Cospito può crollare “da un momento all’altro” di Manuela D’Alessandro agi.it, 22 gennaio 2023 Nemmeno l’alimentazione forzata potrebbe salvarlo, spiega la dottoressa che segue l’anarchico in sciopero della fame contro il 41 bis. Alfredo Cospito “da un momento all’altro può avere un deficit, sono negativa sull’evolversi della situazione”. Lo dice Angelica Mellia, il medico dell’anarchico in sciopero della fame da tre mesi detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Sassari. Alla domanda su quanto tempo resti prima che la situazione precipiti se continua a non alimentarsi, risponde: “Ogni fisico ha una risposta differente ma siamo arrivati al limite e, a questo punto, anche l’alimentazione forzata, che lui peraltro ha detto di non volere, potrebbe avere un esito devastante”. Questo perché, spiega, dopo un digiuno così prolungato le cellule della digestione diventano ‘dormienti’ e l’alimentazione forzata potrebbe essere nociva perché non funzionano più”. “A vederlo Alfredo sta abbastanza bene, non dà particolari segni di mancamento ma a livello chimico stanno succedendo cose importanti che potrebbero diventare irreversibili. Finora ha resistito pur avendo perso 40 chili perché era in forte sovrappeso ma ora che la massa grassa a cui attingere si è esaurita è in corso la distruzione delle proteine che si ripercuote sui muscoli alla disperata ricerca di energie e si ripercuoterà, se dovesse andare avanti, sui muscoli della respirazione”. Nemmeno il cucchiaino di miele che ogni tanto mangia può interrompere questo ‘cortocircuito’. “Cospito vuole continuare il digiuno, è molto tenace - prosegue il medico -. Ha interrotto l’assunzione di integratori proprio per fra precipitare le sue condizioni e portare l’attenzione sulla sua battaglia. In questo momento poi è sostenuto dal cortisolo in circolo che gli dà adrenalina”. Secondo Mellia, che finora l’ha visitato una volta alla settimana in cella, ieri l’ultima, “si sta prendendo sottogamba una situazione che presto potrebbe avere effetti devastanti”. Don Gino Rigoldi: “I ragazzi del Beccaria? Sono fuggiti per cercare affetto” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 22 gennaio 2023 Lo storico cappellano del carcere minorile di Milano e i “suoi” giovani: “Eravamo un modello. Poi è cambiato tutto”. “È un carcere, sì, ma la filosofia non è mai stata ‘li sbatti dentro e butti via la chiave’. Piuttosto costruiamo speranze”. Intanto ci vuole passione: “Se non vuoi bene a questi ragazzi è meglio che cambi mestiere”. E poi servono punti di riferimento autorevoli: “Se a capo delle guardie metti un ragazzo di 25 anni, difficile lo ascoltino”. Infine, bisogna sfatare i miti: “Il Beccaria è stato un modello, ora non lo è più. Ma è anche inutile piangersi addosso: bisogna ripartire e bisogna farlo restando tutti insieme”. Ecco, l’idea della rete educativa a don Gino Rigoldi, 83 anni compiuti e una testa che non smette mai di inventare progetti, piace davvero tanto. Ci ha speso una vita da prete e da cappellano dell’Istituto minorile Beccaria di Milano. Una vita. Come comincia questa storia, don Gino? “Comincia 51 anni fa. La struttura era appena diventata pubblica, prima era dell’Associazione nazionale Cesare Beccaria. Serviva il cappellano e mi feci avanti, accanto al direttore che si chiamava Antonio Salvatore ed era un maestro elementare. Era un educatore attento al bene dei ragazzi: si occupava anche delle mura e del personale, certo. Ma i ragazzi erano il suo pensiero fisso: li amava e sapeva anche trattarli con durezza quando serviva. C’erano gli educatori, arrivarono i primi volontari e si faceva molta attenzione anche a formare gli agenti che erano per lo più padri di famiglia. Eravamo tutti molto motivati, molto entusiasti di poter fare qualcosa per cambiare radicalmente le vite di questi giovani”. Una esperienza solo milanese? “Ci confrontavamo anche con altre realtà. Ho in mente la nave scuola che aveva realizzato il maestro Garaventa a Genova: caricava questi giovani e facevano i mozzi, imparando da questa metafora il rispetto delle regole, il gioco di squadra, il valore dei propri talenti. Ma è stato davvero un momento unico: ci sentivamo parte di una bella impresa collettiva, fatta di competenze e di studio oltre che di passione”. Che ragazzi aveva davanti al Beccaria? “All’inizio erano italiani quasi tutti del Sud: avevano alle spalle famiglie complicate, tantissima povertà e poche speranze. Noi cercavamo di proporre attività che li aiutassero a capire il valore della vita e di loro stessi come persone. La formazione professionale, la pasticceria, la falegnameria. E poi la scuola, uno snodo fondamentale per dare autentica emancipazione, e il teatro che ha aiutato davvero tanti a conoscersi, a misurarsi con le proprie capacità e le proprie fragilità”. Comunque era un carcere. O no? “Beh, certo. Ma la filosofia non è mai stata li sbatti dentro e butti via la chiave. Anzi facevamo attività che aprivano all’esterno: come il torneo di calcio, una esperienza importante portata avanti partecipando a un campionato del Csi, il Centro sportivo italiano. Anche se poi lì ci fu un piccolo incidente”. Cosa accadde? “Un ragazzo diede un pugno all’arbitro e il progetto venne sospeso. Però insomma, da lì passavano un migliaio di ragazzi ogni anno e tutto sommato la situazione è sempre rimasta sotto controllo: inoltre credo che davvero a tutti siano state offerte opportunità importanti di crescita”. Ha tenuto contatti? Che fine hanno poi fatto una volta fuori? “Ho tenuto contatti con tantissimi e tanti si sono costruiti vite piene. Uno adesso è un grosso imprenditore in centro Italia, uno si è laureato e oggi fa l’avvocato, un altro è un importante commerciante in Puglia. Le racconto anche questa: avevamo molti ragazzi che arrivavano da Cerignola, chissà perché. Qualche anno fa stavo facendo un viaggio e mi sono fermato lì per mangiare qualcosa: ha cominciato ad avvicinarsi uno, poi un altro, “Don Gino, don Gino, ma non mi riconosci?”. E poi si sono passati la voce e tutti volevano che andassi a salutare le mamme e qualche nonna e in ogni casa mi offrivano da mangiare e da bere. Son venuto via da Cerignola contento ma distrutto dal cibo...”. E quello del pugno all’arbitro? “Quando è uscito ha vissuto un po’ da me in comunità. Poi si è sposato e gli ho fatto da autista prendendo in prestito una macchina molto lussuosa perché voleva arrivare in Comune così. Gli ho anche fatto da testimone. Adesso ha quattro figli che sono dei piccoli lord e lui, dovreste vederlo: li sgrida anche se dicono mezza parolaccia, è un papà premuroso ma molto severo”. Descrive il carcere come se fosse un paradiso. Mai problemi? “Un paio di rivolte c’erano state, ma in poche ore arrivavamo e in due giorni tornava tutto alla normalità. Un’altra volta uno ha rubato una pistola e sparava: sono salito da lui anche se la Polizia voleva fermarmi e l’ho convinto a buttare l’arma e a farsi portare via in ambulanza”. Questi i primissimi anni. Poi? “Poi dagli Anni 90 sono arrivati gli stranieri: prima gli albanesi e ancora ancora si riusciva a tenere insieme il progetto. Poi sono arrivati i nordafricani e lì e cambiato tutto perché abbiamo dovuto affrontare una cultura nuova, anzi una non cultura, un vuoto totale di senso e di valore. Intendo dire che i loro Paesi di provenienza sono anche ricchi di cultura: ma da noi sono arrivati e arrivano ragazzi spesso analfabeti, prevalentemente di estrazione umilissima, da aree molto povere. E la loro cultura religiosa islamica si ferma a qualche vago rispetto di alcuni precetti, ma non sanno dare profondità. Infine, non conoscono la nostra grammatica relazionale, non sanno come rapportarsi all’interno della nostra società, e quindi rimangono intrappolati nel piccolo gruppo autoreferenziale di chi è del tutto simile a loro”. Come sono cambiate le generazioni? “Se i primi ragazzi erano vittime di una cultura dell’accaparramento, dell’ottenere tutto con la strada più facile che per loro erano furti e rapine, poi abbiamo dovuto fare i conti con un grandissimo isolamento dal mondo: questi giovani non avevano mai visto un computer, raramente un cellulare, non avevano mai ascoltato musica né letto un qualsiasi libro. Vite che ruotavano intorno alla sopravvivenza. E quelli che arrivano oggi, che invece il cellulare lo hanno e un po’ di musica la ascoltano, hanno però lo stesso problema di isolamento: è come se avessero una crosta che li rende impermeabili a ogni stimolo e noi dobbiamo trovare un modo per rompere quel guscio”. Nel senso che questo è il compito del carcere? “Non può essere solo punitivo: altrimenti scontano la condanna, escono e ci ricascano. Questi sono ragazzi intelligenti che però devono essere, diciamo così, “costruiti”. Gli devi dare stimoli, occasioni, visione di sé. Li devi aiutare a capire che la vita è più di mangiare, dormire e fare sesso. Sono ragazzi intelligenti, ma con loro è difficile anche parlare di calcio”. Come si è spiegato l’episodio di dicembre e l’evasione? “È stata davvero una ragazzata, una leggerezza perché è capitata l’occasione. Questi sono ragazzi semplici, non violenti: al loro posto io sarei arrabbiato e penserei di spaccare tutto. A uno mancavano quattro mesi per finire, e adesso si prenderà una seconda condanna. Sottolineerei che sono scappati per andare in famiglia o nel proprio gruppo affettivo, amicale. Non hanno progettato latitanze per organizzare nuovi crimini. Semplicemente, avevano bisogno di ritrovare quel poco di affetto indispensabile per la sopravvivenza”. Non è troppo buono, don Gino? “Io sto parlando di loro. Ma se mi chiede un giudizio sul contesto sono molto critico. Io non sono buono con noi adulti. L’errore è nostro e anche questo episodio ci dice che abbiamo fallito nella nostra missione formativa e che bisogna ricominciare in modo diverso”. Lei cosa farebbe? “Intanto serve stabilità, quella che è mancata negli ultimi 10 anni: dopo tanti turn over abbiamo una direttrice facente funzioni che è competente e appassionata. Ripartiamo da lì e rimettiamoci insieme a fare squadra, con i volontari, gli educatori, la scuola; rimotiviamo gli agenti di polizia penitenziaria, rivediamo i progetti per affascinarli, coinvolgerli, stimolarli. Solo lavorando insieme aiuteremo loro e la società a crescere”. Nordio, le intercettazioni e “la pazienza di Giobbe”. “Non lascio, le critiche mi stimolano” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 22 gennaio 2023 Il ministro Nordio dopo le tensioni sulle intercettazioni: “Mai pensato di dimettermi. C’è sintonia con la premier Meloni”. I malumori di FI sul ruolo di Delmastro (FdI). “Non cedere mai”. Nel giorno in cui rimbalzavano sulla stampa gli attacchi duri dei suoi ex colleghi magistrati e si accreditavano voci di probabili dimissioni, il ministro Carlo Nordio ha resistito a lungo. Facendo ampio ricorso alla “pazienza di Giobbe” citata venerdì durante l’orazione davanti alla reliquia della camicia insanguinata del giudice Rosario Livatino assassinato dalla mafia e ora beato. “In questo mondo il giusto molto spesso viene punito e l’ingiusto viene premiato”, aveva detto il ministro citando il personaggio biblico che aveva resistito alle avversità. E “il giusto è spesso oppresso dal dolore, mentre il maligno gode della sua iniquità”. A chi gli chiedeva se davvero intendesse dimettersi sorrideva scuotendo la testa e rispondeva che si trattava solo di “esagerazioni”. Poi alla sua maniera letteraria aggiungeva, citando un po’ Winston Churchill e il suo Never give in e un po’ il motto latino del putant quod cupiunt: pensano ciò che in cuor loro vorrebbero. A Treviso, in famiglia, con sua moglie e i suoi amati gatti, ha aspettato che cessassero voci e soprattutto critiche. Infine, in serata, ha pensato che fosse meglio chiarire che lui non lascerà. “Non ho mai minimamente pensato a dimettermi. In primo luogo perché con la premier siamo in perfetta sintonia”, ha detto, rivendicando che la sua linea è quella ufficiale del governo, non la sua personale. “Poi perché le critiche, soprattutto quelle espresse in modo scomposto ed eccentrico, sono uno stimolo a proseguire”, ha aggiunto respingendo al mittente ogni obiezione. “Ed infine perché la mia risoluzione sulla giustizia è passata con 100 voti contro 50 al Senato, e con la stessa percentuale alla Camera, con una standing ovation anche da una parte dell’opposizione. Le voci sulle nostre divisioni interne sono manifestamente smentite dai voti”, ha concluso. Una dichiarazione che prova a far tacere quelle critiche, velate e non, che sono giunte dagli alleati al suo annuncio di una stretta alle intercettazioni salvo “i reati di mafia e terrorismo e reati satellite”, e al suo accenno severo ai magistrati: “Il Parlamento non sia supino ai pm”. Esternazioni che si sono attirate le polemiche dell’Anm, di correnti anche moderate della magistratura e di autorevoli magistrati. Ma anche i distinguo degli alleati. Riuscendo persino nell’inedito risultato di far vestire al leader della Lega, Matteo Salvini, i panni del moderatore con l’invito ad “abbassare i toni”. A rendere più complessa la situazione, le precisazioni di Fratelli d’Italia, pronunciate dallo stesso sottosegretario Andrea Delmastro, che del partito di Giorgia Meloni è responsabile giustizia: “Reati satellite della mafia sono anche corruzione, concussione, peculato”. A fare quadrato intorno alle posizioni garantiste del ministro Forza Italia. Convinta che a turbare la pace del governo sia solo la posizione di Delmastro che, dicono in privato, “parla di tavoli mai aperti, come quello sulla stampa, e di norme mai esistite”. In realtà la “preoccupazione” per la levata di scudi dei magistrati, generata dalle dichiarazioni di Nordio, soprattutto prima ancora che siano stati varati provvedimenti concreti, c’è. E non ne sarebbe estranea neanche Giorgia Meloni che, non a caso, due giorni fa ha richiamato ciascuno dei ministri a individuare 3-4 obiettivi prioritari e fornire un cronoprogramma per realizzarli. Una sfida per la vulcanica voglia di Nordio di “andare fino in fondo” alla linea garantista in cui crede. E alla quale plaude anche il Terzo polo, cui le crepe nella maggioranza non possono che giovare. Ma da quel metodo, che è il suo, Giorgia Meloni non vuole derogare. Il motto è “ora le cose le dobbiamo fare non più dire”. La sintesi andrà trovata. Anche se, filtra da Palazzo Chigi, la linea è quella già espressa nei primi provvedimenti: la conferma dell’ergastolo ostativo e le modifiche della riforma Cartabia “che non saranno le uniche visto che alla prova dell’applicazione mostra qualche problema”. Strappi verso una linea diversa capaci di rinverdire lo scontro politica-magistrati non sono in programma. Soprattutto nel clima creato dall’arresto di Matteo Messina Denaro. Sulla mafia Nordio, davanti alla reliquia di Livatino, ha promesso: “Continueremo sempre la sua opera contro la mafia, con la stessa sua competenza e determinazione”. Si vedrà dai fatti. La solitudine di Nordio: è gelo tra il ministro della Giustizia e Fratelli d’Italia di Francesco Grignetti La Stampa, 22 gennaio 2023 Anche il Carroccio prende le distanze. Il Guardasigilli costretto a smentire l’ipotesi di dimissioni: “Con Giorgia perfetta sintonia”. Come minimo, si dirà che è indispettito. Ma è un pallido eufemismo per nascondere la solenne arrabbiatura di Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia, uomo dal pensiero indipendente e garantista adamantino, non ha per niente gradito la presa di distanze di questi giorni, più o meno sotterranea, da parte dei due partiti di centrodestra meno