Quelle telefonate che ti “riattaccano alla vita” di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2023 In un Paese in perenne emergenza, le uniche emergenze che quasi nessuno vuole vedere sono quelle che riguardano il carcere. Eppure è appena finito l’anno dei record, 84 suicidi, mai così tanti, e questa è una emergenza vera perché la gente sta morendo in carcere. Sostiene uno dei massimi esperti di suicidi, lo psichiatra Diego De Leo, che certo prevenire i suicidi è molto difficile, ma almeno si può cercare di creare una forma di protezione: “Aumentare le opportunità di comunicazione e le connessioni con il mondo ‘di fuori’ non solo renderebbe più tollerabile la vita all’interno dell’istituto di detenzione, ma sicuramente aiuterebbe nel prevenire almeno alcuni dei troppi suicidi che avvengono ancora nelle carceri italiane” Quelle telefonate che sono un’accelerata agli affetti delle persone in carcere Scrive un detenuto: “Poter telefonare ogni giorno a casa aveva aiutato la mia famiglia a ritrovarsi. Ora ritornare da una telefonata al giorno a una telefonata a settimana di dieci minuti significa riperdersi. Questo periodo lo ricorderemo con i miei cari per esserci persi di nuovo”. Secondo l’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario il trattamento del condannato e dell’internato è svolto anche “agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. Ma quei contatti sono invece una miseria: 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, che vuol dire che un padre detenuto può dedicare al figlio al massimo tre giorni all’anno. Il Covid ha portato ulteriore isolamento e sofferenza, e anche le prime rivolte, i morti, la paura. Ma per fortuna qualcuno ha capito che non era la criminalità organizzata a far esplodere le carceri, ma l’angoscia e la rabbia delle persone detenute, spaventate di essere lasciate sole e di non sapere nulla del destino dei loro cari. E si è trovata l’unica soluzione accettabile, dare un’accelerata agli affetti delle persone in carcere introducendo “il miracolo” delle videochiamate e la forza che ti viene dalle telefonate quotidiane. E così le persone si sono ritrovate a chiamare casa molto più spesso, in alcune carceri anche ogni giorno, e a rivedere le loro case e le famiglie lontane con le videochiamate. Gentili direttori, non è motivo “di particolare rilevanza” l’aver chiuso il 2022 con 84 suicidi? “Radio carcere” dice che le telefonate a breve non saranno più quotidiane o comunque molto frequenti, ma noi non ci crediamo. Non vogliamo credere che i direttori, che hanno la possibilità di concedere più telefonate per motivi “di particolare rilevanza”, rinuncino a un potere, che per una volta è davvero un “potere buono”, di far star meglio le persone detenute, e soprattutto le loro famiglie. Certo, per chi ha figli minori dovrebbe restare in ogni caso la telefonata quotidiana, prevista dalla legge, ma tutti quei figli maggiorenni che per anni hanno avuto a disposizione solo dieci miserabili minuti settimanali per parlare con un genitore detenuto, perché devono essere di nuovo penalizzati dopo aver faticosamente ricostruito delle relazioni famigliari decenti con la chiamata quotidiana (o comunque molto frequente)? Gentili direttori, non fateci tornare al peggio del passato, usate il vostro “potere” per prevenire i suicidi con quello straordinario strumento che può essere sentire una voce famigliare nel momento della sofferenza e della voglia di farla finita. Lasciate le telefonate in più, in nome dell’emergenza suicidi, e anche per dare continuità a quella che la Corte Costituzionale nell’ordinanza N.162/2010 definisce la “progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Salviamo Cospito, sì o no? La risposta è nelle mani del Ministro di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi Il Riformista, 21 gennaio 2023 Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Bancali, a Sassari, è al novantaquattresimo giorno di sciopero della fame. Per avere una idea più precisa di cosa ciò comporti, vogliamo ricordare che il militante dell’Ira Bobby Sands morì dopo sessantasei giorni di digiuno. Da quando ha iniziato la sua azione, Cospito è stato seguito settimanalmente dalla dottoressa Angelica Milia, nominata dall’avvocato Flavio Rossi Albertini. Per la prima volta da quel 20 ottobre entrambi parlano oggi di situazione medica grave, sulla soglia del precipizio. Cospito ha infatti perso 40 kg e persino camminare durante l’ora d’aria potrebbe procurargli un danno irreversibile. Il 13 gennaio scorso, a pochi giorni dalla nota del Ministro, il difensore di Cospito invia una richiesta di revoca anticipata del decreto, fondata su elementi nuovi e diversi da quelli presi in esame dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, poiché emersi successivamente alla data di celebrazione dell’udienza camerale di sorveglianza. Il Ministro ha 30 giorni di tempo per decidere sull’istanza, trascorsi i quali si realizzerà la procedura del “silenzio-rifiuto”. Nella nostra lettera del 10 gennaio al Direttore di questo giornale scrivevamo che esistevano, di fatto, due soluzioni: attendere la decisione della Cassazione o quella del Ministro. A oggi crediamo che la gravità delle condizioni sanitarie di Cospito non contempli la possibilità di aspettare la decisione dei giudici della Cassazione. Il ventaglio di alternative si è ridotto all’osso, il Ministro Nordio ha ricevuto la richiesta di revoca e Alfredo Cospito ha diritto di sapere se dovrà continuare a camminare lungo questo precipizio, oppure se la sua sorte è segnata sin da ora. Cospito, da 3 mesi in sciopero della fame: “Mi opporrò al Tso, dovranno legarmi al letto” di Viola Giannoli La Repubblica, 21 gennaio 2023 La dottoressa Angelica Melia: “È in condizioni discrete ma siamo sull’orlo del precipizio, gli ho sconsigliato di camminare”. In sciopero della fame da tre mesi e un giorno, Alfredo Cospito, l’anarchico di 55 anni detenuto nel carcere di Sassari in regime di 41bis, “l’inferno dal quale mai mi faranno tornare a riveder le stelle”, non ha intenzione di interrompere la sua battaglia. E nell’ultima comunicazione al suo avvocato, Flavio Rossi Albertini, ha annunciato che “in pieno possesso delle capacità mentali” si opporrà “con tutte le forze all’alimentazione forzata. Saranno costretti a legarmi nel letto”. La dottoressa di fiducia Angelica Milia, che ieri alle 13 è entrata per visitarlo al Bancali, ha raccontato: “Speriamo che la situazione si sblocchi perché siamo a un bivio, sull’orlo del precipizio”. Da 118 chili, Cospito ora ne pesa 78, quaranta in meno. “Sta esaurendo il grasso ed è iniziato il catabolismo proteico, i muscoli sono ipotonici e ipotrofici, ridotti di volume”, ha spiegato Melia. “Mi ha chiesto se può camminare nell’ora d’aria, gliel’ho sconsigliato