Il gioco del cerino sull’ergastolo ostativo di Andrea Pugiotto Il Riformista, 24 gennaio 2023 Domani, in Cassazione, si terrà un’udienza molto attesa: la prima sezione penale, infatti, deve decidere se riproporre o meno alla Consulta i propri dubbi di costituzionalità riguardanti il c.d. ergastolo ostativo. La Suprema corte rimetterà la questione alla Consulta? O riterrà applicabile la riforma, passando così il testimone al Tribunale di sorveglianza? Una storia senza fine, mentre il tempo della detenzione è sempre più tempo perso. Le puntate precedenti di questa neverending story, messe in serie, compongono i paletti di uno slalom gigante. Promossa nel giugno del 2020, la quaestio censurava l’incostituzionalità della preclusione assoluta alla liberazione condizionale per chi, condannato all’ergastolo per delitti di contesto mafioso, non ha utilmente collaborato con la giustizia. La ragione? Il meccanismo secondo cui “o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi” trasforma il carcere a vita in una pena capitale diversamente eseguita: una pena fino alla morte, estranea all’orizzonte costituzionale sempre orientato al recupero sociale del condannato, indipendentemente dal reato commesso. Come già nel 2019 la Corte Edu (Viola c. Italia), anche la Corte costituzionale ha accertato l’illegittimità di tale automatismo, differendone però di un anno la rimozione (ord. n. 97/2021). A che scopo? Concedere al Parlamento un “tempo congruo” per modificare il regime dell’ergastolo ostativo secondo le linee guida tracciate dalla stessa Consulta. Per generosa scelta dei giudici costituzionali (ord. n. 122/2022), quell’arco temporale si è poi dilatato di altri sei mesi, ma inutilmente: incapaci di approvare in tempo la legge necessaria, alle Camere è allora subentrato il Governo che, alla vigilia dell’udienza della Corte costituzionale, ha introdotto una nuova disciplina mediante decreto legge, poi convertito in extremis dal Parlamento. Preso atto dell’intervenuta modifica, la Consulta (ord. n. 227/2022) ha restituito gli atti alla Cassazione cui spetta, ora, valutarne la portata applicativa e la coerenza costituzionale. Come nel gioco dell’oca, dopo ben 31 mesi, si è tornati alla casella di partenza. Cosa faranno i giudici della prima sezione penale? Preliminarmente, sarà bene che recuperino alle regole basilari del costituzionalismo il tema dell’ergastolo ostativo. Le “valutazioni di ordine costituzionale” auspicate dal ministro degli Interni in nome di una “guerra alla mafia che non può concedere al nemico dei vantaggi” (La Stampa, 18 gennaio), sembrano ignorare la natura rigida della nostra Costituzione che, per ciò, s’impone sulle leggi ordinarie. Costituzione e legge non sono equivalenti, né giuridicamente né politicamente: la prima è parametro di giudizio, la seconda è oggetto di giudizio (se incostituzionale). Mai viceversa. È, questa, una gerarchia rispondente a una logica garantista: impedire che la maggioranza parlamentare del momento disponga di quanto fissato nella Carta, a tutela di tutti. Vale anche per i principi costituzionali di individualizzazione, progressività del trattamento e risocializzazione delle pene che - nella sua quaestio - la prima sezione penale riteneva violati dal previgente regime dell’ergastolo ostativo. Ora, però, i giudici di Cassazione si trovano davanti a un regime ostativo rinnovato, riscritto mediante decretazione d’urgenza. Ne siamo proprio certi? Perché si possa parlare di una disciplina validamente sopravvenuta, dev’essere introdotta nel rispetto del procedimento che la Costituzione stabilisce per i decreti legge. Non sembra questo il caso. Se il ricorso alla decretazione d’urgenza si giustifica solo in “casi straordinari” (art. 77, comma 2), cioè imprevedibili, come può considerarsi tale un’udienza della Corte costituzionale pendente da 18 mesi, la cui calendarizzata celebrazione è addotta a motivo dell’intervento governativo? C’è dell’altro: un decreto legge deve presentare contenuti coerenti o almeno riconducibili ad una comune ratio legis. Quello in esame, invece, incapsula di tutto e di più, dalle modifiche al regime dell’ostatività penitenziaria al differimento della riforma Cartabia, da disposizioni sulle controversie della giustizia sportiva agli obblighi di vaccinazione, fino al discusso reato anti-rave: dov’è la sua necessaria omogeneità normativa? Si tratta di vizi in procedendo non sanabili che - come insegna la giurisprudenza costituzionale - si estendono alla legge di conversione: né il Governo né il Parlamento, infatti, possono attivare o perfezionare il ciclo della decretazione d’urgenza uscendo dai binari tracciati in Costituzione. E se lo fanno, come in questo caso, andrà chiamata in causa la Consulta. C’è una seconda ragione che rende dubbia l’applicabilità, nel giudizio pendente in Cassazione, della normativa sopravvenuta. A ben vedere, per l’ergastolano ostativo non collaborante, le condizioni di ammissibilità alla liberazione condizionale risultano oggi più gravose di ieri. I molteplici oneri di allegazione raggiungono le vette della probatio diabolica. A regime, non viene dato più alcun rilievo all’impossibilità oggettiva - dunque incolpevole - di collaborare utilmente con la giustizia. Le informazioni richieste alle procure e le valutazioni imposte al giudice sono schiacciate su esigenze di difesa sociale, annichilendo gli esiti positivi di un percorso rieducativo del reo durato decenni. Il limite temporale per accedere alla liberazione condizionale s’innalza da 26 a 30 anni di detenzione. La durata della correlata libertà vigilata raddoppia da 5 a 10 anni. Considerato nella sua unitarietà, dunque, l’istituto risulta modificato in peius rispetto alla pregressa disciplina in base alla quale Salvatore Pezzino - l’ergastolano ostativo ricorrente in Cassazione - aveva chiesto l’accesso alla liberazione condizionale. In quanto peggiorativa, la nuova disciplina non può trovare applicazione al suo caso: lo vieta il principio costituzionale di irretroattività della norma penale più sfavorevole. E se tale applicazione retroattiva si ritiene imposta dalle disposizioni transitorie del decreto legge governativo, saranno queste a dover essere sottoposte a giudizio di costituzionalità, per violazione dell’art. 25, comma 2, Cost. Esclusa l’applicabilità della nuova disciplina, l’esito sarà - a un tempo - ovvio e paradossale: la prima sezione penale dovrà riproporre la quaestio sulla vecchia normativa ancora applicabile, ma certamente incostituzionale. Nel girotondo del cerino acceso, questo tornerebbe così nelle mani dei giudici costituzionali. Più realistico, però, è un altro scenario. Dal punto di vista strettamente normativo, oggi, anche un ergastolano ostativo non collaborante può aspirare alla liberazione condizionale, e la sua richiesta “dovrà essere valutata nel merito. Prima, la domanda era destinata al cestino dell’inammissibilità” (Davide Galliani, il manifesto, 18 gennaio). Anche se la sua concessione si rivelerà de facto pressoché impossibile, de iure non esiste più una preclusione assoluta a richiedere la liberazione condizionale. Tanto potrebbe bastare alla Cassazione - giudice di legittimità della legge, e non del merito - per qualificare la riforma come favorevole, dunque applicabile al caso Pezzino. Superato così anche l’originario dubbio di costituzionalità, l’apprezzamento di quanto nel merito dedotto dal ricorrente andrà rimesso al competente tribunale di sorveglianza. Sarà lui, chiamato in concreto ad applicare il nuovo regime ostativo, a sottoporne al futuro giudizio della Consulta i profili normativi di (più che) dubbia costituzionalità. Se così deciderà la Cassazione, la storia infinita dell’ergastolo ostativo si avvia ad un’ennesima stagione, come certe serie televisive che vanno troppo per le lunghe prendendo tutti (attori e spettatori) per sfinimento. Alla fine di questa vicenda senza fine, delle tre dimensioni (temporale, spaziale, corporale) della pena, è la prima ad essere fatta oggetto di scempio. Come già sottolineato dal Garante Nazionale dei diritti dei detenuti nella sua ultima relazione al Parlamento, al centro della questione dell’ergastolo ostativo c’è il “tempo” e il suo abuso istituzionale. Il tempo sospeso dei rinvii della Consulta. Il tempo sprecato dalle Camere. Il tempo precipitoso del gattopardesco intervento governativo. Il tempo dilatato per accedere alla liberazione condizionale e per uscire dalla libertà vigilata, voluto dal Governo e condiviso dal Parlamento. Nel frattempo però, relegato a bordo campo come fosse irrilevante, è il tempo della detenzione a consumarsi inutilmente, nell’attesa finora ignorata di chi avrebbe potuto esercitare il diritto a una pena orientata alla risocializzazione, se solo la Consulta avesse scelto la via maestra della dichiarazione d’incostituzionalità, invece di optare per una catena di ordinanze interlocutorie. Tempo perso. Ed è proprio di “pena del tempo perso”, perché sottrazione di opportunità e di esperienze, che ragiona Stefano Anastasia nel suo ultimo libro (Le pene e il carcere, Mondadori 2022), come di una caratteristica intrinseca del carcere a vita. Potrebbe essere il rassegnato titolo di questo controverso racconto al quale, domani, la Cassazione aggiungerà l’ennesimo capitolo. Il Fine Pena Mai e la politica sorda ai richiami della Corte costituzionale di Giovanni Maria Flick La Stampa, 24 gennaio 2023 Ergastolo ostativo e 41bis sono problemi urgenti. In gioco l’equilibrio tra tutela delle libertà personali e sicurezza collettiva. Sin dal 1974 la Corte costituzionale si era posta il problema della compatibilità dell’ergastolo (“fine pena mai”) con la finalità prioritaria della pena di tendere alla rieducazione del condannato e la condizione di non consistere in un trattamento contrario al senso di umanità (articolo 27 della Costituzione). La Corte aveva ravvisato tale compatibilità solo da quando (nel 1962) gli ergastolani erano stati ammessi alla liberazione condizionale; richiedendo però che ciò avvenisse non per provvedimento discrezionale del ministro come nel passato, ma per accertamento da parte del magistrato di un ravvedimento maturato dopo un lungo periodo di detenzione. Il tema era rimasto peraltro oggetto di ampie discussioni e contrasti tra i fautori della conservazione dell’ergastolo per il rispetto delle vittime e per le attese della società; e i sostenitori della sua abolizione per il rispetto della dignità umana dovuto anche al condannato e comunque del suo ravvedimento. Di fronte a questo contrasto e alla “ipocrisia” di una pena incostituzionale perché perpetua in astratto, ma eventualmente a termine in concreto, talune ulteriori decisioni della Corte costituzionale sull’ergastolo sembravano manifestare un qualche “imbarazzo”. Nel 1992 tuttavia la gravità del crimine organizzato per i suoi attacchi alla convivenza e alla vita civile indusse il legislatore a negare l’accesso dei condannati non collaboranti con la giustizia a tutti i “benefici penitenziari” (lavoro all’esterno; permessi premio; misure alternative alla detenzione) assimilando a essi la liberazione condizionale. Il problema dell’”ergastolo ostativo” è ritornato di attualità con l’aumento progressivo del numero di condannati non collaboranti con la giustizia. La Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2019 ha subordinato la compatibilità dell’ergastolo con la Convenzione europea sui diritti umani alla sua “comprimibilità” de iure e de facto e alla possibilità per il detenuto di avere una legittima aspettativa di liberazione. La Corte costituzionale a sua volta, nel 2019, ha seguito l’indicazione della Corte europea, trasformando la “presunzione assoluta” di pericolosità sociale, fondata sul rifiuto di collaborare, in una “presunzione relativa” e superabile per altra via, nell’accertamento del giudice di sorveglianza. La Corte costituzionale ha poi costruito “un regime di prova rafforzata” e soprattutto “innovativo”. Ha richiesto da parte del detenuto la prova della mancanza di suoi collegamenti attuali o futuri con la criminalità organizzata: una prova (negativa) difficile quanto meno per la prognosi sul futuro. Inoltre ha limitato esplicitamente la decisione alla concessione del “permesso premio”, lasciando intendere il suo carattere di eccezione alla regola del generale diniego. La Corte è stata poi investita direttamente del problema dell’ergastolo ostativo e della impossibilità per il condannato di ottenere la liberazione condizionale in assenza di collaborazione. Ha ritenuto incostituzionale quella condizione ma ha ripetuto che oltre al sicuro ravvedimento e alla mancanza attuale di collegamenti tra il condannato e la criminalità organizzata, deve escludersi anche il pericolo di un ripristino di quei collegamenti. La Corte ha richiamato a questo proposito il regime dell’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, volto soprattutto a impedire qualsiasi contatto del detenuto con organizzazioni criminali, oltre che a rendere “più duro” il carcere. Ha aggiunto che nel caso di assoggettamento del condannato a tale regime “l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile e di certo non è compatibile con una valutazione di “sicuro ravvedimento”. Infine la Corte ha rinviato di un anno e poi di altri sei mesi la dichiarazione di incostituzionalità - così ampiamente e “insolitamente” motivata - per consentire un intervento del Parlamento in una materia di rilevante complessità, con la possibilità di soluzioni molteplici. Ha sottolineato altresì che “la mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica”. Nel frattempo il governo, con un decreto-legge in data 31 ottobre 2022 (poi convertito in legge) - in assenza del completamento dell’iter legislativo, a causa della fine anticipata della legislatura - ha fatto propri i contenuti del disegno di legge già approvato dalla Camera dei Deputati. Ha emanato una “modifica complessiva della disciplina interessata dalle questioni di legittimità costituzionale in esame”, così definita dalla Corte con l’ordinanza dell’8 novembre 2022. Ha restituito gli atti alla Cassazione che aveva sollevato la questione, per un nuovo esame circa l’eventuale permanenza della incostituzionalità denunziata. La nuova disciplina - introdotta per “rispondere ai moniti rivolti dalla Corte costituzionale” (così il preambolo) - ha reso ancora più difficile per il detenuto provare l’assenza di collegamenti attuali o futuri. Le novità numerose della procedura in cui questa vicenda si è sviluppata - sia nella sua scansione temporale; sia nei suoi contenuti; sia nei contributi a essa dei soggetti istituzionali secondo le rispettive competenze - offrono molteplici spunti di riflessione. Suggeriscono un doveroso silenzio al momento, anche in relazione al clima di comprensibile contrapposizione e al rischio di strumentalizzazione di quelle novità da parte delle diverse opinioni politiche. Tre constatazioni sono però subito possibili. La prima constatazione riguarda il reiterato impegno della Corte costituzionale a un “dialogo” con il Parlamento, con esito per ora non troppo positivo, come nei casi recenti del fine-vita e della responsabilità del direttore di un giornale; tanto da chiedersi se le possibili complicazioni e difficoltà che possono nascere in quel dialogo ne suggeriscano o meno una reiterazione frequente. Non si può sottovalutare la situazione di incertezza e di limbo in cui possono venirsi a trovare persone la cui sorte dipende da una legge della quale l’incostituzionalità è accertata ma non dichiarata. La seconda constatazione riguarda, come è stato giustamente osservato, l’assenza di qualsiasi tortuoso e strumentale pretesto di collegare questa vicenda con quella della cattura (finalmente; ma troppo tardi) di un latitante che tanto occupa le cronache di questi giorni. La terza constatazione riguarda un profilo più generale: la perplessità di fronte alla ricerca di soluzioni (e qualche volta di “acrobazie”) tecniche per risolvere criticità che nella sostanza coinvolgono questioni di principio. L’ergastolo ostativo, come l’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario e le moderne tecniche di intercettazione, solleva problemi di equilibrio e di limiti nel confronto tra la tutela della identità e della libertà personale e la tutela della sicurezza collettiva. Sono problemi di estrema gravità e urgenza di fronte al pericolo rappresentato oggi dalla criminalità organizzata in tutti i suoi aspetti e manifestazioni. È la politica a doverli affrontare con chiarezza assumendosene la responsabilità. Stato-mafia: ecco perché non regge la teoria dell’ergastolo ostativo come merce di scambio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 gennaio 2023 Rispunta lo spettro della trattativa per la cattura di Matteo Messina Denaro. Una spada di Damocle per fermare qualsiasi cambiamento. Per sfatare tale tesi, basta riportare i fatti e non le opinioni. Su queste stesse pagine si è sempre detto che il complottismo è funzionale allo Stato di Polizia. Il teorema trattativa è diventata, di fatto, una spada di Damocle per qualsiasi governo. Sia per quello più “illuminato” che vorrebbe, per quanto riguarda il sistema penitenziario, essere più aderente possibile ai dettami della nostra Costituzione, sia per quello più conservatore come l’attuale che, nonostante abbia approvato la riforma dell’ergastolo ostativo pieno di paletti non cogliendo appieno le indicazioni della Consulta, viene nemmeno troppo velatamente accusato di aver varato tale riforma come merce di scambio per la cattura di Matteo Messina Denaro. Eppure basterebbe riportare i fatti. Se la preclusione assoluta ai benefici per una determinata tipologia di ergastolani è stata messa in discussione, il merito non va ai non meglio specificati connubi tra mafie e apparati deviati dello Stato, ma ai magistrati di sorveglianza - compresi i giudici della Cassazione - che sollevarono problemi di incostituzionalità alla Consulta. A loro volta i “giudici delle leggi” hanno dapprima sentenziato l’incostituzionalità della preclusione assoluta dei permessi premio (poche ore di libertà l’anno) e poi hanno “ordinato” al Parlamento di varare una riforma per togliere la preclusione assoluta della liberazione condizionale. Tutto qui. La semplice verità. A meno che non si arrivi a pensare che i magistrati di sorveglianza, quelli della Corte Suprema e quelli della Consulta siano attigui alla mafia. Non solo. Seguendo questo ragionamento, sarebbero contaminati dai tentacoli mafiosi anche i giudici della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, visto che, attraverso la sentenza Viola, hanno condannato il nostro Paese per tale preclusione assoluta. La riforma dell’ergastolo ostativo, quindi, è stata varata perché obbligati da una sentenza. Così come, nel 1993, l’allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale, era “obbligato” a valutare caso per caso i detenuti al 41 bis. Per questo non ha prorogato il carcere duro per circa 300 ristretti. Tutti mafiosi? I fatti - ben evidenziati nella sentenza d’appello relativa all’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino - ci dicono che tra i detenuti non sottoposti al rinnovo del 41bis, soltanto 18 appartenevano alla mafia. Non solo. A sette di loro, peraltro, nel giro di poco tempo, dopo un ulteriore valutazione, è stato nuovamente riapplicato. Ma erano boss di calibro i pochi mafiosi ai quali non è stato rinnovato il 41bis? Assolutamente no. Dalle carte risulta che né dalla Procura di Palermo e né dalle forze dell’ordine, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro. Ma ritorniamo all’ergastolo ostativo. Chiarito che tale riforma è stata obbligatoria, bisogna entrare nel merito. È mancato un generale ripensamento dell’attuale disciplina della concessione dei benefici ai condannati per una serie del tutto eterogenea e illogica di reati anche ben distanti da qualsiasi matrice organizzata, mafiosa o terroristica. Nel decreto c’è anche un inutile aggravamento di tale disciplina: è stata infatti abolita la concedibilità dei benefici nei casi di collaborazione inutile o irrilevante, così da impedire un trattamento adeguato per chi non abbia collaborato perché non ha potuto farlo, stante la sua limitata partecipazione al fatto criminoso o per l’ormai intervenuto integrale accertamento delle circostanze e delle responsabilità ad esso connesse. Altro inasprimento della riforma è l’aumento da ventisei a trent’anni della pena da scontare prima di poter presentare l’istanza di liberazione condizionale. Anche questa è una misura inutilmente punitiva, che disattende la direzione auspicata dalla Consulta. Ma evidentemente non basta. Lo spettro della trattativa aleggia ancora. Per poter assecondare tale congettura, l’unica strada che rimane è abolire l’articolo 27 della Costituzione italiana. Ancora altre rivelazioni prive di riscontro nelle trasmissioni in prima serata e il passo sarà breve. Ergastolo ostativo. Senza 41bis gli irriducibili verso la libertà di Alessandra Ziniti La Repubblica, 24 gennaio 2023 Adesso possono accedere ai benefici anche gli ergastolani che non collaborano, ma è stato innalzato il tetto di anni di detenzione: vi potrà aspirare solo chi ha già espiato 30 anni di carcere. Cosa vuol dire ergastolo ostativo? È una particolare pena detentiva, più pesante dell’ergastolo semplice, prevista per reati gravi come mafia o terrorismo, che priva il detenuto della possibilità di godere di benefici o misure alternative, dai permessi premi al lavoro esterno fino alla libertà condizionale. Quanti sono in Italia a scontare questa pena? Secondo il Garante