Ergastolo ostativo, quei numeri in crescita di chi in carcere muore di Francesco Grignetti La Stampa, 23 gennaio 2023 Nei penitenziari italiani cresce il numero dei detenuti sottoposti all’articolo 4 bis che vieta permessi e semilibertà. È successo a Cutolo, Riina, e Provenzano, ma anche a tanti detenuti sconosciuti. All’inizio degli anni Novanta gli ergastolani reclusi nelle nostre carceri erano circa 400. Da allora, in seguito ad una crescita esponenziale, siamo arrivati a quota 1.800 In carcere si muore non solo per suicidio, ma anche di vecchiaia. Centoundici ergastolani sono morti in carcere tra 2001 e 2020. E il trend è in crescita perché i penitenziari italiani si stanno riempiendo sempre più di ergastolani sottoposti all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che vieta permessi e semilibertà. Quelli del 4 bis sono ergastolani speciali, soggetti a una norma emergenziale. Per loro le celle non si apriranno mai se non quando sono chiusi in una bara. È successo per Raffaele Cutolo, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Nino Santapaola. Ma tanti sono gli emeriti sconosciuti al grande pubblico. L’articolo 4 bis non va confuso con il 41 bis, che significa carcere duro. Entrambi sono figli dell’emergenza mafiosa e stragista del 1992, ma sono solo parzialmente sovrapponibili. Non tutti quelli che scontano il carcere duro sono ergastolani, anzi. E non tutti gli ergastolani sono sottoposti al 4 bis: su 1.822 condannati al carcere a vita, 542 di loro sono ergastolani semplici che dopo trent’anni di pena potranno rivedere la luna e le stelle; 1.280 sono quelli speciali che non avranno più quest’ebrezza. Il 41 bis è generalmente conosciuto come “ergastolo ostativo” e scatta per mafiosi e terroristi quando non collaborano con lo Stato. Una misura draconiana che pesa come un macigno sui mafiosi, in quanto li pone di fronte a un bivio definitivo: o si “pentono” e inguaiano i complici, o moriranno dietro le sbarre. Qualcosa sta cambiando, però. Ci sono state due sentenze della Corte costituzionale, nel 2019 e nel 2021, che hanno picconato il principio della “mancata collaborazione” come pilastro dell’ergastolo ostativo. Hanno detto i supremi giudici: non si può buttare la chiave perché un imputato rifiuta di collaborare con lo Stato, va valutato caso per caso se anche il peggior mafioso merita qualche beneficio. Caso per caso, dunque, secondo la valutazione dei giudici di Sorveglianza. E i dati dicono che in questi tre anni, appena 24 ergastolani sono fuoriusciti dall’ostativo con qualche piccolo permesso-premio, e nessuno con libertà condizionale. Poi però è arrivato il governo Meloni, e le maglie si sono di nuovo richiuse quasi completamente. Il suo primo provvedimento ha infatti stabilito che per avere un qualsiasi permesso-premio dev’essere il detenuto a dimostrare che se lo merita, e non basta la buona condotta in carcere, ma occorre che dimostri di avere interrotto i contatti con la vecchia cosca. Prova “diabolica” è stata definita. Curiosamente, ma non tanto, sul nuovo “ergastolo ostativo”, vanto della premier, converge una larghissima parte del Parlamento. Perché è ben difficile per la politica andare contro la pancia del Paese. E spetterà una volta di più alla magistratura sciogliere il nodo: è dell’altro ieri un ricorso alla Cassazione affinché valuti se anche le nuove norme non siano in odore di incostituzionalità e così ricominciare davanti alla Consulta: il ricorso lo ha presentato l’avvocato Giovanna Beatrice Araniti sul caso dell’ergastolano Salvatore Pezzino, detenuto nel carcere di Tempio Pausania, che da tempo chiede di poter accedere alla liberazione condizionale. Pezzino fu già al centro del procedimento della Corte costituzionale nel 2021. Ad avere cambiato le cose è un certo Marcello Viola, atipica figura di ‘ndranghetista. La cultura giuridica italiana conosceva un’altra Viola, Franca, la ragazza che negli anni Sessanta, rapita e stuprata da un coetaneo, rifiutò il matrimonio riparatore (che all’epoca sanava tutto), ottenendo la condanna del violentatore e quindici anni dopo i fatti anche la soddisfazione dell’abrogazione di quell’obbrobrio legale. Marcello Viola è invece uno dell’altra parte: feroce mafioso coinvolto nella faida di Taurianova, ma appunto atipico. Per ricordare i fatti: nel 1991 i sicari di due ‘ndrine si ammazzarono per giorni, e la faida culminò con l’uccisione dei due fratelli Grimaldi, che furono uccisi davanti all’ufficio postale, a uno fu mozzata la testa, lanciata in aria, presa a fucilate come fosse il piattello. Ora, Marcello Viola, soprannominato “il chirurgo” perché in carcere si è laureato in biologia e poi in medicina, considerato il mandante del duplice omicidio dei Grimaldi, è anche colui che ha aperto la strada con un ricorso vinto al tribunale di Strasburgo chiedendo il rispetto dei principi fissati dalla Costituzione: se la pena dev’essere rieducativa, come si concilia con la morte obbligatoria in cella? Ferocia che deve far riflettere su quali sono state le storie degli ergastolani all’ostativo, ma senza oscurare i principi costituzionali. Ad esempio nel catalogo ci sono i brigatisti rossi che uccisero Marco Biagi e Massimo D’Antona: Marco Mezzasalma, Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi. Ci sono sanguinari capi della camorra: Francesco “Sandokan” Schiavone che sconta tredici ergastoli, Francesco Bidognetti, Michele Zagaria, Giuseppe Setola, protagonista delle stragi del 2008 e condannato per 18 omicidi. Ci sono innumerevoli boss di Cosa Nostra. Non hanno mai collaborato con la giustizia e fino al 2019 non avrebbero mai potuto nemmeno sognare di uscire un giorno. Ora chissà. Uno che ci ha sperato tanto ma non è riuscito a vedere la luce è il pastore sardo, ergastolano e scrittore, Mario Trudu. È morto di malattia in carcere nel 2019, dopo 41 anni trascorsi dietro le sbarre. Nel frattempo aveva fatto in tempo a terminare il libro “La mia Iliade. Un’odissea di quarant’anni a inseguire la vita”, Stampa alternativa, di cui diceva l’editore Mario Baraghini: “È una letteratura di sangue, che urla dal carcere, che resiste, pulsa e vive tra gli ultimi, i dimenticati, i reietti, i confinati”. Quella di Trudu è stata sicuramente una voce ascoltatissima nell’ambiente. Carmelo Musumeci, che è l’unico ergastolano ostativo ad avere ottenuto nonostante tutto la liberazione condizionale, si è laureato in carcere, scrive libri e collabora con la comunità di don Benzi, ha lasciato questo bellissimo ricordo di Trudu: “La pena dell’ergastolo - gli diceva - è peggio della pena di morte perché è anche più crudele: ammazza una persona tenendola viva chiusa in una cella per sempre. La pena di morte ti toglie solo la vita, la pena dell’ergastolo ti toglie anche l’anima”. Anche Musumeci è un combattente: qualche anno fa, in occasione della festa del 2 Giugno, organizzò lo sciopero della fame per un giorno di 864 ergastolani, che intendevano ricordare all’opinione pubblica la loro peculiare situazione “che in Italia esiste una “Pena di Morte Nascosta”, come Papa Francesco ha definito l’ergastolo”. Con l’arresto di Matteo Mesina Denaro si dovranno aggiornare le statistiche perché ci sarà un altro illustre ergastolano ostativo. E l’euforia per questo successo dello Stato ha risvegliato l’attenzione sulla norma. L’associazione Antigone però non ha paura dell’impopolarità, pur di fissare i paletti dei diritti. “La convinzione - spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione - che in Italia l’ergastolo non esiste è smentita dai numeri. I detenuti all’ergastolo sono in costante aumento, attorno ai 1.800. All’inizio degli anni Novanta erano circa 400 unità”. Marietti aggiunge un altro dato statistico impressionante su come sia in crescita il peso percentuale degli ergastolani sul totale dei condannati: in venti anni si passati dal 2,8% al 5% della popolazione detenuta. Non è più un fenomeno marginale come fu agli inizi, insomma. Al contrario. Resta da domandarsi: la riforma del governo Meloni chiuderà anche il piccolo spiraglio che si era aperto? Diceva già qualche mese fa un giurista progressista come Ignazio Juan Patrone, ex sostituto procuratore presso la Cassazione, a proposito dell’onere della prova: “Se una persona è detenuta da molti anni, ha ricevuto visite solo dei parenti stretti, ha seguito i programmi, non ha subito sequestro di cellulari, pizzini o altro materiale, se non risultano contatti con altre persone provenienti dagli stessi ambienti criminali, mi domando: cosa altro deve provare?”. Già, diabolico. La spinta della Consulta sulle misure alternative al carcere di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2023 Per la Corte, sentenza n. 3/23 del 20.01.2023, l’optimum sarebbe concedere la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva per i condannati non in carcere ogniqualvolta la pena sia contenuta entro i limiti compatibili le misure alternative. Sì alla sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei condannati per il delitto di incendio boschivo colposo che dunque potranno fare richiesta di accedere alle misure alternative. La Corte costituzionale, sentenza n. 3/2023, ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 656, comma 9, lettera a), del Cpp, nella parte in escludeva la sospensione per i delitti di cui all’articolo 423-bis, secondo comma, del codice penale. Proprio la natura colposa del delitto in questione, spiega la Corte, rende “estremamente problematica” una “plausibile giustificazione di tale eccezione”. Senza dunque sminuire la “indubbia gravità del reato dal punto di vista oggettivo - prosegue -, è davvero arduo affermare che - dal punto di vista soggettivo - l’autore di una condotta meramente colposa manifesti una speciale pericolosità, tale da giustificare la scelta del legislatore di assicurarne un “passaggio in carcere”, in attesa della valutazione da parte del tribunale di sorveglianza dei presupposti per l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione”. La questione è stata sollevata dal Gip di Savona con riferimento ad una condanna ad otto mesi di reclusione. Per il rimettente l’esclusione dalla regola generale della sospensione per le pene detentive non superiori a quattro anni creava una irragionevole disparità di trattamento con altri reati colposi “parimenti e più gravi”, come “l’omicidio stradale, l’omicidio sul lavoro, l’omicidio dovuto a colpa medica o l’incendio ferroviario [sic]”; ed entrava anche in conflitto col principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. La Consulta ha accolto la questione sia con riguardo sia alla violazione dell’articolo 27 Cost. che alla “disparità di trattamento” tra l’incendio boschivo colposo (reclusione da uno a cinque anni) e la generalità degli altri delitti colposi (nel caso in cui la pena inflitta non superi i quattro anni di reclusione, ad esempio, l’ordine di esecuzione resta sospeso per l’omicidio colposo aggravato, per omicidio stradale, nonché per tutti i disastri colposi). Ma la Corte ha anche affermato una serie di importanti principi tutti nel segno della “decarcerizzazione” della pena, laddove le condizioni la rendano possibile. “La soluzione ottimale - scrive il Collegio - sarebbe, in linea di principio, quella di prevedere la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva nei confronti di ogni condannato che non si trovi già in carcere in stato di custodia cautelare, ogniqualvolta la pena che egli debba integralmente espiare, ovvero la pena residua, sia contenuta entro i limiti temporali compatibili con l’accesso a misure alternative alla detenzione”. Ciò, prosegue la decisione, al fine di evitare al condannato l’ingresso in carcere nelle more della decisione. Infatti, e qui il ragionamento della Corte si fa ancora più incalzante, ponendosi come uno spartiacque anche per il Legislatore, “l’ingresso in carcere per condannati che si trovano nelle condizioni di poter chiedere una misura alternativa è, in effetti, problematico tanto dal punto di vista del principio di eguaglianza-ragionevolezza”, previsto dall’articolo 3 Costituzione, “quanto dal punto di vista della necessaria finalità rieducativa della pena”, e qui torna il richiamo all’articolo 27, terzo comma. E ciò per una pluralità di ragioni, spiegano ancora i giudici: “Anzitutto, perché l’ingresso in carcere determina sempre una brusca frattura dei legami del condannato con il proprio contesto familiare, sociale e - soprattutto - lavorativo, ostacolandone un percorso di risocializzazione che potrebbe essere già iniziato durante il processo, quando il condannato stesso si trovava in stato di libertà o era comunque sottoposto a misura cautelare non carceraria”. In secondo luogo, “perché quando la pena da scontare sia breve, è assai probabile che la decisione del tribunale di sorveglianza intervenga dopo che il soggetto abbia ormai interamente o quasi scontato la propria pena”; una eventualità quest’ultima “purtroppo non infrequente, stante il notorio sovraccarico di lavoro che affligge la magistratura di sorveglianza, nonché il tempo necessario per la predisposizione della relazione del servizio sociale in merito all’osservazione del condannato in carcere”. Infine, perché “ogni disallineamento tra i limiti temporali della pena ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione e quelli per l’accesso alle misure alternative concedibili sin dall’inizio dell’esecuzione della pena rende di fatto impossibile la concessione di misure alternative prima dell’ingresso in carcere, ogniqualvolta la condanna sia ancora contenuta nel limite che consentirebbe l’accesso alla misura ma sia superiore a quello fissato per la sospensione dell’ordine di esecuzione. Il che finisce per frustrare lo stesso intento perseguito dal legislatore nel dettare la disciplina della misura alternativa”. Suicidi e senza diritti. L’inumanità del carcere di Ivano Iai La Nuova Sardegna, 23 gennaio 2023 C’è il dovere di proteggere la dignità umana anche di coloro che onesti non sono stati. Ci siamo mai chiesti perché tanti suicidi in carcere? Ci siamo mai interrogati perché, sin dall’ingresso in una struttura penitenziaria, la difficoltà di adattamento, che consegue alla percezione del mancato riconoscimento di diritti umani fondamentali, conduca all’abbandono del desiderio di riscattarsi? Ci siamo mai chiesti perché la società non creda nel recupero preferendo assopirsi - nel modo meno impegnativo, chiudendo gli occhi - di fronte al patimento del detenuto cui, oltre all’addebito di delitti pur imperdonabili, addossa anche il cumulo della rabbia e delle sfortune collettive? Dove abbiamo collocato, scorrendo la scala di valori legali e umani di cui siamo provvisti, il dovere di solidarietà e l’etica della responsabilità che tanto continuiamo a evocare ma che, in realtà, costituisce un motivo formante costituzionale dei nostri sentimenti? Se il suicida in carcere è una sconfitta della Costituzione, l’innocente privato della sua libertà per inerzia dello Stato è uno scandalo più di quanto non lo sia il responsabile di un reato ancora in libertà. Ecco, allora, aprirsi un ulteriore scenario, quello dell’innocente condannato per errore giudiziario o ingiustamente sottoposto a restrizione cautelare o definitiva o ad altre misure limitative della libertà. Sconcertano, in proposito, le parole di alcuni esponenti del mondo politico, del diritto e del giornalismo che archiviano la questione come fisiologica, addirittura sostenendo, contro il senso di umanità, che “l’innocente non finisce mai in carcere”, come se la circostanza della detenzione sia in sé un presupposto o, peggio, un elemento probatorio di colpevolezza. Tale convincimento è la negazione dei diritti umani fondamentali e allarma che tanti siano ancora disposti ad accoglierlo e diffonderlo. Si pensi, poi, se l’innocente è condannato all’ergastolo, pena formalmente legale ma in sé inumana e, perciò, contraria al dettato costituzionale che, con l’art. 27 c. 3, vieta non solo le sanzioni che comportino trattamenti degradanti ma anche quelle inidonee a restituire alla società un numero rilevante di persone (un tempo detenute) realmente rieducate. I due livelli di allarme, quello del suicida e quello dell’innocente in carcere, generano un ulteriore interrogativo che affonda le sue premesse nelle fonti normative interne: se più isolati sono i casi di spietata modalità di esecuzione della pena (l’Italia è stata già condannata dalla Corte europea nel 2013) almeno una sanzione, tuttavia, risulta essere inumana e degradante per chi la sconta nelle strutture penitenziarie. E benché non risulti agevole stabilire quale binomio sia più terribile tra innocenza-detenzione e detenzione-suicidio, per una società di presunti onesti che ha il dovere di proteggere la dignità umana anche di coloro che onesti non siano stati, il vero punto debole del sistema è la previsione dell’ergastolo ostativo, sintagma affetto da triplice contraddizione: linguistica, umana e giuridica. Finché l’ordinamento consegnerà alle generazioni future l’idea che possano esistere soggetti non recuperabili, al di là dell’attuale clamore del caso Cospito, detenuto nel carcere di Sassari in regime di c.d. 41-bis, allora sarà stata inutile la lezione, nel 1764, dell’illuminato Beccaria e il percorso che ne è seguito nel progresso umano e giuridico sull’inciviltà della pena di morte, che oggi sopravvive nel fine pena mai, drammatico paradosso del nostro