Quelle false riforme del Fine Pena Mai che calpestano la Costituzione di Donatella Stasio La Stampa, 25 gennaio 2023 Il decreto Meloni ha reso impossibile accedere a permessi e sconti di pena richiedendo troppe condizioni. La prova diabolica riguarda non solo l’inesistenza dei legami con la mafia, ma l’impossibilità di ricostituirli. L’ergastolo ostativo è morto, W l’ergastolo ostativo! Nel dibattito - a tratti surreale - sul “fine pena mai” rianimato dall’arresto del boss Matteo Messina Denaro, la parola passa oggi alla Cassazione. La prima sezione penale dovrà pronunciarsi sulla riforma approvata a fine anno, con la conversione in legge del decreto Meloni (quello su rave e vaccini) varato in tutta fretta a ottobre per dribblare la Consulta che l’8 settembre avrebbe altrimenti dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo. E infatti, la Consulta passò la palla alla Cassazione prendendo atto che l’ergastolo non è più ostativo. In quanto il decreto Meloni consente ai condannati per i reati indicati nell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario di essere “ammessi a chiedere i benefici, sebbene in presenza di nuove, stringenti e concomitanti condizioni” ma anche in assenza di collaborazione con la giustizia. Insomma, per la Consulta il decreto del governo ha fatto cadere la presunzione assoluta di pericolosità legata a doppio filo alla collaborazione con la giustizia, che ha fatto morire in galera centinaia di ergastolani (Francesco Grignetti, su questo giornale, ne ha contati 111 tra il 2001 e il 2020) e non tutti boss mafiosi. Valuta tu le nuove norme - ha detto la Consulta alla Cassazione - e decidi se ripropormi la questione di legittimità costituzionale oppure no. È quello che deciderà oggi, a porte chiuse, il collegio presieduto da Stefano Mogini, dopo aver ascoltato il relatore Giuseppe Santalucia anche alla luce della memoria dell’ergastolano Salvatore Pezzino. Stranamente, fino a ieri non risultava depositata alcuna memoria della Procura generale, che in tal caso sarebbe assente. Già nel 2019 - quando la Consulta scardinò il sistema dei permessi premio preclusi in modo assoluto ai condannati (anche all’ergastolo) per reati ostativi, non collaboranti - si scatenò il putiferio dal fronte “l’ergastolo ostativo non si tocca”: appelli, accuse alla Consulta e alla Corte europea dei diritti dell’uomo di aver assecondato richieste di Cosa nostra, allarmi per l’imminente uscita dal carcere di pericolosi boss mafiosi, porte aperte persino ai detenuti al 41 bis, come i fratelli Graviano… Dopo tre anni e mezzo, nulla di tutto questo è accaduto. Ergastolo ostativo e 41 bis sono due cose diverse eppure continuano ad essere confusi in una certa narrazione. Ma tant’è. Ad oggi, su 1822 ergastolani, ben 1280 sono ostativi ma dal 2019 solo 24 hanno ottenuto permessi premio; nessuno ha ottenuto la liberazione condizionale. Inutile dire che il problema non si è mai posto per i 732 ristretti al 41 bis (che fra l’altro non sono tutti ergastolani). Più alto, ovviamente, il numero di permessi richiesti da condannati per reati ostativi ma a pene diverse dall’ergastolo. Ad oggi, il punto fermo è che l’ergastolo ostativo come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 30 anni non esiste più. Nato nel 1992, dopo la strage di Capaci, è stato cancellato dalla riforma Meloni che ha sostituito la preclusione assoluta di pericolosità - un marchio a vita per una tipologia di ergastolani - con una preclusione relativa: in sostanza, la collaborazione con la giustizia resta un elemento importante per valutare il distacco del detenuto dal sodalizio criminale ma non è l’unico; la chiave per aprire la porta del carcere è ora rappresentata da un “regime probatorio rafforzato”, una super-prova che qualcuno ha definito “diabolica” e quindi impossibile. A questo risultato si è arrivati non in virtù di una trattativa Stato-mafia né per iniziativa del legislatore ma, semmai, per merito dei magistrati di sorveglianza che hanno attivato la Corte costituzionale e la Cassazione, cioè di giudici non manovrati o intimiditi dalla mafia ma indipendenti. Un valore, l’indipendenza, che come ha detto ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è un “pilastro della nostra democrazia” e che quindi va rispettato e difeso dai tentativi di delegittimazione ma anche da quelli, striscianti, di trasformare i giudici in burocrati. La prima modifica all’articolo 4 bis risale al 1991. Ci lavora anche Giovanni Falcone, ben consapevole, però, della sottile linea rossa da non oltrepassare: la Costituzione. E infatti il decreto legge 152 stabilisce che i condannati per mafia e terrorismo possono chiedere i benefici solo in presenza di “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva”. Già allora si parla di prova diabolica, perché bisogna dimostrare l’inesistenza di collegamenti che si presumono esistenti. Ma non c’è una preclusione assoluta, introdotta invece dopo le stragi, con il decreto legge 306. È lì che nascono ergastolo ostativo e 41 bis. Dopo trent’anni, ecco la riforma. Il decreto Meloni anzitutto aumenta da 26 a 30 anni la pena da scontare prima di poter chiedere la liberazione condizionale: è una modifica peggiorativa, per di più retroattiva, quindi potrebbe essere incostituzionale sulla base di una recente sentenza della Consulta, la n. 32 del 2020. In secondo luogo, il Dl mette sullo stesso piano tutti i benefici (permessi, lavoro all’esterno, liberazione condizionale, misure alternative) e per ciascuno di essi - quindi anche per un solo giorno di permesso - richiede una montagna di condizioni: l’integrale pagamento delle spese legali, il risarcimento dei danni, essersi attivati con le vittime per risarcire i danni e per avviare un percorso di giustizia riparativa. Ma la vera prova diabolica riguarda non solo l’inesistenza dei legami con il sodalizio criminoso quanto, soprattutto, l’inesistenza del pericolo di ripristino di quei legami sia con l’organizzazione sia con il contesto (concetto, quest’ultimo, piuttosto fumoso). La legge di conversione ha un po’ alleggerito le previsioni del Dl. Ha per esempio sfrondato l’elenco dei reati ostativi (ne sono usciti quelli contro la pubblica amministrazione) ma soprattutto ha restituito ai magistrati di sorveglianza la competenza sui permessi, che il decreto aveva loro sottratto - ritenendo che potessero essere “intimiditi” (sic) - trasferendola ai Tribunali di sorveglianza, i cui tempi di decisione sarebbero stati però incompatibili con la scansione temporale dei permessi durante il percorso di reinserimento del detenuto. La legge di conversione se ne fa carico, anche se impone che ogni tre mesi l’istruttoria ricominci da zero con informazioni aggiornate, il che rischia nuovamente di strozzare la scansione temporale dei permessi. Tanto più che gli interlocutori istituzionali del giudice di sorveglianza (Procura nazionale antimafia, Procure distrettuali e Procura del luogo in cui è avvenuta la condanna) non sono attrezzati con sufficienti risorse e strumenti per garantire risposte adeguate (ma la Pna ha appena approvato un apposito protocollo). Questo è il vero anello debole della riforma, che punta a bilanciare le esigenze della sicurezza con quelle della rieducazione. La credibilità dello Stato contro la mafia passa anche da qui: il ministro della Giustizia deve dotare gli uffici, dalla sorveglianza alle Procure, dei mezzi necessari per farli funzionare e per garantire così sicurezza e funzione rieducativa della pena. La mafia non è stata sconfitta con l’arresto di Messina Denaro ma la caduta dell’ergastolo ostativo non c’entra con quell’arresto. È una vittoria della cultura della legalità costituzionale su quella mafiosa. E non sarà un ostacolo alla lotta alle cosche. Nella lectio magistralis all’Università di Pisa, intitolata I diritti umani, tra il dire il fare, pubblicata su questo giornale, Giuliano Amato - che nel 1992 guidava il governo - ha detto una cosa poi ripetuta in una recente intervista a Simonetta Fiori: “Noi abbiamo alcune questioni aperte, e lo dico avendo firmato io stesso parte della legislazione antimafia. Siamo orgogliosi di aver combattuto terrorismo e mafia senza leggi speciali, ma non è men vero che nella nostra legislazione ordinaria abbiamo messo norme speciali che sono da regime di sospensione dei diritti. E alcune sono ancora lì”. Ergastolo ostativo: la Cassazione a quale giudice passerà la palla? di Valentina Stella Il Dubbio, 25 gennaio 2023 Potrebbe rinviare gli atti al Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila, che può decidere o sollevare il dubbio di legittimità costituzionale, o rimandare direttamente alla Consulta. Oggi la prima sezione penale della Corte di Cassazione, riunita in Camera di Consiglio, dovrà pronunciarsi sul caso di Salvatore Pezzino, detenuto che, seppur ergastolano ostativo non collaborante, aveva chiesto l’accesso alla liberazione condizionale ben due anni fa. Questa vicenda va ormai avanti dal 2020 e tra continui rimpalli non si è mai giunti a dama. Ripercorriamo brevemente le tappe. La sua richiesta di accesso al beneficio era stata dichiarata inammissibile dal Tribunale di sorveglianza de L’Aquila, in assenza di una sua dichiarata collaborazione con la Giustizia. L’istanza per ottenere la declaratoria circa l’impossibilità della collaborazione venne dichiarata inammissibile. Contro tale ordinanza l’avvocato di Pezzino, Giovanna Beatrice Araniti, aveva proposto ricorso in Cassazione. Piazza Cavour aveva sollevato dubbio di legittimità costituzionale. Il relatore Giuseppe Santalucia aveva scritto: “L’esistenza di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la risocializzazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza”. Con l’ordinanza 97/2021 (relatore Nicolò Zanon) la Corte Costituzionale ritenne l’ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione stigmatizzando la preclusione assoluta all’accesso ai benefici per i mafiosi che non collaborano ma diede un anno al Parlamento per fare una nuova legge in materia. Dinanzi a un Legislatore incapace di assolvere il suo compito, a maggio 2022 la Consulta concesse incredibilmente nella solita ottica di “leale collaborazione istituzionale” altri sei mesi a Camera e Senato per portare a termine l’elaborazione di una legge, passata poi solo a Montecitorio ma in stallo a Palazzo Madama. E arriviamo all’autunno dello scorso anno quando il governo di destra-centro, pochi giorni prima della ennesima udienza in Corte costituzionale, ha introdotto una nuova disciplina mediante decreto legge (nel pacchetto dl anti- rave) poi convertito in extremis dal Parlamento a fine dicembre. Preso atto di ciò, la Consulta l’8 novembre 2022 (ord. n. 227/ 2022) ha restituito gli atti alla Cassazione. Oggi dunque non ci sarà udienza pubblica ma gli ermellini decideranno nelle loro stanze. La Procura Generale non ha presentato memoria. Si rimette a quella del 2020 in cui chiedeva il rigetto del ricorso di Pezzino per accedere alla libertà condizionale, in quanto non era stata accertata l’inesigibilità/ impossibilità della collaborazione. La difesa invece con l’avvocato Araniti ha presentato una memoria di 19 pagine, alla fine della quale chiede alla Cassazione di sollevare nuovamente dubbio di legittimità dinanzi alla Consulta. Partiamo dal presupposto che sulla scrivania dei giudici, nel loro fascicolo, c’è il ricorso di Pezzino, l’ordinanza con cui a giugno 2020 hanno sollevato questione di costituzionalità, e la legge voluta dal governo Meloni. Gli scenari possibili sono tre (i primi due quelli più probabili), a partire dalla valutazione dell’ordinanza del 2020 con la nuova disciplina. Il primo: essendo oggi possibile anche per un ergastolano ostativo non collaborante aspirare alla liberazione condizionale, in quanto de iure non esiste più una preclusione assoluta a richiederla, i giudizi di Cassazione potrebbero rinviare gli atti al Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila affinché sia esso ad applicarla al caso specifico. Il secondo: rinviare direttamente alla magistratura di Sorveglianza perché determini se ci sono i presupposti per richiedere l’accesso al beneficio da parte del Pezzino. Il Tribunale a sua volta potrebbe nuovamente sollevare dubbio di legittimità costituzionale. Il terzo: Santalucia & Co potrebbero loro stessi rinviare alla Corte Costituzionale. L’ergastolano ostativo, come evidenziato da diversi costituzionalisti, con la nuova norma si trova a dover superare una prova diabolica per accedere al beneficio. Le condizioni di ammissibilità alla liberazione condizionale risultano adesso più gravose rispetto al passato. Pensiamo al fatto che viene innalzato il limite di accesso della pena da 26 a 30 anni alla liberazione condizionale, per l’ergastolano ostativo non collaborante che non abbia ottenuto la declaratoria di inesigibilità/ irrilevanza/ impossibilità di un’utile collaborazione ex art. 58 ter O.P. “Ma, trattandosi di disposizione peggiorativa, aventi effetti sostanziali - scrive l’avvocato Araniti - la stessa non può applicarsi al ricorrente, che già aveva raggiunto il limite di pena di 26 anni per l’accesso alla liberazione condizionale, non potendo avere efficacia retroattiva”. Inoltre è richiesto “l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’impossibilità di adempimento e l’allegazione di elementi “specifici, diversi dalla condotta carceraria, dal percorso, dalla mera dichiarazione di dissociazione”, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o con il contesto nel quale il reato è stato commesso ed il pericolo del loro ripristino”. Tuttavia per il “ricorrente si era evidenziata la mancata costituzione di Parte Civile nel procedimento di merito che ha portato alla condanna all’ergastolo, la mancata azione di concrete pretese risarcitorie”. Tra l’altro, si sottolinea nella memoria, “è innegabile, poi, che non si sono tenute in debito conto le indicazioni della stessa Corte Costituzionale sull’importanza e la centralità del principio di rieducazione ex art. 27 comma 3 Cost., che riguarda tutte le categorie di detenuti”. Al contrario “la giurisprudenza interna, costituzionale e sovranazionale, che viene esaminata nell’ordinanza 97/ 2021 tiene conto dei criteri di evoluzione della personalità di ogni individuo, della progressione trattamentale, del cambiamento che subisce, inesorabilmente, qualsiasi uomo in un arco temporale così elevato di sottoposizione alla pena detentiva, come quello previsto per l’accesso alla liberazione condizionale, del principio d’individualizzazione del trattamento, pone al centro del sistema la funzione rieducativa della pena, rispetto alle esigenze asseritamente social-preventive, ancorate, anacronisticamente, al momento della commissione dei reati”. Insomma è chiaro che oggi la Cassazione passerà ad altri la palla - Tribunale di Sorveglianza o Consulta: non può fare diversamente non essendo un giudice di merito. La domanda sullo sfondo è: considerato che il tempo scorre sempre di più per questi anziani ergastolani ostativi, non sarebbe stato meglio se la Corte Costituzionale nel 2021 avesse avuto il coraggio di non affidarsi al Parlamento e avesse deciso in maniera definitiva? Il dialogo tra Corte costituzionale e legislatore sull’ergastolo ostativo di Valentina Capuozzo treccani.it, 25 gennaio 2023 Con l’ordinanza n. 227 del 2022, la Corte costituzionale ha disposto la restituzione alla Corte di cassazione degli atti con cui quest’ultima aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina sull’ergastolo ostativo. La normativa impugnata è stata invero oggetto di modifica da parte del recente decreto legge n. 162 del 2022, poi convertito nella legge n. 199 del 30 dicembre scorso, che ha inciso in maniera significativa sulle censure prospettate. Si tratta, nella specie, di una decisione giunta all’esito di un percorso piuttosto lungo di interlocuzione tra la Corte costituzionale e il legislatore. Ma andiamo con ordine. In primo luogo, occorre chiarire cosa si intende per ergastolo ostativo. In effetti, il significato può dirsi implicito nella stessa locuzione, la quale indica una pena che appunto osta all’accesso, da parte del condannato, alle misure alternative alla detenzione, vale a dire il lavoro all’esterno e la semilibertà, nonché ai benefici penitenziari, tranne la liberazione anticipata e - dopo la sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale - i permessi premio. La disciplina è posta dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 26 luglio 1975) e differenzia l’ergastolo ostativo dall’ergastolo comune, pena detentiva a carattere perpetuo che però è mitigata dall’istituto della liberazione condizionale, ossia il beneficio penitenziario per cui l’ergastolano che abbia scontato almeno 26 anni di carcere può accedere a un periodo di libertà vigilata a conclusione del quale, in caso di comportamento corretto, la pena si estingue così consentendogli di riacquistare la libertà. La ragione della maggiore durezza dell’ergastolo ostativo risiede nel più alto disvalore della condotta che esso sanziona, invero punendo reati particolarmente gravi quali quelli commessi con finalità mafiose, terroristiche o di eversione, la prostituzione e la pornografia minorile, la violenza sessuale di gruppo, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e alcuni reati contro la pubblica amministrazione. L’unica eccezione prevista per i reati ostativi riguardava i condannati che avessero scelto di collaborare utilmente con la giustizia a norma dell’art. 58 ter dell’ordinamento penitenziario, secondo una disciplina risalente ai primi anni Novanta del secolo scorso, quando l’impegno statale nella lotta alla mafia aveva condotto a una ben precisa scelta di politica criminale: una logica di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. Siffatto assetto normativo è stato tuttavia oggetto di scrutinio prima della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e poi della Corte costituzionale, che ne hanno messo in luce le criticità. Una pena perpetua non suscettibile di riduzione non è invero aderente ai valori convenzionali e costituzionali che impongono il rispetto del principio di dignità umana da parte della sanzione penale, la cui finalità preminentemente rieducativa non può essere obliterata dalla funzione di prevenzione generale, pure essenziale per il valore della difesa sociale ma mai al punto da rendere l’individuo un mezzo nel perseguimento di tale fine. La collaborazione del condannato con la giustizia, istituto che ha da sempre rivestito un ruolo fondamentale nella lotta alla criminalità, non può dunque rappresentare l’unico parametro per misurare il percorso di effettiva risocializzazione del condannato, poiché essa non sempre è indice di ravvedimento, ben potendo indicare anche diverse valutazioni, quali, ad esempio, quelle utilitaristiche per i vantaggi che la legge vi connette, o, in caso di mancata collaborazione, di protezione nei confronti della propria incolumità o di quella dei propri cari. Da ciò la necessità di un più affinato bilanciamento degli interessi coinvolti, che la Corte costituzionale ha evidenziato nell’ordinanza n. 97 del 2021 con la quale, pur illustrando le ragioni di incompatibilità con la Costituzione, non ha dichiarato l’illegittimità della normativa sull’ergastolo ostativo, rivolgendosi al legislatore con la tecnica dell’”incostituzionalità prospettata”, facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale e disponendo il rinvio della discussione all’udienza del 10 maggio 2022. Invero - dice la Corte - il semplice accoglimento della questione avrebbe potuto mettere a rischio il complessivo equilibrio della disciplina e le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue nel contrasto alla criminalità mafiosa. Ecco dunque la necessità di un intervento del legislatore, volto a trasformare da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità ostativa alla concessione dei benefici e delle misure alternative in favore dei detenuti non collaboranti. All’invito della Corte costituzionale, il Parlamento ha risposto con l’approvazione di un disegno di legge da parte della Camera dei deputati in data 31 marzo 2022, che è stato trasmesso per la discussione in Senato il 1° aprile (N. AS 2574), inducendo la Corte costituzionale a differire ulteriormente la discussione, rinviata all’udienza dell’8 novembre 2022 per dare modo al Parlamento di completare i lavori sulla normativa di riforma prevista nel disegno di legge in discussione. Lo scioglimento anticipato delle Camere, tuttavia, ha impedito la conclusione del procedimento legislativo, inducendo il nuovo governo a intervenire con il decreto legge n. 162/2022 che, di fatto, riproduce sia pure con alcune modifiche il testo del disegno di legge rimasto sospeso nella precedente legislatura, riformando l’art. 4 bis. In particolare, la nuova disciplina trasforma da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità ostativa, consentendo anche ai detenuti non collaboranti l’accesso ai benefici e alle misure alternative purché questi dimostrino di aver adempiuto al risarcimento dei danni provocati e di aver reciso i collegamenti con la criminalità organizzata, secondo valutazioni rimesse al giudice. Ecco dunque il motivo che ha indotto la Corte costituzionale a restituire gli atti alla Cassazione rimettente, alla quale è ora rimessa la valutazione della portata applicativa della sopravvenienza normativa nel giudizio da cui è partito il dubbio di costituzionalità. In attesa di tale decisione, non si può fare a meno di rilevare la singolare scelta dello strumento del decreto-legge per evitare lo scadere del termine fissato dalla Corte. Il governo ha invero espressamente indicato tra i motivi di necessità e urgenza i moniti che il giudice delle leggi aveva rivolto al Parlamento e l’intenzione di anticipare la decisione che il giudice costituzionale avrebbe adottato in assenza di un intervento del legislatore. Se da un lato ciò indica il segnale positivo di una politica che non ha rinunciato alla sua decisione, dall’altro ancora una volta si scorge la preoccupante difficoltà decisionale del Parlamento, sulla quale una seria riflessione non è più rimandabile. L’ergastolo ostativo non è un capitolo chiuso per il governo di Giulia Merlo Il Domani, 25 gennaio 2023 Il cosiddetto carcere ostativo torna a incombere sul governo, questa volta sotto forma di decisione della Corte di cassazione. La questione di costituzionalità, infatti, potrebbe riaprirsi proprio nel momento in cui, con la cattura del boss mafioso Matteo Messina Denaro, la premier Giorgia Meloni si è attribuita il merito di avergli garantito un “fine pena mai”. La vicenda è complicata e intreccia orientamenti politici a vincoli giuridici. Il governo Meloni è intervenuto con un decreto legge a ottobre scorso, poi convertito alla fine dell’anno, che ha riformato la legge sul regime ostativo (disciplinato dal 4bis dell’ordinamento penitenziario) ovvero la preclusione assoluta ai benefici penitenziari per i detenuti per mafia e terrorismo che non abbiano utilmente collaborato con la giustizia. La legge è stata approvata in tutta fretta con la decretazione d’urgenza perché incombeva il rischio della sentenza di incostituzionalità della Consulta, che già aveva accertato l’illegittimità costituzionale dell’automatismo ma aveva dato tempo al parlamento per approvare una legge organica in materia. Ora che la nuova legge esiste, la Corte costituzionale non ha emesso la sentenza e ha rinviato gli atti ai giudici che avevano sollevato la questione di costituzionalità nel giugno 2020. Per questo la prima sezione penale della Cassazione oggi deciderà se, alla luce della nuova legge, la questione di costituzionalità nel caso concreto che deve decidere esiste ancora. Cosa succede - La questione è giuridicamente molto complessa, tuttavia le strade per i giudici di piazza Cavour sono due e partono da un’analisi della nuova legge. Il testo approvato dalla maggioranza elimina sì l’automatismo del “nessuna collaborazione-nessun beneficio”, tuttavia subordina la concessione dei benefici al detenuto ostativo che non collabora a una serie di condizioni molto stringenti. Come scrive il costituzionalista Andrea Pugiotto sul Riformista, “molteplici oneri di allegazione raggiungono le vette della probatio diabolica”. Ovvero, la legge impone al detenuto di dimostrare l’indimostrabile. Inoltre, non prevede la valutazione di alcune condizioni oggettive come il fatto che la collaborazione chiesta al mafioso per ottenere il beneficio deve essere “utile alla giustizia”, ma spesso è nei fatti impossibile, in quanto gli anni trascorsi in carcere sono troppi perché il detenuto possa avere informazioni ancora attuali. Inoltre, le nuove previsioni aumentano il limite temporale per chiedere la liberazione condizionale, portandolo a 30 anni di detenzione rispetto ai precedenti 26. Questi rilievi fanno emergere come la legge di FdI possa essere considerata peggiorativa per il detenuto rispetto alla precedente. Tanto che i costituzionalisti si interrogano se, in alcuni casi, non si debba applicare ancora la disciplina precedente sulla base del principio del favor rei, ovvero dell’irretroattività della norma penale più sfavorevole. Questo inevitabilmente inciderà nel giudizio dei giudici di Cassazione, che sono chiamati a riesaminare la richiesta concreta sul caso dell’ergastolano ostativo Salvatore Pezzino. Se valuteranno che effettivamente