beni e le attività culturali e nell’ambito del protocollo sottoscritto con il Ministero della Giustizia. Una quarantina sono gli scatti in parete, oltre quattrocento scorrono in un grande schermo grazie alla cucitura del regista Marco Valentini. Nel video non mancano i volti noti: Silvio Orlando, Alessandro Gassman, Emir Kusturica, Ottavia Piccolo, Giuliano Scabia, Antonio Albanese (protagonista di un film sul tema, “Grazie ragazzi”, in sala proprio in questi giorni), e ancora Paolo Virzì, Pippo Del Bono, Gabriele Salvatores e molti altri hanno visitato le carceri veneziane per una conversazione o un laboratorio, anche grazie alla collaborazione costruita negli anni da Balamòs Teatro con la Biennale di Venezia. Più di tutto, però, mi hanno colpita i ritratti delle donne. Un’energia sfacciata e rovente ci cattura nel gioco di luci e ombre. Un’intensità spinta all’estremo, nell’euforia come nella disperazione. In alcune attrici colpisce la femminilità, la ricercatezza nella cura del corpo. Per altre si direbbe che l’esperienza avesse scavato solchi troppo pesanti portando via la dolcezza. Del contorno di disagio sociale e psichico, dipendenze e abbandoni, non sappiamo nulla. L’immagine ritrae istanti di bellezza con rispetto e pudore. Certo la violenza è presente in quelle vite, esercitata e subita. In parte lo possiamo studiare. Le donne commettono molti meno reati rispetto agli uomini. I dati elaborati dal Ministero dell’Interno per gli anni 2019-20 le vedono costituire circa il 18% delle persone denunciate. I reati femminili più frequenti sono i furti, le frodi informatiche, le minacce, le lesioni e i reati connessi agli stupefacenti. La detenzione femminile è ulteriormente minoritaria. Il XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone rileva alla fine del 2021 un totale di 54.134 persone ristrette e, tra queste, le donne erano il 4,2%, un dato pressoché invariato da oltre vent’anni. Una raccolta di brevi testimonianze può essere letta a questo link. Soprattutto quando occupano piccole sezioni all’interno di istituti maschili, la vita delle donne è particolarmente dura in quanto si svolge secondo regole e in luoghi pensati per i maschi. Inoltre, riporta il Ministero dell’Interno, per evitare la promiscuità le donne non hanno accesso alle attività sportive, formative e di lavoro che hanno luogo negli spazi comuni e vengono perciò riservate alla maggioranza dei presenti. In generale l’esperienza della detenzione assume connotazioni di genere. “Il carcere rappresenta un problema maggiore per le donne che per gli uomini”, scrive Antigone, “in quanto oltre al romperne i legami familiari le allontana da quello che vivono come dovere di tutela e cura. (…) Quando entrano in prigione, gli uomini rimpiangono la perdita delle loro posizioni di prestigio, la capacità di controllare le proprie famiglie, e il fatto di dover obbedire agli ordini. Le detenute, d’altra parte, rimpiangono soprattutto la perdita dei loro legami familiari e dei propri figli, una perdita che si trasforma spesso in senso di colpa, e nella sensazione di averli delusi”. Dato il ridotto numero di istituti femminili è frequente che la lontananza dai familiari sia considerevole. Tante detenute vivono la separazione dai figli, e che cosa significhi confrontarsi con dei ragazzini, come avviene ogni anno a Venezia quando Michalis Traitsis propone alle detenute attrici di recitare insieme a un gruppo di allievi di un istituto comprensivo ferrarese, è difficile immaginare. Certo, l’impatto di queste possibilità di espressione e di incontro è potente. Spulciando sul sito del Coordinamento Nazionale apprendo che è molto recente (maggio 2022) il rinnovo del protocollo interministeriale per la promozione del teatro in carcere. Una pratica che, ove presente - vale a dire in circa la metà degli istituti di pena italiani - restituisce ai detenuti consapevolezza e rispetto di sé, li porta a contatto con le proprie emozioni, costruisce competenze e, in esito a questo percorso, contribuisce a ridurre significativamente la recidiva dopo le scarcerazioni. Le ragioni le descriveva già Fedor Dostoevskij, che la detenzione aveva conosciuto: “Così lo spettacolo finisce […]. I detenuti si sbandano allegri, contenti, facendo gli elogi degli attori e ringraziando il sottufficiale. Non si sentono diverbi. Tutti sembrano contenti, felici persino, e si addormentano diversamente dal solito, con animo quasi tranquillo. Perché mai? No, non è un parto della mia immaginazione. È la semplice e pura verità. Per pochi brevi momenti era stato concesso a quella povera gente di vivere secondo il loro desiderio, di divertirsi umanamente, di trascorrere almeno un’ora non da forzati, ed ecco, non fosse che per pochi minuti, avvenire un benefico cambiamento nello spirito dell’uomo” (Memorie della casa dei morti). Festa a Firenze per gli 80 anni di Zamagni, economista civile di Fabio Poles Gente Veneta, 26 gennaio 2023 In duecento da tutta Italia per onorare il lavoro dell’economista, fondatore della Scuola di Economia Civile e Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Prima di tutto viene l’uomo, nelle relazioni con docenti e studenti così come nei suoi studi. Tra i presenti, anche i giovani del movimento internazionale “The Economy of Francesco”, voluto dal Papa e animato dal cofondatore della Sec Luigino Bruni. Dice che l’economia civile l’ha riscoperta quasi per caso nel 1997 quando gli è venuto tra le mani il testo “Lezioni di economia civile” di Antonio Genovesi riordinando dei documenti della moglie Vera, storica dell’economia. La frequentazione con le opere dello studioso campano morto nel 1759, esponente illustre dell’illuminismo napoletano, sarebbe iniziata allora. E più di 25 anni fa non avrebbe mai immaginato che nel 2023 gli economisti civili d’Italia – e qualcuno anche da fuori – si sarebbero fatti presenti, di persona o per messaggio, al Polo Lionello Bonfanti di Loppiano (Incisa e Reggello, Firenze) lo scorso 13 gennaio, per celebrare i suoi ottant’anni, compiuti il 4. Un convegno in piena regola che gli organizzatori hanno però voluto chiamare festa. Stiamo parlando di Stefano Zamagni, l’economista bolognese allievo del premio Nobel John Hicks con il quale studiò alla London School of Economics negli anni sessanta del secolo scorso. A lui il mondo della cooperazione e quello del terzo settore devono molto: dall’elaborazione scientifica, ai disegni di legge, all’incessante opera di formazione, testimonianza, incoraggiamento e supporto che “il Professore” – così lo chiamano le persone che lavorano insieme a lui – porta avanti fin dal 1957, anno del suo primo scritto come ha sottolineato Michele Dorigatti, esponente della cooperazione trentina e tra i registi della festa, e poi incessantemente dal 1966 anno del suo ordinariato. Alla festa sono intervenuti alcuni suoi allievi e i membri della Scuola di Economia Civile, il presidente Luigino Bruni, Leonardo Becchetti e Pier Luigi Sacco, economisti noti in tutta Italia e non solo, con i quali ha firmato numerosi articoli e libri, così come Elena Granata, urbanista del Politecnico di Milano e vice presidente della Scuola. Quest’ultima ha sottolineato l’interesse del Professore per le persone che incontra e la caratteristica, tutta sua, di spingerti, incalzandoti con le domande, ad andare sempre un po’ oltre, negli studi, nella professione, nella vita: “Sei felice? Perché ora che sei associato non provi il concorso da professore ordinario? Adesso che sei sposata cosa aspetti a fare un figlio? E visto che ne hai due perché non pensi al terzo?”