garantisti. Nell’ordine, Fratelli d’Italia e Lega. Ma se del secondo ha ben chiara la parabola, e ha sempre messo in conto qualche distinguo, è del “suo” partito che si sta lamentando in giro. Non se l’aspettava. Si sente tradito. Né gli è sfuggito, due giorni fa alla Camera, che il suo discorso tutto all’attacco dei magistrati italiani, categoria che ben conosce essendo stato decenni alla procura di Venezia, è stato interrotto spesso e volentieri dagli applausi scroscianti di Forza Italia e del Terzo Polo. Meno, molto meno, dagli eletti di Giorgia Meloni. La storia che il governo sta studiando una misura-bavaglio per i giornalisti che pubblichino intercettazioni “irrilevanti”, con annesse multe per i media inadempienti, per dire, Carlo Nordio, l’ha scoperta dai giornali. Il sottosegretario Andrea Delmastro, che pure condivide i corridoi del palazzo umbertino di Via Arenula, ed è l’uomo che sussurra di giustizia alla premier, ne ha parlato in televisione, non con lui. E così ieri, a chi gli chiedeva lumi, il ministro ha sibilato: “Le cose del sottosegretario, chiedetele al sottosegretario”. Un grande gelo, insomma, sembra sceso tra il Guardasigilli e il partito di Giorgia Meloni, che pure si è spesa molto per convincerlo a candidarsi con Fratelli d’Italia e per imporlo come ministro. Eppure nelle ultime ore il freddo è sceso anche con lei, si dice. E con il sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, un altro magistrato di lungo corso prestato alla politica, il quale fa del silenzio assoluto la sua cifra. Nordio non avrebbe apprezzato neppure il cordiale invito a prendere tempo e frenarsi nelle esternazioni. La sua ira è tracimata al punto che si era sparsa la voce di dimissioni imminenti. È stato costretto a smentire: “Non ho mai minimamente pensato - ha scritto in una breve nota - a dimettermi. In primo luogo perché con la premier siamo in perfetta sintonia. Poi perché le critiche, soprattutto quelle espresse in modo scomposto ed eccentrico, sono uno stimolo a proseguire”. Nordio si fa forte soprattutto degli applausi ricevuti in Parlamento. “La mia risoluzione sulla giustizia è passata con 100 voti contro 50 al Senato, e con la stessa percentuale alla Camera, con una standing ovation anche da una parte dell’opposizione. Le voci sulle nostre divisioni interne sono manifestamente smentite dai voti”. Ora, che Nordio dovesse affrontare un certo apprendistato era scontato nel governo. In queste settimane ci sono state molte occasioni per parlarne con palazzo Chigi. Lui stesso, qualche giorno fa, vi aveva fatto cenno con ironia al Senato: “La mia replica sarà brevissima, come è consuetudine, e come mi è stato insegnato, visto che sono un neofita della politica”. Quello che però ai piani alti del centrodestra gli imputano è di avere aperto uno scontro di cui non si sentiva la necessità. La premessa immancabile è che c’è da gestire la velocizzazione dei processi, perché è questione di vita o di morte con il Pnrr; tutto il resto, ossia le grandi riforme, seguirà. E invece Nordio s’era gettato a capofitto negli annunci: sulla separazione delle carriere, sulla discrezionalità dell’azione penale, sulle intercettazioni, sulla mafia che non c’è così tanto. Il risultato è che la magistratura s’è compattata e s’è fatta sentire. E il governo è corso ai ripari. Si racconta di una riunione tesa con palazzo Chigi, dove l’hanno spinto a cambiare segno nella replica alla Camera. La linea ora è ricucire con i magistrati, altro che approfondire la crisi. Salvini al riguardo è stato perfino brutale: “Ritengo che lo scontro politica-magistratura debba essere superato”. Ma lo stesso input viene anche da Giorgia Meloni. E invece Nordio è quello che invita il Parlamento a non essere “supino” ai pm. Di sicuro, l’ex magistrato non ha una concezione sacrale della giustizia. Due giorni fa ha celebrato così la memoria del beato Rosario Livatino, il giovane magistrato ucciso dalla mafia: “Questa reliquia insanguinata - ha detto. ci ispira la Giustizia. Non tanto e non solo quella mondana, per la cui incomprensibilità Giobbe inviava al Signore le sue lamentele: sappiamo bene che in questa “civitas hominis” il giusto è spesso oppresso dal dolore, mentre il maligno gode della sua iniquità”. Intercettazioni, Nordio assediato: “Mai pensato a dimettermi” di Andrea Colombo Il Manifesto, 22 gennaio 2023 Salvini fa dietrofront: “Basta scontri con la magistratura”. Nordio mollato a metà da FdI, preso di mira dalla Lega, tenta il contrattacco: “Non ho mai minimamente pensato a dimettermi. Con la premier siamo in perfetta sintonia e le critiche, soprattutto quelle scomposte ed eccentriche, sono uno stimolo a proseguire”. A stringere l’assedio intorno al ministero di via Arenula era stata ieri una Lega martellante. Parte Salvini, rispondendo al sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro delle Vedove che aveva annunciato parlato di una stretta non sulle intercettazioni ma sulla pubblicazione delle stesse, o almeno di quelle considerate “irrilevanti”. Salvini stempera: “Spero che sia finito il tempo dei contrasti tra politica e magistratura. La politica deve evitare lo scontro con la magistratura e viceversa”. E il Guardasigilli? “Nordio pone l’accento su alcuni abusi ma l’importante è che non ci siano polemiche con l’intera magistratura che ha al lavoro persone per bene”. Il capo si tiene sulle generali, senza affondare sul tema specifico delle intercettazioni diffuse a mezzo media. Ci pensa un altro leghista, direttamente coinvolto in quanto anche lui sottosegretario, Andrea Ostellari: “La democrazia si misura dalla libertà della stampa di pubblicare notizie e opinioni scomode. Non può esistere diritto alla gogna ma la soluzione va trovata senza bavaglio”. Quando alle intercettazioni in sé, il leghista non lascia spiragli alla riforma di Nordio. Bisogna “assicurare alla magistratura tutti gli strumenti utili a svolgere con efficacia la sua funzione”. Il bello è che Del Mastro, uomo di assoluta fiducia della premier, non è affatto un falco e con le sue dichiarazioni bersagliate dal Carroccio mirava a neutralizzare Nordio. Il Guardasigilli, in questo momento, è considerato da Chigi una specie di mina vagante, pericoloso per le dichiarazioni inopportune quasi più che per i progetti che in ogni caso sarebbero bloccati dalla presidente. Solo che non lo si può smentire seccamente, come se nulla fosse, anche perché FI sta ancora dalla sua parte. La mediazione è proprio quella ventilata dal sottosegretario tricolore: mano di fatto libera alla magistratura sulle intercettazioni ma irrigidimento drastico sulla pubblicazione degli “stralci non pertinenti” che Del Mastro vorrebbe diventasse “illecito civile”. Alla Lega la mediazione, che di fatto è una sconfessione piena di Nordio e che peraltro è al momento solo vagheggiata perché di concreto non c’è nulla, non basta per due ordini di motivi. Il primo, fortemente potenziato dall’arresto di Messina Denaro, è la sensazione, probabilmente fondata, che l’elettorato di destra, quello che sarà chiamato tra poche settimane alle urne in Lombardia e nel Lazio, si sia irrigidito su posizioni “legge e ordine” mai abbandonate sul fronte dell’ordine pubblico ma almeno affievolitesi, nell’era Berlusconi, su quello del rapporto con la magistratura. Insomma, Salvini e Meloni si stanno ora giocando il consenso degli elettori soprattutto lombardi puntando sulle posizioni ultra legalitarie. Ma a spingere Salvini sono anche considerazioni tutte interne ai rapporti di forza nella maggioranza. Nordio è in questo momento debolissimo. Per quanto lo sconfessi discretamente grazie all’azione di Del Mastro, la premier non può però mollare del tutto l’ex magistrato. Per il leghista in immensa difficoltà bersagliare il ministro della Giustizia e se possibile ottenerne la testa è dunque un modo indiretto ma micidiale per colpire la potente alleata-rivale. È però evidente che la fase contingente incide a fondo ma forse in modo effimero. Le ricadute al momento potenti dell’arresto eccellentissimo inevitabilmente si affievoliranno nel giro di qualche settimana e la necessità di attrarre l’elettorato legalitario perderà parte del suo magnetismo dopo le elezioni. A quel punto la tentazione di una stretta, almeno per i reati che toccano più da vicino le aree di potere, potrebbe rispuntare. “Ora serve una tregua”. Salvini, schiaffo a Nordio sugli attacchi ai pm di Conchita Sannino La Repubblica, 22 gennaio 2023 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il vice premier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il vice premier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini. La prima lezione destinata al Guardasigilli Carlo Nordio: basta con l’attacco frontale ai pubblici ministeri. “I magistrati non intercettano mica a casaccio”. L’altra a FdI: niente bavaglio alla stampa: “Servono notizie e opinioni scomode”. La Lega si smarca dall’abbraccio mortale del Nordio-pensiero, prova a rientrare in partita sulla Giustizia, terreno presidiato in passato con posizioni non meno incendiarie dell’attuale ministro di via Arenula, e bacchetta i meloniani nel tentativo di chiudere con (inedito) equilibrio la settimana del paradossale corto circuito del governo sull’Antimafia e corruzione. La settimana cominciata con lo storico arresto di Matteo Messina Denaro finisce infatti con la toppa che il ministro della Giustizia è costretto a mettere da solo sulle polemiche aperte dalle proprie parole - in Senato e alla Camera - con fratture che si trascinano da giorni. Dimettermi, io? “Mai pensato”, scrive a sera Carlo Nordio, in un comunicato ufficiale. Il sabato però comincia con le bordate del Carroccio. Matteo Salvini recapita un messaggio chiarissimo al ministro della Giustizia. “Spero che sia finito il tempo dei contrasti tra politica e giudici. C’è bisogno di serenità e tranquillità e la politica deve evitare lo scontro con la magistratura e viceversa”, chiede secco il vicepremier e ministro dei Trasporti. Poi il “suo” sottosegretario in via Arenula Andrea Ostellari arriva a stretto giro: sostiene la tesi che non vada tappata la bocca ai giornalisti - contestando, senza mai nominarlo, il suo collega meloniano di via Arenula, il deputato FdI Andrea Delmastro, che ipotizzava norme in quella direzione - e ricorda che “l’Italia non ha bisogno di conflitti e divieti, ma di fiducia” e l’obiettivo va raggiunto “assicurando” ai pm “tutti gli strumenti utili a svolgere, con efficacia, la sua funzione”. Leggi: intercettazioni senza restrizioni. Due mosse per dire che la linea della Lega non è quella degli annunci di guerra del ministro, quando getta accuse indiscriminate sugli “abusi” negli ascolti a strascico. E che vanno lette in parallelo alla decisione di Giorgia Meloni di far calare il silenzio intorno alla Giustizia. Il segnale parte dalla Lombardia. Salvini è attento nei toni, tranchant con le battaglie di via Arenula. “Nordio - spiega il vicepremier - pone l’accento su alcuni abusi ma l’importante è che non ci siano polemiche con l’intera magistratura che ha al lavoro persone perbene che sono in Tribunale non per fare politica, o per intercettare a casaccio”. Importante, per Salvini, è evitare “nuovi scontri tra pezzi dello Stato”, perché “c’è bisogno di una riforma della giustizia fatta con magistrati e avvocati non l’uno contro l’altro”. A tenere la linea del partito di Meloni ci pensa il capogruppo Tommaso Foti: “Nordio ha parlato degli abusi, le intercettazioni restano fondamentali per l’attività investigativa. Dobbiamo capire se sia giusto che prima che un cittadino sappia di essere indagato, siano già pubblicate sui giornali”. Ma netto è il leghista Ostellari. “La qualità di una democrazia si misura anche dalla libertà della stampa di pubblicare notizie e opinioni scomode”, sottolinea il sottosegretario leghista. Chissà cosa ne pensa il collega Zaia, che a quanto pare aveva molto gradito la crociata di Nordio, quando in Parlamento ha fatto il suo nome citando le recenti captazioni sulla sua guerra al virologo Andrea Crisanti. Ostellari precisa: le regole “servono, perché non può esistere il diritto alla gogna. La soluzione tuttavia va individuata senza mettere il bavaglio ai tanti professionisti dell’informazione che contribuiscono a rendere la nostra società più informata e vigile”. Parole alate. Non sembrano neanche della Lega. Certo, non sono gli auspici choc che l’allora Salvini, tre anni fa e mezzo fa, riservò al tema delle “intercettazioni di vita privata che finiscono sui giornali”. Era ministro dell’Interno, giugno 2019. “In galera - sentenziò - In galera sia chi le fa uscire dalla Procura, sia chi le pubblica”. Intercettazioni, il governo punta la stampa. La Lega: “Niente bavagli” di Davide Varì Il Dubbio, 22 gennaio 2023 Delmastro: “La pubblicazione di stralci non pertinenti dovrebbe diventare un illecito civile”. Sanzioni ai giornali, senza toccare lo strumento di indagine. Ma Ostellari: “La stampa sia libera”. “Ritengo che la pubblicazione di stralci di intercettazioni non pertinenti dovrebbe diventare un illecito civile”. È il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ad annunciare alcune misure allo studio del governo per avviare la stretta sui media. E arginando la “rivoluzione” annunciata dal guardasigilli. L’obiettivo è colpire, prevedendo sanzioni ad hoc, chi pubblica stralci che non hanno alcun valore giudiziario. Ma senza limitare lo strumento d’indagine, dice l’esponente di Fratelli d’Italia, che in un’intervista su Il Messaggero interviene sul dossier degli “ascolti” divenuto bollente dopo la cattura di Messina Denaro. “Chi si rende responsabile di quella pubblicazione, dovrebbe esserne considerato il responsabile”, aggiunge Delmastro, “personalmente sarei favorevole all’introduzione di sanzioni, nel momento in cui si dimostra la responsabilità della diffusione della conversazione privata. La materia va studiata con attenzione: vogliamo agire con la massima prudenza”. Il sottosegretario ha spiegato che sulle intercettazioni “non c’e’ ancora un progetto di legge in cantiere: parliamo di misure allo studio dell’esecutivo. L’intenzione, in ogni caso, non è quella di togliere ai pubblici ministeri uno strumento fondamentale per le indagini come le intercettazioni. Piuttosto, c’è la necessità di rimettere mano a una riforma, quella entrata in vigore nel 2020, che evidentemente non ha funzionato, visto che anche oggi (ieri, ndr) leggiamo sui giornali conversazioni private che nulla hanno a che fare coi reati contestati agli indagati”. Innanzitutto per Delmastro “occorre capire da dove nascono queste fughe di notizie, che nulla hanno a che fare col merito delle inchieste anche attraverso l’Ispettorato generale del ministero, per verificare che non escano dalle procure”. “Il punto è delicato, ci confronteremo presto col ministro Nordio che da ex pm conosce bene questi temi. Ai quali, lo ribadisco, intendiamo mettere mano con equilibrio, perché toccano da vicino il diritto di cronaca che nessuno intende limitare” aggiunge, “e le sanzioni non sono l’unico strumento. Penso all’avvio di una stagione di confronto con l’Ordine dei giornalisti, per definire regole deontologiche più stringenti”. “Lo strumento delle intercettazioni è fondamentale”, ribadisce il sottosegretario, “ed è per questo che vogliamo tutelarlo: una parte crescente dell’opinione pubblica è stufa di vedere sui giornali l’abuso che se ne fa. C’è il rischio che diventino, mi passi il termine, indigeste. Gli investigatori devono avere tutti gli strumenti a disposizione per indagare. E tutto dev’essere trascritto, perché può chiarire il contesto. Ma poi