perché consuma ulteriori calorie. Lui sta discretamente bene ma la situazione può precipitare da un momento all’altro”, ha dichiarato la dottoressa. Cospito assume solo gli integratori che gli permettono di sopravvivere. “Ultimamente mi è stata adombrata la possibilità di un T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio)”, ha raccontato l’anarchico detenuto, per poi aggiungere: “Alla loro spietatezza ed accanimento opporrò la mia forza, tenacia e la volontà di un anarchico e rivoluzionario cosciente. Andrò avanti fino alla fine. Contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. La vita non ha senso in questa tomba per vivi”. Così Cospito - condannato all’ergastolo e al carcere duro per aver gambizzato nel 2012 l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi e aver piazzato nel 2006 due ordigni esplosivi fuori da una caserma di Cuneo senza provocare vittime - ha descritto al suo avvocato la sua vita al 41 bis: “C’é una finestra nella cella di due metri e mezzo per tre metri e mezzo, una finestra schermata dal plexiglass che non si apre quasi mai e che si affaccia, al di là delle sbarre, su un cubicolo interno circondato da muri di cemento alti metri e metri, schiacciati da una rete metallica a chiudere il quadrato di cielo”. Cospito vive in quella cella da solo per 21 ore al giorno. Le restanti tre, dice Rossi Albertini, “le divide tra un colloquio di un’ora con gli altri 3 detenuti del suo gruppo di socialità e due ore d’aria in quella sorta di cubicolo di cemento dal quale non può vedere un albero, una siepe, un fiore o un filo d’erba, un colore, solo sbarre e cemento”. Anche Matteo Messina Denaro ha diritto alla privacy sanitaria di Vitalba Azzollini Il Domani, 21 gennaio 2023 C’è un profilo dell’arresto di Matteo Messina Denaro forse non indagato a sufficienza: la divulgazione di dettagli sulla sua salute, con la pubblicazione addirittura della sua cartella clinica. Si tratta di dati “particolari”, secondo la definizione del Regolamento europeo per la protezione dei dati personali (Gdpr), cioè sensibili, oggetto di specifica tutela. È lecito diffondere i dati sanitari di un soggetto noto, quando si dà una notizia che lo riguarda? Libertà e privacy - La libertà di informazione (art. 21 della Costituzione), intesa come diritto del giornalista di informare e diritto del cittadino di essere informato, è uno dei cardini degli ordinamenti democratici. Considerata l’importanza di tale libertà, il Gdpr dispone che il “diritto degli Stati membri concilia la protezione dei dati personali (…) con il diritto alla libertà d’espressione e di informazione, incluso il trattamento a scopi giornalistici” (art. 85). Con il Codice Privacy, il legislatore italiano ha previsto che il trattamento di dati personali per finalità giornalistiche goda di un regime derogatorio alla disciplina ordinaria. Tuttavia, c’è un limite: “Il rispetto delle disposizioni contenute nelle regole deontologiche” che costituisce condizione “essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali”. Si tratta delle regole relative al “trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”. Tali regole prevedono “misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati”, in particolare per quanto riguarda i dati “relativi alla salute e alla vita o all’orientamento sessuale”. Dunque, la violazione delle regole deontologiche da parte del giornalista determina l’illiceità del trattamento di dati personali. Il garante ha il potere di vietare tale trattamento, disponendo la non utilizzabilità dei dati che ne sono oggetto, e può fornire prescrizioni a garanzia degli interessati, che il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti è tenuto a recepire. Le regole deontologiche - Il diritto di cronaca giustifica un regime diverso da quello ordinario nella tutela dei dati. Ma ci sono delle condizioni da rispettare. Quando tratta dati “particolari” (art. 9 Gdpr), tra i quali rientrano quelli atti a rivelare lo stato di salute di una persona, “il giornalista garantisce il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione” (art. 5). Il concetto di “essenzialità” - richiamato anche dal Codice Privacy - segna il discrimine tra divulgazione lecita o illecita di dati sensibili nello svolgimento di attività giornalistica. Le regole deontologiche precisano che è “essenziale” “l’informazione, anche dettagliata”, quando essa “sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti” . Dunque, l’informazione può esporre anche dettagli, purché essi siano “indispensabili” nel senso indicato dalla norma. Il limite vale pure per le “persone note o che esercitano funzioni pubbliche”: la loro “sfera privata” dev’essere rispettata “se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica” (art. 6, c. 2). Cioè la notorietà della persona non legittima il giornalista a divulgare suoi dati “particolari”, se non strettamente attinenti alla finalità della notizia nell’ambito della quale sono raccolti. Il diritto di cronaca è soggetto a una condizione ulteriore. Il giornalista, “specie nei casi di malattie gravi o terminali, si astiene dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico” (art. 10). La pubblicazione è ammessa solo nel “perseguimento dell’essenzialità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona”. Il caso di Messina Denaro - Nel caso di Messina Denaro entrano in gioco, da una parte, gli obblighi della struttura sanitaria ove il boss era in cura; dall’altra i limiti dell’attività giornalistica. Chi all’interno della clinica ha divulgato la cartella clinica di Messina Denaro ha commesso un illecito: i dati sanitari possono essere trattati ai soli fini per cui sono stati raccolti, salvo motivi eccezionali. Quanto al secondo versante, le norme prevedono deroghe alla disciplina ordinaria del trattamento dei dati personali quando si esercita il diritto di cronaca, ma con limiti imprescindibili, in primis l’essenzialità della notizia. La pubblicazione di dettagli sanitari su Messina Denaro non era funzionale alla notizia della sua cattura, quindi andava evitata. Basti pensare che, nella conferenza stampa relativa all’arresto, forze dell’ordine e magistrati non hanno fatto riferimento a specifiche informazioni sulla patologia medica. Il Garante Privacy, il 9 gennaio, aveva diffidato “gli organi di stampa, i siti di informazione e i social media” dal diffondere le immagini relative all’incontro in carcere tra Eva Kaili, ex vicepresidente dell’Europarlamento, e la figlia minorenne. Il video - aveva precisato il Garante - oltre a ledere gravemente i diritti della minore, è “privo di un qualsiasi interesse pubblico rispetto alla vicenda dell’eurodeputata”, quindi, la sua divulgazione non risponde al principio di essenzialità. L’Autorità si era riservata “interventi di sua