sistema, intollerabile quanto i drammi che si consumano nelle anguste celle delle carceri, camere anecoiche per suicidi e innocenze punite. Bambini in carcere: che cosa serve davvero di Carla Forcolin* Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2023 Per 16 anni ho fatto volontariato quotidiano per accompagnare i figli delle detenute del carcere femminile della Giudecca all’asilo nido (prima della legge 63/11) e alla scuola materna (dopo che fu deciso che dovevano rimanere con la madre fino a sei anni). Con questo credo di avere dimostrato che a quei bambini tengo davvero e tutta la mia vita lo dimostra, eppure, ogni qual volta affermo che le case famiglia “protette” non risolveranno davvero la situazione per cui alcuni piccoli crescono in carcere, mi si fa passare per una nemica di madri e figli. O per una reazionaria stravagante. Io credo che la gente non voglia capire i veri problemi di questi bambini e delle loro madri. Credo che giornalisti e politici semplicemente non vogliano che pesi sulla coscienza di tutti la permanenza dei bambini negli istituti di pena. “Fuori i bambini dal carcere” è un ottimo slogan, ma ... intanto, proprio quel filone di pensiero che sembra voler risolvere il problema costruendo case-famiglia in tutta Italia, ha finito per raddoppiare il tempo di questa immorale detenzione, portandola dai tre ai sei anni e inventando gli ICAM. Infatti, in teoria ci sono già oggi, al posto del carcere, gli “Istituti a custodia attenuata per madri”, ma essi si sono rivelati prigioni camuffate e i bambini, che non sono scemi, ben lo capiscono. Anche nel 2011 si disse “Mai più bambini in carcere” e il risultato di quella riforma lo abbiamo sotto gli occhi. Oggi i bambini non sono più staccati dalle madri a tre anni, ma a sei e gli si ruba tutta la prima infanzia: è un vantaggio per loro? Vivere fuori e andare a trovare la madre regolarmente, non sarebbe stato meglio? Da molti anni sostengo che gli Icam sono un carcere camuffato, oggi se ne sono accorti tutti. Ecco allora il tentativo di salvare la vicinanza del bambino con la madre e la sua libertà con le case protette. Ma anche qui, se le case famiglia sono “protette”, le madri, su cui pesa il sospetto di poter tentare la fuga, non saranno libere e di conseguenza non lo saranno nemmeno i bambini. Altro carcere camuffato. Se si prende atto di questa realtà, almeno si possono cercare soluzioni perché la detenzione materna, in qualsiasi modo sia realizzata, non pesi sui piccoli (ad esempio l’obbligo di farli andare all’asilo nido e alla scuola materna con accompagnatori pagati dallo Stato e non mandati dal fragile volontariato). Se invece dalle case-famiglia protette le madri possono uscire, allora la grande attenzione dello stato deve andare non tanto nel tenerle in un istituto (gli istituti raramente responsabilizzano i loro ospiti) ma nel preparare il loro futuro. Vanno previsti modi per condurle all’autonomia. Per questo, più che case famiglia protette, dove si creerebbe anche il serio problema dell’isolamento per le donne e i loro figli, io immagino strutture educative già esistenti, con delle cure individualizzate e un accompagnamento ad una vita nuova: formazione umana e professionale e poi un lavoro, una casa, la scuola per i bambini. In poche città, tra queste Lauro, dove ci sono tante mamme in carcere, le case famiglia protette, in sostituzione dell’Icam, possono servire, ma più che sui luoghi da costruirsi bisogna mettere l’accento sulle cure individualizzate da dare. Se non si gettano tutti i denari, che erano stati stanziati per le case famiglia nella precedente legislatura, ce la si può fare. Poche case famiglia e tanto recupero, attuato nei vari modi possibili. *Autrice di “Uscire dal carcere a sei anni”, F. Angeli Giustizia, le crepe che non si vedono di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 gennaio 2023 Mentre si discute sul taglio delle intercettazioni e sull’urgenza di separare le carriere tra pm e giudici si moltiplicano i problemi concreti. “Vi chiedo l’inserimento del nuovo pensionato L.B., che ha dato la propria disponibilità a prestare attività presso questa Procura due o tre giorni a settimana già nel mese di gennaio”. Scrive così il procuratore della Repubblica di Piacenza alla locale sede dell’associazione di volontariato Auser iscritta nel “Registro Nazionale delle associazioni di promozione sociale”. Modi creativi per tirare avanti negli uffici giudiziari sotto organico già ne se erano visti parecchi in giro per l’Italia, ma l’accattonaggio di pensionati ottantenni presi per strada pur di non far chiudere del tutto una Procura è istruttivo nel separare la panna montata del chiacchiericcio sulla giustizia dalla invece dura realtà del suo quotidiano arrabattarsi. Piacenza è una Procura certo non grande, ma trovatasi lo stesso a istruire procedimenti come quelli sulle illegalità nella caserma dei carabinieri o sulle controverse condizioni di lavoro e relazioni sindacali in seno ai colossi della logistica stabilitisi in quel circondario. Eppure qui il controllo delle notifiche degli “avvisi conclusione delle indagini” (importantissimi perché altrimenti poi “saltano” i processi se la notifica manca o è fatta male) viene effettuato, al pari della ricezione delle notizie di reato cartacee, appunto anche da volontarie o pensionati ultrasettantenni dell’Auser, convenzionata con il Comune, a supporto di quel che resta di chi in condizioni normali dovrebbe occuparsene: cancellieri e operatori del personale amministrativo ministeriale, di cui “da due anni” la dirigente della Procura, Grazie Pradella, va segnalando in ripetute lettere al Ministero “l’insostenibile situazione d’organico andata progressivamente peggiorando sino alla scopertura del 50%”, causa di “gravi ripercussioni sull’efficienza dell’Ufficio ormai dedito a trattare prevalentemente gli affari urgenti” nei ruoli dei sei pm, ciascuno dei quali ha in carico almeno “1.000 fascicoli contro noti”. Ma “a fronte di questa insostenibilità - aggiungeva in settembre il procuratore rivolto al precedente governo come adesso ripete all’attuale - constato con incredulità, e nel contempo con amarezza, la totale inerzia del Ministero della Giustizia”. I “gettonisti” che (gratis) tengono a galla le Procure come i “gettonisti” a pagamento mandano avanti il Pronto soccorso sono solo l’ultima e più pittoresca di quelle crepe che, un po’ come nei viadotti autostradali, anche nel ponte della giustizia non si avvertono, fintanto che il ponte non crolla di colpo nella finta meraviglia di tutti. Eppure basterebbe porre l’orecchio agli scricchiolii nelle cose ma importanti. A Milano, altro esempio, la polizia giudiziaria (che esegue le deleghe di indagine dei pm) è stata trasferita dagli infelici loculi della Procura in una nuova e funzionale sede collocata però in periferia lontano dal Palazzo di Giustizia. E siccome il collegamento telematico non ha evidentemente ancora raggiunto i teorici standard di sicurezza ed efficienza ritenuti minimi per le trasmissioni, ecco porsi il banale problema di come portare avanti e indietro le caterve di fascicoli nella indisponibilità di commessi, autisti e automezzi. Al punto che, l’altro giorno, pur di mandare avanti il lavoro altrimenti congelato, due magistrati hanno caricato i borsoni di fascicoli sull’auto privata prestata da un finanziere e sono andati - loro - a scaricarli. Piacenza, Milano, storielle insignificanti se prese di per se stesse, non diversamente dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che, per concentrare il poco personale amministrativo sulle urgenze di lavoro, si mette centralinista a rispondere al telefono. E tuttavia storielle che, alla vigilia delle magniloquenti cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario a fine settimana, suggerirebbero come “compiti a casa” un ripasso di un articolo dimenticato della Costituzione, il 110: “Spettano al Ministro della Giustizia - tra una chiacchiera e l’altra sul costo delle intercettazioni da tagliare (in realtà il costo è già crollato in media a 1.364 euro per bersaglio dai 2.297 euro del 2005) o sull’urgenza di separare le carriere tra pm e giudici (passaggio che in un anno ha riguardato 21 magistrati su 9.000) - l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. La cultura del sospetto che favorisce i delinquenti di Alessandro Campi Il Messaggero, 23 gennaio 2023 Se la mafia è l’anti-Stato, lo Stato dovrebbe essere, per logica e buon senso, l’anti-mafia. Ma in Italia le cose non sono così semplici. Come dimostrano le reazioni all’arresto di Matteo Messina Denaro: molta pubblica soddisfazione, certo, ma soprattutto dubbi, sospetti e insinuazioni velenose. Lo hanno preso solo perché malato e sulla base di un patto scellerato con lo Stato? Come ha fatto a nascondersi per trent’anni se non perché protetto ai più alti livelli? Sapendo dove erano i suoi rifugi, perché non lo si è acciuffato prima? Anche a lui, come a Riina, si è permesso di occultare o distruggere le carte più compromettenti? Lo hanno catturato, con una colossale messa in scena, gli stessi che ne hanno protetto la latitanza? Un tempo i buoni e i cattivi si riconoscevano facilmente, fatta salva la possibilità per ognuno di scegliere da che parte stare. Da noi sembra ormai prevalsa una visione della politica, della società, del potere e della giustizia giocata piuttosto sulla labilità del confine tra bene e male, sulla strutturale reversibilità e ambiguità dei ruoli, sulla dialettica mai risolvibile tra le verità apparenti che si ha interesse a raccontare e i segreti reali che si ha interesse a non rivelare. Insomma, sulla teoria-teorema per essenza populistica e indimostrabile per via empirica del “doppio Stato” o dello “Stato profondo”, divenuta per molti circoli politici-intellettuali il paradigma di lettura preferito della storia italiana contemporanea. L’unico in grado di spiegarne i misteri, i vizi genetici, le contraddizioni sociali innate, le tragedie pubbliche ricorrenti, le debolezze politico-istituzionali, come anche la scarsa tenuta morale dei suoi gruppi dirigenti e dei suoi stessi cittadini. Con l’esclusione, va da sé, della minoranza virtuosa che di quel paradigma ha fatto una sorta di canone politico-storiografico da insegnare finanche ai giovani nelle scuole affinché comprendano in quale brutto Paese hanno avuto la sventura di nascere e vivere. Parliamo di quell’idea di Stato secondo la quale quest’ultimo - dalla sua rinascita dopo la dittatura fascista, ma in realtà da quando l’Italia esiste come realtà unitaria - sarebbe manovrato da un nucleo di potere occulto che nessuno sinora è riuscito a disarticolare, per quanto alcuni coraggiosi - magistrati, giornalisti, qualche raro politico - vi abbiano talvolta provato. Secondo questo schema, non ci si riferisce all’attività di singoli servitori infedeli delle istituzioni, a semplici corrotti magari al servizio di qualche potenza esterna, ma a un sistema organizzato che nei decenni ha travalicato il ruolo formale dei partiti, infiltrato a ogni livello le burocrazie e la stessa vita economica, tessuto alleanze organiche e trasversali coi più diversi contropoteri criminali. Sino a costruire una struttura di comando parallela e quella legale, ma ben più solida ed efficiente di quest’ultima. Il problema è che tale modo di leggere le dinamiche politico-sociali del nostro Paese è strada facendo divenuto sentimento sempre più comune, diffuso e acriticamente accettato da pezzi crescenti di opinione pubblica, grazie a una duplice saldatura nel frattempo operatasi: da un lato, con l’atteggiamento di diffidenza e distanza che gli italiani, per complesse ragioni storiche, hanno sempre avuto verso le istituzioni pubblico-statali; dall’altro con la mentalità cospirazionista e paranoide che è ormai divenuta uno dei tratti caratterizzanti l’odierna cultura di massa. Ci si può fidare di uno Stato (e dei suoi rappresentati formali) anche solo sospettato di tramare e di venire a patti (nemmeno per paura o debolezza, ma per l’interesse di pochi e per brama di potere) con coloro che dovrebbe invece perseguire, si tratti di mafiosi o magari anche di terroristi? Ovviamente no, con i risultati che nei decenni abbiamo visto: la perdita crescente di quel senso della fiducia e della lealtà, tra Stato e cittadini, senza il quale nessuna convivenza ordinata è possibile. È così accaduto che la storia segreta o occulta d’Italia si sia mangiata quella palese e manifesta, alla quale nessuno più crede considerandola solo la copertura edificante e didattica di una realtà delle cose profonda e conturbante custodita da pochi e che gli italiani avrebbero diritto finalmente a conoscere, per come la si può ricostruire nelle aule dei tribunali, se solo la magistratura potesse fare il suo corso, più che nei libri di storia. Un desiderio collettivo di giustizia e verità in sé apprezzabile e condivisibile visto che nella storia d’Italia (come in quella di ogni altra nazione) non mancano effettivamente i buchi neri, le pagine controverse e gli episodi spesso destinati a restare inspiegati. Ma all’interno del quale rischia però di incunearsi una visione alterata e grossolana della democrazia italiana, ridotta proprio da coloro che si ergono a suoi campioni e difensori a una sommatoria di vicende oscure e trame indicibili, a un noir politico-giudiziario, a una congiura permanente per il potere e i soldi. Sino a definire quel clima d’opinione grazie al quale il qualunquismo antipolitico, da semplice vocazione protestataria, ha finito per trasformarsi in una realtà politica sempre più radicata nel corpo sociale. E all’interno del quale vanno altresì inquadrati il conflitto ormai endemico tra magistratura e politica (con la prima impegnata a perseguire coloro che la seconda si ostinerebbe a proteggere) e un modello di giornalismo che si vorrebbe di mobilitazione civile e contropotere democratico, ma che in realtà spesso sfocia nel sensazionalismo intriso di retroscena a buon mercato e nello spirito di denuncia ma sempre a danno degli avversari politici del momento. Se è vero che la criminalità (quella vera) prospera maggiormente dove ci sono caos sociale, sfiducia generalizzata e istituzioni deboli bisognerebbe allora chiedersi quanto pericoloso sia stato coltivare e continuare a propalare questa lettura di un potere pubblico, come quello italiano, abituato a sua volta ad agire nell’illegalità. Delegittimare rappresentanti e apparati dello Stato con l’arma del sospetto permanente equivale a ricercare la verità o è un favore fatto ai suoi nemici? Meloni blinda Nordio: “L’ho voluto fortemente, la fiducia in lui è massima” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 23 gennaio 2023 In settimana previsto il faccia a faccia tra premier e Guardasigilli. “Piena fiducia nel Guardasigilli”. Giorgia Meloni prova a disinnescare la mina-giustizia, prima di partire per l’Algeria fa diffondere una nota da palazzo Chigi per riportare la calma nella maggioranza dopo l’affondo sulle intercettazioni telefoniche del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una frustata ai pm che non era piaciuta a tanti sia tra le file della Lega che di Fdi, tanto più a pochi giorni dall’arresto di Matteo Messina Denaro effettuato - assicurano i magistrati - proprio grazie alle intercettazioni telefoniche. Un crescendo di tensioni che la presidente del Consiglio ha voluto stoppare con il suo intervento. “Spiace deludere - si legge nella nota - ma il clima nel Cdm è ottimo e tutti i ministri lavorano in piena sinergia con palazzo Chigi. Nello specifico, il presidente Meloni ribadisce la sua piena fiducia nel Guardasigilli, che ha fortemente voluto a via Arenula e con il quale mantiene contatti quotidiani”. Inoltre, viene precisato, i due “incontreranno in settimana per definire il cronoprogramma delle iniziative necessarie a migliorare lo stato della giustizia italiana”. L’obiettivo è “portare avanti e ad attuare il programma di coalizione votato dai cittadini per dare all’Italia una giustizia giusta, veloce e vicina a cittadini e imprese”. Ma che “il clima” sia un po’ meno sereno di quello che afferma palazzo Chigi lo si deduce anche dalla nuova uscita di Matteo Salvini. Il leader della Lega già nei giorni scorsi aveva frenato la sortita di Nordio e ieri è tornato a piantare paletti. Certo, ha premesso, “bisogna punire gli abusi, usare le intercettazioni per interventi politici è indegno di un Paese civile. Leggere sui giornali intercettazioni private senza alcuna rilevanza penale è vergognoso. Chi lo fa - chi le fa uscire e chi le pubblica - deve essere punito”. Ma, ha poi ripetuto, “non dobbiamo tornare allo scontro fra politica e magistratura, fra poteri dello Stato, perché non si va da nessuna parte. La riforma della giustizia deve essere fatta con gli avvocati e i magistrati, non contro nessuno”. Insomma, giusto intervenire, ma senza cercare la rissa con le procure. Chi si schiera senza indugi con Nordio è Forza Italia. Licia Ronzulli, capogruppo del partito al Senato, assicura: “Da Forza Italia ci sarà tutto il supporto necessario all’attività del ministro Nordio: siamo assolutamente d’accordo con il suo programma, che coincide con il nostro. Non vedo tensioni nella maggioranza in tema di giustizia. Ci possono essere sensibilità diverse su alcuni aspetti, ma l’obiettivo comune è quello di dare vita a una riforma seria ed efficace”. Di sicuro le “sensibilità diverse” ci sono, se il