va fatta una selezione: ciò che non è utile all’inchiesta deve restare nell’archivio di chi indaga”. Dunque nessun intervento sullo strumento d’indagine, lo scopo è limitare gli abusi, eliminare gli “ascolti” che rientrano nella sfera del “gossip”, rendere la pubblicazione un illecito civile. Al momento non c’è un disegno di legge ad hoc ed è prevedibile un dibattito (acceso) anche nella maggioranza. Nell’ottobre del 2011 l’allora commissione Giustizia alla Camera diede parere favorevole a due emendamenti del Pdl che da una parte prevedevano il carcere per i giornalisti e vietavano la pubblicazione delle intercettazioni fino alla cosiddetta udienza filtro. “E - ricorda un deputato del centrodestra - l’allora relatrice del testo si dimise”. Era la leghista Bongiorno che allora militava nelle fila di Fli. L’esecutivo in ogni caso punta a salvaguardare la riservatezza delle conversazioni che non hanno alcuna attinenza con le inchieste. “Io credo che si debba conciliare il diritto dell’informazione con quello della privacy e della possibilità di una persona di difendersi senza dover essere messa alla gogna”, osserva il capogruppo alla Camera di Fdi, Foti. “La qualità di una democrazia si misura anche dalla libertà della stampa di pubblicare notizie e opinioni scomode. Certo, servono delle regole, perché non può esistere il diritto alla gogna. La soluzione tuttavia va individuata senza mettere il bavaglio ai tanti professionisti dell’informazione che contribuiscono a rendere la nostra società più informata e quindi più vigile”, dichiara Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia e senatore della Lega. “L’Italia - aggiunge in una nota - non ha bisogno di conflitti e divieti, ma di serenità, crescita e fiducia nel futuro. Concentriamoci per raggiungere questi obiettivi, assicurando alla magistratura tutti gli strumenti utili a svolgere, con efficacia, la sua necessaria funzione. Sulla qualità e le caratteristiche di questi strumenti la politica deve avere il diritto di discutere. Facciamolo con responsabilità e pacatezza”. Restano sensibilità diverse nel centrodestra, pure sul tema dell’abuso d’ufficio con il ministro della Giustizia che vorrebbe un provvedimento radicale mentre Fdi frena. E “blinda” ancora una volta le intercettazioni a tutto campo: “Non priveremo mai i magistrati del maggiore strumento di ricerca della prova nel contrasto alla criminalità organizzata e alle mafie”, assicura lo stesso Delmastro. “È innegabile che le intercettazioni sono indispensabili”, il parere della leghista Bongiorno. “Siamo dalla parte di Nordio con forza, ne sosteniamo le idee e le linee programmatiche che tradurremo, nero su bianco, in proposte di legge”, annuncia Costa di Azione. Il terzo Polo si schiera con Nordio, le altre forze dell’opposizione lo attaccano. “Parole in libertà”, sostiene il dem Provenzano (ma il governatore della Campania De Luca lo difende); “chi sterilizza le intercettazioni ha qualcosa da nascondere”, la posizione del M5s; “Il ministro della Giustizia legittima la convivenza tra mafia e Stato”, rincara la dose De Magistris. La mafia e la retrotopia dei garantisti alle vongole di Massimo Giannini La Stampa, 22 gennaio 2023 Aveva ragione Bauman: la civiltà occidentale soffre di “retrotopia”. Ha invertito la rotta e naviga a ritroso. Il futuro è un posto troppo incerto e inaffidabile, mentre il passato è uno spazio in cui le speranze non sono state ancora screditate. In Italia il fenomeno è persino più grave. La nostra retrotopia non è solo nostalgia: è anche il nastro della Storia che si riavvolge in continuazione, tra vecchi miti che vanno e vecchi fantasmi che tornano. Basta guardare i telegiornali, i siti e le prime pagine dei giornali di martedì scorso, per sentirsi risucchiati nella macchina del tempo, a fare i conti con un Paese spesso prigioniero di un passato che non passa. Matteo Messina Denaro che viene arrestato, Gina Lollobrigida che muore. L’Ultimo Padrino da una parte, l’Ultima Diva dall’altra. Stragi coppola e lupara di qua, pane amore e fantasia di là. L’Italia inchiodata ai suoi rituali e ai suoi clichè, a fare i conti con i crimini e i misteri di sempre, e a cercare conforto nella solita Grande Bellezza. Naturalmente e fortunatamente siamo molto di più di tutto questo. Ma l’impressione è che non si riesca mai a voltare pagina davvero, sospesi come siamo tra l’eterno ritorno dei peggiori e l’eterno riposo dei migliori. A questa sensazione sgradevolmente passatista si aggiunge adesso un altro classico della Seconda Repubblica: lo scontro tra politica e magistratura. Un conflitto che ci portiamo dietro dai tempi di Tangentopoli e Mani Pulite. Un fiume carsico che ha rotto gli argini nel ventennio berlusconiano. Che si era inabissato dall’estate del 2013, quando il Cavaliere fu condannato in via definitiva ed “espulso” dal Senato. E che adesso, con le destre nuovamente al potere, riemerge in tutta la sua truce virulenza. Perché? A chi giova riaprire le ostilità in questo momento, destabilizzando un esecutivo nato solo da tre mesi e rimettendo nel mirino un potere dello Stato che insieme alle forze dell’ordine ha appena dato prova della sua competenza e della sua efficienza? La domanda va rivolta alla presidente del Consiglio. Il giorno stesso dell’arresto di Messina Denaro, Giorgia Meloni è corsa a Palermo a festeggiare. E ha fatto bene, perché siamo tutti felici che finalmente sia finito nelle patrie galere un mafioso assassino, responsabile delle mattanze di Capaci e di Via D’Amelio e degli attentati del ‘93 a Roma, Firenze e Milano. Sorvoliamo pure su qualche scivolata della premier, che ha nuovamente ceduto al complesso dell’underdog, e accusando un’imprecisata “opposizione” di non voler gioire dell’arresto del super boss siciliano. Come se non fosse possibile esultare per questo successo dello Stato, ma al tempo stesso chiedersi perché ci sono voluti trent’anni a incastrare “u Siccu”, nascosto non nelle grotte afgane di Tora Bora, come Bin Laden, ma in un paesello di undicimila anime a un tiro di schioppo da Trapani. E come se fosse vilipendio per le istituzioni compiacersi per l’esito felice della cosiddetta “Operazione Tramonto”, ma al tempo stesso ricordare tutti i segreti mai svelati sulle coperture di Cosa Nostra, dall’agenda rossa di Borsellino al papiello di Riina, dalle relazioni pericolose del generale Mori ai mancati arresti di Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano. Lo spirito di rivalsa meloniano lo tradisce un titolo di Libero: “La sinistra rosica”. È inventato, sia perché nessuno ha rosicato sia perché la sinistra non ha più la forza di fare neanche quello. Ma è utile a svelare la cifra politico-culturale dei nuovi patrioti, sempre a caccia di un nemico anche quando non esiste. Arrivati al governo, si comportano come quando sfilavano nei cortei del Fronte della Gioventù, “reietti” dell’arco costituzionale. Detto questo, il vero problema è un altro: si chiama Carlo Nordio. All’indomani della cattura del “Vice Capo dei Capi”, resa possibile solo grazie agli ascolti telefonici e ambientali (come hanno confermato tutti i magistrati coinvolti, dal capo della Procura di Palermo De Lucia al Procuratore generale Lia Sava), il Guardasigilli rilancia la sua battaglia contro le procure. In Parlamento parla addirittura di “rivoluzione copernicana contro l’abuso delle intercettazioni”, e conclude con la solita retorica un po’ fascistoide ma coerente con lo Zeitgeist: “Andremo avanti fino in fondo, non vacilleremo, non esiteremo”. Prendiamo atto della successiva precisazione: il giro di vite sulle intercettazioni non riguarderà i reati di mafia e di terrorismo. Bontà sua, ci mancava solo il contrario. Resta però una gigantesca mucca nel corridoio (per dirla in bersanese) che Nordio finge di non vedere. Spesso i traffici della criminalità organizzata vengono scoperti grazie alle indagini sui cosiddetti reati “spia” o “satelliti”: corruzione, abuso d’ufficio, frode, turbativa d’asta. Se si vieta le intercettazioni per questi reati, diventa più difficile o addirittura impossibile scoprire quelli di mafia. A Nordio, in questi giorni, hanno spiegato l’ovvio tutti i Pm d’Italia. Quelli in servizio, dal capo della Procura Nazionale Antimafia Giovanni Melillo al Capo della Procura di Roma Lo Voi. Quelli passati ad altri incarichi, da Nino Di Matteo a Alfonso Sabella. Quelli in pensione, da Giancarlo Caselli a Giuseppe Ayala. Niente da fare. Il Guardasigilli, come ha promesso, non vacilla, non esita. È un guaio per il Paese. È un guaio per il governo. C’è da chiedersi, come nel caso di Ignazio Larussa presidente del Senato, “se questo è un ministro”. Persino Salvini, che tra Nave Diciotti e milioni spariti della Lega non è amico delle toghe, capisce che la guerra con la magistratura fa solo danni. Ma Nordio rilancia. Smentisce di volersi dimettere, e assicura di essere “in perfetta sintonia con la premier”. A questo punto la domanda è d’obbligo. Davvero Meloni è d’accordo con le sortite sguaiate del Guardasigilli e considera la sua sgangherata “pseudo-riforma” delle intercettazioni una priorità del Paese? Non riesco a crederlo. Ho riletto il suo discorso programmatico del 25 ottobre alle Camere. Non ho trovato traccia della parola “intercettazioni”. Ho letto invece che Meloni ha cominciato “a fare politica a 15 anni, il giorno dopo la strage mafiosa di Via D’Amelio, spinta dall’idea che la rabbia e l’indignazione andassero tradotte in impegno civico”. Ho letto che intende affrontare “il cancro mafioso a testa alta”. E ho letto che, per una “giustizia che funzioni”, gli obiettivi da raggiungere sono “una effettiva parità tra accusa e difesa”, “una durata ragionevole dei processi”, “il principio fondamentale della certezza della pena”, un “nuovo piano carceri”, la fine delle “logiche correntizie che minano la credibilità della magistratura”. Questo è tutto. Dunque, perché adesso Nordio cambia “l’Agenda”? All’improvviso, senza una ragione plausibile, ripartono polemiche astruse sulla sicurezza, in un caos pan-penalistico in cui tutte le vacche sono nere. Il ministro degli Interni Piantedosi dichiara in tv che le mafie sono sempre più attive nel riciclaggio del denaro sporco: peccato che nella legge di bilancio il governo gli faccia un regalino, alzando il tetto al contante a 5 mila euro. Si inneggia al “carcere duro”, mescolando il 41 bis e l’ergastolo ostativo: peccato che il governo abbia preso in giro la Consulta, infilando nel decreto contro i rave-party una sfilza di norme-catenaccio che rendono impossibile qualunque forma di redenzione del reo. Le intercettazioni tornano ad essere “un’emergenza nazionale”, per impedire “la gogna mediatica”. Nordio parla da Marchese del Grillo, come scrive Caselli. O da uomo della strada, non certo da ex pubblico ministero. Non sa che il decreto legislativo Gentiloni-Orlando del 2017 ha già introdotto vincoli rigorosi sulla pubblicazione delle intercettazioni. Non sa che da allora esiste il cosiddetto “archivio riservato”, nel quale i giudici hanno l’obbligo di depositare quelle irrilevanti, quelle non utilizzabili ai fini delle indagini e quelle che riguardano terzi non coinvolti. Non sa che tutte le altre che talvolta escono sulla stampa sono atti pubblici, depositati nelle cancellerie a garanzia delle parti del processo. Come se non bastasse, in questa crociata da “garantisti alle vongole” si inserisce un vice-Nordio, il Fratello d’Italia Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, che annuncia un provvedimento per restringere la pubblicazione delle intercettazioni sui media. C’è voglia di un’altra legge-bavaglio per i giornalisti, azzardo già fallito ai tempi del secondo governo Prodi del 2007, ministro Clemente Mastella, e del quarto governo Berlusconi del 2011, ministro Angelino Alfano. Tentativi goffi, ma pericolosi, di comprimere due diritti garantiti dalla Costituzione: quello dei cittadini ad essere informati, quello dei giornalisti di informare. Vecchi mezzucci illiberali di una stagione lontana e mefitica, quando il potere sentiva il bisogno di proteggere se stesso rifugiandosi nell’opacità, e usando la privacy dei cittadini come una foglia di fico. Non posso e non voglio credere che Giorgia Meloni, nemica della mafia e amica della legalità, ci voglia regalare anche questa “retrotopia” anti-democratica. L’uso e l’abuso delle intercettazioni sono solo un corollario. Va risolta la questione giustizia di Giuliano Cazzola huffingtonpost.it, 22 gennaio 2023 C’è un settore deviato della magistratura inquirente, che si è arrogato il diritto non di applicare le leggi, ma di abusare di un’autonomia irresponsabile e che è rivolta a riscrivere la storia del Paese secondo una narrazione ideologica. L’uso e l’abuso delle intercettazioni telefoniche sono importanti corollari della questione giustizia in Italia. Ma il dibattito che si è aperto dopo la cattura di Matteo Messina Denaro gira, da parte di ambedue le fazioni, intorno al problema, come se, ai suoi tempi, gli investigatori di Scotland Yard si fossero accapigliati sul tipo di coltello usato per fare a pezzi le vittime, anziché indagare sull’identità di Jack lo Squartatore. Da quando è disponibile un minimo di tecnologia idonea, le intercettazioni sono sempre state effettuate. Ricordo che, quando ero un bambino, mio padre venne convocato al Commissariato per rispondere di una telefonata partita da casa mia ad un numero telefonico a lui sconosciuto. Quando rincasò stupefatto, e raccontò la vicenda, a mia madre (che lavorava da sarta a domicilio) venne in mente che alcuni giorni prima aveva telefonato ad una cliente e che l’apparecchio si era messo a squillare in modo strano. Rintracciò il numero e notò che era simile (erano state invertite due cifre) a quello sottoposto a mio padre, il quale si recò di nuovo al Commissariato portando con sé il taccuino allo scopo di chiarire il motivo di quella telefonata. Il funzionario ne prese nota, riservandosi di avere conferma dalla cliente. Il caso colpì la mia fantasia tanto che me ne rammento ancora dopo tanti decenni. Certo, oggi in Italia si fanno intercettazioni a strascico, con tecnologie molto sofisticate. Il ministro Nordio ha portato in Parlamento dei dati impressionanti. Da noi le intercettazioni sono circa 120.000 ogni anno, in Francia 37.000 in Inghilterra 3.800. In sostanza, siamo un Paese di intercettati. Per il ministro della Giustizia le intercettazioni attraverso la “diffusione selezionata e pilotata” sono diventate “strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”. Con queste parole, Nordio ha fatto riferimento all’uso delle intercettazioni che, attraverso una fuga di notizie, vengono spesso utilizzate per affidare il caso alla stampa e quindi influenzare l’opinione pubblica e la politica prima ancora che arrivi il giudizio in tribunale. La diffusione delle veline ai cronisti amici è finalizzata a ‘sputtanare’ l’indagato, affinchè il pm ne tragga un vantaggio in udienza, come se il suo dovere non fosse quello di fare giustizia ma di vincere il confronto con la difesa ed ottenere comunque una condanna. E’ appena il caso di ricordare che due sostituti procuratori sono rinviati a giudizio per aver omesso delle prove che avrebbero dimostrato la fallacia del teste d’accusa, le cui dichiarazioni erano state usate per mettere sotto accusa una grande holding internazionale, con prove ritenute dal collegio giudicante inconsistenti. E che dire della c.d. trattativa tra Stato e mafia? Può essere consentita la costruzione di un teorema, che si è rilevato infondato, ma che ha messo in stato di accusa, con dovizia di