. Domande talora scomode, “ma che in fin dei conti ha detto Granata – rivelano tutta la sua attenzione alla fioritura umana dei suoi interlocutori”. Commovente la riproposizione della “laudatio” di Stefano Zamagni pronunciata a Trento nel 2013 in occasione dei settant’anni del Professore dal collega Pier Luigi Porta, altro grande economista civile scomparso qualche anno fa e godibilissima la lettura di alcuni brani degli scritti di Zamagni offerta da Beatrice Cerrino, sempre della Sec. Insieme ai membri della Sec hanno preso la parola i giovani di “Economy of Francesco”, il movimento mondiale di giovani economisti ispirato a San Francesco, voluto da papa Francesco e animato da Luigino Bruni, che sanno che alla base delle loro elaborazioni c’è tantissimo del pensiero di Zamagni oltreché di Bruni stesso. E Paolo Venturi, il direttore di Aiccon – altra “creatura” del Professore – ha raccontato di come il primo giorno di ogni corso, all’appello, sia solito passare tra i suoi studenti dando gran pacche sulle spalle e chiedendo non il nome ma “chi sei?”. Finito il giro, che talora può mettere in imbarazzo per questa fisicità, scrive alla lavagna il suo numero di cellulare dicendo: “Se avete qualche problema, non solo di studio, e cercate qualcuno con cui parlarne chiamatemi quando volete”. Tanti gli indirizzi di saluto di persone e istituzioni. Il ringraziamento finale del Professore, poco prima del taglio della torta, è stato come sempre ricco di contenuti e si è chiuso con il consueto “state in gioia” che caratterizza ogni sua conclusione. Il Professore non avrebbe mai immaginato che duecento persone si sarebbero date appuntamento da tutta Italia un venerdì di gennaio per celebrare in amicizia i suoi ottant’anni e rilanciare il comune impegno. O forse sì. Perché la generatività di Stefano Zamagni ha da sempre anche il sapore della profezia. Benedetto Gui: “I beni relazionali sono un investimento anche per il futuro” Tra le persone più vicine a Zamagni, i cui ottant’anni sono stati celebrati pubblicamente lo scorso 13 gennaio a Loppiano, ci sono molti veneti. E tra questi lo studioso padovano Benedetto Gui, scopritore negli anni 80 del secolo scorso, dei “beni relazionali”. Che sono quei beni intangibili, come l’amicizia, la lealtà, l’onestà, l’amore stesso, di grande valore ma senza prezzo, che si originano dalle relazioni tra le persone e che da una quarantina di anni vengono studiati in economia. Sono i beni che hanno maggior impatto sulla felicità delle persone. Professor Gui, cosa significa che un bene relazionale è un “fatto emergente”? Significa che tu puoi mettere due persone che si incontrano nelle condizioni di dar vita ad un bene di natura relazionale ma che non è detto che lo stesso bene si origini davvero. Ci vuole una risposta libera per dar vita ad un bene relazionale come, per esempio, l’amicizia. Cosa vuol dire che nei beni relazionali la funzione di investimento, quella di produzione e quella di consumo coincidono temporalmente? Vuol dire che quando due persone si relazionano tra di loro in amicizia, in quel preciso incontro l’amicizia viene goduta, cioè “consumata”, ma viene anche prodotta. In più l’incontro di quelle persone è un investimento per rinforzare la loro amicizia futura. Se un incontro tra due persone va male, si rischia di compromettere non solo l’incontro in sé ma anche quelli che potrebbero esserci in futuro. Un esempio concreto? Quello che si vede in questa festa qui a Loppiano che è un luogo di generazione e rigenerazione di beni relazionali. Come tutto quello che Zamagni ha messo in movimento. La guerra nucleare e l’Orologio dell’Apocalisse: mai stati così vicini al disastro atomico di Antonio Carioti Corriere della Sera, 26 gennaio 2023 Un “bollettino scientifico” nato nel 1947. Oggi saremmo a soli 90 secondi dall’Apocalisse (la mezzanotte) per via del conflitto ucraino. Ora incide anche il riscaldamento climatico. La guerra atomica, o comunque una catastrofe mondiale per l’intera umanità, non è mai stata vicina come adesso. O, quanto meno, questa è la valutazione appena formulata dai curatori del “Bollettino degli Scienziati Atomici”, che ogni anno misurano simbolicamente, attraverso il cosiddetto Orologio dell’Apocalisse, quanto la Terra si approssimi a un disastro irrimediabile. La mezzanotte sul quadrante di questo cronometro corrisponde all’olocausto nucleare: quanto più la lancetta dei minuti vi si avvicina, tanto maggiore è il pericolo. La stima comunicata il 24 gennaio è che ci troviamo a soli 90 secondi dall’apocalisse. A preoccupare è soprattutto la guerra provocata dall’aggressione di Mosca contro Kiev, tant’è vero che il comunicato stampa con l’annuncio è stato diffuso per la prima volta in inglese, in russo e in ucraino. L’Orologio dell’Apocalisse risale al 1947, al principio della guerra fredda. Fu allora che il “Bollettino degli Scienziati Atomici” si trasformò in una rivista che in copertina mostra appunto lo stato dell’Orologio fatidico. A disegnarlo fu un’artista, Martyl Langsdorf (moglie del fisico Alexander Langsdorf jr.) su richiesta del cofondatore del periodico, Hyman Goldsmith. La posizione della lancetta viene aggiornata ogni anno dal Comitato scienza e sicurezza (Science and Security Board) della rivista, solitamente nella seconda metà di gennaio. Dal 2007 non viene considerato soltanto il rischio di un conflitto nucleare, ma anche la minaccia del cambiamento climatico. Nello stesso anno l’orologio fu ridisegnato da Michael Bierut. All’inizio l’Orologio venne impostato alle 23.53, quindi a sette minuti dalla catastrofe. E cominciò ad avvicinarsi alla mezzanotte con il primo esperimento nucleare sovietico, nel 1949. Giunse fino a due minuti dall’apocalisse nel 1953 per via dello sviluppo della bomba all’idrogeno. Negli anni Sessanta i primi trattati per la limitazione degli armamenti atomici segnarono un allontanamento, sia pure tra alti e bassi. Si tornò a soli tre minuti dall’ora fatale nel 1984, quando il Cremlino decise di boicottare i giochi olimpici di Los Angeles e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan bollò l’Unione Sovietica come “l’impero del male”. La massima distanza dallo scontro atomico si registrò con la dissoluzione dell’Urss e la fine della guerra fredda, all’inizio degli anni Novanta: 17 minuti. Da allora però, tra proliferazione nucleare e riscaldamento globale, la situazione si è progressivamente deteriorata, battendo ogni primato negativo. Nel 2018 si è tornati a due minuti dalla mezzanotte, eguagliando il momento di maggior tensione del confronto Usa-Urss. Nel 2020 l’Orologio dell’Apocalisse ha segnato un primo record, cento secondi. E la guerra in Ucraina, secondo gli scienziati atomici, ci ha portati a un minuto e mezzo dal precipizio. I timori della Segre e quella fretta sociale che diventa noia di fronte alla Shoah di Concita De Gregorio La Stampa, 26 gennaio 2023 Il tema viene banalizzato, il nostro primo nemico è la noia che ci impedisce di concentrarci su ciò che è importante. Siamo tutti molto noiosi. Siamo ripetitivi, prolissi. Non lo sappiamo che nessuno legge più di venti righe? Se si tratta di qualcuno che vuole approfondire, intendo: un intellettuale, un letterato. Se no, solo il titolo. Ogni “polemica del giorno” balla sui titoli, quindi pensa che tragedia quando - così spesso - il titolo è sbagliato, impreciso, distorto e forzato per fare notizia. Ma poi tragedia, insomma: alla fine è una giostra, una fiera della vanità utile a eleggere il più spiritoso del giorno, il più cliccato nel commento sarcastico o nell’insulto e ciao. Domani si ricomincia da capo. Carne fresca, tragedia nuova per favore. Liliana Segre, 92 anni, lo ha capito benissimo e lo ha detto in meno di dieci parole meglio di una star di TikTok, vedi che non è l’età a fare la differenza: la gente dice “basta con questi ebrei, che cosa noiosa, la sappiamo”, ha detto. Difatti sì. Sono anni che la gente dice che pizza, non esattamente con questa formula. Persino gli undicenni portati per la terza volta dalla scuola a vedere Il bambino con il pigiama a righe tornano a casa e dicono che pizza, loro sì