per lui sia più favorevole la legge precedente, non potranno far altro che risollevare di nuovo la questione di costituzionalità già giudicata dalla Consulta e sul vecchio testo. L’altra ipotesi è che valutino la nuova legge comunque formalmente più favorevole a Pezzino, in quanto elimina l’automatismo che gli rendeva impossibile la richiesta di beneficio senza la collaborazione con la giustizia, anche se il suo ottenimento risulta comunque impossibile. In questo caso la Cassazione - che non giudica il merito - considererà superato il dubbio di costituzionalità sulla legge disporrà il rinvio del fascicolo al tribunale di sorveglianza, che a sua volta dovrà valutare nel merito la domanda di Pezzino per accedere ai benefici alla luce della nuova legge. Ed eventualmente riproporre alla Consulta una nuova questione di costituzionalità. Le conseguenze - Insomma, la questione dell’ergastolo ostativo non si è chiusa con la nuova legge, che anzi rischia di finire immediatamente al vaglio dei giudici di palazzo della Consulta. Del resto, a dimostrare che la nuova norma è stata costruita dal governo appositamente per evitare che i mafiosi al 4bis accedano effettivamente ai benefici penitenziari è stata la stessa premier Meloni. Con la cattura di Messina Denaro, infatti, ha detto che il suo primo provvedimento è stato “contro la mafia, ovvero la difesa del carcere ostativo, da sempre considerato il più grande problema dei mafiosi e della criminalità organizzata”. Tradotto: la riforma è stata scritta per aggirare l’indicazione della Corte costituzionale, che considera il “fine pena mai” contrario alla Costituzione e alla funzione rieducativa della pena, e non per uniformarvisi. Ora proprio questa scelta rischia di provocare una ripartenza dal via, con un nuovo vaglio costituzionale della legge sul 4bis. Il detenuto - Al netto della teoria giuridica e delle questioni politiche, tuttavia, a rimanere dimenticato è il soggetto oggettivamente debole: il detenuto che ha promosso il giudizio. Soprattutto per lui il tempo passa, e in carcere lo fa più lentamente che altrove. Salvatore Pezzino è detenuto per mafia e omicidio e ha trascorso due terzi della sua vita in carcere, dove è entrato nel 1984, a 22 anni. In cella ha scontato 38 anni, intervallati solo da una finestra di quattro anni di semilibertà. Nel 1988 è stato condannato a trent’anni di carcere, nel 1996 ha ottenuto la semilibertà e ci è rimasto fino al 2000, quando è stato arrestato di nuovo per reati di tipo mafioso in regime di 4bis. All’origine di tutto, rimane sempre lo stesso interrogativo giuridico e politico: quando lo stato considera che una pena è stata scontata a sufficienza e se è ancora accettabile il “mai” come risposta. Regime detentivo 41 bis: qui la rieducazione non entra. Parola di avvocato di Maria Brucale perunaltracitta.org, 25 gennaio 2023 L’articolo 41 bis comma II dell’ordinamento penitenziario viene introdotto come legislazione di emergenza nel 1992, ormai oltre 30 anni addietro. La norma palesa fin dall’origine gravi dubbi di costituzionalità giacché prevede la sospensione, in tutto o in parte, del trattamento penitenziario ordinario ossia della vocazione costituzionale di ogni pena al reinserimento della persona condannata. Per questa ragione ne viene stabilito il carattere provvisorio. A fronte dell’orrore suscitato dalle esplosioni di Capaci e di via D’Amelio, un impeto di rigore punitivo e securitario prende il sopravvento e giustifica una norma che, scaturita dalla necessità di impedire che i boss reclusi trasmettano all’esterno i loro comandi criminali, si traduce in una carcerazione che assai spesso si spinge oltre i limiti della tortura in ragione di restrizioni e vessazioni che in nessun modo involgono ragioni di sicurezza e di tutela della società. Quella legislazione è ormai immanente. La detenzione di rigore è contemplata anche per persone gravate dall’accusa di essere mere partecipi di consessi associativi, senza alcun ruolo di comando, anche per chi è in custodia cautelare, ancora non raggiunto da una pronuncia di condanna. E si rivolge anche a diversi contesti associativi, di tipo terroristico o relativi allo spaccio di sostanze stupefacenti. In realtà, anzi, il riferimento di legge è all’art. 4 bis O.P. che include un’ampia ed estremamente sfaccettata serie di reati. Sono circa 750 i reclusi in 41 bis. È un numero che aumenta progressivamente perché, a dispetto della necessità che la pericolosità soggettiva sia verificata ogni due anni in termini di attualità e di perdurante capacità criminale qualificata - da intendersi come persistente attitudine di comando del capo ristretto sui sodali in libertà - i decreti ministeriali non vengono pressoché mai revocati. Con la modifica normativa del 2009 si è sancita una vera probatio diabolica per la persona ristretta in 41 bis alla quale è richiesto sostanzialmente di fornire elementi dimostrativi circa la cessazione del pericolo per la collettività. E non si comprende davvero come potrebbe offrirli a fronte del diuturno isolamento e della pressoché assoluta mancanza di attività trattamentali. Così c’è un tempo indefinito in cui la pena rimane sottratta alla sua anima costituzionale. Si tratta di decenni in cui la carcerazione manca della sua finalità riabilitante. Il mondo risocializzante della detenzione, educatori, psicologi, sfiora a stento il 41 bis; le c.d. relazioni di equipe intramuraria, espressione delle voci di tutti i soggetti del trattamento, assai raramente vengono redatte perché, appunto, non hanno molto da raccontare e non sono individuati obiettivi da perseguire. La Corte Europea, nella pronuncia del giugno 2019, ‘Viola c. Italia’, ha ribadito l’esistenza di obblighi positivi di ogni Stato di fornire a tutti i detenuti, per qualunque reato, strumenti idonei a consentirne il reinserimento e ha specificato come il concetto di dignità, attorno al quale è costruito l’intero sistema ordinamentale, sia strettamente correlato a quello di prospettiva, di avvenire e di speranza. Ma nessuna aspirazione di recupero è prevista finché sei un detenuto in regime derogatorio. Da ultimo (d.l. 162 del 2022, convertito in L. n. 199 del 2022) si è stabilita normativamente l’esclusione dei ristretti in tale regime dalla possibilità di accesso ai benefici premiali e alle misure alternative al carcere. Il processo di verifica del permanere della pericolosità soggettiva non può essere ‘giusto’ perché al recluso è sottratta la possibilità di manifestare, attraverso il godimento dell’offerta rieducativa, il proprio ravvedimento, se non collaborando con la giustizia. L’assenza di strumenti trattamentali: opportunità di lavoro contratte al minimo; diritto allo studio fortemente ridotto dall’impossibilità di lezioni in presenza, dell’aiuto di tutor, dell’acquisto dei libri di testo se non per mezzo della amministrazione penitenziaria; cesura pressoché totale dei rapporti con la famiglia in ragione della reclusione in zone lontane da quelle di origine, con le conseguenti spese via via meno sostenibili per i congiunti, del vetro divisore, del tempo destinato al colloquio, solo un’ora al mese, dei traumi imposti ai figli minori (prima dei dodici anni accompagnati dall’altra parte del vetro divisore da un agente mentre i familiari vengono allontanati, dopo i dodici anni privati per sempre dell’abbraccio del genitore ristretto), censura della corrispondenza in entrata e in uscita, comporta per il detenuto in 41 bis l’incapacità di costruire una immagine di sé diversa dal reato che ha commesso e per cui ha fatto ingresso in carcere che possa essere valutata dal magistrato di sorveglianza territorialmente competente. Dal 2009, inoltre, la competenza a giudicare sulla legittimità dei decreti ministeriali è affidata esclusivamente al Tribunale di Sorveglianza di Roma. La scelta normativa, radicata sull’intento esplicito di creare una uniformità giurisprudenziale su una materia che involge aspetti di tutela dell’ordine pubblico costituzionalmente presidiati, viola apertamente l’esigenza di prossimità sulla quale si fonda l’essenza stessa del giudice di sorveglianza cui è demandato il compito di accompagnare il detenuto nel difficile percorso di restituzione in società, attraverso la conoscenza diretta del suo vissuto intramurario e l’approvazione del programma trattamentale. Si è istituito, invece, un tribunale unico che nulla conosce del ristretto, che non ha modo di verificare la sua evoluzione né gli effetti che il tempo ha prodotto nel suo contesto esterno e fonda il proprio giudizio su note provenienti dalle procure competenti che forniscono del detenuto il ritratto immutabile disegnato dai reati che ha commesso o che gli sono contestati. Ciò, nel solco della vocazione legislativa, ha determinato un monolite giurisprudenziale che tende alla pedissequa validazione delle note degli organi di controllo interpellati anche quando mancano di contenuto dimostrativo rispetto alla pervicace ed attuale capacità di comando (ove l’abbia mai avuta) del soggetto reclamante. Non solo. La competenza esclusiva ha appesantito notevolmente il carico di un tribunale sul quale grava già la competenza esclusiva sui collaboratori di giustizia e che, come molti purtroppo, patisce da anni una ingravescente situazione di inidoneità a smaltire il carico di lavoro per carenza di risorse umane e materiali. Così accade che la valutazione sulla legittimità della misura afflittiva arrivi quando la stessa è stata quasi per intero patita e che un provvedimento di natura amministrativa finisca per consumare la sua efficacia, comprimendo diritti primari protetti da riserva di legge e di giurisdizione, senza alcuna verifica giurisdizionale e che i decreti ministeriali si susseguano negli anni riproducendo asetticamente la storia giudiziaria del ristretto e portando, quali elementi di novità, vicende giudiziarie relative ai territori ma che, quasi sempre, nulla hanno a che vedere con le persone raggiunte dalla misura afflittiva cosicché fintanto che la mafia, nelle sue tante declinazioni, esiste in quei luoghi, anche senza alcuna connessione soggettiva col recluso, lo stesso rimane per sempre incastrato nel delitto di cui si è macchiato senza alcuna, neppure astratta, possibilità di emenda, escluso sine die da ogni attesa di riabilitazione e di restituzione. Il caso dell’anarchico Cospito al 41bis e la riflessione necessaria sul nostro sistemo detentivo di Lucrezia Tiberio valigiablu.it, 25 gennaio 2023 La recente notizia dell’arresto del boss di cosa nostra Matteo Messina Denaro ha riaperto il dibattito sul carcere duro, l’ergastolo ostativo e, più in generale, sulla funzione della pena nel nostro paese. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, i giorni seguenti all’arresto del boss, ha dichiarato (min. 4’56”) che Matteo Messina Denaro “andrà al carcere duro perché quell’istituto esiste ancora grazie a questo Governo”, confondendo il regime carcerario previsto dall’art. 41bis, su cui il Governo non ha fatto alcun intervento, con l’art. 4bis che regola l’ergastolo ostativo, su cui invece si è parzialmente intervenuti a seguito di una complessa vicenda giurisprudenziale. Le dichiarazioni di Meloni hanno creato ancora più confusione su un argomento delicato, che nel dibattito politico viene spesso trattato con imprecisione. Un altro caso che ha fatto riaccendere i riflettori sulla legittimità di questi istituti giuridici è quello di Alfredo Cospito, anarchico attualmente ristretto nel carcere di massima sicurezza di Bancali in Sardegna. Nato a Pescara nel 1967, oltre a una pena a 16 anni e 6 mesi per il ferimento del manager dell’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, nel 2012, è stato condannato in primo e secondo grado perché riconosciuto come autore dell’esplosione di due pacchi bomba a basso potenziale, la notte del 2 e 3 giugno 2006, nei pressi della scuola degli Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo). I fatti si riferiscono al processo Scripta Manent, condotto dalla procura di Torino, che sfociò in un maxi procedimento contro i militanti della Federazione anarchica informale, di cui Cospito, secondo le accuse, era “capo e organizzatore dell’associazione con finalità di terrorismo”. Per questi reati, per i quali Cospito era stato condannato in primo e secondo grado a 20 anni di reclusione, a luglio la corte di cassazione ha ridefinito il reato da “strage contro la pubblica incolumità” in “strage contro la sicurezza dello Stato”, fattispecie che prevede l’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità di godere dei cosiddetti benefici penitenziari. Attualmente è l’unico soggetto detenuto in regime di massima sicurezza con queste accuse. A Cospito è stato applicato, inoltre, il regime carcerario del 41bis, meglio conosciuto come carcere duro, perché considerato ancora in grado di mantenere contatti con l’organizzazione eversiva. La vicenda, oltre ad avere un significato per il mondo anarchico e per l’espressione del dissenso, ha sollevato due questioni importanti, sul regime del carcere duro e sull’ergastolo ostativo, che devono essere tenute distinte. Nel corso del processo di secondo grado davanti alla Corte d’assise d’appello di Torino, la difesa aveva chiesto ai giudici di rivedere il regime del 41bis, ma la richiesta è stata rifiutata dal Tribunale di Sorveglianza; ora il procedimento si è interrotto e la decisione è stata rimandata alla Corte Costituzionale, che dovrà esprimersi sull’ostatività. La norma su cui viene chiesto questo particolare intervento è quella che impedisce di concedere l’attenuante del “fatto di lieve entità” se l’imputato è considerato recidivo. I giudici che hanno accolto l’istanza riconoscono la lieve entità nell’attentato contestato all’anarchico, considerata anche l’assenza di danni o feriti; alle stesse conclusioni, tra l’altro, erano pervenute anche le stesse procure nei processi precedenti. Se la Consulta accogliesse le eccezioni la pena potrebbe ridursi a un periodo compreso tra 21 e 24 anni di carcere. Cospito, per protesta contro la sua condizione detentiva, ha intrapreso uno sciopero della fame da più di 90 giorni e ha manifestato la chiara volontà di voler proseguire il digiuno e di rifiutare qualsiasi alimentazione forzata. In questi giorni proseguono i sit-in e le proteste contro il regime del 41bis in molte città, riaprendo così il dibattito pubblico sul sistema carcere in Italia. Che cos’è il 41bis - Il regime carcerario previsto dall’articolo 41bis è un regime di detenzione che può essere comminato solo in presenza di specifici requisiti e rappresenta infatti un’eccezione, o meglio, la sospensione delle regole del normale regime detentivo; l’istituto, introdotto (con il d.l. 8.6.1992, n. 306, conv. in l. 7.8.1992, n. 356) nell’ordinamento del 1986 per far fronte a situazioni di particolare gravità, venne poi regolato con un decreto legge nel 1992, quando la sua applicabilità fu estesa per combattere le stragi di mafia. Il codice dell’ordinamento penitenziario vigente prevede la compresenza sia di “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” sia di reati in grado di agevolare “associazioni di tipo mafioso, criminale, terroristico o eversivo”. Il fine di questo regime detentivo è quello di interrompere tutti i legami tra il detenuto e l’organizzazione di appartenenza. Concretamente, al detenuto ristretto al 41 bis sono limitate alcune delle facoltà previste per tutti gli altri carcerati. È ammesso un solo colloquio al mese, esclusivamente con familiari e conviventi, e gli incontri, fatti salvi quelli con il difensore, sono sempre registrati. È prevista, inoltre, una limitazione dei contatti che il detenuto può avere con gli altri soggetti all’interno del penitenziario, una forte limitazione degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno e l’intervallo fuori dalla cella può durare un massimo di due ore. Infine, aspetto forse più problematico di tutti, è il controllo sulla corrispondenza in entrata e uscita. Stando alla lettura della norma, comunque, tutti gli altri diritti dovrebbero rimanere impregiudicati, ma di fatto non è così a causa delle gravissime carenze strutturali delle carceri in Italia. Luigi Manconi, giornalista, docente universitario, scrittore e Presidente della commissione diritti umani del Senato, ha rimarcato con forza la mancanza di tutela dei detenuti al 41 bis, in particolare sulla vicenda di Cospito. Di fatto, l’ora d’aria si limita a 60 minuti, trascorsi “in un cubicolo dai muri molti alti da dove si vede un pezzo di cielo da una grata”. Le interazioni sociali sono ridotte al minimo: Cospito dovrebbe poter interagire con altri tre reclusi, ma i suoi difensori hanno dichiarato che “in realtà si riducono a uno in considerazione del fatto che un detenuto è sottoposto a isolamento diurno per due anni e un secondo ormai tende a non uscire più dalla cella”. Inoltre, la corrispondenza dall’esterno è bloccata; Cospito, a seguito di un decreto del ministro della giustizia, considerato “in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza” non può ricevere corrispondenza dall’esterno. Fino a qualche mese fa poteva comunicare con l’esterno, inviare scritti e articoli, contribuire a riviste dell’area anarchica, ricevere corrispondenza e usufruire di colloqui in presenza e telefonici. Secondo Manconi, tutto ciò esprime la chiara volontà dell’ordinamento penitenziario di “comprimere la sua identità politico culturale verso l’esterno e la sua partecipazione al dibattito politico”. A più riprese si sono espresse la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione sull’importanza di una libera corrispondenza per il detenuto, statuendo che “i contenuti del pensiero politico non possono discriminare la possibilità di esprimerlo”. Lo stato di diritto, che garantisce a tutti gli individui la libertà di espressione, viene messo in pericolo con la censura applicata a Cospito e a molti altri detenuti. Altro aspetto, non meno importante, è quello della salute mentale, messa a dura prova da un regime così stringente. Che cos’è l’ergastolo ostativo - Cosa diversa dal 41 bis è l’ergastolo ostativo; disciplinato dall’articolo 4bis del codice dell’ordinamento penitenziario, è un regime carcerario che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà) gli autori di reati considerati riprovevoli quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione, quando il soggetto condannato non collabori con la giustizia o tale collaborazione sia impossibile o irrilevante. L’ergastolo ostativo non è un regime eccezionale tra gli ergastolani, anzi, secondo i dati del Garante nazionale delle persone private della libertà, nel 2021 in Italia i detenuti per reati ostativi sono 1.259, il 70% degli ergastolani totali. Introdotto nel 1991 e successivamente inasprito con l’intensificarsi delle stragi di mafia, nasce da una presunzione legale assoluta di pericolosità sociale, che viene fondata esclusivamente sul titolo di reato commesso. Questa presunzione è così forte da rendere il condannato incompatibile con qualsiasi modalità di risocializzazione extramuraria, salvo il caso in cui egli collabori con la giustizia. Normalmente, per i soggetti che devono scontare una pena detentiva in carcere, è prevista la cosiddetta progressione trattamentale: una serie di misure volte a consentire un sempre maggior contatto con l’esterno fino ad arrivare al termine della pena. Ed è proprio in questa progressione che si esprime la funzione rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione. Il destino del “fine pena mai” che si associa all’ergastolo ostativo ha scatenato negli anni accesissimi dibattiti proprio in ragione della sua dubbia legittimità costituzionale. Nel 2021 i giudici della Consulta si espressero sull’ergastolo ostativo rilevando un contrasto con i principi costituzionali e invitarono il Parlamento a modificare l’istituto. Poco dopo essere entrato in carica, il Governo Meloni è intervenuto con un decreto-legge che di fatto mantiene il 4bis, ma modifica le modalità di accesso ai benefici penitenziari: non più solo attraverso la collaborazione con la giustizia, ma anche dimostrando di aver interrotto qualsiasi legame con la criminalità organizzata e di aver mantenuto una condotta carceraria corretta. Questa modifica, però, non si applica alle persone detenute in regime di 41-bis. L’intero sistema sanzionatorio nel nostro ordinamento è - o dovrebbe essere - orientato ai principi di rieducazione della pena, ma un istituto come quello dell’ergastolo ostativo, di fatto, priva una categoria di detenuti della riappropriazione della libertà personale. Secondo la maggioranza del mondo accademico, la norma sarebbe anche in netto contrasto i principi di eguaglianza, di libertà morale e personale, costringendo il condannato a scegliere se collaborare con la giustizia o non raggiungere mai la fine della pena. C’è poi un contrasto con il diritto di difesa, costituzionalmente garantito dall’art. 24 comma 2 della Costituzione: il diritto penale si fonda sul principio latino nemo tenetur se detegere, cioè il diritto al silenzio e al non incolpare se stessi, che dovrebbe vigere non sono nella fase processuale ma anche in sede di esecuzione della pena. Da ultimo, spicca la dubbia legittimità a fronte del divieto di pene inumane, sancito anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, Convenzione alla quale anche l’Italia ha aderito. Il complicato rapporto tra l’Italia e la giurisprudenza europea - L’Italia conta numerosissime condanne da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, proprio a causa dell’inadeguatezza del suo sistema carcerario. A partire dalla famosissima sentenza Torreggiani del 2013, in cui si portava al vaglio della Corte di Strasburgo la questione del sovraffollamento, con il ricorso di sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. La pronuncia di condanna verso l’Italia è ancora oggi definita come sentenza pilota, per la sua importanza, tuttavia l’Italia non ha mai seguito le direttive della Corte, prevedendo, nel caso in cui un detenuto si trovi in una situazione di grave sovraffollamento, un indennizzo o un breve sconto di pena. Secondo Marina Castellaneta, professoressa ordinaria di Diritto Internazionale dell’Università di Bari e voce autorevole nel dibattito sui diritti umani, sono proprio le stesse strutture carcerarie a diventare il presupposto per trattamenti inumani e degradanti, contrari al diritto internazionale. Un caso più recente che racconta le difficoltà dell’Italia proprio in relazione ai doveri imposti dalla comunità internazionale è il caso di Marcello Viola, mafioso condannato all’ergastolo, che presentò ricorso dopo il rifiuto delle istanze con cui chiedeva dei benefici penitenziari; il rifiuto derivava dal fatto che, nonostante la buona condotta, non era stata accertata la collaborazione con la giustizia. Secondo la Corte “l’assenza di collaborazione con la giustizia determina una presunzione inconfutabile di pericolosità sociale” che ha come conseguenza quella di privare il detenuto di qualsiasi prospettiva di liberazione in contrasto con il rispetto della dignità umana che si trova al centro del sistema messo in atto dalla Convenzione. L’Italia fa parte di una delle convenzioni internazionali più importanti della storia, cioè il Patto sui diritti civili e politici del 1976, che ha cambiato per sempre il panorama internazionale sulla questione della giustizia. La convenzione ha al suo interno varie norme sulle pene e la detenzione; secondo la professoressa Castellaneta, rappresenta la base per la corretta applicazione della rieducazione della pena - intesa come percorso all’interno delle carceri per poi restituire i detenuti alla società. Secondo questa visione, che l’Italia ha ratificato, la giustizia non può e non deve essere mai retributiva, perché in caso contrario diventa legge del taglione. Esiste una questione morale? Il pericolo dietro l’angolo nei dibattiti sull’ergastolo, sul carcere duro è quello di trovarsi davanti un interlocutore che confonde i concetti e accusa chi difende i diritti dei detenuti di essere dalla parte “sbagliata”, dalla parte dei mafiosi o come nel caso Cospito dalla parte dei presunti terroristi contro lo Stato. Questo interlocutore, di solito, si rifugia in una sorta di posizione morale, ma la questione morale, ammesso che esista, non riguarda il detenuto, ma il trattamento che lo Stato decide di riservargli nell’esecuzione della giustizia. Sia che si decida di adottare un approccio giuridico sia che si dia uno sguardo alla filosofia del diritto, il punto di arrivo rimane uno solo: il sistema detentivo deve essere ripensato alla luce delle garanzie costituzionali. Bisognerebbe chiedersi: a cosa serve la pena? In estrema sintesi, si può dire che il sistema attuale risponde ai principi di rieducazione della pena, di proporzionalità tra delitto e pena comminata, sulla responsabilità personale di un fatto di reato e sul divieto di infliggere trattamenti contrari al senso di umanità. Non c’è nessun riferimento alla sfera morale. È fisiologico del vivere in società il provare disprezzo per alcuni reati e l’opinione pubblica spesso guida questi sentimenti; quando si parla di giustizia si nomina spesso l’esigenza che la legge sia uguale per tutti. E forse quest’eguaglianza deve esserci anche nella pena, che non può significare esclusione perpetua dalla società. Non si tratta di negare la colpevolezza di alcuni soggetti, ma l’esecuzione della pena. Lo Stato non può usare nei confronti dei detenuti degli strumenti che sono punitivi a tal punto da negare qualsiasi riappropriazione di libertà nel futuro, perché lo Stato non può essere disumano. Qualunque sia il reato commesso, a prescindere dalla disapprovazione sociale che ne deriva, il carcere non può distruggere l’identità della persona, dovendo conservare l’identità di stato di diritto. E questa è l’unica questione morale sottesa alla vicenda di Cospito e di qualsiasi soggetto ristretto al 41bis o con una pena perpetua. 