spettacolarità, le più importanti istituzioni della Repubblica? I giustizialisti rispondono che queste domande tendono solo a impedire le indagini sui reati dei colletti bianchi. Non è così: si potrebbero citare tanti casi di “quidam de populo” che sono incappati nella persecuzione dei pm, prima di essere assolti dopo anni e con formula piena. C’è un procuratore, beniamino dei talk show, che è noto per le periodiche retate compiute con la logica invertita di “colpirne cento per educarne uno”, dal momento che tante persone fatte arrestare - e sbattute regolarmente in prima pagina - vengono rilasciate dopo poche ore. In questi casi, i pm non esitano a mettere in dubbio persino la correttezza dei giudici, perché - lo abbiamo sentito con le nostre orecchie - una persona assolta, a loro avviso, è spesso un colpevole che l’ha fatta franca. Venendo al dunque, quella della giustizia è una questione squisitamente politica: c’è un settore deviato della magistratura inquirente, che si è arrogato il diritto non di applicare le leggi, ma di abusare di un’autonomia irresponsabile e che è rivolta a riscrivere la storia del Paese secondo una narrazione ideologica. Stalin - del resto - combatteva gli avversari politici, accusandoli di crimini perseguiti dal diritto penale. È quanto da noi - per fortuna senza confessioni estorte e consentendo il diritto di difesa - si è tentato di imbastire con Giulio Andreotti, come se una fase della nostra storia politica non potesse non essere collusa con la criminalità organizzata. Oggi è sotto tiro Carlo Nordio per una certa disinvoltura espositiva nelle aule parlamentari. Nessuno però reagisce quando una persona al di sopra di ogni sospetto come Sabino Cassese, studioso, già ministro e giudice emerito della Consulta denuncia che le procure “oggi sono diventate il quarto potere dello Stato”. E quindi: “La separazione delle carriere è necessaria”. Nel libro “Il governo dei giudici” Cassese scrive che la politica, ovvero governo e Parlamento, hanno aggravato la situazione con leggi che hanno ampliato all’eccesso le competenze del sistema giudiziario aumentandone non solo il carico di lavoro ma anche, di fatto, la discrezionalità. La conclusione, secondo Cassese, sta nello squilibrio del sistema. E non sarà facile rimetterlo a posto. Ma c’è molto altro: il giurista Filippo Sgubbi ne “Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi” (edito da Il Mulino), mette in evidenza la trasformazione intervenuta nel diritto e nella procedura penale, tanto da alterare le funzioni che non solo la Costituzione, ma prima ancora gli ordinamenti liberali, ripartiscono tra i diversi poteri dello Stato”. In sostanza (si legga “L’inganno” di Alessandro Barbano sui professionisti dell’antimafia) vi sono settori della magistratura, che, mediante uno sviamento di potere, si propongono - sono concetti espressi pubblicamente - di smontare la società e rimontarla come una costruzione di Lego. Questa è la dottrina degli ayatollah non la linea di condotta di magistrati chiamati a tutelare e preservare lo Stato di diritto. Rimuovere quest’anomalia è divenuta una questione essenziale di libertà. La Cedu condanna l’Italia per maltrattamenti a detenuto con gravi problemi psichiatrici penaledp.it, 22 gennaio 2023 In attesa del testo ufficiale in italiano, pubblichiamo la decisione del caso Sy c. Italia in lingua francese, la Corte ha riscontrato diverse violazioni della Convenzione. Il ricorrente in questo caso, che soffriva di un disturbo della personalità e di un disturbo bipolare, era rimasto in detenzione in carcere per quasi due anni nonostante le decisioni dei tribunali interni affermassero che la sua salute mentale era incompatibile con tale detenzione, prima del suo trasferimento in un Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive (Rems), e successivamente ad un servizio psichiatrico carcerario. La Corte ha ritenuto che non avesse beneficiato di alcuna strategia terapeutica globale per il trattamento del suo disturbo, in un contesto generale di cattive condizioni di detenzione. Come la Corte aveva sottolineato in diverse occasioni in passato, ribadisce i Governi dovrebbero organizzare il loro sistema carcerario in modo tale da garantire il rispetto della dignità dei detenuti, a prescindere dall’aspetto economico o difficoltà logistiche. Affaire-Sy-c.-Italie: https://www.penaledp.it/wp-content/uploads/2022/01/cedu-affaire-sy-c.-italie.pdf Milano. Carceri, mancano gli infermieri. I sindacati lanciano l’allarme di Fulvio Fulvi Avvenire, 22 gennaio 2023 “Molti medici si rifiutano di lavorare tra i reclusi”. San Vittore, Opera, Bollate e Beccaria: 2 operatori sanitari ogni 600 pazienti. Firmato accordo per aumentare stipendi. Summit in Regione il 30 gennaio. Nelle carceri milanesi di San Vittore, Opera, Bollate e al minorile Beccaria mancano infermieri e operatori socio-sanitari e si riscontra anche una pesante precarietà dei medici in servizio. Il diritto alla salute dei detenuti sarebbe dunque a rischio. La denuncia arriva da Fials e Nursing Up che sottolineano come i “camici bianchi” spesso si rifiutino di lavorare in carcere a meno che non siano alle prime armi, neo-laureati o specializzandi che appena trovano prospettive di lavoro più allettanti, se ne vanno. “E quelli che rimangono - afferma Mimma Sternativo, segretario Fials Milano Area metropolitana - resistono mediamente per un massimo di sei mesi, poi avviene la fuga”. I numeri forniti dalle organizzazioni sindacali parlano di due infermieri ogni seicento pazienti da curare, come accade, per esempio, a Opera, un carcere di massima sicurezza con circa 1.400 reclusi, dove gli operatori della sanità sono passati da 56 a 31. La tabella degli organici mette in evidenza, ancora, come a Bollate (1.400 carcerati) nel turno di mattino siano impegnati 5 infermieri, 4 oss e un interinale, presenze dimezzate nel pomeriggio e ridotte a un solo addetto durante la notte. Critica anche la situazione al Beccaria (37 ospiti minori d’età) con zero infermieri al mattino, due al pomeriggio e nessuno la notte. E San Vittore (circa 900 detenuti) ha solo 17 unità destinate alla cura dei reclusi. “Non esistono, però, standard assistenziali che permettano di stabilire quanto personale occorra per garantire l’assistenza dovuta - commenta Sternativo - questo è il primo problema. Manca poi il sostegno psicologico per chi lavora in carcere, che si trova di fronte a situazioni complesse”. “E in effetti, i numeri non si esauriscono qui - precisa Antonio De Palma, presidente nazionale di Nursing Up - dal momento che le direzioni carcerarie rendono noto di dimissioni a raffica, negli ultimi mesi, da parte del personale sanitario che non si sente adeguatamente tutelato, in particolare medici, alle prese con tentate aggressioni, continui tentativi di suicidi da parte dei detenuti e disagi mentali di questi ultimi. E i professionisti che si allontanano non vengono adeguatamente rimpiazzati”. Non è facile, in queste situazioni, osserva De Palma, convincere altri colleghi ad accettare incarichi così delicati. Il presidente del sindacato più rappresentativo degli infermieri parla inoltre di “colleghi lasciati soli, troppo spesso dimenticati, in contesti difficili, dove lavorare è sempre una lotta quotidiana. Tra organici ridotti all’osso - precisa - gli infermieri giovani e spesso inesperti, seppur coraggiosi nell’affrontare contesti di dipendenze, con soggetti spesso aggressivi e con problemi psicologici, vanno sostenuti per quelle qualità umane e per le competenze che mettono in gioco, che sono alla base delle loro delicatissime responsabilità professionali”. L’Asst Santi Paolo e Carlo di Milano, che ha in capo la gestione sanitaria delle carceri, ha già sottoscritto un accordo per aumentare la retribuzione per chi lavora in carcere, ma ha dovuto utilizzare i residui di fondi contrattuali aziendali. Lo conferma il direttore generale dell’Azienda sanitaria, Matteo Stocco il quale, ben consapevole dell’emergenza, precisa che quello di incentivare gli stipendi “è un provvedimento tampone perché sarebbe necessario, invece, assumere più professionisti: esiste però un’oggettiva carenza nel mercato del lavoro, i medici sono pochi e prima della pandemia era più facile reclutarli, adesso è necessario ricorrere a trasferimenti e ordini di servizio per destinarli al delicato compito curare i detenuti”. Stocco precisa che il compito principale degli infermieri nelle carceri è quello di somministrare i farmaci e garantire una presenza nelle infermerie, tenuto conto che un gran numero di detenuti è tossicodipendente e ha bisogno di cure e assistenza specifica. Per trovare soluzioni al problema, è stato già fissato un incontro tra organizzazioni sindacali e Regione Lombardia: si svolgerà il 30 gennaio al Pirellone. Fermo. Morte in carcere: il compagno di cella rischia il processo di Fabio Castori Il Resto del Carlino, 22 gennaio 2023 Chiesto il rinvio a giudizio di un 23enne. Avrebbe provocato il decesso del compagno di cella Lorenzo Rosati, fermano di 50 anni. Richiesta di rinvio a giudizio coatta. È questa la disposizione del gip di Fermo, Maria Grazia Leopardi, riguardo all’indagato per l’omicidio di Lorenzo Rosati, il detenuto fermano di 50 anni originario del Viterbese deceduto in circostanze misteriose al Pronto soccorso, dopo che si era sentito male in carcere. Ancora un colpo di scena nell’inchiesta sulla tragedia che si era consumata nella casa di reclusione di Fermo e che, in un primo momento, era stata ritenuta un incidente. Dopo la seconda richiesta di archiviazione da parte del sostituto procuratore Alessandro Pazzaglia, il gip fermano ha accolto nuovamente l’opposizione dei legali della famiglia della vittima, gli avvocati Marco Murru e Marco Melappioni, imponendo la formulazione del capo d’imputazione di omicidio per il 23enne di San Severino Marche di origini albanesi, all’epoca dei fatti compagno di cella di Rosati, indagato in quanto ritenuto responsabile di un pestaggio fatale. Il pm già una prima volta aveva chiesto l’archiviazione ma, nell’aprile 2022, il gip aveva disposto un supplemento delle indagini, accogliendo anche in quel caso l’opposizione dei legali della famiglia della vittima. La tragedia si era consumata il 28 maggio 2021 quando, all’ora di pranzo, Rosati si era sentito male e i suoi compagni di cella avevano lanciato subito l’allarme. Rosati era stato portato al pronto soccorso e aveva la milza spappolata e un’emorragia ormai irreversibile. Nonostante i tentativi di rianimarlo, il 50enne aveva esalato l’ultimo respiro intorno alle 17. Il referto era stato trasmesso alla Procura che aveva aperto un fascicolo a carico di ignoti per morte conseguente ad altro reato, disponendo poi l’autopsia sulla salma. L’incarico era stato affidato al medico legale di Teramo, Giuseppe Sciarra, e i risultati dell’esame autoptico erano apparsi abbastanza chiari. Nel referto si parlava di decesso da attribuire ad un “traumatismo contusivo toracoaddominale sul fianco sinistro, emoperitoneo da lacerazione della milza e conseguente choc ipovolemico”. La perizia affermava inoltre che la zona del corpo esaminata era “stata interessata da un evento traumatico prodotto da un mezzo contundente non dotato di spigoli vivi, ma con superfice arrotondata ed ha agito con una piccola angolatura dall’alto in basso”. Nonostante ciò, il pm aveva presentato al gip la richiesta di archiviazione del caso, ipotizzando una caduta. Tesi, questa, supportata da una ferita occipitale rinvenuta sul capo della vittima, che il medico legale non aveva escluso essere attribuibile al contatto con il pavimento. I legali di Rosati, però, avevano depositato un’istanza di opposizione, accolta dal giudice. Tutto era ricominciato daccapo e questa volta, scavando a fondo, era stato trovato il presunto responsabile del decesso: il 23enne albanese difeso dall’avvocato Vando Scheggia che, dopo gli ultimi sviluppi, finirà davanti al giudice per le udienze preliminari. L’Aquila. Il carcere è a rischio demolizione, l’arrivo di Messina Denaro riaccende il caso di Giustino Parisse Il Centro, 22 gennaio 2023 La Corte d’Appello ha stabilito in via definitiva che gran parte del penitenziario è su terreni a uso civico. Gli abitanti di Preturo chiedono 2,5 milioni. L’unica “salvezza” è siglare un accordo sugli indennizzi. Può sembrare incredibile ma il carcere dove è rinchiuso da qualche giorno il boss mafioso Matteo Messina Denaro è a rischio demolizione. Una possibilità, quella della demolizione, messa nero su bianco in alcune sentenze della giustizia amministrativa. Tutto nasce dal fatto che una decisione della Corte di Appello di Roma, sezione usi civici, che risale al 2016, ha stabilito in via definitiva che una gran parte del penitenziario è stato costruito trenta anni fa su quattro ettari di terreno di uso civico sui quali ha giurisdizione l’Aduc (Amministrazione separata dei Beni di uso civico) di Preturo. Adesso si attende una decisione del Tribunale amministrativo dell’Abruzzo che dovrebbe mettere la parola fine alla vicenda e cioè ordinare la demolizione o, come probabilmente avverrà, dare un mese di tempo ad Aduc e Agenzia del demanio (la controparte) di trovare un accordo. L’Agenzia in sostanza dovrebbe “acquistare” i terreni - oggetto della annosa causa - a un prezzo per ora indicativo (dall’eventuale accordo potrebbe venir fuori anche una cifra diversa) di circa 2,5 milioni di euro. Se non ci dovesse essere l’intesa potrebbero entrare in campo le ruspe per demolire tutto. Ipotesi remota ma, nei fatti, possibile. E non basta. Fra l’Aduc e l’Agenzia del demanio c’è anche un’altra causa, questa volta davanti al giudice civile. L’Aduc ha chiesto all’Agenzia del demanio il pagamento dei canoni arretrati, una sorta di affitto annuo, per sanare l’occupazione abusiva lunga 30 anni (quanto è durata la latitanza del superboss Messina Denaro). Anche questa “lite” sta per arrivare a sentenza. Il perito incaricato dal magistrato ha stimato una cifra (per i canoni arretrati) di 1,2 milioni di euro che aggiunti ai 2,5 fanno quasi 3,7 milioni. Insomma una vicenda complessa che a questo punto solo un’intesa fra le parti può districare evitando l’impensabile, cioè la demolizione. L’Aduc, attraverso il suo presidente, Antonio Nardantonio, ribadisce la volontà di arrivare al più presto a un accordo che sia “equo e dignitoso”, come peraltro in passato è avvenuto con il Comune dell’Aquila, relativamente ai terreni di uso civico dove attualmente sorge l’aeroporto dei Parchi “Giuliana Tamburro”. Da decenni l’Asbuc (adesso Aduc) di Preturo rivendica la proprietà dei terreni su cui è stato costruito il carcere oggi in gran parte riservato a detenuti in regime di 41 bis. Ci sono state sentenze a vari livelli finché non si è giunti a una decisione “definitiva” che risale, come detto, al giugno del 2016 quando la Corte d’Appello di Roma, sezione speciale degli usi civici, ha riconosciuto “la natura demaniale civica universale di una parte del terreno”, circa 4 ettari, sul quale c’è il carcere. A quel punto è nata un’ulteriore questione: è possibile abbattere il carcere e restituire i terreni come erano in origine ai cittadini di Preturo? Chiaro che no. L’Asbuc si è detta disponibile a percorrere la strada dell’indennizzo cercando anche di limitare le pretese. L’Agenzia del demanio ha però fatto intendere di non voler tirar fuori i soldi sostenendo che quei terreni sarebbero stati già pagati - a chi ne rivendicava all’epoca la proprietà (anche se in realtà si trattava solo di occupatori abusivi) - attraverso gli espropri. Lo Stato, secondo la tesi sostenuta dall’Agenzia