competenza nei confronti delle testate che hanno violato le regole deontologiche”. Il Garante il boss - Il Garante è intervenuto pure sul caso Messina Denaro, il 18 gennaio scorso: “anche in casi di vicende di assoluto interesse pubblico, riguardanti persone che si sono macchiate di crimini orribili, la pubblicazione integrale di referti, o la diffusione di dettagli particolareggiati presenti nelle cartelle cliniche relativi a patologie, non appare giustificata”. L’Autorità ha richiamato l’attenzione “al rigoroso rispetto del principio di essenzialità fissato dalle Regole deontologiche”, annunciando iniziative. Insomma, i limiti posti al diritto di cronaca, che si tratti di un omicida o di un incensurato, vanno rispettati. Piaccia o meno, è lo stato di diritto. Ecco perché è sbagliato rinunciare al 41 bis di Vincenzo Scotti* La Stampa, 21 gennaio 2023 Roberto Saviano su La Stampa di martedì 17 obietta che l’”ergastolo ostativo”, al quale è stato sottoposto Messina Denaro, al pari di tanti altri boss della criminalità organizzata, “è oggettivamente una misura che contraddice la natura stessa della pena che serve a reinserire e non ad escludere” e ci ricorda anche che “l’ergastolo ostativo contraddice la natura stessa della Costituzione”. Saviano si inserisce in un dibattito anti 41 bis che ha ripreso forza da qualche tempo e si è allargato dopo la cattura del latitante di Castelvetrano. Già, dopo l’ultimo degli stragisti, Riina, la mafia aveva cambiato volto. Sarà forse un volto umano? Fosse così, certo, si potrebbero mettere finalmente da parte quegli articoli del codice, proposti con decreto legge da me insieme ai colleghi di governo, in cui non c’era solo il 41 bis ma un insieme di norme che completavano specificamente le leggi antimafia del 1991 e 1992 e consegnavano, soprattutto agli investigatori e ai magistrati, “strumenti” rivelatisi concretamente efficaci anche se rischiosi nella lotta alla mafia. In pratica agli uomini dello Stato veniva chiesto un prezzo altissimo: rischiare la propria vita. In queste ultime settimane ho letto a proposito del 41 bis le stesse obiezioni e critiche che mi vennero rivolte in quei tormentati anni 1991-1993. Forse è il caso di chiarire come e perché si adotta quella misura. Quando sono diventato ministro, una delle questioni più urgenti da affrontare era quella del funzionamento della “macchina” del crimine. I boss mafiosi in carcere gestivano con estrema facilità tutti gli affari in contatto con l’esterno cioè con i capi delle cosche. Nei primi giorni di giugno del 1992 dovevamo dare una dura risposta alla mafia per la strage di Capaci. Il governo approvò un decreto legge, l’8 giugno, con un numero elevato di misure necessarie per rafforzare i poteri di indagine e di giudizio della magistratura e chiudere il cerchio delle norme antimafia. Alla riunione finale dei due ministri chiesi di affrontare la questione del rapporto tra mafiosi in carcere e fuori. La proposta fu quella dell’isolamento per impedire in ogni modo i rapporti tra i boss in carcere e quelli fuori, offrendo ai carcerati di scegliere tra collaborare e andare in isolamento. Dibattiti di stagione, si dirà. La criminalità organizzata però non è un fatto di stagione. Lo stesso Saviano sottolinea che “nessuno può essere chiuso a chiave senza appello” e io sono d’accordo con lui. Se fosse vero che Messina Denaro, come dice lo scrittore, “è al corrente di molte cose” questa nostra legge gli dà opportunamente la possibilità di liberarsi dell’afflizione prevista dal 41 bis: basta che ci dica quelle “cose”. Questo vale per il fresco detenuto come per gli altri boss che popolano le nostre carceri. Il 41 bis è un chiavistello che costoro hanno in mano e se decidono di parlare serve ad aprire se non le porte del carcere almeno quelle che li separano dal mondo, in modo da rompere il circuito tra chi sta dentro da chi sta fuori che è appunto il fine di quella misura. È bene poi ricordare che quella legislazione che tanto fece discutere negli anni Novanta e i cui risultati credo non debbano andare dispersi nel chiacchiericcio, è un corpus nel quale tutto si tiene: smontare il 41 bis significherebbe dare il via alla sua demolizione. Non mi sembra sia ancora tempo di demolire, pensando di trovarci di fronte a una criminalità radicalmente cambiata con la quale sarà bello discutere amabilmente. Purtroppo nel mondo e anche in Italia la rete criminale si è rafforzata. “Le mafie si evolvono e si adattano e quasi si plasmano al contesto socio-economico e politico di risanamento”. Scrive un autorevole magistrato: “Il punctum dolens” dell’intero ragionamento è proprio questo: “Oggi la nuova mafia opera attraverso una condotta silente e mercatista, che si fa forte del potere economico corruttivo stabilmente infiltrato, senza armi o violenza fisica. Anche a livello normativo si dovrebbe attuare una riscrittura della fattispecie normativa per colmare la distanza ontologica tra la condotta ipotizzata dalla legge 646 del 1982 relativa alle mafie violente di prima generazione e le organizzazioni criminali contemporanee ... Questa nuova fattispecie incriminatrice potrebbe far rientrare a pieno titolo nell’alveo di quella legge anche le relazioni illecite tra apparati pubblici e crimine organizzato in forma stabile e associata che caratterizzano il fenomeno storico delle mafie contemporanee... Il venir meno della violenza e della minaccia come strumenti di queste organizzazione non le rende meno pericolose. Le caratteristiche del crimine organizzato moderno sono ricorrenti in tutto il mondo: la transnazionalità delle organizzazioni più attive è una realtà oggettiva. La stessa corruzione, nelle sue forme più gravi, è transnazionale: la foreign bribery è una modalità operativa diffusa globalmente, che inquina l’economia e frena lo sviluppo sostenibile dell’umanità”. Torniamo al 41 bis: Falcone presiedeva il gruppo di lavoro per il regolamento dei collaboratori di giustizia. Terminati i lavori non portava il testo alla firma. Sollecitato in Parlamento per il ritardo chiamai Falcone che mi disse che lui era molto convinto per averlo proposto ma, aggiunse, questo strumento è delicatissimo e richiede magistrati di altissimo livello e rigore per non rischiare che sia il collaboratore a guidare il magistrato. E questa sarebbe oggi una riflessione che il giudice palermitano potrebbe prendere in considerazione, nel dibattito sulle intercettazioni telefoniche e l’art. 41 bis. Nello stato attuale delle trasformazioni delle reti criminali transnazionali e di quelle del territorio italiano (si pensi alla presenza della ‘ndrangheta) non c’è spazio per ipotesi quali la cancellazione al buio di parti determinanti della legislazione antimafia degli anni Novanta, i cui risultati non sono contestabili. Il passaggio da Corleone