letteralmente perché ai genitori non si dicono parolacce. Quindi hai voglia a scrivere editoriali sul valore della memoria, a portare testimonianze - le ultime, siamo in dodici qui a pendere dalle labbra di superstiti quasi centenari, e dopo? - a celebrare il Giorno. Sì, va bene, lo sappiamo già. Poi che altre notizie ci sono, di che si parla oggi di fresco? L’algoritmo liquida la Shoa, gli adolescenti impiccati in Iran e l’ultimo bombardamento russo in Ucraina come temi lenti, fuori dal trend topic. Va meglio Fedez su Emanuela Orlandi (chieda scusa! Si penta di aver riso! Si tatui mi vergogno!) per non parlare dell’ansia di conoscere la nuova “revenge song” di Shakira contro Piqué e il video della suocera che per strada la prende per le guance. Dice: ma l’algoritmo non lo puoi evitare, lo devi governare. Mai uno che spieghi come, però. O che dica: al diavolo l’algoritmo, riprendiamoci la vita e il suo senso. E che caspita. Sono reduce da una riunione in cui una serie di esperti pagati moltissimo come consulenti da un importante finanziatore mi hanno spiegato con l’aria di chi parla a una studentessa di terza media che bisogna fare titoli molto lunghi ed esaustivi, sul web, perché chi legge sul telefono e “scrolla”, cioè tutti, si distrae in mediamente tre minuti e legge solo i titoli (scrollare, lo dico agli anziani miei coetanei, è una parola di una lingua inesistente che significa far scorrere velocemente i contenuti in verticale sullo schermo). Dunque, dicevano i superconsulenti strapagati: chi legge sul telefono è continuamente distratto da messaggi e chiamate che arrivano, notifiche di mail e tutto l’inferno che si scatena quando ti disponi a stare attento allo smartphone. Non ha tempo e non ha voglia di seguire un ragionamento, che cosa arcaica e prolissa. Noiosa. Bisogna procedere per punti, per slogan. Bisogna avere sempre un video sexy (con sexy si intende sconcertante, violento, imprevedibile o, non plus ultra, ad alto contenuto erotico) che illustri ogni passaggio del discorso perché la gente non vuole leggere: vuole vedere. Ecco. A parte il “mansplaining”: questo per me tuttora incredibile automatismo per cui tratti la donna che hai di fronte come un’imbecille a cui spiegare i numeri e i colori. Non è di questo che voglio parlare ma neppure posso ignorarlo. È una piaga sociale che andrebbe trattata come un’emergenza al pari della crisi energetica ma non succederà, specialmente non ora, quindi prendiamo nota e andiamo avanti. Il grande problema che abbiamo di fronte è la fretta, la noia. Veramente dobbiamo adeguarci? Dobbiamo correre al ritmo di chi si stanca di sentire la storia di qualcuno che è sopravvissuto alle indicibili torture di un campo di concentramento, allo sterminio della sua famiglia e del suo mondo, di chi muore impiccato per un’idea di libertà, di chi affoga in mare su un gommone coi figli neonati per scampare alla morte per violenza e per fame? Davvero non abbiamo idea, tutti quanti i milioni di milioni di super intelligenze che siamo, a come interrompere, fermare questo imperativo di intrattenimento sulla sciocchezza del giorno? Allora arrendiamoci. Mettiamoci in fila indiana a mani in alto di fronte alle colonne dei gattini pucciosi, dei megaderetani di silicone in tanga, del quiz “riconosci queste tette?”. Domani è il Giorno della Memoria. Mi rendo conto di essere noiosissima, elitaria, conservatrice ma anche un po’ comunista e radical chic, qualunque cosa significhi. Però vi giuro: se non ci concentriamo più di tre minuti a sapere da dove veniamo non c’è nessuna possibilità di avere chiaro dove andiamo. Non è un pensiero mio che non sono nessuno. E’ una regola di vita codificata dalla Storia. Poi, magari, non interessa a nessuno sapere dove andiamo: conta solo ora, tabula rasa ogni giorno, conta cosa succede oggi e pazienza per il futuro. Questo è un altro problema grande, le conseguenze le pagheranno i nostri figli, ma intanto: se avete più di tre minuti che vi avanzano, fra oggi e domani, state a sentire Liliana Segre. E’ l’ultima che ci resta, ha 92 anni: fatelo come se fosse vostra madre che ha da dirvi una cosa. Quante volte avete risposto non ho tempo ti richiamo, e poi invece. Fatelo, prima o dopo vi tornerà utile. Potrete dire: io c’ero, l’ho sentita. Non avrete rimpianti, se sapete di cosa si tratta. Italia con l’elmetto: armi fuori dal Patto di stabilità di Mario Di Vito Il Manifesto, 26 gennaio 2023 Fuori le spese militari dal Patto di stabilità. Per Guido Crosetto, che ieri mattina ha illustrato le sue linee programmatiche alle commissioni riunite della difesa della Camera e degli esteri e della difesa del Senato, si tratterebbe di una faccenda “meramente tecnica”, con il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti che “ha condiviso questa cosa e l’abbiamo già portata sul tavolo dell’Europa”. La dottrina è quella concordata la scorsa primavera a Ramstein che porterà l’Italia ad aumentare le proprie spese militari fino al 2% del Pil entro il 2028 (attualmente è all’1,54%): un percorso che dovrà procedere assai speditamente in futuro visto che, come segnala la Rivista Italiana Difesa, nel 2022 la spesa per l’ammodernamento militare non è cresciuta di un euro. È proprio su questo punto che il ministro della difesa batte forte: “L’aiuto che abbiamo dato in questi mesi all’Ucraina ci impone di ripristinare le scorte che servono per la difesa nazionale”. Tradotto: tutte le forniture di armi inviate a Kiev negli ultimi undici mesi - siamo a cinque carichi, con il sesto in arrivo a breve - hanno un peso sull’arsenale italiano, che presto o tardi (più presto che tardi) andrà rimpinguato. Da qui l’esigenza di effettuare “una profonda evoluzione sul piano ordinativo, logistico, tecnologico e normativo”. Il piano è dunque quello di “avviare molte iniziative, a partire da una revisione delle strutture di vertice, che eliminino le duplicazioni non dettate da esigenze di ridondanze operative e che consenta il miglioramento della qualità e del contenimento dei tempi nei processi di lavoro. Occorre poi unificare i settori e i servizi comuni alle diverse forze armate”. Più integrazione tra le varie forze, quindi, ma anche “un nuovo modello di finanziamento”. Quale? “Una legge triennale sull’investimento che accorpi in un’unica manovra i volumi finanziari relativi a tre provvedimenti successivi con una profondità di 17 anni. Questo investimento consentirebbe di supportare efficacemente la posizione nazionale sui tavoli internazionali dei vari programmi cooperativi, con possibili ricadute sulle scelte di investimento e occupazionali dell’industria”. Per arrivare a questo obiettivo, sottrarre le spese della difesa alle restrizioni del Patto di stabilità è pressoché fondamentale: significherebbe, in sostanza, avere una contabilità separata rispetto agli altri capitoli del bilancio dello Stato. Sul lungo periodo, poi, Crosetto punta a “riequilibrare il rapporto tra competenze ed età media del personale attraverso alcune linee di azione come la revisione dei flussi di alimentazione e del bilanciamento tra forze in servizio permanente e ferma prefissata”. Almeno nelle intenzioni, si arriverà all’accorpamento di alcuni settori comuni alle varie forze armate, dall’insegnamento delle lingue straniere alla sanità, passando per la difesa spaziale e quella cibernetica. “Proprio sul ruolo della Difesa nei domini spazio e cyber - ha concluso il ministro - quest’ultima dovrà farsi promotrice ed essere protagonista di un percorso che porti all’unicità di indirizzo strategico e di policy, sia a livello nazionale sia nell’ambito delle organizzazioni internazionali di riferimento”. Dopo la puntata in commissione, nel pomeriggio Crosetto è andato anche al Copasir per discutere del sesto pacchetto - primo del governo Meloni - di aiuti militari da mandare in Ucraina. Il nodo principale riguarda le