del demanio, rischierebbe di pagare due volte gli stessi terreni. Resta il fatto che c’è una sentenza “definitiva” che però è rimasta al momento solamente sulla carta. Per questo l’Aduc di Preturo si è rivolta al Tar chiedendo di imporre l’esecuzione della sentenza: o demolire il carcere o far pagare il Demanio. I giudici del Tar, con una prima decisione, si sono dichiarati incompetenti a decidere affermando che competente sarebbe il commissario per gli usi civici della Regione Abruzzo che nel novembre 2014 si era espresso a favore dell’Aduc. Il Consiglio di Stato a fine 2019 ha detto invece che a decidere deve essere il Tar dell’Aquila che quindi deve far “eseguire” la sentenza della Corte di Appello di Roma del 2016. Secondo quanto stabilito dal Consiglio di Stato “nell’attuale ordinamento compete al giudice amministrativo e in sede di ottemperanza esercitare i poteri per dare attuazione a un titolo esecutivo giudiziale, come quello del Commissario agli usi civici, contenente una condanna di una pubblica amministrazione”. E siamo a oggi con lo “spettro” della demolizione che ancora si aggira sulle “Costarelle”, un carcere tornato alla ribalta nazionale dopo l’arresto di Messina Denaro. Napoli. I detenuti di Secondigliano come quelli di “Aria ferma”: via i muri Corriere del Mezzogiorno, 22 gennaio 2023 Nel penitenziario proiezione e dibattito con il regista Di Costanzo. Entrare nel Centro Penitenziario P. Mandato di Secondigliano a Napoli è un’esperienza particolare. Farlo alle 14:30 di un piovosissimo e freddo giorno di gennaio per assistere alla proiezione di Ariaferma, il film del regista Leonardo Di Costanzo, organizzata dal Polo Universitario Penitenziario dell’Università Federico II, è un viaggio al centro di un mondo che nessuno racconta. Il rumore dei cancelli di ferro automatici che si chiudono. La pioggia che resta fuori perché è parte di un paesaggio esterno che qui non entra. L’ufficio immatricolazioni, dove i nuovi detenuti iniziano il loro percorso. I corridoi dell’area detentiva colorati dai dipinti fatti dagli “ospiti” durante la pandemia e dalle onde rosse, blu, verdi e gialle che indicano il reparto. La sala - La sala dove si tiene la proiezione è un enorme spazio con grandi finestre davanti alle quali ci sono le sbarre. Dentro il vociare sembra quello tipico dei cinema. I detenuti sono seduti nelle file di dietro, sorvegliati dalle guardie della polizia penitenziaria. C’è la professoressa Marella Santangelo, delegata del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario della Federico II, e la dottoressa Lucia Castellano, provveditore regionale Amministrazione penitenziaria della Campania. Le sedie davanti sono riservate agli studenti in visita e quando questo gruppo di ragazzi e ragazze entra nella sala, le luci sono ancora accese. Una volta che sono tutti seduti bastano pochi secondi e quel muro immateriale fatto da quel metro che divide le sedie dei detenuti da quelle degli studenti, viene disintegrato dalla spontaneità del chiacchiericcio che mischia i due gruppi e li mescola. Il regista Di Costanzo - Giulia Russa, direttore del centro penitenziario, fa i saluti di rito e avvia la proiezione. Le luci si spengono e inizia il film. Ariaferma è una storia diversa che racconta di un carcere diverso. “Non mi interessava mettere in scena il conflitto che c’è nei penitenziari - ha detto nel suo intervento dopo la proiezione il regista Leonardo Di Costanzo - quello era stato già fatto. Erano state raccontate le separazioni, le logiche divisive, quelle che mettono l’uno contro l’altro. Visitando gli istituti di pena, mi sono reso conto che ci sono dei piccoli gesti di umanità tra le persone. In questi momenti, quasi naturalmente, la divisa scompare, si creano rapporti umani, perché anche qui dentro ci sono uomini, da una parte e dall’altra”. “Via i muri” - Durante la proiezione i detenuti commentano quello che vedono con gli studenti e con le guardie. C’è una scena del film nella quale gli agenti della penitenziaria e i detenuti mangiano tutti insieme seduti allo stesso tavolo a lume di candela. Alla fine della scena, nel buio della sala, un giovane detenuto guarda uno degli agenti in divisa che dovrebbe sorvegliarlo e gli dice con naturalezza: “Lo dobbiamo organizzare anche noi un pranzo insieme”. I due si sorridono. Quando il film finisce un detenuto si alza per prendere la parole. “Via i muri - dice rivolgendosi a Di Costanzo - a questo ho pensato guardando il suo film. Dobbiamo eliminare tutti i muri, anche qui in carcere, anche i muri che non si vedono, perché siamo tutti umani, detenuti e guardie. Via i muri”. Gli applausi lo avvolgono e torna al suo posto. La discussione continua. “Il carcere è nato come luogo di divisione e polarizzazione - dice un giovane che sta scontando una lunga pena - ma può diventare presidio di umanità proprio come succede nel film o come è successo oggi con questa iniziativa”. Mentre il dibattito va avanti alcuni detenuti chiacchierano con gli studenti. Parlano del rancio, di come funziona il carcere, delle attività che fanno, di quello che vorrebbero fare. Parlano di fuori e di come vorrebbero tornarci. Quelle chiacchiere che potrebbero sembrare banali hanno invece la forza di abbattere le barriere umane che si creano tra chi sta dentro e chi fuori. Perché in quella sala del penitenziario P. Mandato di Secondigliano, non ci sono più detenuti, guardie e studenti, sono tutti esseri umani. I corridoi - L’incontro finisce. Uscendo si devono ripercorrere i corridoi dell’area detentiva a ritroso. È ora di cena, passano i carrelli del rancio, le celle si aprono per ricevere i piatti. Di nuovo il rumore dei cancelli che si aprono e si chiudono, di nuovo i colori dei dipinti, di nuovo l’ufficio immatricolazione, di nuovo i controlli. Di nuovo fuori. Piove ancora e l’aria è anche più fredda. A guardarlo ora, dopo che una proiezione di un film è riuscita ad abbatterne le barriere interne, quel parallelepipedo di cemento armato sembra brillare in mezzo a quei cubi grigi e cadenti di Scampia, dove invece i muri, interni ed esterni, restano, purtroppo, ancora ben saldi. Massa Carrara. Detenuti a lezione di... Lucio Battisti. Iniziativa dell’Istituto Barsanti La Nazione, 22 gennaio 2023 I detenuti della Casa di reclusione di Massa a lezione di Lucio Battisti e di storia contemporanea. Nei giorni scorsi si è tenuta infatti nell’aula magna del carcere (nella foto) una singolare iniziativa che, da un lato, ha avuto protagonista la musica pop, dall’altro la storia contemporanea. A unire i due ambiti ci ha pensato il professor Riccardo Canesi, già docente di Geografia e appassionato musicologo. Su invito dei docenti dell’Istituto Barsanti di Massa, diretto da Addolorata Langella, e degli educatori della Casa di reclusione, Canesi insieme ai bravi musicisti Alessandro Bondielli, Norberto Borzacca e Pier Carlo Scontrini ha improvvisato la conferenza-spettacolo “Che ne sai di un ragazzo che suonava.... Storia di un musicista che ha cambiato la musica in un’Italia che cambiava”. I tre musicisti, componenti della band “Ho perso l’Hammond”, hanno ripercorso, con brevi accenni, la storia musicale di Battisti con Mogol, dal 1966 al 1980. Canesi ha raccontato da un lato la biografia e le opere del cantautore reatino, dall’altro ha intrecciato le sue canzoni con le vicende politico-economico-sociali di quei tempi. I detenuti, i docenti e gli educatori hanno molto apprezzato. Su alcune canzoni, che fanno parte della colonna sonora della vita di molti, non sono mancati, ovviamente e inevitabilmente, i cori. In ultimo, sono stati trasmessi dei video di saluto ai detenuti di importanti musicisti che collaborarono con Battisti. Tra questi Mario Lavezzi, compositore, cantautore e produttore, Pietruccio Montalbetti, chitarrista e leader dei Dik Dik, Gabriele Lorenzi, tastierista della Formula 3, Massimo Luca, chitarrista, produttore e compositore, e Bob Callero, bassista, compositore e paroliere. Infine Canesi ha letto un toccante messaggio scritto proprio da Giulio Rapetti, in arte Mogol, per i detenuti. L’incontro si è svolto nell’ambito dell’attività didattica della scuola che il Barsanti eroga nella casa di reclusione di Massa. È morto Pino Roveredo, scrittore degli ultimi e degli emarginati di Cristina Taglietti Corriere della Sera, 22 gennaio 2023 Autore triestino di narrativa e di teatro, nel romanzo d’esordio “Capriole in salita” raccontò la sua vita tra alcol, carcere e manicomio. Con i racconti di “Mandami a dire” vinse il premio Campiello nel 2005, a pari merito con Antonio Scurati. L’emarginazione, la malattia mentale, l’alcolismo, l’esistenza reclusa o randagia di personaggi ai confini della società e della vita stessa. Pino Roveredo (qui sotto, foto di Luigi Costantini/Ap), scrittore triestino morto ieri a 69 anni dopo una lunga malattia, ha raccontato con l’autenticità data dall’esperienza vissuta i territori di chi, “cullandosi sopra l’altalena del tempo, fatica il giorno per guadagnarsi la notte”. Nato da genitori sordomuti e poverissimi nella Trieste del secondo dopoguerra, 1954, Roveredo aveva passato gli anni dell’infanzia in collegio, in un regime di soprusi e maltrattamenti, a cui, dopo la fuga, erano seguiti l’alcolismo, la prigione e poi il manicomio. In quell’esperienza aveva messo radici il primo doloroso romanzo uscito nel 1996 da Lindt poi pubblicato dalla Bompiani di Elisabetta Sgarbi, Capriole in salita, che gli diede una certa notorietà e la possibilità di una seconda stagione di vita, dominata dalla scrittura. A quell’esordio (anche se, scrisse Claudio Magris, “più che esordire Roveredo è entrato di forza nella letteratura”), erano seguiti Ballando con Cecilia, un viaggio nell’ombra di una novantenne che ha trascorso 60 anni in un ospedale psichiatrico dove è rimasta anche quando, con la riforma Basaglia, quel suo universo chiuso si è aperto, e “Mandami a dire” con cui, nel 2005, vincerà, a pari merito con Antonio Scurati su un podio tutto Bompiani, il Premio Campiello che ieri lo ha ricordato oltre che “per la sua penna ispirata, per la caratura morale”. Era lo stesso Roveredo a spiegare il senso di un percorso scandito da un diverso rapporto con il dolore: prima la sofferenza come ragione per continuare sulla strada dell’autodistruzione, poi ragione di vita. Dopo Mandami a dire che raccoglie quattordici storie, alcune fulminee, di sofferenza e speranza, in cui l’equilibrio dello stile evita ogni eccesso patetico, Roveredo ha scritto molto - racconti, romanzi e testi teatrali - non sempre con la stessa asciutta ispirazione degli esordi, ma creandosi un suo spazio nel mondo letterario, facendo sentire, e ascoltare, la sua voce anche nelle dinamiche della società (era volontario, operatore di strada, educatore e, dal 2014 al 2018, garante per i diritti dei detenuti del Friuli Venezia Giulia) e della politica (nel 2021 si era candidato a consigliere comunale a Trieste, con una lista civica). Nei libri seguiti a Mandami a dire, tutti pubblicati da Bompiani, Roveredo ha continuato a frequentare, con registri diversi, i territori dell’autobiografia, i temi dell’emarginazione e del male di vivere. Come in Caracreatura, dove una madre che si è lasciata alle spalle un passato difficile, si trova di fronte alla tossicodipendenza del figlio, o come in M io padre votava Berlinguer, una sorta di lettera al genitore operaio-calzolaio, scomparso nel 1981, compreso, anche nelle sue debolezze, dopo la morte. O ancora come nei racconti di Mastica e sputa, titolo preso a prestito da una canzone di un’altra grande voce degli esclusi, Fabrizio De Andrè. L’ultimo romanzo, “I ragazzi della via Pascoli”, è dedicato ai lettori più giovani e reinventa la storia di Pino, pescato in un sacco dal padrone dell’Universo e spedito con il gemello Rino a Trieste, nella “galleria del silenzio”, in una casa umile dove ci si arrangia con pane, patate e fantasia, e dove, insieme all’affetto, regna il linguaggio dei segni, mentre fuori imperversa il rumore. Siamo tutti in carcere. Liberiamoci! di Armando Punzo Corriere della Sera - La Lettura, 22 gennaio 2023 Armando Punzo ha appena vinto il Leone d’oro per il Teatro. “La Lettura” gli ha chiesto di ricordare il senso di un’esperienza nata 35 anni fa. Il carcere è per me luogo del reale e allo stesso tempo metafora della prigione velata in cui tutti siamo rinchiusi. Per come è comunemente inteso, è soltanto un luogo inutile e distruttivo per le persone recluse e per tutti noi. Il mio ruolo è stato anche quello di stimolare, promuovere e accompagnare la sua quotidiana trasformazione. Un’istituzione non è immutabile e, come una persona, può cambiare, trasformarsi, crescere, evolvere. Può non essere sempre uguale a sé stessa, può non ripetersi all’infinito, può felicemente tradire la concezione comune e migliorarsi. Può, dunque, farsi promotrice di innovazione. Per fare questo non deve arroccarsi su posizioni conservatrici, deve attuare un processo di minor/azione, deve crescere riducendo in sé quelle parti che impediscono questo processo, deve dialogare con l’altro da sé. Gli uomini e le donne che la abitano, la reggono e la giustificano, devono mettere in atto questo circolo virtuoso. Ecco quello che è accaduto a Volterra, in fase sperimentale, con l’arrivo del teatro. Un percorso molto difficile e lungo, ma che una volta avviato non è più stato possibile arrestare, e che ci porta oggi a festeggiare anche l’inizio dei lavori di costruzione di un (nuovo) teatro in carcere unico al mondo. Io lavoro da quasi trentacinque anni per la costruzione di un teatro in un carcere, Jean Genet pensava e auspicava che i teatri dovessero essere costruiti nei cimiteri. Due luoghi accomunati, per diversi motivi, da un destino di estraneità e dalla rimozione dal contesto sociale. Il tutto potrebbe essere riassunto nella necessità di uscire fuori dal mondo così come è immaginato. In un momento storico dove invece tutti cercano di starci dentro, trovare il proprio posto, di avere protezione e rassicurazione, questo movimento contrario può solo aiutare ad aprire gli occhi sulla realtà che viviamo. Per capire la portata di questo progetto, bisogna pensare a un’autentica trasformazione dell’istituto di pena in un istituto sperimentale dedicato al teatro e alla cultura. Il palcoscenico privilegiato di un mondo imprigionato e che ci racconti le contraddizioni della nostra realtà. Uno straordinario punto di osservazione sull’uomo e sulle sue azioni. La nostra esperienza ha una funzione pubblica. Ha prodotto spettacoli premiati più volte (e a questi riconoscimenti si è appena aggiunto il Leone d’oro alla carriera della Biennale Teatro 2023), eventi culturali di livello internazionale, ha creato un rapporto con il territorio, fa formazione professionale ai diversi mestieri del teatro. Si tratta oggi di realizzare con una prospettiva ancora più solida, organizzata e visibile, quello che con la Compagnia della Fortezza abbiamo fatto in modo del tutto pionieristico. Si potrebbe arrivare a selezionare, tra la popolazione detenuta nazionale, i più dotati come attori, cantanti, ballerini, musicisti, drammaturghi; quelli interessati alla regia; quelli a cui interessano le altre arti legate alla scena come scenografia, illuminotecnica, costumi; quelli con propensione verso i lavori tecnici, organizzativi, amministrativi, di promozione. Una compagnia formata in questo modo può lavorare tutto l’anno e produrre più spettacoli da portare in tournée nei festival e nei teatri più importanti d’Italia. E poiché da sogno nasce sogno, c’è già una nuova sfida all’orizzonte: la Compagnia della Fortezza nei