96 giorni senza cibo per Cospito. Amnesty chiede il rispetto dei diritti umani del detenuto ansa.it, 25 gennaio 2023 Appello al ministro Nordio anche da parte dei Radicali. È polemica sulla diffida della dirigente del carcere di Bancali, fatta al medico curante dell’anarchico, a rilasciare dichiarazioni sulle sue condizioni di salute alla stampa. “Alfredo Cospito è arrivato a quasi 100 giorni di sciopero della fame. Ribadiamo che è dovere delle autorità italiane adempiere agli obblighi di protezione e rispetto dei diritti umani del detenuto, tenendo anche conto delle dure condizioni del regime del 41 bis cui è sottoposto”. Lo scrive in un tweet Amnesty International. Continua da più di tre mesi, infatti, lo sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il regime di carcere duro disposto nei suoi confronti per quattro anni, e si rischia che la protesta arrivi alle più estreme conseguenze. L’anarchico, attualmente detenuto a Sassari, ha perso finora più di 40 chili e non accenna ad interrompere la sua protesta. La richiesta del legale dell’anarchico - La difesa di Alfredo Cospito, detenuto a Sassari, chiede di trasferire “immediatamente” l’anarchico “in sciopero della fame da ben 96 giorni in un altro istituto penitenziario dotato di centro clinico”. È quanto si legge nell’istanza indirizzata al Dap, al Provveditorato regionale sardo, al Garante nazionale dei detenuti e per conoscenza alla casa circondariale di Sassari e al magistrato di Sorveglianza. L’avvocato Flavio Rossi Albertini comunica di aver saputo dal medico di Cospito che “le condizioni di salute del proprio assistito stanno precipitando” e che nel penitenziario dove sta al 41 bis non troverebbe “alcuna possibilità di cura e/o intervento salvifico della vita” perché il Bancali “non ha un centro clinico”. L’appello dei Radicali - “Scriviamo al ministro Nordio perché metta fine al regime di 41 bis per il detenuto Alfredo Cospito e sollecitiamo tutti i cittadini italiani a farlo”. Così in una nota Radicali Italiani che in un messaggio al Guardasigilli scrivono, convinti che “il tempo stringa, che sia finito, che al nostro Paese non serva divenire responsabile della morte di Alfredo Cospito. Quale sarebbe la funzione rieducativa del carcere? Portare alle estreme conseguenze lo sciopero della fame di Cospito o trovare una via d’uscita alternativa? La fine del suo regime di 41bis non rappresenterebbe in alcun modo un cedimento dello Stato, al contrario. Sarebbe un provvedimento ragionevole che non cambierebbe di una virgola la gravità degli atti compiuti. Non sarebbe nemmeno un atto di clemenza ma semplicemente il porre termine a un provvedimento che a a nostro avviso, è fuori dall’ordinamento costituzionale italiano”. “Un ultimo appello - si legge - affinché vi sia da parte sua un gesto, una presa di posizione, una scelta, che fermi l’orologio della morte, che dia e sia speranza, che trovi una strada di legalità. Non abbiamo bisogno di costruire martiri ma semplicemente di una giustizia giusta”. Il divieto di parlare per il medico di Cospito - Nella giornata di ieri, viene ricordato dall’Arci, “la dirigente reggente dell’istituto penitenziario ha concesso alla dottoressa di fiducia del detenuto di visitarlo, ma l’ha diffidata dal rilasciare dichiarazioni alla stampa. In particolare, la diffida riguarda l’emittente bresciana Radio Onda d’Urto, che oggi dedica l’intera giornata alla riflessione su questi temi”. “Io mi sono sempre limitata a esternare le condizioni di Alfredo da quando ha iniziato lo sciopero della fame, non mi sono mai pronunciata su quelle che sono le condizioni carcerarie nelle quali vive”. Così a Radio Onda d’Urto la dottoressa Angelica Milia, che segue le condizioni di salute dell’anarchico, in merito alla diffida che l’amministrazione penitenziaria di Sassari ha emesso nei suoi confronti. La dottoressa è stata autorizzata ad una nuova visita il 26 gennaio, ma è stata invitata a non parlare più con quella radio. “Sono allibita”, commenta. “La comunicazione del ministero della Giustizia che autorizza la dottoressa Milia, che segue le condizioni di salute di Alfredo Cospito, a visitarlo ma le vieta di parlare con i giornalisti, in particolare con radio onda d’urto, presumibilmente delle condizioni di salute di Cospito, è inaudita. Attendiamo a questo punto un chiarimento direttamente dal ministro Nordio, sia rispetto a questa assurda comunicazione, che alle nostre interrogazioni su cui attendiamo ancora risposta. Capisco che forse al ministero preferiscono che di Cospito non si parli per evitare imbarazzi, ma si mettano l’anima in pace, continueremo a parlarne”. Lo afferma il capogruppo dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Peppe De Cristofaro. Una giornata di sensibilizzazione - L’Arci parteciperà, tra gli altri, alla giornata di informazione e sensibilizzazione, continuando a chiedere al ministro della Giustizia un intervento che ponga fine allo sciopero della fame iniziato più di tre mesi fa da Alfredo Cospito, che rappresenta una insidia molto grave alle sue condizioni di salute”. Cospito, ricostruisce l’Arci, “è un militante anarchico di 55 anni, chiuso nel carcere di Bancali, a Sassari, che il 20 ottobre scorso ha iniziato uno sciopero della fame per due motivi: protestare contro l’applicazione nei suoi confronti, a partire dal maggio 2022, dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che disciplina il carcere duro previsto per i mafiosi, e opporsi all’ergastolo ostativo, quello che prevede che non si possa accedere ai benefici penitenziari previsti per tutti gli altri condannati, che pende sulla sua testa dopo l’ultima decisione della Corte di Cassazione”. “Cospito contesta i motivi che hanno indotto la giustizia italiana ad applicargli un trattamento riservato fino a quel momento solo ai capi delle organizzazioni mafiose. Cospito è stato condannato per atti di violenza molto gravi che lui stesso ha rivendicato, ma non si considera capo di alcunché. Il tema - a detta dell’Arci - è il confine di una detenzione che, scontata in questo modo, rischia di vanificare i principi costituzionali sulla pena e sul carcere. Va ridefinito il sistema di sorveglianza: il 41 bis è uno strumento anticostituzionale, contrario alla finalità rieducativa della pena, disumano. Cospito spera che intorno al suo caso si apra una discussione più grande di quella che riguarda il suo caso singolo”. Il carcere diffida il medico di Cospito: non parli della sua salute di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 gennaio 2023 La direzione di Bancali, dove è recluso l’anarchico, chiede che la dottoressa non vanifichi la finalità del regime duro. Eppure, ai microfoni di “Radio Onda d’Urto”, lei non manda “pizzini”, ma parla in termini sanitari. Presentata un’altra interrogazione parlamentare e una alla Commissione europea. Alfredo Cospito, l’anarchico da oltre tre mesi in sciopero della fame al 41 bis, è allo stremo. E a riferire il suo stato di salute è la sua dottoressa Angelica Milia, tanto che l’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini, ha chiesto un trasferimento urgente in un carcere dove c’è un centro clinico. Ma oltre al danno, arriva la beffa. La direzione del supercarcere di Sassari, il Bancali, dove è recluso Cospito, nel confermare all’avvocato Albertini l’autorizzazione per la visita di giovedì prossimo da parte della dottoressa di fiducia, diffida il medico stesso “a rilasciare a seguito delle visite - si legge nella missiva -, dichiarazioni all’emittente radio “Onda d’Urto”, al fine di non vanificare le finalità del regime di cui all’ex art. 41 bis O.P. Ulteriori dichiarazioni rese in tal senso, potranno indurre questa A.D a valutare la revoca dell’autorizzazione all’accesso in Istituto”. Una diffida che non si comprende il motivo, anche perché la dottoressa Milia, ai microfoni dell’emittente radio in questione, si è sempre limitata a esternare le condizioni di salute di Cospito da quando ha iniziato lo sciopero della fame. Quale finalità del 41 bis avrebbe vanificato? Non ha veicolato nessun messaggio particolare all’esterno. Non parla in codice, ma in termini puramente sanitari. La diffida da parte della direzione del carcere di Sassari è, di fatto, inspiegabile. E ciò non si potrebbe palesare come un attacco alla libertà di informazione e un ulteriore afflizione del 41 bis che sulla carta non esiste. Ci viene in aiuto la sentenza della Corte Costituzionale numero 351 del 1996, dove si specifica che il limite interno attiene all’esigenza “intrinseca” del 41 bis, che impone la limitazione delle restrizioni a quelle riconducibili alla concreta esigenza di tutela dell’ordine e della sicurezza, e che siano congrue rispetto allo scopo. In assenza di tale congruità si sarebbe davanti ad un “significato diverso”, quello di “ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva”. Il dramma è che, secondo quanto ben argomentato dal suo avvocato difensore tramite l’ultima richiesta di revoca inoltrata da settimane al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, l’anarchico Cospito nemmeno dovrebbe essere recluso al 41 bis. Tutto tace, nessuna risposta alla richiesta. Il senatore di Sinistra Italiana Peppe De Cristofaro ha da poco presentato una interrogazione, rivolta al guardasigilli, a risposta orale con carattere di urgenza. In premessa, il senatore ricorda che Cospito, detenuto all’interno della casa circondariale di Bancali, a Sassari, ha intrapreso dallo scorso 20 ottobre uno sciopero della fame per denunciare le condizioni cui si trova costretto dal regime del 41 bis dell’ordinamento penitenziario cui è sottoposto dall’aprile 2022, nonché per protestare contro la misura comminatagli dell’ergastolo ostativo. Sottolinea come Cospito abbia riportato nei primi due gradi di giudizio una condanna per strage contro la pubblica incolumità (art. 422 del codice penale) per due ordigni a basso potenziale esplosi presso la scuola allievi Carabinieri di Fossano, senza causare morti né feriti. Un reato che prevede la pena non inferiore ai 15 anni. L’interrogante, ricorda che lo scorso luglio, tuttavia, la Cassazione ha riqualificato il fatto in strage contro la sicurezza dello Stato (art. 285 del codice penale), reato che prevede l’ergastolo, anche ostativo, pur in assenza di vittime: una fattispecie che non è stata contestata nemmeno agli autori degli attentati che uccisero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Prosegue l’interrogazione specificando che, a parere del senatore De Cristofaro, “si configura uno stravolgimento della ratio del regime di cui all’art. 41-bis, che vede l’estensione ad un anarchico individualista: l’obiettivo originario del regime differenziato era infatti quello di impedire i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza, mentre nel caso di Cospito la finalità è quella di impedirgli di continuare a esternare il proprio pensiero politico, attività svolta pubblicamente e dunque né occulta né segreta”. Sottolinea che la scelta appare motivata, infatti, proprio dal diffondersi di una serie di scritti e opuscoli di Cospito che, invitando gli anarchici a non rinunciare alla violenza, lasciano intendere per i giudici un collegamento con la militanza attiva al di fuori del carcere e la possibilità di condurre i movimenti anarchici verso nuovi atti criminali. Eppure, - ci tiene a sottolineare l’interrogante - “fino ad aprile scorso Cospito poteva infatti comunicare con l’esterno, inviare scritti e articoli e partecipare al dibattito della sua area politica, ricevere corrispondenza e beneficiare dell’ordinario regime trattamentale in termini di socialità, colloqui visivi e telefonici, ore di aria, palestra e biblioteca. La sottoposizione al regime del 41-bis comporta ora il trattenimento delle lettere in entrata - e conseguentemente l’autocensura delle proprie - nonché la riduzione a due ore d’aria in un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati; la “socialità” è limitata a un’ora al giorno, nessun accesso alla biblioteca di istituto, con la fruizione di un unico colloquio mensile: una vera e propria deprivazione sensoriale, che finisce con l’ottundere e deprimere la sua personalità”. Il senatore De Cristofaro nell’interrogazione segnala come il 19 dicembre 2022 la Corte di Assise di appello di Torino, davanti alla quale si celebra il processo, abbia accolto la richiesta dei legali di sollevare una questione di legittimità costituzionale per verificare la prevalenza della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 c.p. sulla recidiva ex art. 99 comma 4 c.p. Nelle scorse settimane il Tribunale di Roma ha invece respinto un’istanza del legale di Cospito per la revoca dell’applicazione del carcere duro prevista dall’articolo 41-bis, fornendo come motivazione un mancato “percorso di revisione critica”. L’ interrogazione prosegue facendo presente che una nuova istanza in tal senso è stata presentata nei giorni scorsi al ministro della Giustizia sulla base delle motivazioni di una sentenza depositata successivamente alla decisione del tribunale di Sorveglianza di Roma. L’interrogazione parlamentare conclude con la recente dichiarazione dell’avvocato Rossi Albertini, il quale ha affermato che il Ministero “continua a serbare un incomprensibile silenzio sull’istanza eppure era stato lo stesso Ministro a lamentare in una nota l’assenza di un suo formale coinvolgimento. Ciò detto, anche qualora la decisione ministeriale fosse negativa, Cospito e tutti e tutte coloro che si sono mobilitati in questi mesi a sostegno del suo sciopero della fame hanno il diritto di sapere per quali ragioni l’anarchico debba essere condannato ad espiare la sua pena nel regime detentivo speciale”. Il senatore di Sinistra Italiana, quindi, chiede di sapere se il ministro Nordio non ritenga di dover rispondere con urgenza all’istanza relativa alla revoca del regime 41 bis presentata dai legali di Cospito, anche “considerato il deterioramento dello stato psicofisico del detenuto, in sciopero della fame da ormai diversi mesi”. Anche l’eurodeputato Massimiliano Smeriglio di Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici, ha presentato una interrogazione urgente alla Commissione europea, mettendo in evidenza la situazione attuale del detenuto dal punto di vista del rispetto e della tutela dei diritti umani e della dignità della persona. La dottoressa di Alfredo Cospito torna a parlare a Radio Onda d’Urto dopo la diffida del carcere di Luca Pons fanpage.it, 25 gennaio 2023 Angelica Milia è la dottoressa che segue Alfredo Cospito, anarchico condannato al 41bis e in sciopero della fame da quasi 100 giorni. Il carcere di Sassari l’aveva diffidata dal rilasciare interviste a Radio Onda d’Urto. Oggi è tornata ai microfoni della radio e si è detta “allibita” dal divieto. Angelica Milia, la dottoressa che segue le condizioni di salute dell’anarchico Alfredo Cospito, ha parlato a Radio Onda d’Urto. È la prima intervista della medica da quando la direzione del carcere di Bancali, a Sassari, dove Cospito è detenuto in regime di 41bis, l’ha diffidata dal rilasciare dichiarazioni alla radio. Nell’intervista si è detta “allibita” che le sia stato intimato di non parlare delle condizioni di salute del paziente detenuto, che è in sciopero della fame da quasi 100 giorni. La storia di Alfredo Cospito e lo sciopero della fame - Alfredo Cospito è un uomo di 55 anni, appartenente a movimenti anarchici, che dal 2014 è in carcere e dall’anno scorso è sottoposto al regime di 41bis nel carcere di massima sicurezza di Sassari. Qui vive in isolamento, senza libri né giornali, con la possibilità limitata di usufruire dell’ora d’aria e di colloqui con i familiari, sempre attraverso un vetro. Dal 19 ottobre 2022, Cospito ha iniziato uno sciopero della fame per protestare la sua condizione carceraria, ma anche la possibilità che gli venga applicato l’ergastolo ostativo, ovvero l’impossibilità di libertà condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio e semilibertà. Amnesty International, oggi, ha ricordato in un comunicato che “è dovere delle autorità italiane adempiere agli obblighi di protezione e rispetto dei diritti umani del detenuto, tenendo anche conto delle dure condizioni del regime del 41 bis cui è sottoposto”. Attualmente, tra le poche persone che hanno dei contatti diretti con Alfredo Cospito c’è proprio la dottoressa di fiducia Angelica Milia, che monitora le sue condizioni di salute. La diffida del carcere alla dottoressa: “Non parli di Cospito o si fermeranno le visite” - In passato, Milia ha rilasciato diverse interviste a Radio Onda d’Urto, per dare aggiornamenti sullo stato di salute di Cospito. Il 23 gennaio, con una nota, la direttrice del carcere di Bancali, a Sassari, ha scritto che la dottoressa era “diffidata a rilasciare a seguito delle visite, dichiarazioni all’emittente radio “Onda d’Urto”, al fine di non vanificare le finalità del regime di cui all’ex art. 41 bis”. Un divieto, quindi, per mantenere le condizioni di isolamento previste dal regime di carcere duro. Non solo, ma la nota comunicava anche che in caso di “ulteriori dichiarazioni rese in tal senso” avrebbero potuto portare alla “revoca dell’autorizzazione all’accesso in Istituto”. Una comunicazione che Radio Onda d’Urto ha definito “un provvedimento gravissimo, un attacco che non riguarda solo la nostra emittente ma più in generale la libertà di informazione e che denota un accanimento repressivo-carcerario contro il detenuto”. La dottoressa è stata autorizzata dal carcere a svolgere una nuova visita giovedì 26 gennaio, e oggi è intervenuta proprio ai microfoni di Radio Onda d’Urto. “Mi sono sempre limitata a esternare le condizioni di Alfredo da quando ha iniziato lo sciopero della fame, non mi sono mai pronunciata su quelle che sono le condizioni carcerarie nelle quali vive”, ha detto. “Una volta abbiamo parlato dello spazio ristretto nel quale lui prendeva l’ora d’aria ma al di là di questo niente, perché il detenuto mi viene portato in infermeria e di fatto io non ho mai visto la cella di Alfredo, è lui che me ne ha parlato”, ha continuato Milia. “Non capisco perché non possa esternare quelle che sono le condizioni di salute di Alfredo”. Secondo un aggiornamento ricevuto dalla medica, Cospito avrebbe perso circa 10 chili nell’ultima settimana. Non è chiaro se l’intervista di oggi farà saltare la visita fissata per il 26 gennaio. “Non so se anche questa intervista fatta oggi mi possa pregiudicare l’ingresso”, ha spiegato Milia. “Sono allibita”. Verdi e Sinistra: “Continueremo a parlare di Cospito, il ministro Nordio chiarisca” - Il capogruppo dell’Alleanza Verdi-Sinistra al Senato, Peppe De Cristofaro, è intervenuto nella vicenda chiamando in causa il ministro della Giustizia del governo Meloni: “La comunicazione del ministero della giustizia che autorizza la dottoressa Milia, che segue le condizioni di salute di Alfredo Cospito, a visitarlo ma le vieta di parlare con i giornalisti, in particolare con radio Onda d’Urto, presumibilmente delle condizioni di salute di Cospito, è inaudita”, ha affermato. De Cristofaro ha detto di attendere “un chiarimento direttamente dal ministro Nordio, sia rispetto a questa assurda comunicazione”, sia sulle “interrogazioni parlamentari su cui attendiamo ancora risposta”. Al ministero della Giustizia, ha concluso, “forse preferiscono che di Cospito non si parli per evitare imbarazzi, ma si mettano l’anima in pace, continueremo a parlarne”. Fnsi e Usigrai su diffida per Cospito: “Aggressione alla libertà di stampa” di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 gennaio 2023 Polemica sulla lettera del Dap alla dottoressa Milia per le interviste a Radio Onda d’Urto. “Censura che nega il diritto costituzionale dei cittadini di essere informati”. L’”ennesima aggressione alla libertà di stampa”: così la Federazione nazionale della stampa e l’esecutivo Usigrai definiscono la diffida inviata dalla direzione del carcere di Sassari Bancali alla dottoressa Angelica Milia, medico personale dell’anarchico Alfredo Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso per protestare contro il regime di carcere duro a cui è sottoposto da otto mesi. Su carta intestata del ministero di Giustizia, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria lunedì aveva diffidato la dott.ssa Milia a rilasciare dichiarazioni sullo stato di salute del detenuto dopo le visite, indicando anche esattamente con quale testata - “Radio Onda d’Urto” - il medico non avrebbe dovuto parlare, pena la revoca del permesso di entrare nell’istituto penitenziario per visitare il proprio paziente. Secondo la direttrice di Bancali, Carmen Fiorino, reggente del carcere da poco più di una settimana, le dichiarazioni rese all’emittente di area cosiddetta “antagonista”, ascoltata anche da militanti anarchici, rischierebbe di “vanificare le finalità del regime di cui all’ex art. 41 bis” che l’allora ministra di Giustizia Cartabia firmò per Cospito, mai pentitosi della gambizzazione dell’ad di Ansaldo, Adinolfi, per la quale ha appena finito di scontare la pena, né della bomba alla scuola dei carabinieri di Fossano per la quale rischia l’ergastolo. “Prima la riforma Cartabia che ha messo nelle mani dei procuratori capo la decisione su quali procedimenti siano di interesse pubblico, quindi la decisione su cosa è notizia e cosa non lo è - si legge nella nota di Fnsi e Usigrai - Con la conseguenza che si sono censurati gravissimi fatti di cronaca, negando il diritto costituzionale dei cittadini di essere informati. Ora la diffida”. L’Fnsi e l’Usigrai, “esprimono solidarietà all’emittente bresciana e preoccupazione per la situazione in atto”. La dott.ssa Milia è stata intervistata quattro volte da Radio Onda d’Urto (dal 29 dicembre al 23 gennaio) e sempre chiedendogli conto solo delle condizioni di salute del detenuto. “Non mi sono mai pronunciata su quelle che sono le condizioni carcerarie nelle quali vive”, ha riferito Milia che si è detta “allibita” della diffida. Radio Onda d’Urto parla di “un provvedimento gravissimo, un attacco che non riguarda solo la nostra emittente ma più in generale la libertà di informazione e che denota un accanimento repressivo-carcerario contro il detenuto”. Un’interrogazione parlamentare sul caso è stata presentata al ministro Nordio da Alleanza verdi e sinistra mentre l’eurodeputato S&D Smeriglio denuncia alla Commissione Ue la violazione dei diritti dell’uomo. Cospito in agonia, lo Stato contro il medico che lo cura di Frank Cimini Il Riformista, 25 gennaio 2023 Proteste per la diffida dell’amministrazione penitenziaria alla cardiologa a non rilasciare interviste a radio Onda d’Urto. De Cristofaro (Avs): “Nordio chiarisca”. Interrogazione di Smeriglio alla Commissione Ue sul 41bis all’anarchico. L’allarme del legale: “Va spostato in un carcere con centro clinico”. Non si era mai visto. Una amministrazione penitenziaria che nero su bianco su carta intestata del ministero della Giustizia diffida un medico dal rilasciare interviste sullo stato di salute di un detenuto suo assistito. E per giunta a un solo mezzo di informazione, Radio Onda D’Urto. Minacciando di non concedere ulteriori autorizzazioni per le visite. Sul caso di Alfredo Cospito in sciopero della fame da quasi cento giorni per protestare contro l’applicazione dell’articolo 41 bis del regolamento penitenziario, carcere duro, è lo Stato a dimostrare di aver perso la testa quando soprattutto per chi gestisce il potere sarebbe necessario il sangue freddo e la calma. In un comunicato la radio scrive di “un provvedimento durissimo, un attacco che non riguarda solo la nostra emittente ma più in generale la libertà di informazione e che denota un accanimento repressivo-carcerario contro il detenuto di cui pare acclarato non si vogliano far conoscere le condizioni di salute sempre più critiche, unico oggetto delle interviste rilasciate dalla dottoressa Milia a Radio Onda d’Urto”. La cardiologa Angelica Milia inoltre all’emittente dell’area antagonista che trasmette con regolare autorizzazione del Tribunale di Brescia dal lontano 1985 ha detto le stesse cose riferite ad altri mezzi di informazione che l’avevano contattata. Il capogruppo dell’alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana Peppe De Cristofaro chiede al ministro Carlo Nordio di chiarire il divieto al medico di parlare con i giornalisti. L’eurodeputato della stessa formazione politica Massimo Smeriglio ha presentato una interrogazione urgente alla commissione Ue ipotizzando una violazione dei diritti di Cospito perché l’applicazione del 41 bis avvenuta dopo ben 6 anni dall’ultima condanna appare sbagliata e sproporzionata. Anche De Cristofaro chiede al ministro Nordio di agire con urgenza rimuovendo immediatamente il regime di carcere duro. “Le sue condizioni di salute sono già gravi - aggiunge il parlamentare europeo - lo Stato non può lasciar morire un uomo che si batte contro un regime