a una rete silente è la sfida di oggi. *Ex ministro dell’Interno Antonio e gli altri, ritornati in carcere. La “punizione” per i detenuti semiliberi di Paolo Lambruschi Avvenire, 21 gennaio 2023 Antonio è stato condannato nel 2009 a 12 anni di reclusione per una rissa tra bande rivali. Nei due carceri milanesi in cui sconta la pena ha sempre svolto lavori “intramurari” per l’amministrazione penitenziaria e per cooperative. A Opera e Bollate ha inoltre imparato i mestieri di montaggio e assemblaggio di elettrodomestici e biciclette elettriche, ma anche a dare assistenza telefonica ai clienti. Lo ha fatto per il figlio, nato pochi mesi dopo il suo arresto. Il suo rimpianto è di “averlo cresciuto in carcere”. Il ragazzo è sempre venuto a trovarlo e un piccolo rituale caratterizzava i loro colloqui. Antonio cucinava in cella e gli portava in piccole teglie il cibo spiegandogli ingredienti e procedimento e poi mangiavano assieme. Per questo il figlio frequenta oggi l’Istituto alberghiero, per cucinare bene come suo papà. Dal 2021, come altri 700 detenuti in semilibertà o lavoranti, i decreti legge per l’emergenza Covid gli hanno concesso di restare presso la casa dei genitori fino a data da definirsi, per diminuire il sovraffollamento nell’istituto di detenzione. Chi non aveva familiari ha dormito in alloggi di enti benefici. Questo periodo è stato di grande aiuto ad Antonio soprattutto per coltivare il rapporto con il figlio, dandogli la spinta definitiva per cambiare vita. Ma il 31 dicembre 2022 il governo, nonostante le richieste di associazioni e garanti dei detenuti, non ha voluto rinnovare nel decreto Milleproroghe i provvedimenti emergenziali, prorogando le licenze straordinarie e dal 31 dicembre scorso per queste persone è tornato l’obbligo di rientrare ogni sera in cella. Per alcuni il rientro notturno è beffardamente scattato alle 22 del 31 dicembre 2022. “Siamo preoccupati per questa scelta - spiega Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana, realtà da sempre impegnata nel reinserimento dei detenuti - che riteniamo poco lungimirante e dettata soprattutto da motivazioni di principio. Queste persone avevano avviato grazie alla situazione straordinaria percorsi di recupero o reinserimento importanti come assunzione di responsabilità. Non c’è solo l’aspetto lavorativo, conta anche riallacciare i legami con la famiglia e accudendo ad esempio i figli per una parte della giornata, vivere la quotidianità. Tutte attività che fanno pienamente parte del percorso di reinserimento sociale, al pari dell’attività lavorativa o di studio. Ma tutto questo è stato bruscamente interrotto e può compromettere percorsi che stavano producendo risultati positivi. Se a questo aggiungiamo che devono tornare in carceri sovraffollate e che il 2022 è stato un anno nero per i suicidi in cella direi che le preoccupazioni sono giustificate”. A dicembre 2022 risultavano, dalle statistiche fornite dal Ministero della giustizia, 1.091 persone detenute in semilibertà. “Non tutti hanno beneficiato del provvedimento straordinario - osserva Alessio Scandurra coordinatore dell’osservatorio sulle carceri dell’associazione Antigone che ha inviato le proprie osservazioni alla Commissione parlamentare - in generale i magistrati hanno disposto che potessero usufruirne chi era già in semilibertà. Siamo a circa 700 persone. Non ci risulta che nessuno dei semiliberi che hanno usufruito delle licenze straordinarie abbia commesso reati durante la permanenza notturna a casa anche perché il giudice poteva revocare il permesso immediatamente. La scelta di sradicarli dal contesto in cui si erano inseriti per ricondurli in un contesto detentivo è ritenuta perlomeno illogica dagli addetti ai lavori”. Ci sono vie d’uscita? A dicembre - come ha scritto Martino Alliva su Avvenire - i garanti territoriali (regionali, provinciali e comunali) hanno organizzato invano un digiuno a staffetta per fare approvare le proposte di emendamenti di alcuni parlamentari al “decreto Milleproroghe” che sono state bocciate. “Così - afferma Stefano Anastasia, portavoce dei garanti territoriali e garante dei detenuti del Lazio - si è persa l’occasione di dare concretezza all’ideale rieducativo che la Costituzione all’articolo 27 affida all’esecuzione penale e di rafforzare quell’ideale di progressione trattamentale che dovrebbe essere alla base del sistema penitenziario. Se uno torna a dormire in cella dopo due anni di vita in famiglia e nella società gli si fa fare un passo indietro nel percorso di reintegrazione. Noi chiediamo al Parlamento che venga accolto l’emendamento che ripristina per questi detenuti la possibilità di dormire a casa. E facciamo appello ai magistrati di sorveglianza perché prendano in esame questi casi”. Con buona pace della riforma Cartabia che punta sulla certezza della pena, ma anche con le alternative alla detenzione. Linea, almeno per i reati minori, sulla quale concorda l’attuale ministro Nordio. Alcuni istituti di pena intanto hanno presentato prima del 31 dicembre domanda di affidamento ai magistrati di sorveglianza. Anche Antonio lo ha fatto e ora aspetta una risposta almeno dal giudice per tornare da suo figlio. Il Garante: detenuti stranieri invisibili all’anagrafe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 gennaio 2023 La residenza è un diritto fondamentale per i detenuti, riconosciuto dall’articolo 45 dell’Ordinamento Penitenziario. Ma risulta che quelli stranieri privi di permesso soggiorno rimangono senza identità anagrafica, e ciò è illegittimo perché comporta l’impossibilità di vedersi attribuita una carta di identità, di accedere a misure non detentive, di usufruire di prestazioni assistenziali spesso indispensabili e di attivare programmi di vita esterni una volta riacquistata la libertà personale. La denuncia arriva dal Garante nazionale delle persone private della libertà e lo ha fatto inviando le sue osservazioni, dal Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia ai presidenti dei Tribunali di Sorveglianza. Il Garante osserva che questa problematica configura un impatto determinante sui diritti fondamentali delle persone straniere interessate che, private dello status di residenti, vengono espropriate del diritto di essere viste e considerate come persone con una propria dignità sociale. “Sconosciute al nucleo sociale di fattuale appartenenza e prossimità - scrive il Garante nelle sue osservazioni -, rischiano di sprofondare in una dimensione di minorità e isolamento, senza possibilità di vedersi riconoscere prestazioni assistenziali indispensabili in presenza di determinate fragilità e più in generale di accedere a misure non detentive e di attivare di percorsi di vita esterni una volta riacquistata la libertà personale”. In sostanza, il Garante sottolinea che