teatri d’Europa. Il mio teatro, una porta che si apre di Stefano Bucci Corriere della Sera - La Lettura, 22 gennaio 2023 Mario Cucinella presenta il progetto per la nuova sala della Compagnia della Fortezza nella prigione di Volterra. Questo doppio sogno prende forma nelle antiche stanze della Fortezza medicea di Volterra: il sogno inseguito da Armando Punzo (“Un’idea più grande di me” la definisce) che dal 1988 accompagna i detenuti in un percorso di reinserimento in società, e il sogno di Mario Cucinella a cui è stato affidato il compito di creare un nuovo teatro per la compagnia di Punzo, sempre all’interno della Fortezza medicea, “che sia-secondo le parole dell’architetto - un luogo di scambio, una porta che consenta la comunicazione fra l’interno e l’esterno, un luogo di cura non tanto del corpo, ma dell’anima”. Per un (virtuoso) gioco del destino la notizia della nuova sala polivalente della casa di reclusione arriva in contemporanea a quella dell’assegnazione a Punzo (regista, drammaturgo, attore nato a Cercola, in provincia di Napoli, nel 1959) del Leone d’oro alla carriera della Biennale Teatro 2023 che gli verrà consegnato il 17 giugno. Il teatro di Cucinella (il progetto promosso dal ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile verrà presentato ufficialmente giovedì 26 gennaio) sarà una macchina scenica e bioclimatica (i lavori inizieranno quest’anno e si concluderanno nell’estate 2024) “che consentirà lo svolgimento delle arti e dei mestieri propri della produzione teatrale”. Un padiglione da 450 metri quadrati e da 250 posti completamente rimovibile, “rispettoso della cornice e flessibile negli spazi”: all’interno i detenuti (180 quelli attualmente ospitati nel carcere di Volterra) potranno così svolgere le attività proprie della produzione teatrale. Ma grazie alla possibilità di apertura delle pareti perimetrali della nuova sala verso l’esterno, sarà anche possibile sfruttare l’area che circonda la struttura in modo da avvicinare i cittadini all’esperienza del teatro carcerario e da predisporre un’altra sala per il programma culturale annuale di Volterra. “Ogni progetto ha di per sé un nucleo che gli conferisce una forza specifica-spiega a “la Lettura” Mario Cucinella. Qualcosa che non ha nulla a che vedere con le sue forme o le sue misure perché nessun progetto si esaurisce mai nel proprio “piccolo” perimetro e perché l’architettura è fatta di relazioni collegate alla sua funzione. La forza di questo nuovo teatro sta nella condivisione, è qualcosa all’opposto di quel malessere che l’isolamento di alcuni luoghi come il carcere, per loro natura e funzione, impongono”. L’architettura di Cucinella (il progetto di Mca vede come project manager Michele Olivieri) concretizza l’”apertura” che da sempre caratterizza l’esperienza della Compagnia della Fortezza e che non si limita alla recitazione e all’”azione drammaturgica”, ma abbraccia piuttosto tutte le altre professionalità del teatro, promuovendo la formazione di scenografi e sarti, tecnici del suono e dell’illuminazione teatrale. Un progetto con una forte valenza sociale che guarda al futuro “attraverso un Teatro del Carcere che può diventare un riferimento anche per altre città e realtà carcerarie; un modello di istituto di cultura, luogo di produzione teatrale e laboratorio di umanità che può favorire-aggiungono Cucinella e Punzo - un percorso non solo per la formazione dei detenuti secondo le loro abilità e attitudini ma anche per la loro rieducazione, riabilitazione e reinserimento nel mercato del lavoro”. Partendo dall’idea di leggerezza e trasparenza, il padiglione di Cucinella sarà realizzato secondo un approccio sostenibile, utilizzando tecnologie a secco e materiali naturali per consentire il rapido montaggio/smontaggio. Proprio questo approccio sostenibile caratterizza gran parte dei progetti più recenti dell’architetto: la nuova Università di Aosta, il Met Building (residenze e uffici) a Tirana, l’Hochhaus Viertel Zwei (due torri nel cuore del Prater) di Vienna, la nuova Biblioteca Federiciana (recupero e ampliamento) di Fano e quella riqualificazione del Cretto di Burri a Gibellina che prevede la creazione di un nuovo spazio architettonico che ospiterà un visitor center proprio di fronte alla vecchia chiesa di Gibellina. Nel progetto per la fortezza di Volterra sono stati tenuti in grande considerazione tutti quei parametri ambientali (adeguata temperatura a seconda della stagione, corretta illuminazione e acustica, buona qualità dell’aria) che possono influire sui livelli di comfort e sulla performance energetica dell’edificio, traendo vantaggio dal particolare contesto microclimatico della Maremma Pisana. Per quanto riguarda le strategie climatiche passive, il sistema strutturale del nuovo padiglione (composto da centine in legno lamellare) permetterà di offrire durante tutto l’anno livelli di protezione solare appropriati. Seguendo sempre, ribadisce Cucinella, “l’idea di un nuovo spazio polivalente leggero e flessibile, in dialogo con la storia ma anche nuovo per la città”. Gli elementi del progetto architettonico per il nuovo teatro si ritrovano, a cominciare dalle idee di condivisione e apertura, nella motivazione dei direttori della Biennale Teatro di Venezia Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/ forte) per il Leone d’oro alla carriera a Punzo annunciato venerdì 20 gennaio: “La ricerca del senso del teatro inizia quando ci si avventura in territori umani spinti dalla necessità di una propria, originale, identità culturale, dove il palco si nutre della stessa vita concreta nel tentativo di comunicare attraverso l’isolamento, artistico e geografico. Il carcere e le sue barriere: forzare un limite, l’assenza di libertà che frantuma gli assiomi attraverso il Teatro per diventare rigogliosa mietitura, ricominciare a sognare un nuovo uomo e imporlo alla realtà. Una forma visionaria di comunicazione distillando un linguaggio ricostruito all’ombra di un pregiudizio: lo spirito e la fantasia non hanno sbarre che contengano ma, soprattutto, siamo certi che siano gli Altri i prigionieri condannati a un perimetro? I nostri limiti, le paure, il bisogno di affermazione sociale, la cecità verso il prossimo; rendere visibile il non palpabile, l’inconsapevole: un’utopia culturale di cui Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza sono le fulgide incarnazioni”. Il carcere nell’idea (architettonica) di Cucinella e (teatrale) di Punzo prova così ad andare oltre, a diventare allo stesso tempo istituto di cultura, luogo di produzione e laboratorio per la formazione. È, d’altra parte, la strada che il regista e drammaturgo sta seguendo dal 1988, da quando lavora nel Carcere di Volterra, dove ha fondato la Compagnia della Fortezza, prima e più longeva esperienza di lavoro teatrale in un istituto penitenziario (il primo spettacolo messo in scena fu La Gatta Cenerentola del 1989), e dal 1996 al 2016 ha diretto il Festival Internazionale Volterra Teatro, intitolando la sua direzione artistica all’idea dei “Teatri dell’Impossibile” che con i suoi ottanta detenuti-attori ha finora messo in scena spettacoli come Marat-Sade, Hamlice, Naturæ. “Se non ci siete voi, non valgo nulla”: è quello che Punzo ripete ai suoi attori-detenuti. Il racconto di questi anni di teatro-carcere è scandito da un’esperienza collettiva, che all’inizio si traduceva in una sola replica (“Non potevi mai fallire”) per arrivare alla formula attuale di una settimana di repliche a luglio. Ora con il nuovo teatro tutto sembra prendere definitivamente forma, anche le memorie di un’esperienza lunga 35 anni giocata tra la lezione del “teatro povero” di Jerzy Grotowski (“Quella che abbiamo messo a punto con la Compagnia della Fortezza è una pratica per sottrarsi al reale, per provare a trovare altro”), William Shakespeare, Jean Genet e Jorge Luis Borges. “Quando stavamo lavorando su Beatitudo - racconta Punzo - la scenografia era un’enorme vasca rettangolare coperta d’acqua all’interno della Fortezza e al mattino, quando iniziavamo le prove, i miei attori, come le guardie, mi ripetevano le stesse parole: “Che meraviglia vedere le rondini che vanno a bere alla vasca”. Il mio teatro vuole essere questo: la meraviglia, le opportunità, l’altra vita che ci può essere nel carcere”. Il teatro dietro le sbarre che apre il sipario sul reinserimento sociale di Francesco Antonio Forgione orticalab.it, 22 gennaio 2023 Lo spettacolo teatrale “Alterazioni, ovvero il mondo sottosopra” che si terrà il prossimo 25 gennaio presso la Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi ci dà l’occasione per dialogare con Gaetano Battista, attore e insegnante dell’associazione Polluce: “Le statistiche dicono che chi fa teatro in detenzione una volta tornato in libertà ha una percentuale di recidiva molto bassa” Quanti film abbiamo visto in cui i detenuti sfruttano i carrelli della biancheria sporca per evadere? Bene, dopo decenni qualcosa è cambiato. In carcere le attività possibili per aumentare i punti della propria buona condotta non si limitano più alla lavanderia o alla falegnameria, ma ad esempio c’è il teatro. Inizialmente approcciato perché meno duro di altri lavori, oggi per molti condannati rappresenta un mestiere da imparare e che, una volta finita la pena, potrebbe garantire un sostentamento economico. Lo spettacolo teatrale “Alterazioni, ovvero il mondo sottosopra” che si terrà il prossimo 25 gennaio alla casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi ci dà l’occasione per fare quattro chiacchiere con Gaetano Battista. Attore e insegnante, porta avanti il suo progetto di teatro all’interno delle carceri con l’associazione Polluce. Nel caso dei detenuti di Sant’Angelo, un anno di lezioni per poi concludere tutto con uno spettacolo. Nel caso invece della casa circondariale di Arienzo, in provincia di Caserta, l’esperienza teatrale è andata così bene da aver creato negli anni una compagnia stabile, dal nome “La Flotta”, grazie alla quale i detenuti si esibiscono anche all’esterno della struttura. Lo fanno in teatri, università o durante manifestazioni istituzionali, un successo così incoraggiante da spingere l’associazione Polluce ad estendere il suo operato anche a Sant’Angelo dei Lombardi, dove forse un giorno anche qui si potrà avere un laboratorio stabile di arti sceniche. Tutti i progetti dell’associazione vengono finanziati dal Fondo di Beneficenza Intesa Sanpaolo “Terra inclusiva”, a quello di Sant’Angelo si aggiungono il Garante dei Detenuti della Regione Campania e la Direzione Generale delle Politiche Sociali e Socio Sanitarie della Regione Campania. Buongiorno Gaetano, innanzitutto come ci sei finito dietro le sbarre, o meglio, come è maturata la scelta di portare il teatro in carcere? “Buongiorno Francesco. Va prima precisato che sono un attore ma grazie agli studi sono anche un educatore professionale. Per questo motivo lavoro da circa dieci anni a Napoli con la casa circondariale di Poggioreale. Qui con il passare del tempo i detenuti hanno manifestato un forte interesse per un teatro non più esclusivamente ludico, ma che portasse soprattutto benessere. Così è accaduto e grazie all’aiuto e alle lezioni di tanti colleghi del mondo dello spettacolo, abbiamo notato come al migliorare della qualità umana di chi seguiva i corsi, sia migliorata di conseguenza la qualità artistica. Il risultato più importante però, resta il fatto che in questi processi educativi si lavora molto sull’empatia e questo aiuta i detenuti al reinserimento in società”. Quali differenze ci sono tra lavorare con persone in carcere e lavorare all’esterno con persone libere? “Di norma quando una persona si avvicina al teatro lo fa per passione, per sbloccarsi emotivamente o anche per incontrare altre persone. Per i detenuti invece è diverso, vivono una situazione di costrizione e devono impegnare il tempo. In passato il teatro veniva usato soprattutto per sfruttare particolari permessi o per la buona condotta, la nostra scommessa è stata quella di fare qualcosa di diverso e cioè creare nelle strutture di detenzione delle piccole accademie e di mostrare il teatro come qualcosa di professionale. Devo dire che la cosa ha funzionato e oggi i detenuti hanno scoperto un mestiere. Molti si sono appassionati, leggono di più, propongono i testi degli autori che li hanno colpiti, migliorano il proprio linguaggio, scrivono dei testi propri e a volte diventano drammaturghi dei loro spettacoli. I nostri corsi impiegano molto tempo della vita carceraria, parliamo di laboratori da sette ore al giorno per tre o quattro volte la settimana. Molti ci dicono che grazie a questi percorsi si sentono liberi e dimenticano di essere detenuti, si sentono più sereni e di conseguenza anche l’ambiente generale della struttura diventa meno teso o violento”. Da docente che ha a che fare con persone che hanno commesso reati, qual è il tuo approccio emotivo? “Incontro tanti detenuti e per reati diversi come rapina, spaccio, omicidio o violenze sessuali, ogni volta io mi pongo alla pari dal primo momento e questo serve a creare un clima sereno. Poi le teste calde le trovo ovunque, sia fuori che dentro le strutture di detenzione, certo dentro sono in numero più concentrato e bisogna essere accorti a equilibri diversi. Solitamente si fa un grande lavoro di affiancamento e senza forzare nessuno, non mancano però i momenti in cui mi arrabbio o alzo la voce, sempre però senza varcare la linea del rispetto dell’individuo. Questo modo di lavorare lo adottano tutti i miei colleghi e collaboratori, che ringrazio tanto per la professionalità e per il supporto quotidiano. Ognuno di noi lavora sui singoli per creare empatia, successivamente si passa alla creazione del gruppo di lavoro”. Alla fine del percorso teatrale come vedi cambiati i tuoi allievi? “Tutti ci abbracciano, anche gli insospettabili che inizialmente erano molto rigidi e questo per me è un grande successo empatico. Guardano a noi docenti con una luce negli occhi diversa da quella iniziale, noi operatori non ci sentiamo ammirati ma apprezzati e questo conta tanto. Quello che si viene a creare non è proprio un rapporto tra maestro e alunno ma più un legame di confidenza emotiva”. Si parla spesso della condizione degli istituti di detenzione in Italia. Tra affollamento, fatiscenza e riforme, il teatro in che modo può aiutare a migliorare le cose? “Il teatro è presente negli istituti già dagli anni 70, oggi però se ne riesce a vedere l’importanza in maniera più chiara. Le statistiche ci dicono che chi fa teatro durante la detenzione ne trae grande giovamento perché una volta tornato in libertà ha una percentuale di recidiva molto bassa. Detta alla spicciola, chi in carcere fa teatro ha meno probabilità di tornare in carcere”. E il personale penitenziario? Anche loro percepiscono i benefici delle vostre attività? “Non solo apprezzano perché notano un clima più sereno e gestibile tra i detenuti, ma addirittura molti di loro si appassionano tanto da dare una mano alla realizzazione delle scenografie. È capitato diverse volte che alcuni mettano a disposizione il loro materiale per la costruzione di scene e alla fine tengano alla buona riuscita dello spettacolo quanto noi. Inoltre ai nostri corsi abbiamo detenuti di ogni provenienza geografica o fede, senza esclusioni. Ci sono molti extracomunitari che grazie al teatro riescono ad apprendere e migliorare il loro italiano o in molti casi, il loro napoletano”. Quando la sera vai a letto e ripensi alla giornata trascorsa in carcere, come ti senti? “Passo molto tempo all’interno delle carceri e ammetto che all’inizio non era