carcerario ingiusto”. Fonti del Dap negano la censura nei confronti della dottoressa Milia e fanno sapere che alla base del provvedimento ci sarebbe una “violazione delle prescrizioni previste dall’articolo 41-bis”. Lei si dice “allibita”: “Io mi sono sempre limitata a esternare le condizioni di Alfredo da quando ha iniziato lo sciopero della fame, non mi sono mai pronunciata su quelle che sono le condizioni carcerarie nelle quali vive”. Intanto la difesa di Alfredo Cospito detenuto nel carcere di Sassari Bancali chiede di trasferire immediatamente il recluso in un altro istituto penitenziario dotato di un centro clinico. L’avvocato Flavio Rossi Albertini comunica di aver saputo dal medico di fiducia che le condizioni di Cospito stanno precipitando e che nel carcere dove si trova non troverebbe alcuna possibilità di cura o di un intervento salvifico della vita. Anche i consigli comunali di Nuoro e di Torino chiedono una revoca del 41 bis senza entrare nel merito della vicenda giudiziaria facendo riferimento all’articolo 27 della Costituzione “che sancisce in modo inequivocabile che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Cospito ricordiamo sta scontando una condanna a 10 anni per il ferimento del manager dell’Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Il detenuto è inoltre in attesa che venga definita la pena per i pacchi bomba ai carabinieri di Fossano che non provocarono morti o feriti. La corte d’Assise di Appello di Torino si era rivolta alla Corte Costituzionale affinché si esprima sulla concessione delle attenuanti in relazione alla lieve entità dei danni. La procura generale aveva chiesto l’ergastolo perché viene contestata un’azione contro la sicurezza dello Stato, mai utilizzata, neanche per le stragi di mafia. Anche Amnesty International con un tweet chiede allo Stato di rispettare gli obblighi di protezione del detenuto e di rispetto dei diritti umani tenendo conto delle dure condizioni del regime al quale è sottoposto. Alfredo Cospito dal 20 ottobre scorso digiunando ha perso 42 chilogrammi. Prende qualche grammo di sale e di zucchero rifiutando anche gli integratori. Domani giovedì sarà nuovamente visitato dalla cardiologa che nel corso dell’ultimo incontro lo aveva sconsigliato di camminare durante le due ore d’aria giornaliere al fine di non sprecare energie. Cospito rischia per le condizioni in cui si trova di collassare da un momento all’altro. È questo il motivo per cui il legale chiede il trasferimento in un carcere dotato degli strumenti per salvargli la vita che l’anarchico sta mettendo a rischio non solo per tutelare i suoi diritti ma quelli degli altri quasi 800 detenuti italiani sottoposti al 41 bis. Cassazione: “Diritto alla sessualità dei detenuti: necessario un intervento del legislatore” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 ore, 25 gennaio 2023 A pochi giorni dal rinvio alla Corte costituzionale da parte del magistrato di sorveglianza di Spoleto della norma che vieta gli incontri intimi la Cassazione ritiene necessario solo l’intervento del legislatore. Sul diritto per i detenuti, anche sottoposti al 41-bis, di avere degli incontri intimi con i coniugi o i partner, deve esprimersi il legislatore. Ma ad oggi, non si può affermare, alla luce delle norme sovranazionali interpretate dei giudici di Strasburgo, che gli Stati membri siano obbligati a dotarsi di strumenti normativi utili a realizzare la sessualità in carcere. Con queste motivazioni la Cassazione ha respinto il ricorso di un detenuto al cosiddetto carcere duro contro il no del magistrato di sorveglianza ad incontri intimi con la moglie dopo il matrimonio avvenuto in carcere. La Suprema corte ha negato il rinvio alla Corte costituzionale - chiesto dalla difesa - della norma che vieta le relazioni personali, comprese le sessuali, tra detenuti e partner, limitando questa possibilità alla ridotta platea di reclusi che possono usufruire di permessi premio. La legge delega inattuata - La sentenza della Cassazione arriva a pochi giorni dalla decisione di segno contrario del magistrato di sorveglianza di Spoleto che ha invece rinviato alla Corte Costituzionale la richiesta di un detenuto del carcere umbro di Maiano di avere colloqui privati con i propri familiari e, in particolare, incontri intimi con la propria compagna. La Suprema corte ha ricordato come nel 2012 la Consulta (sentenza 301), pur ritenendo inammissibile la questione di costituzionalità sollevata dal magistrato di sorveglianza di Firenze, aveva ammesso l’esigenza di una tutela sul punto, invocando un intervento del legislatore. Quanto a quest’ultimo è rimasto comunque inerte malgrado - fa notare la Cassazione - nella legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario 103/2017, all’articolo 85, fosse prevista una disciplina delle condizioni generali per assicurare il diritto all’affettività delle persone detenute. Il fatto che la previsione sia rimasta lettera morta è, comunque, per i giudici di legittimità, un’ulteriore prova dell’impossibilità di colmare, in via interpretativa, il vuoto legislativo. L’intervento del legislatore - Che il tema meriti l’attenzione del Parlamento - afferma la Cassazione - lo dimostrano gli atti sovranazionali e un approccio comparatistico: sono sempre di più gli Stati, che in varie forme e con diversi limiti, riconoscono “il diritto ad una vita affettiva e sessuale intramuraria”. Riforme apprezzate dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, che ha comunque escluso che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e in particolare gli articoli 8 paragrafi 1 e 12, “prescrivano inderogabilmente agli Stati di permettere rapporti sessuali all’interno del carcere, anche tra coppie coniugate”. Da qui l’assenza della violazione di norme sovranazionali che avrebbero imposto un rinvio alla Consulta. Tuttavia la Suprema corte insiste sulla necessità di un intervento del Parlamento non surrogabile. Perché non basterebbe ovviamente - precisano i giudici - una semplice demolizione della disposizione incentrata sul “controllo visivo”, ma occorre una disciplina dei tempi e dei modi per esercitare il diritto di cui si discute, che non può essere assicurata da altri che dal legislatore. Nordio contro l’Anm. Un duello rusticano che dura da 30 anni di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 25 gennaio 2023 Per farsi un’idea di questo conflitto bisogna tornare al 1994 e allo scontro che la toga veneziana ebbe con la procura di Milano, in particolare con il celebre pool di Mani Pulite. “Le anime belle della magistratura”. Per questa irriverente espressione mutuata dal romantico Wolfgang Goethe Carlo Nordio nel 1997 viene deferito ai probiviri dall’Associazione nazionale magistrati. A dirla tutta Nordio citò anche il Mercante di Venezia, attaccando quei Pm che “vogliono ancora la loro quotidiana libbra di carne da gettare al popolo”. Parole che l’Anm, non gradì affatto considerandole addirittura “denigratorie e lesive per l’intera categoria, che superano i limiti della libertà di espressione”. Così scattò la convocazione dell’allora procuratore di Venezia che, va da sé, ignorò del tutto quella che ancora oggi definisce “una grossolana forma di intimidazione di stampo stalinista”. E non a torto. La faccenda si risolse con un netto passo indietro dell’Anm per bocca del segretario generale Wladimiro De Nunzio e soprattutto della presidente Elena Paciotti che criticò “l’eccesso di zelo dei probiviri”. Perché Nordio, seppur in punta di citazioni letterarie, aveva il dente così avvelenato con parte della magistratura in termini peraltro molto simili a quelli dello scontro attualmente in corso tra Via Arenula e le procure? La lettura “politica” è quanto di più fuorviante possa essere tirato in ballo, perché se è vero che più volte la destra (Forza Italia e Lega) lo ha difeso dagli attacchi dei colleghi e dei partiti di sinistra, lui si definisce da sempre un “liberale”, un magistrato indipendente al quadrato, che detesta le conventicole e la squallida roulette delle correnti che ammorba la nostra giustizia. Anche i suoi più feroci detrattori gli riconoscono questa istintiva diffidenza nei confronti delle confraternite di togati. Per farci un’idea più concreta di questo duello che va ormai avanti da un quarto di secolo dobbiamo tornare indietro ancora di tre anni, al 1994 e allo scontro che la toga veneziana ebbe con la procura di Milano, in particolare con il celebre pool di Mani Pulite, una vicenda che ha a che fare con Bettino Craxi, all’epoca in esilio a Hammamet. Il nome di Nordio spunta fuori nell’intercettazione tra l’ex segretario del Psi e un certo “Salvatore” che gli avrebbe suggerito di incontrare il pm lagunare (che all’epoca indagava sulle presunte tangenti del Pci-Pds) con cui aveva preso contatti. Chi era dunque il fantomatico interlocutore di Craxi su cui la stampa, tutta schierata con gli “eroi” di Tangentopoli ricamò articoli complottisti dai risvolti fantasy? Quasi sempre come spiegava Guglielmo da Occam ottocento anni fa, la soluzione più semplice è anche la più giusta. Si trattava infatti dell’avvocato di Craxi, Salvatore Lo Giudice con cui Nordio aveva avuto dei colloqui privati in merito all’opportunità di ascoltare il suo assistito come testimone nell’ambito dell’inchiesta sulle Coop rosse. Il problema è che quell’intercettazione, che non aveva alcun valore processuale, venne divulgata ai media che linciarono Nordio, dipingendolo come un fiancheggiatore del latitante Bettino Craxi, intenzionato ad aiutare il sodale perseguitando i vertici del Pds (Achille Occhetto e Massimo D’Alema) per alleggerire la posizione del leader socialista. La storia ci dice che le cose non stavano affatto così e che fu lo stesso Nordio ad archiviare l’inchiesta ritenendo “inaccettabile l’assioma che chi stava al vertice non potesse non sapere”. Il problema è che i responsabili della pubblicazione dell’intercettazione, ovvero i colleghi della procura di Milano Francesco Saverio Borrelli e Paolo Ielo erano perfettamente a conoscenza dell’identità di Salvatore come spiegò lo stesso Nordio: “In una conversazione telefonica ho detto al collega Ielo che tale Salvatore era molto probabilmente proprio il difensore di Craxi, l’ avvocato Salvatore Lo Giudice, con il quale pochi giorni prima avevo avuto, su sua richiesta, un colloquio riservato ed urgente in merito all’ invito a comparire e alla opportunità di sentire quanto prima l’ indagato. Ho anche aggiunto che nell’ ambito di quel colloquio erano state fatte delle considerazioni che avrei preferito chiarire a voce proprio con i colleghi di Milano”. Un’intercettazione illegittima, che. oltre a gettare fango sull’interessato violava il diritto di riservatezza tra un avvocato e il suo cliente. Nordio era invec convinto che Ielo sapesse perfettamente chi fosse Lo Giudice, nonostante il pm milanese sostenesse il contrario, spiegando di aver utilizzato l’intercettazione per “tutelare” lo stesso Nordio, mentre il suo capo Borrelli si giustificò spiegando che la divulgazione di colloquio tra Lo Giudice e Craxi non era da addebitare al suo ufficio. Chi fornì allora le trascrizioni ai giornali? Non si è mai saputo. Lo scontro finì poi davanti al Csm che come spesso accade archiviò il tutto senza però chiarire la vicenda e senza riuscire a mettere pace tra le due procure. Intercettazioni, processi mediatici, spirito corporativo e di casta, a un quarto di secolo di distanza siamo ancora al punto di partenza e i titoli dei media di oggi potrebbero tranquillamente sovrapporsi a quelli di 25 anni fa. Perché, al di là delle circostanze specifiche, dei colpi bassi, delle piccole bugie, è dai tempi di Mani Pulite che nel nostro paese è in corso uno scontro culturale profondo tra garantisti e giustizialisti, tra chi a costo di essere impopolare protegge i diritti della difesa e chi vuole offrire al popolo la famosa “libbra di carne”. L’avviso di Mattarella: “Indipendenza delle toghe pilastro della democrazia” di Ugo Magri La Stampa, 25 gennaio 2023 Al Quirinale, incontro con i componenti nuovi e vecchi del Csm. Il riconoscimento: “La magistratura ha le risorse per affrontare le difficoltà”. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante la cerimonia di commiato dei componenti del Csm uscente che si è svolta ieri al Quirinale. Il “Parlamento” dei giudici volta pagina, anche simbolicamente, con lo scambio di consegne ieri al Quirinale tra i “vecchi” membri del Csm e i nuovi. Questa mattina Sergio Mattarella presiederà il “plenum” che eleggerà il suo vice, di fatto il numero uno. Dopodiché l’organo di autogoverno della magistratura sarà operativo giusto in tempo per le inaugurazioni dell’anno giudiziario (inizieranno domani a partire dalla Corte di Cassazione) e, soprattutto, potrà assolvere una quantità di compiti che definire delicati è poco: nomine, trasferimenti, carriere, provvedimenti disciplinari nel confronti delle toghe, ma anche pareri sulle future riforme della giustizia, più tutte le altre iniziative necessarie per difendersi dalle aggressioni della politica. A tale proposito Mattarella ha pronunciato un discorso breve ma denso. Un richiamo in particolare: sull’importanza che la magistratura goda di piena autonomia. La tutela non una legge qualsiasi, segnala il presidente, ma la stessa Costituzione. Definisce l’indipendenza del potere giudiziario un “pilastro della democrazia”. E questa sottolineatura di sicuro non è casuale. Suona come un avviso ai naviganti, come un altolà preventivo casomai qualcuno intendesse tagliare le unghie ai tutori della legalità. Scorgervi una polemica con il ministro Guardasigilli, tra l’altro presente alla cerimonia, sarebbe fuori luogo: sul Colle sono molto netti al riguardo. Ma il largo dibattito che si è aperto in tema di giustizia, nella prospettiva di renderla più efficiente, dovrà evitare pericolose fughe in avanti e rispettare i confini fissati dalla Carta costituzionale. Tra questi, appunto, l’autonomia della giurisdizione. A sua volta il Csm dovrà mostrare uno spirito costruttivo, senza sterili contrapposizioni. “Sono certo che il nuovo Consiglio saprà svolgere le sue funzioni”, mette in chiaro il presidente con tono fiducioso, “nel quadro di corretti rapporti istituzionali, nell’interesse preminente della Repubblica”. Le tensioni tra politica e giustizia fanno solo male all’Italia. Certo: il Csm non vive la sua stagione migliore. Polemiche e scandali ne hanno trascinato la credibilità al punto più basso. All’indomani del “caso Palamara” si dimisero 6 consiglieri togati. Venne rimproverato al Colle, specie da destra, di non averne approfittato per un “repulisti” generale, azzerando l’intero organo dello Stato. Ma sarebbe stata una forzatura, una violazione di legge. Tra le pieghe del discorso, Mattarella rivendica la scelta di allora. Per ben due volte ha ringraziato i consiglieri uscenti del lavoro svolto, con una speciale menzione dedicata al vice-presidente David Ermini del quale ha lodato “responsabilità” e “alto senso delle istituzioni” dimostrati nei passaggi più burrascosi. Nonostante sia stata “una consiliatura complessa, segnata da gravi episodi”, riconosce Mattarella, il Csm ha fatto quanto poteva per garantire lo svolgimento dell’attività giudiziaria, anche durante l’emergenza Covid. Dunque massimo rispetto per i consiglieri uscenti, ai quali va riconosciuto quantomeno l’onore delle armi; e rispetto più in generale per tutti i magistrati “che svolgono con impegno e dedizione la loro attività, anche in condizioni ambientali complesse e talvolta insidiose”, rimarca il presidente della Repubblica. Anche qui il messaggio è trasparente. Guai a delegittimare giudici e Pm specialmente ora che si stanno raccogliendo i frutti della lotta alle mafie. Flick: “Eccessi anche dai pm ma ora basta interferenze politiche” di Liana Milella La Repubblica, 25 gennaio 2023 L’ex presidente della Consulta: “Sia il capo dello stato a nominare il vicepresidente del Csm”. I primi scontri, al Csm, per chi farà il vice presidente. L’ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick è netto e dice: “Sia il capo dello Stato a nominarlo”. Il centrodestra preme per occupare quella poltrona. Non è un’interferenza? “Lo è adesso, ma lo è stata in tutte le consiliature precedenti. La campagna di stampa pro o contro i potenziali candidati alla vice presidenza dei giorni scorsi ne è la riprova tant’è che, e non da ora, penso che il vice presidente debba essere nominato dal capo dello Stato, nella veste di presidente del Csm. E non da ora dico che le porte girevoli tra politica e magistratura valgono non solo per le candidature parlamentari dei magistrati, ma anche per quelle al Csm dei politici, per le quali esplicitamente la Costituzione richiede requisiti tecnici e non di rappresentatività politica”. Ancora una volta Mattarella si erge a difesa della magistratura che garantisce la legalità nel nostro Paese. Ma perché, nello stesso tempo, come avviene da anni, la politica di centrodestra delegittima la magistratura stessa? “Io non credo che sia questa politica a delegittimare la magistratura. Credo invece che sia la politica in generale a farlo. Venendo meno così alla sua responsabilità di prendere le decisioni di fondo nel campo della giustizia, invece di lasciarle allo scontro del tecnicismo tra magistrati, avvocati, e accademici”. È fuori discussione che il capo dello Stato, anche in momenti difficilissimi come la vicenda Palamara, pur non nascondendo la rampogna verso le toghe che deviano, tuttavia abbia sempre ribadito, e lo ha fatto anche ieri, che tocchi proprio ai giudici garantire “il rispetto della legalità indispensabile per la vita e la crescita civile della società e del nostro Paese”... “Ma questo è proprio il compito del capo dello Stato. Ricordare sia alla magistratura, sia alla politica, che la prima è garante della legalità. Il problema è se e come la magistratura riesce a garantire quella legalità senza eccessi e se possibile senza errori”. E qui ecco che spunta l’avvocato Flick, che ha la meglio sul professore di diritto penale e sul giudice costituzionale. Perché ormai quando si parla di magistrati subito emerge l’aspetto negativo, tant’è che lei cita gli eventuali “eccessi ed errori”... “Perché l’aspetto positivo, che è notevolissimo ed è stato pagato anche con la vita da molti giudici, è riconosciuto da tutti, ma non può essere evocato per legittimare gli aspetti dell’eccesso negativo. La magistratura deve garantire la legalità attraverso l’accertamento di fatti costituenti reato e di responsabilità personali. Non può ergersi però a difensore in termini generali della legalità del sistema. In parole semplici, deve accertare reati, condannare i colpevoli e controllare l’esecuzione delle pene, nonché prima le investigazioni della polizia, ma sempre riferendosi a casi specifici e responsabilità personali”. Lo vede? Lei già sta deviando da Mattarella, perché insinua il dubbio, tipico del centrodestra e in questi giorni presente massicciamente anche nei discorsi del Guardasigilli Carlo Nordio, che ci sia una sorta di devianza congenita nel fare il magistrato. Il quale, a tutti costi e con qualsiasi indagine, vuole un colpevole... “Non ci siamo capiti e lei è fuori strada. Io non sto discutendo sul modo con cui il magistrato esercita la sua attività: esame dei fatti, verifica della loro qualifica come reati, accertamento della responsabilità di chi li ha compiuti. Io mi limito a dire che questo non può tradursi in una “lotta” contro un sistema criminale usando come strumenti le persone che ne fanno parte”. Si fermi. Ieri Mattarella ha parlato di una magistratura “autorevole e credibile”. Di fronte al Parlamento il ministro Nordio ha definito le intercettazioni una “porcheria”. Ed è chiaro che a determinare quella “porcheria” sono stati i magistrati. La cui credibilità finisce così sotto le scarpe... “No, no, non siamo d’accordo nel modo più assoluto. Non spetta a me valutare le espressioni usate da altri. A me spetta ricordare la necessità di rispettare la Costituzione e la legge. Che consente le intercettazioni entro limiti ben definiti per accertare reati. La legge Orlando realizza questo obiettivo; bisogna a tutti i costi garantirne l’applicazione sia nel momento in cui l’intercettazione viene disposta “quando è assolutamente indispensabile per proseguire le indagini in presenza di gravi indizi di reato”, sia quando i risultati “irrilevanti” vanno chiusi in cassaforte e conservati sotto la responsabilità del pm”. Ma che fa Flick? Sta parlando come Nordio? Getta la responsabilità sui pm e sui gip e si scorda che le intercettazioni, anche quelle dell’armadio blindato devono essere lette dagli avvocati per vedere se c’è qualcosa di utile al proprio cliente da tirar fuori e mettere nel fascicolo? “Non ci siamo, è ovvio che nell’armadio ci deve andare ciò che non è rilevante dopo l’esame degli avvocati e del giudice. Preciso meglio, c’è differenza tra fare la pesca a strascico per scoprire attraverso le intercettazioni se vi sono dei reati o invece, come vuole la legge, farle quando vi siano gravi indizi di reati (i più gravi) indicati dal legislatore, e quindi l’intercettazione sia assolutamente indispensabile per le indagini. Altrimenti dobbiamo cambiare la legge. E subito, probabilmente, rivedere anche la Costituzione che richiede un equilibrio tra la tutela della privacy e la tutela della sicurezza di tutti”. Mafia e terrorismo intercettabili, la vasta gamma dei reati di corruzione che coinvolgono la politica lo sono oppure no? “La domanda è malposta. Il problema non è distinguere tra diversi tipi di reato che sono tutti gravi anche se in modo diverso e che devono essere scelti dal legislatore e non dal giudice. Ma quello che l’intercettazione va fatta partire quando si sta indagando su un reato grave e occorra assolutamente ricorrere a questo mezzo per proseguire le indagini”. Con la legge Orlando in vigore ne serve un’altra? “No, bisogna solo applicarla effettivamente”. Quindi la querelle di questi giorni è inutile e di fronte a eventuali anomalie basta inviare gli ispettori di via Arenula? “Oppure è meglio evitare che nel processo entrino intercettazioni contrarie alla legge Orlando”. Silvio Berlusconi: “La riforma della giustizia è fondamentale per il governo. Stiamo con Nordio” di Paola Di Caro Corriere della Sera, 25 gennaio 2023 La riforma della giustizia è “una delle ragioni per le quali è nato questo governo”, e non si tocca. L’Ucraina va sostenuta ma gli dà “angoscia” non si trovino soluzioni pacifiche. Sì all’Autonomia ma “non permetteremo contrapposizioni territoriali”. E FI darà battaglia fino in fondo su tasse e pensioni. Silvio Berlusconi parla a 360 gradi ribadendo che non chiede per se stesso “ruoli formali”. E fa un bilancio della sua storia politica fino ad oggi: “Non sono forse riuscito a fare tutto ciò che avrei voluto, ma sono in pace con me stesso, fiero di quello che ho dato”. Il tema caldo oggi è la giustizia. Anche nella maggioranza c’è chi teme che il “garantismo” di Nordio sia un segnale di cedimento nella lotta alla mafia e non solo. “L’idea che essere garantisti significhi essere meno fermi nella lotta alla mafia è semplicemente assurda. Glielo dice un uomo che dopo aver reso permanente nel 2002 il carcere duro, cioè il 41bis, per i mafiosi, nell’ultima esperienza da premier nel 2011 guidò un governo che sequestrò alle cosche beni per 18 miliardi di euro, fece arrestare 6.754 mafiosi compresi 29 dei 30 latitanti più pericolosi. Ne mancava uno e si chiamava Matteo Messina Denaro catturato oltre 10 anni dopo... Altro che cedimento: il fatto che si continui a ripeterlo dimostra soltanto quanta faziosità, quanta falsità e quanta incultura giuridica esistano in alcuni settori, per fortuna minoritari, della magistratura, del giornalismo e naturalmente della politica”. Quindi nessun passo indietro sulla riforma Nordio? “Il contrasto alla criminalità organizzata e la tutela delle persone perbene in uno Stato di diritto non possono mai essere contrapposti. È uno dei fondamenti dello Stato di diritto. Per questo noi sosteniamo con assoluta convinzione le riforme annunciate dal ministro Nordio. La riforma della giustizia è una delle ragioni per le quali è nato questo governo. Una riforma che non è certo contro la magistratura, anzi è dalla parte dei magistrati seri e corretti, che sono la grande maggioranza. Non esiste alcuna questione politica nella maggioranza su questo. Il ministro Nordio è stato voluto dal presidente del Consiglio che gli ha ribadito anche in questi giorni il suo appoggio. Il centrodestra è unito e proprio su questi temi lo ha dimostrato pochi giorni fa in Parlamento”. E sulle intercettazioni? “È molto semplice: non possiamo trattare ogni cittadino come se fosse un sospetto mafioso. Il diritto alla privacy di ciascuno di noi è fondamentale. Può essere sacrificato solo in casi eccezionali e per ragioni gravissime. L’idea che “non esistano innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”, come diceva uno dei protagonisti di “Mani pulite” è un incubo orwelliano, è il simbolo del male che vogliamo combattere”. Presidenzialismo e autonomia, altro passaggio cruciale. Lei che cosa propone? E come arrivarci? “Noi siamo un grande partito nazionale, non possiamo permettere che su questo tema vi siano contrapposizioni territoriali. L’autonomia è una giusta esigenza che deve valorizzare tutti, Sud e Nord, senza dimenticare il Centro e la Capitale, non certo privilegiare