l’esclusione anagrafica inibisce qualsiasi possibilità di riconoscimento da parte della comunità nel cui territorio la persona, in forza del titolo detentivo, si trova costretta a permanere, pur essendo quella comunità chiamata a pianificare i servizi pubblici tenendo conto di tutti i propri membri. “Può quindi accadere - prosegue il Garante - che a persone in condizione di vulnerabilità, al termine della pena o della misura di sicurezza, rimanga precluso l’accesso a prestazioni sanitarie e sociali di vitale importanza come, per esempio, la continuità di percorsi terapeutici avviati all’interno di una struttura penitenziaria o di una Rems o la possibilità di fruizione di programmi residenziali di accompagnamento e supporto all’esterno delle strutture detentive”. Altro esempio - ma che fa capire quanto sia drammatico e lesivo dei diritti rendersi invisibile all’anagrafe è l’impossibilità di ottenere la carta d’identità o altra documentazione identificativa equipollente. Si tratta di documenti elementari per la realizzazione di attività correlate all’attuazione di un proficuo reinserimento sociale, quale, per esempio, l’apertura di un conto corrente presso un istituto di credito, per il sostegno anche alla vita familiare, oppure richiesti dall’Autorità di pubblica sicurezza per l’avvio di percorsi di regolarizzazione come la formalizzazione di istanze di accesso alia procedura per il riconoscimento della protezione speciale. Il Garante denuncia che la prassi delineata in carcere nei confronti degli stranieri, “configura una situazione di illegittimità sostanziale e si pone in netto contrasto con le regole generali in materia di convivenze anagrafiche e con la disciplina specifica introdotta come quarto comma dell’articolo 45 dell’Ordinamento penitenziario con il decreto legislative 2 ottobre 2018 n. 123”. La previsione ha riconosciuto a favore del detenuto e dell’internato privi di residenza anagrafica il diritto di iscrizione, su segnalazione del Direttore, nei registri della popolazione residente del Comune ove e ubicata la struttura. La novella, infatti, è finalizzata ad assicurare alle persone detenute e internate l’accesso a tutte le prestazioni sociali a competenza territoriale e ad alcune importanti prestazioni socio-sanitarie ed e stata accolta dalla dottrina come il definitivo riconoscimento del diritto alla residenza anagrafica di tutte le persone sottoposte a una misura di privazione della libertà nell’ambito penale, a prescindere dalla tipologia del titolo di trattenimento (una sentenza di condanna, una misura di sicurezza o una misura cautelare) e dalla nazionalità o dalla posizione di regolarità/ irregolarità amministrativa. Secondo il Garante, “una diversa lettura dell’articolo 45 O. P., che in combinato disposto con altre norme dell’ordinamento, portasse a escludere parte della popolazione detenuta e internata dall’alveo della sua applicazione non sarebbe conforme allo spirito della norma esplicitamente finalizzata a fornire tutela proprio a coloro che accedono alle strutture di trattenimento senza alcun radicamento anagrafico”. Il Garante aggiunge che si configurerebbe come una violazione del divieto di discriminazione censurabile in sede giudiziaria e si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali della Carta costituzionale. L’incontro di giustizia che dà voce al futuro di Luisa Brambilla Corriere della Sera, 21 gennaio 2023 È tra le novità della Riforma Cartabia: chi è accusato di un reato e la vittima possono accordarsi per avere un colloquio chiarificatore. Che non cancella il processo, ma dà strumenti per guardare avanti. Ne parliamo con Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale alla facoltà di Scienze Politiche e sociali dell’università Cattolica di Milano, che ha partecipato alla stesura della Riforma. Una stanza luminosa. Sei persone sedute attorno a un tavolo. Qualche tazza per il tè. Un piatto di biscotti. Un vaso di fiori. Dei sei presenti due sono mediatori, altri due sono figure di sostegno dei veri protagonisti: la donna che ha subito una feroce aggressione sessuale e chi l’ha commessa. È il set di “The Meeting”, docu-film di Alan Gilsenan che ricostruisce in modo fedele l’incontro tra la vittima, Ailbhe Griffith, che nella pellicola interpreta se stessa, e un attore che indossa i panni del vero sex offender, Martin, e ne ripete parole e gesti (il trailer si può vedere su Youtube, il film su vimeo.com). Il confronto si è svolto in Irlanda nove anni dopo i fatti, quando il responsabile del reato era già uscito di prigione. In uno dei momenti più drammatici della narrazione, Ailbhe guarda dritto negli occhi Martin e chiede: “Quella volta, avevi intenzione di uccidermi?”. “Questa domanda nel processo penale non può trovare posto” commenta Claudia Mazzucato, professore associato di Diritto penale nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’università Cattolica di Milano. La intervisto dopo aver condiviso la proiezione del docu-film con i partecipanti al seminario dell’alta scuola Federico Stella sulla Giustizia Penale, di cui lei è membro. “Chi ha subito il reato, qualunque reato, partecipa al processo come persona offesa o parte civile che chiede un risarcimento. Ma il procedimento penale si incentra sull’accertamento del reato, e sulla quantificazione della sanzione da comminare all’imputato, se giudicato colpevole. Per questo è difficile che arrivi una risposta sincera a una domanda come questa, che potrebbe aggravare la posizione processuale. Invece la giustizia riparativa dà voce alla vittima, le permette di esprimere con nettezza quel che sente e quel che pensa a chi l’ha danneggiata. E ascoltare le sue parole”. Claudia Mazzucato ha fatto parte del gruppo di lavoro incaricato nel 2021 dall’allora ministra della Giustizia di redigere la disciplina organica della giustizia riparativa confluita nel decreto legislativo 150/2022 di attuazione della Riforma Cartabia entrata in vigore il 30 dicembre scorso (ma applicabili dal 30/6/2023). Per questo le chiediamo di parlarci di questo approccio alla giustizia che è già stato sperimentato in varie parti del mondo. E che si sta cercando di portare in modo più organico in Italia. La giustizia come la conosciamo, la giustizia con la bilancia, serve a separare chi ha commesso un reato e chi l’ha subito. Per impedire che questi, o chi lo rappresenta, applichi una vendetta “smisurata”. La giustizia riparativa, invece? È vero, la giustizia con la bilancia è nata per frenare una ritorsione incontrollata. Ma la personificazione della giustizia nell’iconografia tradizionale oltre alla bilancia prevede anche la spada e la benda sugli occhi. Con la spada, si intende perciò retribuire il male con il male di segno opposto della pena, determinato con misura e limite. Questa idea di