batterie missilistiche Samp-T: l’Italia ne ha in dotazione cinque, per un valore di circa un miliardo di euro, chiaro che darne via una rappresenterebbe un’uscita di non poco conto per l’arsenale nazionale. Scudo italiano sui cieli ucraini. Crosetto: decreto armi a giorni di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 26 gennaio 2023 Missili Aspide e i Samp-T partiranno da Roma per difendere Kiev. Meloni nella telefonata con gli altri leader assicura: “Forniremo assistenza a 360 gradi”. Il ministro alla Camera: “L’aiuto dato ci impone di ripristinare le scorte”. Tra pochi giorni l’Italia invierà un primo scudo missilistico a Kiev. Lo farà con il sesto decreto interministeriale, i cui dettagli sono stati presentati ieri da Guido Crosetto al Copasir. “Stiamo ultimando il testo - è il senso di quanto detto dal titolare della Difesa nel corso di una riunione secretata - Sarà varato nei prossimi giorni”. Conterrà innanzitutto batterie di missili Aspide e il sistema radar Spada. Assieme ai francesi sarà inoltre garantito il Samp-T, fiore all’occhiello della difesa antimissilistica reclamato dagli ucraini. Ma questo sistema potrebbe essere contenuto in un altro testo: “Stiamo ultimando le procedure con Parigi”, è la sostanza di quanto riferito dal ministro. Che il decreto sia ormai questione di ore lo dimostra la scelta di Crosetto di illustrare al Copasir - presieduto da Lorenzo Guerini - le singole voci della nuova fornitura militare, a partire dai numeri dei missili Aspide. Una disamina dettagliata che permetterà al titolare della Difesa di non presentarsi nuovamente di fronte al comitato, una volta licenziato il provvedimento, a patto che non venga modificato l’impianto presentato ieri ai parlamentari. Ma cosa contiene il sesto invio? Innanzitutto gli Aspide: sono in dotazione all’Aeronautica e sono stipati in gran numero nei magazzini. Una quota di questi missili - tra l’altro tolti dal servizio un anno fa - sono tecnicamente “scaduti”, perché il combustibile dei motori ha dei tempi tecnici da rispettare: vanno dunque rivitalizzati. Un singolo missile costava nel 2000 circa 620 milioni di lire. Anche sul Samp-T, il ministro informa il Copasir di un dettaglio fondamentale: l’Italia invierà il centro di comando e controllo, la Francia il radar. I missili - gli Aster30, che costano 2 milioni di euro ciascuno - saranno invece garantiti da entrambi i Paesi. Un modo anche per condividere il costo dell’operazione, che vale da sola 750 milioni di euro. Il sistema potrebbe essere inserito nel sesto decreto, ma è aperta la strada alternativa: un annuncio congiunto con la Francia - entro un mese - e un provvedimento ad hoc. L’imminente varo del decreto è servito anche a Giorgia Meloni per presentarsi di fronte agli alleati con qualcosa di tangibile in mano. La premier ha partecipato ieri alla chiamata organizzata da Joe Biden. Il Presidente americano ha informato il cosiddetto Quint, il gruppo informale che coinvolge Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, dell’evoluzione del conflitto. E la presidente del Consiglio, dopo settimane di attesa per una nuova spedizione che tardava a concretizzarsi, ha potuto garantire: “Con i leader forniremo assistenza a Kiev a 360 gradi”. Si è però sfiorato il caso diplomatico, perché in un primo momento la Casa Bianca aveva escluso Meloni dalla call (accadde una volta anche a Mario Draghi, all’inizio del conflitto in Ucraina, probabilmente a causa della primissima posizione italiana sulle sanzioni alla Russia, poi completamente rettificata). La leader di Fratelli d’Italia, d’altra parte, ha necessità di mostrarsi al fianco dell’Ucraina e leale alleata di Washington. E nel frattempo si prepara anche a un tour internazionale: sabato in Libia - come anticipato da Repubblica - poi il 3 febbraio a Stoccolma e Berlino. In quegli stessi giorni dovrebbe recarsi anche in Polonia. E resta sempre imminente il viaggio a Kiev. La scelta di assicurare dotazioni militari all’Ucraina spinge l’esecutivo a preparare anche a un’altra mossa: “ripristinare le scorte” militari. Si tratta in particolare dei proiettili d’artiglieria calibro 155 millimetri, la cui produzione scarseggia, dei missili contraerei portatili Stinger, senza dimenticare i semoventi Pzh2000 e i lanciarazzi MLRS - super Himars. Della prospettiva ha parlato ieri anche Crosetto in Parlamento, insistendo su un punto: l’Europa autorizzi l’esclusione degli investimenti sulla difesa dal Patto di stabilità. “In un momento come questo nessun Paese è in grado di tagliarli. Anche perché l’aiuto che abbiamo dato all’Ucraina ci impone di ripristinare le scorte che servono per la Difesa nazionale”. Ma non basta. Davanti alle Camere, il ministro promette pure una revisione delle strutture di vertice dei militari: “Occorre unificare i settori e i servizi comuni alle diverse forze armate”. Arturo Scotto: “Basta armi. Ora il Pd è altro, scelga la pace” di Alfonso Raimo huffingtonpost.it, 26 gennaio 2023 “Basta armi, il Pd scelga la pace”. A un anno dall’inizio del conflitto arriva il via libera del governo tedesco alla consegna di carri armati Leopard all’Ucraina. Arturo Scotto, coordinatore di Articolo 1, il partito fondato da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema che ha appena aderito al percorso costituente dei Democratici, con altri compagni di partito non ha votato il decreto che autorizza anche per il 2023 l’invio di armi italiane a Kiev. All’HuffPost spiega che non si tratta di una questione di coscienza, ma di una posizione schiettamente politica. “Siamo a una svolta molto pericolosa nel conflitto. A questo punto chiediamo al Parlamento, e al Pd in primis, di dire ‘basta armi’ e adottare una convinta politica per la pace”, dice “Sappiamo che nel corso di questo conflitto tante sono state le svolte annunciate per giustificare ulteriori invii di armi sempre più potenti e sempre più al confine tra la difesa e l’offesa. A marzo il razzo anticarro Javelin, a giugno il lanciarazzi Himars che poteva colpire fino a un raggio di 80 km, poi a dicembre i Patriot con una gittata oltre gli 80 km. Oggi si dibatte sui tank Leopard, piegando persino i malumori e le preoccupazioni della Germania. Domani di cosa parleremo? A ogni passaggio si descrive l’invio di un nuovo equipaggiamento più pesante come risolutivo”. C’è il rischio di una escalation? “L’equilibrio sul campo ci racconta solo il bollettino delle morti e delle distruzione di infrastrutture civili. Parafrasando Gramsci: un equilibrio costante di forze a prospettiva catastrofica. La domanda è: il prossimo giro cosa invieremo? E per quale obiettivo strategico? Puntiamo a ripristinare l’integrità dell’Ucraina prima o dopo il 2014? E il ritorno della Crimea nell’orbita di Kiev è sul tavolo? E Minsk la consideriamo definitivamente tramontata? E una nuova stagione di cooperazione e sicurezza comune tra est e ovest, una sorta di Helsinki II, ha ancora cittadinanza nella testa delle classi dirigenti europee? Di questo vorrei discutere, non di anatemi. E non penso sia una discussione neutrale. Altrimenti lo scivolamento verso la terza guerra mondiale - come vaticinano Emmanuel Todd e Lucio Caracciolo - è dietro l’angolo, invio di truppe di terra e armageddon nucleare compreso”. Non avete votato il decreto per l’invio di armi in Ucraina. È un “non voto di coscienza”? “No. Una posizione politica. Io penso che la pace sia una questione politica, non l’espressione di una particolare bontà d’animo. La guerra ha cambiato il mondo e soprattutto sta cambiando gli equilibri in Europa. Emerge una nuova Nato lungo l’asse Washington-Londra-Varsavia che schiaccia il nocciolo duro del vecchio continente, con il sodalizio franco-tedesco sempre più debole e periferico. Nel 2003 durante la guerra in Iraq il disegno di Ramstein fu esattamente questo: spezzare l’Europa e marginalizzando