qualcuno a discapito di altri. Il presidenzialismo, al quale penso da trent’anni, va realizzato con il concorso di tutti, anche delle opposizioni, che però non hanno un diritto di veto. Su strumenti ad hoc per le riforme non sono pregiudizialmente contrario, ma vedo il rischio di un forte allungamento dei tempi. Le procedure ordinarie probabilmente consentono di marciare più spediti”. Fisco e pensioni: quando la svolta? “L’impegno a ridurre la pressione fiscale e a portare le pensioni minime a 1.000 euro per noi rimane fondamentale, anche per incentivare la ripresa. Certo, sono impegni di legislatura, come la detassazione dei contratti di primo impiego e l’abolizione delle autorizzazioni preventive, che devono essere realizzati nei cinque anni”. Intanto i benzinai scioperano... “Sbagliato, perché penalizza i cittadini incolpevoli. Però va detto che i benzinai sono stati ingiustamente indicati come speculatori per un andamento dei prezzi che non dipende da loro”. La guerra in Ucraina minaccia di essere ancora lunga e a rischio di allargamento del conflitto: sull’invio di armi, italiane e europee, lei come la pensa? “Come ho detto ormai decine di volte, siamo dalla parte dell’Occidente, dell’Europa, dell’Alleanza atlantica. Forza Italia fa parte del Ppe e della maggioranza di governo. La nostra solidarietà non è in discussione, come dimostrano decine di atti parlamentari. Sono però angosciato, voglio dirlo con grande chiarezza, dal fatto che nessuno - se non il Papa e la Santa Sede - sembra avere soluzioni che vadano verso una soluzione pacifica di un conflitto per il quale stiamo pagando un prezzo intollerabile di vite, di sofferenze e anche di danni economici per il mondo intero”. Mes e Pnrr: lei è per ratifica del primo e cambiamento del secondo? “Il nostro rapporto con l’Europa è fondamentale e deve essere costruttivo: in questo ambito è possibile una riflessione complessiva sul Mes e sul Pnrr, che può essere aggiornato senza stravolgerlo, e anche sul tema degli aiuti di Stato: in uno scenario di crisi del mondo globalizzato la strada “rapida e ambiziosa” indicata da Scholz e Macron potrebbe essere quella di un Fondo Sovrano Europeo, senza stravolgere le regole del mercato unico”. Vedrà la premier Meloni prima delle Regionali? “L’incontro con Giorgia ci sarà appena le rispettive agende lo consentiranno. Il segnale politico delle regionali sarà una nuova importante vittoria del centrodestra, non solo in Lombardia ma anche nel Lazio, una vittoria che dimostrerà la vitalità della formula politica alla quale abbiamo dato vita da quasi trent’anni. E in questo ambito, FI ha un ruolo e un compito insostituibili”. E lei oggi che ruolo e compito sente di avere? “Non credo di avere bisogno di ruoli formali per lavorare per il mio Paese, come ho sempre fatto”. Sì a un partito unico del centrodestra o FI deve avere ancora un ruolo di riequilibrio rispetto alla destra? “Non sono due cose in contraddizione. La nostra presenza è fondamentale perché solo noi siamo il centro liberale, cristiano, garantista, europeista, atlantico. Senza di esso non esisterebbe il centrodestra di governo, né come coalizione né come partito unico”. Se dovesse fare un bilancio della sua storia politica fin qui, quale sarebbe? “Se guardo indietro agli ultimi trent’anni, posso dire di essere soddisfatto del lavoro compiuto, anzi orgoglioso per ciò che sono riuscito a fare per il mio Paese, il “Paese che amo”, come dissi quando decisi di scendere in campo. Del resto le opere, le infrastrutture e le riforme realizzate in 10 anni o quasi di governo stanno lì a dimostrarlo, e valgono più di tante parole e per fortuna fanno dimenticare le polemiche e vanificano qualunque attacco. Non sono forse riuscito a fare tutto ciò che avrei voluto, ma sono in pace con me stesso, fiero di quello che ho dato ai miei concittadini che me lo dimostrano ogni giorno con l’affetto, il sorriso, gli abbracci e le feste che mi fanno ovunque io vada. Questo è davvero, ancora oggi, il “Paese che amo”“. Mattarella, i magistrati e il partito della gogna, vero nemico della Carta di Claudio Cerasa Il Foglio, 25 gennaio 2023 Difendere una magistratura che rivendica pieni poteri e alimenta la gogna non significa difendere la Costituzione, ma significa infangarla. Una guida per non credere alle balle che leggerete sul discorso di ieri al Csm. La grancassa del circo mediatico-giudiziario utilizzerà le parole pronunciate dal presidente della Repubblica alla cerimonia di insediamento del nuovo Csm per infilare letame nel ventilatore azionato con sapienza quotidiana dal partito della gogna e per dimostrare, dandosi di gomito, che quello che ieri il capo dello stato ha detto di fronte al Consiglio superiore della magistratura non fa altro che confermare quello che i quotidiani più sensibili al richiamo delle veline delle procure non fanno che ripetere da giorni. E cioè: chi vuole intervenire sui poteri dei magistrati non è solo un nemico del popolo ma è anche un nemico della Costituzione. Così, già ieri pomeriggio, le parole sobrie e misurate con cui Sergio Mattarella ha ricordato il ruolo cruciale svolto dalla magistratura nel nostro paese (“i compiti che la Costituzione e la legge affidano al Csm sono volti ad assicurare l’indipendenza della magistratura, pilastro della nostra democrazia e sancita dalla Costituzione”) sono state istantaneamente utilizzate per quello che non sono: un monito, come ha suggerito ieri Liliana Milella su Repubblica online, finalizzato ad arginare ogni tentativo di intervenire sullo strapotere dei magistrati italiani e un monito finalizzato a considerare anticostituzionale ogni tentativo di lavorare a una migliore separazione tra i poteri italiani. Quello che la grancassa del circo mediatico-giudiziario eviterà però con cura di dire è che, negli ultimi mesi, l’impegno del capo dello stato, sul fronte della giustizia, ha come anticipato alcuni dei temi garantisti sollevati in questi giorni dal ministro Carlo Nordio e giusto un anno fa, il 3 febbraio, nel giorno del discorso per il suo secondo insediamento al Quirinale, fu proprio Sergio Mattarella a ricordare quanto lavoro deve ancora fare la magistratura per “corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità”, quanto la magistratura debba superare “logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’Ordine giudiziario”, quanto siano oggi “fortemente indeboliti nella coscienza dei cittadini” due princìpi “preziosi e basilari della Costituzione” come “l’indipendenza e l’autonomia” e quanto sia alto oggi il “timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. E la ragione per cui, quando elenca in pubblico e in privato le ragioni che dovrebbero spingere il paese a lavorare per ridare maggiore credibilità alla giustizia e alla magistratura, Mattarella cita spesso la Costituzione ha a che fare con un tema misteriosamente rimosso dagli azionisti di maggioranza del partito della gogna. Un tema semplice, lineare e basilare, che coincide con un concetto importante: i veri nemici della Costituzione non sono coloro che cercano di lavorare a un riequilibrio tra i poteri, provando magari a combattere gli orrori del circo mediatico-giudiziario, ma sono coloro che, mentre fingono di difendere la Costituzione, non fanno altro che calpestarla. E così non troverete mai nessun azionista del partito unico della gogna ricordare cosa prevede l’articolo 15 della Costituzione nel passaggio in cui stabilisce quanto sia miserabile spacciare per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento (la libertà e la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni sono inviolabili e la loro limitazione può avvenire non in modo sistematico ma solo in seguito a un atto motivato dell’autorità giudiziaria). E così non troverete mai nessun azionista del partito unico della gogna ricordare cosa prevede l’articolo 27 della Costituzione nel passaggio in cui stabilisce che non basta un sospetto a condannare un indagato (ogni imputato è innocente fino a sentenza definitiva). E così, ancora, non troverete mai nessun azionista del partito unico della gogna ricordare, a proposito di ergastolo ostativo, che la frase “le pene non devono essere volte unicamente alla punizione del reo ma devono innanzitutto mirare alla sua rieducazione” non compare nei diari di Licio Gelli ma è la Costituzione, ancora all’articolo 27. E così, ancora, se proprio dobbiamo essere precisi, non troverete mai nessun azionista del partito unico della gogna ricordare, a proposito di necessario equilibrio tra i poteri, che le oscenità prodotte dal processo mediatico sono duramente condannate non dal garantismo utopistico ma dalla stessa Costituzione, che all’articolo 111 prevede che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte a un giudice terzo e imparziale, all’interno di un percorso che garantisce alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo. Le vestali della Costituzione utilizzeranno forse le parole sagge e misurate di Mattarella sulla magistratura per dare manforte alla grancassa del circo mediatico-giudiziario (un circo intenzionato a considerare come un mafioso chiunque voglia limitare gli abusi mediatici delle intercettazioni, chiunque voglia ricordare che il diritto di cronaca non è il diritto allo sputtanamento, chiunque voglia arginare la totale arbitrarietà delle procure intervenendo sui pieni poteri che hanno i magistrati italiani). Ma nel farlo dimenticheranno di ricordare una verità che il capo dello stato conosce e che gli azionisti del partito della gogna faticano ad ammettere: difendere una magistratura che rivendica i pieni poteri, che alimenta il processo mediatico e che vede qualsiasi valutazione esterna come lesa maestà non significa difendere la Costituzione, ma significa semplicemente provare a infangarla ogni giorno di più. Non ci provate, grazie. Sorvegliare e punire: la dottrina del ministro Nordio di Vincenzo Vita Il Manifesto, 25 gennaio 2023 Come la grandine, il tema delle intercettazioni telefoniche e loro divulgazione ritorna: si gonfia e magari si sgonfia. Al di là, però, del suo contenuto manifesto, la vicenda ha un alto valore simbolico. Il tema fa parte, ormai, di un conflitto di lunga durata tra il potere politico e i contrafforti che dovrebbero arginarne la deriva autoritaria: magistratura e informazione. Ciò non significa, ovviamente, che il male e il bene si possano dividere con una riga netta e univoca. Tuttavia, è necessario cogliere la profondità di una tendenza che torna pesantemente in scena. Sembrava, tra l’altro, che la questione si fosse più o meno chiusa con un compromesso, quello previsto dalla recente riforma dell’ex ministro Orlando (d.lgs. n.216 del 2017) tesa a separare il grano dal loglio, vale a dire le intercettazioni di interesse penale da quelle non rilevanti ai fini delle indagini. Ora, la destra al governo, pur nei suoi contorcimenti e nelle differenti gradazioni coercitive ma con l’operoso sostegno del cosiddetto Terzo Polo, ha riaperto l’argomento attraverso la fonesi reiterata del ministro Nordio: loquace al di là di ogni ragionevole dubbio. Il titolare del delicato dicastero intende chiudere le fonti delle notizie spesso fondamentali per capire, conoscere, criticare. Senza tale strumento, ferme restando la correttezza e la misura nella divulgazione, sapremmo ancora di meno sui grandi segreti di stato o su tante storie inquietanti che hanno coinvolto settori potenti adusi ad utilizzare la segretezza per coprire i propri misfatti. L’elenco è lungo e - da ultimo - va sottolineato che la stessa cattura del super latitante di Matteo Messina Denaro non sarebbe avvenuta senza un accurato lavorio di indagini agevolato anche dalle intercettazioni. Bene hanno fatto la federazione nazionale della stampa, l’ordine dei giornalisti e l’associazione Articolo21 a protestare contro l’iniquo tentativo di imbavagliare il diritto di informare e di essere informati. Non va sottovalutato ciò che sta accadendo, come il tuono che anticipa la tempesta. C’è un filo nero che congiunge l’assalto alla diligenza costituzionale in Italia secondo l’antico rito berlusconiano con un clima generale. Giornaliste e giornalisti (circa 400, ma chissà quanti altri non noti) incarcerati; inviati sui luoghi di guerra embedded; numerosi cronisti persino uccisi: la punta dell’iceberg di una torsione grave nella bilancia dei poteri. Il martirio deciso per il fondatore di WikiLeaks Assange suona, in tale contesto, come un avvertimento per tutte e tutti: guai a mettere il naso negli arcani indicibili delle cancellerie o nei misfatti delle guerre. Come ha denunciato lo scorso venerdì a Washington il Belmarsh Tribunal, il giornalista australiano proprio in questi giorni rischia di essere estradato negli Stati Uniti dalle corti londinesi. Quanto agli aspetti giurisprudenziali, andrebbe ricordato, vi è una costante linea assunta dalla corte europea dei diritti umani. Quando si ha una notizia di rilievo pubblico, la deontologia professionale impone di pubblicarla. Non il contrario. Cittadine e cittadini devono sapere per deliberare, com’è noto. La trasparenza è un bene indispensabile. È vero che le posizioni del ministero, peraltro espresse in numerose interviste e in diverse audizioni presso le commissioni parlamentari, sembrano trovare qualche freno nello stesso esecutivo, a partire dalla presidente Meloni. Ma siamo di fronte ad un’antica tecnica, quella di fare un passo avanti con annesso apparente ripensamento. Intanto, si costringe chi si oppone a seguire l’agenda imposta al dibattito, costruendo le premesse per compromessi arretrati. Tuttavia, a parte il nucleo visibile della faccenda, c’è da aggiungere una considerazione allarmante. Appare ora solo uno spicchio della vasta panoramica delle intrusioni nella vita di una persona. Il capitalismo della sorveglianza va ben oltre. Siamo costantemente connessi, osservati, profilati. Di simile ingombrante verità chi si cura? La recente agenzia per per la cybersicurezza nazionale varata nel giugno del 2021 se ne occupa? Memorie di un cronista. Intercettazioni, vi spiego come funziona Sputtanopoli di Michele Brambilla huffingtonpost.it, 25 gennaio 2023 Sono stato a lungo cronista giudiziario: le notizie riservate escono dalle procure, è un patto silente coi giornalisti. Quello che interessa è raccontare il mostro del giorno. E con questo la libertà di stampa non c’entra nulla. Prima che questa storia delle intercettazioni che finiscono sui giornali si risolva come al solito, e cioè che è colpa solo dei giornali, vorrei porre ai lettori e se fosse possibile a tutti gli italiani una domanda: ma voi, chi credete che le passi ai giornalisti, le intercettazioni? E da vecchio ex cronista di giudiziaria vorrei girare ai lettori e se possibile a tutti gli italiani anche la risposta: non c’è notizia o carta riservata che non esca dai palazzi di giustizia. Non credete ai miei colleghi “investigativi” che infarciscono i loro racconti alla Dan Brown con quei ripetuti riferimenti a “la mia fonte”: sono degli imbroglioni. La fonte, se non la si cita, non garantisce nulla: è fuffa, è fango, è cultura del sospetto, può essere depistaggio, può essere calunnia. E in ogni caso, anche se si tratta di notizie vere, se non si cita la fonte è perché la fonte non vuole apparire (scaricando così tutta la responsabilità solo sul giornalista) o perché è inconfessabile. Non credete ai giornalisti che si spacciano per geniali e intrepidi segugi. Di Bob Woodward e Carl Bernstein che fanno cadere un presidente degli Stati Uniti ce ne sono ben pochi, e infatti su quei due ci hanno fatto un film e siamo qui a parlarne ancora adesso. Per il resto, la cronaca giudiziaria è una cosa semplice. Ci sono alcuni giornalisti, quasi sempre gli stessi per anni e anni se non per decenni, che ogni giorno frequentano i palazzi di giustizia. Stringono rapporti, a volte amicizie, con pubblici ministeri, giudici, avvocati, cancellieri, agenti di polizia giudiziaria, addetti alle fotocopie, uscieri e varia umanità di uffici, aule e corridoi. È da quel mondo che escono tutte le notizie e anche tutte le intercettazioni, comprese quelle penalmente irrilevanti ma personalmente sputtananti. E se i giornalisti le hanno in mano, è perché qualcuno in mano gliele ha messe. Se vengono pubblicate, è perché qualcuno ha interesse che vengano pubblicate. Sono notizie quasi sempre relative a indagini in corso, e quindi coperte dal segreto istruttorio. Sarebbe un reato, pubblicarle. Anzi “è” un reato: ma non viene mai perseguito. Quando scoppia un caso particolarmente clamoroso, si apre un’indagine per scoprire come quella tal notizia o quella carta sia uscita, e si ordina una perquisizione nell’ufficio o perfino nell’abitazione del giornalista che l’ha pubblicata, e allora il sindacato dei giornalisti grida all’attentato alla libertà di informazione, e anche l’Ordine dei giornalisti grida che così non si fa perché la libertà di stampa è sacra, ma l’unica libertà cui non frega niente a nessuno è quella del malcapitato che si vede (in modo illegale) sbattuto in prima pagina, violato, anche violentato, e magari poi sarà assolto, e magari non è neppure indagato e ha solo avuto la sventura di essere dall’altra parte di un telefono. E così è tutta una farsa, le vesti stracciate di sindacato e Ordine sono una farsa, e pure le perquisizioni e le indagini per violazione del segreto istruttorio sono una farsa, non s’è mai visto nessuno punito davvero per questo. Ricordo un solo collega, Paolo Longanesi del Giornale di Montanelli - figlio del grande Leo - che venne arrestato. L’accusarono di aver svelato che il boss della mala milanese Angelo Epaminonda detto il Tebano aveva cominciato a collaborare con la giustizia. Ma fu rilasciato subito, il processo contro di lui finì (e per fortuna, intendiamoci) praticamente in nulla, e poi è roba di quarant’anni fa. Ho detto che è tutta una farsa, ma forse sarebbe meglio dire che sono atti e parti della stessa commedia. Come quando seguivo Mani Pulite per il Corriere della Sera e Di Pietro era diventato talmente famoso che era impossibile avvicinarlo, ma c’era sempre qualcuno che ci avvertiva: occhio che stasera si fanno un po’ di arresti; oppure peggio ancora, occhio che stasera tizio e caio ricevono avvisi di garanzia. Quegli avvisi di garanzia che proprio da quella stagione sono diventati agli occhi degli italiani sentenze passate in giudicato: fa niente se poi uno viene prosciolto magari già in istruttoria, ormai la sua carriera è stroncata, la sua vita privata segnata, l’ergastolo sociale inflitto. Vorrei spiegare, anzi testimoniare al lettore e se possibile a tutti gli italiani, qual è il rapporto fra il cronista giudiziario e i pubblici ministeri. Intanto, è un rapporto di conoscenza e spesso fiduciario, viste le lunghe frequentazioni quotidiane. Ma è anche un rapporto viziato da un pregiudizio positivo di noi giornalisti nei loro confronti. Un pregiudizio positivo perché siamo cresciuti tutti con i film con i cow-boy e gli indiani, i nordisti e i sudisti, i poliziotti e i delinquenti, i magistrati e gli imputati, dove i primi sono sempre i buoni e i secondi sempre i cattivi. Ci sono voluti i romanzi di Simenon, che abbiamo letto troppo tardi, quando l’Adelphi ha cominciato a ristamparli, per avere uno sguardo più attento all’umano e alle sue debolezze. Ma resta l’idea che la pubblica accusa è lo Stato e quindi infallibile, mentre l’avvocato difensore è un privato pagato per permettere all’imputato di farla franca, e quindi è un po’ mascalzone anche lui come l’imputato, il quale poi se è finito sotto inchiesta qualcosa deve pur aver fatto, perché se uno non ha fatto niente non lo vengono a cercare. Tragico strabismo. Perché è vero che il pm cerca di scoprire i colpevoli e agisce per il bene pubblico, ma il suo è un lavoro di indagine che può finire anche con lo scoprire che l’indagato è innocente. Il pm è sì un servitore dello Stato, ma nel processo penale è una parte, così come è una parte l’avvocato difensore. Questa è la legge, è il diritto elementare. Ma ci sono altri motivi per cui le cronache giudiziarie sono così tanto sbilanciate. È che tutti coloro che lavorano nei palazzi di giustizia rappresentano, per il cronista giudiziario, i fornitori di notizie, cioè di materia prima, cioè il pane. Se ce li mettiamo contro, basta notizie, non c’è più trippa per i gatti. Infine, le querele per diffamazione e le cause civili per danni. Vogliamo ammettere questa grande paura che condiziona i giornalisti? Se ti querela un magistrato, sei giudicato da un suo collega. Tutto questo non è per difendere la categoria cui appartengo, che anzi è la principale responsabile dello sputtanamento. Ma il sistema degli avvisi di garanzia e delle intercettazioni è più complesso, e un dibattito onesto dovrebbe dar conto di tutto. E ora il vero punto che divide non è su chi vuole continuare a indagare per sconfiggere la mafia e chi invece vorrebbe limitare i pm: il vero punto che divide è fra chi vuole mettere fine alla gogna e chi invece vuole che questo schifo continui così com’è. Csm, il Parlamento muto e obbediente ai partiti di Franco Corleone Il Manifesto, 25 gennaio 2023 Il Parlamento in seduta comune ha chiuso in fretta e furia la partita della elezione dei dieci componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura, per cercare di ridare legittimità all’organo di autogoverno squassato dai colpi interessati del manovratore Luca Palamara. Impresa fallita miseramente a causa della sostituzione, durante il voto, del candidato di punta di Fratelli d’Italia, l’avvocato Giuseppe Valentino, per i riflessi di una indagine della magistratura di Reggio Calabria. Il Parlamento, prono e ridotto a votificio, ha accettato il sostituto senza colpo ferire. Già prima di questo incidente di percorso era prevalsa una modalità indecorosa per vanificare la timida riforma approvata con la legge 71 nel giugno 2022 per garantire procedure trasparenti e la parità di genere ai sensi degli articoli 3 e 51 della Costituzione. Solo grazie alla sollecitazione dell’on. Riccardo Magi i presidenti di Camera e Senato hanno finto di rispettare la nuova norma, aprendo la possibilità di candidatura ad avvocati e professori universitari sul sito della Camera dei deputati. In realtà il nodo era come superare la logica della spartizione partitocratica che nel 1990 Franco Russo, Franco Servello e io denunciammo nel 1990 con una attenzione non scontata della Presidente Nilde Iotti che auspicò una riforma incisiva. Martedì 17 gennaio è andato in onda in maniera riveduta e scorretta il copione della Prima repubblica: la maggioranza forte della rappresentanza parlamentare frutto della legge elettorale truffaldina, ha preteso di nominare sette membri su dieci (il partito della Meloni ha fatto la parte del leone con quattro nomi) e le opposizioni del PD, dei 5Stelle e del cosiddetto Terzo polo si sono acconciate ad accettare la prevaricazione. L’accordo è stato sancito in segrete stanze, senza trasparenza e senza possibilità di un confronto pubblico sulle candidature vere e non quelle di facciata, di oltre duecento persone della società civile. Si è perduta così l’occasione di costruire una modalità di discussione pubblica e di partecipazione collettiva da parte di associazioni e mezzi di informazione, per favorire la scelta di profili di alta qualità scientifica e per restituire credibilità allo stato di diritto. E’ l’ennesima conferma che sulla giustizia la politica è pronta a polemiche strumentali, ma non a un impegno sulla risoluzione della crisi vera e profonda. Una occasione sprecata dalle opposizioni che hanno compiuto come il PD, una scelta di valore, mentre gli altri partiti si sono affidati alla decisione verticistiche, di Conte e Renzi. Come in passato si attuava l’esclusione dei radicali, della sinistra estrema e dei missini, ora si cancellano i garantisti di +Europa, i Verdi e la sinistra. Niente di nuovo sotto il sole dunque. Per quanto riguarda la rappresentanza di genere, va sottolineato il fatto che quattro donne sono state espresse dalla maggioranza di destra e che le opposizioni, in assenza di coordinamento hanno scelto tre uomini. Solo le forze dell’opposizione escluse dalla rappresentanza hanno sostenuto e votato Tamar Pitch, una prestigiosa studiosa del diritto nell’ottica della differenza di genere. Bene aveva fatto la Società della Ragione nel settembre scorso a organizzare un seminario sulla krisis, crisi del referendum, crisi del Parlamento, crisi dei partiti. Non è rinviabile tradurre le suggestioni emerse in iniziativa politica per una stagione di riforme e di partecipazione. In particolare vanno rilanciati referendum e leggi di iniziativa popolare su temi che definiscano la differenza tra una società aperta e il dispotismo. Va impostata una battaglia perché il Parlamento non sia un guscio vuoto e conquisti dignità e forza per produrre leggi e non ratificare le volontà del Governo. La sfida è di ridare rappresentanza ai cittadini con una legge elettorale proporzionale. La posta in gioco è la democrazia. Il candidato leghista e quello dem, corsa a due per il Csm di Liana Milella La Repubblica, 25 gennaio 2023 Oggi il voto. Romboli per il Pd contro Pinelli della Lega. Sfuma la prima donna vice. È sfida a due per la vice presidenza del Csm. Roberto Romboli versus Andrea Pinelli. Il costituzionalista della sinistra contro l’avvocato della Lega. Perché al Csm, quando è sera, e la Commissione per la verifica dei