Guardasigilli, sabato sera, è arrivato a citare Giobbe per descrivere la pazienza che deve usare di fronte alle critiche, anche della maggioranza”. Nell’incontro annunciato dalla premier si farà il punto della situazione, anche sulla proposta avanzata da Fdi di intervenire sui giornali che pubblicano piuttosto che limitando la possibilità dei magistrati di intercettare. Proposta che Nordio avrebbe appreso solo leggendo i giornali. Il capogruppo di Fdi alla Camera Tommaso Foti la mette così: “Siamo d’accordo con il ministro Nordio sia sul mantenimento delle intercettazioni telefoniche, per reati di mafia, terrorismo, eversione e reati satelliti, sia per quanto riguarda l’abuso delle intercettazioni stesse, che non possono diventare uno strumento di gogna mediatica”. Per Daniela Rufino, Azione, “Meloni gli chiederà modifiche alla sua proposta di riforma, o di allungarne i tempi per acquietare qualche alleato scettico o diffidente. Siamo in presenza, insomma, di un caos nient’affatto creativo”. Le opposizioni, d’altro canto, sono divise. M5s alza le barricate contro il ministro, il Pd con Andrea Orlando e Walter Verini ricorda che le norme per evitare abusi “già ci sono” e che va evitato il “bavaglio” all’informazione, mentre ai centristi arrivano generose aperture: “Se Nordio fa quello che dice lo appoggeremo”, dice Maria Elena Boschi. Caso Nordio, la premier Meloni teme l’asse con Renzi. Il Guardasigilli: c’è chi mi rema contro di Ilario Lombardo La Stampa, 23 gennaio 2023 La leader di Fratelli d’Italia ha paura che il confronto in atto possa cambiare gli equilibri nella maggioranza. Giorgia Meloni sta per prendere un aereo che la porta in Algeria. È ora di pranzo, nel dossier che le hanno preparato i diplomatici c’è tutto quello che deve sapere sul gas e sul piano per rendere l’Italia un hub energetico nel Mediterraneo e per tutta l’Europa, sugli accordi tra Eni e il colosso locale Sonatrach, sulle altre intese commerciali, sui bilaterali con il primo ministro e con il presidente algerino. Eppure è altrove che si sposta la sua attenzione. La maggioranza rischia di finire a pezzi sulla giustizia. I primi segnali sono preoccupanti. Il ministro Carlo Nordio è furibondo: si sente abbandonato dal partito che lo ha candidato, dalla leader che lo ha fortemente voluto nelle sue liste con la promessa di destinarlo al ruolo di Guardasigilli. La settimana che è iniziata con la gioia per l’arresto del capo dei capi di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro non poteva finire peggio. Le dichiarazioni di Nordio sulla magistratura e sull’antimafia hanno lasciato ferite. La coalizione di governo sbanda per tre giorni e solo ieri a Meloni diventa chiaro che la situazione può sfuggirle di mano. La lettura dei giornali che raccontano la solitudine di Nordio e le contraddizioni nella maggioranza le rendono poco piacevole la mattinata. E la nota che Palazzo Chigi pubblica prima di partire per Algeri racconta proprio di questa ansia. In realtà, Meloni sa bene cosa è successo. Sa bene che ci sono due anime militarizzate nella destra, inconciliabili tra di loro, una meno e una più attenta alle ragioni dei magistrati. Troppe voci differenti, senza un coordinamento e una linea chiara. Bisogna fare ordine. Fissare un cronoprogramma, che la presidente del Consiglio ha intenzione di discutere in settimana con il ministro della Giustizia. Anche perché su questo tema rischia di aprirsi una faglia che può spezzare i confini interni ed esterni della maggioranza. Il Terzo Polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda non ha mai nascosto le simpatie per Nordio, e l’asse potrebbe favorire anche i berlusconiani più insoddisfatti dagli equilibri del governo. Alla Camera, durante le comunicazioni in Aula, a molti deputati non è sfuggito quell’annuire convinto del ministro mentre il deputato di Azione Enrico Costa illustrava il suo progetto di legge per limitare la pubblicazione delle intercettazioni sui giornali. Non solo. Nel giro massimo di un paio di settimane, la commissione Affari costituzionali dovrebbe calendarizzare l’altra proposta di Costa, sulla separazione delle carriere dei magistrati. Altro capitolo caro a Nordio, su cui è possibile una convergenza con i centristi e con Forza Italia, anche se la discussione sarà lunga e non porterà mai a una legge prima di due-tre anni. “Resta il fatto - spiega Costa - che noi continuiamo a sostenere le linee programmatiche del ministro, note a tutti da sempre e che Meloni conosceva benissimo prima di chiamarlo al governo. Forse è la premier ad aver cambiato idea”. Per la riforma della giustizia Nordio ha un calendario chiaro in testa, con un occhio alla realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza: “Prima - sostiene - voglio concentrarmi sugli interventi che favoriscono l’economia e gli investimenti”. Dunque, abuso d’ufficio e traffico di influenze. Ma già qui le idee sono diverse: Nordio è per abolire l’abuso, FdI è per limitarsi a modificarlo. Il Guardasigilli, poi, vorrebbe passare alle intercettazioni. Per limitarle il più possibile. Non proprio quello che hanno in programma di fare i falchi del partito della premier. Tutt’altro. Il sottosegretario alla Giustizia di FdI, Andrea Delmastro, continua a ripetere che l’argomento “è chiuso” e che al massimo le nuove norme colpiranno “gli abusi della stampa”. I rapporti del sottosegretario con Nordio sono stati segnati da continui distinguo, che hanno innervosito il titolare di Via Arenula. Prova ne è anche il confronto acceso tra i due nel cortile della Camera, notato durante le votazioni sul Csm. Negli ultimi giorni, Nordio ha avuto più di una telefonata con Meloni. A lei ha ribadito che non ha intenzione di dimettersi ma anche che non tradirà mai il suo amore per il garantismo. Vuole capire però se i membri del governo sono con lui. Perché, sostiene, è da alcune componenti dell’esecutivo che sente mancare il sostegno e la fiducia. E non si riferisce solo a Delmastro, ma anche a chi abita quotidianamente le stanze di Palazzo Chigi. Due nomi fanno in queste ore fonti vicine al ministro: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e il vice capo del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi (Dagl) Roberto Tartaglia. Entrambi non hanno apprezzato le parole di Nordio in Aula su mafia e magistrati, e avrebbero voluto che Nordio cedesse sull’opportunità di inserire l’aggravante mafiosa nella riforma Cartabia sulla procedibilità d’ufficio in un decreto d’urgenza. Il ministro, invece, ha preferito limitarsi a un disegno di legge. Mantovano è un giurista, molto stimato da Meloni, un magistrato di Cassazione che, ai tempi in cui era sottosegretario all’Interno - nei governi Berlusconi - si spese molto per le campagne antimafia e a favore delle leggi a protezione dei testimoni di giustizia. Tartaglia anche è un magistrato e ha partecipato alle indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, niente di più lontano per cultura e impostazione da Nordio: chiamato dall’ex ministro grillino Alfonso Bonafede a ricoprire il ruolo di vice capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stato poi spostato da Mario Draghi al Dagl, a Palazzo Chigi, e qui confermato da Meloni. Intercettazioni, la deriva della destra di Ezio Mauro La Repubblica, 23 gennaio 2023 Come in una maledizione ideologica a cui non può sfuggire, la destra riapre l’armadio dei suoi fantasmi rilanciando la campagna contro le intercettazioni e contro l’informazione, che in realtà è una battaglia di retroguardia a tutela della classe dirigente: e come tale non è certo nelle priorità della popolazione, ma al contrario può risvegliare un movimento spontaneo a difesa della legalità, degli strumenti necessari a garantirla, e del diritto dei cittadini a conoscere e sapere. Il fronte della giustizia, scelto come simbolico da tutte le destre che si sono avvicendate al governo, moderate o radicali, rischia così di diventare la prima vera pietra d’inciampo di Giorgia Meloni. Che quand’era all’opposizione ha coltivato e corteggiato come tutti i populismi il giustizialismo allo stato brado, e oggi dal governo deve riconvertire questo sentimento popolare nel suo contrario, con misure di protezione di quella che un tempo avrebbe battezzato con il concetto-padre di tutti i qualunquismi, la “casta”. Sono quasi trent’anni che questa operazione politica si ripropone, a ondate, come se la distorsione attraverso la legge del meccanismo naturale delle inchieste giudiziarie, imposta da Silvio Berlusconi per la sua personale salvaguardia, avesse seminato nella società politica una vera e propria controcultura, che continua a produrre i suoi effetti anche oggi che l’avventura berlusconiana è devitalizzata e il peso politico del Cavaliere è diventato residuale. Dopo aver tentato di trasfigurare le intercettazioni da strumento tecnico di indagine in attentato costante alla privacy degli italiani, oggi la destra si trova di fronte quel deposito ideologico sproporzionato che ha accumulato per tre decenni, e chiede alla premier di gestirlo, perché fa parte della sua cultura identitaria, come un comandamento inciso sul marmo berlusconiano nel decalogo fondativo: fino al punto di vedere - com’è accaduto - il potere esecutivo che usa il legislativo per ostacolare il giudiziario, con buona pace di Montesquieu. La naïveté manifesta di Carlo Nordio, elevato al rango di Guardasigilli per la sua voglia di regolare i conti con la magistratura di cui ha fatto parte, ma totalmente sprovveduto nel calcolo della logica politica, dei suoi modi e dei suoi tempi, lo ha portato a dichiarare guerra alle intercettazioni proprio nel momento in cui andava finalmente in porto l’eterno lavoro di indagine per catturare Matteo Messina Denaro, un’operazione che è stata possibile grazie all’uso faticoso e sofisticato degli ascolti di polizia, guidati dalla magistratura. Anzi, gli uomini che hanno guidato l’azione risolutiva con l’arresto del latitante numero 1 hanno spiegato con chiarezza che l’individuazione del capomafia, la scoperta dei suoi programmi e la mappatura dei suoi movimenti sono state possibili soltanto grazie a quel meccanismo investigativo complesso e delicato che si basa sulla cosiddetta “captazione”, cioè sulle “cimici” dislocate in siti cruciali, sulle intercettazioni e quindi sulla possibilità tecnica di ascoltare la rete di supporto mafioso che parla con se stessa, e decifrarla. L’ossessione del ministro è stata così svuotata dall’irruzione della realtà, e Nordio si è mostrato al Paese con l’ideologia che gli si è afflosciata in mano, come un palloncino sgonfio. La politica non perdona le scelte controtempo, smentite dai fatti nel momento stesso in cui si annunciano. Il Guardasigilli continua a perdere autorità e rilevanza giorno dopo giorno, errore dopo errore, fino all’ultimo: sembra che non se ne renda conto, come se la spinta privata a insegnare il mestiere di magistrato alla magistratura prevalesse sulla funzione pubblica cui è chiamato, e soprattutto tenuto. Ma chi paga il prezzo politico di questa deriva è naturalmente Meloni. Probabilmente la presidente del Consiglio mettendo le intercettazioni nel mirino consegnava un primo tagliando dei suoi debiti politici dovuti a Forza Italia, alleato obbligato ma innervosito dal ruolo gregario, addirittura da junior partner, cui viene ormai relegato: il prossimo con ogni probabilità sarà l’autonomia rivendicata dalla Lega. Ma Meloni sa che il suo elettorato a differenza di quello berlusconiano reclama coerenza nella lotta all’illegalità, e l’immagine di Fratelli d’Italia come partito d’ordine rischia di venire compromessa dalla guerra di Nordio alle intercettazioni. Aggiungiamo poi la quota di cittadini che resta sensibile alla libertà di stampa, riconosce il dovere di informare, cui corrisponde il diritto ad essere informati, senza che siano il governo e il Parlamento a decidere cosa comprendere e cosa escludere dal flusso quotidiano delle notizie. Anche perché il rispetto della privacy che viene invocato è già garantito dalle misure del Guardasigilli Orlando nel 2017, che obbligano le procure ad escludere tutte le intercettazioni che non sono rilevanti per l’inchiesta, confinandole in un archivio segreto senza che possano essere utilizzate e divulgate. Questi maldestri tentativi di controllo sul mondo delle procure e sui giornalisti, per condizionare il loro lavoro limitandone gli ambiti, in un controsenso logico vengono annunciati in nome della libertà. Arriva in questo modo al pettine il nodo della concezione della libertà da parte della destra: non la possibilità di esercitare senza alcun condizionamento la propria funzione nel rispetto di un codice riconosciuto e accettato da tutti all’insegna del bene comune, ma la subordinazione politica ad uno spirito del tempo che non riconosce l’autorità della regola e il valore della norma, e dunque “libera” il cittadino da ogni vincolo e da qualsiasi controllo, soprattutto se fa parte della società politica che si autogarantisce. Fuori dalla regola, l’individuo così liberato conta solo di per sé, estraneo ad ogni legame sociale e all’intero sistema di relazione. È la vera solitudine dei numeri primi, nella nuova stagione che ci viene confusamente proposta: quella dell’egolibertà. Intercettazioni, mai più bavagli all’informazione di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 23 gennaio 2023 Il ministro Nordio ha con fragore lanciato nel dibattito politico il tema di una riduzione delle intercettazioni disposte dal giudice (non dal pubblico ministero, che chiede ma non decide). Tra le tante dichiarazioni e talora approssimate battute, gli attacchi del ministro alla coppia intercettazioni/pubblici ministeri, progressivamente sembrano concentrarsi sulla lotta agli “abusi”. Così da un lato ottiene l’accordo di molti o di tutti - chi non condivide la necessità di combattere di abusi? - ma dall’altro resta nel vago. Quali abusi? Gli abusi nell’applicare la legge disponendo le intercettazioni o gli abusi che derivano dalla violazione della legge, come sarebbero certe pubblicazioni delle conversazioni intercettate? O il ministro, come pare da alcune delle sue esternazioni, intende riferirsi ad abusi che deriverebbero proprio dalle leggi, che dovrebbero quindi essere riformate restringendo il campo di possibile uso delle intercettazioni? A tal proposito occorrerebbe chiarezza in sede governativa e parlamentare. La formula recentemente adottata che richiama i reati di mafia e quelli “satellitari” è estremamente vaga: non si capisce se ci si riferisce alla natura satellitare in astratto, che richiederebbe un elenco di reati che per la loro natura para-mafiosa giustificherebbero l’uso delle intercettazioni, oppure ad un legame in concreto, nella singola indagine penale per reati di mafia. Comunque, fuori dalle indagini su fatti di mafia, pare si voglia escludere l’uso delle varie forme di intercettazione di conversazioni e di immagini, quando si tratta dei reati variamente riconducibili all’idea della corruzione: gravissimi anche quando non hanno a che fare con la mafia. Così alla fine viene intesa la posizione del ministro, da chi la applaude come da chi se ne scandalizza. Sorprendono tra l’altro le dichiarazioni di un ministro, che ha da poco partecipato alla approvazione del decreto legge che introduce un nuovo reato e che per gli organizzatori di un rave party, prevede la pena da tre a sei anni di reclusione: pena manifestamente sproporzionata, ma che si spiega perché, proprio per la sua entità, consente le intercettazioni. Quei raduni vengono organizzati tramite lo scambio di messaggi a catena su dove e quando ritrovarsi: senza intercettazioni non sarebbe possibile svolgere indagini. Intercettazioni dunque anche se non c’entra la mafia. Se invece intende combattere le fughe di notizie, che avvengano prima che, con la comunicazione a indagati e parti offese, cada il segreto sugli atti del procedimento, il ministro dovrebbe considerare la difficoltà di identificare l’origine delle fughe. Molte persone necessariamente conoscono il contenuto delle conversazioni intercettate, persino prima del magistrato che procede. Il ministro promuova l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, se vi sono prove di loro responsabilità. Sapendo però che ai giornalisti è garantita la protezione delle loro fonti. Ma la lotta alla pubblicazione di stralci di conversazioni intercettate, che indebitamente offendano il diritto alla riservatezza delle persone (non solo quelle estranee al procedimento penale) riguarda anche i giornalisti. V’è infatti chi passa notizie ai giornalisti, ma sono costoro che decidono cosa e come pubblicare. E i giornalisti non hanno solo il dovere di rispettare la sfera privata delle persone. Essi, quando si tratta di persone note o che esercitano funzioni pubbliche, devono informare il pubblico su tutto ciò che non si esaurisce nell’ambito del loro ruolo o della loro vita pubblica. In questo senso è il codice deontologico dei giornalisti ed anche l’orientamento della giurisprudenza dei giudici nazionali italiani e della Corte europea dei diritti umani. Così, qualunque sia il segreto imposto dalla legge, rimane la libertà - o meglio il dovere - della stampa di informare su tutto ciò che ha rilievo per il dibattito pubblico. Senza quel tipo di informazione, non avrebbero senso la democrazia e le elezioni politiche che ne sono il presupposto. Si usa da tempo