dei detenuti, gli ergastolani all’ostativo sono 1.259, il 70% di chi è condannato al carcere a vita. Perché è intervenuta la Corte Costituzionale? Nella sua formulazione originaria, la norma prevedeva che solo gli ergastolani che collaborano con la giustizia potevano accedere ai benefici. La Corte, ad aprile 2021, ha ritenuto che la norma fosse in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e ha chiesto al Parlamento di intervenire. Un’analoga pronuncia era arrivata nel 2019 da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Come ha modificato la norma il governo Meloni? È stato appena convertito in legge il decreto che cambia la vecchia norma in ossequio alle indicazioni della Consulta. Adesso possono accedere ai benefici anche gli ergastolani che non collaborano, ma è stato innalzato il tetto di anni di detenzione. Vi potrà aspirare solo chi ha già espiato 30 anni di carcere, ma a condizione che non abbia più legami con la criminalità organizzata. Niente benefici per chi è al carcere duro? Resta il paletto del 41 bis. I condannati all’ergastolo, sottoposti al regime di carcere duro, non potranno comunque godere di alcun beneficio. Ma il 41 bis è un particolare livello di detenzione soggetto a rivalutazione ogni due anni e non permanente. Dunque, se dovessero venir meno le ragioni che lo giustificano, potrebbe essere revocato, consentendo così agli ergastolani che hanno scontato 30 anni di accedere a permessi e forme di premialità. Quali sono i timori sul ritorno in libertà dei mafiosi? I magistrati temono che, dopo l’arresto di Messina Denaro, l’ipotetico abbassarsi della tensione sulla pericolosità di Cosa nostra e sul livello dello scontro con lo Stato, possa affievolire nel tempo il regime di carcere duro ai condannati per mafia che, detenuti da 30 anni, potrebbero avere buon gioco nel dimostrare di non avere più legami con l’organizzazione criminale e dunque aspirare ad uscire dal carcere anche senza collaborare con la giustizia. Nino Di Matteo: “I boss non vogliono morire in carcere. Sull’ergastolo ostativo la partita decisiva è tra mafia e Stato” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 24 gennaio 2023 L’analisi del pm antimafia dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro: “Un’intera generazione di mafiosi mira a ottenere i benefici. Il decreto del governo ha alzato i paletti ma restano alcuni varchi. Potremmo trovarci con una nuova ondata di collaboratori di giustizia o con un ritorno dell’attacco frontale alle istituzioni”. Intercettato in carcere Graviano diceva: “Non collaboro, sull’ergastolo aspettiamo buone notizie dall’Europa”. Tre anni dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. “È attorno all’ergastolo ostativo che adesso si giocherà la partita decisiva tra Stato e mafia”. Con l’ultimo boss stragista Matteo Messina Denaro finito dietro le sbarre, Nino Di Matteo, 30 anni in trincea antimafia e in procinto di tornare alla Direzione nazionale antimafia dopo l’esperienza al Csm, guarda alla mafia che verrà. Dottor Di Matteo, la cupola di Cosa Nostra adesso è tutta in carcere. Morti Riina e Provenzano, boss del calibro dei Graviano, Bagarella, Madonia, Nicchi possono considerarsi ormai fuori gioco? “Non solo i Graviano, ma direi centinaia di mafiosi, un’intera generazione tra i 50 e i 65 anni, coltiva ancora la speranza di potere uscire dal carcere. Sono gli arrestati nel periodo immediatamente successivo alle stragi quando le indagini hanno potuto contare sulla grande spinta delle collaborazioni e importantissimi processi hanno portato a centinaia di ergastoli. Moltissimi di loro hanno trascorso in cella più o meno 30 anni e dunque potrebbero godere di alcuni benefici. Sono certo che questi irriducibili non si rassegnano all’idea di morire in carcere”. E come potrebbero uscire? Il governo ha ulteriormente ristretto le maglie per la concessione dei benefici per gli ergastolani... “Il decreto del governo va nella direzione giusta, alzando paletti importanti, ma lascia aperti alcuni varchi” Che rischi intravede? “Dobbiamo stare attentissimi a valutare contromosse e reazioni. Che potrebbero essere di segno opposto: o quella tragica della ripresa dell’attacco frontale allo Stato o quella, che naturalmente tutti ci auguriamo, di una ripresa quantitativa e qualitativa delle collaborazioni. D’altra parte, basta ripercorrere alcuni capisaldi della storia più o meno recente di Cosa nostra per avere la controprova di quanto, nella vita di un mafioso, la detenzione è un tempo previsto, direi normale, che non incide sull’autorevolezza e non spezza i vincoli con l’organizzazione”. Ma l’ergastolo e soprattutto il 41-bis sono stati sempre l’incubo di tutti i mafiosi... “Esatto. Ricordo a memoria quello che ci raccontò il pentito Salvatore Cancemi nel ‘93. Quando Cosa nostra sperava ancora nell’aggiustamento del primo maxiprocesso, Totò Riina ripeteva spesso: “Noi 8-10 anni di carcere per associazione, pure legati alla branda, ce li possiamo fare, ma mi sto giocando i denti per evitare gli ergastoli”. A dimostrazione di come, anche in quel preciso momento, pur non aspettandosi che la Corte di Cassazione potesse annullare le condanne, i boss si giocavano tutto sul disconoscimento del cosiddetto teorema Buscetta, quello che poi di fatto ha portato agli ergastoli per tutti i componenti della Cupola mafiosa perchè ritenuti i responsabili di tutti i delitti commessi”. Da allora però sono passati trent’anni e i boss via via arrestati sono sempre rimasti al carcere duro... “Sì, ma da sempre, nelle strategie più alte di Cosa nostra, l’obiettivo politico è stato quello di arrivare ad eliminare gli ergastoli. Anche la stagione delle bombe del ‘92-’94, la vera strategia della tensione della quale anche la mafia fu protagonista, aveva come obiettivo l’abolizione dell’ergastolo e il 41-bis. E negli anni successivi, con benefici e sconti di pena per i dissociati, la mafia ha continuato a coltivare la speranza dell’abolizione dell’ergastolo. Cito una conversazione intercettata in carcere nel 2016 quando Giuseppe Graviano dice al suo compagno di cella: “Non intendo collaborare con la giustizia anche perché sull’ergastolo bisogna aspettare buone notizie dall’Europa”. Che poi effettivamente, in qualche modo sono arrivate... “Infatti, tra il 2019 e il 2021, prima la Corte europea dei diritti dell’uomo e poi la nostra Corte costituzionale hanno aperto il varco a benefici anche per gli ergastolani. Proprio per questo dico che è attorno all’ergastolo ostativo che si giocherà la prossima partita tra Stato e mafia”. Vuole dire che potrebbero pure porsi le basi per una nuova trattativa? “Cosa nostra non ha mai smesso quella che è una sua peculiarità: cioè quella di cercare di condizionare l’attività legislativa e politica, non credo abbia mai dismesso questa velleità. E lo Stato in passato ha dato quantomeno la sensazione di avere accettato il piano dell’interlocuzione. Diciamo che oggi sarebbe molto importante evitare anche solo di dare l’impressione di essere disponibili a trattare quello che è e deve rimanere esclusivo del potere legislativo e politico”. Il ministro dell’Interno Piantedosi ha detto che i rapporti tra mafia e politica fanno parte di una storia passata. È d’accordo? “Mi auguro che sia così anche se vedo che alcuni soggetti che, da sentenze passate in giudicato, hanno avuto rapporti diretti o indiretti con la mafia, sono ancora importanti protagonisti della vita politica nazionale”. Falcone diceva che “la mafia non è affatto invincibile e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Ci siamo vicini? “Ce lo diranno solo le indagini future ma io penso che le previsioni di Falcone sono ancora molto lontane dalla loro realizzazione”. Almeno la stagione della mafia violenta possiamo ritenerla archiviata? “Sarei molto prudente sul fatto che si sia chiusa la stagione delle stragi. Le mafie cambiano la loro strategia a seconda degli uomini e delle contingenze esterne anche di natura politica. E mi sembra azzardato escludere un attacco frontale alle istituzioni. Affermazioni troppo nette possono anche inconsapevolmente indurre tutti ad abbassare pericolosamente la guardia”. Caso Cospito, nasce il Comitato contro il 41 bis. “Il carcere duro è come la pena di morte” di Laura Pertici La Repubblica, 24 gennaio 2023 Tra i sostenitori intellettuali, avvocati e artisti come Zerocalcare, Elio Germano, Ascanio Celestini, Luigi Manconi. Il documento di lancio dell’iniziativa: “Il carcere duro è come la pena di morte”. Contro l’ergastolo e il 41 bis, una sessantina di gruppi e associazioni, e quasi 150 tra artisti, intellettuali, docenti universitari, ricercatori, avvocati, attivisti hanno creato e sottoscritto la neonata piattaforma “Morire di pena”. Un progetto creato sulla scia del clamore creato dal caso di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame contro il regime di carcere duro a cui è stato sottoposto per aver gambizzato nel 2012 l’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, e aver piazzato nel 2006 due ordigni esplosivi fuori da una caserma di Cuneo senza uccidere nessuno. Tra le firme ci sono quella del fumettista Zerocalcare, degli attori Elio Germano e Ascanio Celestini, dei gruppi musicali 99 Posse e Assalti frontali, degli ex senatori Luigi Manconi e Heidi Giuliani. “Danni al corpo e alla psiche” - “Fin dalla sua nascita - si legge nel documento del comitato promotore dell’iniziativa, partita da Napoli - il 41bis si è mostrato come uno strumento di ricatto per spingere i detenuti alla collaborazione con la magistratura, fondato su pratiche di vera e propria tortura. Le condizioni inumane di detenzione previste da questo istituto si concretizzano in isolamento in celle di pochi metri quadri, limitazioni all’ora d’aria, sorveglianza continua, limitazione o eliminazione dei colloqui con i familiari, controllo della posta, limitazione di oggetti in cella persino come penne, quaderni e libri. Un progressivo annientamento che provoca danni incalcolabili nel corpo e nella psiche dei detenuti”. “Ergastolo come la pena capitale” - L’ergastolo viene definito come “assimilabile in tutto e per tutto alla pena di morte”. “Nel corso delle prossime settimane - spiegano dal comitato promotore - organizzeremo iniziative di divulgazione, sensibilizzazione e dibattito nelle principali città d’Italia, perché, partendo dalla lotta di Alfredo Cospito, la cui vita è a rischio nell’indifferenza totale di governo e magistratura, il dibattito per l’abolizione degli inumani istituti di ergastolo e 41bis apra delle possibilità concrete per una riforma necessaria”. Cacciari: “Cospito al 41bis: è vendetta da parte dello stato” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 24 gennaio 2023 Il regime speciale per l’anarchico? “Non me lo spiego. Intervenga Nordio: lo faccia curare e lo metta nelle condizioni di difendersi. Non applicare il valore rieducativo della pena significa tradire la Costituzione”. “Nordio si faccia sentire, non intimorire”. È l’appello del filosofo Massimo Cacciari al ministro della giustizia. “Lo Stato non può agire per vendetta, facendo della vendetta una pena accessoria”. Poi l’appello perché Cospito esca dal 41bis. Ogni giorno le sue condizioni peggiorano, come più volte denunciato dalla sua dottoressa Milia. Che giovedì è stata autorizzata a tornare in carcere ma con il divieto di rilasciare dichiarazioni a radio Onda d’urto. Una vera censura, mentre Cospito è “sull’orlo di un precipizio”. Con la cattura di Messina Denaro si chiude un’epoca. Come possono rimanere appese le leggi simbolo di quella stagione? Il 41bis nasce da una situazione del tutto particolare. E vi sono due considerazioni che è urgente fare. La prima riguarda il carattere stesso della pena è di natura straordinaria, perché è chiaro che vi è qualcosa che non funziona nello stabilire delle pene che presentano caratteri per cui è del tutto esclusa la possibilità della finalità rieducativa e riabilitativa. L’ergastolo ostativo dimostra di per sé la totale ipocrisia del presupposto costituzionale della pena rieducativa, perché prevede che i suoi condannati non vengano rieducati e men che meno riabilitati. E se si prevede di sbattere qualcuno in galera e buttare via la chiave, la Costituzione non ha più senso. Viene tradita. Vengono conclamati continuamente principi generali che continuamente vengono contraddetti. In questi casi l’ipocrisia diventa palese. Una lesione dello stato di diritto operata dal diritto penale, che come diceva Simone Weil “fa sentire da vicino la puzza dell’inferno”. Questo in senso generale. Veniamo alla seconda considerazione? Il particolare... Bisogna riflettere su un discorso specifico: questa pena del 41 bis nasce in una situazione molto particolare, mirava a colpire dei partecipanti a organizzazioni criminali molto ben strutturate, efficientissime, che controllavano i loro territori infinitamente meglio di come riuscivano a fare le autorità dello Stato. In questi casi specifici era stato dimostrato che i capi, messi in cella, riuscivano a continuare a svolgere le loro attività criminose. Per colpire queste organizzazioni criminali si è pensato a questo tipo di pena, come legge transitoria. Può darsi che si possano ripresentare situazioni come quelle descritte sopra, ma oggi non è più quello il caso. E allora anche nel caso specifico, il legislatore cosa dovrebbe fare? Riconoscere che la legge transitoria ha compiuto il suo iter, è servita quando doveva servire, e trentuno anni dopo essere stata promulgato, il 41bis dovrebbe vedere la fine della sua funzione. Per fortuna. Magari si potrebbe iniziare ad applicarlo con misura... Ecco: volendo anche lasciare impregiudicato il fatto che sia da dismettere o non dismettere, è evidente che questa pena, la legge speciale sul regime carcerario duro, contraddicendo i principi generali della Costituzione, va applicata comunque con estremo raziocinio. Deve essere dimostrato che dal carcere ci sono dei capomafia stragisti che possono continuare a guidare l’organizzazione malavitosa. Se si decide di mantenere il 41bis, deve essere una extrema ratio, da centellinare e riservare solo ai casi più pericolosi, con comprovate reti di collegamento nella criminalità operativa, dove ci sono boss capaci di tornare a uccidere. E invece viene applicato anche per Cospito... Un caso che con la mafia non c’entra niente. Niente. Un elemento che per carità, avrà sbagliato, si sarà macchiato di reati, ma non ha mai ucciso nessuno e non è a capo di una rete criminale stragista. Se non sbaglio, Cospito è in carcere per aver messo una bomba carta che è esplosa una sera, senza fare danni né feriti. E lo mettiamo al 41bis? Ma dico, stiamo scherzando? Un uomo che sarà pure un militante anarchico, ma cosa vuol dire? È uno di cui possiamo non condividere le idee politiche ma che con la malavita organizzata non ha nulla a che fare. Se siamo in presenza dell’applicazione delle norme in maniera così spregiudicata, per carità, si abolisca il 41bis. Vuol dire che non sappiamo applicare le leggi con la giusta misura, e allora meglio non ricorrervi. È evidente. Aboliamo la norma immediatamente. Lo Stato dimostra di aver paura di Cospito? È una cosa assolutamente irragionevole. Una cosa pazzesca. E per questo mi sono rivolto al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che conosco da anni e che è tutt’altro che un giustizialista. È un giurista che ha espresso ancora da tempo i suoi dubbi sulla normativa d’emergenza. Lei conosce bene Nordio, siete stati Sindaco e Procuratore di Venezia negli stessi anni… Sì, ci conosciamo bene. Un rapporto di stima reciproca, avendo appunto operato nella stessa città per tanti anni. È una persona con cui si ragiona, un giurista garantista privo di qualunque pregiudizio. Adesso dia la prova di esserlo. Qual è il suo appello a Nordio? Il mio appello è semplice: Nordio sia orgogliosamente se stesso. Si faccia valere nel governo. Non tema nessuno. Batta i pugni sul tavolo. Prenda di petto il tema di quelle norme che dovevano essere transitorie e di emergenza e poi, come mille altre cose in Italia, diventano per prassi definitive. Se non può rimuovere il 41bis, lo faccia applicare con l’attenzione dovuta. Deve almeno riuscire a verificare che le norme vengano applicate solo in casi di straordinaria emergenza. Altrimenti non solo si contraddicono i principi costituzionali ma si cade in aberrazioni del diritto come mai ne abbiamo incontrati prima, neanche in caso di terrorismo. Come si spiega tanta protervia nel punire Cospito? Non me lo spiego. Non può essere trattato come un pericoloso mafioso stragista. Cosa si teme? Che organizzi la rivoluzione anarchica in Italia? Ma vogliamo ridere? Piuttosto che curino questo poveretto. E che lo mettano in condizione di difendersi: il suo reato è da ergastolo? Io davvero non me lo spiego. Anche su Messina Denaro, con il rifiuto della poltrona per la chemioterapia, mi sembra si inizi a andare oltre… Una cosa un po’ strana, in effetti. Guardiamo al tema in sé: pensiamo davvero che Messina Denaro dal carcere riorganizzi Cosa Nostra, lui che è malato terminale? È abbastanza evidente che le cose sono state sin troppo semplici, per prenderlo. È tra coloro che dicono che Messina Denaro si è consegnato, di fatto? Che si sia fatto trovare, che si sia consegnato, che ci sia stata una operazione di intelligence… non importa, certamente non c’è stata una grande operazione di cattura. È sotto gli occhi di tutti. E questo dimostra che la sua pericolosità è molto relativa. Mi pare che questi segnali di carcerazione dura abbiano più il sapore della vendetta, che di misure precauzionali vere, sensate e fondate. La situazione della mafia è del tutto diversa da quella delle bombe e delle stragi. Non è sparita del tutto, ma ha cambiato pelle. Se Messina Denaro, come pare, si è di fatto arreso; se lui, come è confermato, è malato terminale, allora dargli il 41bis significa consumare una vendetta, non applicare la giusta pena. Una lesione allo stato di diritto, il 41bis così come l’ergastolo ostativo... Sì, conclamata. Evidente. Tanto vale dircelo, senza ipocrisie: lo Stato ammette la Vendetta come pena, deve eseguire condanne esemplari sulla pubblica piazza. Scriviamolo pure: in certi casi la legge ammette che ci sia la Vendetta, come monito spaventoso erga omnes. Ci vorrebbe umanità anche con Messina Denaro? Ragionevolezza, prima che umanità. Se fossimo nel 1992, e avessimo catturato un boss in piena attività, ci vorrebbe il 41bis. Oggi nei confronti di un malato che si arrende, non è né ragionevole né sensato. Messina Denaro, il tumore, il carcere: una misura “compatibile”? Intervista a Stefano Anastasìa di Chiara Ludovisi redattoresociale.it, 24 gennaio 2023 Il Garante dei detenuti del Lazio mette al centro la questione dei diritti: “Assistenza sanitaria e continuità delle cure devono essere sempre garantite a tutti i detenuti: il diritto della persona viene prima della tutela dell’esecuzione della pena”. E sull’emergenza suicidi e rivolte: “La priorità è che in carcere vada solo chi ha pene medio-lunghe” Messina Denaro è in carcere: le sue condizioni di salute sono ritenute “compatibili” con la detenzione. C’è un filo doppio, che lega malattia e carcere, nella vicenda che ha condotto all’arresto del boss mafioso: la pista nelle cartelle cliniche, l’arresto in una struttura sanitaria e ora il dubbio: può un uomo con un tumore avanzato e una terapia chemioterapica in corso essere detenuto in un carcere di massima sicurezza? Lo chiediamo a Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti per la regione Lazio, che proprio domani presenterà il suo ultimo libro, “Le pene e il carcere”, che mette al centro propri la questione dei diritti, tra cui quello alla salute. Dottor Anastasia, in che modo viene garantito il diritto alla salute in carcere e quali sono le principali sfide? “A partire dal 2008, l’assistenza sanitaria in ambito penitenziario è passata sotto la competenza del Servizio sanitario nazionale - ricorda Anastasia a Redattore Sociale - con le conseguenti fortune e sventure: tra queste ultime, la scarsezza delle risorse, la difformità dei trattamenti. Il principio generale, però, è che l’assistenza sanitaria in carcere sia equivalente a quella esterna: un principio sacrosanto, che bisogna perseguire. Oggi la sfida più importante per la sanità penitenziaria, così come per la medicina territoriale, è il potenziamento degli strumenti della telemedicina, come richiesto pure dal Pnrr al Sistema sanitario nazionale: ovvero, contribuire con le nuove tecnologie all’assistenza sanitaria dei detenuti. In generale, sappiamo che il carcere è un’istituzione patogena, a prescindere da eventuali problematiche sanitarie, per via della reclusione, della ristrettezza degli ambienti di vita, dell’impossibilità di svolgere attività motoria significativa. Il problema della tutela della salute delle persone detenute è un problema congenito. E per i detenuti con problemi di salute, cosa è previsto? Il nostro ordinamento prevede la sospensione della detenzione, per lo più con ricorso agli arresti domiciliari, presso l’abitazione o presso il luogo di cura, dal momento che il diritto alla salute prevale anche rispetto alle cosiddette necessità di sicurezza, perché la tutela della salute come diritto fondamentale della persona viene prima della tutela dell’esecuzione della pena in senso proprio. Questo riguarda tutti, in particolare i detenuti anziani con gravi patologie, tra cui Messina Denaro, il quale ha un tumore in stato avanzato. Il fatto di avere una patologia così importante non comporta necessariamente la sospensione della pena