come attore geopolitico globale usando le alleanze con i nuovi paesi dell’est per aprire contraddizioni e per paralizzare qualsiasi avanzamento istituzionale. Tant’è che oggi parole come autonomia strategica nonché politica estera e di difesa comune sono totalmente svuotate di significato, rischiano di apparire rumori di fondo se non addirittura una cartolina ingiallita di qualche vertice tra capi di governo invecchiato troppo rapidamente. Questo è l’effetto di una diserzione della politica che ha appaltato tutte le scelte a una vera o presunta scientificità della dottrina militare. Con i generali - per la verità - che sono molto ma molto più prudenti di certi neofiti della guerra che ogni giorno pontificano nei talk”. Nel Pd è valsa finora la linea: non mandare le armi a Kiev significa condannarla a sparire. Per voi non è così? “Credo si debba fare un bilancio onesto dopo 11 mesi. Si è detto: aiutiamo l’Ucraina a resistere per agevolare un negoziato alla pari. Giusto, ma purtroppo non c’è nessun tavolo aperto, gli effetti della guerra sul piano umanitario ed economico sono terribili e non si vede alcuno spiraglio all’orizzonte. Al contrario emerge un’inquietante assuefazione verso l’inevitabilità della guerra anche nelle opinioni pubbliche europee, che chiedono una svolta diplomatica - anche perché gli effetti sull’economia picchiano su un ceto medio disarmato davanti alla crisi economica - e invece trovano solo il dibattito sulle armi. Quando sul campo resta solo lo strumento militare fa breccia prevalentemente il vocabolario della destra nazionalista. Perché nazionalismo e guerra sono parenti stretti da sempre”. Per la prima volta fate valere nel Pd una posizione politica che dice: basta armi. Non voterete più il decreto di autorizzazione? Ad oggi, la vostra posizione non pare compatibile con quella del partito? “Un nuovo Partito Democratico - o quello che diventerà - contempla inevitabilmente diverse culture politiche e diverse sensibilità. Io non ho avvertito disagio nel sostenere una posizione di minoranza in questo passaggio. Mi batto con determinazione perché le cose che dico oggi possano diventare maggioranza domani, provando a entrare in sintonia con quel popolo della pace che il 5 novembre scorso chiedeva una postura più assertiva dell’Italia sul piano diplomatico e il bando delle armi nucleari. E la cui rappresentanza non va delegata ad altri. Vede, io credo che la sinistra italiana abbia un debito verso le alleanze internazionali classiche da onorare e da difendere. Io sono per stare con tutti e due piedi nella Nato. Detto questo, siamo sicuri che stiamo gettando le basi di un nuovo multilateralismo? Ci rendiamo conto che per tanti popoli del mondo l’Occidente viene visto come il campione del relativismo etico che evoca diritti umani e democrazia a geometria variabile? Come parliamo a tre quarti del globo che si rifiutano di condannare la gravissima violazione del diritto internazionale perpetrata da Putin il 24 febbraio dello scorso anno? Avere un punto di vista autonomo sul nuovo disordine mondiale è urgente e necessario”. Anche Elly Schlein, la candidata che sostenete al congresso, è schierata per l’invio di armi. Sbaglia? “Stimo Elly, mi pare abbia detto con forza che ora è il momento della diplomazia. In questo passaggio il nostro voto è stato diverso, mi auguro che col passare dei mesi emergerà con più forza un punto di vista che contempli anche le ragioni mie e di altri. Dopodiché le mie riflessioni sul decreto Ucraina non hanno nulla a che spartire con un posizionamento congressuale, ma sono figlie di una precisa convinzione politica maturata nel tempo che ho segnalato in questi mesi, anche in campagna elettorale”. La vostra posizione ‘una politica per la pace’ quali sviluppi operativi può avere? Pensate a un intergruppo con le altre forze - M5s, Verdi, Sinistra - che sono contrarie all’invio? “Non penso a precipitazioni operative. Questa materia non è da intergruppo, non scherziamo. Quello che mi sfugge è per quale motivo il Parlamento durante una guerra non difenda le proprie prerogative con più determinazione. Invece si limita a farsi chiamare solo in quanto ratificatore delle decisioni dell’esecutivo. E questa è la conferma che quando parlano solo le armi, la democrazia va in debito d’ossigeno. Io lavoro perché tutto il campo progressista, oggi collocato all’opposizione, arrivi a maturare una linea diversa con un protagonismo parlamentare più evidente”. Migranti. Decreto Ong, maggioranza spaccata. E Msf effettua tre salvataggi di Carlo Lania Il Manifesto, 26 gennaio 2023 Forza Italia e Fratelli d’Italia dichiarano inammissibili gli emendamenti della Lega. Maggioranza spaccata sul decreto Ong con Forza Italia e Fratelli d’Italia che dichiarano inammissibili 14 emendamenti presentati dalla Lega bloccando così il blitz tentato martedì dal Carroccio. Nel frattempo la Geo Barents, nave di Medici senza frontiere, disobbedendo a quanto previsto dallo stesso decreto interrompe il viaggio verso La Spezia, indicato martedì dal Viminale come porto dove sbarcare 69 naufraghi, per correre in soccorso di un’altra imbarcazione in difficoltà e lungo il tragitto salva altri 61 migranti. In serata la nave ha ripreso la rotta verso lo scalo ligure con a bordo in tutto 237 persone, tra cui 27 donne e 87 minori. Tutti gli interventi sono stati eseguiti “in conformità con il diritto internazionale marittimo”, ha specificato Msf aggiungendo di aver correttamente avvisato le autorità italiane “ma non abbiamo ricevuto al momento nessuna risposta”. L’immigrazione torna prepotentemente nel dibattito politico e nelle cronache del Paese. E se per certi versi appare scontato il comportamento della nave di Medici senza frontiere - nessuna ong si tirerebbe indietro di fronte a una richiesta di aiuto - più clamorosa è la divisione che si è palesata nella maggioranza durante l’esame del dl ong nelle commissioni Affari costituzionali e Trasporti della Camera con la Lega che, contando probabilmente sul sostegno degli alleati, tenta il blitz provando a reintrodurre attraverso 14 emendamenti una serie di provvedimenti presenti nel primi decreto sicurezza di Matteo Salvini ma in seguito aboliti durante i lavori parlamentari: dalla cancellazione della protezione speciale a norme più severe per i ricongiungimenti familiari, dai permessi di soggiorno all’accoglienza per i richiedenti asilo. Un pacchetto di norme che sarebbe intervenuto anche a modifica della Bossi Fini sull’immigrazione e che provoca l’immediata alzata di scudi delle opposizioni che con una lettera comune chiedono ai presidenti delle due Commissioni, Nazaro Pagano di Fi (Affari costituzionali) e Salvatore Deidda di FdI (Trasporti), di valutare l’ammissibilità degli emendamenti del Carroccio. Richiesta accolta dai presidenti, determinati a “restare nel recinto” dei provvedimenti trattati dal decreto. Oggi alle 11,30 verrà presa una decisione sui ricorsi presentati dalla Lega, mentre dalle 14,30 si cominceranno a votare gli emendamenti al decreto atteso in aula per il 2 febbraio. Scontata, come si è detto, la decisione presa ieri dalla Geo Barents, la prima ad aver effettuato un salvataggio multiplo da quando il decreto è entrato in vigore. La nave di Msf si stava dirigendo verso La Spezia, porto situato a più di cento ore di navigazione dal punto in cui è stato effettuato il primo soccorso di 69 migranti, quando ha raccolto un’allerta lanciato da Alarm Phone e riguardante un’imbarcazione in difficoltà in area Sar libica. Nessuna esitazione da parte dell’equipaggio nell’invertire la rotta per dirigersi verso la nuova operazione di soccorso, intervenendo lungo il tragitto anche in aiuto di un’altra imbarcazione con 61 migranti. Il Viminale ha già annunciato che accertamenti sul comportamento della nave verranno effettuati una volta che la Geo Barents sarà arrivata