titoli chiude i lavori della prima giornata di insediamento, si sciolgono i dubbi che il centrodestra ha tentato di ingigantire contro il professore di Pisa allievo di Alessandro Pizzorusso, scelto dal Pd come laico per palazzo dei Marescialli. È in pensione certo, ma i suoi 15 anni da professore li ha fatti tutti, e molti di più. E poi nomi altisonanti nella storia del Csm - da Virginio Rognomi a Luigi Berlinguer ad Annibale Marini - erano in pensione, o ci sono andati nel corso del mandato, ma rispettavano il dettato della Costituzione sui 15 anni, anche nella versione Cartabia, “di esercizio effettivo”. Chi vincerà? Stando ai boatos della sera, sembra sfumare la candidatura di una donna, che sarebbe stata la prima vice presidente. Ma il nome di Daniela Bianchini, avvocata civilista esperta in diritto di famiglia, nonché docente alla Lumsa, sponsorizzata perfino da Alfredo Mantovano, potente sottosegretario di Giorgia Meloni a palazzo Chigi, non convince, com’era sembrato potesse essere, le toghe di Magistratura indipendente. Che su ben sette posti, contano su quattro donne, a cominciare dall’ex segretaria della corrente di destra Paola D’Ovidio. Uno smacco per FdI che al pari della Meloni a palazzo Chigi voleva l’assist di una donna anche al Csm, soprattutto perché, su quattro laici pretesi in Parlamento, tre sono donne. E Bianchini sembrava quella giusta per diventare la vice di Mattarella. Invece, per i togati, per battere Romboli, serve un candidato più forte, come Andrea Pinelli, l’avvocato di Padova che nel suo portafoglio clienti vanta nomi leghisti di rango come Zaia, Siri e Morisi. Pinelli gode dell’apprezzamento di Luciano Violante, visto che è con lui nella Fondazione Leonardo. Uomo di relazioni, di cui ha disegnato un ritratto entusiasta, addirittura già a dicembre, il ben “noto” Luigi Bisignani. Pinelli piacerebbe alle toghe di Mi, la corrente che fu di Cosimo Maria Ferri, anche se loro non vogliono sentirselo dire. Lo voterebbero assieme ai sette laici del centrodestra e ad Ernesto Carbone di Italia viva, quello del “ciaone”, che ieri ha superato la tagliola della verifica titoli proprio come Bianchini. Per entrambi varrebbe l’autocertificazione. Ai voti Pinelli ne conterebbe 15 sicuri, i sette laici del centrodestra, Carbone, e i sette di Mi. Ma l’asse della bilancia sarebbe Unicost, con i suoi quattro consiglieri, che virerebbero a sinistra su Romboli. Il quale potrebbe aggiudicarsi 17 voti, oltre al suo e a quelli di Unicost, i sei togati della sinistra di Area, la Miele di Magistratura democratica, gli indipendenti Fontana e Mirenda, il professore laico di M5S Papa, nonché i due capi della Cassazione, Curzio e Salvato, rispettivamente Md e Unicost. Partita chiusa con un 17 a 15. Mattarella, che presiede, non vota. Emilia Romagna. “Presto un corso di prevenzione per i suicidi nelle carceri” ilpiacenza.it, 25 gennaio 2023 La risposta all’interrogazione di Silvia Zamboni (Europa Verde) sull’emergenza di un fenomeno che interessa soprattutto anche l’istituto di detenzione piacentino delle Novate. Il Gruppo Europa Verde ha presentato all’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna un’interrogazione urgente per chiedere alla Giunta quali azioni intenda intraprendere, in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e sentito il Garante regionale dei detenuti, per promuovere la prevenzione dei suicidi nelle carceri dell’Emilia-Romagna, in particolare negli istituti di Bologna, Piacenza e Ravenna che hanno un elevato numero di detenuti a rischio suicidario. L’interrogazione è nata a seguito del decesso nel carcere di Piacenza di un detenuto di 32 anni di origine marocchina. Secondo i primi rilievi delle autorità sanitarie la morte sarebbe stata causata infatti da auto-inalazione di gas da una bomboletta. Il detenuto era stato valutato dal personale sanitario come a medio rischio suicidario. Si tratta del quarto decesso in un anno nel carcere di Piacenza. Un trend preoccupante in linea purtroppo con la situazione nazionale. Il 2022 è stato un anno record in Italia per quanto riguarda i suicidi in carcere: dal primo gennaio al 31 dicembre sono state 84 le persone detenute (6 delle quali nelle strutture penitenziarie dell’Emilia-Romagna) che si sono tolte la vita dietro le sbarre, con una media di un suicidio ogni 5 giorni. I suicidi dei detenuti avvengono per lo più nel periodo immediatamente successivo all’ingresso in carcere (62%), segno evidente della difficoltà di vivere in ambienti piccoli, sovraffollati, senza servizi igienici, insieme a sconosciuti, e nei mesi che precedono l’uscita dal carcere, come manifestazione, in questo caso, del disagio di fronte al non sapere cosa fare e dove andare, una volta fuori. “Anche in Emilia-Romagna abbiamo il problema del sovraffollamento delle carceri, che peggiora le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro del personale, come ha denunciato proprio ieri la Cisl rispetto al carcere della Dozza, dove i detenuti sono 784 a fronte di una capienza massima di circa 500 posti. Mentre in Italia abbiamo 47 mila posti disponibili per 57 mila detenuti. Per questo il Ministro della Giustizia Nordio farebbe meglio a occuparsi di questo problema invece di perdersi in questioni come la limitazione alle intercettazioni telefoniche di cui sta discutendo in questi giorni, sollevando critiche dentro e fuori la magistratura” ha sottolineato la capogruppo di Europa Verde e vicepresidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna Silvia Zamboni. “Venendo alla situazione dell’Emilia-Romagna, spicca il numero di detenuti a rischio suicidario rilevati negli istituti di Bologna (446 su 763 presenze), Piacenza (382 su 382 presenze) e Ravenna (72 su 79 presenze)”. Nel 2018 la Regione Emilia-Romagna ha approvato le Linee-guida del Piano regionale di prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti, mentre lo scorso 21 novembre la Giunta ha deliberato l’istituzione della Cabina di Regia regionale per l’integrazione dei servizi socio-sanitari e di inclusione socio-lavorativa delle persone detenute, in attuazione dell’accordo del 28 aprile 2022 tra il Ministero della Giustizia, la Conferenza della Regioni e Province autonome e Cassa delle Ammende. “Con l’interrogazione urgente presentata oggi - ha dichiarato in Aula la consigliera Zamboni - Europa Verde ha inteso fare il punto sulle azioni che la Giunta intende mettere in campo, in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e sentito il Garante regionale dei detenuti, per promuovere la prevenzione dei suicidi nelle carceri”. “La risposta dell’assessore Igor Taruffi mi ha soddisfatta perché ha confermato l’impegno della Giunta su questo fronte. In particolare ho apprezzato l’annuncio che partirà un corso di formazione sulla prevenzione dei suicidi in carcere, organizzato in collaborazione tra Area Salute nelle carceri della Regione Emilia-Romagna e Amministrazione penitenziaria, tenuto da esperti in materia sia dell’area sanitaria sia dell’area dell’Amministrazione penitenziaria, al quale partecipano tutti coloro che sono in contatto con le persone detenute: sanitari, operatori ambito amministrazione penitenziaria (compresi gli agenti), volontari, Garanti dei detenuti. Bisogna assolutamente contrastare i suicidi in carcere creando situazioni di autentico recupero dei detenuti alla vita dopo la detenzione” Friuli Venezia Giulia. Dal dentro al fuori: Monfalcone si interroga sulle pene alternative imagazine.it, 25 gennaio 2023 Ha già dato vita alla mostra ospitata fino al 2 febbraio nell’atrio del Palazzo Municipale la collaborazione del Comune di Monfalcone con la Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia, che ora si arricchisce di una nuova occasione di riflessione e confronto, con l’incontro pubblico dal titolo Dal dentro al fuori: l’esecuzione penale oltre le mura. Giovedì 26 gennaio alle 18.30, presso la sala dell’U.T.E. del Monfalconese al Palazzetto Veneto (in via Sant’Ambrogio 12) sarà ospite Fausta Favotti, Funzionario di Servizio Sociale dell’Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna (Udepe) di Trieste e Gorizia del Ministero della Giustizia, relatrice del confronto sul tema delle misure alternative alla detenzione e di messa alla prova: tema dell’incontro sarà anche il coinvolgimento del territorio nell’attuazione di tali strumenti legislativi e di una società “libera” che diventa parte fondamentale e attiva nel percorso di esecuzione della pena commisurata al reato commesso. Anche questa iniziativa è promossa dalla Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia FVG, in collaborazione con l’associazione Icaro Volontariato Giustizia o.d.v. e il Comune di Monfalcone e si inserisce nel progetto regionale “Sono Stato (anche) io. Percorsi di cittadinanza e consapevolezza fuori e dentro dal carcere”. L’incontro è a partecipazione libera e sarà preceduto - alle 18 - da una visita guidata alla mostra (p)Arte da dentro allestita nel Palazzo Comunale di Monfalcone con le opere realizzate nell’ambito dei laboratori permanenti di pittura e bricolage nati dalla proposta di un gruppo di detenuti in regime di Alta Sicurezza nella Casa Circondariale di Tolmezzo. Attraverso queste opere i detenuti hanno voluto esprimere il proprio stato d’animo e l’esigenza di non sentirsi invisibili, cercando un incontro con chi è al di fuori del carcere: l’arte è diventata lo strumento attraverso cui costruire un ponte virtuoso tra il dentro e il fuori, tra persone ristrette e persone libere. A disposizione di tutti i visitatori della mostra c’è il libro firme su cui potrà essere lasciato un pensiero o una riflessione che esprima le sensazioni che i quadri hanno suscitato e che diventerà il vero ponte, unico contatto possibile tra il “dentro” e il “fuori”. Bari. Arte e cultura tornano protagonisti in carcere: partono i laboratori teatrali Gazzetta del Mezzogiorno, 25 gennaio 2023 I primi cinque incontri, ogni mercoledì alle 14 alle 16, partono domani nella prima sezione media sicurezza del carcere circondariale. Altri cinque dal primo marzo. L’arte e la cultura tornano protagonisti in carcere, con l’obiettivo di favorire il riscatto personale e avviare percorsi di reinserimento dei detenuti. Da domani, e poi ancora a partire dal primo marzo, nella Casa circondariale di Bari arriva il laboratorio “Il teatro che ripara. Il teatro che è riparo”, progetto di formazione e accompagnamento alla pratica e alla visione del teatro a cura di Damiano Nirchio-associazione culturale Senza piume, in collaborazione con la cooperativa sociale Crisi. L’iniziativa si inserisce fra le attività del “Laboratorio teatrale urbano”, ideato dal Teatro pubblico pugliese con il Comune di Bari, in collaborazione con la Casa circondariale. I primi cinque incontri, ogni mercoledì alle 14 alle 16, partono domani nella prima sezione media sicurezza. Gli ultimi cinque prenderanno il via il primo marzo nella seconda sezione media sicurezza, sempre il mercoledì alla stessa ora. Si tratta di due percorsi autonomi di avvicinamento al teatro, spiega il Comune di Bari in una nota, rivolti a dieci partecipanti del circuito della media sicurezza. Nel corso degli incontri saranno prodotti dei brevi testi che i partecipanti condivideranno in una lettura pubblica, di cui saranno anche animatori, rivolta agli altri ospiti della Casa circondariale, al personale interno e a ospiti selezionati su invito, alla quale seguirà un momento di confronto con il pubblico presente. Napoli. Il teatro entra nel carcere di Poggioreale: i detenuti portano in scena “La zattera” Il Mattino, 25 gennaio 2023 In un periodo in cui, quando si parla di carceri in Italia, si fa riferimento solo a drammatici fatti di cronaca, la notizia che arriva dal penitenziario napoletano di Poggioreale risuona come una piacevole novità. Già, perché grazie all’associazione di volontariato “Carcere Vi.Vo” alcuni dei detenuti hanno avuto modo di scoprire la magia del teatro. Dodici ragazzi del padiglione “Firenze” lo scorso anno hanno iniziato un percorso laboratoriale, durante il quale non solo hanno acquisito tecniche teatrali - che hanno consentito loro di far interagire la mente, il corpo e le emozioni - ma hanno anche prodotto un testo dal titolo “La zattera”, con specifiche caratteristiche di metateatro, che andrà in scena il giorno 26 gennaio 2023 nella Chiesa dell’Istituto penitenziario. Perché questo titolo? La zattera è un tipico esercizio teatrale che insegna agli attori a mantenere l’equilibrio sulla scena per offrire allo spettatore una visione d’insieme pulita. Ma la zattera, metaforicamente, rappresenta anche quella “salvezza” a cui anche chi sconta una pena detentiva ha diritto ad ambire, proprio imparando a restare in equilibrio. Una bella lezione di arte e dignità che arriva da Napoli, che ci insegna che la libertà - con i giusti strumenti - è alla portata di tutti. Armando Punzo, Leone alla carriera: “Il teatro in carcere? Un’idea più grande di me” di Francesca Fiocchi Famiglia Cristiana, 25 gennaio 2023 Il regista premiato dalla Biennale di Venezia per la Compagnia della fortezza, formata da attori detenuti: “Questa esperienza mi ha insegnato che le potenzialità dell’uomo sono enormi. Il prossimo passo? Una sede stabile dentro l’istituto di pena”. Leone d’oro della Biennale Teatro 2023 alla carriera Al regista e drammaturgo Armando Punzo, che nel 1988 fonda l’ormai storica Compagnia della Fortezza all’interno del carcere di Volterra. Prima e più longeva realtà teatrale di ricerca nata all’interno di un istituto di pena, dove i protagonisti sono i detenuti attori. Con Punzo nasce un nuovo modo di intendere l’attività teatrale e, con essa, una nuova sensibilità. La motivazione del premio dà valore alla vera ricerca del senso del teatro, che inizia, secondo Stefano Ricci e Gianni Forte, direttori del settore teatro della Biennale, “quando ci si avventura in territori umani spinti dalla necessità di una propria, originale, identità culturale”. Ricominciando a sognare un nuovo uomo e imponendolo alla società. Armando Punzo è riuscito in questi anni a dare un senso profondamente compiuto all’opera teatrale mostrandoci con occhi disincantati che c’è vero teatro laddove si abbattono stereotipi e pregiudizi, in quella dimensione dove l’arte esiste a priori e basta a se stessa. Punzo si pone di fronte a questo riconoscimento con l’umiltà del principiante, ancora oggi dopo trentacinque anni di attività e più di quaranta spettacoli pluripremiati messi in scena, fra cui Marat-Sade, I negri, I pescecani, ovvero quello che resta di Bertolt Brecht, Hamilce-Saggio sulla fine di una civiltà, Beatitudo. “Posso restare senza parole?”, esordisce. “Credo che siano belle le motivazioni. Mi è stato detto che in un momento come questo un’esperienza come la mia, una scelta così radicale, prolungata nel tempo, è un segnale di un nuovo modo di concepire il lavoro artistico, ma anche il teatro. Sono contento che non solo io ma la Compagnia riceva un premio, così come tutte le persone che hanno lavorato per questa idea. Un’idea più grande di me. Che va oltre noi. Un’idea di cui tutti siamo al servizio, che ci ha guidati in questi anni e che avrà la forza, ne sono sicuro, di camminare sulle sue gambe. Non riesco a credere fino in fondo all’“io’ ‘io’ ‘io’. Sicuramente io mi sono fatto strumento, ci ho messo del mio, ma credo di far parte di un’idea che travalichi. È un’idea semplice, di chi nell’umanità pensa che non ci si può fermare soltanto all’ordinario. In questo approccio non si può essere conservatori, bisogna rischiare, guardare oltre ciò che già c’è, guardare alla ricerca, che è connaturata nell’uomo, anche se forse ce lo dimentichiamo. La ricerca ci permette di capire se possiamo fare di più e meglio. E questo lo vediamo in tutti i campi della nostra umanità. Così è successo anche nel carcere, in questa struttura monolitica che sembra intoccabile. Un luogo che può, invece, essere ripensato continuamente. Non sono per gli annullamenti ma per la riforma, per migliorie”. Dalla nascita la Compagnia della Fortezza, laboratorio teatrale senza precedenti per la sua originalità, Punzo lavora con assiduità e continuità con il fine primario non della rieducazione del detenuto, ma della qualità dello spettacolo artistico in sé. Il regista indaga i grandi temi umani facendo di un carcere quale la fortezza medicea un vero e proprio centro culturale all’avanguardia. Scommettendo su qualcosa che non esisteva, credendoci fermamente. Dall’esempio pionieristico di Volterra sono nate altre iniziative come “Teatro e carcere in Europa”, che ha visto l’Italia capofila del progetto europeo che ha coinvolto altri istituti detentivi in Francia, Spagna, Svezia, Germania e Gran Bretagna. Alla Biennale il regista non è nuovo di partecipazione: alla fine degli anni ‘90 porta in scena lo spettacolo Nihil-Nulla, presentato anche a Zurigo e poi in tournée nel 2002 e 2003. Quest’anno torna alla Biennale inaugurando il “51. Festival Internazionale del Teatro”. Giovedì 15 giugno debutterà Naturae, sviluppo e approdo di un ciclo durato quattro anni, dove si ragiona sulla ricerca della bellezza della natura umana con l’uomo che scopre le sue qualità dimenticate per stabilire una diversa e positiva relazione con il mondo. “La cosa che ho imparato nel carcere è che abbiamo delle potenzialità enormi come uomini. Se possiamo fare tutto quello che abbiamo fatto all’interno del carcere, veramente possiamo fare tanto. Ci vuole coraggio”, continua Punzo. Da un’idea più grande di noi, per usare una frase del regista, al primo teatro stabile all’interno del carcere presto realtà. “L’architetto Mario Cucinella ha vinto il bando e sarà esecutore del progetto di costruzione del teatro a cui ho lavorato per ventidue anni. Un progetto che sarà presentato il 26 gennaio. Il teatro in carcere ormai non è più solo un sogno. È già quasi realtà. Sicuramente sarà uno spazio polifunzionale, non rigido. Il prossimo passo sarà poter circuitare, andare in tournée in Europa con la Compagnia della Fortezza. È tecnicamente possibile ma capisco che c’è bisogno di ancora un po’ di lavoro per capire”. E lo straordinario prende il posto dell’ordinario. La memoria da curare (sempre) di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 25 gennaio 2023 La “giornata” è stata istituita soltanto nel 2000. Se dovesse trasformarsi in un esercizio rituale, di semplice buona educazione, non avrebbe senso. La memoria è come un giardino. Va curata. Altrimenti si ricoprirà di erbacce. E i fiori dei giusti scompariranno. Divorati. Quei fiori sono persone che hanno lottato anche per la nostra libertà o hanno pagato, con la vita, per la sola colpa di essere nati. Quello che siamo noi oggi lo dobbiamo a loro. Se li dimenticassimo morirebbero una seconda volta. Ma, senza accorgercene, cominceremmo anche noi - fortunati cittadini di una democrazia e di uno Stato di diritto - a svuotarci di valori, a dare poca importanza al coraggio delle idee, al sacrificio personale per un bene collettivo, a impoverirci nella nebbia storica dei fatti. Inerti. Privi di vaccini per difenderci da nuove barbarie. Liliana Segre è infaticabile nella sua testimonianza della Shoah. Una tragedia immane nella quale alcuni dei nostri antenati furono anche complici, al di là del racconto rassicurante, e a tratti eroico, degli “italiani brava gente”. Ma le pagine buie le abbiamo rimosse. Per convenienza. Chissà che non ci fosse anche qualche nostro parente - che abbiamo certamente e giustamente amato - o loro amici, da quella parte? Magari nello spingere i deportati, ebrei, oppositori del regime, sui vagoni della morte; oppure facendo solo finta di non vedere, adattandosi. Chissà come ci saremmo comportati tutti noi nel 1938 davanti alla vergogna delle leggi razziali? I camion che dal carcere di San Vittore - con il loro carico di vite, tra cui quella di Liliana Segre - diretti verso la Stazione Centrale, sfilarono in una Milano con le persiane chiuse. Ignara, impaurita. Per quasi tutto il Dopoguerra, fino alla soglia di questo millennio, il sotterraneo della Stazione Centrale di Milano - che vide l’orrore della trasformazione delle persone in pezzi numerati, in oggetti di scarto - era ai nostri occhi un semplice deposito postale. Anonimo nella sua utilità. Nella città medaglia d’oro della Resistenza, pochissimi sapevano quello che era accaduto, lì nel cuore di Milano, sotto il piano dei binari calpestato in tanti viaggi di lavoro, svago, sogni e speranze. Da tutti. Nel nostro comodo oblio quei concittadini, che non erano più tornati, morivano ancora una volta nell’invisibilità della loro storia di ingiuste sofferenze. La giornata della Memoria è stata istituita solo nel 2000. Se dovesse trasformarsi in un esercizio rituale, di semplice buona educazione, non avrebbe senso. Ed è anche per questo che dobbiamo essere grati alla senatrice Segre, la più anziana signora d’Europa a essere costretta a girare, perché minacciata, con la scorta dei carabinieri. Nel 2023! Segre teme la noia. E ha ragione. Noi temiamo, con lei, l’assuefazione, il rigetto magari per un sovrappeso di avvenimenti, l’insincerità di manifestazioni dovute e non sentite, la voglia di rimuovere il passato nella convinzione che ciò favorisca la costruzione del futuro. “Abbiamo capito, sappiamo, ora però pensiamo ad altro”. Ma non è così. Senza memoria non vi è giustizia. I torti si sovrappongo alle ragioni, cancellandole. Ho accompagnato, per tanti anni, Liliana Segre nei suoi incontri con gli studenti, in occasione del 27 gennaio. L’attenzione è sempre stata totale. Un silenzio assoluto. Una grande partecipazione e momenti di emozione. Soprattutto quando la futura senatrice diceva alle ragazze e ai ragazzi: “Siete fortissimi”. E mai vi fu un incoraggiamento così vero, così sentito, così provato sulla propria pelle. Un segno di speranza civica. E lo sbocciare di tante maturità giovanili, fiori bellissimi che non meritano di vivere nel deserto dei sentimenti. Edith Bruck: “La mia voce vi ha cambiati” di Luca Monticelli La Stampa, 25 gennaio 2023 La scrittrice: “Non sono pessimista come Segre, non posso aver parlato a vuoto per 60 anni. Un dovere ricordare i lager ma moltiplicare gli eventi può avere un effetto controproducente”. “Sono nata in un piccolo villaggio di contadini in Ungheria, eravamo sei fratelli, io la più piccola. La vita tra il ‘42 e il ‘44 era diventata impossibile, non solo per le condizioni di povertà che dovevamo affrontare, ma per l’odio, gli insulti, le botte. La propaganda fascista e nazista contro gli ebrei aveva infettato tutte le persone, perfino i compagni di scuola da un giorno all’altro non ci salutavano più, era un dolore terribile”. Edith Bruck parla davanti a una platea di studenti delle scuole superiori di tutta Italia, che rapiti seguono i suoi ricordi. Un incontro realizzato dalla Fondazione Museo della Shoah di Roma a cui hanno partecipato online anche 400 istituti. Bruck, a differenza di Liliana Segre, non teme che fra qualche anno ci possano essere solo poche righe sulla Shoah sui libri di storia, per poi sparire del tutto. “Non credo di aver parlato e scritto a vuoto. Non morirà tutto con noi, c’è sempre una piccola luce anche nei momenti più bui. I giovani sono la mia speranza”. A 13 anni, nel maggio del ‘44, con il padre, la madre, una sorella, un fratello e gli zii, Edith Bruck viene strappata dalla sua casa e portata in un ghetto al confine con la Slovacchia, da lì ad Auschwitz e poi a Kaufering, Landsberg, Dachau e infine a Bergen-Belsen fino al 15 aprile, quando il campo viene liberato dall’esercito britannico. Lei e la sorella Judit riescono a sopravvivere, e finita la guerra raggiungono a Budapest un’altra sorella, Mirjam, salva grazie a Giorgio Perlasca. “Ma poteva sfamarci solo per qualche giorno e siamo ripartite”. Da lì comincia il suo lungo viaggio: prima nell’allora Palestina, poi di nuovo in Europa, ad Atene, a Zurigo, a Napoli e a Roma, dove vive dal 1954. Dopo aver risposto per due ore alle domande dei ragazzi, Bruck esce dalla Casina dei Vallati, nel pieno del quartiere ebraico romano, è stanca, ma raggiante e si ferma a chiacchierare. Gli ultimi giorni sono stati un turbinio di emozioni: la presentazione del docu-film su Shlomo Venezia al Teatro dell’Opera, il dialogo con gli studenti e l’anteprima del documentario su di lei all’Accademia d’Ungheria, che sarà trasmesso stasera su La7. Proprio come faceva Shlomo Venezia, testimone del Sonderkommand a Birkenau, e come tuttora fanno Liliana Segre, Sami Modiano, le sorelle Bucci, solo per citare alcuni nomi, lei continua a ricordare la Shoah... “È bello parlare con i giovani, ma certo non è facile. Nei primi vent’anni ho sempre pianto nelle scuole, non riuscivo a controllarmi, e ancora oggi mi capita. Vedendo il documentario su Shlomo Venezia non sono riuscita a dormire, il subconscio lavora dentro e ti scuote nel profondo”. La senatrice Segre teme però che tra qualche anno la Shoah cada nell’oblio. Lei che cosa ne pensa? “Io non sono così pessimista come Liliana, porto la mia testimonianza da oltre sessant’anni, non credo di aver parlato e scritto a vuoto. Incontro molti professori che si ricordano di quando erano studenti e io andavo nelle loro scuole, questi professori credo che oggi insegnino diversamente. È servita sicuramente la mia testimonianza, basta giudicare dalle migliaia di lettere e disegni che ricevo dai ragazzi di tutta Italia. Io credo, in qualche misura, di aver cambiato qualcosa, non