per motivi di salute: sospensione che avviene solo quando l’assistenza necessaria non possa più essere prestata in carcere. Se Messina ha bisogno di controlli, cicli periodici di chemio che si possono fare attraverso il trasferimento dal carcere al luogo di cura, questo può garantire la continuità dell’esecuzione della pena. Poi certo, la continuità delle cure deve essere garantita e in questo caso potrebbe risultare particolarmente complessa: quanto sarà complicato per l’istituto penitenziario, per esempio, se dovrà provvedere al trasferimento periodico all’esterno di una persona che dovrà avere un alto livello di protezione e di sicurezza?” Il diritto alla salute in carcere è solo uno dei temi che approfondisce nel suo libro, “Le pene e il carcere”. Quali sono le altre urgenze? Il libro ricostruisce la storia del sistema penitenziario italiano negli ultimi 30 anni, evidenziando le cause della sua crisi perenne, dovuta alla costante domanda di incarcerazione, per cui il sistema è sempre in sofferenza. In questa crisi, conta molto il tema dei diritti della persona: progressivamente, la giurisprudenza costituzionale ed europea ha scoperto la rilevanza dei diritti non comprimibili della persona, con cui l’esecuzione penale deve fare i conti. E’ il filone di quella che chiamo “giurisprudenza umanitaria”, la quale si basa sull’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Questo ha a che fare certamente con il tema della salute, cui infatti è dedicato un capitolo intero del libro, ma rientrano anche altre questioni, come il diritto alle relazioni e alla sessualità. Tutto questo mette quanto meno in discussione l’idea che la pena detentiva sia e debba essere la soluzione principiale nel nostro ordinamento. L’alto numero di suicidi, come pure le recenti proteste nelle carceri minorili, hanno a che fare con la mancata tutela dei diritti? Io credo che suicidi e rivolte siano in relazione soprattutto con la prospettiva delle persone detenute, ovvero la loro capacità di immaginare il proprio futuro oltre la detenzione stessa. E’ un problema particolarmente rilevante all’indomani della pandemia, che ha prodotto molti problemi nel sistema penitenziario di organizzazione dell’offerta per il reinserimento. L’isolamento infatti si è aggravato in carcere, dove pure l’isolamento è congenito: le associazioni, le attività, i progetti, i volontari sono usciti e ancora faticano a rientrare. E poi c’è anche un altro aspetto: durante la pandemia, i detenuti si sono sentiti parte dello sforzo che la comunità stava facendo per superare quel momento. Successivamente, ha quindi pesato molto ritrovati nelle stesse condizioni di prima e vedere che il mondo fuori riprendeva la sua strada, mentre quello dentro restava isolato. Se mi domandassero perché proprio nel 2022 si sia verificato quel record di suicidi, ipotizzerei che dipenda dalla condizione di disperazione prodotta dallo stato di abbandono delle carceri e dalla difficoltà di tornare a una normalità e percepire una speranza. Da dove si può partire, ora, per cercare di ridurre queste criticità? La sfida principale è quella di ridurre il sistema penitenziario a quello che effettivamente può e deve essere gestito dal carcere. Occorre salvaguardare e mettere in pratica le indicazioni contenute nella riforma Cartabbia a favore delle sanzioni sostitutive per le pene brevi, così che in carcere vada solo chi ha commesso reati importanti contro la persona, o legate a organizzazioni criminali. In carcere deve andare chi una pena medio-lunga, perché stare in carcere sei mesi, o anche due anni, è solo una perdita di tempo e soprattutto non offre nulla, se non l’aggravamento di isolamento e devianza. Se i numeri fossero drasticamente ridotti e il carcere potesse occuparsi di chi ha pene importanti, con risorse di cui dispone potrebbe offrire finalmente una piena garanzia dei diritti e un’offerta trattamentale adeguata per il reinserimento sociale. “Sono troppo pochi gli infermieri per gestire la sanità nelle carceri” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 gennaio 2023 La denuncia del presidente del sindacato degli infermieri Nursing Up. Troppo pochi gli infermieri per gestire la sanità nelle carceri. “Colleghi lasciati soli, troppo spesso dimenticati, in contesti difficili, dove lavorare è sempre una lotta quotidiana. Tra organici ridotti all’osso, gli infermieri giovani e spesso inesperti, seppur coraggiosi nell’affrontare contesti di dipendenze, con soggetti spesso aggressivi e con problemi psicologici, vanno sostenuti per quelle qualità umane e per le competenze che mettono in gioco, che sono alla base delle loro delicatissime responsabilità professionali”, così denuncia Antonio De Palma, presidente Nazionale del sindacato degli infermieri Nursing Up. Nel duro comunicato, il sindacalista snocciola alcuni dati che indicano, per certe realtà carcerarie, ad una sproporzione enorme: professionisti che devono affrontare la super affollata realtà dei nostri detenuti e sono costretti, in strutture di massima sicurezza come il carcere di Opera (Milano), a fronteggiare le problematiche di salute, nonché psicologiche (dipendenze, autolesionismo, aggressività), di ben 600 reclusi, laddove gli infermieri sono addirittura rimasti solo in 31, rispetto ai 56 previsti, di per sé davvero già insufficienti. “Turni a volte dove due soli infermieri, udite udite, devono occuparsi dei 600 detenuti!”, tuona De Palma. Ma non va meglio a San Vittore (17 infermieri), a Bollate, che ha appena 8 infermieri, o in realtà come il Beccaria, dove ci sono le complesse problematiche dei minorenni a fronte di due 2 soli infermieri. Ma i numeri non si esauriscono qui - sottolinea sempre il presidente di Nursing Up - “dal momento che le direzioni carcerarie rendono noto di dimissioni a raffica, negli ultimi mesi, da parte del personale sanitario che non si sente adeguatamente tutelato, in particolare medici, alle prese con tentate aggressioni, continui tentativi di suicidi da parte dei detenuti e disagi mentali”. Non solo. Il sindacalista denuncia che, seguendo il trend negativo della carenza della sanità pubblica, naturalmente, i professionisti che si allontanano non vengono adeguatamente rimpiazzati. E non è facile, in queste situazioni, convincere altri colleghi ad accettare incarichi così delicati, dove gli operatori sanitari sono così esposti e così poco tutelati. “Di conseguenza, gli infermieri, come detto - prosegue De Palma - spesso giovani e ai primi incarichi, restano soli e ingabbiati in tunnel bui, pieni di ostacoli, che diventano per loro insuperabili, nonostante gli sforzi profusi, senza un indispensabile supporto da parte delle istituzioni”. Per questo chiede un intervento del Ministero, per comprendere realmente cosa stia accadendo nelle nostre carceri. “Chiediamo ulteriori report dettagliati, anche nelle altre case di detenzione italiane, che possano mettere in luce le drammatiche realtà dei fatti e che rappresentino una forma di tutela, sia per gli operatori sanitari impegnati ogni giorno a contatto con i detenuti, sia per gli stessi soggetti che stanno scontando una pena, bisognosi di essere supportati da personale sanitario numericamente adeguato ai propri fabbisogni”, conclude De Palma. Ricordiamo che dal primo aprile 2008 la salute delle persone detenute è divenuta formalmente una competenza del Servizio sanitario nazionale e si è venuta così a sanare una delle tante anomalie normative che riguardano la gestione della vita penitenziaria. Calandoci sul piano del diritto vivente, tuttavia, questa anomalia è stata adeguatamente superata esclusivamente sul piano formale. Nella materialità della detenzione permangono le criticità che ostacolano una piena affermazione dell’equivalenza delle cure, principio cardine della riforma stessa. Il trasferimento del personale, strumentazioni e responsabilità alle Aziende sanitarie locali è stato generalmente vissuto come un ulteriore “peso” scaricato sulle spalle già fragile della sanità regionale (e dei suoi bilanci). Non a caso, come detto inizialmente, c’è il discorso della precarietà che coinvolgono anche i medici, difficilmente disposti a sacrificare la loro vita per pochi soldi rispetto ai colleghi che lavorano nel mondo libero. Ma non solo. La difficoltà principale è quella di riuscire a valutare la questione sanità penitenziaria da un punto di vista nazionale e quindi si creano forti disparità tra territori. Accade nel mondo libero, ma nel carcere tutto si amplifica. Giustizia, la tregua di Meloni: “Non ripeterò gli errori di chi mi ha preceduto” di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 24 gennaio 2023 Da Algeri un messaggio distensivo ai giudici dopo le tensioni con il ministro Nordio. Torna a Palazzo Chigi la regia sulla giustizia. Salvini, sotto processo, sposa la pacificazione. Il cortile sembra un freezer. La tramontana si accanisce sulle guardie schierate a protezione del palazzo presidenziale di Algeri. Giorgia Meloni, avvolta nel suo cappotto bianco, sfida freddo e telecamere. Deve consegnare un messaggio di tregua ai magistrati. È stufa dei conflitti inutili, degli slogan al vento. Considera prioritario riportare sotto l’ombrello di Palazzo Chigi la linea politica sulla giustizia, gestita finora da Carlo Nordio con effetti allarmanti anche sugli equilibri di maggioranza. L’idea di un conflitto con le toghe neanche sfiora la presidente del Consiglio. Non può permetterselo. Non è la sua storia, non risponde a quello che sente e crede. E non intende logorarsi come fece un suo illustre predecessore. L’ha spiegato ai suoi dirigenti, in queste ultime ore. “Non voglio e non ho interesse a entrare in conflitto con la magistratura - è stato il senso dei suoi ragionamenti, riferiti da diverse fonti - Non commetterò gli errori di altri nel passato”. Non lo nomina, ma tutti pensano a Silvio Berlusconi. Che, al pari dell’attuale ministro della Giustizia, fa professione di garantismo e non sembra intenzionato ad arretrare su questa battaglia. Di Carlo Nordio, va precisato, Meloni ha stima. L’ha voluto davvero al governo. Però considera follia entrare a gamba tesa sulla magistratura, prima ancora di scrivere una riforma. Ovvio però che debba continuare a difenderlo pubblicamente, negando ogni scenario di dimissioni, sedando ogni prospettiva di strappo imminente. È stata una sua scommessa, imposta con tenacia, adesso la difende. Ma se con una mano sfila il suo Guardasigilli dall’assedio, con l’altra tende il segno della pace ai giudici, ridimensionando nei fatti il peso del titolare di via Arenula. Riservatamente, intanto, gli ambasciatori di Fratelli d’Italia continuano a inviare messaggi distensivi alle toghe. E assicurano che sulle intercettazioni poco sarà fatto. Di certo, ad esempio, sarà mantenuto lo strumento degli ascolti non solo per le indagini su mafia e terrorismo, ma anche corruzione e riciclaggio. A difesa di questa posizione, Meloni sarà sostenuta da Matteo Salvini. Se per la premier è soprattutto posizionamento politico ed esigenza tattica, per il leghista è anche questione di interesse mirato. Vuole a tutti i costi promuovere il membro laico proposto dalla Lega ed eletto al Csm, Fabio Pinelli, al vertice del Consiglio superiore della magistratura. Non sarà quindi il vicepremier del Carroccio a picchiare duro sui magistrati, non adesso. Nell’attesa, tra l’altro, di essere giudicato per il processo Open Arms di Palermo, dove sulla carta rischia una condanna che potrebbe arrivare fino a 15 anni. Un potenziale incubo, per chi guida un ministero e siede un gradino sotto la presidente del Consiglio. Saranno le prossime ore a dire se davvero Meloni sarà capace di evitare errori, forzature, strappi che segnarono l’era berlusconiana. Su questa linea, la leader è consigliata e sostenuta da tutti i principali dirigenti di Fratelli d’Italia, sempre più insofferenti verso Nordio e i suoi rilanci. Anche perché è chiaro a molti che uno scontro con le toghe avrebbe solo l’effetto di aumentare la mole di problemi irrisolti accumulati sulla scrivania di Palazzo Chigi. Due, in particolare, sono imminenti e stanno per esplodere in mano alla premier. Il primo, e il più allarmante, riguarda i balneari. La trattativa con l’Europa è bloccata, i margini per una proroga sulle concessioni pressoché inesistenti, l’insoddisfazione di Lega e Forza Italia logoranti. Meloni deve decidere: al fianco dei proprietari degli stabilimenti - come promesso per mesi, anni - oppure con Bruxelles. Ben sapendo che la Commissione andrà fino in fondo. Per questo, la leader potrebbe convocare già nelle prossime ore una riunione di maggioranza ad hoc. E poi ci sono i benzinai, che già da stasera e per due giorni bloccheranno i rifornimenti. L’effetto sarà pesante anche sul consenso, è stato spiegato riservatamente a Meloni dagli esperti negli ultimi giorni, perché la serrata dei distributori sarà interpretata dall’opinione pubblica prevalentemente in un modo: c’è un problema benzina, è colpa del governo. Il tutto, a poche settimane dalle Regionali. Su Nordio il tiro alla fune della maggioranza: il Cav lo esalta, Meloni lo argina di Errico Novi Il Dubbio, 24 gennaio 2023 Berlusconi: “Forza Italia è con lui, certi pm sono politicizzati” La premier: “Intercettazioni da rivedere senza liti con le toghe”. Gestire Nordio. E come? Giorgia Meloni si lascia scappare una frase, piccola ma rivelatrice: “Quello che provo a metterci io è il buon senso”. Lo dice ad Algeri a proposito degli “ascolti”. Dopo aver chiarito che, certo, è necessario “mettere mano alle cose che non funzionano, e sicuramente quello che non funziona è un certo uso che si fa alle volte delle intercettazioni”. Allora è d’accordo con il “suo” guardasigilli Carlo Nordio? Sì, ma fino a un certo punto. E quel punto è lì dove finisce la riforma e inizia lo scontro (d’altra parte inevitabile) con la magistratura. Che la presidente del Consiglio vuole evitare: “Credo che questo sia un tema a cui bisogna mettere mano e credo che per mettere mano a questo tema non ci sia alcun bisogno di uno scontro tra politica e magistratura. Credo anzi che si debba lavorare insieme”. Non la pensa in modo del tutto sovrapponibile Silvio Berlusconi. Che poche ore prima non è che rinfocoli proprio l’antico conflitto con le toghe, ma ci va molto, molto vicino: “Il nostro obiettivo non è certo un conflitto fra politica e magistratura. Le nostre riforme non sono contro i magistrati, sono per i cittadini”, è la finta da maestro del Cavaliere. Chi ci abbocca si trova subito preso d’infilata: le riforme non devono essere pensate apposta per colpire i pm ma, “certo, incontrano l’ostilità di alcuni settori politicizzati della magistratura. Alcuni di questi magistrati”, infierisce l’ex premier, “sono passati direttamente dai loro uffici giudiziari alle aule del Parlamento, nelle file dei 5 Stelle. Questo dimostra quanto poco quei magistrati potessero essere imparziali”. Eccolo, il Berlusconi che vede nel guardasigilli Nordio una sorta di vendicatore. E che ne abbraccia i toni più aspri, quelli con i quali il titolare della Giustizia, giovedì scorso, ha esortato deputati a non essere “supini ai pm”, cioè ai suoi ex colleghi. Il leader di Forza Italia ci va a nozze: a parte quelli che sono scesi nell’agone politico vero e proprio, vanno considerati quegli altri magistrati che “sono rimasti nelle correnti di sinistra dell’ordine giudiziario”. E non è più tollerabile che le intercettazioni diventino il pretesto per “trattare tutti gli italiani come sospetti mafiosi o sospetti terroristi”. Ecco, perciò, conclude Berlusconi, “sosterremo con convinzione le proposte sulla giustizia annunciate dal ministro Nordio: lo Stato di diritto e la libertà dei cittadini sono grandi temi sui quali non ci si dovrebbe dividere, sui quali maggioranza e opposizione, politica e magistratura dovrebbero lavorare insieme. Noi siamo pronti a farlo”. Una dichiarazione suona come un tentativo di arruolamento del guardasigilli nelle file di Forza Italia. D’altronde gli azzurri, aveva premesso il Cavaliere nel suo videomessaggio social, possono finalmente contare su un guardasigilli “di cultura liberale e garantista”, dunque profondamente affine alla loro. Ah, non è finita qui. L’intervento filmato di Berlusconi è ricco, e non ne va trascurato un passaggio apparentemente solo elegiaco ma che contiene un suadente avviso ai naviganti, innanzitutto agli alleati il cui orientamento sulla giustizia è meno incondizionatamente garantista, cioè quello di Meloni, Fratelli d’Italia, e quello di Salvini, la Lega. Le proposte sulla giustizia annunciate da Nordio, dice il leader di FI, “trovano un significativo consenso anche oltre il perimetro della maggioranza”. Si riferisce al Terzo polo, ovviamente. Ad Azione e Italia viva. Che insieme con Berlusconi e i suoi costituiscono ormai il “partito di Nordio”. Forse minoranza rispetto all’area moderata complessivamente intesa. Ma senza quel fronte trasversale - visto che ne fa parte pure FI - la maggioranza non esisterebbe più. Berlusconi solletica così i pensieri molesti che più infastidiscono la presidente del Consiglio. L’idea che dietro le posizioni forti del guardasigilli sulla giustizia si consolidi una sorta di maggioranza- ombra, allargata appunto al Terzo polo. La prospettiva non piace affatto né a Meloni né ai suoi. Che negli ultimi giorni hanno fatto il possibile per stemperare l’attacco di Nordio agli ex colleghi sulle intercettazioni, ma anche sugli “errori giudiziari” come quello ai danni di Mario Mori, hanno spinto il ministro a scandire in Aula “che giustizia è questa che si scaglia contro i più fedeli servitori dello Stato?”. Soprattutto il sottosegretario che a via Arenula rappresenta Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro, si è prodigato nel fine settimana per chiarire il perimetro di una possibile riforma delle intercettazioni. Ma già il viceministro Francesco Paolo Sisto ha poi anticipato, sul Corriere della Sera di ieri, la convinta adesione di FI alla linea del ministro. E poi è arrivata, ieri pomeriggio, la prova che, nell’insinuarsi fra le contraddizioni giudiziarie del centrodestra, il Terzo polo ha un talento unico: con un emendamento al Milleproroghe a prima firma Scalfarotto, i centristi infatti ripropongono tutte le misure sul carcere soppresse dal centrodestra: il mancato rientro serale in cella per i detenuti in semilibertà e la conversione della pena inframuraria in domiciliari fino a 18 mesi. Norme volute da Bonafede in pieno covid, e sulle quali non solo FI potrebbe convergere, ma che troverebbero entusiasti i moderati del Pd. Meloni insiste: “Credo che si debba lavorare per capire dov’è che il meccanismo, per lo Stato di diritto, non funziona, e cercare le soluzioni più efficaci”. Ma attorno a Nordio rischia di vedere andare in tilt equilibri in cui avrebbe scommesso a occhi chiusi. Girone all’italiana. Tutte le partite sulla pelle di Nordio di Federica Olivo huffingtonpost.it, 24 gennaio 2023 Berlusconi lo sostiene per attaccare i magistrati e mettere in difficoltà Meloni. Salvini cerca la sponda delle toghe per il Csm. E in FdI c’è paura di perdere l’elettorato securitario. E intanto Conte pensa alla sfiducia individuale. È riuscito appena per una domenica pomeriggio il tentativo della premier, Giorgia Meloni, di silenziare la polemica su Carlo Nordio. E riportare sotto la sua ala quel ministro tanto da lei voluto quanto contestato negli ultimi giorni. In primis dalla sua stessa maggioranza. Con la nota, mandata quando già si apprestava ad arrivare ad Algeri, la premier non voleva solo blindare il Guardasigilli, ma anche invitare gli alleati alla moderazione sul tema giustizia. Perché, è il suo pensiero costante da un po’ di tempo, “uno scontro con le toghe non ce lo possiamo permettere”. Messaggio, quest’ultimo, che Meloni ha ripetuto anche oggi parlando alla stampa italiana da Algeri: “È necessario mettere mano alle cose che non funzionano, e quello che non funziona è un certo uso che si fa delle intercettazioni. Dobbiamo cercare le soluzioni più efficaci per capire quali punti che riguardano lo stato di diritto non funzionano, senza la necessità che ciò si traduca in polemiche o scontri”. Messaggio che, però, non deve essere stato colto da Silvio Berlusconi. Il fondatore di Forza Italia ha pensato di movimentare un lunedì mattina che si preannunciava freddo e senza particolari colpi di scena con un lungo post su Facebook in cui, tra le altre cose, attacca la magistratura. Un post che parla di Nordio, ma in realtà sottende (anche) altri scopi. Esattamente come il posizionamento degli altri alleati di governo: concentrare il dibattito sul Guardasigilli è il modo più efficace che hanno le tre anime della maggioranza per perseguire i loro scopi in tema di giustizia. Tema che, nella settimana in cui sarà eletto il vicepresidente del Csm e ci sarà l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, si preannuncia più caldo che mai. Ma partiamo da Berlusconi: quale occasione più ghiotta per professare fede totale nel ministro della Giustizia ma al contempo mettere in difficoltà Giorgia Meloni e, ancora, attaccare i suoi nemici storici della magistratura? Il fondatore di Forza Italia non ci ha pensato due volte: del resto, anche con i suoi aveva fatto notare - con non poco disappunto - che i meloniani, scegliendo Nordio in via Arenula, avevano messo il cappello su temi fortemente identitari per i forzisti. E siccome l’ex premier a lasciare lo scettro del garantismo ai patrioti - alcuni dei quali, peraltro, neanche lo vogliono - non ci vuole proprio pensare, ecco che dopo aver spinto i suoi a intervenire di più sui