sostenere che non sarebbe pubblicabile ciò che non ha rilievo penale. Forse si intende riferirsi alle prove utili alle indagini penali. Ma il ruolo della stampa libera si svolge e trova limiti su un piano diverso, che è quello della rilevanza per la formazione consapevole degli orientamenti della pubblica opinione, attraverso una informazione completa. In particolare, il giornalismo di investigazione necessariamente e opportunamente forza i limiti dei segreti; così facendo svolge la funzione essenziale di controllo democratico dei poteri pubblici e privati che condizionano la società. Dietro il rifiuto delle intercettazioni disposte dal giudice nelle indagini penali e la denunzia di abusi nella pubblicazione del loro risultato c’è anche l’insofferenza per la pubblicizzazione di circostanze che si vorrebbero segrete e che invece divengono note. A questo orientamento occorre resistere. Con la precisazione però che l’interesse per il dibattito pubblico non coincide con ciò che vuole solo soddisfare la curiosità del pubblico. Sui limiti del primo rispetto alla seconda dovrebbero con rigore vegliare gli organi della professione giornalistica, poiché tanto più difendibile è la libertà di informare, quanto più attento è il rispetto dei suoi limiti e della sua finalità. Il problema delle intercettazioni è la loro gestione mediatico-giudiziaria di Giuliano Ferrara Il Foglio, 23 gennaio 2023 Nei sistemi con una cultura giurisdizionale solida, si intercetta ma non si pubblica, se non in casi rarissimi. L’accusa è una cosa seria e non un fuoco meschino di sospetto. Il ministro Nordio concentri su questo il suo raggio d’azione. Vero che le intercettazioni telefoniche e ambientali sono lo strumento perfetto per le indagini di qualunque tipo; vero anche il collegamento tra gli ascolti legali su materie e in ambiti diversi dalla diretta area mafiosa, che però portano a risultati nello smantellamento della criminalità organizzata. Sminuire con le chiacchiere il fenomeno non è garantismo giuridico, è impresa ciarliera e dissennata. Ma accettare la gestione mediatico-giudiziaria delle trascrizioni di conversazioni e scambi, così come si presenta da parecchi anni e così come tende a evolvere con tecniche sempre più sofisticate di ascolto, è corruzione della natura del processo penale, indagini comprese come suo fondamento originario, è la fine di ogni tipo di garanzia per il cittadino e l’inizio di un mondo fosco in cui il sospetto, come diceva un celebre gesuita di Palermo, è l’anticamera della verità e non, come dovrebbe essere, di un accertamento fondato su prove testimoniali e documentali da portare e verificare nel dibattimento. Direi che Carlo Nordio, dal momento in cui è passato dalla funzione di commentatore, nella veste di magistrato in pensione, alla funzione di ministro della Giustizia, avrebbe dovuto concentrare su questo il suo raggio d’azione, limitando chiacchiere ripetitive d’opinione e esternazioni a raffica. Non è successo, e ne scaturiscono problemi per tutti, dopo che l’inchiesta di Bruxelles ha colpito fenomeni illegali di lobbismo cash con gli ascolti autorizzati, e sempre gli ascolti hanno condotto alla cattura di un boss latitante da trent’anni. Certe volte si ha la sensazione che i garantisti, quorum ego, considerino la materia della loro riflessione e iniziativa come una battaglia persa in partenza, lavorando attivamente per i loro cocciuti avversari giustizialisti; e se lo scontro è tra i poteri di intercettazione della polizia giudiziaria e dei pm, con il corollario enfatico della libertà di stampa e informazione, e le garanzie come generica tutela della privacy, bè, non c’è partita, anche un bambino lo capisce di primo acchito. Nei sistemi con una cultura giurisdizionale solida, e in cui vige il processo accusatorio, e non accusatorio all’italiana, si intercetta ma non si pubblica, se non in casi rarissimi e con una tutela strenua della privacy, perché la libertà di informazione è parte di una trama di diritti riconosciuti all’individuo e non una mistificazione pomposa, e il risultato degli ascolti è sottoposto, per diventare prova processuale seria, a una teoria di condizioni che subordinano la tecnologia alla procedura di accertamento, alla prova come fatto e non come ascolto a raggiera, alla capacità di stabilire una verità giuridicamente fondata e non di squadernarla, la Verità, con la tecnica gesuitica inquisitoriale della sua anticamera di sospetti. Non è poi così complicato. Il fatto dirimente è la cultura della giurisdizione, l’idea che l’accusa è una cosa seria e non un fuoco meschino di sospetto, un grossolano godimento della speranza di sputtanare gli altri, un modo di risolvere controversie politiche e di immagine, uno strumento di lotta politica. Decisivo è il percepire i magistrati e la polizia giudiziaria come organi che lavorano su ipotesi da verificare al di là di ogni ragionevole dubbio, secondo il modulo e il costume del giusto processo, e giudici separati in carriera, addirittura elettivi nel sistema americano, che procedono e mandano solo e soltanto nei casi in cui possono superare la prova del dubbio. Il ministro della Giustizia di un governo che abbia vero interesse a riformare la materia dovrebbe concentrarsi su questo, per combinare efficacia delle indagini e massimo garantismo giuridico. E chi si vuole, si dice, affetta o è convintamente dalla parte delle garanzie per il cittadino, compresa la garanzia di una accettabile incisività delle indagini, del dibattimento e del giudizio finale, non dovrebbe girare in tondo, come avviene da noi da anni, alle intercettazioni, dovrebbe riformare la materia su cui le tecnologie di ascolto nei casi di ipotesi criminale hanno la loro influenza. Ci vorrebbe dunque un’altra classe dirigente, ci vorrebbe un altro paese, ci vorrebbe un’altra cultura delle libertà. Sì, è quello che ci vorrebbe. Come funziona nei giornali la macchina dello sputtanamento via intercettazioni di Pierluigi Battista huffingtonpost.it, 23 gennaio 2023 Interi volumi delle dimensioni di “Guerra e pace” arrivano ai giornali che per giorni e giorni distilleranno le intercettazioni come capitoli di un grande romanzo. Sono tanti anni che bazzico i giornali e so come funziona la macchina delle pubblicazioni delle intercettazioni. Lo voglio raccontare a chi non lo sa e che magari crede che ancora sia questione di violazione di segreto istruttorio, di carte uscite furtivamente, di manine o manone. No, è molto peggio. È tutto perfettamente legale e qui sta la perversione e speriamo che il ministro Nordio tanto detestato dai mozzaorecchi (copyright Giuliano Ferrara) vinca questa battaglia a favore del diritto e della civiltà. Allora funziona così. Il magistrato inquirente, quando pubblica l’ordinanza di custodia cautelare, acclude dei documenti che dovrebbero dimostrare la fondatezza di una misura così delicata per la libertà delle persone. La logica vorrebbe che accludesse alcuni documenti essenziali, non l’intero materiale raccolto. E invece no: per completezza vengono accluse non decine, ma centinaia, talvolta migliaia di intercettazioni che coinvolgono un numero spropositato di non indagati (è nata addirittura la figura para-giuridica molto frequentata dai giornali organi del mozzaorecchismo del “coinvolto”). Interi volumi delle dimensioni di “Guerra e pace” arrivano ai giornali (in pdf o talvolta in voluminosi faldoni) che per giorni e giorni distilleranno le intercettazioni come capitoli di un grande romanzo dello sputtanamento. In tv hanno provveduto alla recitazione da parte di doppiatori non di prima qualità che recitano un testo attribuito al personaggio di volta in volta illuminato sul teleschermo. Una nuova forma narrativa perfettamente legale. Una macchina della devastazione delle reputazioni di persone perbene governata da meccanismi oliatissimi e in cui le parole della difesa si disperdono come gocce in un oceano. Dicono che non è più così, perché una legge ha stabilito eccetera eccetera. Ma in almeno quattro recenti casi che mi vengono in mente (il caso Morisi, il caso dello scontro tra Zaia e Crisanti, il caso Malagò/Lega calcio, il caso Juve/plusvalenze) si nota che purtroppo la macchina divoratrice non è mai sazia. Bisogna fermarla. La crociata lunga vent’anni per smantellare le intercettazioni. E punire chi le pubblica di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2023 Da Castelli a Nordio, da Mastella ad Alfano e Orlando. Governi di ogni orientamento hanno provato - per fortuna quasi sempre a vuoto - a restringere l’uso dello strumento in mano ai pm e a limitare il diritto di cronaca. Il primo tentativo nel 2005, quando Berlusconi si infuria per i nastri dei “furbetti del quartierino”. Il più pericoloso? Il bavaglio del secondo governo Prodi, approvato dalla Camera quasi all’unanimità. Fermare le intercettazioni, depotenziandole o limitandone l’uso. Oppure, se proprio non ci si riesce, impedire che i loro contenuti vengano diffusi sui media. L’assalto lanciato da Carlo Nordio, ministro della Giustizia del governo Meloni, è solo l’ultimo di una lunga e ossessiva crociata portata avanti dalla politica. Da vent’anni governi di ogni orientamento provano - per fortuna quasi sempre a vuoto - a smantellare lo strumento tecnico più importante che la magistratura ha a disposizione per le indagini, o a punire i giornalisti che riportano il contenuto di conversazioni citate negli atti (non segreti). E se Nordio - per ora - si è limitato agli annunci, i suoi predecessori hanno sempre partorito appositi disegni di legge. Solo uno di questi, la riforma Orlando, è stato approvato in via definitiva, ma altri ci sono arrivati molto vicini. Vediamoli. Berlusconi-Castelli: ascolti solo per tre mesi - È il 9 settembre 2005 quando il governo Berlusconi III vara un ddl sulle intercettazioni firmato dall’allora premier e dal suo Guardasigilli, il leghista Roberto Castelli. A scatenare la furia dell’uomo di Arcore è la pubblicazione dei nastri dell’inchiesta sui “furbetti del quartierino”, in cui viene chiamato in causa dall’immobiliarista Stefano Ricucci. Ma l’intercettazione più famosa di quella stagione viene pubblicata pochi mesi più tardi: è il 31 dicembre 2005 quando proprio Il Giornale della famiglia Berlusconi pubblica le conversazioni tra Giovanni Consorte, numero uno di Unipol, e il segretario dei Ds Piero Fassino: i due parlano della scalata di Unipol a Bnl. “Abbiamo una banca?” è la frase di Fassino che finisce sul foglio della famiglia del premier e scatena la tempesta politica sul segretario Ds. La conversazione - mai trascritta né depositata agli atti - è del 18 luglio di quello stesso anno e diventerà oggetto di un processo per concorso in rivelazione del segreto di ufficio e ricettazione in cui Silvio Berlusconi verrà condannato in primo grado a un anno di reclusione - due anni e tre mesi al fratello Paolo - e infine prescritto nove anni più tardi. Con buona pace del testo Castelli che prevedeva una durata massima di tre mesi alle captazioni e obbligava i pm ad avvisare con raccomandata i non indagati quando depositava intercettazioni in cui compariva la loro voce. Il ddl disponeva inoltre il divieto di pubblicazione anche “parziale o per riassunto o nel contenuto” degli atti non più coperti dal segreto investigativo (cioè quelli a disposizione delle difese) fino alla conclusione delle indagini preliminari. E prevedeva sanzioni fino a cinquemila euro per i giornalisti e fino a un milione e mezzo per gli editori che non si fossero adeguati. Le parole dell’epoca di Castelli sembrano prese dalla cronaca di oggi: “Intendiamo evitare gli abusi, non limitare la libertà di stampa”. Il provvedimento non arrivò mai nemmeno in Aula: rimase bloccato in Commissione al Senato fino alla fine della legislatura. Mastella: censura totale all’unanimità - Passano pochi mesi, cambia la maggioranza ma non la musica: il 4 agosto 2006 il governo Prodi II dà il via libera al ddl Mastella, la censura più audace mai concepita nei confronti dell’informazione giudiziaria. Il disegno vietava la pubblicazione di “testo”, “riassunto” e “contenuto” di tutti gli atti d’indagine fino all’inizio del processo, e per quanto riguarda gli atti che rimangono nel fascicolo del pm (cioè quelli non acquisiti al dibattimento) addirittura fino alla sentenza d’appello: un black-out informativo lungo anni. Le multe per il cronista che avesse violato i divieti sarebbero diventate pesantissime: da un minimo di 51 e un massimo di 258 euro si sarebbe passati a un minimo di diecimila e un massimo di centomila euro. Sulle intercettazioni poi era previsto il bavaglio totale: la pubblicazione, anche del solo contenuto, sarebbe stata sempre vietata. Questo ddl sarà incredibilmente approvato quasi all’unanimità dalla Camera il 17 aprile del 2007: votano a favore tutti i partiti e il provvedimento passa con 447 sì, nessun no e nove astenuti. Durante l’iter al Senato, però, nel neonato Pd iniziano a sorgere dei dubbi e il testo rallenta: la caduta del governo a inizio 2008 lo affosserà definitivamente. Alfano: per intercettare servono le prove - Si arriva al quarto governo Berlusconi, che subito rimette il tema in cima all’agenda con il nuovo ministro della Giustizia, Angelino Alfano. Il suo ddl sarà approvato sia dalla Camera (a giugno 2009) sia dal Senato (un anno esatto dopo), ma con alcune modifiche che gli impediranno di diventare legge. La versione licenziata da palazzo Madama prevedeva che per poter intercettare il pm dovesse portare non solo gravi indizi, ma anche elementi di prova a carico degli indagati: un modo per rendere inservibile lo strumento, che per sua natura è esso stesso un mezzo di ricerca della prova. Ad autorizzare gli ascolti poi non sarebbe stato più un gip ma un collegio di tre giudici. Di nuovo si volevano imporre limiti di durata: al massimo 75 giorni, dopodiché per ottenere le proroghe (fino a un massimo di un anno) il pm avrebbe dovuto chiedere una nuova autorizzazione ogni tre giorni. E ai giornali si impediva di riportare contenuti di intercettazioni (anche citati in atti non segreti) fino al termine dell’udienza preliminare. Anche in questo caso, a rileggere i lanci di agenzia con le parole di Alfano sembra di sentir parlare Nordio: “Le intercettazioni sono state poco efficienti, poco riservate e troppo costose. Vogliamo che finisca il cattivo costume di vedere registrate e lasciate agli atti telefonate che nulla hanno a che fare con le indagini per poi vederle, per giunta, pubblicate sui giornali”. I “saggi”: “Il diritto all’informazione? Un pretesto” - Berlusconi e i suoi proveranno a far approvare il bavaglio anche sotto il governo Monti, cercando di barattarlo con l’ok alla legge Severino. Ma l’iter si bloccherà definitivamente nel secondo passaggio a Montecitorio. Il tema torna a far discutere agli esordi della legislatura successiva: nella relazione finale del gruppo dei “dieci saggi”, nominati dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per sbloccare lo stallo istituzionale, si proponeva di “porre limiti alla divulgazione delle intercettazioni perché il diritto dei cittadini a essere informati non costituisca il pretesto per la lesione di diritti fondamentali della persona”. Il centrodestra prova a riproporre in Parlamento copie carbone dei ddl Mastella e Alfano, ma senza successo. La riforma Orlando e il tentato carcere ai cronisti - Così le armi tacciono fino al 2017, quando - sotto il governo Gentiloni - viene approvata la legge delega che porta la firma del Guardasigilli Pd Andrea Orlando. Nello schema di decreto delegato, tra le altre cose, si cercherà di impedire ai magistrati di citare tra virgolette i contenuti delle intercettazioni in tutti gli atti precedenti alla fase dibattimentale. Questa singola norma sarà poi modificata e nel testo finale sarà consentito di riportare “brani essenziali” e “quando necessario”. Ma nella riforma Orlando c’erano altri contenuti scivolosi, come l’attribuzione alla polizia giudiziaria (e non al pm) del compito di decidere quali fossero i brani “rilevanti” da trascrivere e la previsione del carcere fino a tre anni per i cronisti che pubblicassero intercettazioni stralciate. Quella legge sarà bloccata dal governo Conte I ed entrerà in vigore solo nel 2020, dopo una profonda revisione per eliminare gli aspetti più controversi. Ora però per le indagini e il diritto di cronaca sono in arrivo altri tempi bui. Carofiglio: “Dal ministro solo pericolosa propaganda che genera impunità” di Giuliano Foschini La Repubblica, 23 gennaio 2023 L’ex magistrato critica la stretta sulle intercettazioni proposta dal Guardasigilli: “Spuntare le armi agli investigatori dà garanzie ai criminali. Ricordo di aver letto sui giornali gli ascolti delle sue inchieste sul Mose, ora lo dimentica”. Gianrico Carofiglio, in Italia esiste una necessità di modificare la disciplina delle intercettazioni come dice il ministro della Giustizia, Carlo Nordio? “No. Purtroppo siamo in presenza di una pericolosa operazione di propaganda che mira di allontanare il dibattito dalla verità e che rischia di generare impunità per gravi reati senza in alcun modo aumentare le garanzie per i cittadini. Come stanno cercando di spiegare i magistrati le norme e le garanzie ci sono già. Mi faccia sintetizzare la procedura: sono necessari in primo luogo i gravi indizi di reato e l’assoluta indispensabilità dell’intercettazione per il proseguimento delle indagini. Ripeto: assoluta indispensabilità per le indagini. Il pubblico ministero formula una richiesta, il giudice controlla che i presupposti vi siano - e in tanti casi che non vengono fuori, il controllo è sfavorevole e l’intercettazione non viene concessa - e autorizza con provvedimento motivato per un tempo limitato”. Il rischio è che si registrino conversazioni non pertinenti con le indagini... “ Le intercettazioni che non riguardano le indagini devono, e sottolineo devono, essere distrutte. Forse al ministro, in pensione come magistrato dal 2017, sfugge che da due anni esiste una norma che impone di inserire nel fascicolo soltanto le conversazioni che il pm e un giudice, ripeto un giudice, ritengono rilevanti ai fini dell’inchiesta. Al di fuori di questa disciplina, giustamente tassativa e rigorosa, non è possibile fare alcun uso di eventuali captazioni. Sulla indispensabilità investigativa dello strumento penso non ci sia nemmeno da discutere, anche se il ministro si è lasciato andare a dichiarazioni alquanto originali sul punto, in Parlamento. Cose tipo: i mafiosi non parlano a telefono e roba del genere. Sfortunato, perché l’ha detto mentre veniva preso il più importante latitante italiano e uno dei più importanti del mondo con il fondamentale apporto delle intercettazioni”. Le intercettazioni per mafia e terrorismo non verranno toccate... “Altra cosa bizzarra. Nel migliore dei casi dipende da incompetenza investigativa. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con tali questioni sa che le indagini di criminalità organizzata nascono spesso da inchieste partite per altri reati, primo tra tutti la corruzione, ma anche quelli fiscali”. Dicono che in Italia si intercetta sempre di più... “Non è vero: il numero scende costantemente ormai da anni. Limitare dunque oggi, in maniera indiscriminata e propagandistica, l’uso delle intercettazioni non aggiunge alcuna garanzia per i cittadini. Mi verrebbe da dire che invece offre qualche garanzia in più ai criminali, spuntando le armi agli investigatori”. Secondo il ministro la norma punta a evitare la pubblicazione delle conversazioni non rilevanti... “Un’esigenza sacrosanta. Già ampiamente tutelata dalla legge in vigore, come il ministro pare dimenticarsi o non sapere. Guardiamo le cose da vicino, sottraendoci alle suggestioni della propaganda. Sui giornali negli ultimi anni (da quando cioè è in vigore la riforma) abbiamo letto conversazioni che avrebbero dovuto essere distrutte, secondo la decisione del pm e del giudice? E che invece qualcuno passa ai media? La risposta è: no. Salvo un paio di casi - e per questi casi occorre capire cosa è successo, individuare e sanzionare i responsabili - tutte le conversazioni che sono state pubblicate erano regolarmente inserite nel fascicolo. Significa, ripeto, che avevano superato un controllo di legittimità e soprattutto che erano già state messe a disposizione degli indagati e degli avvocati. Detto questo, mi pare di ricordare, il ministro Nordio, quando era magistrato non aveva, come dire, un’opinione così negativa sullo strumento delle intercettazioni. Le ha usate moltissimo e mi sembra di aver letto proprio su Repubblica che nel procedimento sul Mose, di cui era coordinatore in qualità di procuratore aggiunto, siano state disposte più di 300mila ore di ascolti. Tantissime di quelle intercettazioni sono finite sui giornali. L’allora Pm oggi ministro ha qualcosa da dire sul punto? E l’opposizione che - M5S a parte - sembra piuttosto taciturna sull’argomento?”. “La mafia non è morta con l’arresto di Messina Denaro, ma c’è chi vuole rottamare il 41 bis” di Antonio Fraschilla La Repubblica, 23 gennaio 2023 Parla l’ex procuratore generale di Palermo, oggi senatore del M5s, Roberto Scarpinato. “Il boss ha avuto protezioni eccellenti con infiltrazioni anche negli apparati investigativi”. E avverte: “La borghesia mafiosa non ha bisogno di sparare, se si toccano le norme rimarrà impunita”. Palermo “Se passa l’idea che con l’arresto di Matteo Messina Denaro la mafia sia stata sconfitta, la legislazione antimafia è a rischio”. Oggi senatore della Repubblica per i Cinquestelle, da procuratore Roberto Scarpinato ha indagato a lungo su Matteo Messina Denaro. Pezzo per pezzo ha smantellato e confiscato il suo impero - nell’eolico, nella grande distribuzione, nell’edilizia, nel turismo - per anni ha seguito le tracce del superlatitante, come di chiunque potesse avere a che fare con lui. E di “Iddu” dice “non è stato un capomafia come tanti”. Chi è Matteo Messina Denaro? “Insieme a pochissimi altri, è stato una delle interfacce tra la mafia e le “menti raffinatissime” che hanno pianificato la strategia stragista del ‘92-93 affidando ai mafiosi prima il ruolo di braccio armato, poi di unici capri espiatori. Un’operazione di sistema da specialisti della strategia della tensione che a Palermo, Firenze, Milano e Roma, hanno utilizzato il linguaggio cifrato delle bombe per pilotare la transizione dalla Prima alla Seconda repubblica in modo indolore”. Nello specifico, cosa è successo? “Era necessario, come in passato, continuare a garantire l’impunità dei mandanti delle stragi neofasciste, di pezzi di Stato che avevano protetto gli esecutori, di capimafia autori di delitti politici eccellenti, dei vertici della massoneria deviata. Per questo si temeva l’avvento di una nuova maggioranza politica e di uomini come Falcone, Borsellino, Violante, De Gennaro e altri in posti chiave come il ministero degli Interni, della Giustizia, i vertici di polizia e servizi, la Procura nazionale antimafia”. Risultato? “Un war game fra lo Stato legalitario e quello “occulto” che si è chiuso con transazione: carcere per la componente militare, salvezza per i “principi” reinseriti nel nuovo ordine politico della Seconda Repubblica”. Cosa sa Messina Denaro di tutto questo? “Lui e pochi altri boss stragisti attualmente all’ergastolo sanno quanto basta per fare saltare la narrazione pubblica di stragi di esclusiva matrice mafiosa e per chiamare in causa molti “santi del paradiso”. Non è un caso che sia rimasto latitante per decenni”. Su che rete di protezione ha potuto contare? “Non solo locale e neanche limitata a circuiti massonici bene inseriti negli apparati istituzionali. È una questione di sistema. Più volte, abbiamo avuto il sentore che sapesse come si stessero muovendo le indagini. Il pedinamento della madre e della sorella in una occasione è saltato perché l’auto degli investigatori è stata fermata dalla stradale. Ci sono sentenze che confermano come gravi fughe di notizie si debbano a insospettabili inseriti in apparati investigativi”. Eppure adesso la sua latitanza si è conclusa “I boss all’ergastolo stavano esaurendo la pazienza. I segreti di cui sono depositari sono una polizza assicurativa per la libertà, ma anche un’invisibile prigione perché sanno bene che i “santi del paradiso” non possono essere sfidati apertamente. I tempi però sono cambiati. La mafia è stata cancellata dall’agenda politica. Dopo la riforma dell’ergastolo ostativo, che oggi consente l’uscita dal carcere anche a coloro che si rifiutano di collaborare, adesso manca solo l’ultimo step”. Che sarebbe? “Abolire il 41 bis che a tutt’oggi impedisce ai boss stragisti di usufruire della riforma”. Ma questo che ha a che fare con la cattura di Messina Denaro? “Lo ha spiegato Giuseppe Graviano facendo annunciare al suo portavoce Salvatore Baiardo che Messina Denaro era gravemente malato e si sarebbe fatto arrestare, evento che lui stesso ha definito “intrecciato” alla speranza di una progressiva uscita dal carcere degli altri boss stragisti. Si tratta ora di attendere e di fare consolidare nella pubblica opinione la narrativa di una mafia sconfitta, ponendo così le premesse per il definitivo smantellamento delle leggi speciali antimafia, incluso il 41 bis”. Diventerebbe possibile perché la mafia non sarebbe più considerata un pericolo? “E sarebbe un errore straordinario. Le aristocrazie mafiose sono una componente del sistema di potere occulto italiano che quando è necessario usa la violenza, altrimenti si avvale di altri strumenti, come la corruzione. Oggi non serve sparare”. Per quale motivo? “Alle mafie interessa fare soldi. E per esempio, il nuovo codice permette a un sindaco di gestire appalti fino a 500mila euro e la nuova disciplina dell’abuso d’ufficio rende non perseguibili tutte le attività discrezionali. Altre riforme, come quella sulle intercettazioni, sono in cantiere per limitare i poteri di indagine sui colletti bianchi. Che bisogno c’è della violenza?”. Il ministro Nordio sostiene che non riguarderà i reati di mafia... “Il ministro sembra far finta di non sapere che la mafia si individua perseguendo altri reati, come quelli connessi alla corruzione, che provoca danni per miliardi al Paese. C’è una mafia popolare con le sue attività ad alto rischio come estorsioni e droga e una borghesia mafiosa sempre più integrata nell’establishment. Dovesse passare questa riforma continuerà a essere perseguita la mafia visibile, che controlla il territorio, spaccia, fa estorsioni, ma chi la governa rimarrà al riparo”. No, criticare i magistrati non è un reato. C’è un giudice a Roma di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 gennaio 2023 Una storia e una sentenza che riguardano il Foglio e più in generale un aspetto dello stato di diritto: le sentenze si possono commentare e la critica si può esprimere “anche in forma di aperto dissenso”. Una svolta. Uno splendido giudice, che ringraziamo, qualche giorno fa ha depositato al tribunale di Roma una sentenza piuttosto gustosa. Una sentenza che riguarda questo giornale, sì, ma che riguarda più in generale un lato interessante dello stato di diritto: il diritto, per l’appunto, di non considerare i magistrati come delle entità intoccabili e non criticabili. In sintesi estrema: sì, cari magistrati, care vestali del diritto, le sentenze si possono commentare. La storia è questa. Il 30 giugno del 2020, su queste pagine, l’elefantino, Giuliano Ferrara, ha scritto un articolo formidabile su un grande scandalo italiano. Titolo: “Le porcherie rimosse contro Berlusconi”. Svolgimento: sette anni dopo il verdetto definitivo per frode fiscale contro il Cav., sette anni dopo la sentenza Esposito, dal nome del presidente del collegio giudicante della sezione feriale, sette anni dopo la sentenza in conseguenza della quale Berlusconi fu cacciato dal Senato della Repubblica, un relatore di quella sentenza, il compianto giudice Amedeo Franco, ammise, in una conversazione registrata mentre parlava con Berlusconi, che quel verdetto fu da lui giudicato “una porcheria”. Il frutto, ha così sintetizzato l’elefantino, “di una manovra oscena di assoggettamento alla casta togata della volontà popolare, della rappresentanza politica e dei diritti dell’opposizione parlamentare”. Poco tempo dopo quell’articolo, i magistrati che si sono sentiti chiamati in causa hanno scelto di citare in giudizio questo giornale, come spesso capita quando un magistrato viene criticato, e secondo i due magistrati attori, il Pres. Dott. Antonio Esposito e il Cons. Dott. Claudio D’Isa, quello del Foglio sarebbe stato, aperte virgolette, “un brutale e volgare attacco portato violentemente nei confronti sia, in primo luogo, del Presidente Esposito sia del Cons. D’Isa” in quanto nello scritto i giudici sarebbero “stati ingiustificatamente e gravemente accusati di aver strumentalizzato la funzione giudiziaria per finalità estranee a quelle sue proprie e di essere stati parziali, faziosi, non indipendenti nel giudicare il Dott. Berlusconi prestandosi ad un’operazione politica priva dei connotati dell’imparzialità ed indipendenza che devono caratterizzare la condotta del magistrato”. Questo giornale, in sede di difesa, ha spiegato di aver semplicemente esercitato, in modo a nostro avviso legittimo, il diritto di critica in relazione a fatti aventi una portata oggettiva, quali, in particolare, le registrazioni della conversazione che è intercorsa nel 2014 tra il senatore Berlusconi e il dott. Amedeo Franco. Il 9 gennaio il tribunale di Roma ha dato ragione al Foglio ma la ragione per cui abbiamo scelto di parlare di questa storia riguarda qualcosa di più importante del Foglio. Riguarda l’affermazione di un principio, o meglio di un diritto, che il tribunale ha scelto di mettere nero su bianco. Il tribunale ricorda, anche agli attori, che il diritto di critica si differenzia dal diritto di cronaca poiché non si concretizza nella narrazione di fatti ma nell’espressione di un’opinione, “che come tale non può pretendersi rigorosamente obbiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su una interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti”. E questo, scrive ancora il tribunale, comporta che “non si pone in materia di diritto di critica un problema di veridicità delle proposizioni assertive dell’articolista essendo il requisito delle verità limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse”. E qui arriva la riflessione più interessante. Se è vero, scrive il tribunale, che il diritto di critica, nelle sue più varie articolazioni costituisce espressione della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 della Costituzione). Se è vero che il carattere identitario di un giudizio o di un’opinione personale dell’autore non può che essere soggettivo. E se è vero che il diritto di critica è riferito a un profilo della libertà di pensiero, strettamente funzionale alla dialettica democratica (“se la cronaca riferisce una realtà fenomenica, ed è per definizione descrittiva ed obiettiva, la critica propone una valutazione; la cronaca dunque descrive l’accadimento, la critica lo legge e lo valuta”). È anche vero che la critica, “oltre che in forma di pacata espressione di una valutazione personale dell’autore”, può esprimersi, legittimamente, “anche in forma di aperto dissenso”. E questo vale, scrive il tribunale, anche per quanto riguarda “il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati”, che “deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile, non solo perché la cronaca e la critica possono essere tanto più larghe e penetranti, quanto più alta è la posizione dell’homo publicus oggetto di censura e più incisivi sono i provvedimenti che può adottare, ma anche perché la critica è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata - è bene ricordarlo - in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia e indipendenza”. Si potrebbe pensare che sia un gesto eroico isolato di un tribunale, e un po’ lo è, ma in verità il tribunale altro non ha fatto che richiamare una sentenza della Cassazione, la numero 34432 del 12 settembre del 2007 e per questo ha ritenuto le nostre parole frutto di un “legittimo esercizio del diritto di critica nei termini sopra indicati”. Parole, “pur caratterizzate da un tono polemico”, che “non possono ritenersi ingiuriose”, in quanto “esse prendono spunto da un fatto obiettivo, qual è la registrazione di una conversazione e non valicano mai il limite della continenza”. Una piccola rivoluzione: un giudice che afferma che le sentenze si possono commentare e che il diritto di critica vale per tutti, anche per i magistrati. Siamo tutti complici silenziosi della violenza sulle donne di Paola Di Nicola Travaglini Il Domani, 23 gennaio 2023 I femminicidi non sono: un’emergenza, una tragica fatalità, frutto del raptus di un uomo psicologicamente fragile o alcolista o drogato, espressione di un amore malato o di una folle gelosia, esiti di contesti degradati. Chi li definisce così, anche inconsapevolmente, non sa di cosa parla e si fa portatore del giustificazionismo che consente a quel crimine di riprodursi, a quell’uomo di essere compatito, a quella donna di sparire con il suo coraggio e la sua voglia di libertà. I femminicidi sono: un crimine di odio misogino studiato nel dettaglio, l’affermazione di potere di un uomo che non tollera l’autonomia delle donne, l’ultimo e più grave atto discriminatorio all’esito di una catena infinita di violenze che tutti conoscono e nessuno riconosce. I modelli familiari - Ne siamo tutti complici, a partire dai modelli trasmessi nelle nostre famiglie, in cui il padre impone i suoi ordini e voleri, gioca a calcetto all’ora di cena perché ha lavorato tutto il giorno e pretende di non prendersi cura dei figli e delle esigenze domestiche perché lui porta i soldi a casa; mentre la madre rinuncia alle sue ambizioni, al suo lavoro, alla sua arte, alle sue amicizie, ai suoi guadagni, al suo sport perché le spettano tutte le incombenze familiari. È roba da donne. È normale. Se non lo fa viene colpevolizzata: cattiva madre, cattiva moglie, punita e isolata dal contesto sociale e familiare. Questa è la nostra cultura, entra anche nei commissariati, nelle stazioni dei carabinieri, nelle aule di giustizia dove un uomo che, urlando, esige di trovare la cena pronta da una donna che torna da turni massacranti in ospedale; che appella la compagna “prostituta” davanti ai figli perché chatta con le amiche o si trucca per andare alla cena di lavoro; che picchia la compagna perché non ha stirato le camicie, ha scotto la pasta, non ha comprato le lamette per la barba o non è andata a fare compagnia alla suocera, è tradotto come una banalissima “lite familiare”. Noi non vediamo la discriminazione di potere di un uomo nei confronti di una donna, il cui apice è il femminicidio, perché la respiriamo nei nostri rapporti sociali e familiari