giustizia che è radicata in noi e viene applicata ovunque nei rapporti umani, ben oltre i tribunali, si basa sul presupposto che è giusto far del male a chi ha fatto del male. E che il reato si combatte con qualcosa che gli assomiglia (emblematica in certi ordinamenti la pena di morte per chi ha commesso un omicidio). Poi c’è la benda sugli occhi... Significa che il giudice non deve farsi condizionare dalla particolarità della vicenda, non deve conoscere le storie pregresse di vittima e colpevole. È lì per accertare il reato e sanzionarlo. E la pena si subisce, punto. L’imputato ha un ruolo passivo, è l’oggetto del giudizio. La vittima è marginalizzata dal processo nel ruolo di testimone più che di persona offesa. Che cosa offre di diverso la giustizia riparativa? Al percorso che porta all’incontro di giustizia riparativa, vittima e accusato del reato partecipano volontariamente, con un fine costruttivo. Il decreto 150/2022 introduce la possibilità di un incontro riparativo come opzione volontaria accessibile in ogni stato e grado del giudizio e nel corso dell’esecuzione e ne definisce le caratteristiche: deve essere libero, volontario, consensuale e confidenziale. La giustizia riparativa si gioca sulla libertà... Sì. Sul consenso unanime. Chi ha subito e chi è accusato del reato devono voler intraprendere questo percorso. Ogni passaggio viene concordato tra le parti dai mediatori, ognuno può abbandonare l’iter in qualunque momento. È una modalità attiva di ritornare sull’evento che ha attraversato per sempre la vita delle due persone. È una situazione molto potente, di lotta non violenta: aver scelto di essere lì uno di fronte all’altro chiede una disponibilità incondizionata a rispondere anche alle domande sgradevoli, alle accuse. La giustizia retributiva è rivolta al passato, al male commesso, quella riparativa è rivolta al futuro, per liberarlo dal rischio che quel male si ripeta. L’incontro non lascia le due persone come erano prima, c’è sempre una trasformazione. Se ancora in taluni casi non sembra possibile fare a meno della pena, inserire l’opportunità di ricorrere alla giustizia riparativa non lascia il campo alle sole logiche repressive di sanzione del passato. Che ragioni può avere la vittima, o chi le sopravvive, per chiedere questo incontro? In ogni percorso c’è una dose di unicità. Chi come me pratica la giustizia riparativa può indicare alcune motivazioni ricorrenti. C’è chi ha bisogno di sapere qualcosa dall’altro (“Perché hai scelto me?” è la domanda che molti fanno), di raccontare chi è e quali ripercussioni ha avuto il reato. C’è chi vuole poter tornare a fidarsi degli altri. O uscire dalla condizione di vittima in cui è rimasto cristallizzato. Non si tratta di cancellare il passato, di perdonare, ma di tornare in possesso della propria vita e guardare avanti. E c’è chi capisce che l’odio che prova per il colpevole sta avvelenando l’esistenza sua, dei figli e della famiglia e cerca una via per smettere di odiare. E il colpevole? C’è chi è schiacciato dal peso di quello che ha fatto. C’è chi tenta di chiedere legittimamente una riduzione di pena. Le finalità utilitaristiche non devono scandalizzare. Va sottolineato infatti che i vantaggi che l’imputato/accusato/colpevole può trarre dalla giustizia riparativa li potrebbe ricavare per altre vie, sicuramente meno impegnative sul piano personale. Vittima, colpevole. Qualcun altro può proporre quest’incontro? E qual è il momento giusto per farlo? Anche l’autorità giudiziaria o il difensore possono proporre questa procedura. Che nessuno comunque è tenuto ad accettare se non la ritiene adatta a sé. Va sottolineato che il mediatore ha l’obbligo di informare la persona offesa, qualora il procedimento si avvii prima della conclusione del processo penale, che l’incontro potrebbe mitigare la pena dell’imputato. Non c’è poi un momento giusto a priori per entrare in questo cammino. Bensì un tempo soggettivo che matura in modo diverso per ciascuno. Come si articola il colloquio? Premesso che c’è una serie di contatti preliminari tra i mediatori e le parti, per raccogliere il consenso informato al confronto, nessuno sa in anticipo che cosa succederà. I due protagonisti sono avvertiti che si tratterà di sporgersi sull’ignoto, per fare un passo verso l’altro. Quello che avviene dipende poi da ciascuno e da tutti. Non si deve pensare che in questi incontri si fronteggino solo persone che hanno ruoli ben definiti: la vittima e il reo. Ci sono contesti in cui quella che è la vittima di una specifica situazione in un’altra è stata l’aggressore. Può capitare quindi che a porgere le scuse non sia soltanto il colpevole, ma anche chi il reato in questo caso l’ha subito. Ha accennato che il colpevole può trarre vantaggio dall’incontro per quanto riguarda la riduzione della pena. Può spiegare meglio? Premessa: sotto la nozione di giustizia riparativa sono ricompresi programmi diversi con i quali in tutto il mondo (Europa, Nuova Zelanda, Usa e Canada, dove è stata introdotta per la prima volta nel 1974) si gettano le basi di un confronto potenzialmente sincero tra vittime e accusati o responsabili. Secondo quanto stabilito in Italia dal decreto legislativo 150/2022, l’incontro riparativo che si conclude con impegni precisi simbolici e/o materiali viene valutato dal giudice al fine della mitigazione della pena. Se c’è un accordo sul risarcimento del danno, redatto insieme ai mediatori in modo molto preciso e stringente, viene meno la necessità di un’azione civile. Tenendo presente che la giustizia riparativa si può applicare a ogni genere di reati, da quelli violenti a quelli di impresa, ai reati ambientali, negli impegni può rientrare, ad esempio, l’accordo per la bonifica di un sito inquinato. O impegni comportamentali che l’autore del reato si assume; ad esempio se ha agito sotto effetto di alcool o di sostanze, può vincolarsi a un percorso terapeutico. E poi c’è quasi sempre un esito simbolico che si concretizza nelle scuse. C’è chi chiama questo modo di amministrare la giustizia perdonismo. Cosa risponde a chi muove questa accusa? Provate a scoprire in prima persona quanto costa percorrere quella strada per chi ha sbagliato. Gli incontri sono confidenziali, ma per chi volesse avvicinarsi all’esperienza riparativa ci sono libri, testimonianze, documentari. Oltre a “The Meeting” (il film citato nell’introduzione, ndr) restando sul tema della violenza delle donne, si può vedere il film “A better man”, che racconta il percorso di uscita dalla violenza domestica (trailer e visione integrale, in inglese, su abetterfilm.com). Sull’esperienza italiana, di incontro tra vittime e responsabili della lotta armata, c’è “Il Libro dell’incontro”, di cui sono curatrice con Adolfo Ceretti e Guido Bertagna (2015, Il Saggiatore). Tornando alla domanda