dossier identitari, giustizia in primis, parla in prima persona: “Dopo molto tempo, l’Italia ha un ministro della Giustizia di cultura liberale e garantista, una cultura profondamente affine alla nostra. Noi di Forza Italia sosterremo l’azione del Ministro Nordio con assoluta convinzione”, premette su Fb, prima di sottolineare la necessità di andare avanti con le riforme annunciate da Nordio. Riforme che - precisa, non a caso - “trovano un significativo consenso anche oltre il perimetro della maggioranza”. Il riferimento è al Terzo polo, in nome del quale oggi è intervenuto Carlo Calenda: “Il ministro è più vicino a noi che a FdI”. Fatti i preamboli di rito, eccolo Berlusconi rivolgersi direttamente agli interlocutori di categoria. Gli stessi con i quali la premier non vorrebbe arrivare allo scontro: “Il nostro obiettivo non è certo un conflitto fra politica e magistratura. Le nostre riforme non sono contro i magistrati, sono per i cittadini”, dice l’ex premier. E poi eccolo puntare dritto all’obiettivo: “Certo, incontrano l’ostilità di alcuni settori politicizzati della magistratura. Alcuni di questi magistrati sono passati direttamente dai loro uffici giudiziari alle aule del Parlamento, nelle file dei Cinque Stelle. Questo dimostra quanto poco quei magistrati potessero essere imparziali”. L’attacco è diretto a Federico Cafiero De Raho e a Roberto Scarpinato, già pm antimafia oggi in Parlamento, ma non solo: “Altri loro colleghi e amici sono rimasti nelle correnti di sinistra dell’ordine giudiziario”. Richiama in causa, insomma, le tanto odiate “toghe rosse”, che non ha mai dimenticato. Toccherà ad Antonio Tajani, da Bruxelles, smorzare i toni, nel pomeriggio: “ Abbiamo vinto le elezioni anche per fare una riforma della giustizia” ma “attenzione: fare una riforma della Giustizia non significa fare la guerra ai magistrati. Noi vogliamo che ci siano delle regole che garantiscano tutti i cittadini nella stessa maniera”. La grande differenza rispetto ai tempi d’oro della guerra tra toghe e politica è che questa volta le toghe non rispondono, se non a titolo personale. Ad eccezione di una prudentissima e pacatissima intervista a La Stampa del suo presidente, l’Anm non ha detto una parola contro alcune dichiarazioni del ministro che in altri tempi avrebbero fatto scoppiare fuoco e fiamme. Questo insolito silenzio, ufficialmente giustificato dal fatto che il sindacato delle toghe attende di vedere i testi delle riforme e non si sente di commentare parole di un ministro che “forse a volte parla con troppa leggerezza, ma poi sistematicamente torna sulle sue posizioni”, si inscrive in un contesto di mutate maggioranze all’interno della magistratura stessa e della sua rappresentanza. La corrente di centrodestra, Magistratura Indipendente, che ha eletto ben sette consiglieri togati al Csm, non è ostile al ministro - sono di quell’associazione molti dei magistrati di cui il Guardasigilli si è circondato in via Arenula - e non vuole alzare il livello dello scontro. Né, per dirla con le parole di un suo dirigente, “fare politica”. Tanto più alla vigilia dell’elezione del presidente del Csm, sulla quale sa bene che ha il boccino in mano. Ne consegue che l’Anm, non potendo parlare con una voce sola, preferisce tenere un profilo basso. Almeno fino a quando dagli uffici del ministero non inizieranno a uscire le prime bozze. Chi si mostra inaspettatamente molto dialogante con la magistratura in questo momento è la Lega: “Bisogna colpire gli abusi ed evitare che alcuni tribunali vengano utilizzati dalla politica, senza però fare di tutta l’erba un fascio. Ritengo che lo scontro politica-magistratura debba essere superato”, ha detto Matteo Salvini nel weekend, dopo che per giorni si era levata la voce di Giulia Bongiorno contro una stretta eccessiva nella pubblicazione delle intercettazioni. La mossa del Capitano non è disinteressata: uno dei neoconsiglieri del Csm indicato dalla Lega - l’avvocato Fabio Pinelli, legale di Armando Siri, Luca Morisi e della Regione Veneto - è in corsa per diventare vicepresidente dell’organo di Palazzo dei Marescialli. Calcolatrice alla mano, qualche voto per arrivare a quota 17 ed essere eletto in uno dei primi scrutini gli manca. E allora ecco che al Carroccio - che certamente non potrà contare sui due membri laici eletti da M5s e Pd - conviene tendere la mano alla magistratura, se vuole sperare di accaparrarsi la vicepresidenza di un organo che negli ultimi otto anni ha avuto come numero 2 una figura di centrosinistra. Si spiegano in quest’ottica le aperture di Salvini e dei suoi. I giochi al momento sono del tutto aperti: la sfida tra Pinelli e il costituzionalista Roberto Romboli, voluto al Csm dal Pd, è serrata. L’operazione leghista ha qualche possibilità di riuscita, ma Salvini deve sperare nella memoria corta di qualche consigliere togato. Non sfugge, infatti, che a remare, dalla maggioranza, contro il pensiero del ministro Nordio in questo momento è la stessa forza che appena qualche mese fa appoggiò i referendum sulla giustizia. L’attuale Guardasigilli è stato tra i più strenui sostenitori di quei quesiti, al punto da presiedere il comitato per il sì. Un capitolo a parte in questa diatriba sulla giustizia lo merita Fratelli d’Italia. Dopo che la premier è corsa a rivendicare la sua scelta, i meloniani fanno quadrato intorno al ministro. Tutti - compreso Giovanni Donzelli, che risponde piccato a Giuseppe Conte, che sta valutando la mozione di sfiducia al ministro - tranne il suo sottosegretario, Andrea Delmastro che, in un’intervista a La Stampa, dopo averlo difeso, proprio non si riesce a trattenersi dal far notare che una cosa è esprimere un pensiero durante un convegno e una cosa è dirla in Parlamento. Tra le file dei deputati e dei senatori meloniani le sensibilità sul ministro sono diverse: oscillano dalla totale ammirazione di qualche avvocato che ha una cultura giuridica simile alla sua alla forte diffidenza dell’anima più securitaria del partito. Di quella, cioè, che rivendica di aver preso i voti delle forze di polizia e ha paura che il consenso di quella categoria cali a picco. Resta il fatto che, però, Meloni ha voluto a tutti i costi l’ex pm di Venezia in via Arenula: è stata fatta su quel dicastero la sfida più lunga con Silvio Berlusconi che, invece, voleva che quella poltrona fosse occupata da uno dei suoi. Adesso non può, e non vuole, fare marcia indietro. Pena: la credibilità. “Siamo sempre stati in piena sintonia e del resto è stata una scelta e un’indicazione, come ha detto il presidente del Consiglio, fortemente voluta di indicare me come ministro della Giustizia”, dice oggi Nordio, parlando della premier con gli avvocati vicentini. Dimentica che al dibattito sulla giustizia alla festa di FdI, al quale all’ultimo momento non ha partecipato per oscuri impegni istituzionali, gli applausi della platea - e, quindi, degli elettori - erano tutti per i proclami securitari della destra di sempre. E di questo, presto o tardi, FdI dovrà tenerne conto. Nordio non ha mai capito la mafia neanche quando era magistrato di Giovanni Tizian Il Domani, 24 gennaio 2023 Carlo Nordio e lo scontro con i suoi ex colleghi: le grandi inchieste sulla mafia in Veneto sono iniziate quando lui è andato in pensione da procuratore aggiunto a Venezia. Il 19 gennaio il ministro della giustizia Carlo Nordio ha dimostrato di capire poco e niente dei sistemi criminali messi a punto in 150 anni di storia italiana dalle organizzazioni mafiose di casa nostra. Lo ha fatto alla Camera dei deputati e 72 ore dopo l’arresto del latitante dei latitanti Matteo Messina Denaro che ha beneficiato di coperture offerte dalla borghesia mafiosa, impasto di politica, massoneria, professioni, e da pezzi di stato infedele. Nelle ore successive la cattura del padrino di Castelvetrano era legittimo aspettarsi da un ministro un’analisi più profonda del fenomeno mafioso. Ha scelto, invece, di lanciare messaggi precisi ai suoi vecchi colleghi magistrati, specie a coloro ancora impegnati nella lotta ai clan o appena andati in pensione dopo decenni di trincea. Attacchi che Nordio ha riservato per esempio all’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, ora parlamentare eletto con i Cinque Stelle: “Lei ha una visione pan-mafiosa dello stato”, ha risposto per aggiungere: “Sentendo il vostro intervento sembra che la mafia sia annidata nello Stato in tutte le sue articolazioni...Se questo è vero significa che in questi ultimi 30 anni la lotta alla mafia è fallita. Se siamo di fronte a una mafia che si è infiltrata dappertutto, allora la domanda è questa: dov’era l’Antimafia se siamo arrivati a questo risultato?... Non credo affatto che l’Antimafia abbia lavorato male, al contrario credo che Italia non sia così infiltrata da articolazioni mafiose che si sono insediate nei meandri più intimi della nostra vita individuale”. Il messaggio del ministro Nordio è chiaro: siamo assediati da mafiologi, gente che vede mammasantissima ovunque. Quali competenze abbia maturato il ministro sul campo della lotta alle cosche da ex pm è noto: nessuna. Non ha mai firmato un’inchiesta sul radicamento delle mafie in Veneto, quando ricopriva il ruolo di procuratore aggiunto a Venezia, sede della distrettuale antimafia, si occupava di reati contro la pubblica amministrazione, corruzione e responsabilità medica. L’indagine più celebre che ha coordinato è stata quella sul sistema di mazzette del Mose, la diga mobile realizzata per arginare l’acqua alta nella città lagunare. Peraltro la sua permanenza nella procura veneziana coincide con il periodo della negazione istituzionale della presenza mafiosa fuori dai confini delle regioni tradizionali. E infatti finché Nordio è stato in procura (è andato in pensione nel 2017) le uniche inchieste su ‘ndrangheta, camorra e mafia siciliana in affari tra Venezia, Padova e Verona, sono state portate avanti dagli uffici giudiziari di Reggio Calabria, Catanzaro, Napoli e Palermo. Le cosche erano impegnate in una massiccia operazione di investimento di quattrini sporchi nella regione di Nordio, ma reparti investigativi e uffici giudiziari veneti faticavano a interpretare i segnali provenienti dal territorio. L’unica operazione degna di nota risale agli anni 2011-2012, si trattava di un gruppo talmente violento e brutale che era impossibile da non coglierne la mafiosità. Per colpire gruppi dai modi più felpati sarà necessario attendere quasi dieci anni, con una procura antimafia di Venezia rinnovata e detective giunti in Veneto con molta più esperienza. Ma nel frattempo il ministro, all’epoca procuratore aggiunto, era già andato in pensione. Per molto tempo politica, imprenditori, professionisti, magistratura e forza dell’ordine hanno sottovalutato il fenomeno, riducendolo a questione di bande violente e armate. Sfuggiva il carattere finanziario e insospettabile delle cosche, rappresentate su quei territori da emissari iscritti con le proprie imprese alla camera di commercio, che godono di appoggi nei municipi, negli studi dei notai e persino appoggi nelle questure e nei comandi dei carabinieri. La commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, nella relazione finale del 2018, ha criticato le procure venete: c’è “la necessità di migliorare il coordinamento e la collaborazione tra le varie autorità giudiziarie e di aumentare la specializzazione e la formazione specifica per i magistrati che si occupano di criminalità organizzata di stampo mafioso”. La stretta sulle intercettazioni annunciata da Nordio rischia di spuntare le armi contro i clan. Il ministro ha rassicurato i critici spiegando che le misure non riguarderanno reati di mafia e terrorismo. Ha aggiunto, inoltre, che non toccherà i reati satelliti ai primi due. Quindi sarà costretto a inserire in un ipotetico elenco di delitti satellite un po’ di tutto per evitare di complicare la vita a chi indaga sui sistemi mafiosi. Perché le indagini sulle mafie spesso nascono da verifiche su danneggiamenti, incendi, furti, abusi d’ufficio, gare d’appalto, corruzione. Persino una rapina o una truffa potrebbe portare al cuore finanziario di un’organizzazione mafiosa. Perché lanciare un messaggio del genere nei giorni in cui si celebrava l’arresto dei boss dei boss della mafia? Quella di Nordio è solo propaganda o ignoranza del fenomeno? Quale sia la risposta, in entrambe i casi, la situazione è seria. Resta da capire come l’attacco all’antimafia in aula a Montecitorio si concili con la retorica di Giorgia Meloni, che va ripetendo di avere iniziato a fare politica sull’esempio dell’impegno di Paolo Borsellino, il giudice ucciso dal tritolo, sul quale ci sono le impronte di Messina Denaro. Costa: “Nordio vuole una giustizia garantista, la stessa che chiede il Terzo polo” di Liana Milella La Repubblica, 24 gennaio 2023 “Se essere nordiano significa stare dalla parte della Costituzione, allora sì, sono nordiano” dice il responsabile Giustizia di Azione. Che definisce “una bufala pazzesca” le dimissioni di Nordio che “alla Meloni piace per quello che è”. “Io e tutto il Terzo polo stiamo dalla parte di Nordio e lo dimostreremo con le nostre proposte”. Tra i responsabili Giustizia, è il più anti giudici. Enrico Costa li vuole fuori da tutto, a cominciare dai ministeri, e pure da palazzo Chigi. Costa, lei è molto più nordiano dei tre sottosegretari alla giustizia Sisto, Delmastro e Ostellari... “Se essere nordiano significa stare dalla parte della Costituzione, della presunzione d’innocenza, della ragionevole durata del processo, e contro gli abusi della custodia cautelare e delle intercettazioni, ebbene sì, ammetto la mia colpa”. Eh no, deve dire la verità, nessuno dei tre sottosegretari si fa interprete del “nordio” pensiero come lei... “Non mi faccia dare pagelle ai colleghi. È sotto gli occhi di tutti che non cantino in coro con il ministro, che peraltro non ne ha bisogno perché sa fare benissimo il solista. E comunque non ha bisogno di selfie per non sentirsi solo”. Ma quando è esplosa questa passione per Nordio? “Da molto tempo. E in tempi non sospetti. Ho letto quello che scrive e lo condivido”. E però Meloni lo ha messo sotto tutela dopo le spinte del suo stesso partito per farlo dimettere... “Questa storia delle dimissioni è una bufala gigantesca. La presidente Meloni ha nominato Nordio ben conoscendo le sue idee e le sue posizioni. E non può trasformarlo in un burocrate”. E ha messo nel conto che Nordio parla più da commentare dei giornali che non da ministro? “Nordio parla da Nordio. Non dovrebbe esserci nessuna differenza tra quanto ha scritto prima di diventare ministro e quanto dice da Guardasigilli. Vorrebbero forse un ministro opportunista che dice una cosa prima di farsi nominare e affievolisce le sue tesi una volta in via Arenula?”. Ma la politica è questo. Non andare a sbattere contro un muro per essere coerenti con se stessi... “La coerenza invece è fondamentale. Soprattutto in una materia come la giustizia. E lo dice una forza politica come Azione che ha fatto approvare la presunzione d’innocenza, il fascicolo per valutare i magistrati, il diritto all’oblio per gli assolti, e l’ordine del giorno per tornare alla prescrizione ante Bonafede”. Tutti obiettivi identici a quelli di Berlusconi, forse perché lei è stato berlusconiano? “Partito che non ho esitato a lasciare quando si è appiattito sulle posizioni della Lega e di FdI”. Tweet ogni giorno contro i giudici, ma Calenda è d’accordo con lei? “Con lui ci confrontiamo sempre, è un vero liberale e vuole una giustizia in cui la sfera privata e i rapporti intimi non finiscono sui giornali”. Magari su questo lei è più vicino a Renzi che a lui... “Siamo un gruppo che ha un’identità ben chiara sulla giustizia, e con chiunque sentirà le stesse cose”. Per caso vuole entrare in maggioranza e rubare il posto a Sisto? Lui è molto più moderato di lei... “Sisto è un amico...”. Non dica bugie... “Noi siamo all’opposizione, ma non cieca come quella del Pd che arriva al punto di votare contro il ritorno alla prescrizione di Orlando. Opposizione costruttiva significa portare proposte e migliorare le norme”. Sulle intercettazioni lei ha coperto l’inaccettabile intemerata di Nordio contro i pm. Lo ha pure applaudito? “Certo, siamo contro gli abusi, le intercettazioni spiattellate sui giornali, i pdf delle ordinanze di custodia cautelare che circolano in rete”. Vuole eliminare anche il Trojan proprio come lui? “È uno strumento altamente invasivo che registra pure in bagno e in camera da letto”. Ma lo sa che adesso, come dice il pm Albamonte, nessuno più parla al telefono fisso e al cellulare e tutti whatsappano, per cui senza Trojan le indagini sono morte? “Il Trojan può fare video, prendere documenti sul cellulare, scaricare le foto, addirittura file nel cellulare. Va regolato in modo rigido e usato solo per reati gravissimi”. La corruzione senza intercettazioni? I benefici penitenziari ai corrotti? Guardi che così fa il gioco dei delinquenti... “Molte indagini possono essere risolte senza intercettazioni, con i metodi tradizionali, ma non si usa più perché è più comodo premere un tasto e scaricare centinaia di ore di conversazioni. La Costituzione non consente tutto questo”. Adesso ce l’ha pure con noi giornalisti, la sua presunzione d’innocenza sta facendo cacciare i cronisti fuori dalle procure e, non contento, vuole pure toglierci le ordinanze di custodia cautelare integrali? E che siamo, nella Russia di Putin? “Ma lei lo sa che un titolo su un’indagine può distruggere la vita di un uomo e anche chi esce innocente porterà una cicatrice indelebile?”. Intercettazioni, un dibattito fuori tempo massimo di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 24 gennaio 2023 Dopo la riforma entrata in vigore nel 2020 non servono nuove sanzioni: la prova è l’assenza anche solo di ipotesi su come intervenire. Chissà cosa starà pensando l’uomo della strada, fra una bolletta da pagare e il mutuo che aumenta, dell’ennesimo dibattito sulle intercettazioni che, depurato per quieto vivere dei profili più rischiosi presso l’opinione pubblica, si è focalizzato, more solito e con minori rischi, sulle nuove punizioni da infliggere a chi diffonde quelle irrilevanti per le indagini, sia esso il magistrato che le riporta in atti non più segreti o il giornalista che le pubblica. Oltre che stucchevole, il dibattito oggi è fuori tempo massimo, per le drastiche modifiche che intanto sono state apportate alle norme che regolano la materia. Era il 9 luglio 2010, quando la Fnsi indiceva una manifestazione nazionale contro la legge di riforma delle intercettazioni, il cosiddetto ddl Alfano che limitava i casi nei quali era legittimo pubblicarle, comminando ai contravventori pene detentive: non fu convertito e decadde nel 2011. Nel 2017 ci ha provato e ci è riuscito, invece, il ministro Orlando, con la riforma che porta il suo nome, l’allora ministro della giustizia Bonafede l’aveva bloccata, ma il 1° settembre 2020 è entrata in vigore, se pure modificata, ma reputata dai più un buon compromesso fra opposti interessi. Da qui il silenzio fino ad oggi e senza che ci sia stato intanto un qualche abuso, vero o presunto, che ne giustifichi l’interruzione. Questa volta, infatti, l’innesco è tutto politico, oltre che ingiustificato, oggi c’è un’udienza filtro, alla fine delle indagini, presenti le parti, nel corso della quale un giudice individua le conversazioni rilevanti per accusa e difesa, il cui contenuto potrà essere pubblicato; e manda tutte le altre in un archivio segreto, nella esclusiva disponibilità del procuratore capo, che risponde in prima persona delle eventuali fughe di notizie. Residua è vero l’ipotesi del deposito al difensore di tutte le intercettazioni, quando viene eseguita una misura cautelare, con la possibilità che una copia arrivi poi ai giornalisti. Ma si tratta di professionisti, tenuti al rispetto della privacy dei soggetti coinvolti da precise norme deontologiche, violando le quali rispondono anche civilmente dei danni causati, dunque se capita non servono nuove sanzioni. E la miglior prova è data dalla totale assenza al momento di disegni di legge, decreti o anche solo ipotesi concrete, su cosa e come intervenire, a conferma della totale confusione in cui sembra versare chi ne parla da giorni. È su precise modifiche al sistema attuale che occorrerà confrontarsi se e quando arriverà il momento. Risultano, perciò, surreali i botta e risposta sul niente, fra esponenti della maggioranza di governo, dove c’è chi auspica nuove sanzioni, anche se solo disciplinari e chi incredibilmente prende le parti dei mai amati giornalisti, escludendo il ricorso al bavaglio, parola che fa scattare il riflesso pavloviano delle consuete reazioni, a tutela della libertà di stampa, in un circolo vizioso in salsa déjà vu, che annoia più che stimolare, difettando lo stesso oggetto del contendere. È mancato e manca ancora oggi, invece, il coraggio di dire con chiarezza qual è l’obiettivo, per così dire la ratio delle riforme, da sempre vagheggiate da governi e Camere, quale che sia la maggioranza in carica e senza neppure una netta demarcazione fra appartenenze politiche, che usano come paravento la riservatezza di indagati, familiari, affini e conoscenti o la necessità che la sempre utile opinione pubblica sappia tutto quel che c’è da sapere, costi quel che costi. L’obiettivo è sempre quello, spuntare le unghie, in verità già corte, sia di chi può ancor più offuscare, dando spazio a parole in libertà, un’immagine già incrinata, sia di chi conduce un’indagine che, se resta silenziata, dà meno fastidio. In questi ultimi giorni impazza la tesi secondo cui ci sarebbero fini politici, che prescinderebbero del tutto dai diritti in gioco, persino dalla annosa contrapposizione fra politica e magistratura. Ma se l’oggetto delle preoccupazioni fossero davvero le intercettazioni e il loro uso indiscriminato, la sempre verde gogna mediatica, si potrebbe stare tranquilli. Se, invece, l’occasione per regolare conti interni viene usata ancora una volta anche per evitare il rischio, oramai remoto, ma sempre possibile, che vengano fuori conversazioni imbarazzanti, penalizzando chi le diffonde, è preoccupazione che non affligge certo quell’uomo della strada, perbene e rispettoso delle leggi, che ha la stessa possibilità di entrare in un brogliaccio quanto di vincere all’enalotto. Nicola Gratteri: “Senza intercettazioni indagini a rischio. Sulle pubblicazioni polemica inutile” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 24 gennaio 2023 Il procuratore di Catanzaro: “Con le carriere separate pm sottomessi all’esecutivo. Il Parlamento supino nei nostri confronti? Non ci sarebbe stata la riforma Cartabia”. A differenza di quello che dice il ministro della Giustizia Carlo Nordio, “cambiare le norme sulle intercettazioni non serve né a evitare abusi né a tutelare la privacy”. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri ritiene totalmente “infondate” le motivazioni tirate fuori in questi giorni dal Guardasigilli. Mettiamo da parte i reati di mafia e corruzione, che sarebbero esenti dalla modifica. Per tutti gli altri si possono fare indagini efficaci senza avere accesso agli ascolti? “Le rispondo con un paio di esempi. Poniamo di essere davanti a un reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Con indagini tradizionali, come le verifiche fiscali, si può giusto arrivare ai prestanome, senza patrimonio e ignari del meccanismo. I veri registi, i professionisti compiacenti e i beneficiari dei profitti, tutti sempre coinvolti in organizzazioni di stampo criminale, senza intercettazioni non si colpiranno mai”. Ne ha pronto un altro... “Certo, la corruzione mediante consulenze fittizie: senza intercettazioni gli inquirenti acquisiranno contratti di consulenza e pagamenti mediante bonifici apparentemente regolari. Ma non potranno dimostrare che le parcelle sono in realtà mazzette da destinare a pubblici ufficiali”. Insomma, le ritiene indispensabili... “Lo sono”. Che tipo di inchieste sarebbero a rischio se il governo andasse avanti con la riforma prospettata da Nordio? “Inchieste su reati contro la pubblica amministrazione, reati finanziari, bancarotte, organizzazioni dedite a furti e rapine. Estorsioni. È un lungo elenco”. La maggioranza accusa: sui giornali escono ancora intercettazioni non rilevanti, come nel caso Zaia-Crisanti... “La riforma entrata in vigore il 1 settembre 2020 è chiara: le conversazioni non rilevanti non possono essere inserite in atti, ma devono confluire in un archivio riservato. Se chi ha accesso all’archivio le divulga, commette un reato. Nel caso che cita, se sono state divulgate, evidentemente sono state ritenute rilevanti”. Al di là delle intercettazioni, cosa pensa dell’impianto di riforma proposto dal governo? “La separazione delle carriere è assolutamente inutile, perché di fatto una separazione già esiste, attraverso gli assai rigidi limiti territoriali e numerici di cambio di funzioni. In più, è negativa, perché fa perdere la cultura giurisdizionale al pm, come soggetto terzo nelle indagini. E spalanca le porte a qualcosa di ancora peggiore”. Cosa? “La sottomissione del pm all’esecutivo”. Secondo Nordio è il Parlamento a essere supino rispetto ai magistrati... “Se fosse così oggi non avremmo la riforma Cartabia, che la magistratura non ha certo voluto”. Il governo si è impegnato a correggere l’effetto pericoloso dell’improcedibilità d’ufficio per alcuni reati... “Quello dei reati a querela è solo l’antipasto, se mi consente il termine”. Cos’altro non funziona? “Vengono appesantite le procedure, rendendo più difficoltosa l’organizzazione degli uffici piccoli e più lunghi i processi di primo grado. In più, quando si arriva in appello, dopo tutto l’impegno profuso, in molti casi arriva la mannaia della improcedibilità. Il sistema è destinato a girare a vuoto”. Ma condivide la necessità di velocizzare i processi? “Certo, ma per farlo bisogna ottimizzare le risorse che sono mal distribuite. Nella sanità si sono chiusi importanti presidi ospedalieri sul territorio, e non si ha il coraggio di chiudere tribunali piccoli distanti 20 o 30 km da quelli più grandi, peraltro alla vigilia dell’entrata in vigore, anche nel penale, del processo telematico”. Basterebbe questo? Pura logistica? “No, serve una depenalizzazione di reati che di fatto non hanno alcuna valenza offensiva. Si devono snellire le procedure, facendo esattamente l’opposto di quanto dettato dalla Cartabia”. E poi forse bisognerebbe alleggerire le carceri, sovraffolate, troppo spesso teatro di violenze, dove i suicidi sono in costante aumento... “Il problema lo si risolve costruendo carceri attrezzati, potenziando le comunità di recupero dei tossicodipendenti, evitando a questi ultimi di andare in carcere”. È possibile ci sia stata una trattativa per la cattura di Matteo Messina Denaro? “Non conosco il caso e non mi esprimo su ciò che ignoro”. Riformulo. È possibile nascondersi 30 anni in “pieno giorno”, nei luoghi di sempre? “Parlo in linea generale. Il reato di associazione mafiosa ha come elemento strutturale la valenza intimidatoria come fonte di omertà. Se in una comunità la presenza della mafia è forte, sarà meno facile per lo Stato penetrarvi”. Quindi sì, è possibile... “Il boss dal territorio non può fuggire. Il suo allontanamento verrebbe percepito come segno di debolezza. In quel territorio Matteo Messina Denaro, figlio di don Ciccio Messina Denaro, è nato e cresciuto. Aveva molti protettori e tanti fiancheggiatori. Mi auguro che le indagini possano fare luce anche su questo aspetto”. Ma alla fine questa cattura rappresenta un successo per lo Stato o un fallimento visto il ritardo con cui ci si è arrivati? “Godiamoci il successo, senza cercare sempre il pelo nell’uovo. È stato arrestato un latitante che apparteneva a un gruppo mafioso che è stato sconfitto. Non era il capo dei capi o il re di Cosa nostra, come è stato irresponsabilmente definito. Ma un boss che andava arrestato”. Com’è cambiata la mafia in questi trent’anni? Deve farci più o meno paura? “Una delle caratteristiche delle mafie è la loro capacità di adattamento. Oggi, sparano di meno, ma sono molto più pericolose. Attenzione a credere che con l’arresto di Messina Denaro la pratica sia stata chiusa. Ripeteremmo gli stessi errori commessi nel passato. Quello che è mancato nel tempo - e mi riferisco agli ultimi 150 anni - è stata la continuità investigativa e la volontà politica nel combattere le mafie, sempre e comunque”. Quindi, più paura... “Se la mafia siciliana prende esempio dalla’ndrangheta, che ha mantenuto negli anni una strategia silente, evitando di far parlare di sé con atti eclatanti, e insinuandosi progressivamente nel tessuto sociale ed economico del centro nord e di importanti Stati europei, c’è poco da essere sereni”. La famosa borghesia mafiosa... “È sempre esistita. Se n’erano già accorti Franchetti e Sonnino nella loro inchiesta in Sicilia del 1876. I “facinorosi della classe media” erano la borghesia mafiosa di oggi. Le relazioni esterne da sempre costituiscono l’ossatura del potere mafioso. Oggi professionisti senza scrupoli, al servizio delle cosche, mettono a disposizione il proprio know how, per permettere alla mafia di operare dove non è tecnicamente in grado di farlo. Pensi alle raffinate operazioni di riciclaggio internazionale”. Messina Denaro ha già detto che non parlerà. Pensa che comunque seguire le tracce dei suoi covi e delle sue coperture porterà nuove verità? Quelle verità che in questi giorni invocano più di tutti i parenti delle vittime? “Le condizioni di salute di Messina Denaro non sono ottimali, da quello che ho letto sui giornali. Vorrei essere smentito, ma non mi sembra il tipo che possa decidere di collaborare con lo Stato. Se lo facesse sarebbe possibile chiudere definitivamente la stagione stragista, raccontando quello che ancora non si sa. E che in tanti vorremmo sapere”. Csm, tre candidati per il dopo Ermini. Ma i favoriti sono Romboli e Pinelli di Simona Musco Il Dubbio, 24 gennaio 2023 Il candidato del Pd potrebbe ottenere anche i voti di Curzio e Salvato. MI pronta a votare per Bianchini. Tre nomi per una poltrona. La sfida per la vicepresidenza del nuovo Csm, che oggi verrà ufficialmente presentato al Quirinale dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non è un fatto che si limita alla sola gestione dell’organo di autogoverno delle toghe. Ma va oltre, proiettando su Palazzo dei Marescialli i tormenti di una maggioranza impegnata, in queste ore, a respingere le accuse di chi vuole l’esecutivo traballante e destabilizzato dalle uscite del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Così, mentre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni rinnova la fiducia all’ex magistrato personalmente voluto a via Arenula, dalle parti della Lega - in prima fila il segretario Matteo Salvini - si prova a gettare acqua sul fuoco, invitando ad evitare un nuovo “scontro tra politica e magistratura” che non porta “da nessuna parte”. Un appello che non è apparso totalmente disinteressato, data l’imminenza del voto per la scelta del vicepresidente. E, dunque, la mossa di Salvini potrebbe rappresentare un tentativo per convincere i togati ancora indecisi a schierarsi per il candidato del Carroccio, regalando all’ex ministro dell’Interno un posto in prima fila in un organo istituzionale. A contendersi il posto dell’uscente David Ermini sono infatti Fabio Pinelli, l’avvocato voluto dalla Lega, difensore di diversi esponenti del Carroccio; il professore Roberto Romboli, da ottobre scorso emerito di Diritto costituzionale all’Università di Pisa e il più votato tra i consiglieri laici, voluto a Palazzo dei Marescialli del Partito democratico, e Daniela Bianchini, docente di Diritto di famiglia e minorile presso l’Università Lumsa e portata al Csm da Fratelli d’Italia. Una sfida che si gioca su una manciata di voti e sulla quale potrebbe essere decisiva la scelta del presidente della Cassazione Pietro Curzio e del procuratore generale Luigi Salvato di esporsi in favore di uno dei candidati, “rompendo” dunque la tradizione che vede queste due figure astenersi dal voto. Una “forzatura istituzionale che prefigura una spaccatura molto forte, quasi inedita”, commenta qualcuno tra i banchi del centrodestra. Tale “forzatura”, attualmente, è solo un’ipotesi. Ma la stessa potrebbe cambiare le carte in tavola: stando ai rumors, infatti, Curzio e Salvato sarebbero pronti a votare per Romboli, che avrebbe dalla sua anche i sei togati di AreaDg, Domenica Miele di Md, l’indipendente di sinistra Roberto Fontana e il giurista Michele Papa, nome portato al Csm dal M5S. Per Pinelli - fino a ieri dato per favorito dal centrodestra - sono invece in gioco i voti dei sette laici di Fdi, Lega e FI e quello di Ernesto Carbone, del Terzo Polo, che mai e poi mai voterebbe per un candidato dal Pd. Voti ai quali si potrebbero aggiungere quelli dei sette laici di Magistratura Indipendente che però, stando alle voci del corridoio di Palazzo dei Marescialli, propenderebbero per Bianchini. Qualora, però, questo nome non raggiungesse i voti necessari (e allo stato attuale lo scenario sembra questo), i consiglieri di MI potrebbero virare su Pinelli, che raggiungerebbe così 15 voti. E l’avvocato da giorni starebbe sponsorizzando la propria candidatura, puntando soprattutto sul proprio ruolo di garanzia, in quanto figura né di destra né di sinistra, capace di avere tra i suoi sponsor anche l’ex presidente della Camera Luciano Violante, che è con lui nella Fondazione Leonardo. Un candidato super partes, dunque, capace di mettere tutti d’accordo. Ma i numeri stanno ancora dalla parte di Romboli. E rimane coperta la carta di Unicost, che conta quattro togati, capaci di fare, insieme all’indipendente Andrea Mirenda, da ago della bilancia. La corrente moderata delle toghe non avrebbe ancora scelto alcun candidato: l’intenzione è quella di valutare uno per uno i curricula dei consiglieri e i titoli in ballo prima di fare un nome. Valutazione che, in ogni caso, potrebbe cambiare alla luce delle prime dichiarazioni durante il plenum di mercoledì, convocato in tempi record dal Quirinale proprio per chiudere l’esperienza passata e porre fine ad una prorogatio che andava avanti ormai da troppi mesi. I giochi si chiuderanno nel giro di 48 ore. E oggi, a partire dalle 11, ci sarà il passaggio ufficiale del testimone, con il commiato dei componenti uscenti e l’investitura dei nuovi. Dopo il messaggio di saluto del vicepresidente Ermini, il Presidente Mattarella incontrerà privatamente i nuovi consiglieri al Quirinale. Subito dopo, gli uffici del Csm avvieranno la verifica dei titoli dei laici eletti, passaggio fondamentale prima della convocazione ufficiale del plenum per l’elezione del vicepresidente. Una partita delicatissima, dato che, da giorni, circolano dubbi su almeno tre degli eletti (due dei quali in corsa per il dopo Ermini), alla luce delle nuove disposizioni che prevedono un esercizio effettivo di 15 anni della professione forense o di quella accademica per poter varcare la soglia di Palazzo dei Marescialli. Si tratta di Daniela Bianchini e Rosanna Natoli da un lato e di Romboli dall’altro. Quest’ultimo - questa è l’obiezione - non è più ordinario (in quanto in pensione), bensì esterno e non è iscritto all’albo degli avvocati. A risolvere la questione, ora, sarà la Commissione verifica titoli, composta da due togati e un laico, quest’ultimo scelto fra quelli che hanno preso più voti. E una volta sciolto l’ennesimo nodo, il nuovo Csm sarà finalmente pronto per lavorare, trovandosi davanti sin da subito - dopo l’inaugurazione dell’anno giudiziario prevista per giorno 26 - una pratica difficilissima, l’elezione del nuovo presidente della Cassazione, che per la prima volta potrebbe essere una donna: l’attuale vice di Curzio, Margherita Cassano. La Lega punta sul Csm per arginare lo strapotere di FdI sulla giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 24 gennaio 2023 Il 25 gennaio il plenum eleggerà il nuovo vicepresidente del Consiglio superiore, per cui servono almeno 17 voti. Matteo Salvini punta sul laico Pinelli che ha il sostegno delle toghe conservatrici. Lo scontro con il dem Romboli, però, rischia di spaccare il plenum Determinanti i voti di Unicost. La giustizia mette in crisi la maggioranza e sta diventando l’arma della Lega per ridimensionare lo strapotere di Fratelli d’Italia all’interno della coalizione. Favorito dagli errori del partito di Giorgia Meloni, il vicepremier Matteo Salvini si sta aprendo uno spazio che è soprattutto mediatico ma punta a diventare anche politico. Mediaticamente il leader leghista ha deciso di presentarsi come l’antagonista del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Archiviate le battaglie referendarie di maggio in favore della separazione delle carriere, ha auspicato la pacificazione tra politica e magistratura ed è diventato difensore delle intercettazioni e dei magistrati. Politicamente, invece, la Lega sta sfruttando al massimo l’errore di FdI al momento dell’elezione dei consiglieri laici al Csm. Meloni puntava a portare a palazzo dei Marescialli l’avvocato calabrese Giuseppe Valentino, nome forte anche per la carica di vicepresidente, ma la sua nomina è saltata in corsa a causa di una vecchia inchiesta per ‘ndrangheta in cui risulta implicato. Il subentrante, il costituzionalista Felice Giuffrè, non sarebbe considerato un nome papabile per la vicepresidenza dai togati perché troppo connotato politicamente, visto il suo passato nel Msi. In questo vuoto lasciato da FdI si è inserita la Lega con l’avvocato Fabio Pinelli. Considerato un tecnico, ha buoni appoggi bipartisan perché è stato il legale di Armando Siri e della regione Veneto ma, in quanto membro della fondazione Leonardo, gode anche dell’appoggio dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante. Il vicepresidente del Csm - oltre ad avere un filo diretto con il Quirinale che formalmente presiede l’organo di governo autonomo della magistratura - ha un ruolo chiave nei rapporti con il ministero della Giustizia. Nel caso specifico di questa legislatura sarà chiamato a fare da contraltare a un guardasigilli notoriamente poco amato dalle toghe, dando voce alle istanze dell’ordine giudiziario. Per questo, avere un vicepresidente d’area significa dare alla Lega una voce in più in un settore chiave, insidiando l’egemonia di FdI. Tra il partito di Salvini e questo obiettivo, però, ci sono le dinamiche della componente togata del Csm, che si orienta secondo logiche diverse da quelle politiche. Oggi si insedia il nuovo plenum ed è la prima volta che tutti gli eletti si incontrano, domani invece si voterà il vicepresidente e, anche se il voto è segreto, è atteso un dibattito e la presentazione degli orientamenti dei pretendenti dell’ufficio che nel passato consiglio è stato di David Ermini. La componente più numerosa tra i togati è quella del gruppo conservatore di Magistratura indipendente, con 7 membri, che è ben disposto nei confronti di Pinelli, considerato un buon tecnico del diritto di cui viene apprezzata la connotazione politica molto sfumata. Tra i togati, infatti, si riflette sul fatto che un nome formalmente “amico” per la maggioranza di governo, ma comunque sufficientemente indipendente da non subirne troppo il condizionamento, potrebbe essere una buona chiave per aprire un dialogo alla pari e non di pregiudiziale antagonismo con via Arenula. Il fronte progressista, composto dai sei togati di Area e, per appartenenza culturale, anche dall’eletta di Magistratura democratica, guarda invece con favore al profilo del laico di area Pd, Roberto Romboli. Costituzionalista dell’università di Pisa con molte pubblicazioni anche in tema di ordinamento giudiziario, ha un curriculum che viene considerato il più adatto per la vicepresidenza. Inoltre, proprio nell’ottica di contrastare le posizioni di Nordio, un vicepresidente proveniente dalla minoranza parlamentare sarebbe un segno forte da parte della magistratura. Nel mezzo di queste due posizioni ma, almeno per appartenenza culturale, più orientati su Romboli sarebbero i due indipendenti, Roberto Fontana e Andrea Mirenda. I due hanno una storia personale che li avvicina ai gruppi progressisti ma sono stati eletti in modo autonomo e così si muoveranno, senza venire assimilati a un gruppo. Lo stesso vale anche per i due membri di diritto del consiglio: il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, e il procuratore generale Luigi Salvati, entrambi provenienti dall’area progressista. Sulla carta, dunque, si arriva al pareggio: 14 voti per il fronte conservatore, 14 per quello progressista. Per questo, determinanti sono soprattutto i quattro voti del gruppo centrista di Unicost. Da quest’area filtra attesa di conoscere di persona i togati durante il primo plenum e un identikit di massima del vicepresidente ideale: un giurista dal buon curriculum tecnico e con l’autorevolezza per essere super partes. Nessuna preclusione sui nomi, trapela solo la volontà di eleggere un vicepresidente a larga maggioranza, uscendo dalle dinamiche di corrente. Sarebbe un segnale di unità dopo i difficili quattro anni del Csm uscente ma sarà complicato darlo, viste le pressioni politiche e le contrapposizioni anche tra i togati. Certo è che la giustizia è al centro di uno scontro politico e il cui campo si sta allargando al nuovo consiglio. Processo penale, le indicazioni della Procura di Napoli su intercettazioni, querele e depositi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2023 Il documento inviata a tutti Procuratori, alle Questure ai comandi dei Carabinieri, oltreché alla Prefettura, al Consiglio dell’Ordine degli avvocati è finalizzato ad assicurare una tempestiva ed uniforme applicazione della nuova normativa e dei relativi istituti di garanzia. Dopo la Corte di Cassazione, anche la Procura della Repubblica del Tribunale di Napoli fornisce le “Prime indicazioni operative generali” sull’applicazione delle norme del processo penale appena riformato e in vigore dal 30 dicembre scorso. Le indicazioni, firmate da Rosa Volpe, sono state inviate a tutti i Procuratori, alle Questure ai comandi dei Carabinieri, oltreché alla Prefettura, al Consiglio dell’Ordine degli avvocati ed alla locale camera penale, e sono “finalizzate ad assicurare una tempestiva ed uniforme applicazione della nuova normativa e dei relativi istituti di garanzia e tutela delle parti a vario titolo interessate nell’attività investigativa e processuale”. L’oggetto ovviamente è il decreto legislativo n. 150/2022 (cd. Riforma Cartabia), in vigore dal 30 dicembre 2022, (Dl n. 162 del 31 ottobre 2022 e successiva conversione in legge, con modificazioni, n. 199 del 30 dicembre 2022 - pubblicata su G.U. n.304 del 30.12.2022). La Riforma, si legge, “introduce diverse novità che afferiscono a vari istituti processuali, a cominciare da quelli direttamente incidenti sulla fase delle indagini preliminari e, quindi, di diretto interesse operativo anche per l’attività della polizia giudiziaria”. Per prima cosa vengono riepilogati i reati divenuti a querela di parte. Sul punto si deve tuttavia ricordare che il Consiglio dei ministri, il 19 gennaio scorso, ha approvato un Ddl che reintroduce la procedibilità quando è contestata