ogni giorno, a partire dalle barzellette, dall’odio on line, dalla compressione del talento femminile e dalla sua omissione nel linguaggio. La normalizziamo, la sottovalutiamo, la chiamiamo in un altro modo per giustificarla, per non vederla, perché ne siamo a nostra volta vittime e artefici nel nostro contesto. Uomini e donne. Noi non sappiamo decrittare cos’è la libertà di una donna perché non la riteniamo innanzitutto un diritto umano inalienabile da garantire sempre e ovunque. Alle nostre figlie, quando escono, intimiamo “stai attenta”. A chi, a cosa? Loro sanno di essere trasformate ogni giorno in prede. Ma di chi? Di uomini che escono e a cui non intimiamo nulla. La Commissione sul femminicidio del Senato italiano ha accertato che solo il 15 per cento delle donne uccise da un uomo aveva denunciato le violenze che subiva in famiglia o nella relazione di coppia. Le donne temono di non essere credute dalle istituzioni e che la loro denuncia possa ritorcersi contro di loro, proprio da chi dovrebbe proteggerle. E avviene. Vittimizzazione secondaria - Si chiama vittimizzazione secondaria, è vietata a ogni poliziotto, medico, magistrato, carabiniere, avvocato, assistente sociale, psicologo ed è il motivo per cui la Corte europea per i diritti umani ha definito il processo penale “un calvario”. Cosa aveva fatto per essere picchiata, perché lo ha innervosito, perché non ha invitato anche suo marito alla cena con i colleghi, con chi chattava, perché ha bevuto, è vero che non si occupava dei figli e stava sempre a lavoro, come era vestita, ha avuto relazioni extra coniugali, dove le è stata messa precisamente la mano, per quanti secondi, perché non è scappata, perché non si è fatta accompagnare da suo padre, perché ha accettato di rivedere l’uomo che la minacciava, perché non si è separata? Queste sono le domande che ancora vengono rivolte ad una donna che denuncia una violenza, anche dai giornali, che la trasformano nella vera imputata perché mette a rischio un sistema che da millenni normalizza l’assenza di libertà femminile. Molte denunce, anche quando raccontano di umiliazioni, denigrazioni, imposizioni, parolacce, sputi, schiaffi si traducono, troppo spesso, in banali “liti familiari” e questo anche se per presentare quella denuncia si è messo a rischio tutto (figli, affetti, amicizie, lavoro, denaro). “Tra moglie e marito non mettere il dito” è questo il monito culturale che impone l’omertà sulla violenza contro le donne, e non si ferma sull’uscio di casa perché attraversa qualsiasi luogo: dalle famiglie ai teatri. È come se a un commerciante a cui tagliano le gomme, per l’ennesima volta, per non aver pagato il pizzo alla mafia dicessimo di tornare al negozio e non preoccuparsi, forse vede troppi film in tv, la mafia in quella zona non c’è mai stata, saranno stati dei balordi, “le faremo sapere, ci aggiorni”. Il contrasto alla violenza contro le donne, tra i più difficili fenomeni criminali del mondo, ha fatto enormi passi avanti, ma non è per nessuno, in concreto, una vera priorità perché richiede un’operazione di “sradicamento”. Vuol dire andare alle sue radici millenarie, quelle imbevute dell’odio misogino che riempie, con milioni di volumi, le biblioteche del mondo e il nostro sapere, anche giuridico. Non è questione da donne, è un problema degli uomini per il quale ancora troppo pochi prendono parola per non dismettere i loro privilegi. Solo insieme ce la possiamo e ce la dobbiamo fare, senza alibi, perché il nostro Paese, culla del diritto, dell’arte e del pensiero, ha tutti gli strumenti per mettere in discussione gli stereotipi incistati di cui siamo tutti portatori, disvelandoli con coraggio. Dobbiamo solo decidere quando farlo, sapendo che, nell’attesa, le donne vengono uccise. Puglia. Leggere libri per affrontare bullismo, mafia e droghe di Antonio Murzio Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2023 “Abbiamo coinvolto migliaia di studenti e detenuti”. Il progetto Legalitria nasce in Puglia per iniziativa della cooperativa Radici Future ed è diffuso nelle scuole e nelle carceri. E oltre alla ricaduta positiva sul piano sociale, c’è anche quella per le librerie, “perché mediamente sette studenti su dieci, dopo una presentazione, vanno per acquistarne una copia”. Si può educare alla legalità e al rispetto delle regole anche con la lettura. Da sei anni è questa la missione di Legalitria, un progetto nato in Puglia per iniziativa della cooperativa Radici Future. Iniziativa che ha varcato i confini regionali per raccogliere adesioni anche in Veneto, Campania, Calabria e, ultimo in ordine di tempo, nel Lazio. Dedicato alle scuole di ogni ordine e grado, “dallo scorso anno”, dice Leonardo Palmisano, sociologo e presidente di Radici Future (nella foto), “il progetto si è allargato alle carceri e ha coinvolto una cinquantina di comuni”. “Secondo un nostro calcolo”, aggiunge Palmisano, ex docente di Sociologia urbana al Politecnico di Bari (oggi collabora con la cattedra di Pedagogia dell’Università di Foggia) nel 2022 abbiamo fatto leggere diecimila studenti e duemila detenuti”. I primi due comuni che sei anni fa hanno aderito al progetto, che viaggia ormai sulla media di 150 presentazioni all’anno, sono stati Fasano, grosso centro in provincia di Brindisi, per molti anni roccaforte del contrabbando in Puglia, e Locorotondo. Per questo il “marchio” del progetto ha messo insieme i termini legalità e Valle d’Itria, che è ula zona patrimonio Unesco associata ai trulli: “Volevamo una connotazione territoriale ma che fosse riconoscibile a livello globale”, dice Palmisano. Che ricorda un episodio “commovente” accaduto proprio a Fasano: “Un ragazzo che proveniva da una famiglia nota di affiliati alla Sacra corona unita (una delle mafie pugliesi, ndr) aveva letto, avendo aderito la sua scuola al nostro progetto, uno dei pochi libri pubblicati sulla Scu. Dopo autonomamente ha cercato in libreria altri testi sull’argomento. La sua presa di coscienza lo ha portato a dissociarsi e a prendere le distanze da quel mondo dal quale proveniva e oggi studia Giurisprudenza”. Il progetto Legalitria, che va in tutte le scuole, dalle elementari alle superiori, non segue il calendario scolastico. “In estate”, dice Palmisano, “continua con Legalitria Summer, con presentazioni che si svolgono a in beni confiscati alle mafie, come è successo nella masseria Canali di Mesagne (Brindisi) confiscata a Giuseppe Rogoli, boss della Scu, dove si sono susseguite tre serate di presentazioni, oppure in siti come l’Oasi naturalistica di Torre Guaceto”. “Sempre più scuole”, racconta il sociologo, “ci chiedono di fare interventi sulle nuove tossicodipendenze, perché sono comparse sul mercato moltissime nuove sostanze chimiche che neppure l’agenzia nazionale riesce a registrare. Quando raccontiamo il legame che esiste tra droga e mafie, notiamo tra i ragazzi che c’è imbarazzo, e lì capiamo che abbiamo di fronte dei consumatori”. Quindi aggiunge: “Altro fenomeno che abbiamo notato è legato a una forte diffusione di bullismo e cyberbullismo in quelle aree toccate dalla crisi dell’Ilva, perché l’impatto della disoccupazione sulla tenuta delle relazioni familiari è molto forte: in questi casi facciamo un intervento mirato con libri dati anche ai genitori per riconoscere bulli e vittima”. Uno dei risultati dei quali il presidente di Radici Future, che ha sede a Bari, fa a ragione vanto, è l’aiuto indiretto al mercato editoriale: “Noi i libri li acquistiamo direttamente dalle case editrici, ma la ricaduta positiva è anche per le librerie, perché mediamente sette studenti su dieci, dopo una presentazione, vanno per acquistarne una copia”. Intanto, per l’immediato futuro, si pensa a nuove collaborazioni, come quella con l’Università di Foggia, per cominciare a fare inchieste sulle mafie e “inserirle nella cornice di Legalitria”. Lecce. Malore fatale in cella, polemiche sui ritardi nei soccorsi al detenuto di Gianfranco Lattante Gazzetta del Mezzogiorno, 23 gennaio 2023 La denuncia: “Intervento in ritardo nonostante i detenuti battessero sulle sbarre”. Morto un 42enne di Taranto che fra pochi giorni sarebbe tornato in libertà. Un detenuto muore in cella. Forse per infarto. Ma si sospettano ritardi nei soccorsi. Tanto che gli altri ospiti della sezione, la R1 della casa circondariale di Lecce, avrebbero cominciato a battere sulle sbarre per sollecitare l’intervento del personale. Intanto i familiari presentano una denuncia e si muove anche Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. Il caso è all’attenzione della Procura che, nelle prossime ore, potrebbe disporre l’autopsia. La vicenda, dunque, va ricostruita. Ci sta lavorando il sostituto procuratore Francesca Miglietta che dovrà fare luce sulle cause della morte di Francesco Novellino, 42 anni, di Taranto, che fra pochi mesi avrebbe finito di scontare la pena per fatti legati alla droga. Il detenuto era in una cella della sezione R1, in cui sono reclusi i detenuti comuni. L’altra sera avrebbe accusato un malore. Che sarebbe risultato fatale. E proprio l’infarto viene indicata come possibile causa della morte. Ma cosa è avvenuto tra il momento in cui il detenuto si è sentito male e l’accertamento della morte? “Abbiamo ricevuto una segnalazione - spiega Maria Pia Scarciglia, avvocato e presidente Antigone Puglia - Ci è stato riferito che un detenuto della sezione R1, Francesco Novellino, si sentiva male e che il compagno di cella si è messo a gridare per richiamare l’attenzione del personale e degli altri detenuti. Non ci sarebbe stato alcun intervento immediato. E per sollecitare i soccorsi i detenuti avrebbero cominciato la battitura delle celle”. Poi aggiunge: “Secondo la nostra segnalazione, nonostante le richieste di aiuto, l’intervento sarebbe giunto dopo un’ora circa e solo dopo altri 30 minuti sarebbe arrivata una dottoressa. Se è vero quel che ci dicono sono tempi tardivi rispetto alla problematica che ha colpito il detenuto. Chi l’ha visto dice che era diventato tutto nero. Non sono presenti da quello che ci è dato sapere i defibrillatori! È evidente che l’autopsia chiarirà le circostanze della tragedia”. L’associazione Antigone, adesso, attende i risultati dell’inchiesta giudiziaria. “Se dovessero venire fuori delle omissioni da parte dell’amministrazione penitenziaria valuteremo cosa fare”. I familiari, come si diceva, hanno presentato direttamente una denuncia in relazione ai presunti ritardi. Sull’episodio interviene Ruggiero D’Amato, segretario regionale Osapp: “Quando un detenuto si sente male, nel carcere di Lecce riceve immediate cure. I ritardi sono dovuti a questioni logistiche e strutturali, legate al luogo in cui ci si trova. I tempi si potrebbero accorciare realizzando un pronto soccorso interno o una struttura di pronto intervento. Esprimo - aggiunge - cordoglio alla famiglia perché la perdita di una vita umana prescinde da tutto”. Ma il sindacalista torna, poi, sul padre di tutti i problemi della Casa circondariale di Lecce: “C’è carenza di personale di polizia penitenziaria. A Lecce il personale ha una carenza di circa 200 unità e la cosa più preoccupante è che da oggi fino a dicembre 2024 andranno via 160 unità delle 570 presenti. Siamo alla vigilia di un collasso e nessuno fa nulla”. Foggia. Morti asfissiati due giovani migranti nel ghetto di Borgo Mezzanone di Luca Pernice Corriere del Mezzogiorno, 23 gennaio 2023 Hanno acceso un braciere per riscaldarsi dal freddo. Tragedia nel ghetto di Borgo Mezzanone, dove in una baracca sono stati trovati i corpi senza vita di due giovani migranti, un uomo e una donna, entrambi africani e non ancora identificati. Stando ai primi accertamenti i due sarebbero stati uccisi dall’esalazione di fumi di un braciere di fortuna realizzato dai due migranti all’interno della baracca per proteggersi dal freddo. I precedenti - Dopo l’allarme di altri migranti sul posto - nel ghetto ne vivono stabilmente 1.500 - sono giunti i vigili del fuoco e gli operatori del 118 che non hanno potuto far altro che constatare il decesso dei due migranti. Nel novembre del 2019 altri due giovani nigeriani, ospiti del ghetto, morirono a causa delle esalazioni di monossido di carbonio sprigionate da una stufetta usata per riscaldarsi. Pino Roveredo: “La cultura non è un contorno, è salvifica!” di Sara Matijacic lanouvellevague.it, 23 gennaio 2023 Gli esclusi, gli emarginati, i dimenticati, i malati psichiatrici, i detenuti sono gli “ultimi” nelle opere letterarie e anche nella vita. Pino Roveredo, lo scrittore triestino scomparso ieri all’età di 69 anni, era riuscito a raccontarli come pochi prima avevano saputo fare. Una scrittura diretta e incisiva, la sua. Una scrittura che sapeva arrivare dritta al cuore e all’anima del lettore. Lui stesso era stato un “ultimo”: cresciuto nella Trieste del dopoguerra, aveva infatti conosciuto la miseria, l’alcolismo e il carcere. Fu la scrittura a salvarlo. “Un bisogno fisico”, come lui stesso lo ha definito più volte. Il primo a credere in Pino scrittore fu l’editore Valerio Fiandra della casa editrice LINT che nel 1996 pubblicò “Capriole in salita”. Un libro duro che racconta una vita dura, con i genitori sordomuti e in collegio per tanti anni, quelli fondamenti per una crescita armoniosa. Seguirono altri titoli come: Ballando con Cecilia (2000) e Mandami a dire (2005) che gli valse un Premio Campiello come miglior romanzo dell’anno. E poi: Caracreatura (2007), Mio padre votava Berlinguer (2012) e I ragazzi di via Pascoli (2021). Dopo gli sbagli, l’alcolismo e il carcere, la “cultura salvifica” è diventata la nuova rotta da seguire. Anche il teatro era per Roveredo “salvifico”: uno spazio dove le emozioni e le storie potevano arrivare al pubblico in maniera ancora più diretta, senza filtri, soprattutto se a salire sul palco erano i ragazzi tossicodipendenti, oppure i detenuti, tutte persone che per la prima volta potevano sentirsi “dalla parte giusta”. Di Trieste, la sua città natale, Roveredo conosceva in particolar modo gli angoli più nascosti e umili che erano i protagonisti del suo impegno politico e delle sue inchieste giornalistiche, dove cercava di dare a voce a chi non riusciva a farsi ascoltare. A dimostrare che non esistono cause perse, ma solo persone che lottano ogni giorno, facendo capriole in salita. Teatro carcere, un movimento che costruisce un ponte tra dentro e fuori di Alessandro Canella radiocittafujiko.it, 23 gennaio 2023 L’Emilia-Romagna è l’unica regione italiana in cui esiste un vero e proprio movimento, con tanto di coordinamento regionale, che utilizza il teatro come strumento di intervento sociale in carcere. E una delle componenti di questo movimento, il Teatro Nucleo di Ferrara, ora è raccontata in un libro, intitolato “Libertà vo’ cercando - Il lavoro del Teatro Nucleo nel Carcere di Ferrara” (Edizioni SEB27), che verrà presentato lunedì prossimo, 30 gennaio, a Modo Infoshop. Teatro carcere, l’esperienza del Teatro Nucleo a Ferrara - “Libertà vo’ cercando” è un libro corale, curato da Horacio Czertok, regista, drammaturgo e attore, ma soprattutto co-fondatore del Teatro Nucleo, che dal 2005 opera all’interno del carcere di Ferrara, un’esperienza che da oltre quindici anni porta cittadini all’interno del carcere per assistere a spettacoli teatrali o porta i detenuti nei teatri, per mettere in scena il frutto dei laboratori realizzati negli istituti penitenziari. “L’intenzione di questo lavoro è sempre stata quella di creare un ponte tra due realtà separate che si ignorano vicendevolmente - spiega Czertok ai nostri microfoni - con l’idea che quando un detenuto esce deve trovare una società pronta ad accoglierlo, altrimenti non si riesce a superare lo stigma”. Il teatro carcere è nato anche per intervenire su uno dei problemi principali del sistema penitenziario: la recidiva. Sette detenuti su dieci, usciti dal carcere, finiscono per tornarci perché non trovano modi di reinserirsi nella società. Perché il teatro risulta efficace come strumento di intervento sociale? Il regista non ha dubbi: “Perché il teatro in sé è questo, nasce 2500 anni fa al centro della vita pubblica come luogo in cui viene messo in evidenza il passaggio tra il mito e la storia, dove vengono esposti i problemi di una popolazione”. Poi il teatro, in epoca recente, secondo Czertok ha abdicato al suo ruolo quando è diventato mero intrattenimento, con biglietti onerosi che hanno tagliato fuori una fetta consistente della cittadinanza. Nel corso della longeva esperienza, il Teatro Nucleo non ha operato solamente per offrire un’opportunità alle persone recluse, ma ha lavorato anche sulla qualità degli spettacoli offerti al pubblico. “Nel 2005 il primo spettacolo fu “Aspettando Godot” di Samuel Beckett - racconta il regista - che sorprese tutti, a partire da noi stessi, per la qualità dell’impegno”. Ed è in questo modo che si creano relazioni tra chi sta dentro e chi sta fuori al carcere, attraverso una reciproca conoscenza capace di smontare i pregiudizi attorno al carcere. Il libro contiene la prefazione di Andrea Pugiotto, costituzionalista dell’Università di Ferrara, da sempre impegnato sul tema carcerario e sostenitore di una riforma che faccia attuare l’articolo 27 della Costituzione, quello che sostiene che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nel volume è presente anche uno scritto di un ex detenuto, che racconta l’esperienza del teatro in carcere dal suo punto di vista. “Forse è il contributo più