molto, perché certamente non posso cambiare io il mondo, ma non penso che non resterà nulla di noi come sostiene Liliana. Era molto pessimista anche Primo Levi, io invece sono più speranzosa, non posso aver parlato a vuoto”. I giovani sono la sua speranza? “Sì, ci sono ragazzi di 15-16 anni che scrivono delle lettere inimmaginabili, e per questo farò un nuovo libro che si chiamerà I frutti della memoria, in cui racconto le lettere degli studenti e le mie risposte. Qualcosa resta, non morirà tutto con noi, c’è sempre una piccola luce anche nei momenti più bui”. Segre dice pure che la gente quando sente parlare del Giorno della Memoria pensa “basta con questi ebrei, che cosa noiosa”... “È un dovere ricordare l’inferno dei campi di sterminio, però moltiplicare gli eventi da ottobre a marzo forse può avere un effetto controproducente. Questo è il pericolo, purtroppo l’antisemitismo nel mondo non manca”. È mai tornata ad Auschwitz? “Mai, non avrei mai potuto sopportarlo. Mai avrei potuto ripercorrere quell’inferno, interiormente non potrei sopravvivere. Io sono tornata solo a Dachau nel 1983 perché pensavo che mio padre fosse morto là, invece poi ho scoperto che è morto a Dornhau. Scappai da Monaco dopo due giorni, le persone erano tutte così dolci, gentili, buone. Mi hanno accolto alla stazione con i fiori e mi hanno fatto scendere dal treno come fossi una paralitica. Erano gli Anni Ottanta, era troppo, e poi io voglio essere trattata come una persona normale”. Lei è religiosa? “Non ho mai pregato ad alta voce, neanche da bambina. Quando la mamma mi diceva di pregare io recitavo una poesia: per me la preghiera è qualcosa di muto, di intimo. Papa Francesco quando è venuto a trovarmi a casa mi ha detto “preghi per me che io prego per lei”. Gli ho risposto che è già nelle mie preghiere mute”. I giovani le chiedono spesso anche dell’antisemitismo e del razzismo ai giorni nostri. “Stiamo vivendo un periodo molto incerto, pericoloso, le persone sono sfiduciate, non credono più nella politica e gli ideali sono sfilacciati. È agghiacciante vedere i simboli fascisti nelle piazze. Se penso all’Ungheria non mi stupisco, nel dopoguerra c’è stata una completa rimozione e da Paese fascista è diventato immediatamente comunista, non c’è mai stato un vero percorso per arrivare a una democrazia compiuta”. Edith, il documentario sulla sua vita è stato presentato all’Accademia ungherese di Roma, è una rivincita per lei? “No, però è importante, anche perché venerdì per il Giorno della memoria ci sarà un concerto e io leggerò una poesia. Questo, nell’Ungheria di Orban, credo che oggi abbia un significato”. Pierluigi Battista: “L’asticella della cancel culture si alza sempre di più. Ormai siamo all’autocensura” di Adalgisa Marrocco huffingtonpost.it, 25 gennaio 2023 Intervista al giornalista e scrittore dopo che Peter Pan è stato inserito nella lista dei libri sconsigliati dall’Università di Aberdeen agli studenti per gli “stereotipi di genere” e dopo il “codice di condotta” inviato dallo Scottish Book Trust a 600 scrittori: “Chi pensava che fosse un fenomeno passeggero, sbagliava. È una slavina che fa sempre più danni”. L’Isola che non c’è, da oggi, non c’è più per davvero. Il romanzo Peter Pan, di J.M. Barrie, è finito sotto la scure dell’Università scozzese di Aberdeen, che lo ha inserito nella lista dei titoli “problematici”, sconsigliati agli studenti perché conterrebbero “stereotipi di genere”. E mentre il bambino che non cresce mai viene silenziato, gli scrittori scozzesi non vivono sorte migliore: lo Scottish Book Trust, l’albo nazionale degli scrittori, ha da poco fatto pervenire ai suoi 600 membri un “codice di condotta” che limita la possibilità di esprimersi su una vasta gamma di questioni, incluse quelle legate al genere e al sesso. Si tratta della prima volta che nel Vecchio Continente un ente governativo decide di imporre paletti di questo genere ai suoi intellettuali. La cancel culture e il politicamente corretto, dunque, stanno stringendo ulteriormente le loro maglie? Ne abbiamo parlato con Pierluigi Battista, giornalista e scrittore, firma di Huffpost per la rubrica Uscita di Sicurezza. Cosa ci racconta la vicenda scozzese? La cultura della cancellazione ha affilato ulteriormente le sue armi? L’asticella si sta alzando sempre di più. Fino a qualche anno fa avremmo ritenuto improbabile la messa al bando di Peter Pan o delle opere di Shakespeare, sarebbe stata inconcepibile la distruzione della statua di Cristoforo Colombo, o lo scempio vandalico perpetrato ai danni di quella di Churchill, che ha combattuto contro Hitler. Avremmo liquidato come una boutade anche la decisione di rimuovere il nome di Lincoln da un’università con l’accusa di razzismo, nonostante sia stato il presidente americano che ha abolito la schiavitù. E invece, purtroppo, è tutto vero: chi sottovalutava il fenomeno, giudicandolo passeggero, sbagliava. Le prospettive sembrano cupe. Cosa dobbiamo aspettarci? Siamo di fronte a una slavina destinata a fare sempre più danni. La cultura della cancellazione emana le sue sentenze attraverso un vero e proprio tribunale dell’intolleranza, che non si limita all’ammonimento verbale: in Inghilterra ci sono stati docenti sospesi dall’insegnamento o che hanno visto decurtati i loro stipendi; nei grandi giornali americani chi non si adegua è costretto ad andare via. Siamo in una fase in cui si grida spesso al pericolo autoritario, senza rendersi conto che il totalitarismo del ventunesimo secolo è proprio questo. Le istituzioni ormai hanno introiettato questa ideologia, il cui obiettivo è sradicare tutto ciò che appartiene alla storia, all’arte e alla cultura, alle idee e ai concetti del passato. Si vuole fare tabula rasa di tutto ciò che ci ha preceduto, bollandolo come corrotto, come qualcosa che deve essere “purificato” in base agli schemi della nuova ideologia. Insomma: oggi davvero non si può dire più niente? Ormai, prima ancora dei provvedimenti, subentrano le forme di autocensura. Nelle università, i professori di materie umanistiche misurano ogni parola: evitano paragoni, metafore o ironia, onde evitare fraintendimenti o accuse. Il linguaggio, inevitabilmente, viene svilito e appiattito. E gli atenei, che dovrebbero essere i luoghi della diversificazione del sapere e del confronto di idee, vengono demoliti nella loro funzione, trasformandosi in scuole dottrinarie dove la libertà accademica non esiste in più. La realtà sembra ricalcare la profetica trama del romanzo La macchia umana (2000) di Philip Roth, in cui un docente di Lettere deve combattere contro la political correctness che imperversa negli Stati Uniti e, a causa di una frase scambiata per commento razzista, si trova costretto a rassegnare le dimissioni. Se le università piangono, la letteratura non ride. Ha fatto notizia, in questi giorni, il caso del giovane Laur Flom, artista librario che nel suo laboratorio di Toronto, in Canada, passa ore e ore a strappare copertine e frontespizi dai volumi della saga di Harry Potter, per poi ricostruirli a modo suo. Ovvero, eliminando il nome dell’autrice, JK Rowling. Il 23enne, che si identifica come non binario, ha raccontato di essere stato ferito dalle affermazioni fatte dalla scrittrice sul concetto di sesso e di identità di genere. Dalla cancel culture alla cancellazione propriamente detta, insomma. Che ne pensa? Purtroppo non mi stupisce. Ben prima della vicenda canadese, tra le scrivanie del New York Times, uno dei templi della cultura giornalistica internazionale, qualcuno aveva già pensato di citare Harry Potter senza nominarne l’autrice, che da anni è al centro di una tempesta per le sue prese di posizione. E in Italia com’è la situazione? Non abbiamo ancora assistito a forme di censura così violente tranne quando, nel 2018, si manomise il finale della Carmen di Bizet al Maggio Fiorentino per non dare alimento culturale al femminicidio. Ma riscrivere un’opera è come sfigurare un dipinto, è come gettare vernice sulla Gioconda. Siamo di fronte a una nuova forma di vandalismo che non conosce limiti. Donne e violenza, nessuno sconto di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 25 gennaio 2023 La riforma Cartabia deve essere modificata su una questione molto importante. In presenza di violenza domestica non deve essere applicata la giustizia riparativa, nessuna forma di mediazione familiare o conciliazione. Lo raccomanda la Convenzione di Istanbul. Secondo la definizione dell’Onu, la giustizia riparativa è “ogni procedimento nel quale la vittima e colui che ha commesso il reato partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte con l’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. In sostanza con la mediazione reo-vittima. Per poter negoziare, è imprescindibile che le due parti siano sostanzialmente sullo stesso piano. Nella relazione non deve evidenziarsi una posizione dominante che possa creare uno stato di sottomissione e paura nell’altra, e che non permetta di essere liberi nello stesso modo e contribuire in serenità all’identificazione di decisioni comuni. La Convenzione di Istanbul all’art. 48 vieta la mediazione familiare in caso di violenza domestica ed anche il ricorso ad altri procedimenti come la conciliazione. Non è un caso che la stessa Convenzione abbia escluso per la violenza domestica questo tipo di attività, pur prevista per gli altri reati. Perché significa mettere a rischio la vita di donne e bimbi coinvolti. La giustizia riparativa si pone l’obiettivo di riconoscere anche l’interesse della vittima che nel caso della donna (e sono pochissime) che denuncia il padre dei propri figli è solo quello dell’immediata protezione e messa in sicurezza sua e dei propri figli che ancora oggi, nonostante sia un obbligo per lo Stato e nonostante le condanne della Cedu contro l’Italia, non vengono assicurate. Altro che mediazione o conciliazione! In questi casi deve essere escluso qualsiasi contatto tra vittima e imputato, per evitare la vittimizzazione secondaria, come dice la Convenzione di Istanbul. Le donne dei centri antiviolenza si stanno mobilitando. L’associazione Differenza Donna ha denunciato con forza i pericoli che corriamo e ha chiesto anche l’apertura di un tavolo su questo con urgenza. Colgo l’occasione per sottolineare un altro aspetto di grande rilevanza. Le inchieste condotte dalla Commissione Femminicidio sulla formazione degli operatori hanno evidenziato una grave carenza trasversale sul fronte delle competenze sulla violenza di genere. Abbiamo bisogno di una specializzazione obbligatoria per tutti gli operatori di giustizia e tutti gli operatori che affrontano questo tema che spesso non hanno idea della differenza tra conflittualità e violenza domestica. Non riconoscere la specificità e la peculiarità di questi reati che si caratterizzano per la radice culturale che li sottendono, così come evidenziato dalle norme sovranazionali, significa ignorare il problema della violenza domestica, che rappresenta la forma più diffusa di violenza di genere. La Convenzione di Istanbul e tutte le norme internazionali richiedono di garantire un’elevata specializzazione ed esperienza delle figure professionali che operano per conto dello Stato in materia di violenza di genere. Senza una formazione specifica si rischia di favorire anche inconsapevolmente l’uomo violento e la possibilità di riproposizione delle violenze ai danni delle donne. Mettiamo in atto realmente la Convenzione di Istanbul! È un atto dovuto alle donne da non rinviare. Blitz della Lega, stretta sui migranti: così rispunta il primo decreto Salvini di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 gennaio 2023 Il Carroccio infila nelle pieghe del testo sulle navi delle Ong alcune norme già cancellate dal Parlamento. Dalle Ong ai permessi di soggiorno e all’accoglienza dei migranti. La Lega prova a far rientrare dalla finestra alcuni capisaldi del primo decreto sicurezza firmato Salvini spazzati via dalle modifiche apportate successivamente dal Parlamento. E lo fa infilandoli nelle pieghe del decreto immigrazione, presentato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e approvato dal governo subito dopo Natale, durante l’iter di conversione in legge del provvedimento che dovrebbe arrivare in aula il 2 febbraio. Via la protezione speciale, via i richiedenti asilo dal sistema di accoglienza diffusa, paletti persino ai ricongiungimenti familiari e commissariamento delle associazioni e delle cooperative che si occupano di accoglienza in caso di violazioni e irregolarità nella gestione dei centri. Una norma “antiSoumahoro”, la definisce il leghista Igor Iezzi, primo firmatario di una quindicina di emendamenti presentati davanti alla prima e alla nona commissione della Camera che oggi dovranno vagliarne l’ammissibilità. Ed è proprio questo il grimaldello su cui puntano i deputati dell’opposizione che obiettano come la Lega stia provando ad introdurre surrettiziamente in un decreto che ha come oggetto l’attività delle Ong questioni che nulla hanno a che vedere con la flotta civile e puntano a rendere sempre più difficile la concessione di permessi di soggiorno e a tagliare sull’accoglienza, intaccando persino il diritto ai ricongiungimenti familiari e le garanzie sul diritto d’asilo. Iniziativa della Lega o sostanziali modifiche al provvedimento con la copertura di tutto il governo? I rumors che girano nei corridoi di Montecitorio avvalorano l’ipotesi di un tentativo di colpo di mano leghista che potrebbe andare a segno se la maggioranza rimarrà compatta. E dunque: gli emendamenti puntano a cancellare la cosiddetta protezione speciale, introdotta nel 2020 dopo l’abolizione, da parte del decreto Salvini, della protezione umanitaria. Un salvagente per quanti, non avendo i requisiti per la protezione internazionale, rischiano di essere mandati indietro in Paesi dove rischiano la tortura o la persecuzione. Se dovesse essere cancellata quasi la metà di quanti sbarcano in Italia non avebbero diritto al permesso di soggiorno. Circa 15.000 le persone che negli ultimi due anni hanno ottenuto la protezione speciale in Italia. La Lega prova poi, così come era nella prima versione del decreto Salvini, a ricacciare nei centri di accoglienza straordinaria i richiedenti asilo che oggi invece trovano ospitalità ben più dignitosa e soprattutto possibilità di integrazione nel sistema di accoglienza diffusa. Per loro, di nuovo, solo vitto e alloggio, niente formazione né percorsi di lavoro se prima non otterranno il permesso di soggiorno. Corsa a ostacoli persino per i ricongiungimenti familiari: il reddito minimo richiesto dovrebbe passare da 5 a 12.000 euro l’anno con un aumento del 50 % per ogni membro della famiglia: per intenderci, un immigrato regolare che volesse far venire moglie e due figli dovrebbe dichiarare un reddito annuo di 24.000 euro e una casa con determinate caratteristiche. Ancora: previsto il raddoppio dei tempi di detenzione nei CPR dei migranti destinati al rimpatrio che non avrebbero più neanche la possibilità di rivolgersi al garante dei detenuti. “È gravissimo che si vogliano introdurre surrettiziamente ulteriori restrizioni per i migranti - dice Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci - Si punta ancora una volta ad aumentare il numero degli irregolari e il conseguente disagio sociale per mera propaganda”. Nicola Pedde: “In Iran non è ancora rivoluzione, nello stretto di Hormuz si rischia l’escalation” di Nadia Boffa huffingtonpost.it, 25 gennaio 2023 Intervista al direttore dell’Institute for Global Studies: “Mancano una leadership e un elemento capace di aggregare”. Sulle sanzioni avverte l’Ue che “assegnare lo status di terroristi ai pasdaran paralizzerebbe i rapporti”, mentre una contromossa iraniana per chiudere il Golfo avrebbe “conseguenze ben più gravi” a livello internazionale. “Qualsiasi azione intrapresa unilateralmente dall’Iran per limitare i flussi marittimi nello stretto di Hormuz sarebbe una minaccia di portata globale e comporterebbe una reazione da parte della comunità internazionale che potrebbe spingersi fino all’intervento militare”. Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies - think tank specializzato sui temi della politica, della sicurezza e dell’economia nelle regioni del Medio Oriente e dell’Africa - non usa mezzi termini per sottolineare ad Huffpost la gravità della minaccia che la Repubblica islamica dell’Iran ha rivolto all’Ue come contromisura per l’emendamento approvato recentemente dal Parlamento europeo che chiede l’inserimento delle Guardie della rivoluzione iraniana nella lista dei terroristi designati dall’Unione Europea. Il budello di Hormuz è tra le più grandi riserve di petrolio e gas al mondo e, pertanto, uno dei principali snodi per il commercio globale di idrocarburi. Per questo, sottolinea Pedde, “un’eventuale azione dell’Iran genererebbe conseguenze ben più gravi di una semplice crisi politica”. L’esperto di Iran e di Medio Oriente, intervistato da Huffpost, fa anche un punto sulle proteste in Iran, che secondo lui, dopo più di quattro mesi “non possono ancora essere definite una rivoluzione”, “mancano di leadership e non c’è al momento un elemento capace di diventare aggregatore”. Infine Pedde analizza quelli che sono ad ora, i rapporti “controversi” tra l’Iran e il Paese alleato di lunga data Iraq. La Repubblica islamica dell’Iran ha risposto alla risoluzione votata dal Parlamento europeo per inserire i pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche con una minaccia significativa. Il Parlamento iraniano starebbe valutando un piano urgente per “imporre restrizioni ai movimenti delle navi commerciali nello stretto di Hormuz”. Che cosa significa questo per l’Europa? Dallo stretto di Hormuz (stretto che divide la penisola arabica dalle coste dell’Iran mettendo in comunicazione il Golfo di Oman a sud-est, con il Golfo Persico ad ovest, ndr) non passano solo i flussi di petrolio del Golfo Persico che rappresentano il 40% dei flussi totali, ma transitano flussi commerciali di altro tipo che interessano tutta l’area della penisola arabica. Un’azione unilaterale da parte dell’Iran di limitazione dei flussi navali - che sarebbe peraltro una palese violazione dei trattati internazionali - sarebbe una minaccia di portata globale che genererebbe conseguenze ben più gravi di una semplice crisi politica. Qualsiasi azione intrapresa dall’Iran per limitare i flussi marittimi in quest’area comporterebbe una reazione da parte della comunità internazionale che potrebbe spingersi fino all’intervento militare. Dopo il voto del Parlamento, oggi c’è stato il Consiglio Affari Esteri a Bruxelles, dove la questione relativa ai pasdaran è passata in realtà in secondo piano. Lei che cosa pensa del dibattito europeo su questo tema? La spinta a dichiarare i pasdaran come organizzazione terroristica è molto più politicamente emotiva, che non tecnico-securitaria. Nel senso che i pasdaran sono già talmente interessati da sanzioni e dunque di ostacoli nella loro capacità di gestione dei rapporti internazionali che onestamente, da un punto di vista tecnico-operativo, la decisione di designare l’organizzazione come terroristica non renderebbe la situazione così diversa. Differente è la conseguenza di tale azione sul piano politico, perché si è già dato un segnale molto forte al Paese affermando che una parte delle sue forze armate sono considerate dal Parlamento europeo un’organizzazione terroristica. Tale affermazione ha una forte valenza politica. Infatti l’Iran ha anche minacciato di far passare una risoluzione in Parlamento mirata a designare le forze armate europee come terroristiche. Se le Guardie della Rivoluzione fossero inserite nella lista delle organizzazioni terroristiche, si complicherebbero i rapporti con Teheran e si rischierebbe di generare la paralisi. Se l’oggetto dell’interesse della politica europea è quello di cercare la via dell’interlocuzione, sicuramente una decisione del genere andrebbe a farla precipitare fortemente. Bisogna capire che cosa uscirà dal dibattito europeo e quali sono le diverse posizioni. Josep Borrell si è mostrato cauto sulla proposta relativa ai pasdaran e ha sottolineato l’importanza di mantenere ancora una qualche trattativa sul nucleare con l’Iran. Ma secondo lei è concretamente possibile resuscitare gli accordi a questo punto? L’accordo nucleare in termini teorici per l’Ue è ancora in piedi e il suo bilancio è oggetto dell’interesse espresso più volte dalle diverse personalità europee. Certo, allo stesso attuale, con una situazione così depravata delle relazioni e con un intervento del piano sanzionatorio nei confronti dell’Iran - legittimo e giustificato dalla repressione - auspicare che l’aspetto negoziale possa fare progressi nell’immediato è utopistico. Ci sono delle faglie tra Ue e Iran di tale portata da rendere il quadro del rapporto bilaterale molto critico. Ma sono cambiate molto le condizioni e i termini generali sul tavolo. La Germania è diventata molto ostile a un accordo sul nucleare, la Francia ha mantenuto una posizione molto ambigua e fortemente critica su tutto ciò che riguarda la repressione della protesta. L’Ue si trova quindi da una parte a voler mantenere la speranza nella trattativa, ma ci sono pochissimi elementi su cui costruirla. Soprattutto nel momento in cui il piano sanzionatorio è incrementato giustamente. E poi è cambiato anche il quadro in Iran. Le ultime elezioni politiche hanno portato le correnti conservatrici ad aver la maggioranza parlamentare e il controllo della presidenza, ma la protesta in atto ha ulteriormente radicalizzato lo scontro politico tra le forze tradizionaliste - quelle più pragmatiche anche nel contesto dei conservatori - e quelle più radicali - che nell’apertura al negoziato con Ue e Usa in particolare non hanno alcun interesse - Poi la protesta, a mio parere, ha accelerato nella società un processo critico, quello di sostituzione generazionale. Che cosa intende? A mio parere, il vero elemento di interesse da una parte, e di rischio dall’altra è che questa fase della dinamica politica iraniana può accelerare la transizione tra prima generazione - quella del clero che esprime ancora le leadership del Paese - e la seconda generazione - che non è espressa dal clero, è una generazione molto più legata all’industria, alla componente militare, al commercio ed è molto polarizzata al suo interno, con idee molto spesso contrastanti tra di loro - Questa generazione potrebbe sacrificare la prima generazione sull’altare di questo processo rivoluzionario - lo voglio chiamare così anche se non è ancora a mio parere un processo rivoluzionario quello che sta avvenendo in Iran - a proprio vantaggio. Con l’obiettivo di consolidare il proprio controllo sull’apparato governativo, economico ed amministrativo. E in questa seconda generazione c’è una forte componente legata ai pasdaran. Uno dei grandi errori che si commettono in Occidente, negli Usa in particolare, è considerare i pasdaran solo ed esclusivamente come apparato militare, quando invece sono un conglomerato con all’interno una componente militare, industriale, economica, culturale. Quando si vanno a colpire i pasdaran si va a colpire di fatto qualcosa di molto più ampio con il rischio di generare una paralisi di tutti i rapporti con il Paese. Quindi secondo lei manca una visione da parte dell’Ue sulla strategia da adottare nei confronti dell’Iran? Più che lasciare il dibattito sull’Iran alla pancia della diaspora e all’opinione pubblica, il quadro politico europeo e americano dovrebbe prendere una decisione su che cosa va fatto con l’Iran. Va bloccato completamente il rapporto o va innescato un tentativo di ripresa del dialogo diplomatico ed economico? La politica non può sottrarsi a questa responsabilità. Poi sulla base di questo si possono compiere diverse azioni. Anche la scelta dei pasdaran deve essere costruita a monte su una chiara strategia da adottare nei confronti della Repubblica islamica. Altrimenti il meccanismo attraverso cui si costruisce il rapporto con l’Iran resta molto confuso. Parliamo delle proteste. In un’intervista che lei ha rilasciato sempre ad Huffpost lo scorso settembre, all’inizio delle proteste, lei ha detto che “per proseguire e avere successo, le proteste avrebbero dovuto essere incanalate in un processo più articolato”. Sono passati più di quattro mesi dall’inizio delle rivolte. Secondo lei la loro natura è cambiata? No, di fatto no. Le proteste restano legate a un sentimento popolare molto ampio, molto sentito e partecipato che però manca di una leadership. E questo è l’elemento della loro debolezza. Manca una leadership riconosciuta all’interno dell’Iran e nessuno dei gruppi all’esterno del Paese, quelli della diaspora iraniana, è a mio avviso in grado di porsi come elemento di indirizzo della rivolta. Un po’ perché alcuni gruppi della diaspora non godono di alcuna credibilità all’interno del Paese, un po’ perché alcuni di questi gruppi sono così polarizzati nella competizione interna alla diaspora da non riuscire a diventare una piattaforma unica di sostegno alla protesta. L’elemento di novità che posso ritrovare nelle proteste di oggi è quello della resilienza, è vero infatti che le proteste stanno andando avanti, sta crescendo la loro intensità e oltre a ciò c’è un ricorso alla violenza sempre più intenso, nell’ambito sia della protesta che della repressione. Dall’altra parte però la rivolta resta debole come strumento politico, perché non ha una sua identità