l’aggravante del “metodo mafioso” o della finalità di terrorismo o di eversione. Inoltre, la procedibilità d’ufficio torna anche per il reato di lesione personale, quando è posto in essere da persona sottoposta a una misura di prevenzione personale, fino ai tre anni successivi al termine della misura stessa. Ad ogni modo il decreto legislativo 150/2022 attualmente in vigore “amplia significativamente il catalogo dei reati procedibili a querela di parte”. Ne derivano, pertanto, conseguenze immediate anche sull’attività della polizia giudiziaria. I reati divenuti procedibili a querela dunque sono: 1) lesioni personali volontarie (art. 582 c.p.), la procedibilità d’ufficio rimane però in quattro casi più gravi, fa cui quelle in danno degli esercenti le professioni sanitarie. Diventano a querela di parte (salvo nel caso di aggravanti) 2) le lesioni personali stradali gravi o gravissime (art. 590 bis c.p.); 3) il sequestro di persona (art. 605 c.p. primo comma); 4) la violenza privata (art. 610 c.p.); 5) la violazione di domicilio (art. 614 c.p.); 6) l’ipotesi di furto aggravato previste dagli articoli 624 e 625 c.p.; 7) turbativa violenta del possesso di cose immobili prevista dall’art. 634 c.p.; 8) danneggiamento previsto dall’art. 635 primo comma c.p. ; 9) truffa prevista dall’art. 640 c.p„ comma 1.; 19) frode informatica prevista dall’art. 640 ter c.p. (reato per cui è prevista la competenza di questo Ufficio distrettuale); 11) contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone ex art. 659 c.p„ primo comma; 12) contravvenzione di molestia o disturbo alle persone ex art. 660 c.p.. Per tutti questi casi la Procura dettaglia poi quando non si procede comunque d’ufficio. Solo nei casi in cui sono in corso di esecuzione misure cautelari personali, in relazione a reati ora divenuti procedibili a querela, spiega la nota, l’Autorità Giudiziaria, nel termine di venti giorni dalla entrata in vigore della Riforma, è tenuta ad interpellare la persona offesa in ordine all’esercizio del diritto di querela. In difetto, precisa la Procura, la misura cautelare perde efficacia. Dalla lettura sistematica del primo e del secondo dell’art. 85, per la Procura si evince che anche in assenza di misure cautelari personali, se la persona offesa non ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato ne deve essere notiziata al fine di esercitare il diritto di querela, il cui termine (ordinario: di novanta giorni) decorrerà dal giorno in cui è stata informata. Analogo comportamento dovrà tenere la polizia giudiziaria, rispetto ai fatti oggetto di investigazione commessi prima del 30 dicembre 2022, in tutti i casi in cui il pubblico ministero non abbia ancora assunto la direzione delle indagini o nei casi in cui il pubblico ministero emetta apposita delega. In particolare, per i reati ora procedibili a querela commessi a partire dal 30 dicembre 2022 - “fra i quali vanno menzionate, per la loro elevata ricorrenza nella pratica giudiziaria, le varie ipotesi di furto aggravato” - la polizia giudiziaria ha il dovere di svolgere con immediatezza due distinti accertamenti: a) l’identificazione della persona legittimata a proporre querela (non agevole, quando il soggetto leso sia una società o una persona giuridica); b) la verifica se il soggetto leso e legittimato a proporre querela intenda o meno presentare l’istanza punitiva. In difetto di presentazione immediata di querela, “per l’intero catalogo dei nuovi reati procedibili a querela vi è assoluto divieto di procedere all’arresto in flagranza o all’adozione di misure cautelari”. Riguardo poi al processo telematico si precisa che in attesa della concreta operatività della nuova disciplina, la polizia giudiziaria “avrà cura di osservare puntualmente le direttive che la Procura di Napoli ha già adottato in tema di deposito, unicamente per via telematica, delle annotazioni preliminari e dei relativi seguiti sul portale delle notizie di reato”. Altre istruzioni vengono fornite sulle modalità di indentificazione delle persone e sulla documentazione degli atti; ma anche sul compimento degli atti a distanza e sugli oneri informativi rispetto alla possibilità di accedere alla giustizia riparativa. Riguardo poi il controllo giurisdizionale sulle attività di perquisizione, si precisa che l’obbligo di motivazione “dovrà allora essere coerente nell’illustrare, anche in assenza di una notizia di reato già acquisita, i presupposti che legittimano I’intervento”. Pertanto, la polizia giudiziaria “eviterà di ricorrere a formule di stile vuote o stereotipate, illustrando. proprio per consentire un concreto controllo di legittimità (sia da parte del p.m in sede di convalida, sia eventualmente in sede di opposizione ex art. 352. comma 4 bis, c.p.p.). le ragioni a fondamento dell’intervento”. Ma vengono fornite anche indicazioni riguardo la iscrizione della notizia di reato, in particolare sulla retrodatazione ad istanza di parte e i relativi riflessi sull’efficacia dell’attività di indagine. Per la Procura “appare evidente… il ruolo fondamentale che è chiamata a svolgere la polizia giudiziaria ai fini della sollecita individuazione di nuovi soggetti e/o di nuove ipotesi di reato da iscrivere nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.. Infine con riguardo alla attività di intercettazione ed al rischio ritardi nelle iscrizioni, la Procura specifica che in occasione delle richieste di proroga, “risulta indispensabile, onde evitare ritardi (o addirittura omissioni) nelle iscrizioni, segnalare al pubblico ministero - cui ovviamente è rimessa la valutazione finale - eventuali indizi emersi a carico di persone non ancora iscritte (ove individuate) ovvero eventuali, ulteriori ipotesi di reato riferibili a soggetti già iscritti”. In questo senso “appare utile” che, unitamente alla richiesta di proroga dell’intercettazione, la polizia giudiziaria compili una scheda riepilogativa delle emergenze dell’attività di ascolto di cui si chiede il prosieguo, nella quale siano evidenziati: a) eventuali, ulteriori indizi di reato; b) le generalità della persona o delle persone a carico delle quali sarebbero emersi indizi di reato; c) le circostanze di tempo e di luogo del fatto-reato (ove risultino). Lecce. Inchiesta sulla morte di un detenuto in cella. La Procura dispone l’autopsia leccenews24.it, 24 gennaio 2023 Il sostituto procuratore Francesca Miglietta che sta coordinando le indagini, nelle prossime ore, conferirà l’incarico al medico legale Alberto Tortorella, per accertare le cause del decesso di Francesco Novellino, 42 anni, di Taranto, che fra pochi mesi avrebbe finito di scontare la pena per fatti legati alla droga. L’esame autoptico servirà anche a stabilire se i soccorsi siano stati tempestivi. Intanto, la Procura ha delegato la polizia giudiziaria, per l’acquisizione della documentazione relativa al detenuto e l’identificazione di chi doveva eventualmente intervenire per evitare la tragedia. E non è escluso che nelle prossime possano essere notificati i primi avvisi di garanzia. Le indagini hanno preso il via dopo la denuncia della famiglia della vittima. L’uomo era in una cella della sezione R1 della casa circondariale di Lecce in cui sono reclusi i detenuti comuni. L’altra sera avrebbe accusato un malore che sarebbe risultato fatale, anche se si sospettano ritardi nei soccorsi. Infatti, altri ospiti della sezione, avrebbero cominciato a battere sulle sbarre per sollecitare l’intervento del personale. Si sta interessando della vicenda, anche Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, presieduta dall’avvocato Maria Pia Scarciglia, che attende gli esiti dell’autopsia per capire se ci siano state eventuali omissioni. Intanto, come riferito in un altro articolo, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Lecce, Maria Mancarella è intervenuta sulla morte del detenuto avvenuta in carcere pochi giorni fa. Torino. Il Consiglio comunale chiede la revoca del 41bis per Alfredo Cospito quotidianopiemontese.it, 24 gennaio 2023 Approvato in Sala Rossa, questo pomeriggio, un ordine del giorno firmato dal consigliere Silvio Viale che, senza entrare nel merito della vicenda giudiziaria, chiede al ministro della Giustizia Carlo Nordio di rispondere in tempi brevissimi all’istanza presentata per ottenere la revoca del 41 bis ad Alfredo Cospito, il detenuto in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso. Per il firmatario del documento, è una soluzione necessaria per evitare un ulteriore peggioramento delle condizioni di salute di Cospito, attraverso la concreta applicazione dell’articolo 27 della Costituzione che sancisce in modo inequivocabile come: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Detenuto dal 2012, Alfredo Cospito si trova attualmente nel carcere di Sassari dove ha iniziato da quasi cento giorni lo sciopero della fame per protestare contro il regime carcerario al quale è sottoposto. Ha già perso quasi 40 chili, consumato i depositi di grasso e la sua muscolatura va riducendosi verso un catabolismo muscolare irreversibile. Ulteriori peggioramenti fanno temere per la sua vita, avendo superato limiti che hanno già causato, nella storia recente, la morte di altri detenuti in condizioni simili alle sue. L’ordine del giorno è stato approvato con 27 voti favorevoli e 1 astenuto. Milano. Ipm Beccaria: tensione tra detenuti e tentativo di rivolta Il Giorno, 24 gennaio 2023 Non c’è pace per il Beccaria. Domenica sera, la tensione è tornata a salire ben oltre il livello di guardia: una decina di detenuti dell’istituto minorile, stando a quanto risulta al Giorno, ha tentato di forzare lo sbarramento di un braccio della struttura di via Calchi Taeggi. L’obiettivo: scontrarsi con un altro gruppo di reclusi, che si trovavano in un’altra ala e con i quali evidentemente non corre buon sangue. Solo l’intervento degli agenti della polizia penitenziaria ha scongiurato un contatto diretto (e dalle conseguenze imprevedibili) tra le due fazioni rivali: c’è stato qualche spintone per tentare di farsi largo, ma per fortuna non si sono registrati contusi tra le forze dell’ordine. Nel momento di massima difficoltà, è scattata anche la chiamata al 112 per segnalare il principio di rivolta in atto, ma all’arrivo dei carabinieri del Radiomobile l’emergenza era già stata contenuta e i ragazzi riportati nei rispettivi settori. Un raid bloccato sul nascere che arriva al termine di un mese a dir poco turbolento per il Beccaria, iniziato con la maxi evasione di Natale. Alle 16 del 25 dicembre, in sette - quattro diciassettenni, due diciottenni e un diciannovenne - riuscirono ad allontanarsi dal campo di calcio del Beccaria dopo aver distratto chi li stava sorvegliando, sfondarono una protezione di legno nell’area dei cantieri di ristrutturazione, salirono sulle impalcature e si calarono in strada da un muro più basso rispetto al resto della recinzione. Poco dopo, altri detenuti avevano dato alle fiamme alcuni materassi, creando ulteriore caos e rendendo necessario l’intervento risolutivo delle squadre dei vigili del fuoco. In tre (poi trasferiti in altri istituti) erano rientrati quasi subito, convinti dai parenti a interrompere immediatamente la fuga per limitare i danni. Il quarto, un diciassettenne di origini marocchine era stato bloccato dai carabinieri di Sesto San Giovanni, mentre il quinto, di 19 anni, si era costituito la sera del 28 in Questura. Gli ultimi due, un diciottenne e un diciannovenne, erano stati individuati e bloccati il giorno dopo dagli uomini del Nucleo investigativo della polizia penitenziaria, a casa di un amico pregiudicato in Brianza. Il clamore provocato dall’evasione aveva portato a un sopralluogo immediato del direttore generale del Dipartimento di giustizia minorile Giuseppe Cacciapuoti e generato le rassicurazioni del Ministero delle Infrastrutture sulla celere fine (entro aprile) del secondo lotto di lavori cominciati ben 18 anni fa. Finita? No, perché venerdì scorso due giovani detenuti tossicodipendenti hanno incendiato un materasso nel reparto infermeria. Bilancio: altri danni e tre agenti in ospedale in codice giallo per contusioni e lieve intossicazione di fumo. L’altra sera, infine, l’ennesimo episodio di una serie che sembra non avere fine. Milano. Al carcere Beccaria di Milano i ragazzi si ribellano: chiudiamolo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2023 Nella notte tra venerdì e sabato due ragazzi reclusi nel carcere minorile Beccaria di Milano hanno dato fuoco a un materasso nel reparto infermeria dell’istituto. Sembra che i due ragazzi fossero tossicodipendenti e abbiano avuto una crisi di nervi dovuta all’astinenza. Un comportamento grave, non c’è dubbio. Così come grave è stato quello che ha portato sette ragazzi detenuti nello stesso carcere a evadere lo scorso dicembre. Faccio però due considerazioni. La prima: un comportamento grave, ma non alziamo i toni e non facciamolo divenire uno scontro. Il modello italiano di giustizia penale minorile è sempre riuscito - a partire almeno dall’entrata in vigore del codice di procedura penale minorile nel 1988 - a mantenere un approccio di tipo educativo e non prettamente repressivo. Parliamo di ragazzini, di un’età spesso calda per tutti gli adolescenti. Parliamo di personalità in rapida evoluzione e non certo di criminali fossilizzati in una scelta di vita deviante. Parliamo di giovani ai quali la società non può certo decidere di rinunciare. I magistrati minorili, gli assistenti sociali, gli operatori delle carceri e delle comunità sono da sempre uniti nell’intento di gestire questi ragazzi con strumenti di comprensione e di educazione alla vita adulta. I sette ragazzi evasi sono stati tutti ripresi dopo poche ore. Qualcuno era andato a casa dai genitori che gli hanno subito detto di rientrare in carcere, qualcun altro era andato dai nonni. Ragazzini. Non proprio esperti latitanti. Se a partire dall’episodio di Natale, o da quello dei giorni scorsi, apriamo dibattiti dai toni accesi che parlano di abbassamento dell’età imputabile (oggi in Italia si può andare in carcere solo a partire dai 14 anni) o di necessità di gestire le carceri minorili con la stessa durezza di quelle per adulti, allora buttiamo a mare anni e anni di un modello di giustizia cui tutta l’Europa oggi guarda. La seconda considerazione: ascoltiamo quello che questi ragazzi ci vogliono dire. Lo fanno male, lo fanno usando canali di comunicazione che bisogna spiegar loro essere illegittimi. Non si incendia un materasso. Mai. Si rischia di far del male, non bisogna mai usare la violenza neanche contro le cose. Tutto vero. Ma spieghiamoglielo. Come lo spieghiamo a tutti i ragazzi fuori dal carcere che fanno qualcosa che non va. E cerchiamo di capire perché lo fanno e cosa vogliono dirci con quel gesto. Guardando al carcere Beccaria di Milano, un’idea ce la possiamo fare. Negli scorsi giorni con il nostro osservatorio sulle carceri minorili siamo stati in visita all’istituto. Non è il posto migliore dove un ragazzo possa finire a vivere, soprattutto se tossicodipendente. Non è un posto adatto per una presa in carico di questo tipo. I lavori di ristrutturazione vanno avanti da oltre sedici anni. Quel carcere è un cantiere dove nessuno potrebbe vivere; figuriamoci dei ragazzi. Perché sta accadendo questo? Perché i lavori non finiscono? Il carcere va chiuso, ristrutturato e solo dopo eventualmente riaperto. Deve restare chiuso fino a quando tutte le aree del carcere, comprese quelle della socialità e dei laboratori, non saranno pienamente agibili. Oggi in istituto ci sono 24 ragazzi, di cui 16 minori e 8 giovani adulti. Molti di loro sono nelle condizioni per andare in comunità. Ma il posto in comunità non si trova. Perché? Stiamo parlando della Lombardia, non certo di una zona economicamente e socialmente depressa dell’Italia rurale. Il numero delle comunità è massimo in quella regione. Perché non si trova un posto a questi ragazzi? Troviamolo. Spostiamo i ragazzi in comunità e chiudiamo l’istituto. Facciamolo con la responsabilità di adulti quali siamo. Senza alzare i toni di uno scontro che non esiste. *Coordinatrice associazione Antigone Novara. “Il carcere sia una risorsa, le persone devono essere rieducate” di Elena Mittino novaratoday.it, 24 gennaio 2023 Rosalia Marino, direttrice del carcere di Novara da 10 anni, racconta la realtà locale. In città ci sono 178 detenuti, 70 nel 41 bis. “È bene parlare del carcere, ci sono tante false verità e spesso se ne parla a sproposito. Si pensa molte volte che sia quello che vediamo nei film americani. Non è così”. Nei giorni scorsi, ospite a una serata organizzata dallo Stampa Club di Novara, è stata Rosalia Marino, la direttrice del carcere di Novara ormai da dieci anni, che si occupa anche di quello di Biella. “Il comma 3 della Costituzione dice che la pena non deve consistere in trattamenti contrari all’umanità e deve prevedere la rieducazione, - ha spiegato la direttrice - ecco allora a cosa pensare quando si parla di certezza della pena o rieducazione appunto. Pensiamo a quanto sia difficile educare un bambino e rieducare un adulto, ma il nostro compito è fare in modo che chi entra in un carcere ne possa poi uscire diverso. È un compito difficile, perché non tutti sono ergastolani, anzi sono in minima parte rispetto a chi deve scontare uno o due anni di pena e allora il percorso diventa ancor più fondamentale”. A Novara ci sono 178 detenuti e 70 nel 41 bis (in tutta Italia gli istituti sono 12 e in tutto i detenuti da 41 bis sono 759). Difficile spiegare il ruolo del direttore del carcere: “Non è scritto da nessuna parte, o meglio, il direttore è il responsabile dell’ordine e della sicurezza del carcere interna ed esterna. Noi siamo come funamboli, tutti i giorni decidiamo della vita di un uomo, - ha spiegato Marino - ogni carcere è diverso, riceve impostazione dal suo direttore e questo è l’aspetto complicato: fino al grado di imputato si chiede all’autorità giudiziaria, dal grado di appellante in poi invece decide il direttore che va a toccare i diritti fondamentali dell’uomo. A me stanno a cuore la sicurezza, le regole sono importanti, un istituto che ne è senza ha il caos al suo interno”. La certezza è che il direttore deve sempre esserci, se si assenta deve esserci un sostituto. “Mancano le risorse, - ha proseguito - c’è per ora un solo educatore, mancano figure professioniste. Pensiamo che lo scorso anno è stato fatto il concorso per 54 posti e tutti hanno scelto il tribunale: quel concorso era il primo dopo il 1997, anno in cui l’ho sostenuto io”. Secondo la direttrice ciò che va ripensato è il sistema carcere in generale: “Prima si pensava fosse l’extrema ratio per i reati più gravi, c’erano le case di cura, le case di custodia, i carceri psichiatrici giudiziari. Oggi il carcere è considerato come il contenitore di ogni forma di disagio, soprattutto psichica. Per me questo concetto è sbagliato perché non abbiamo le forze per poterle gestire. Il sistema andrebbe ripensato e il carcere deve essere visto come risorsa, basata sulla comunicazione. Questo a Novara è possibile grazie a tutto il personale, cui va fatto un plauso. C’è dialogo e si creano rapporti, c’è ascolto. Quando dico No è così, ma se dico Sì mantengo la promessa e i detenuti apprezzano questo”. Gorizia. Il cappellano Don Paolo: “Troppi detenuti costretti all’ozio, creare occasioni di lavoro” di Selina Trevisan Gente Veneta, 24 gennaio 2023 Tanti sacerdoti si occupano di realtà “silenziose”, fatte di luoghi e persone che, pur essendo proprio davanti ai nostri occhi, spesso “scompaiono” alla nostra vista, finendo quasi con il dimenticarci di loro, finché qualcosa di eclatante non accade. Eppure, anche in questi luoghi, c’è sempre una presenza, quella del sacerdote. Una presenza gratuita, che non conosce festività ed orari e che è resa possibile anche grazie alla vicinanza dei fedeli ai propri sacerdoti con le firme dell’8xmille e le donazioni liberali. Tra questi luoghi, c’è anche la Casa Circondariale di Gorizia, presso la quale - ormai da molto tempo - presta il suo servizio come cappellano don Paolo Zuttion. Don Paolo, qual è in questo momento la situazione all’interno del Carcere di Gorizia? Quali attività sono state riavviate? Dopo la “fase Covid”, da qualche tempo sono state riavviate un po’ tutte le attività che erano state molto ridotte. Non c’era per esempio la possibilità che i volontari accedessero all’interno della struttura; la mancanza del loro grande aiuto si è sentita molto, soprattutto per quanto mi riguarda perché ho dovuto, lungo tutto il periodo, sopperire alle attività solitamente messe in atto da loro. Questi volontari fanno parte del Rinnovamento nello Spirito e vengono ogni domenica ad animare le due eucarestie che si svolgono all’interno del penitenziario (…). In questo i volontari sono un grandissimo aiuto perché, oltre ad animare, cantare, aiutare, è bella la presenza del territorio, di persone che appartengono alla diocesi e che vengono all’interno del carcere. I detenuti hanno sentito la mancanza di questa presenza esterna, credo sia anche per loro molto importante. Oltre a questo i volontari si occupano anche dell’attività di distribuzione del vestiario e dei beni per l’igiene personale. Quest’attività è ripresa dopo un lungo periodo in cui non poteva essere svolta dai volontari e me ne occupavo io: questo per me è molto importante, non solo per l’aiuto ma anche perché è testimonianza viva di una presenza esterna dentro le mura del carcere. È ripresa anche l’attività del laboratorio di teatro. Tempo fa si è svolta una rappresentazione teatrale, sostenuta anche dalla Caritas diocesana di Gorizia, che