interessante di tutta la pubblicazione”, osserva Czertok. Alla presentazione a Modo Infoshop interverranno anche Michele Pontolillo, pedagogista e formatore di teatro sociale, e Paolo Billi, che da oltre vent’anni porta avanti un’esperienza analoga al Teatro Nucleo con il Teatro del Pratello di Bologna. Billi è anche il presidente del coordinamento regionale sul Teatro Carcere. “L’Emilia-Romagna è l’unica regione che ha un coordinamento regionale, che unisce nove realtà che fanno teatro nelle carceri - spiega Czertkok - Insieme discutiamo il lavoro degli altri, insieme cresciamo, ci formiamo e abbiamo avuto l’ascolto delle istituzioni. Vuol dire che questo, che all’inizio era solo un esperimento di teatro in carcere, ora è un movimento co-organizzato e strutturato che si autogestisce”. Istruire le macchine a “imitare” l’uomo: così (forse) si evita una nuova Babele, anche nel diritto di Giovanni M. Flick* e Caterina Flick** Il Dubbio, 23 gennaio 2023 Riportiamo di seguito un estratto da “L’algoritmo d’oro e la torre di Babele”, il volume pubblicato per Baldini+Castoldi da Giovanni Maria Flick e da sua figlia Caterina Flick. Al primo si deve il passaggio scelto dalla introduzione, mentre l’avvocata Flick ha curato il capitolo, di cui si propone uno stralcio, su “Tecnologie digitali e norme giuridiche”. Introduzione - Perché un libro sul rapporto tra informazione e informatica, dopo quello dedicato al rapporto fra ambiente e profitto di fronte allo stress test della pandemia? Perché le due riflessioni richiedono e seguono un percorso e un impegno unitari, indicati con chiarezza dalla Presidente della Commissione Europea. Ursula von der Leyen in occasione del suo insediamento ha posto in evidenza le prime e “massime urgenze” della politica europea. Sono la realizzazione di un modello di sviluppo innovativo, rivolto alla protezione dell’ambiente, della salute e della dignità umana; la battaglia sul clima e la rivoluzione digitale. Sono due temi fra loro intrecciati, nella sinergia fra ecologia e tecnologie digitali. Intendiamo riferirci alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), basate sulla codifica digitale delle informazioni, nelle quali rientrano l’informatica, la cibernetica, l’elettronica e la telematica. I due temi vengono percepiti spesso in maniera congiunta. Coinvolgono entrambi le persone, le collettività e i paesi per una svolta “epocale” del modo di vivere e di convivere, di lavorare, di produrre e di consumare risorse, di relazionarsi, di conoscere e di ricercare: sia nelle riflessioni più approfondite e specialistiche di carattere scientifico, sia in quelle più semplici ed accessibili tratte dall’esperienza quotidiana, che queste pagine cercano di proporre in modo semplice, senza pretese di completezza e novità. (...) Chiamiamo civiltà digitale l’insieme delle tecnologie digitali e degli effetti economici, sociali e culturali che ne derivano e che caratterizzano un nuovo stadio dell’economia fondato sulla raccolta, l’organizzazione, lo sfruttamento con diverse modalità di informazioni espresse in forma digitale e diffuse per via telematica. In questa civiltà le tecnologie digitali sono talmente sofisticate che stanno sostituendo la persona in compiti complessi. Il timore è che in un prossimo futuro esse si sostituiscano alla persona anche nelle funzioni più connaturate alla sua identità e coscienza. Per l’ambiente sembra prevalere la paura di fronte ai primi segni evidenti - come il cambiamento del clima - di quello che potrebbe essere un nuovo diluvio universale. Per la civiltà digitale sembrano invece prevalere l’entusiasmo di fronte al progresso e la sottovalutazione dei rischi che esso può rappresentare in un contesto ormai acquisito e irrinunziabile di vantaggi. Si tratta soprattutto degli interrogativi sulla organizzazione della economia, sul modo di lavorare (lo smart working) e di produrre, su quello di comunicare, di vivere e di relazionarsi con gli altri. Sono interrogativi sottovalutati dai più, sino al punto di non rendersi conto che questa prospettiva, se male gestita in assenza di regole adeguate, può condurre prima o dopo a conseguenze negative per la dignità e i valori fondanti della persona, nonché per i connessi diritti inviolabili e doveri inderogabili (secondo il linguaggio sempre attuale della nostra Costituzione). Un “clima sociale” che potrebbe essere quello di una nuova torre di Babele. (...) Per questo proponiamo una lettura dell’articolo 9 che - accanto alla attenzione verso la storia e l’ambiente - tenga conto dell’evoluzione del progresso tecnologico per cogliere anche rispetto ad esso, se possibile, qualche indicazione rassicurante sul nostro futuro alla luce del nostro passato. La premessa con cui la Presidente della Commissione della UE ha esordito nel suo impegno rende più consapevole questo tentativo, che muove dalla lungimiranza e dalla saggezza della nostra Costituzione e del Libro dei libri, la Bibbia, al di là del suo significato religioso. È la speranza non solo di superare la paura di un nuovo diluvio universale; ma anche di evitare nell’euforia per lo sviluppo tecnologico la disattenzione verso il pericolo di una nuova torre di Babele. (...) Tecnologie digitali e norme giuridiche - 1. Interpretare o innovare? Come anticipato nell’introduzione il mondo attuale vive sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, qui definite “tecnologie digitali”, perché si basano sulla trasformazione delle informazioni in un codice digitale (numerico). Il cuore di esse è un programma (software) che viene sviluppato in base delle scienze dell’informazione (informatica). (...) Nei primi anni in cui si sono sviluppate le tecnologie digitali esse erano frammentate, tanto da non consentire di comprendere l’impatto che avrebbero potuto avere sulla persona e sulla società; per questo non era pensabile un intervento dei governi per introdurre delle norme generali. L’esigenza di introdurre norme giuridiche (costitutive di diritti e doveri) per il dominio delle tecnologie digitali è stata sentita dal momento in cui esse hanno iniziato a essere “alla portata di tutti”; ha subito evoluzioni importanti in corrispondenza dei momenti fondamentali del loro sviluppo. I primi ragionamenti sulla necessità di norme giuridiche risalgono ai primi esperimenti sull’intelligenza artificiale (IA) negli anni ‘50 del XX secolo. Ad allora risalgono le “leggi della robotica” elaborate da Isaac Asimov per un contesto di fantascienza proiettato in un futuro lontanissimo. I suoi principi sono apparsi ancora validi, tanto da essere stati richiamati dal Parlamento Europeo nelle raccomandazioni del 2017 per lo sviluppo (futuro) dell’Intelligenza Artificiale. Il richiamo è indicativo del fatto che i principi da allora non sono cambiati o che non si è ancora trovata un’altra chiave per impostare la relazione tra l’uomo e le tecnologie digitali. (...) Gli interpreti si sono per lungo tempo divisi. Vi è chi ritiene necessaria la creazione di un nuovo diritto, anche con norme di rango costituzionale, per garantire la sicurezza delle persone di fronte alla eterogeneità e all’impatto delle innovazioni (FROSINI, 2021). Nella posizione opposta chi invece ritiene che il giurista debba ove possibile interpretare le norme esistenti per trovare le risposte adeguate nel sistema giuridico, considerato nel suo insieme (FINOCCHIARO, 2020). La tecnologia procede più rapidamente del diritto e il superamento dei problemi tecnici è compito dei tecnici. Ma senza una visione di sistema si rischia di disciplinare argomenti di dettaglio, in modo disorganico, poco efficace e tardivo. Interpretare è sufficiente se le tecnologie digitali sono strumenti mediante i quali interagiamo fra di noi e con il mondo. L’approccio del diritto deve invece cambiare se riteniamo che le tecnologie “creano e forgiano la nostra realtà fisica e intellettuale, modificano la nostra autocomprensione, cambiano il modo in cui ci relazioniamo con gli altri e con noi stessi, aggiornano la nostra interpretazione del mondo e fanno tutto ciò in maniera pervasiva, profonda e incessante” (FLORIDI 2017). Creare più che interpretare, partendo dai principi fondamentali. ripensare i diritti umani fondamentali. (...) 2. Prevedere per regolare. La scrittura digitale è una combinazione fra “scrittura” e “strumento di misura”: agisce sulla realtà attraverso delle regole, tanto da “competere” con le norme del diritto. La digitalizzazione consente delle automazioni di processi ripetendo delle sequenze di numeri; costruisce delle interazioni; crea nuove concatenazioni del reale, mettendo insieme descrizione e azione. La digitalizzazione (attraverso la codifica, la programmazione, l’aggregazione, la correlazione, il suggerimento) è in concorrenza con la simbolizzazione operata dal diritto (qualificazione del reale tramite categorie giuridiche, dipendenti dal linguaggio, che portano all’interpretazione dei giuristi). I due processi seguono due strade diverse: per il diritto la designazione tramite il linguaggio (la descrizione normativa); per la digitalizzazione la codifica grazie alla rilevazione di dati (Garapon-Lessegue, 2021). La costruzione delle regole si atteggia in modo molto diverso nel diritto e nell’informatica. Nel diritto - in particolare quello continentale dei paesi che si rifanno al diritto romano - il legislatore afferma principi ed elabora norme generali e astratte. La norma giuridica lascia all’interprete l’applicazione delle norme al caso concreto, secondo la propria sensibilità e discrezionalità e i principi a cui le norme si ispirano. Il linguaggio legislativo ospita sempre di più parole prese in prestito dal gergo tecnico. Con riferimento alle tecnologie digitali esso utilizza frequentemente termini italianizzati dall’inglese, come la “cooperazione applicativa”, i “servizi di interoperabilità”, i “virus informatici”. È un fenomeno inevitabile, quando la legge regola una realtà socio-economica sempre più complessa; può meritare apprezzamento nella misura in cui manifesta aderenza alla realtà materiale regolata, ma rende difficilmente comprensibili i precetti normativi. Inoltre nella creazione delle norme giuridiche intervengono altri fattori - tensioni e conflitti politici e l’esigenza di mediare fra posizioni contrapposte - che contribuiscono alla poca chiarezza. A ciò si aggiungono - nel contesto internazionale di cui i legislatori devono tenere conto - la difficoltà di traduzione o i significati non coincidenti dei termini e dei concetti chiave nelle diverse lingue dei paesi che devono recepire norme pensate e scritte altrove. Le norme giuridiche così elaborate sono di difficile interpretazione e di difficile applicazione. L’impatto delle tecnologie sul diritto è forte: costringe a rinnovarsi continuamente di fronte ai nuovi modi che l’uomo continuamente escogita per organizzare la sua presenza e la sua azione nel mondo (ROPPO, 2019). (...) La tecnologia informatica punta alla sostituzione di attività umane non solo in funzioni operative, ma anche in quelle di analisi e decisionali. L’eliminazione del fattore umano dal processo decisionale presenta aspetti positivi (elimina l’abuso) e negativi (elimina la discrezionalità). I sistemi dialogano fra loro (interoperabilità): in che misura possono essere loro affidati il controllo o l’applicazione della legge? L’essere umano nell’applicazione della norma è dotato - oltre che di conoscenza tecnica - di razionalità, discrezionalità, buon senso, comprensione del contesto. Questi requisiti nei sistemi informatici devono essere progettati, se si vogliono affidare loro le decisioni, tenendo conto che ad essi manca la capacità di gestire l’imprevisto e affrontarlo con comprensione empatica. Ma non basta; ogni sistema informatico ha bisogno di essere istruito dall’uomo: se vi è un errore, si tratta frequentemente di errore umano nella fase di progettazione. *Giovanni Maria Flick, che del volume ha curato, tra l’altro, l’introduzione e la conclusione, è presidente emerito della Corte costituzionale **L’avvocato Caterina Flick è responsabile Ufficio affari giuridici e contratti dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID). Soffro, dunque sono. Dai libri al cinema, l’esibizione dei traumi personali è diventato un fenomeno globale di Paolo Di Paolo La Stampa, 23 gennaio 2023 E garantisce attenzione e consensi. Da Erin Doom a Niccolò Ammaniti, i casi sulla scena italiana. Reparto Traumatizzati in overbooking! Il principe Harry espone e vende - alla grande - il suo trauma. Monsignor Gänswein accampa il proprio, non metabolizzato nel lungo decennio fra le sconcertanti dimissioni di Benedetto e la sua morte. Steven Spielberg lo ha dissotterrato a 76 anni compiuti. Le opere più in vista, tra cinema e letteratura, espongono la ferita. Perfino un (finto) duro come Bret Easton Ellis, dopo una lunga vacanza dalla narrativa, torna per rimettere a posto i cocci (The Shards) della propria stessa lacerata giovinezza. Un lungo articolo del New Yorker sulla sovrabbondanza di traumi - quasi un cliché - nella narrativa contemporanea, alla distanza, si può rileggere come una diagnosi inappuntabile. E benché più di recente il New York Times, a proposito dell’autobiografia di Harry, finisca invece per domandarsi se il duca di Sussex risulti eccessivamente lamentoso, impudico e un po’ stucchevole nella conta dei traumi regali, la risposta la offrono i numeri vertiginosi delle copie vendute a ogni latitudine. Così, anche nelle classifiche italiane trionfa The Spare (Mondadori); e appena sotto - quasi inamovibile - resta il romanzo bestseller del 2022, Fabbricante di lacrime (Salani) di Erin Doom, l’italiana misteriosa che sulla capacità di raccontare anime traumatizzate con romantico-gotica delicatezza ha costruito la sua fortuna editoriale. E poi, c’è Niccolò Ammaniti: dopo otto anni, è tornato con La vita intima (Einaudi); e riparte con acume dal più contemporaneo dei traumi. No, non è nelle nebbie dell’infanzia. È nel presente/futuro potenziale di ognuno, e c’entra con il confine sempre più labile fra privato e pubblico. La protagonista, Maria Cristina Palma, bellissima first lady, scivola nell’angoscia senza fine di chi teme di essere travolto da una qualche forma di “revenge porn”. È il trauma che coinvolge la scatola nera digitale di ciascuno di noi, una specie di trauma inesploso, a orologeria. Che nel caso di Maria Cristina Palma si aggiunge ad altri eventi drammatici o ambiguamente feroci del suo passato; e - come ha notato Annalisa Cuzzocrea, intervistando Ammaniti (La Stampa, 17 gennaio) - a uno strano indicibile trauma di natura estetica che è la sua stessa bellezza. “C’è una scena - racconta Ammaniti - in cui la sottosegretaria-rivale le dice: “Una bellezza come la tua mette in soggezione. Tu non sei sullo stesso piano del resto dell’umanità”. È un trauma vero, un trauma presunto; o c’è una generale inclinazione ad auto-traumatizzarsi? Lo studioso Daniele Giglioli, in un saggio di un decennio fa, Senza trauma, aggiornato e ristampato l’anno scorso per Quodlibet, manifestava una certa legittima insofferenza per “ogni possibile trauma immaginario sfruttato al fine di rendere ancora rappresentabile una forma di vita resa ormai immeritevole anche solo di essere detta a causa degli strati geologici di cliché che la comunicazione le va sversando quotidianamente addosso”. Il vero trauma, sosteneva Giglioli, ammutolisce. E allora perché parlano tutti? Perché parliamo e raccontiamo tutti? Ancora una domanda: “Perché chiamare traumi quelli che andrebbero chiamati nemici?”