facile. Vedevo la cosa come una forzatura e pensavo che il teatro doveva essere fatto più fuori dalle sbarre che dietro. Poi però ho capito che il teatro ha bisogno di cambiare e di fare del bene emotivo, per farlo ha bisogno di qualcosa che lo scuota. All’esterno questo meccanismo accade raramente, in carcere di più, qui si scoprono verità che fuori si trovano sempre meno. Se veicolate bene, queste verità possono essere un messaggio forte”. Grazie Gaetano, ci vediamo il 25 gennaio a Sant’Angelo dei Lombardi... “Grazie a Voi, vi aspetto”. “Questo palco mi ha curato”: così il Teatro Patologico aiuta i ragazzi con disagi psichici di Francesca Barra L’Espresso, 22 gennaio 2023 Da trent’anni a Roma Dario D’ambrosi anima un esperimento di avanguardia. “Quando mi portano i figli spesso sono in stato catatonico, i genitori sono distrutti dal dolore: ma questo palcoscenico ha prodotto una luce che rientra nelle case”. Gianluca è un ragazzo schizofrenico. Anna, sua madre, non si arrende allo stigma sociale a cui è destinato. Non sa dove, ma deve pur esistere, da qualche parte, un’occasione per lui. Per sentirsi meno invisibile, per inserirsi in un contesto confortevole. Per vivere senza spavento. Quella speranza ha un nome: Dario D’ambrosi, un temerario che ha fondato trent’anni fa il Teatro Patologico, nato per accendere una fiamma nella vita di ragazzi con gravi problemi psichici, emarginati dalla società e che invece, in quel Teatro all’avanguardia a Roma, diventano attori sfidando ogni limite immaginabile. È da lui che arriva Gianluca anche se quell’esperimento si rivela fin dai primi tentativi un fallimento: a lezione di teatro si strappa la pelle, diventa violento creando scompiglio, frena i progressi degli altri studenti. Dario è un resistente e trova una soluzione perché per lui sarebbe troppo semplice mollare i casi più ingestibili e così propone ad Anna non di ritirare suo figlio, ma di iscriversi al corso con lui. Per convincerla riesce perfino a farle avere i permessi per assentarsi dallo studio dove lavora: gli avvocati non restano indifferenti alla richiesta di una persona così motivata. Finalmente quella che fino ad allora sembrava solo una grave malattia, assume altri contorni. Anna e suo figlio iniziano così questo percorso insieme. Si tengono per mano come fossero avvitati in quella piccola immensa sfida e si guardano negli occhi, si riconoscono. Gianluca non ha più crisi schizofreniche, segue sua mamma come fosse un neonato che si affida alle sue cure. Durante lo spettacolo finale gli avvocati dello studio dove lavora sono schierati in prima fila commossi e Anna confessa: “Avevo messo al mondo mio figlio, ma non lo conoscevo davvero: ora ho capito che sono sua madre”. Come Paolo, che non sapeva cosa fosse il pianto, prima di esprimersi su quel palco riuscendo a interpretare Ulisse: “Il teatro mi ha curato”. O come Marina che si sente “libera nella follia”. Ha sofferto di disturbo bipolare, paranoia, disturbo schizoaffettivo. È stata perfino arrestata: un caso cosiddetto senza speranza. Oggi, con la compagnia teatrale, sente di non essere più sola. Questo è il teatro patologico: un trampolino che restituisce bellezza con un tuffo nella libertà e nella comprensione. “Quando mi portano i figli spesso sono in stato catatonico, i genitori sono distrutti dal dolore, non dormono la notte, ma questo palcoscenico ha prodotto una luce che rientra nelle case”, mi dice Dario, un rivoluzionario che ha riconosciuto il loro potenziale e li ha saputi vedere davvero, in una società che li emargina e li tratta come “rifiuti umani”, dimenticandosi di loro nelle emergenze (come durante il lockdown) e nei loro piccoli grandi progressi: riconoscerli vorrebbe dire restituire loro la dignità di una vita complessa, ma meritevole di attenzione, di cure, di amore. Come le nostre. Dario ha restituito loro la dignità del diritto di esistere. Sarà per questo che oggi indossano con orgoglio e un pizzico di sarcasmo una maglietta con una scritta che fa a pezzi un pregiudizio: “Io sono un po’ matto e tu?”. Perché la democrazia digitale alla fine ci rende meno liberi di Concita De Gregorio La Repubblica, 22 gennaio 2023 Si possono attivare sondaggi, petizioni online per chiedere di sostituire un ministro. Ma è solo un’illusione. È una truffa far credere all’uomo della strada che è lui a decidere, ma funziona. È destinato al fallimento, allo scherno chi provi a mettere in guardia dall’inganno perché a nessuno piace sentirsi raggirato: ciascuno desidera sentirsi padrone e non strumento. La supremazia dell’autostima muove i giochi, soprattutto quando è infondata. Però è una truffa, ed è anche molto pericolosa, la sensazione indotta che la democrazia del clic abbia il potere - per esempio - di cambiare un governo. Il potere lo ha chi tira i fili e servirebbero molto studio, molta memoria della storia, molto lavoro sulla comprensione del presente per sapere chi sono i burattinai. Tutte materie in disuso (la memoria, il lavoro, lo studio) denigrate come elitarie, classiste. La conoscenza, unico possibile riscatto per chi non ha soldi né quarti di nobiltà, è stata con sapienza declassata a odioso privilegio. Che sia l’uomo della strada, avanti, a dire la sua: ecco la vera rivoluzione di popolo. E così si possono attivare un sondaggio, una petizione online per chiedere di sostituire un ministro. Vi piace? Non vi piace? Votate, potete eliminarlo. A mia modesta memoria è la prima volta. Ci sono state campagne di stampa, certo, contro ministri e presidenti. Memorabili remoti precedenti. Mai, però, contatori attivi sullo schermo: cinquantamila, centomila, un milione. Il sottotesto è: siete voi, siamo noi a decidere. Ma non è vero, non è così: non in questa forma. Il celebre “uomo della strada” ha uno straordinario strumento: il voto, quando e se lo esercita. La democrazia rappresentativa ha regole precise che le hanno consentito di funzionare fin qui. Bene seppure non benissimo, certo, eppure resta - la democrazia - il meno ingiusto e sanguinario dei sistemi di governo. Ci sono regole, dicevo, che prevedono passaggi intermedi. L’elettore sceglie le persone (talvolta) o i partiti: vota alle elezioni. Le forze politiche che le vincono sono chiamate a formare un governo: è il capo dello Stato che conferisce loro l’incarico, ed è sempre il capo dello Stato a vagliare la lista dei ministri. A partire da quel momento, se ha la fiducia dei parlamentari eletti dal popolo, il governo è in carica. Non sono gli elettori a scegliere i ministri né dunque - per un semplicissimo principio di reversibilità - non sono loro a poterli revocare. Far credere che basti invece una petizione online per ottenere il risultato genera in un’opinione pubblica mediamente inconsapevole (analfabeta di sistemi complessi, è impopolare dirlo ma è la verità) la convinzione di essere in grado di fare e disfare un governo. È questa la modernità? O è il level five di un videogioco che si è sostituito alla vita reale, un televoto universale per cui decidi chi resta e chi esce, come a X Factor, dalla poltrona di casa col tuo telecomando, con un sms (fino a cinque, in certi casi. Ma perché cinque? Uno vale cinque?). Elly Schlein, che per biografia è senz’altro la più moderna se si applica il criterio anagrafico, è la più giovane, si è battuta per il voto online alle primarie del Pd: più “moderno”, appunto, ha detto. Non sono sicura del contrario: che per essere ammessi al processo democratico si debba faticare, stare in fila al freddo e sotto la pioggia, camminare sudando sotto il sole, fare chilometri in auto. Lo sforzo fisico spesso serve ma sovente non basta alle cause. Tuttavia constato che ogni volta che esce un nuovo modello di sneakers, ci sono dei saldi pazzeschi, arriva sul mercato un nuovo modello di telefono volutamente limitato per generare desiderio di essere nella cerchia dei fortunati possessori: ecco allora le file all’addiaccio, gli accampamenti notturni sono la regola. Il desiderio ha mutato obiettivo: avere qualcosa ha preso il posto di essere qualcuno, con la realtà non si discute. Ma dalle antiche file ai seggi per votare alle attuali file davanti al negozio della multinazionale c’è tutto il senso del tempo trascorso dal Novecento fin qui: un racconto che aspetta un gran romanziere. Sarebbe ben triste se fosse questa la modernità. I followers, l’uomo qualunque di ritorno, l’uno vale uno, lo spioncino sulle vite degli altri, la presunta democrazia dei social, i profili fasulli, i big data, gli spioni, i truffatori, le teste a uovo degli hater farlocchi. Il capitalismo non funziona più, scrive in una lunga inchiesta Der Spiegel: la crescita economica indietreggia ovunque, il divario fra ricchi e poveri aumenta, la globalizzazione accresce le disparità, moltitudini muoiono in mare. La crisi climatica è fuori controllo. La politica di fronte allo strapotere dell’economia non ce la fa, è completamente succube. La democrazia virtuale è diventata il tribunale supremo: la popolarità si misura in followers, la seduzione e l’inganno - il commercio, insomma - determinano chi conta, chi influenza e chi no. Marx aveva ragione, è il titolo dell’inchiesta. Diffiderei della modernità, se è questa. Ci sono segnali, remoti ma percettibili, di saturazione. Questo tempo sta finendo. Una volta, anni fa, Edgar Morin disse a una conferenza, in Italia, che quando tutto questo sarà finito bisognerà ripartire dalle mani, dalle cose. Non è questione di cultura alta o bassa, non è che i filosofi e i poeti siano qualcuno di cui diffidare e le popstar no: dipende da quello che dicono, da quello che fanno. Forse non è ancora il momento, ma sarebbe buona cosa intravedere il futuro - soprattutto per chi fa politica. Il futuro remoto, insieme a quello assai più interessante per chi deve mantenere il suo posto: i prossimi tre mesi. In questo senso la vecchia democrazia rappresentativa, stanchissima, esausta, la terrei di gran conto almeno fino a che un nuovo modello non si sia manifestato come possibile e migliore. Sono sempre i più poveri quelli che ci rimettono di più. Nelle guerre, nelle rivoluzioni, nella vita di ogni giorno. Non sono sicura che intrattenerli in un videogioco, come si fa coi bambini quando non si sa che farne, sia la più generosa delle idee. Chi resterà alla fine dalla gara? Chi sarà a sgominare tutti quelli che, creduloni, si sono consegnati a una partita orchestrata da altri? Restare al potere è tutto quel che interessa a chi comanda. Conservarlo ad ogni costo. Anche facendoti credere di concedertelo in dote, pensa te, con un clic. “Alternanza scuola-lavoro: uccide e non serve” di Luciana Cimino Il Manifesto, 22 gennaio 2023 A un anno dalla morte di Lorenzo Parelli - primo di tre studenti - manifestazione sotto il ministero: ascoltateci, va cancellata. Ricerca su 1.500 casi: nel 52% esperienza non inerente al proprio percorso di studi. “Siamo in lutto, ma abbiamo delle richieste”. Si sono conclusi ieri i due giorni di protesta indetti dalle associazioni studentesche contro l’alternanza scuola-lavoro (che ora si chiama Ptco, Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento) nell’anniversario della morte di Lorenzo Parelli. Studente diciottenne della provincia di Udine, Parelli venne ucciso dalla caduta di una trave d’acciaio di 150 chili durante il suo ultimo giorno di stage nell’azienda Burimec. Dopo di lui, nel 2022 sono morti mentre svolgevano tirocini altri due ragazzi: Giuseppe Lenoci, 16 anni, e Giuliano De Seta, 18 anni. Tre morti di troppo in un sistema, introdotto nel 2003 dall’allora ministra alla scuola Letizia Moratti e poi divenuto uno dei perni della “Buona Scuola” del governo Renzi, che fin dall’inizio ha mostrato le sue falle e che non è stato rivisto a dovere, nonostante il cambio di nome. Ieri mattina Rete degli Studenti e la Fiom hanno manifestato con un flash mob davanti al ministero dell’Istruzione per ricordare Parelli e per denunciare che, a distanza di un anno, “nulla è cambiato”. Hanno anche presentato i risultati di un sondaggio del sindacato studentesco che ha coinvolto un campione di 1.500 studenti del Lazio: secondo il 69,5% la scuola non insegna i diritti del lavoro, mentre il 52,2% crede che il Pcto effettuato non sia stato inerente al proprio percorso di studi. Dalla scalinata del Miur, esponenti della Rete e della Fiom hanno sottolineato come “queste morti non sono riuscite a far interessare al tema né l’ex ministro Bianchi né il ministro Valditara”. “Da sempre ci opponiamo a questo modello di relazione tra scuola e mondo del lavoro - spiegano. I Pcto vanno ripensati se non vogliamo piangere altri coetanei. Nel migliore dei casi non funzionano”. Anche a Napoli ieri mattina protesta degli studenti del Coordinamento Kaos con il lancio di vernice rossa sul portone della sede dell’Unione industriali. Nel pomeriggio invece a Udine si è svolto il presidio dell’Unione degli studenti a cui hanno partecipato anche i genitori di Lorenzo Parelli. “La morte di Lorenzo non è stata un’incidente - ha detto Bianca Chiesa, coordinatrice nazionale del sindacato studentesco - è stata un omicidio dovuto al fatto che gli studenti vengono messi a lavorare nello stesso identico contesto in cui muoiono 4 lavoratori ogni giorno”. Le proteste erano partite già venerdì scorso con un partecipato corteo a Livorno dove oltre 400 studenti hanno manifestato con Flc Cgil e Usb, e con mobilitazioni e assemblee nelle scuole superiori di molte città d’Italia organizzate dall’Opposizione studentesca d’alternativa (Osa). Al liceo Augusto di Roma, le studentesse e gli studenti hanno apposto una targa con scritto “A Lorenzo Parelli, studente come noi, ucciso dall’alternanza scuola - lavoro. Non dimentichiamo, non perdoniamo”. “Il lutto non ci basta - ribadisce Chiesa - vogliamo sicurezza in ogni luogo di lavoro e l’abolizione delle forme di alternanza scuola-lavoro in funzione dell’istruzione integrata: non accettiamo che la formazione sperimentale sia subordinata alle richieste del mondo dell’impresa, vogliamo invece strumenti innovativi volti alla didattica per costruire dai luoghi della formazione un modello diverso di società”. “Pretendiamo - aggiunge - che il ministro Valditara convochi le organizzazioni studentesche e ascolti la nostra proposta di istruzione integrata, così come pretendiamo misure urgenti per la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro. A quante altre morti dovremo assistere prima che la politica ci risponda?”