fa parte di un’attività che la compagnia Fierascena persegue ormai da diversi anni con un laboratorio di teatro sociale all’interno del carcere. Anche attraverso momenti di confronto e dibattito con il Festival “Se io fossi Caino”, che propone testi teatrali e non solo, anche questo sostenuto da Caritas diocesana. Tirando le somme, quindi, è un momento di ripresa per il carcere goriziano. Quali sono le prospettive per questa struttura, verso quale Carcere ci si sta orientando? Quali sono però anche i bisogni, le necessità? Il Carcere di Gorizia ha bisogno innanzitutto di creare attività che formino le persone. Il problema principale è proprio che non ci sono grandi attività: pertanto le persone vivono gran parte del loro tempo nell’ozio, cosa che non è assolutamente riabilitativa. Viene meno la funzione della pena, come dice la Costituzione, di essere riabilitativa, ossia di far sì che la persona ritrovi sé stessa e uno stato di vita per cui possa vivere in società, in relazione con gli altri. Questo purtroppo non accade: vedi anche la grande percentuale di ritorni al carcere di coloro che sono usciti, problema non solo del Carcere di Gorizia ma generale. Secondo me andrebbero create possibilità sia lavorative, sia di formazione al lavoro. Per quanto riguarda il carcere di Gorizia, è stata acquisita da parte del Ministero di Giustizia una parte limitrofa, l’ex scuola “Pitteri”. Lì potrebbero trovare spazio anche dei laboratori e dei luoghi per una formazione dal punto di vista professionale di queste persone (…) Si parla molto della riforma Cartabia, che mira a far sì che il carcere diventi l’estrema ratio, prevedendo delle misure alternative con le quali il reo possa in qualche modo trovare, o ritrovare, la strada giusta per la sua vita. Queste misure alternative sarebbero anche uno “svuota carcere”: ricordiamo che in Italia le carceri hanno circa 20 mila persone in più rispetto alla capienza prevista (siamo a circa 60 mila detenuti rispetto i 40 mila previsti). Un modo per “svuotare” le carceri è anche quello di implementare le misure alternative, che però hanno bisogno di strutture esterne e un’organizzazione che, per il momento, non vedo e non so se ci sono intenzione, mezzi e possibilità di creare. Ci sarebbero poi tanti altri problemi da affrontare: c’è per esempio un’alta percentuale di detenuti che presenta problemi dal punto di vista psichiatrico e per i quali probabilmente una struttura carceraria non è la più idonea per scontare la detenzione. Si tratta anche di rivalutare le forme con cui far scontare una pena. Lei ricopre il ruolo di Cappellano ormai da diverso tempo. Cosa significa per lei quest’incarico? Sono tanti anni, più di dieci, che mi occupo del carcere. Per me è un confronto continuo con questa realtà, fatta di uomini che vivono momenti di sofferenza. Perché il carcere è sempre una sofferenza, una privazione della libertà, innanzitutto, e degli affetti ma anche il dover vivere insieme ad altre persone che non hai “scelto”. La mia missione è quella di essere accanto a queste persone in questa situazione, con tutti i loro limiti, i loro difetti, i loro peccati. Però restano sempre persone, fatte a immagine e somiglianza di Dio. Come ci dice il Papa, sono Gesù Cristo. Ho avuto ed ho tante esperienze nell’incontro con queste persone; ciò fa sì che, anche per me, ci sia un motivo di cambiamento e conversione del mio cuore e rende possibile il non giudicare (…). Questo è un po’ lo spirito che cerco di tener presente nella mia attività all’interno di questo carcere. Roma. Studiare e meditare in carcere, alcune esperienze formative per i detenuti professionedocente.com, 24 gennaio 2023 Riceviamo e pubblichiamo una lettera del dirigente scolastico dell’IC Mozart di Roma Giovanni Cogliandro sull’istruzione scolastica in carcere. “All’inizio dello scorso anno scolastico mi è stato proposto di assumere la reggenza dell’Istituto John Von Neumann di Roma. Sono tanti i docenti di questo Istituto, la cui sede principale è ubicata nel quartiere di San Basilio nella periferia est di Roma, e che ha tra le sue peculiarità quella di avere più di 500 dei suoi studenti detenuti nei quattro Istituti penitenziari di Rebibbia. Sono Dirigente scolastico da pochi anni e avere l’opportunità di dirigere la più grande Istituzione scolastica in carcere d’Italia ha suscitato in me inquietudine e gioia. Nelle scuole che ho avuto l’opportunità di dirigere cerchiamo di perseguire un percorso di intersezione tra insegnamento, narrazione ed esperienza della filosofia, allo scopo di trovare punti di incontro tra i trascendentali pulchrum, bonum e iustum (bello, buono, giusto). In tale percorso di ricerca sulle pratiche e di formazione continua dei nostri docenti abbiamo fatto uso di argomenti tipici della tradizione filosofica classica, pensando e descrivendo la bellezza come un anelito e un bisogno primario di ciascun essere umano. Una caratteristica peculiare di chi entra in carcere come docente è quella che non ne vuole più uscire, sembra una sorta di boutade ma non è così. Alcuni di loro, tra i quali un noto scrittore, lavorano a Rebibbia da un quarto di secolo, e hanno potuto assistere ai diversi mutamenti che hanno contraddistinto l’evoluzione dei rapporti tra amministrazione penitenziaria e Scuola, hanno potuto osservare nel tempo crescere il numero delle realtà che gravitano sul carcere. Il carcere di Rebibbia è una realtà articolata, una cittadella a sé stante, dietro le alte mura che la cingono comprende in realtà quattro diverse istituzioni carcerarie: il Nuovo complesso è il più grande, con più di mille detenuti di tutte le tipologie, dall’alta sicurezza a coloro i quali hanno compiuti reati comuni. Quindi viene il Carcere femminile che accoglie numerose tipologie di reati, compiuti da fanciulle, madri, persone persino quasi anziane, le storie più diverse di disagio, crimine, lontananza e nostalgia. Quindi proseguendo lungo la via Bartolo Longo si incontra l’ingresso della Casa di reclusione, che accoglie i condannati in via definitiva a pene anche molto lunghe, con reati molto gravi da espiare. Alla fine della via si incontra la Terza Casa, dedicata alla custodia attenuata di chi ha scelto di partecipare a numerose iniziative formative organizzate dalla direzione. Da preside del Von Neumann visitavo spesso le nostre aule in carcere, per incontrare docenti e detenuti e parlare con loro, perché ritengo che essere compagni di viaggio per queste persone, migliorare gli ambienti scolastici nella reclusione significa attuare al più alto livello il dettato costituzionale e il nostro compito di docenti. Sin dai primi colloqui che ho avuto con i nostri docenti di Rebibbia mi sono convinto di come anche loro credano fermamente nella necessaria anteriorità dell’ottimismo, nel bisogno di vincere l’isolamento che uccide dentro molti nostri colleghi bruciandone l’entusiasmo e trasformandoli in meri burocrati o funzionari di un apparato. Non dobbiamo lasciare che le circostanze, per quanto drammatiche, spengano la luce che ardeva negli occhi di coloro i quali si sono accostati al mondo della scuola non come a un lavoro qualsiasi, ma come una sorta di laica missione nel mondo della reclusione. Nel quadro di questa simpatia operativa abbiamo iniziato qualche mese fa il progetto di meditazione per i detenuti. La pratica della meditazione origina dalla ricerca dell’autenticità, coniugando la consapevolezza con la scoperta della capacità illimitata di essere amorevoli nei confronti di ogni essere, che posta alla base della pratica di meditazione ha un effetto lenitivo del dolore e calmante per la mente. Sono riuscito a mettere in contatto il docente referente dell’insegnamento presso il Nuovo complesso con un valente maestro di meditazione, proveniente dalla tradizione Theravada, il nome che ha assunto la comunità dei meditanti che perseguono l’autenticità delle origini di questa pratica in estremo oriente. “Theravada” significa letteralmente “via degli anziani”: tale nome connota un approccio alla meditazione intesa come strumento attraverso il quale esperire il reale senza filtri e incontrare uno stato di calma profonda, al di là delle dimensioni del dubbio e delle teorie razionali, muovendo dalla pratica della gentilezza amorevole verso sé stessi e verso gli altri, definita Metta in lingua Pali. Questo tipo di meditazione consiste nella ricerca della realtà così com’è, non come dovrebbe essere oppure come immaginiamo che sia. La meditazione di Metta consiste in sessioni della durata di circa un’ora di silenzio, durante le quali nutrire la presenza mentale e la sincerità nei confronti di noi stessi e delle sensazioni che proviamo. Anche le percezioni più scomode riescono a trovare così un tempo e un luogo nella nostra esistenza. Tale approccio mi è sembrato di grande aiuto per i detenuti, in particolare per quelli sottoposti a un regime precauzionale di particolare attenzione, con socialità ridotta e problematiche relazionali particolarmente acute. Abbiamo organizzato la prima sessione del corso di meditazione la scorsa settimana in un giorno in cui non vi erano lezioni scolastiche. Sono stato molto felice della presenza di numerosi detenuti che hanno voluto da subito approfondire la pratica proposta, con tante domande al maestro, con un’interlocuzione che mi ha coinvolto insieme al docente che ci ha aiutato a organizzare l’iniziativa. Ritengo che vi sia un profondo legame tra la Scuola e la pratica della meditazione, in quanto entrambe sono volte alla scoperta della realtà nella sua articolate complessità e all’indagine del mistero della mente, unione originaria di affettività e chiara consapevolezza. Credo che avremo modo di scoprire tanti frutti ulteriori in queste settimane, il coinvolgimento della comunità dei detenuti è stato molto al di sopra delle aspettative. La costruzione armonica di una comunità può passare tramite la scuola, anche in carcere, ritengo che l’insegnamento delle discipline sia un esercizio di grande importanza anche semplicemente per ampliare gli orizzonti e le capacità della mente stessa, che nella meditazione diventa oggetto di osservazione e al tempo stesso soggetto attivo di pratica. Ampliare la capacità della mente con la conoscenza può andare di pari passo con il renderla capace di aprirsi a nuove modalità di percezione della bellezza e dell’armonia, capace di accettare ferite esistenziali anche profonde come quelle di chi si trova in carcere. I detenuti sono alunni esemplari in quanto riscoprono la socialità tramite la scuola, e ritengo possano essere esemplari anche come meditanti, praticando la gentilezza amorevole che da millenni si trova alla base della meditazione di antica tradizione, neutralizzando il consueto e tradizionale paternalismo dell’istituzione carceraria (ma troppo spesso anche di quella scolastica) a favore di un rapporto fondato più sull’empatia che sul timore, e quindi su un rispetto basato sulla meraviglia, e sull’attenzione per la persona”. “Mare fuori”, la terza stagione. I “ragazzi interrotti” alle prese con il futuro di Silvia Fumarola La Repubblica, 24 gennaio 2023 Torna la serie ambientata in un Istituto di detenzione minorile di Napoli. Con Carolina Crescentini, Carmine Recano, Massimiliano Caiazzo. La famiglia e l’amicizia, l’amore e la libertà. Sono i temi principali della terza stagione di Mare fuori, la serie che ha appassionato il pubblico young adult italiano e internazionale, tra le più apprezzate degli ultimi anni, che debutterà su RaiPlay l’1 febbraio (sulla piattaforma verranno riproposte le prime due stagioni) e approderà in prima serata su Rai 2 il 15 febbraio. Torna in tv l’istituto di detenzione minorile di Napoli in cui a ragazze e ragazzi “interrotti” viene data la possibilità di capire ciò che hanno commesso, chi sono e cosa vogliono, o potrebbero avere, oltre le mura del carcere. In questa nuova stagione i protagonisti, ormai cresciuti, si troveranno a dover compiere la scelta di come affrontare il loro ruolo di adulti nel mondo. Diretta da Ivan Silvestrini, la serie vede nel cast Carolina Crescentini, Carmine Recano, Lucrezia Guidone, Nicolas Maupas, Massimiliano Caiazzo, Vincenzo Ferrera, Antonio De Matteo, Anna Ammirati e Valentina Romani. “Questa è una serie che aderisce alla realtà del linguaggio, dei sentimenti e delle ambizioni dei ragazzi - sottolinea la direttrice di Rai Fiction Maria Pia Ammirati - è una serie che parla di libertà, cosa a cui aspirano tutti i ragazzi”. “In questa stagione si piangerà tanto - annuncia il regista - le storie sono fortissime, sapevo che questo cast era diventato di super attori. La storia punta sempre più in alto. Il cast ha ormai un affiatamento e un’alchimia che mi hanno permesso di approcciarmi alla narrazione visiva libero da qualsiasi canone. Ho mosso la macchina da presa cercando di attenermi al mio principio guida, ovvero di essere sempre, in ogni momento alla ‘distanza perfetta’ dai personaggi, con uno stile fluido alla continua ricerca dell’emozione, attraverso spesso coreografie articolatissime dove ogni cosa doveva essere al suo posto, avvenire in un momento precisissimo affinché il ritmo non inciampasse”. “Le sceneggiature - conclude Silvestrini - già fortissime sono diventate pura meraviglia in mano agli attori e io mi muovevo come un cacciatore insaziabile alla ricerca di sfumature e dettagli che la complessità narrativa continuava a generare come una reazione chimica a catena”. Massimiliano Caiazzo: “La nostra forza è nella verità delle storie” “È una serie che sa raccontare i giovani: le scelte sbagliate, le paure, luci e ombre” dice Massimiliano Caiazzo “credo che sia per questo che i ragazzi l’hanno seguita con tanto interesse”. In Mare fuori - dal primo febbraio su RaiPlay, e dal 15 su Rai 2, arriva la terza stagione della serie di Ivan Silvestrini (ideata da Cristina Farina scritta con Maurizio Careddu) - l’attore ha il ruolo di Carmine Di Salvo, detto O’ Piecoro, cresciuto in una famiglia malavitosa. La via del riscatto è lunga per i giovani detenuti del penitenziario minorile di Napoli, alle prese con la rabbia, le crisi di coscienza, l’amicizia e l’amore. Per le passate stagioni, record di visualizzazioni su RaiPlay (oltre 50 milioni) e un successo su Netflix. Il produttore Roberto Sessa chiede all’ad della Rai Carlo Fuortes che i ragazzi vadano a cantare la sigla della serie a Sanremo. Nel cast Carolina Crescentini, Carmine Recano, Giacomo Giorgio, Valentina Romani, Nicolas Maupas, Artem Tkachuk. Ventisei anni, visto di recente in Filumena Marturano con Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo, Caiazzo sta girando per Disney Uonderbois di Andrea De Sica e Giorgio Romano con Giordana Marengo, la rivelazione di “La vita bugiarda degli adulti”. Dopo il successo su RaiPlay si aspettava che “Mare fuori” sarebbe diventata virale su Netflix? “La seconda stagione era esplosa su RaiPlay, quando ho saputo che sarebbe sbarcata su Netflix ho pensato: dopo 50 milioni di vualizzazioni e gli spoiler, chi la vedrà? Invece abbiamo trovato altro pubblico. La modalità di consumo è cambiata”. Com’è diventato attore? “Sono nato a Vico Equense e sono cresciuto a Castellammare di Stabia, ormai vivo a Roma. Ho frequentato vari laboratori, ho studiato con Francesca De Sapio, stupenda, fino a trovare una mia quadra con Beatrice Pelliccia. Il destino era segnato”. Recitare era la sua passione? “Ho frequentato il liceo scientifico, andavo bene, facevo canottaggio. Poi grazie a una suora, Suor Elisabetta, ho detto a me stesso: voglio recitare. Alla chiesa del Carmine c’era un gruppo teatrale e lì ho trovato il coraggio. Il mio primo vero maestro è stato Gianfelice Imparato”. I suoi genitori? “Mamma è preside, papà dirigente regionale. All’inizio mi sono scontrato con loro, ora che sono cresciuto comprendo la loro paura. Oggi sono tranquilli e soddisfatti”. Come vede il percorso di Carmine? “La serie nasce dal filone crime su Napoli ma poi se ne discosta, indaga gli esseri umani. Carmine si oppone alle dinamiche in cui è cresciuto. Ma lo dico sempre, nel momento in cui dovesse decidere di uscire dalle regole, diventerebbe un boss. Nel carcere minorile si riscopre, diventa vittima, per poi reagire nuovamente. Dentro è lacerato: vive dinamiche di abbandono, umiliazione, violenza, rifiuto. A volte si trova lui stesso ad abbandonare e umiliare”. In fondo è un predestinato. “Cresce con l’idea: uccidere o essere ucciso. Non è etichettabile come buono/cattivo, da attore è una vittoria, non rischi di farne un personaggio carino che piace a tutti, fai un essere umano. Umberto Galimberti spiega che “cresciamo attraverso processi imitativi”. Chi assorbe una certa mentalità deve avere una forza fuori dal comune”. La forza di ‘Mare fuori’? “Le storie. E, mi permetto di dirlo, noi attori, decisi a portare autenticità. I personaggi sono forti, se non avessi fatto Carmine mi sarebbe piaciuta Naditza. O Pino”. Liliana Segre e il timore dell’oblio: Una nuova banalità del male di Corrado Augias La Repubblica, 24 gennaio 2023 Saturazione? È possibile. Tra le ultime uscite editoriali natalizie ho contato cinque titoli che rievocavano storie di ebrei scampati, o non scampati, alla Shoah. Qualcuno può cominciare a pensare che si stia esagerando, che un’eccessiva insistenza nuoccia. Forse però bisognerebbe chiedersi non se ci sia un eccesso di memorie, bensì a che cosa serva la memoria. La conoscenza dello sterminio nel dopoguerra s’è avviata lentamente, ci sono voluti anni perché si avesse piena conoscenza delle modalità e delle dimensioni dell’orrore. Molti erano interessati a nasconderle, compresi spesso gli ex internati che si vergognavano a riferire ciò che avevano dovuto subire, poveri esseri inermi testimoni del macello. Per la verità c’era stato un evento di portata mondiale che avrebbe potuto aprire gli occhi a molti. Il processo che a Norimberga nel 1946 aveva messo sotto accusa alcuni criminali nazisti. Fu solo in parte così. Quel processo venne criticato da chi aveva interesse a sostenere che si trattava della solita vendetta che i vincitori d’una guerra esercitano nei confronti dei vinti. Questo ridusse il suo valore d’ammonimento. Poi ci fu un altro processo, venne celebrato a Gerusalemme nel 1961, imputato Adolf Eichmann. Due procedimenti diversi. Nel primo vennero per lo più esaminati fascicoli, documenti, più che le storie di esseri umani emersero le modalità generali, statistiche, dell’orrore. A Gerusalemme invece risuonarono soprattutto le testimonianze dal vivo dei superstiti che finalmente ebbero la forza di gridare la misura dei loro patimenti. Spesso era difficile ascoltare quelle testimonianze, tale il livello che la “banalità del male” aveva potuto toccare in quei luoghi che erano non campi di concentramento ma campi di sterminio, il loro fine era eliminare subito i prigionieri inadatti al lavoro, in seguito, progressivamente, gli altri. Le testimonianze emozionano più dei documenti, al limite possono avere un’influenza, temo però che questo accada solo a chi è già sensibile sull’argomento. Per molti anche le testimonianze più crude possono scivolare via come succede ogni giorno per i più efferati fatti di cronaca. Liliana Segre ha probabilmente detto parole chiave quando ha dichiarato che per lei le “pietre d’inciampo” sono più importanti del Giorno della Memoria perché “danno un nome alle vittime”. Un nome è un nome: abitava lì, in quella casa, quelle erano le sue finestre, davanti a quel portone lo hanno preso. Non aveva colpe, era un essere umano come me. Requiescat. Se Liliana Segre vive con la scorta è colpa della nostra indifferenza di Michela Marzano La Stampa, 24 gennaio 2023 Da tre anni, la senatrice è sotto tutela a causa delle minacce ricevute. Non ha mai smesso di ricordarci la forza dell’onestà e della libertà. Lei, la conosciamo tutti. La senatrice Liliana Segre è una delle colonne portanti della memoria del nostro Paese: una grande donna di cui, in tante e tanti, siamo estremamente fieri, ma anche lo specchio di un momento particolarmente vergognoso della nostra storia. Loro, invece, li scopriamo via via: Marco Palmieri, Antonio Bianco, Riccardo Mallozzi e Giovanni Pansera sono le quattro guardie del corpo della senatrice, i suoi angeli custodi. Da ormai tre anni, questi quattro carabinieri seguono ovunque la senatrice Segre, ma ancora non riescono a capacitarsi di come sia possibile che una persona come lei, a 92 anni, sia costretta a vivere sotto protezione per le minacce che subisce ogni giorno e l’odio che le viene vomitato addosso. Sono loro, d’altronde, i veri protagonisti di Liliana siamo noi: storia di mille giorni con la scorta, un podcast di Rai Radio 1 scritto da Paolo Maggioni e Giancarlo Briguglia. In quattro episodi, il podcast racconta cosa significhi seguire la senatrice Segre quando si reca in piazza Safra, al Binario 21 - il luogo dove ebbe inizio l’orrore della Shoah a Milano e dal quale, tra il 1943 e il 1945, partirono venti convogli verso i campi della morte -, essere stati con lei quando, nell’ottobre dello scorso anno (che era poi anche il centenario della Marcia su Roma), Liliana Segre assicurò la presidenza del Senato nel corso della seduta che portò all’elezione di Ignazio La Russa, oppure anche, più semplicemente, cosa vuol dire vivere tanti momenti di intimità, di emozione e di gioia accanto a questa “donna luminosa”, come la definisce a un certo punto Antonio Bianco. La senatrice Segre non ha paura, non l’ha mai avuta, e il messaggio che vuole lasciare ai posteri è proprio questo: vi auguro di essere sempre liberi e senza paura. Nonostante poi si commuova quando, al Memoriale della