posta da Ailbhe, la protagonista di all’aggressore, che risposta ha avuto? Martin sulle prime ha tergiversato, dicendo che non avrebbe saputo rispondere, che era confuso. Poi ha ammesso che se non fosse stato fermato (l’aggressione è avvenuta all’alba per strada, due uomini sono intervenuti e l’hanno bloccato, ndr) forse sarebbe andato fino in fondo, uccidendola. “Non ci saresti più, avrei rovinato la mia vita. E non saremmo qui adesso, a parlarne, insieme” ha concluso. “Polemiche sbagliate sulla riforma Cartabia, l’ambito penale andava ridotto” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 gennaio 2023 Il professor Manes, già componente della commissione insediata dalla ex ministra: noi conseguenti con anni di dibattito, le modifiche sulla procedibilità a querela che adesso vuol fare il governo non sono correzioni. “Le intercettazioni sono ovviamente uno strumento fondamentale per le indagini, ma uno strumento particolarmente penetrante nelle vite private. Il problema è sempre quello di rintracciare un equilibrio tra i valori costituzionali in gioco”, premette il professor Vittorio Manes, docente di diritto penale a Bologna, avvocato, già componente della commissione insediata dall’ex ministra Cartabia per la riforma del codice di procedura. “La Corte di giustizia Ue - prosegue - ha indicato questo equilibrio ad esempio nel campo analogo della conservazione dei dati, segnalando che determinati strumenti di indagine possono essere utilizzate per reati particolarmente gravi. In materia di intercettazioni il nostro codice prevede analoghi limiti, prevedendole solo per reati puniti sopra 5 anni e stabilendo ulteriori limiti. Dopo di che l’escalation sanzionatoria degli ultimi anni sull’onda di un vero e proprio populismo penale ha spinto ad alzare le pene indiscriminatamente e dunque a estendere la possibilità di intercettare, spesso sulla base di elementi che non configurano neanche una notizia di reato”. Quali sono i problemi principali secondo lei? Due. Il primo riguarda la divulgazione sistematica degli ascolti. Le intercettazioni per il codice sono mezzi di ricerca della prova, una volta pubblicate nell’immaginario si trasformano fatalmente in prove fatte e finite. Invece devono sempre essere verificate, contestualizzate e depurate dal materiale privo di rilevo penale e comunque irrilevante. Il secondo problema riguarda il travolgimento dei diritti dei terzi coinvolti. Magari terzi che non hanno nulla a che vedere con la vicenda di reato e che restano impigliati nelle intercettazioni una volta diffuse. L’impiego estensivo del trojan crea problemi nuovi? Aggrava quelli esistenti. Il trojan è uno strumento micidiale che amplifica la capacità investigativa, ma d’altra parte acutizza tutti gli aspetti di violazione della riservatezza accendendo una luce a giorno sulla vita integrale di una persona. Strumenti così invasivi possono essere ragionevoli solo in contesti particolari, come mafia e terrorismo, che ne giustificano l’impiego. Il governo vuole adesso ripristinare la procedibilità d’ufficio per una lunga serie di reati minori, nei giorni scorsi si era accusata la riforma Cartabia di favorire l’impunità nei casi in cui manca la querela. Che ne pensa? A me è sembrata da subito una polemica mal posta. La riforma Cartabia è stata conseguente con quarant’anni di dibattito e di invocazione di una riduzione dell’ambito del penalmente rilevante. Ha scommesso su alcuni istituti: deflazione processuale, particolare tenuità del fatto, procedibilità a querela per cercare di ridurre l’ambito penale. Ma va detta una cosa. Prevedere la querela non significa fare una depenalizzazione. La querela è uno strumento di “restituzione” del conflitto alle parti. Lo Stato prevedendo la querela non manifesta il disinteresse ad agire ma semplicemente subordina il proprio interesse a quello della parte, quando i valori in gioco sono principalmente privatistici. Tant’è che se la parte manifesta la volontà di agire lo stato la accompagna e dà seguito a quell’interesse. Bene. Adesso si vuole introdurre la procedibilità d’ufficio per tutti i reati a querela quando è prevista l’aggravante del metodo mafioso? D’accordo. Ma si poteva fare prima, durante e dopo la riforma Cartabia. La maggioranza ha detto - anche formalmente approvando un ordine del giorno - che intende ritornare al regime della prescrizione sostanziale. Abbandonando quindi il nuovo istituto della improcedibilità introdotto dalla riforma. È favorevole? Penso che la cosa veramente importante sia stata superare il grosso limite della riforma Bonafede, quando si era sostanzialmente introdotto il processo senza fine. Dopo di che se adesso si intende tornare in pieno al regime della prescrizione sostanziale dal mio punto di vista non posso che condividere. Abuso d’ufficio. Il ministro Nordio ha detto giovedì alla camera che fosse per lui abolirebbe il reato. Ma che comunque sarà ridimensionato. Lei è d’accordo? Ben venga la ricerca di una migliore tipizzazione di questo ma soprattutto di altri reati contro la pubblica amministrazione. A mio avviso oggi sono soprattutto altre fattispecie ad avere uno spettro applicativo eccessivamente ampio, con l’effetto di creare un’eccedenza punitiva. Si riferisce per esempio al reato di traffico di influenza? Sì. È un reato emblematico di una tipicità debole, persino ubiquitaria cioè imprevedibile. Soprattutto in un contesto come il nostro dove non c’è una chiara distinzione tra l’influenza illecita e l’influenza lecita e non c’è ancora una disciplina chiara dell’attività di lobbing. “Ogni modifica della riforma penale è un rischio per il Pnrr” di Giulia Merlo Il Domani, 21 gennaio 2023 Mitja Gialuz, ordinario di procedura penale a Genova e membro della commissione Lattanzi che ha scritto la riforma, rifiuta le critiche di chi dice che chi ha scritto la riforma penale non conosce la vita vera dei processi nei tribunali. La modifica della procedibilità di alcuni reati, diventati perseguibili a querela, ha prodotto uno scontro tra professori e magistrati. Mitja Gialuz, ordinario di procedura penale a Genova e membro della commissione Lattanzi che ha scritto la riforma rifiuta questa contrapposizione tra teoria e prassi giuridica e avverte il governo, che è è già intervenuto con alcuni correttivi: il rischio è quello di disallineamenti che rischiano di influenzare anche il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. E’ vero che i professori non conoscono il processo in concreto? I professori sono spesso anche avvocati e le aule di giustizia le frequentano. Però hanno il privilegio di guardare la mondo della giustizia in maniera indipendente, fuori da logiche corporative e di interessi. I professori che hanno lavorato alla Cartabia hanno preso atto, sulla spinta del vincolo esterno del Pnrr, di