nel porto di La Spezia. Stando a quanto previsto dal decreto firmato dal ministro Piantedosi nel caso dovessero essere riscontrate delle infrazioni è prevista una multa compresa tra i 10 mila e i 50 mila euro per il comandante e il fermo per due mesi della nave su disposizione del prefetto. Da parte sua, però, nel frattempo Msf contesta la decisione di assegnare un porto estremamente lontano, costringendo i migranti già esausti a sopportare altre ore di navigazione, e chiede al governo di ripensarci indicando uno scalo più vicino. Migranti. Ogni richiedente asilo ha diritto all’accoglienza in Italia di Luigi Manconi La Repubblica, 26 gennaio 2023 Una sentenza del Tribunale di Bologna potrebbe segnare la svolta nella difesa dei diritti primari delle persone straniere nel nostro Paese. Tutti i richiedenti asilo hanno diritto a formalizzare la domanda di protezione internazionale e ad accedere alle forme di accoglienza previste in Italia. Non è un principio astratto, né un auspicio o un orizzonte al quale, a determinate condizioni, si possa aspirare: è la sentenza, una delle prime in Italia, emessa dal Tribunale di Bologna il 18 gennaio scorso, che ha dichiarato illegittimo il comportamento della Questura e della Prefettura di Parma. Il ricorso al Tribunale è stato presentato dal Ciac (Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale) di Parma che, la scorsa estate, ha seguito la vicenda di un gruppo di richiedenti asilo costretti a “vivere in alloggi di fortuna e in spazi pubblici, senza avere la possibilità di accedere al servizio sanitario nazionale e di reperire un lavoro che gli assicuri i mezzi di sussistenza”. Nonostante gli innumerevoli tentativi da parte di questi ultimi di presentarsi agli uffici preposti per formalizzare la protezione e, quindi, accedere ai servizi di accoglienza, nessuno ufficio ha dato seguito alla loro domanda. Il Ciac di Parma ha parlato di un vero e proprio “muro di gomma” eretto dalla pubblica amministrazione, che ha costretto queste persone a vagare vanamente, senza alcuna forma di tutela, tra un ufficio pubblico e un altro. Per il Tribunale di Bologna è “illegittimo ogni comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione diretto a ritardare/impedire la formalizzazione dell’istanza di protezione” e nell’obbligare l’ente pubblico “alla formalizzazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per richiesta asilo, con conseguente rilascio di un permesso provvisorio entro il termine di 20 giorni” e a garantire il diritto “ad accedere all’accoglienza per richiedenti asilo, entro il termine di 20 giorni”. Vedremo, nei prossimi tempi, se questa sentenza risulterà una felice eccezione in una giurisprudenza ancora, nella maggior parte dei casi, arretrata e conservatrice o se ne deriverà una svolta importante per l’affermazione dei diritti primari delle persone straniere nel nostro Paese. Egitto. Caso Regeni, se mancano parole di verità di Carlo Bonini La Repubblica, 26 gennaio 2023 Nel settimo anniversario della morte del giovane, Tajani afferma che ora l’Egitto vuole collaborare: un’affermazione che lascia interdetti. Il settimo anniversario dell’omicidio di Giulio Regeni non merita lo spettacolo di questi giorni e di queste ore. Perché c’è un solo modo peggiore di consegnare all’oblio un delitto che ha mutilato l’esistenza di una famiglia e segnato la coscienza di un Paese ed è quello di rinunciare a rendergli giustizia fingendo di volerlo fare. Per giunta, annegando l’intento in una retorica tanto vuota quanto ipocrita e stantia. Peggio ancora, spesa per riaccreditare fuori tempo massimo un uomo che, da sette anni, la verità e la giustizia che l’Italia va cercando la tiene in ostaggio e se ne fa beffe: il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi. Soltanto in un Paese dove la politica ha smarrito il senso della funzione che le è affidata, il valore della coerenza dei comportamenti e quello delle parole, è infatti concepibile ascoltare un intervento lunare come quello pronunciato ieri pomeriggio nel question time alla Camera dal ministro degli Esteri Antonio Tajani. Uomo per giunta preparato, cosciente del valore delle parole e con una lunga esperienza politica internazionale alle spalle. “Voglio, proprio oggi, confermare la mia vicinanza e quella del governo alla famiglia di Giulio Regeni che ha il diritto che si faccia luce su ciò che è accaduto e che i responsabili dell’orribile omicidio vengano processati e puniti - ha detto il ministro - Continueremo per questo a esigere la verità sulla barbara uccisione di Giulio Regeni e occorre non disperdere i risultati ottenuti dalla magistratura e dagli investigatori italiani sostenuti dalle pressioni a livello diplomatico che hanno permesso di concludere le indagini preliminari”. “Serve - ha aggiunto Tajani - una più fattiva collaborazione del Cairo a cominciare dalla notifica degli atti di citazione agli agenti su cui gravano evidenze probatorie. Occorre punire chi ha torturato e ucciso un giovane italiano impegnato a studiare in Egitto. Ho intravisto in questo senso una disponibilità diversa da parte egiziana rispetto agli scorsi anni. Il presidente egiziano Al Sisi mi ha assicurato che l’Egitto farà di tutto per eliminare gli ostacoli che rimangono e che rendono difficile il dialogo con l’Italia. Vediamo se alle parole seguiranno i fatti. Continueremo a monitorare”. “Disponibilità diversa”, “assicurazioni”, “rimozione degli ostacoli”, “monitoraggio”. Tajani sa bene, e se non lo sa avrebbe dovuto esserne informato, che la cooperazione giudiziaria con l’Egitto non solo non ha fatto registrare alcuna apertura da tre anni a questa parte. Ma che ha mostrato in tempi recenti una magistratura egiziana e gli apparati di sicurezza di quel Paese in una veste se possibile ancor più ostruzionista. Sei mesi fa, per dire, con un documento ufficiale consegnato al nostro ministero della giustizia, le autorità del Cairo hanno dichiarato “il caso chiuso” e chi ne è imputato “innocente”. Tajani dovrebbe ricordare l’umiliazione cui Al-Sisi sottopose, da ultimo, un garrulo Giuseppe Conte pronto a impegnarsi come primo ministro, di fronte al Parlamento, a inesistenti “svolte” strappate grazie a uno “speciale rapporto” con il presidente egiziano, che di speciale non aveva un bel nulla. Così come non può sfuggire al ministro il nulla in termini politici e diplomatici ottenuto sull’omicidio Regeni sul piano dei rapporti bilaterali con il Cairo dai sei governi e i cinque presidente del Consiglio che si sono succeduti in questi sette anni, compreso un peso massimo come Mario Draghi. Tajani, semplicemente, dovrebbe sapere che le parole di Al-Sisi sul caso Regeni non hanno alcun valore. Se dunque il ministro Tajani e il governo che rappresenta avessero davvero a cuore “la verità per Giulio” e avessero un briciolo di rispetto per l’intelligenza del nostro Paese (per non dire di quella della famiglia Regeni) dovrebbero essere i primi a parlare il linguaggio della verità. Quale che ne sia il prezzo. E spiegare, per esempio, per quale motivo il loquacissimo ministro di Giustizia Nordio, impegnato nella titanica operazione di rompere le reni ai pm italiani e al giustizialismo che li animerebbe, non abbia avuto ancora un briciolo di tempo per mettere più modestamente mano a una modifica delle norme del nostro codice di procedura penale che regolano le notifiche agli imputati in un processo. Mettendo così il nostro Paese nelle condizioni di aggirare l’ostruzionismo del regime egiziano che si sta facendo scudo delle garanzie riconosciute dal nostro ordinamento per impedire che si celebri il processo ai quattro ufficiali della National Security Agency egiziana imputati del sequestro e omicidio di Giulio. Non è difficile, in fondo. Servono solo un po’ di serietà e coraggio. Russia. Se nomini la guerra ti cancello: a migliaia nelle