. Ma da Viale Trastevere sembrano non sentire: si terrà il 26 gennaio il primo tavolo tecnico tra governo e parti sociali sul tema alternanza scuola lavoro ma le sigle studentesche non sono state invitate. “È importante la convocazione di questi tavoli tecnici - commenta Alice Beccari, dell’esecutivo nazionale dell’Unione degli studenti - ma è inaccettabile che il ministro dopo aver ripetuto svariate volte la necessità di confronto con la popolazione studentesca non solo non abbia riconvocato il Fast, forum delle associazioni studentesche più rappresentanti, ma non ci stia permettendo di dire la nostra sul tema dei Pcto”. Reddito di cittadinanza, ancora sei mesi poi il nulla: il Governo è fermo su corsi e impiego di Valentina Conte La Repubblica, 22 gennaio 2023 Gli “occupabili” perderanno il sussidio ad agosto, finora l’esecutivo non ha previsto alcun percorso verso il lavoro. Senza rete 440 mila famiglie. L’ipotesi di sciogliere Anpal e portare la regia delle politiche attive dentro il ministero. Nessun corso di formazione. Nessuna offerta di lavoro. Nessun recupero dell’obbligo scolastico. Mancano sei mesi, dei sette previsti, prima che 440 mila famiglie - almeno 600-700 mila persone - perdano dal primo agosto il Reddito di cittadinanza. Ma nulla si è mosso nei loro confronti. Il taglio dell’assegno vale 1 miliardo. L’ha deciso la prima legge di bilancio del governo Meloni che ha abolito il Reddito, promettendo per il 2024 un nuovo sussidio per i poveri. Anpal in bilico - La promessa di supportare e rimettere in carreggiata questi “occupabili” - in grado di lavorare, ma senza posto - potenziando le attività di formazione e accompagnamento a un impiego sembra destinata a restare un annuncio. Anzi, il governo sarebbe anche tentato di azzerare l’Anpal, l’Agenzia per le politiche attive che coordina le Regioni nell’assistenza ai beneficiari del Reddito, ora diretta dal commissario Raffaele Tangorra dopo la non felice parentesi dell’italo-americano Mimmo Parisi. L’idea sarebbe quella di portare le funzioni di Anpal all’interno del ministero del Lavoro. I sindacati, allarmati per l’impatto sui dipendenti, hanno chiesto un incontro - per ora senza esito - alla ministra del Lavoro Marina Calderone. Anche perché analoga intenzione - il rientro nel ministero - riguarderebbe pure l’Inl, l’Ispettorato nazionale del lavoro al cui vertice il governo Meloni ha da poco nominato Paolo Pennesi al posto di Bruno Giordano. Esclusi anche i non occupabili - Sembra dunque che per le 440 mila famiglie la sola prospettiva sia quella di restare senza sostegno in piena estate e di cavarsela poi in autonomia. D’altro canto questo numero, inserito nella relazione illustrativa alla manovra, non identifica per forza gli “occupabili”, come la narrazione meloniana tende a far passare. Ma solo le famiglie - così dice la norma di legge - senza bambini, disabili e anziani. Quindi single, coppie senza figli o con figli maggiorenni a carico, a prescindere se siano in grado di lavorare o meno. Un senza fissa dimora, per fare un esempio, dal primo agosto sarà senza sostegno. Il nodo della formazione - I sei mesi intensivi di corsi di formazione, indicati in manovra come requisito obbligatorio per non decadere dall’assegno, riguardano tutti i percettori di reddito tenuti a stipulare un patto per il lavoro. Non solo quelli che non hanno figli piccoli, disabili o anziani nel nucleo. I giovani tra 18 e 29 anni che hanno lasciato la scuola dell’obbligo e sono privi di titolo di studio devono iscriversi ai corsi per gli adulti (Cpa), inaccessibili però ad anno già iniziato. E d’altro canto manca ancora il protocollo d’intesa, previsto dalla norma in manovra, tra ministero del Lavoro e ministero dell’Istruzione. La chimera di un’offerta - Quanto poi all’unica offerta di lavoro - se rifiutata, si decade dal Reddito, ma ancora non si sa se deve essere “congrua” al curriculum o no - non arrivava prima, si teme che non arrivi neanche ora. Con una contraddizione ancora più forte: i percettori di Reddito inseriti nel programma Gol - Garanzia di occupabilità dei lavoratori - finanziato dal Pnrr non sono per forza gli stessi che perderanno il sussidio dal primo agosto. E questo perché in Gol finiscono davvero gli “occupabili”. Mentre le 440 mila famiglie nel mirino del governo Meloni, come detto, sono selezionate solo se al loro interno non hanno minori, disabili o anziani. I dati di Gol - C’è poi il tema dell’effettiva occupabilità di chi prende il Reddito, visto che per il 70% si tratta di soggetti con bassissima qualifica e scolarità. Lo racconta l’ultimo report di Anpal su Gol. Nel 2022 sono stati presi in carico dai centri per l’impiego delle Regioni 709.127 persone in cerca di impiego (obiettivo Ue di 300 mila più che raddoppiato). Per l’86% si tratta di donne, under 30, over 55, disoccupati di lunga durata. Un quarto del totale prende il Reddito e di questi solo il 12,8% finisce nel primo profilo su quattro, quello dei più facili da ricollocare. Contro il 73,2% di chi è in Naspi, quindi in disoccupazione, più vicino al mondo del lavoro. Hanno trovato un posto grazie a Gol in 64 mila: di questi solo 4 mila con il Reddito. Il caso Assange: una democrazia senza giustizia di Vincenzo Vita Il Manifesto, 22 gennaio 2023 Lo scorso venerdì si è tenuto il terzo Belmarsh Tribunal a Washington (i primi due si celebrarono a New York e a Londra), in una sede simbolica: il National Press Club. Si tratta di una sorta di corte alternativa a quella londinese dove si sta decidendo in merito all’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. Com’è tristemente noto, il fondatore di WikiLeaks rischia oltre oceano una condanna a 175 anni di carcere. E in questi giorni il verdetto pare approssimarsi. Il luogo prescelto è stato particolarmente significativo, perché lì Assange presentò tredici anni fa il video “Collateral murder”, quel terribile materiale che documentava l’uccisione di civili innocenti in Iraq da parte di un elicottero statunitense Apache. Tra le vittime vi furono anche due giornalisti dell’agenzia Reuters e un padre che stava accompagnando i figli a scuola. Quel video fece subito il giro della rete e suscitò tanto vaste reazioni critiche verso gli Stati Uniti, quanto un’immediata reazione coercitiva da parte di questi ultimi. Assange fu preso di mira e assurse al ruolo di nemico pubblico da buttare in una cella del peggiore penitenziario dell’amico americano. Quel video fu come il fischio di inizio, dunque, della persecuzione messa in atto in sequenza dalla Svezia, dall’Australia, dalla Gran Bretagna e dagli stessi Usa contro un cronista scomodo per i poteri e le loro macchinazioni all’ombra di segreti impronunciabili. Il National Press Club è a due passi dalla Casa Bianca e anche questo ci vuole raccontare qualcosa. Il presidente Biden, pur sollecitato dal collega brasiliano Lula e da quello della Colombia Gustavo Petro, nonché da alcune delle principali testate del villaggio globale che a suo tempo collaboravano con WikiLeaks, per ora tace. Il Tribunale si ispira agli omologhi voluti da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre, organizzati per indagare sui crimini americani nella guerra del Vietnam. La giustizia andava ricercata con rigore e precisione, fuori dall’ufficialità e dai suoi fariseismi. L’opinione pubblica va coinvolta e resa protagonista. Dagli interventi è emersa nettissima la denuncia della falsa democrazia esibita da paesi che mascherano i propri misfatti con simulacri istituzionali, peraltro sempre più vacillanti. Oltre ad Assange, sono ben 360 i giornalisti incarcerati nel mondo - Assange, infatti, è solo il primo di una lista di ben 360 giornalisti incarcerati in giro per il villaggio globale, cui vanno aggiunti coloro che hanno perso la vita. L’informazione libera, capace di ficcare il naso negli arcani delle Cancellerie e delle guerre, va imbavagliata. Ecco l’ordine esibito. WikiLeaks è il capro espiatorio, l’ammonimento per coloro che intendono scrivere articoli o girare servizi in modo indipendente e tenendo la schiena dritta. Nel corso degli interventi si sono sentite le voci di chi sta sostenendo tale lotta emblematica come giornalista, avvocato o con durissime battaglie giudiziarie: Steven Donzinger, Jesselyn Radack, Bett Nedsger, Stefania Maurizi, Daniel Ellsberg, Srecko Horvat, Amy Goodman, Jeffrey Sterling, Margaret Kunnstler, Hrafnson Kristinn, Chip Gibbons, Kevin Gosztola, Katrina Vandel Heuval. Alcuni dei nomi. Si è sentito Jeremy Corbyn, che ha sottolineato come la politica vada sottoposta a verifica attraverso la libera informazione, senza la quale è difficile evocare la democrazia. Particolarmente emozionante è stato il discorso svolto con una voce stanca e flebile dal padre di Assange, che ha metaforicamente urlato contro l’abbandono della Magna Charta e dello stato di diritto. Il Tribunale alternativo vuole essere la critica pratica dell’insufficienza degli organismi internazionali, che dovrebbero vigilare e difendere le garanzie per le persone, insieme agli spazi della legittima denuncia dei crimini potenti e dei potenti. Chi ascolterà un simile angosciante grido di dolore? Parlamento italiano, batti un colpo, per favore. Iran. “Liberate Olivier”: 40 anni di carcere all’attivista per i più poveri Corriere della Sera, 22 gennaio 2023 In prima linea con le organizzazioni umanitarie, il belga Olivier Vandecasteele è stato condannato a 40 anni di carcere in Iran. Da tutto il mondo si leva un appello affinché l’Europa si impegni a riaprire i negoziati per il suo rilascio. Sono già una quarantina le organizzazioni della società civile di tutto il mondo che hanno sottoscritto l’appello per chiedere il rilascio del 41enne operatore umanitario belga Olivier Vandecasteele, detenuto in Iran dal febbraio dello scorso anno. Vandecasteele è un esperto e rispettato operatore umanitario ed è stato condannato a 40 anni di carcere per “spionaggio contro la Repubblica islamica dell’Iran a favore dei servizi segreti stranieri”, “cooperazione con un governo ostile, gli Stati Uniti, contro la Repubblica islamica dell’Iran”. È stato inoltre condannato a 74 frustate. I negoziati per ottenere il suo rilascio in cambio del ritorno in Iran di un ex diplomatico iraniano, Assadollah Assadi, sono stati sospesi dalla Corte costituzionale belga a causa delle imputazioni contro quest’ultimo, accusato di aver pianificato un attentato contro i membri di un gruppo politico di opposizione iraniano in Francia. Le considerazioni giudiziarie legate alla politica interna belga e all’attuale isolamento dell’Iran rendono ancora più difficile qualsiasi negoziato tra i due Paesi. Alla luce di questo contesto e del profilo di Olivier Vandecasteele, che ha lavorato per oltre 15 anni per organizzazioni umanitarie internazionali, tra cui Médecins du Monde, il Norwegian Refugee Council e Relief International, ha svolto missioni in India, Afghanistan e Mali e nel 2015 è diventato direttore delle operazioni in Iran per il Norwegian Refugee Council, i firmatari dell’appello sottolineano che l’Europa - secondo donatore mondiale di aiuti umanitari internazionali - può svolgere un ruolo decisivo nel sostenere un dialogo costruttivo e i negoziati tra i due Paesi. L’Ue dovrebbe impegnarsi per rovesciare l’attuale situazione che sta diventando sempre più dannosa per la salute di Olivier. In Afghanistan, e più recentemente in Iran, Olivier ha dimostrato la sua umanità e la sua capacità di lavorare in contesti politici e culturali spesso molto delicati. Un passo fondamentale - scrivono ancora i firmatari tra i quali ActionAid, Oxfam, Coopi, Terre des Hommes, Avocats Sans Frontières, Sos Méditerranée - che l’Ue potrebbe compiere è fare pressione affinché un’équipe medica indipendente visiti Olivier. Avendo appena terminato uno sciopero della fame, un controllo medico approfondito è fondamentale per garantire la sua salute e la sua sicurezza. Un’ulteriore azione per garantire la protezione e la sicurezza di questo attore umanitario, trattenuto contro la sua volontà, sarebbe in linea con le recenti attività dell’Ue nei confronti dell’Iran”. Da precisare che nel 2020, al culmine della pandemia Covid-19, l’Ue ha inviato 20 milioni di euro in aiuti umanitari alla popolazione iraniana, nonostante il potenziale rischio di sanzioni da parte degli Stati Uniti. Nel 2022, l’Ue ha stanziato 11 milioni di euro per programmi umanitari rivolti alle fasce di popolazione più povere in Iran. “L’Ue non è indifferente alla situazione della popolazione iraniana. Non può essere indifferente a coloro che contribuiscono e attuano le sue azioni di solidarietà internazionale. Se Olivier non verrà rilasciato entro la fine di marzo 2023, quando si terrà a Bruxelles il prossimo Forum umanitario europeo (Ehf), le organizzazioni umanitarie internazionali - con l’approvazione delle loro famiglie di riferimento - coglieranno l’occasione per sollecitare l’Unione europea - conclude il documento - ad agire per garantire la sua protezione e la sua sicurezza. Le voci della società civile europea possono contribuire insieme a rendere forte questo appello”. Polonia. Premono i migranti dalla Russia di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 22 gennaio 2023 Il muro con la Bielorussia resta una trappola mortale. Attraversamenti in calo, ma crescono i profughi con visti russi: così Mosca alza la pressione. Attraversamenti in calo ma il limbo tra Polonia e Bielorussia resta una trappola mortale anche dopo la costruzione di un muro al confine. Nell’anno appena trascorso la Straz Graniczna (Sg), la polizia di frontiera in Polonia, ha registrato circa 25.000 tentativi in meno rispetto all’anno precedente. Nel 2021 almeno 40.000 migranti, la maggioranza dei quali respinti oltre le frontiere Ue, hanno provato a entrare in Polonia. La rete di ong polacche Grupa Granica (Gruppo frontiera) annota 31 morti dall’inizio della crisi migratoria e 185 persone dichiarate scomparse dalle proprie famiglie. Provengono quasi tutti dal Medio Oriente. L’ultima vittima, un medico yemenita, è stata ritrovata il 7 gennaio scorso in un bosco nel distretto di Hajnówka. Ma c’è anche la “rotta baltica”, opzione praticata dai molti cittadini, a maggioranza afghani e iracheni, che provano a raggiungere l’Ue attraverso la Bielorussia: +40% in direzione Lettonia rispetto al 2021; il numero di ingressi in Lituania invece sembra destinato a scemare dopo la costruzione di una barriera di 500 chilometri completata la scorsa estate. Molti di quelli che ce l’hanno fatta a entrare in territorio lituano si sarebbero poi rivolti a degli intermediari dopo essere scappati dai centri di detenzione nel tentativo di entrare in Polonia (145 trafficanti nel 2022 secondo i dati forniti dalla Sg). Tra le novità, anche l’impennata di profughi con visto russo sul passaporto, segno del ruolo sempre più attivo giocato dal Cremlino nel tentativo di aumentare la pressione migratoria sul fianco orientale dell’Ue. Fino a qualche mese fa i migranti volavano direttamente dagli aeroporti dei paesi mediorientali verso quelli bielorussi di Minsk o Grodno. Adesso spesso fanno tappa prima in Russia. Una notizia confermata anche dall’ong Fundacja Wolno Nam attiva nelle operazioni di soccorso al confine bielorusso-polacco. “La costruzione di un muro non blocca l’immigrazione ma finisce soltanto per cambiare il profilo dei migranti che scelgono una data rotta. C’è chi prova a scavalcare la barriera ma anche chi cerca di entrare in Polonia attraversando paludi e corsi d’acqua”, spiega Agata Kluczewska, leader dell’organizzazione. Sono soprattutto gli uomini adulti a tentare la sorte nella speranza di sopravvivere senza essere respinti di nuovo in Bielorussia. I 5,5 metri di altezza della costruzione lunga 186 chilometri e parzialmente sorvegliata non sembrano in grado di scoraggiare tutti: “Da quando esiste questa barriera sono sempre più numerosi i casi di feriti con fratture, distorsioni e lussazioni alle braccia o alle gambe”, aggiunge Kluczewska. Intanto il governo della destra populista di Diritto e giustizia (Pis), che ha ordinato la costruzione di una barriera di filo spinato militare lungo il confine con l’enclave russa di Kaliningrad, persegue una politica indiscriminata di push-back alla frontiera con il vicino bielorusso. E lo fa appoggiandosi a un decreto sulle espulsioni immediate, giudicato illegale lo scorso settembre da un tribunale di Bia?ystok - la principale città del voivodato della Podlachia - anche grazie all’intervento del difensore civico della Repubblica di Polonia, Marcin Wiacek. L’ombudsman polacco aveva vittoriosamente impugnato la decisione di respingere un gruppo di cittadini iracheni rispediti oltreconfine dalla Sg senza che potessero presentare richiesta di protezione internazionale.