politica. Anche la Rivoluzione islamica è iniziata così, senza una leadership, ma poi è stata cavalcata da una componente che era quella del clero combattente. Un gruppo religioso che faceva riferimento all’ayatollah Khomeini che è riuscito ad imporsi in una certa fase come leadership della Rivoluzione. Anche se la Rivoluzione era iniziata più nell’ambito dei gruppi marxisti, comunisti o islamico-marxisti. Poi però questi gruppi non trovavano una linea comune di gestione della rivolta e quindi sono stati permeati dalla componente rivoluzionaria del clero. Dunque, a suo parere, l’elemento della diaspora, su cui molti attivisti e organizzatori delle proteste puntano, è molto limitato? Il potere della diaspora è meno che limitato, in questo momento non vedo alcuna capacità di aggregazione. Molti gruppi della diaspora si presentano all’estero come l’unica forma legittimata della protesta, del potere, ma non è così. E che cosa pensa del ruolo che sta cercando di ritagliarsi il figlio dell’ultimo scià, il principe ereditario Reza Pahlavi? Lui chiede che le fazioni dell’opposizione al regime si uniscano per essere riconosciute internamente dal popolo… Il figlio dello scià è stato inattivo per lungo tempo. Non è mai stata una figura particolarmente carismatica ed è in gran parte sconosciuta agli iraniani, perché ha assunto un ruolo defilato in questi anni. È vero che l’istituto della monarchia e le figure della monarchia ancora oggi hanno un certo tipo di fascino in alcune componenti della società, in particolare quelle meno giovani che identificano nel periodo monarchico il periodo della prosperità, della crescita del ruolo dell’Iran. Il padre dell’ultimo scià (Mohammad Reza Pahlavi, ndr) viene evocato come figura di riferimento da parte delle frange nazionaliste iraniane. Un certo carisma esercitava ancora fino a qualche tempo fa la moglie dell’ultimo scià, Farah, ma è ormai anziana. Poi di fatto non avrebbe grandi possibilità di andare al potere perché all’epoca la monarchia seguiva la linea dinastica maschile, bisognerebbe riformare quindi una Costituzione che in realtà non è neanche più esistente perché lei possa andare al potere. Poi dovrebbe usurpare il trono al figlio, non penso che lo farebbe mai. La verità è che la monarchia si è affievolita come elemento dell’opposizione. È una componente della diaspora che è rimasta silenziosa molto a lungo, formata da ex elementi dell’alta borghesia che sono scappati all’estero e hanno ben poco radicamento nel Paese. L’immagine della monarchia potrebbe generare interesse sul piano politico in alcune generazioni, ma non credo assolutamente che ci possa essere interesse da parte della maggioranza degli iraniani. Il problema è che questo tipo di monarchia che attrae è legata all’idea di assolutismo monarchico del padre dell’ultimo scià, più che a quello di suo figlio che vuole invece essere un monarca costituzionale. In definitiva non penso che il figlio dello scià eserciti così tanto fascino. E poi deve scontare il suo stesso errore che è stato quello di stare troppo ai margini della società in questi anni. Arriviamo ai rapporti correnti tra Iran e l’alleato di sempre Iraq. Secondo il Washington Institute l’Iran in questo momento si trova ad un bivio. L’instabilità presente nel Paese da alcuni mesi potrebbe portare da un lato l’IRI ad allontanarsi dall’Iraq, dall’altro ad aumentare la sua sfera di influenza nell’area. Come si sta muovendo e si muoverà l’Iran in Iraq? La politica iraniana verso l’Iraq è stata costruita sulla percezione occidentale di un Iran che ha l’egemonia di questo Paese, che è in grado di controllarne le dinamiche. Sicuramente i legami tra i due Paesi sono intensi, ma anche controversi all’interno. Le ultime elezioni politiche hanno visto la vittoria del movimento guidato da Moqtada al-Sadr, rappresentante del fronte anti-iraniano. E quindi c’è un risultato elettorale che mostra come la percezione dell’Iraq nei confronti dell’Iran sia critica. Ed in effetti è così. Da anni ci sono tutta una serie di contenziosi tra i due paesi dal punto di vista politico e economico. In Iraq c’è però una componente legata all’ex primo ministro Nouri al-Maliki e alla colazione politica che è vicina a Nouri, che è molto vicina all’Iran e che è quella che è riuscita a diventare l’esecutivo del Paese per l’abbandono della componente maggioritaria, cioè quella dei sadristi che ha scelto di non entrare nel governo. Quindi si può dire che l’Iran sia in una posizione favorevole nei confronti dell’Iraq perché l’esecutivo in questo momento è vicino alle posizioni iraniane, ma il governo iracheno di oggi non è espressione del voto che ha portato poi alla formazione della maggioranza in parlamento. È molto controversa dunque la posizione dell’Iran in Iraq. L’ulteriore elemento di forza dell’Iran poi è quello delle milizie legate a gruppi paramilitari. Le milizie sono un ibrido perché sono parte di un sistema che rappresenta un po’ un elemento complesso al suo interno, perché molti militari delle forze armate nazionali sono anche espressioni di milizia paramilitari che operano agli ordini del contesto politico. È come se un nostro militare facesse parte dell’esercito Italiano, ma anche di strutture militari parallele e tali strutture sono legate all’Iran. Quindi il grado di fedeltà di questi uomini è molto ambiguo e questo è parte del contenzioso politico che riguarda il rapporto tra Iran e Iraq. In termini generali dunque l’influenza dell’Iran sulla politica irachena è forte, ma non è egemonica. Tant’è che quando c’è stata, circa sei mesi fa, l’acme della crisi politica irachena - quando i sostenitori di al-Sadr hanno occupato l’area dei palazzi del Parlamento (il 22 luglio 2022 centinaia di sostenitori del leader sciita al-Sadr hanno preso d’assalto il parlamento di Baghdad nella notte per protestare contro la nomina, da parte dei partiti armati sciiti filo-iraniani, di un candidato premier, Muhammad Sudani, ostile al fronte sadrista, ndr) è stato lo stesso comandante delle IRGC a volare urgentemente a Teheran chiedendo ai loro stessi alleati di non esacerbare il clima di tensione che caratterizzava il quadro politico. Loro stessi si rendono conto che il quadro politico è particolarmente teso e potrebbe ritorcersi contro gli interessi iraniani. Una minore influenza iraniana in Iraq potrebbe dare ai politici curdi e sunniti un ruolo più attivo negli affari iracheni? La maggioranza della popolazione irachena è sciita quindi è nell’ambito del mondo sciita che si decidono le sorti della politica nazionale. All’interno della componente sciita ci sono profonde divergenze, anche sul piano clericale e religioso. La componente sciita irachena ha una posizione in larga parte divergente rispetto a quella iraniana. Ad esempio la massima autorità del clero sciita iracheno (Ali Sistani, ndr) rifiuta il modello teocratico e politico dell’Iran. E questo ha riflessi di natura politica, perché la componente sciita si divide al suo interno in due gruppi principali, che sono il gruppo tradizionalista - che mantiene un profilo di indipendenza tra politica e religione - e quello più rivoluzionario - che è più vicino al modello iraniano. Da quello che esprime la società in termini di votazioni possiamo dedurre che il modello tradizionalista è maggioritario, ma il sistema iracheno è molto frammentato e soprattutto è diventato molto polarizzato al suo interno e ha portato alla situazione paradossale in cui la componente tradizionalista ha vinto le elezioni e ha la maggioranza parlamentare, ma non governa. Governa invece una coalizione formata da componenti più vicine all’Iran. Nei rapporti tra Iran e Iraq il Kurdistan in questo momento che ruolo gioca? Secondo il Washington Institute sembra che la regione del Kurdistan tornerà ad essere un’arena del conflitto tra Iran e Usa... Anche il Kurdistan è diviso in zone di interesse diverse tra loro. Gli iraniani, più in generale con i curdi, non in particolare con gli iracheni, hanno sempre mantenuto una politica di forte ambiguità, nel senso che da una parte hanno sostenuto e sostengono le istanze autonomiste e indipendentiste. Ma le sostengono al di fuori di casa loro. Quando poi quando la questione dell’autonomia tocca le componenti curde che vivono in Iran, questa è oggetto di una politica totalmente diversa, come poi si è visto in queste ultime fasi della protesta in Iran. Nel caso del Kurdistan iracheno, si tratta di una linea di faglia, nel senso che l’Iran ha dei rapporti con alcune delle componenti curde della regione, con altre strutture della regione invece è in aperto contrasto e questo porta, più che ad uno scontro con gli Usa, alla definizione di sfere di influenza della politica estera che sono potenzialmente critiche. Come ha dimostrato l’incursione missilistica che l’Iran ha fatto sul Kurdistan iracheno (nella notte tra il 7 e l’8 gennaio 2020 22 missili balistici iraniani si sono abbattuti su due basi irachene che ospitano soldati statunitensi e della coalizione internazionale anti-ISIS, ndr) all’indomani dell’uccisione del generale Soleimani (generale iraniano figura chiave della strategia iraniana in Medio Oriente, ucciso da drone in un attacco voluto dagli Stati Uniti all’inizio di gennaio del 2020, ndr). Laddove gli interessi americani sono più marcati nel Kurdistan, là sono più forti anche le pressioni iraniane, ma non è omogenea la posizione dell’Iran sul territorio del Kurdistan, ci sono aree dove gli iraniani hanno una maggiore capacità di gestione delle proprie relazioni. Parliamo sempre del Kurdistan, ma della provincia iraniana. Che ruolo ha nella protesta? Più che la componente curda è la componente araba della popolazione iraniana che ha avviato una forma di protesta sempre più disegnata in chiave settaria. Ci sono un paio di leader religiosi, uno in particolare della regione che ha chiesto al governo una riforma costituzionale che equipari i diritti, le competenze e il peso delle volontà arabo-iraniane all’interno del sistema della Repubblica islamica. Le componenti arabe del Paese sono sempre state quelle più riottose sotto il profilo del rapporto con le autorità centrali. Ma questo accadeva anche in epoca pre-rivoluzionaria. Il tessuto persiano sciita rappresenta poco più della metà della popolazione iraniana. Poi ci sono componenti minoritarie che sono riconosciute all’interno del Paese nella Costituzione, ma che concretamente godono di un ruolo e di una capacità di esercizio del potere politico che sono ridotti rispetto a quelli del gruppo etnico persiano. La protesta ha alimentato, dentro queste aree dell’Iran occidentale, una rivolta nella rivolta. Non è solo una rivendicazione dei diritti relativi alle libertà individuali, a questioni di carattere sociale che hanno riguardato la stragrande maggioranza delle proteste nell’Iran centrale e orientale. Nelle regioni a maggioranza curda e delle minoranze arabe c’è anche un connotato etnico che va ad inserire una matrice di riconoscimento dei diritti e delle prerogative di esercizio delle libertà politiche e religiose che si aggiungono alle matrici della protesta in corso nel Paese. Così le manifestazioni e la repressione sono diventate molto intense. Ad esempio ci sono state proteste importanti a Zahedan, l’interruzione totale della rete internet, diversi posti di blocco. Il governo iraniano è consapevole che la deriva etnica di questa protesta può innescare un fattore ulteriore rispetto alla protesta in corso nel Paese e come sempre cerca un capro espiatorio. Un capro espiatorio esterno? Il governo cerca di individuare all’interno di una matrice esterna al Paese l’elemento che va a fomentare questa protesta, alimentando il sospetto che siano i sauditi o altri Paesi della regione del Golfo, nemici dell’Iran, ad innescare una dinamica di tipo etnico nella protesta. E questo ha fatto diventare molto forte il contrasto politico con l’Arabia Saudita. Il dialogo bilaterale in corso tra i due Paesi, promosso dall’Iraq, praticamente è ormai fermo e senza grandi possibilità di ripresa nell’immediato. Questo elemento sta facendo salire fortemente di nuovo la tensione nell’area del Golfo. Fino ad un anno fa c’era la speranza che si potessero riprendere i colloqui. Poi però i dialoghi si sono rarefatti, complice l’emergere della protesta e la percezione di una regia internazionale dietro la protesta. Il cinema italiano si mobilita per i registi iraniani in carcere di Mohsen Makhmalbaf* La Stampa, 25 gennaio 2023 Cari amici, siete riuniti in solidarietà con la rivoluzione iraniana e per chiedere la scarcerazione dei prigionieri politici, compresi tanti registi. Come sapete, 44 anni fa c’è già stata una rivoluzione contro il regime, che sfortunatamente non ha portato al raggiungimento della democrazia. Anzi, le cose sono via via peggiorate e abbiamo perso le nostre libertà individuali, a causa delle leggi dettate dalla religione. Dopo la rivoluzione in Iran del 1979, al governo si sono radicate le bugie della politica e la propaganda della religione. Contro questa egemonia si è affermato un nuovo corso del cinema iraniano, per mostrare la realtà del nostro Paese e comunicare il sogno della libertà, in particolare la libertà delle donne. Il basilare diritto umano alla libertà, a partire dalla scelta del proprio stile di vita, che è stato rivendicato e gridato nelle strade dell’Iran, non è un desiderio nuovo: lo abbiamo mostrato negli ultimi 40 anni, attraverso i film iraniani, per contrastare la narrazione ufficiale del governo iraniano. Dal punto di vista sociologico, ogni narrazione alternativa, che si oppone a quella egemone, di solito nasce da piccoli gruppi di persone, per poi diventare della maggioranza. Purtroppo, possono volerci generazioni prima che questo sogno si realizzi. Dato che in Iran non c’è stato un libero partito politico dai primi anni della rivoluzione islamica, nel 1979, gli artisti e, in particolare, i registi cinematografici hanno giocato un ruolo importante per dare voce alla gente. E questa voce è emersa con forza nei loro film, anche se sono stati imprigionati. In questi ultimi 44 anni, noi abbiamo visto crescere diversi movimenti Iran, dal mondo del cinema ai giornalisti, dagli studenti ai lavoratori. Poi il Green movement, che sosteneva il sogno della classe media, fino alla rivoluzione di oggi, chiamata “Donna, vita, libertà”: l’unica rivoluzione delle donne avvenuta nella storia dell’umanità. Solo negli ultimi quattro mesi, in Iran più di 20mila persone sono state arrestate e torturate, più di 5mila sono state ferite, più di 500 persone sono state uccise, tra cui 70 bambini, e più di 200 sono state rese cieche. Al momento, circa 150 artisti sono a processo, in fasi diverse del procedimento giudiziario: celebrità, uomini di sport, artisti di vario tipo, hanno il divieto di viaggiare all’estero, così che non possano diffondere la voce del popolo iraniano nel mondo. Nella dittatura islamica iraniana, se una donna decide di togliersi il velo e camminare per la strada a capo scoperto, rischia una condanna da 10 fino a 18 anni di carcere. D’altra parte, se un uomo uccide la figlia, solo perché lei si è innamorata e così disonora la famiglia e non rispetta la tradizione islamica, verrà mandato in prigione al massimo per due anni. Cari amici, siete lì per manifestare la vostra solidarietà ai registi iraniani in carcere, per chiedere la liberazione di Mojgan Inanlou, Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof e di molti altri. La vera libertà per questi artisti si realizzerà davvero solo quando l’Iran sarà liberato dalla dittatura islamista dell’attuale regime. Cari amici, per favore, siate la loro voce per la libertà in tutto il mondo. Grazie. *Messaggio inviato all’evento di solidarietà promosso dall’Anac (Associazione Nazionale Autori di Cinema) al Nuovo Cinema Aquila di Roma Egitto. “Tahrir fu speranza, la prossima rivolta sarà guidata dalla fame” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 gennaio 2023 A dodici anni dalla rivoluzione, è la miseria a dettare la vita quotidiana: mancano cibo e medicine. Non si trova valuta estera: importazioni bloccate, ma il regime spende miliardi in armi occidentali. Intervista all’attivista Ramy Shaath: “Il paese sta per esplodere. Ma con le opposizioni incarcerate, manca una visione politica”. Dodici anni dopo, piazza Tahrir ha cambiato volto. La ristrutturazione voluta dal governo nato dal golpe del luglio 2013 l’ha sfigurata. Per impedirle di rimanere quello che è sempre stata, la piazza della liberazione, l’ha tramutata in una rotonda a favore di automobilisti e il suo cuore è stato riempito di obelischi per celebrare l’impero più antico e obliare le conquiste moderne. Intorno a Tahrir, anche la vita quotidiana è cambiata. Gli egiziani hanno fame. Così tanta fame non l’avevano avuta mai, dicono. “Costretti a diventare vegani”, titolava ieri la testata online The New Arab, perché la carne costa troppo. I macellai stanno chiudendo, uno a uno. Non hanno clientela. E mancano anche i produttori: allevare una mucca non conviene più. Dodici anni dopo la rivoluzione che ha svelato l’altro Egitto, Tahrir è sempre più lontana. Almeno in apparenza. La rabbia sta montando. Ne è convinto Ramy Shaath, uno dei più noti attivisti egiziani. Di origine palestinese, co-fondatore del Bds Egypt e volto di piazza Tahrir, festeggia un anno di libertà: è stato rilasciato nel gennaio 2022, dopo due anni e mezzo in detenzione cautelare, senza mai andare a processo. Semi-libertà: Il Cairo gli ha tolto la cittadinanza, è stato deportato a Parigi subito dopo aver messo “i piedi sull’asfalto”, come dicono gli egiziani quando un prigioniero esce di prigione. Per capire l’Egitto di oggi, non si può non partire dalla situazione socio-economica. Due terzi della popolazione vive in povertà, mentre il governo acquista un jet presidenziale da 500 milioni di dollari, spende 50 miliardi per una capitale nuova di zecca, nove miliardi per navi da guerra italiane. Potremmo continuare. La situazione economica non sta deteriorando, sta esplodendo. Negli ultimi due mesi la sterlina egiziana ha perso il 50% del suo valore. I beni di prima necessità non sono più disponibili: riso, olio da cucina, medicinali. Non ci sono perché il 70% di ciò che gli egiziani consumano arriva dall’estero, ma nel paese c’è carenza di dollari e le importazioni sono bloccate. E quel che c’è costa troppo, alcuni beni fondamentali hanno visto un’impennata del prezzo anche del 300%. Con un budget interno che per un terzo va nei mega progetti infrastrutturali voluti dal regime, non resta nulla per sanità, educazione, sussidi alimentari ai poveri. Ma tagliare i sussidi non ha migliorato la situazione economica dello stato. L’Egitto non produce più quasi nulla, vive per lo più delle rimesse dagli egiziani all’estero. L’unico vero export egiziano sono le persone, manodopera a basso costo che va a lavorare nel Golfo, in Europa, negli Usa, e che rimanda indietro 30 miliardi di dollari l’anno. Ma nemmeno questo basta più: l’Egitto ha un debito estero ufficiale di 170 miliardi di dollari, anche se dati ufficiosi parlano di 220 miliardi. Ogni giorno ricevo chiamate di amici, politici, familiari ancora in Egitto, mi raccontano dell’impossibilità di trovare cibo e medicine, di gatti e cani randagi che muoiono per strada perché le persone svuotano i cassonetti alla ricerca di avanzi. Il regime ha una strategia? Non c’è alcuna visione governativa. Il regime ha moltiplicato il debito estero, dai 30 miliardi del 2013 agli attuali 170 miliardi, a cui si aggiunge il debito interno, da 40 miliardi di dollari agli attuali 251 miliardi. Soldi che non sono stati usati a favore dell’economia di produzione, ma sono stati spesi per progetti inutili, come l’allargamento del Canale di Suez o la nuova capitale, New Cairo, il simbolo della necessità del regime di fortificarsi, di allontanarsi dal popolo così che in caso di sollevazione a proteggere il governo saranno il deserto e le postazioni militari. Progetti volti ad arricchire le imprese controllate dall’esercito che oggi detiene il 50-60% dell’economia senza pagare tasse né bollette. I generali sono diventati ricchissimi, inviano denaro all’estero in conti segreti mentre il paese affonda. E per la prima volta affondano anche le classi ricche, soffrono anche gli imprenditori privati. E non parliamo della classe media: è scomparsa, non esiste più. Esiste solo povertà. Eppure molti paesi occidentali raccontano un’altra storia: un Egitto che è fonte di stabilità in una regione conflittuale. Può generare stabilità un regime che incarcera 60mila persone per motivi politici e affama un popolo intero? Non c’è stabilità con la povertà e con la persecuzione di decine di migliaia di persone per le loro idee politiche. Non c’è stabilità con la censura dei media e con l’esercito che controlla l’economia. Non c’è stabilità con l’aumento del potere dell’esercito e con denaro speso per le armi invece che per la sanità e l’educazione. I governi occidentali che armano il Cairo dovrebbero fare pressioni per democratizzazione, elezioni libere, fine dell’oppressione politica, gestione equa dell’economia. Questo garantirà stabilità. Invece abbiamo un regime che compra jet da guerra americani nel mezzo della più grande crisi della storia egiziana e con nove miliardi di dollari in importazioni di cibo che non arrivano nel paese perché non abbiamo dollari per pagarle. Quando la situazione esploderà, l’Occidente ci definirà una dittatura da terzo mondo. Non siamo solo questo, siamo un colonialismo del terzo mondo, perché è l’Occidente che mantiene questa realtà di corruzione e oppressione. Tre settimane fa negli Usa ho incontrato il Dipartimento di stato: mi hanno detto che non devo riporre speranze nella democratizzazione, che al massimo si può lavorare a un miglioramento del rispetto dei diritti umani. No, grazie, non vogliamo un “miglioramento”, vogliamo libertà e democrazia. Dieci anni dopo il golpe, il regime di al-Sisi è stabile o esistono fratture interne? Le fratture arriveranno. Oggi i servizi segreti e l’esercito appoggiano il regime perché gli garantisce potere economico e impunità. Quando questo potere economico sarà danneggiato dalla crisi economica, che inevitabilmente intaccherà anche le loro imprese, vedremo fratture interne. Affidandosi all’esercito, al-Sisi ha cercato di costruirsi una base solida. E ha posto le forze armate in prima linea, dopo decenni di potere dietro le quinte. Non esiste più una zona cuscinetto tra popolo ed esercito. La prossima sollevazione non potrà che avere come interlocutore l’esercito e non ne nascerà nulla di buono. In tale clima repressivo le opposizioni esistono ancora? Le opposizioni sono debolissime. Il movimento islamico è completamente distrutto e quel che resta è diviso: ci sono differenze tra i fratelli musulmani in prigione e quelli fuori, tra la vecchia e la nuova generazione. Penso sia una cosa positiva: dentro la Fratellanza ora si sollevano voci contrarie a tentare nuove scalate al potere. Questo per la prima volta potrebbe dare all’Egitto la possibilità di un cambiamento verso un governo laico, né militare né religioso. Ma non sta bene neanche la società civile: decine di migliaia di attivisti sono in prigione, centinaia hanno dovuto lasciare il paese. È difficile formare un’opposizione organizzata. Ne esiste una in diaspora che tenta di mettersi in contatto con quella interna ma è pericoloso: moltissimi attivisti in Egitto hanno paura a parlare con noi all’estero. Basta questo per essere arrestati. Una nuova sollevazione è comunque possibile? È certa, ma temo sarà pericolosa. Se distruggi le opposizioni, il popolo che si rivolta per fame si troverà senza una guida politica. Quella del 2011 è stata una rivoluzione per la libertà, partita dalla classe media e sostenuta da tutti i settori sociali. Aveva una chiara visione politica e precise richieste: democratizzazione, libertà, cambiamenti della costituzione. Senza uno scenario politico, il movimento popolare sarà depoliticizzato e meno organizzato, mosso da rabbia e fame invece che da speranza e visione politica. La situazione esploderà. Ed esploderà a breve. Può accadere in ogni momento. Con un’opposizione forte, l’esplosione avverrà all’interno di una rete di protezione che eviti l’abisso. Una rivoluzione guidata dalla rabbia e non dalla speranza è pericolosa. Tahrir fu bellissima perché fu guidata dalla speranza. Tahrir ha però cambiato la società egiziana, le ha mostrato che è in grado di fare una rivoluzione... Il popolo sarà sempre creativo e troverà i mezzi per sollevarsi. Quello che il regime ha fatto è stato colpire tutti coloro che hanno partecipato alla rivoluzione. È stata fatta dagli attivisti? Li ha imprigionati o li ha deportati. È stata fatta dal movimento islamico? Ha ucciso i suoi membri, li ha incarcerati. È stata fatta dalle ong? Le ha chiuse per decreto e confiscato il loro denaro. È stata fatta su internet? I servizi hanno intensificato il controllo di massa dei social. È stata fatta nei luoghi di ritrovo dei movimenti di sinistra e degli intellettuali? Ha chiuso i café, le librerie, i luoghi culturali. Ha preso di mira qualsiasi spazio potesse rappresentare un luogo di dibattito politico. Ha riorganizzato piazza Tahrir per rendere difficile manifestare. È un modo stupido di ragionare, è quello dell’esercito e dei servizi. Non hanno capito che quando le persone vogliono ribellarsi, troveranno un modo per comunicare e per ritrovarsi.