prigioni di Putin di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 26 gennaio 2023 Carceri piene per aver violato le norme che proteggono la reputazione dell’esercito Si finisce dentro per una canzone, un sermone in chiesa o una scritta nella neve. Sebbene anche Putin definisca guerra e non chiami più Operazione militare speciale l’invasione dell’Ucraina, in Russia dettano legge quelle norme repressive che stanno colpendo pesantemente ogni voce dissenziente in Russia. Il 4 marzo dello scorso anno, a meno di un mese dallo scoppio delle ostilità, la Duma (il parlamento russo) aveva approvato una legge che riguarda la responsabilità amministrativa e penale a carico di chi e giudicato colpevole di diffusione di notizie false riguardo il comportamento dell’esercito russo. La legge è conosciuta comunemente come discredito delle Forze Armate. Potrebbe sembrare ridicolo in quanto tutte le opinioni contro la guerra potrebbero essere considerate lesive ma in effetti è proprio cosi. A cominciare dalle pene che variano da sanzioni pecuniarie comprese tra i 30 e i 60 mila rubli (300 e 600 euro). Concretamente le fattispecie di questo reato sono innumerevoli. Per fake news si intende la propria posizione ufficiale (dettata da motivi di odio politico, razziale, nazionale o religioso o di profitto) che fa rischiare a coloro che incappano nella denuncia fino a 50 mila euro oppure la reclusione fino a dieci anni. Nel caso di reiterazione della violazione le conseguenze possono essere ancora più gravi e arrivare a condanne a quindici anni di galera. Nei giorni immediatamente seguenti all’entrata in vigore della legge si contavano già sessanta fermi, di cui sette condanne a multe salate commisurate agli standard economici dei cittadini comuni russi. Le cronache riportavano i casi limite di un prete ortodosso denunciato per un sermone pacifista e di una donna che aveva scritto No alla guerra sulla neve. La lista si è ulteriormente allungata nel periodo successivo fino ad oggi quando a conflitto acclarato e non più celabile dietro astruse formule dialettiche, ci si aspetterebbe un freno alla furia militarista del Cremlino. A giudicare dalle notizie che nonostante la censura operata continuano ad arrivare da diverse città della Russia. Si può dunque rimanere impigliati nelle maglie di una legge assurda e tragica nello stesso tempo per una canzone, un poster o un video pubblicato online. A quanto sembra le sanzioni sono quasi quotidiane e i tribunali istituiscono processi lampo ad un ritmo frenetico. Basta prendere in esame gli ultimi giorni. Il 15 gennaio si e aperto un procedimento giudiziario per discredito dell’esercito contro il dj di un locale di Tula (sud di Mosca) che aveva messo su un piatto una canzone ucraina durante gli auguri di Vladimir Putin la notte di Capodanno; Il 17 invece una donna della Crimea, che aveva affisso un manifesto che definiva il suo vicino che combatteva in Ucraina, un criminale di guerra, si e vista confermare la sua condanna a due anni e mezzo di carcere per diffusione di fake news. Ma ancora, il 20 di questo mese, un autista di camion della Chuvashia, località sulla riva sinistra del Volga, è stato condannato a 30 mila rubli di ammenda (circa 400 euro) perché aveva considerato interessanti, sui social, due video, uno dei quali incentrato sul conflitto ingaggiato da Kiev nelle repubbliche separatiste del Donbass negli ultimi otto anni. Senza soluzione di continuità, pochi giorni fa a Novosibirsk, un direttore di un istituto tecnico e stato fatto oggetto di controlli da parte della polizia perché inculcherebbe un’educazione pacifista al figlio. Ma non manca neanche la repressione dettata dallo stato di guerra come quella che ha colpito la rappresentante del Consiglio delle mogli e delle madri, un collettivo che difende i diritti dei chiamati alle armi. Arrestata mentre si apprestava a presentare al ministero della Difesa le denunce di settecento donne. Stati Uniti. I numeri record delle stragi per armi da fuoco e il caso della California di Claudio Cerasa Il Foglio, 26 gennaio 2023 Dall’inizio dell’anno già 91 vittime, un numero senza precedenti. Di queste, 26 sono morte sul suolo californiano: un dato sorprendente, considerato il complesso mosaico di leggi che regolamenta il possesso di pistole e fucili. Dall’inizio dell’anno, in America, sono morte 91 persone per colpi di arma da fuoco. Un numero senza precedenti secondo i principali siti che si occupano di questo fenomeno. Di queste vittime, 26 sono morte sul suolo californiano. A una prima analisi questo è sorprendente, dato il complesso mosaico di leggi che regolamenta il possesso di pistole e fucili. Parliamo di uno dei pochi stati che sono riusciti a proibire integralmente i fucili d’assalto, che hanno imposto un periodo di attesa per poter acquistare un’arma, che consentono la confisca presso quei soggetti che vengono segnalati come “pericolosi” e infine hanno limitato la possibilità di acquistare numeri elevati di proiettili. Tutto questo però appare come uno sforzo inutile agli occhi dell’opinione pubblica. Il governatore Gavin Newsom ha accusato la leadership nazionale dei repubblicani di non fare abbastanza a livello federale, consentendo l’arrivo di armi. Critiche che non hanno convinto l’opinione pubblica locale, piuttosto schierata a favore dei democratici. Ad aver sparato nel massacro di Monterey Park, secondo le prime rivelazioni degli investigatori, sarebbe stata un’arma illegale secondo le normative vigenti. Data l’età relativamente avanzata dell’assalitore settantaduenne Huu Can Tran, difficile immaginare che l’acquisto sia avvenuto sul deep web. Non solo: un’altra causa della proliferazione illegale di armi è dovuta all’espansione incontrollata delle coltivazioni di marijuana: secondo un’inchiesta del Los Angeles Times la promessa dei dem di farla finita con i crimini legati alla droga si può considerare fallita, date le difficoltà che ci sono per controllare territori così grandi dove certe strutture sono sorvegliate da uomini armati facenti parte di organizzazioni criminali. Il Golden State potrà affrontare quest’ondata di violenza solo se saprà riportare sotto controllo l’illegalità diffusa. E per quello, in teoria, dovrebbero bastare le leggi vigenti senza accusare i repubblicani. In teoria. Iran. Il regime silenzia i giornalisti: almeno 100 dall’inizio delle proteste sono stati arrestati di Nadia Boffa huffingtonpost.it, 26 gennaio 2023 Secondo il sindacato dei giornalisti News Guild, coloro che sono sicuramente ancora in prigione sono almeno 25. I giornalisti rilasciati vengono liberati solo sotto il pagamento di pesanti cauzioni, fino a 1miliardo di riyal. La maggior parte di loro è rinchiusa nella prigione di Evin, buco nero della Repubblica Islamica, dove è detenuto il meglio della classe dirigente dell’Iran, tra insegnanti, artisti, intellettuali. Altri sono sparsi nelle diverse carceri della Repubblica islamica dell’Iran, dove vengono sottoposti continuamente a interrogatori e torture e vengono rilasciati - solo in alcuni casi - sotto il pagamento di pesanti cauzioni. Il sindacato dei giornalisti News Guild, attraverso rapporti ufficiali e altre informazioni ottenute in via indiretta, ha effettuato una ricostruzione secondo cui sarebbero circa 100 i giornalisti arrestati o interrogati dall’inizio delle proteste anti-governative a settembre. Mentre i giornalisti iraniani che ad oggi sono sicuramente detenuti nelle carceri del Paese sono almeno 25. Il sindacato ha rivelato anche le identità dei giornalisti che si trovano ancora in carcere. Tra di loro c’è Niloufar Hamedi, la prima giornalista ad essere stata arrestata dalla Repubblica islamica e colei che per prima ha pubblicato la notizia dell’uccisione, da parte della polizia morale, della ragazza curda Mahsa Jina Amini. Evento scatenante delle proteste