. Ho rimuginato a lungo sull’interrogativo che Giglioli ha posto tornando sui propri passi; e ho trovato finalmente una risposta incarnata nell’ultimo romanzo di Ammaniti. Voglio dire: in forma di personaggio. In apparenza laterale, rispetto alla ingombrante bellezza di Maria Cristina, è la presenza imprevista di tal Nicola Sarti, vecchia conoscenza di lei, amico di giovinezza. Rincontrato per caso, e pronto a condividere via WhatsApp, in mezzo a superflue e nostalgiche istantanee delle vacanze di gioventù, un video. Quel video. Le scene in cui Maria Cristina e Nicola fanno sesso “fra lenzuola sporche, scatole di wafer, magliette appallottolate, costumi bagnati, carte della pizza e vaschette di gelato”. Non posso dire di più, e mi limito a evocare lo stato di paranoia in cui entra Maria Cristina, a torto o a ragione si vedrà. Fatto che iscrive fra i nomi dei nemici il nome di questo quasi dimenticato Nicola. È un ricattatore? Uno che ha preso parte a un complotto? Chi legge, saprà. Il punto, in questa sede, è un altro. Il punto è che Ammaniti, con le sue antenne sensibilissime allo spirito del tempo, conia una definizione smagliante per una bella fetta dell’umanità vivente sul pianeta in quest’epoca. Marmotte sentinella. Hanno nel sangue un livello più alto di cortisolo. “Appena percepiscono un’increspatura, una variazione minima del panorama lanciano l’allarme”. È la parte della popolazione che campa scrutando l’orizzonte. Con diffidenza. Al grado estremo, paranoici-complottisti. Nel mondo pluralistico e pericoloso di cui parla Giglioli, lui vede anche una folla di conigli autocondannati all’inazione. Ma forse può aggiungere anche un bel branco di marmotte sentinella: “Vuoi vivere? Datti un Leviatano artificiale”. Vuoi scrivere o girare film? Fai lo stesso! Tra la ginestra e il Vesuvio, conviene tifare per il Vesuvio, dice ancora Giglioli. O quantomeno scrutare il vulcano sperando di esserne paralizzati-traumatizzati abbastanza, anche solo in prospettiva. Votarsi al “trauma a venire” è una trovata epocale. E “La vita intima di Ammaniti”, in modo sorprendente (bisogna arrivare alla parola fine, pagina 301), lo rivela anche ai traumatizzati più convenzionali. Compresi quelli che lo precedono, ancora di poco, in classifica. Uccisi dal freddo: a gennaio 23 clochard vittime delle notti in strada di Monica Serra La Stampa, 23 gennaio 2023 Le temperature rigide sono solo uno dei problemi: sei decessi su dieci dovuti a incidenti, violenza e suicidi. Sull’asfalto sono rimaste solo poche coperte di lana, qualche cartone. Gli ultimi mesi della vita di Younous Gueye Cherif si sono consumati in questo giaciglio, a cercare riparo dalla pioggia, dal freddo, nel sottopasso Mortirolo, alle spalle di Milano Centrale, con pochi altri clochard, tutti stranieri. Gli irriducibili che a trasferirsi nel dormitorio del mezzanino della stazione non ne volevano, non ne vogliono sapere. Younous avrebbe compiuto 53 anni a marzo se non fosse stato ucciso da un malore nella notte gelida tra sabato e domenica. Morto di freddo. O più probabilmente anche a causa del freddo, perché - come raccontano i volontari dell’associazione City Angels, che ha la sede proprio nello stesso sottopasso - da qualche tempo non stava bene, continuava a dimagrire: “Abbiamo provato a convincerlo ad andare in ospedale, a farsi vedere da un medico. Ma lui non ha mai accettato il nostro aiuto”. Younous è il terzo senzatetto morto a Milano nei primi 22 giorni del 2023, il ventottesimo in Italia: sono 9 in tutto i morti in Lombardia, 4 in Veneto come in Campania, 3 nel Lazio e 3 in Liguria, secondo i dati raccolti dalla Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (Fio.Psd) che raccoglie 150 associazioni e le rappresenta sui tavoli istituzionali. Questi numeri confermano il terribile trend del 2022, in cui sono morti 388 clochard, molti di più dei 250 del 2021 e quasi il doppio dei 212 del 2020. E le temperature di questi giorni sono sicuramente una delle cause su cui però molti Comuni italiani si organizzano. Con i piani freddo e l’apertura di dormitori in tante città, a Torino come a Milano, Bologna, Roma, dove tra l’altro è stato attivato il numero verde della sala operativa sociale. Ma il freddo è solo uno dei problemi, neanche il principale. E i dati raccolti dalla Fio.Psd lo dimostrano: il sessanta per cento dei decessi è legato a incidenti, violenza e suicidio e non si verifica in inverno. Come spiega Michele Ferraris, responsabile della comunicazione della Federazione, “molti clochard muoiono per annegamento o investiti da un treno, da una macchina, da un autobus. Incidenti che una persona che vive una vita ordinaria e ha una casa il più delle volte non potrebbe neanche avere. Perché se un uomo cade da una scala non resta lì bloccato per due o tre giorni senza cure, senza aiuto. O ancora, nessuno vive in una tenda sul ciglio di un fiume e annega se arriva l’acqua alta sorprendendolo nel sonno, oppure ha un malore in strada per via dell’etilismo e nessuno se ne accorge finché è troppo tardi. Analizzando i motivi specifici di questi decessi, la causa dominante della morte dei clochard è la disperazione, la solitudine”. Per questo Ferraris sottolinea che “i piani attivati nelle maggiori città italiane per combattere il freddo spesso funzionano, ma coprono solo tre mesi, per tutto il resto dell’anno servono interventi strutturali” che mirino per prima cosa a permettere anche ai senzatetto, un esercito di oltre 96 mila persone nel 2021 secondo l’Istat, di avere innanzitutto una “residenza fittizia” per ottenere un documento d’identità che in tanti non possiedono: “Solo così potranno avere un medico, accedere ai servizi più basilari, ottenere un reddito di cittadinanza o anche semplicemente trovare un primo lavoro da cui ripartire”. E poi che garantiscano loro una casa: “E qualcosa si potrà fare con gli oltre 400 progetti presentati seguendo le teorie dell’housing first che saranno finanziati con i fondi del Pnrr”, conclude Ferraris. Certo, la casa non è una soluzione per tutti. C’è anche chi ci ha provato, ma lontano dalla strada non riesce più a vivere: la casa per molti è un punto d’arrivo al termine di un percorso a volte molto doloroso e difficile. “Proprio per questo le risposte all’emergenza vanno cucite sulle persone, sulle loro esigenze e non possono essere uguali per tutti o in tutte le città. In strada c’è una complessità di problemi che vanno capiti innanzitutto con l’ascolto. Se ce ne fosse uno solo, magari sarebbe già stato risolto”, sottolinea il presidente di Croce Rossa italiana, Rosario Valastro. “Negli ultimi anni c’è stata una crescita esponenziale delle persone che vivono in strada e non hanno accesso a un medico o ai più basilari servizi. È una città nella città, ma è sommersa, nascosta agli occhi della popolazione, si palesa solo di notte. La morte per il freddo è soltanto la punta di un iceberg, ma sono tanti a morire per malattie non curate spesso neanche così gravi, che però non fanno notizia”. Per provare a invertire la rotta serve “dedicare loro del tempo, come fanno tanti volontari e associazioni che non si limitano a dare una coperta o un tè caldo. E interventi strutturali che accompagnino i clochard in un percorso di reinserimento nella comunità, in un sistema di relazioni che li salvi dalla solitudine in cui vivono”. Accanto ai colleghi afghani impegnati nella difesa dei diritti umani di Francesco Caia* Il Dubbio, 23 gennaio 2023 Il 24 gennaio è la Giornata internazionale dell’avvocato in pericolo, quest’anno è dedicata alla situazione in Afghanistan l’Oiad segue con molta attenzione anche quanto sta accadendo in Iran e Ucraina. L’edizione 2023 della giornata internazionale dell’avvocato in pericolo, che ricorre come ogni anno il 24 gennaio, è dedicata alla situazione in Afghanistan. La decisione di dedicare la giornata all’Afghanistan fu presa anche a seguito della tragica, quanto repentina, ritirata delle forze americane ed alleate che, nell’agosto 2021, lasciarono in balia delle violenza del regime talebano quanti, e tra questi molti avvocati, avevano collaborato con il Governo di quel Paese negli anni precedenti, nello sforzo di promuovere democrazia, libertà, diritti civili e politici. I successivi tragici avvenimenti iniziati lo scorso anno con la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina e le violente e inaudite repressioni delle proteste in Iran, in particolare contro le donne, rendono purtroppo ancora più fosco lo scenario a livello internazionale, per quanto attiene il rispetto dei diritti umani fondamentali. Per fare un focus non solo sulla situazione in Afghanistan, ma anche in Iran ed Ucraina, l’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo (Oiad), che proprio in questi giorni, dopo una lunga e paziente attività, è riuscito a far espatriare dal proprio Paese un avvocato afgano, adesso al sicuro in Europa, ha organizzato una conferenza internazionale, svoltasi on line il 20 gennaio scorso, nel corso della quale sono intervenuti anche alcuni avvocati costretti all’esilio. Gli avvocati, come sempre in prima linea, pagano un prezzo molto alto per rivendicare i diritti dei loro assistiti, primo tra tutti quello alla difesa, esercitando con autonomia ed indipendenza la loro professione. Il CNF ha moltiplicato i propri sforzi nel 2022, anche attraverso l’azione dell’Osservatorio, giunto al settimo anno di attività, accendendo i riflettori sulle vicende degli avvocati oggetto di minacce e intimidazioni, nei confronti propri e dei loro familiari, oppure sottoposti a ingiusti procedimenti penali e a condanne inique, solo per avere esercitato fino in fondo il loro dovere di difensori. Molto spesso gli avvocati vengono assimilati ai clienti e sono accusati di concorso nei reati di questi ultimi. Un triste copione che si ripete in tutti i Paesi dove la repressione del dissenso viene attuata anche impedendo l’esercizio del diritto di difesa, colpendo tutti coloro, avvocati, giornalisti, difensori dei diritti umani, giudici, che tentano di far rispettare i principi fondamentali contenuti nelle convenzioni internazionali. Nei casi più gravi gli avvocati pagano con la vita o subiscono gravi attentati per il loro impegno. L’Oiad (Osservatorio Internazionale degli avvocati in pericolo) è stato fondato nel 2016 dal Consiglio Nazionale Forense, unitamente al Consiglio Nazionale Forense Francese (CNB), all’ Ordine degli Avvocati di Parigi e al Consiglio Generale dell’Avvocatura Spagnola. Oltre ai soci fondatori sono attualmente componenti dell’Osservatorio 48 Ordini di avvocati, francesi, spagnoli, svizzeri, tedeschi, belgi, ma anche di Nazioni extraeuropee, di cui 15 sono italiani. Nello scorso mese di novembre ha aderito all’organismo anche l’Ordine nazionale degli avvocati del Messico. Inoltre fa parte dell’Oiad l’Ordine degli avvocati di Diyarbakir, città del sud est turco a maggioranza curda, di cui era Presidente l’avvocato Tahir Elci, ucciso barbaramente nel novembre 2015. L’Osservatorio si impegna denunciando le violenze e le intimidazioni nei confronti degli avvocati in tutto il mondo. L’azione dell’osservatorio si concretizza in comunicati, pubblicati sul sito internet e sui social per sensibilizzare la pubblica opinione, in documenti e lettere inviate ai singoli governi interessati, al fine di chiedere che si adoperino per assicurare il libero esercizio della professione di avvocato e in azioni positive, al fine di dare sostegno materiale ai colleghi, per esempio affiancandoli nelle procedure di richiesta di asilo, collaborando con le Autorità diplomatiche (consolati ed ambasciate dei Paesi di transito interessati) quando possibile. L’attività dell’Oiad si concreta anche in azioni di osservazione sul campo (missioni di osservazione processuale e conoscitive). L’anno scorso l’Oiad ha partecipato alla VII Carovana dei Giuristi in missione in Colombia che si è recata nelle regioni di Cali, Bucaramanga, Cartagena e Cúcuta, dove ha raccolto le testimonianze delle vittime di violazioni dei diritti umani, dei loro familiari e dei loro avvocati, nonché delle istituzioni giudiziarie. Nel 2022 la giornata dell’avvocato in pericolo è stata infatti dedicata alla Colombia e l’Oiad ha coordinato tutta l’attività della coalizione internazionale che organizza la “giornata”. L’Oiad ha anche monitorato alcuni processi a carico di avvocati ingiustamente sottoposti a processo. In quest’ambito l’Osservatorio ha inviato quattro osservatori, dal 7 novembre all’ 11 novembre 2022, a Istanbul/Sliviri, per seguire le udienze finali del processo a carico di alcuni esponenti dell’Associazione degli avvocati progressisti (CHD) tra i quali Barkin Timtik (sorella di Ebru Timtik l’avvocata che aveva iniziato un lungo sciopero della fame per protestare contro le violazioni dei diritti fondamentali in Turchia morta in stato di detenzione nell’agosto 2020 per il rigetto di tutte le istanze tese ad ottenere la sua scarcerazione per motivi di salute), Selcuk Kozagacli, Oya Aslan e altri. All’esito dell’udienza dell’11 novembre, caratterizzate come tutte le altre da gravissime violazioni del diritto di difesa, è stata pronunciata una sentenza già scritta e tutti i colleghi sono stati condannati a pesantissime pene detentive. Per quanto riguarda l’Iran l’Osservatorio è mobilitato a favore degli avvocati iraniani ed ha denunciato la situazione alle Nazioni Unite. Il 24 novembre 2022, in occasione della sessione straordinaria del Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite sul deterioramento della situazione dei diritti dell’uomo nella Repubblica islamica dell’Iran ha consegnato, assieme alle principali associazioni di avvocati a livello internazionale, alla relatrice speciale sull’indipendenza dei giudici e degli avvocati Margaret Satterthwaite, una richiesta di azione immediata presso il Governo iraniano per chiedere il rispetto dei diritti fondamentali. *Coordinatore commissione diritti umani del Cnf, vice Presidente dell’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo I genitori di Regeni: “Basta finte promesse. Un insulto sentire ancora che l’Egitto collaborerà” di Giuliano Foschini La Repubblica, 23 gennaio 2023 L’intervista alla vigilia del settimo anniversario dell’omicidio. “Per noi è sempre il 25 gennaio, il giorno in cui Giulio non è tornato a casa E anche il prossimo sarà molto amaro”. Mentre alle otto della sera il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, dal Cairo era sui tg a pronunciare quello che si sente da sette anni - “Abbiamo chiesto al presidente Al Sisi collaborazione sul caso Regeni” - Fiumicello, casa di Giulio, si preparava ad accogliere mercoledì 25 l’ “onda gialla” (una giornata tra gli altri con Marco Paolini, Ascanio Celestini, Carlo Lucarelli, Pif). Paola e Claudio Regeni, con accanto il loro avvocato Alessandro Ballerini, sono qui, sempre dalla stessa parte. Sono passati sette anni dalla morte di Giulio, un altro 25 gennaio senza “verità e giustizia” come si legge sugli striscioni appesi in tutta Italia. Ve lo immaginavate diverso? “Per noi ogni giorno è il 25 gennaio, anzi il 27 gennaio, quando la console italiana al Cairo ha chiamato per dirci che Giulio non aveva fatto ritorno a casa dalla sera del 25 gennaio. Da allora la nostra vita è stata drammaticamente stravolta. Diciamo che da tempo ci aspettiamo un 25 gennaio diverso, con dei risultati concreti, ma purtroppo oltre ad aver dovuto imparare a decodificare gli avvenimenti o non avvenimenti, siamo ormai preparati anche all’inerzia-incoerenza della politica. Il giallo non è solo un simbolo a Fiumicello ma è ormai un colore che si è diffuso in tutta l’Italia e non solo. È il colore di Giulio che continua a fare cose, continua ad unire le persone, continua a ricordare da che parte bisogna stare, il giallo è il colore che illumina la richiesta di verità e giustizia. Per Giulio, ma come diciamo sempre anche per tutti i Giuli e le Giulie. Ci piace sapere che ci sono più di cento panchine gialle dedicate a Giulio, un’iniziativa che riteniamo importante perché permette di ricordare la tragedia di nostro figlio, non solo visivamente ma con azioni concrete: in fin dei conti la panchina dovrebbe essere anche un luogo di relazioni interpersonali. In questi lunghi e dolorosi sette anni, il Popolo giallo che è divenuto anche scorta mediatica è cresciuto in maniera esponenziale e ci è sempre vicino attivamente”. Il processo ai quattro agenti della National Security, il servizio segreto civile egiziano, accusati del sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio è ancora in fase di stallo: senza notifica non può ripartire. Ma senza collaborazione dell’Egitto non può esserci la notifica. Avevate detto, davanti alla decisione dei giudici di bloccare il dibattimento, “non ci arrenderemo mai”. È ancora così? “Certo, siamo determinati più che mai. Perché sappiamo che Giulio ha subito un’intollerabile violazione dei diritti umani”. Qual è la cosa che più vi ha ferito in questi anni? “Diciamo, tutte le promesse mancate, l’ipocrisia, le strette di mani come mera esibizione, la retorica di certi discorsi o comunicati, la chiara prevalenza degli interessi sulla tutela dei diritti umani, alla parola interessi sarebbe da sostituire il termine interessamento che pone una vera attenzione alle persone”. Avete ancora fiducia nel nostro Paese? “Fiducia in chi? Se rivolta alla Istituzioni, siamo costretti ad averla, viviamo in Italia. Questa è una domanda che ci pongono spesso tutti i giovani che incontriamo e che osservano e valutano il mondo politico. Rispondere è sempre molto complicato”. Avete avuto mai la sensazione di essere soli in questa battaglia? “No, per fortuna ci sono i cittadini che vivono l’impegno”. In questi sette anni avete avuto come interlocutori sei governi e cinque presidenti del Consiglio. Avete avuto modo di sentire la premier Giorgia Meloni? “Non abbiamo incontrato nessuno membro del Governo attuale”. Ieri il ministro degli Esteri Tajani era al Cairo a incontrare Al Sisi. Ha detto, come avevano fatto tutti i suoi predecessori, di aver chiesto collaborazione. Ci credete ancora? Cosa vi aspettate da questo esecutivo? “Non abbiamo aspettative, noi pretendiamo, verità e giustizia, come azioni concrete. Basta, per favore, basta finte promesse. Pensiamo sia oltraggioso questo mantra sulla “collaborazione egiziana” che invece è totalmente inesistente”. Ritenete giusto che l’Italia continui ad avere rapporti con l’Egitto tanto da continuare a vendergli le armi? “Ricordiamo il nostro esposto, contro lo Stato italiano che prevede che non si vendano armi a paesi che violano i diritti umani, come l’Egitto. Purtroppo non ci risulta sia stata compiuta una efficace istruttoria, non abbiamo mai avuto una risposta. Un Paese che vuole essere democratico, dovrebbe anche sapere fare delle scelte. La realpolitik non può sconfinare nella complicità con i dittatori”. Sette anni dopo, Giulio continua a fare cose? “Si tantissime, abbiamo un’immensità di testimonianze dalle persone che ci supportano nella nostra richiesta di giustizia. Non ci sentiamo mai soli, e per questo vogliamo ringraziare tutti quelli che ci sostengono. In un certo senso Giulio sta aiutando a costruire e mettere insieme le buone sinergie del nostro Paese. Però, come diciamo spesso, Giulio fa cose ma non può fare tutto lui”.