Shoah, arriva di fronte al muro dei nomi e tra quei nomi, che sono sempre, e soprattutto, storie, persone e famiglie, mostra il nome del padre, forse ancora più importante del proprio: Alberto Segre, morto ad Auschwitz il 27 aprile 1944. Vivere 24 ore su 24 con Liliana Segre, per i carabinieri della scorta, non significa solo compiere il proprio dovere: da quando la frequentano, hanno capito quanto coraggio e quanta determinazione ci vogliano per tornare sempre su quei dettagli, quelle sfumature, quei pezzi di mondo e quelle immagini che non sono davanti agli occhi di tutti, e che però rappresentano il nostro patrimonio comune. Liliana Segre, la nostra storia, l’incarna. Ed è forse proprio per questo che entusiasma e impressiona, soprattutto i più giovani. La senatrice porta con sé, attraverso il proprio corpo, la propria voce e i propri ricordi, i segni di quella terribile indifferenza che rese possibile, anche in Italia, l’inimmaginabile; quell’indifferenza che continua a minacciarci, perché persino una vittima vuole avere una vita e rischia talvolta di lasciarsi distrarre, sebbene certe cose non finiscano mai, e non si dovrebbe mai smetterla di raccontare cosa succede quando trionfa l’odio, e alcune persone vengono perseguitate solo perché colpevoli di quell’unica cosa per la quale non c’è colpa: essere nate. “Liliana Segre è una personalità che va protetta per quello che rappresenta”, dice a un certo punto Marco Palmieri. E ha purtroppo ragione. Ciò che spiega molta parte della violenza che si riversa contro la senatrice Segre è proprio l’insieme di tutto ciò che lei rappresenta ed è: la forza dell’onestà e il potere dell’amore, la voglia di vivere e il bisogno di essere liberi, e poi la necessità di proteggere, ancor più che sé stessi, i valori della Costituzione. È ormai su scala mondiale l’attacco alle Organizzazioni non governative di Tonino Perna Il Manifesto, 24 gennaio 2023 Contro le Ong una dichiarazione di guerra di “democrature” e governi neo-dittatoriali. E in Italia l’assalto alle navi di soccorso è il segno di una grave deriva autoritaria. L’attacco sistematico, cinico, da parte del governo Meloni alle Ong che si occupano di salvare i migranti nel mar Mediterraneo, è paragonabile ad un divieto di soccorso su un’autostrada a persone coinvolte in incidenti stradali. Se ci fosse un tale divieto, se in nome della “sicurezza” ci fosse impedito di fermare la nostra auto e scendere per prestare aiuto, riterremmo queste disposizioni di legge come un crimine. A maggior ragione, per i numeri coinvolti, questo boicottaggio delle Ong nell’opera di soccorso in mare è una dichiarazione di guerra. E non è un fatto isolato, la strategia politica di un governo dove è forte la componente neofascista. Questo attacco è stato preceduto dal governo Gentiloni di centro-sinistra che ha affidato al ministro Minniti il compito di controllare le Ong, di mettere una serie di vincoli nei loro spostamenti e nelle operazioni di soccorso. Una mossa astuta e subdola che partì dalla richiesta di sottoscrivere delle regole a cui attenersi che consentissero un controllo di queste navi “anarchiche” che si permettevano di soccorrere in mare ad libitum chi stava annegando, e magari organizzavano loro i viaggi della speranza dei migranti dalla costa libica. Una accusa infamante. D’altra parte, un anno dopo partiva l’attacco a Mimmo Lucano a Riace, con una ispezione ad hoc richiesta dal Ministero dell’Interno, inaugurando la criminalizzazione di questa esperienza di solidarietà e l’assurda condanna di Lucano a tredici anni di galera. Insomma, in Italia centro-sinistra e destra non si sono di molto differenziati nella persecuzione delle Ong, così come non lo sono sulla corsa agli armamenti e la partecipazione, di fatto, a questa guerra in atto in Ucraina. Purtroppo, questo è avvenuto anche a livello internazionale. Nel 1992 l’Eritrea usciva da una sanguinosa guerra per l’Indipendenza guidata da Isaias Afewerki, leader del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo. Chi scrive ha avuto la fortuna di vivere quei momenti, la felicità di un popolo che usciva da un tunnel di violenze e privazioni che ogni guerra provoca, la libertà e l’indipendenza finalmente conquistate. Diverse Ong italiane ed europee dettero il loro contributo per la rinascita di questo splendido paese. Una di queste, il Centro Regionale d’Intervento per la Cooperazione, costruì a Keren un intero ospedale e inviò un equipe di medici chirurgici plastici per recuperare in qualche modo i volti e le braccia delle persone colpite dal naphalm, formando una vera e propria scuola di chirurgia plastica per gli aspiranti medici locali. Una delle tante iniziative di cooperazione popolare di cui poco si conosce. La redazione consiglia: Missione in Tunisia per fermare i migranti - Tutto andò bene per i primi anni finché Afewerki non cominciò a espellere una Ong dopo l’altra, iniziando da quelle che si occupavano di diritti umani. Alla fine degli anni 90 non era rimasta nessuna Ong internazionale in Eritrea, e il paese è precipitato in uno stato di terrore e miseria peggiore di quella che aveva vissuto sotto Menghistu. Ancora di più in Nicaragua, dopo la cacciata del dittatore Somoza nel 1979, accorsero volontari e cooperanti delle Ong da tutto l’Occidente per sostenere il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Quella che fu definita “la rivoluzione dei poeti” attirò le simpatie di una intera generazione di sinistra in Europa e Nord-America per tutti gli anni ‘80 del secolo scorso. Nessuno poteva immaginare che uno dei leader del movimento rivoluzionario, Daniel Ortega, si trasformasse in un dittatore che fa sparare su studenti e lavoratori e che ha cacciato tutte le Ong che da più di vent’anni lavoravano per lo sviluppo del paese, dalla scuola alla sanità, dall’agricoltura al sostegno alle attività artistiche e culturali. La guerra alle Ong è chiaramente un fatto scontato per tutte le dittature, che colpiscono anche le strutture sanitarie, come quelle di Emergy, MSF, ecc, che sono indispensabili alle popolazioni locali. Ma, anche nelle “democrature”, come in Ungheria, in Turchia o nell’Egitto del golpista Al-Sisile Ong sono perseguitate, e sono tollerate solo quelle che portano investimenti per l’economia, ma rimangono silenti sul piano dei diritti civili, sociali e politici. Adesso, se anche un paese democratico come è ancora l’Italia, si è avviato su questa strada c’è da preoccuparsi seriamente. E dovrebbero preoccuparsi e agire anche le cosiddette Ong di cooperazione allo sviluppo, che sbagliano se pensano che loro resteranno fuori da questa strategia. Così come è sbagliato sottovalutare questa guerra alle navi di soccorso delle Ong : è solo la punta di un iceberg, uno dei segnali della deriva autoritaria del capitalismo neoliberista che si manifesta sempre più chiaramente in tutto il mondo. Centomila migranti l’anno: la forza lavoro che manca (nonostante gli sbarchi) di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 24 gennaio 2023 Per la Fondazione Ismu la legge Bossi-Fini è da superare. L’Ocse stima in Italia 6,3 infermieri ogni mille abitanti, mentre nel resto dell’Ue sono 8,3. E l’agricoltura ha bisogno di braccia. Potremmo chiamarlo il paradosso dei centomila. Servono almeno centomila immigrati stagionali l’anno per non far morire la nostra agricoltura e per “difendere la nostra sovranità alimentare”, ha sostenuto ancora di recente Ettore Prandini, presidente di Coldiretti non certo ostile al governo Meloni: una cifra persino al ribasso (c’è chi ne vorrebbe il doppio) che torna da tempo nelle valutazioni di parecchi imprenditori come salvagente per settori diversi dell’economia italiana. E tuttavia i centomila migranti sbarcati da noi nel 2022 sono considerati una soglia d’allarme dall’esecutivo di centrodestra e da non pochi analisti dell’accoglienza (allarme accentuato dai primi giorni del 2023 che hanno visto decuplicare gli arrivi). Il meccanismo è inceppato. Leggi, ideologia, burocrazia - Un racconto senza sconti del disequilibrio tra domanda e offerta, di cifre che non quadrano e di leggi pigre o tardive, di occasioni perdute e di talenti sprecati si può trovare in un prezioso Libro Bianco della Fondazione Ismu (“sul governo delle migrazioni economiche”) a cura della sociologa Laura Zanfrini. Da uno scenario demografico penalizzante alla grande fuga dei nostri giovani meridionali (più di un milione in vent’anni, la vera migrazione che dovrebbe preoccuparci), dalla competizione difficile per un’immigrazione qualificata alla sua contaminazione con una subcultura dell’illegalità che strangola il mercato del lavoro, fino a un quadro normativo e burocratico che rende poco attrattivo il Belpaese per la “meglio gioventù” extracomunitaria: non è rassicurante il ritratto di un’Italia ancora in parte prigioniera di miti nazionalistici fasulli come l’omogeneità “etnica, culturale e religiosa”. L’11% della popolazione attiva - Le forze lavoro immigrate sono ormai il 10,7% della popolazione attiva e il loro contributo al nostro bilancio è decisivo (144 miliardi di euro di valore aggiunto pari al 9% della ricchezza nazionale, secondo l’ultimo report annuale della Fondazione Moressa). Tuttavia, l’Italia non smette di comportarsi da trent’anni come se l’immigrazione fosse un’emergenza, continuando a percepirla, di volta in volta “come un fenomeno indesiderabile e da contenere nelle sue dimensioni, oppure come un serbatoio di manodopera flessibile e a buon mercato, estraneo alle strategie di riposizionamento competitivo e di rafforzamento dell’internazionalizzazione del sistema produttivo”, osservano Zanfrini e i suoi collaboratori. È la stessa normativa a coltivare la confusione tra rifugiati e migranti economici, spingendo i secondi verso quella porta laterale che è spesso l’unica via per il nostro mondo del lavoro: la clandestinità in attesa di una sanatoria. Meccanismi obsoleti - È tempo, fuori da polemiche di fazione, di registrare come la legge Bossi-Fini, varata vent’anni fa in pieno furore anti-immigrazionista, abbia introdotto “un meccanismo del tutto irrealistico” nella filiera migrante-datore di lavoro: l’abolizione dell’ingresso tramite sponsor con relativo accesso regolare solo dopo l’intera procedura d’assunzione. “Risulta sostanzialmente impossibile al datore di lavoro verificare le capacità professionali e le qualità “umane” di un lavoratore la cui assunzione richiede, tra l’altro, di accollarsi impegni professionali particolarmente onerosi”, si osserva nel Libro Bianco. Le quote d’ingresso si sono trasformate così in uno “strumento di regolarizzazione dei migranti già presenti, facendo venir meno il carattere premiale della scelta di un percorso legale”. A ciò si aggiunga che, sempre per motivi meramente ideologici, l’Italia è diventata paladina dell’”opzione zero” sui flussi proprio mentre, per effetto delle crisi, altri Paesi europei la accantonavano. Il risultato più evidente di questa afasia politica è incentivare quel business illegale di ingresso che, a parole, si sostiene di voler stroncare. L’espansione del lavoro povero - Questo contesto opaco si sposa con la cattiva qualità del lavoro italiano e la forte espansione del lavoro povero, con una spinta al ribasso che si nutre dell’assioma della complementarità, lo schema duale per il quale “i migranti fanno i lavori che noi non vogliamo più fare”, generando una struttura etnico-castale del mercato del lavoro, giocata sulla contrapposizione “noi e loro”. Se dunque la prima ricetta è più dignità e diritti nel lavoro di tutti, la seconda è rendere meno respingenti i confini europei, e segnatamente i nostri, a chi ha le carte in regola, specie ai profili sanitari. Per dire: l’Ocse stima in Italia 6,3 infermieri ogni mille abitanti mentre nel resto dell’Ue sono 8,3. La Corte dei conti italiana parla di personale infermieristico “pesantemente sottodimensionato” e solo per ottenere i soldi del Pnrr dall’Europa noi dovremmo assumerne trentamila nei prossimi tre anni: da dove? Un’occasione mancata - Per motivi ideologici nel 2018 ci siamo tagliati fuori dal Global Compact for Migration, l’accordo intergovernativo nato sotto l’egida delle Nazioni Unite, smarrendo così un quadro di intese con Paesi terzi interessati sia a formare propri professionisti sia a esportarne una parte. Rincorriamo braccianti immigrati che diano respiro al settore agricolo ma abbiamo bisogno di misure ad hoc come il nullaosta pluriennale e le garanzie di alloggio per incentivarli. Le nuove direttive europee - Siamo chiamati a recepire le nuove direttive europee più accoglienti sulla Carta Blu, il lavoro altamente qualificato. Con alcuni paletti di sicurezza e le dovute garanzie di rientro allo scadere di un permesso di soggiorno non convertito, si potrebbe introdurre un dispositivo di ingresso in Italia per la ricerca di lavoro. Fino alla regolarizzazione individuale, quando il lavoro è lì, via d’uscita in fondo al tunnel della clandestinità. Il monito di Jerry Masslo - Ci vuole coraggio, visione del futuro. A chi gli chiedeva quale fosse il suo principale problema qui da noi, Jerry Masslo rispondeva: “Il problema economico! Immagina un uomo di trent’anni che vive senza nemmeno diecimila lire in tasca per un mese. Come pensi che si possa resistere?”. Era il 1989, lui scappava dal Sudafrica, morì nelle baracche di Villa Literno. L’Italia sembra ancora sorpresa come allora dal mondo in marcia a cui Jerry aprì la strada. Migranti. Il cardinal Zuppi: “Evitiamo viaggi infiniti e umiliazioni” di Iacopo Scaramuzzi La Repubblica, 24 gennaio 2023 Il presidente della Cei lancia l’allarme sui “morsi della crisi economica in atto”. La Chiesa pronta a cooperare per l’aiuto dei più deboli con il governo Meloni “che deve affrontare sfide grandi e impegnative”. E a proposito dell’Ucraina: “Non possiamo accettare l’indifferenza, come se la guerra fosse una malattia ineluttabile”. Non si possono far vivere ai migranti che arrivano in Italia “umiliazione, tempi lunghi di attesa, viaggi infiniti, anticamere senza senso, marginalizzazione”: lo afferma il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, lanciando anche l’allarme per “i morsi della crisi economica in atto”. La due giorni del Consiglio episcopale- Quella delle migrazioni, ha detto l’arcivescovo di Bologna aprendo i lavori del Consiglio episcopale permanente (23-25 gennaio), “è una realtà del nostro mondo globale, da non gestire con paura e come un’emergenza, ma come un’opportunità. Tale problematica richiama la centralità della scuola, spazio decisivo d’integrazione nella cultura e nella lingua italiana, ma anche la necessità di maggiori flussi regolari d’ingresso, di corridoi umanitari e ricongiungimenti familiari. Soprattutto è importante come accogliamo: non facciamo vivere umiliazione, tempi lunghi di attesa, viaggi infiniti, anticamere senza senso, marginalizzazione”. È necessario, ha sottolineato Zuppi, il coordinamento con l’Europa. E non bisogna dimenticare “il problema di 500.000 persone, anche lavoratori non regolari in Italia”. Ucraina, la guerra non è una malattia ineluttabile - Più in generale, “grandi e impegnative sfide per il bene dell’Italia aspettano il nuovo governo” di Giorgia Maleoni, “cui rinnovo i migliori auguri, assicurando che la Chiesa, in spirito di cooperazione, continuerà il suo impegno per l’intera comunità italiana, per i più deboli, per la coesione della società, per l’educazione e il bene comune”, ha detto Zuppi, che ha rilevato “i morsi della crisi economica in atto. La povertà nel nostro Paese è aumentata in modo considerevole a partire dalla crisi del 2008 e con essa la diseguaglianza dei redditi, della ricchezza e delle opportunità”. Il caro energia intacca “il potere d’acquisto di famiglie”. E “oggi un lavoratore su otto ha un ingaggio precario, mal pagato, che non consente un tenore di vita adeguato alla dignità della persona e alla costruzione di un progetto di vita personale e familiare”. Servono “una determinazione e una collaborazione unica, uno sguardo largo, verso il futuro, non ridotto al contingente e piegato a interessi di parte o speculativi”. Il nodo della crisi demografica - Il cardinale Zuppi ha toccato molte questioni specifiche, dalla crisi demografica, che richiede “una seria politica di rilancio della natalità a livello nazionale”, alla questione della vecchiaia, per la quale il porporato ha espresso soddisfazione per la volontà del governo Meloni di riprendere le fila della legge delega per le politiche in favore delle persone anziane; dal tema dell’aborto alle riforme della Costituzione (“Varie riforme sono possibili e in discussione, ma la principale resta viverne lo spirito e applicarla fino in fondo e in tutte le sue parti”); dalla questione ambientale posta da molti ragazzi (con modalità “a volte scomposte”) alla “guerra in Ucraina, iniziata dall’invasione russa di uno Stato indipendente”: “Non possiamo accettare l’indifferenza, evidente o raffinata”, ha scandito il presidente della Cei, “come se la guerra fosse una malattia ineluttabile”. Pedofilia e ripensamento della struttura Cei - Nella introduzione di Zuppi al “parlamentino” dei vescovi italiani, anche temi squisitamente ecclesiali. In merito alla pedofilia del clero, il porporato ha rivendicato i primi “passi fatti” dalla Cei per un’indagine storica, “che come Chiesa in Italia dobbiamo e vogliamo continuare a compiere con fermezza per stare dalla parte dei più fragili e per far crescere una cultura caratterizzata dal rispetto, dalla cura e dalla tutela della dignità di ogni persona”. Ricordando della “comunità divisa” già ai tempi di San Paolo, Zuppi ha sottolineato, sullo sfondo delle polemiche di questi giorni di alcuni confratelli del collegio cardinalizio, che “solo l’unità permette alla comunità di essere creativa”. Rilevante, infine, un accenno al “ripensamento”, che andrà fatto nel prossimo futuro, “della struttura della Cei, più capace di esprimere la centralità della Parola di Dio e di servire meglio le Chiese che sono in Italia e rinforzare e servire la collegialità tra noi”. Se pure gli Usa coprono gli assassini di Regeni di Riccardo Luna La Stampa, 24 gennaio 2023 Hanno ragione i genitori di Giulio Regeni ad affermare che la collaborazione dell’Egitto è “inesistente” per le indagini relative alla morte del figlio, rapito, torturato e assassinato al Cairo ormai sette anni fa; e hanno ragione a sentirsi “insultati” per le ennesime promesse di giustizia che il presidente egiziano Al Sisi avrebbe fatto al nostro ministro degli Esteri. Del resto Al Sisi ha fatto le stesse promesse a tutti i nostri ministri degli Esteri dal 2016 ad oggi e nulla è successo. O meglio, è successo il contrario: l’Egitto ha ostacolato in ogni modo il raggiungimento della verità. Ma l’Egitto non è l’unico paese che non sta facendo il possibile perché si scopra la verità sull’omicidio del ricercatore universitario friuliano. Anche gli Stati Uniti d’America sono perlomeno reticenti nel dire pubblicamente quello che sanno della vicenda. Che c’entrano gli Stati Uniti? Secondo un’inchiesta del New York Times, pubblicata il 18 agosto 2017 e addirittura tradotta in italiano qualche giorno dopo dallo stesso giornale affinché tutti in Italia ricevessero chiaro e forte il messaggio, gli Stati Uniti ne sanno moltissimo e informarono il governo italiano allora guidato da Matteo Renzi. Lo informarono del fatto che Giulio Regeni era stato ucciso dai servizi segreti di Al Sisi. L’affermazione del New York Times era perentoria: “Nelle settimane successive alla morte di Regeni - scrisse Declan Walsh - gli Stati Uniti ricevettero dall’Egitto informazioni di intelligence esplosive: la prova che funzionari di sicurezza egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana,” mi disse un funzionario dell’amministrazione Obama - uno dei tre ex funzionari che hanno confermato le prove. “Non c’era dubbio”. Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono questa loro conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero i dati originali, né rivelarono quale agenzia di sicurezza pensavano fosse responsabile della morte di Regeni. “Non era chiaro chi aveva dato l’ordine di rapirlo e, presumibilmente, ucciderlo”, mi disse un’altro ex funzionario. Quello che gli americani sapevano per certo, e lo dissero agli italiani, fu che la leadership egiziana era completamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni. Non avevamo alcun dubbio che questo fosse noto ai livelli più alti, disse l’altro funzionario. Non so se avevano responsabilità. Ma sapevano. Sapevano”. Tre giorni dopo la pubblicazione di quell’inchiesta, assieme al collega Marco Pratellesi, presentai al governo americano una richiesta di accesso agli atti: ovvero la richiesta di poter leggere le carte che spiegherebbero una volta per tutte “le strane circostanze”, per usare l’espressione del New York Times, della morte di Giulio Regeni. Perché il governo americano avrebbe dovuto darmi quelle informazioni? Perché esiste un istituto chiamato Foia che dà il diritto ai cittadini di avere accesso alle informazioni in possesso di chi governa tranne che in pochissimi casi. Non era questo il caso: il dipartimento di Stato accettò la nostra domanda, rispose che quei documenti erano “sensitive but unclassified”, sensibili ma non segretati, e ci diede una data orientativa per riceverli. Di lì a quache mese. Ma sono cinque anni e mezzo che quella data slitta. L’ultima volta alla fine di dicembre. Cinque anni e mezzo che il governo americano rinvia il suo appuntamento con il dovere di dirci cosa sa della morte di Giulio Regeni. Noi continueremo a chiederglielo.