anti-governative. La donna si trova ancora adesso in isolamento nella prigione di Evin. Nello stesso carcere si trova anche Elaheh Mohammadi, arrestata dopo aver effettuato un’intervista al padre di Mahsa Amini durante la cerimonia della sepoltura della giovane nel cimitero di Saqqez, nel Kurdistan iraniano. In carcere ci sono anche le ultime tre giornaliste donne arrestate dall’IRI negli scorsi giorni, tutte e tre in meno di 48 ore. Si tratta di Melika Hashemi, Mehrnoush Zarei e Saeede Shafiei. Hashemi, giornalista del quotidiano online Shahr News Agency, è stata chiamata dalla polizia per un interrogatorio nella famigerata prigione di Evin il 21 gennaio, ma dopo che la giornalista ha fatto il suo ingresso in prigione, di lei si è persa ogni traccia. La mattina dopo, il 22 gennaio, l’hanno raggiunta in prigione anche Mehrnoush Zarei e Saeede Shafiei. L’organizzazione internazionale Reporters Sans Frontières (RSF) ha fatto sapere che Zarei, giornalista freelance che ha lavorato con le testate ILNA, ISKA e Chelcheragh, è stata arrestata davanti alla sua casa a Teheran. Secondo l’agenzia di stampa HRANA, le forze di sicurezza che sono arrivate a casa sua non hanno presentato la loro affiliazione istituzionale. Hanno perquisito la sua casa, sequestrato i suoi dispositivi digitali e l’hanno portata al carcere di Evin. Nello stesso momento, a pochi chilometri di distanza, il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) arrestava Saeede Shafiei, giornalista freelance che ha collaborato con Donyaye Eghtesad, Shargh e Insaf News. Lo ha rivelato il marito della donna, Hassan Homayon, in un tweet: “Saeede Shafiei, la mia cara moglie, ha chiamato dal centro di detenzione oggi a mezzogiorno e ha detto che si trova nella prigione di Evin. È stata arrestata la mattina del 22 gennaio” ha scritto l’uomo. Le giornaliste donne detenute sono molte e alcune di loro, come raccontato da alcune testimoni della prigione femminile di Qarchack, nella provincia di Teheran, sono molestate regolarmente e minacciate di stupro. Ad esempio Nazila Maaroufian, un’altra giornalista arrestata in seguito ad una intervista con Amjad Amini, padre di Mahsa, ha avuto un collasso in carcere ed ha perso i sensi. Malgrado le sue preoccupanti condizioni fisiche non è stata ricoverata in ospedale ed è stata riportata subito in cella. Di lei però al momento non si hanno notizie, non si sa cioé in quale prigione si trovi. Non è tra i nomi dei giornalisti detenuti individuati da News Guild. Ci sono anche diversi giornalisti uomini tra i detenuti. La repressione dell’IRI nei confronti dei giornalisti è sempre più brutale. Molti di loro vengono arrestati senza alcuna motivazione. Così è successo ad esempio a Mehrnoush Zarei, portata in prigione senza addurre giustificazioni. Altri, come Saeede Shafiei, vengono arrestati con l’accusa di “propaganda contro il sistema e azione contro la sicurezza nazionale”, accusa che viene rivolta peraltro alla maggior parte dei manifestanti che vengono portati in prigione. Una volta arrestati molti di loro subiscono processi sommari, dove non sono presenti i loro avvocati di fiducia e vengono condannati a pene pesantissime. Il giornalista sportivo Ehsan Pirbornash, arrestato durante le proteste, è stato condannato a 18 anni di reclusione con l’accusa di “offesa alla religione”, “propaganda anti regime” e “invito alla ribellione”. Quando i giornalisti sono anche attivisti rischiano ancora di più e cioè la pena di morte. Il giornalista Heshmatollah Tabrzadi, che è anche segretario generale del “Fronte Democratico dell’Iran” - e in passato aveva già denunciato la Guida Suprema Ali Khamenei - è stato accusato di “moharebeh” (“guerra contro Dio”) e “efsad fil arz”, (“corruzione sulla terra”), quindi è stato condannato a morte. Tabarzadi è accusato di altri 20 diversi reati. C’è poi un aspetto da sottolineare. Alcuni dei giornalisti arrestati vengono liberati, ma solo sotto pagamento di cauzioni incredibilmente alte, insostenibili per le loro famiglie. Secondo il sindacato dei giornalisti, la cauzione chiesta dalla magistratura per liberare i lavoratori dei media è solitamente di un miliardo di riyal iraniani. A volte 500 milioni. 1 miliardo di riyal corrispondono a circa 22 mila euro, una cifra esorbitante per molte famiglie iraniane, che talvolta, non riuscendo a sostenere la spesa, sono costrette a lasciare i giornalisti in carcere. In un’intervista presente sul quotidiano riformista Hammihan l’avvocato di un giornalista detenuto, Osman Mazin, ha affermato che “se aumenta l’importo della cauzione, aumenta anche lo stipendio del perito del tribunale, che deve essere pagato dalla famiglia del prigioniero, e questa situazione esercita una maggiore pressione finanziaria sulle famiglie”. Ovviamente la Repubblica Islamica continua a negare che questi giornalisti siano stati arrestati per la loro attività professionale. “Nessun giornalista è stato arrestato o si trova in carcere per le sue attività professionali”, ha ribadito nei giorni scorsi Iman Shamsaie, direttore generale per la stampa del Ministero di Cultura e Guida Islamica. Ma i familiari dei giornalisti e i loro colleghi raccontano ogni giorno, su Twitter e telegram, tutt’altra storia. Spesso anche gli stessi avvocati dei lavoratori dei media arrestati vengono incarcerati, come nel caso di Mohammad Ali Kamfirouzi che aveva preso la difesa di Elahe Mohammadi e Niloufar Hamedi. Alla fine di ottobre, più di 300 giornalisti iraniani hanno firmato una dichiarazione in cui criticavano le autorità per “aver arrestato colleghi e averli privati ??dei loro diritti civili”, hanno detto all’epoca i media locali. Ma la repressione dell’IRI non si è placata. Intanto continuano le proteste anti-governative nel Paese. Ieri sera diverse proteste sono state registrate nei quartieri ad ovest di Teheran, mentre sono sempre di più le scritte e i manifesti che compaiono nelle strade e nelle piazze contro il regime teocratico. La Repubblica islamica continua ad incolpare i nemici esterni di queste proteste. “I nemici sono stati sconfitti nonostante i loro tentativi di utilizzare i recenti disordini in Iran per destabilizzare il Paese” ha affermato il vice comandante delle Guardie della Rivoluzione iraniana, il contrammiraglio Ali Fadavi. “I nemici non hanno smesso di essere ostili nei confronti della Repubblica islamica per un solo giorno nei quarant’anni passati”, ha aggiunto il militare, come riporta Irna. E il governo iraniano ha annunciato che sono state approvate nuove sanzioni nei confronti di entità dell’Ue e del Regno Unito in risposta al nuovo pacchetto di sanzioni approvate dall’Unione due giorni fa. Tra i 34 individui sanzionati c’è il nome dell’eurodeputata della Lega, Anna Bonfrisco, che fa parte della Commissione per gli Affari esteri e della Delegazione per le relazioni con Israele. Oltre a Bonfrisco sono stati sanzionati, tra gli altri, il ministro francese dell’Edilizia abitativa Olivier Klein, il sindaco di Parigi Anne Hidalgo, i vertici del settimanale francese Charlie Hebdo Bernard-Henry Levy, eurodeputati di Germania, Svezia e Paesi Bassi, il danese Rasmus Paludan, protagonista di diversi eventi pubblici durante i quali sono state bruciate copie del Corano, il think tank britannico Henry Jackson, la procuratrice generale della Gran Bretagna Victoria Prentis ed il capo di Stato maggiore dell’esercito britannico Patrick Sanders. Nella nota del ministero degli Esteri di Teheran si precisa che “nella lista figurano individui ed entità accusati di aver dato sostegno al terrorismo e ai gruppi terroristici, istigato atti terroristici e violenza contro il popolo iraniano, interferito negli affari interni della Repubblica islamica, fomentato violenza e disordini in Iran, diffuso false informazioni sull’Iran e partecipato all’escalation di sanzioni crudeli contro il popolo iraniano”.