un sostanziale fallimento della giustizia penale e si sono interrogati su come correggere le storture di quello che è prima di tutto un servizio pubblico per i cittadini. La critica è stata anche che, basandosi sui dati, si siano scelti i reati sbagliati a cui cambiare la procedibilità, come le lesioni e il sequestro di persona... Per ridurre la domanda di giustizia esistono due strade. Una è la depenalizzazione in astratto e i dati ci dicono che i reati che più incidono nella prassi sono quelli sugli stupefacenti e quelli legati all’immigrazione. Ci sono le condizioni politiche oggi, o c’erano ieri nel governo Draghi, per depenalizzarli? No. Allora la via è stata quella della depenalizzazione in concreto, aumentando i reati perseguibili a querela e razionalizzando l’obbligatorietà dell’azione penale. Anche le modifiche all’obbligatorietà hanno provocato dibattito, ma per ora nessuna richiesta di modifica... Lo spero. L’introduzione dei criteri di priorità da parte del parlamento per l’obbligatorietà dell’azione penale serve a tutelare questo principio, rendendo però trasparenti e condivise le scelte che oggi i pubblici ministeri già sono costretti a compiere, perché il nostro sistema penale semplicemente non può sopportare un processo per ogni notizia di reato. Questa riforma potrà avere delle asimmetrie ma, per vederle davvero, bisogna prima farla funzionare. I magistrati avevano sollevato dubbi ex ante, mentre scrivevate la riforma? Non mi pare che il Csm abbia sollevato perplessità e nemmeno il parlamento. Quella della modifica della procedibilità non è stata una scelta dei professori ma del parlamento, che con legge delega ha indicato la direttiva chiara della estensione della perseguibilità a querela. Il ministro Carlo Nordio ha già presentato i correttivi in un disegno di legge governativo, riportando sotto la perseguibilità d’ufficio tutti i reati in caso di aggravante mafiosa. La vostra è stata una dimenticanza? Ha detto bene: tutti i reati, non solo quelli toccati dalla riforma. Noi non abbiamo dimenticato nulla, perché il problema di come gestire l’aggravante mafiosa si pone da quando è stata introdotta, all’inizio degli anni Novanta. La riforma è intervenuta sulla criminalità medio bassa e non sulla criminalità organizzata, mentre il recente intervento del governo tocca tutti i reati nel caso di questa aggravante. Sono alle porte altre modifiche, come quella sulla prescrizione... Mi sembra irragionevole introdurre la quarta riforma in cinque anni, anche perché creerebbe disallineamenti spaventosi, provocando enorme incertezza. Ora c’è un contemperamento ragionevole tra i diversi valori in gioco, lasciamo che la riforma produca effetti. Questi interventi potrebbero produrre problemi, visto che la riforma è stata studiata per incontrare gli obiettivi del Pnrr? Ogni modifica rischia di impattare sui fondi europei, per questo sarebbe meglio lasciar lavorare la riforma, monitorarla con attenzione e solo dopo intervenire con ragionevolezza. La riforma ha già prodotto effetti indiretti positivi ancor prima di entrare in vigore, perché ha sollecitato gli uffici giudiziari a modificare il modo di lavorare, anche grazie all’ufficio del processo. Il risultato è stato una diminuzione del disposition time del 15 per cento. È la dimostrazione che spesso sono più utili le modifiche organizzative, che i ritocchi processuali. Ma se si delegittima la riforma e passa il messaggio del liberi tutti, si ritornerà al passato e gli obiettivi rischiano di essere mancati. Il rischio è che ora i tecnici diventino il capro espiatorio degli errori, perché è più facile attaccare loro che i politici? Negli ultimi trent’anni, la giustizia penale è stata terreno di guerre di religione. Il governo Draghi ha affrontato la giustizia in modo laico e pragmatico, ragionando, come si fa in Europa, sui numeri con approfondimenti indipendenti. Ora sbaglierebbe la politica se volesse riappropriarsi delle bandierine ideologiche, dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, che sono temi sicuramente importanti ma non prioritari per i processi che interessano i cittadini. Nordio fa tornare l’Italia ai tempi di Tangentopoli di Francesco Merlo La Repubblica, 21 gennaio 2023 Con lui il Paese si risveglia nel passato: giustizialisti contro garantisti, giudici contro politici. Neppure concentrando le loro forze, i vari De Magistris, Woodcock, Ingroia e via indietreggiando sino all’insuperabile Di Pietro, avrebbero saputo inventarlo meglio - e forse sarebbe giusto dire peggio - di così. Carlo Nordio suona infatti la carica come se fosse il ministro di Astio e Giustizia: “la democrazia dimezzata”, “il Parlamento supino”, “il pasticcio colossale”, “voi vedete mafia dappertutto”. Come se scrivesse il capitolo finale del suo libro “Giustizia ultimo atto”, Nordio si intesta dunque “la rivoluzione copernicana” e si trasforma nel Giustiziere della Giustizia. Ed è come se davvero diventasse quel Charles Bronson al quale tanto somiglia fisicamente e del quale, è vero, c’è qualcosa in ciascuno di noi quando ci ricordiamo per esempio, della ministra Federica Guidi che dice al marito “mollami, tu mi tratti come una sguattera del Guatemala” o delle intercettazioni di quella disgraziata inchiesta denominata Vallettopoli quando il Pm di potenza John Henry Woodcock, divenne megafono di vizi privati, gestore di una videospazzatura a base di donnine, droga, yacht e transessuali. A nessuno piace che la propria vita privata finisca sui giornali, ma che goduria quando ci finisce quella degli altri, si tratti di Vittorio Emanuele o di Fabrizio Corona oppure di Silvio Sircana o ancora di Piero Fassino. Le intercettazioni secondo Nordio - Ebbene, anche quando denunzia giustamente l’inutile invadenza delle intercettazioni, il linguaggio mette subito Nordio dalla parte del torto. Davvero mercoledì scorso in Parlamento, la sua faccia sembrava quella incaica da immigrato lituano del giustiziere della notte che, virilone e spietato, trattava la magistratura come una bestia da addomesticare, usava il disprezzo e il dileggio, era il duro che emette la sentenza ed esegue la condanna, il borghese piccolo piccolo disegnato da Cerami per Alberto Sordi che in preda a nevrosi spericolate si mette a sparare. Infatti, mettendo le dita nella presa elettrica, è arrivato a “sparare” che le intercettazioni sono controproducenti perché “al telefono il vero delinquente non parla mai e se lo fa, dando per scontato di essere sotto controllo, racconta un sacco di fandonie per depistare gli investigatori”. Tutti sanno che Matteo Messina Denaro, che di telefoni ne aveva due, è stato intercettato e catturato mentre Nordio, ormai cattivo per bontà, è diventato il ministro della Giustizia come lo vuole Marco Travaglio, il perfetto contraltare dei manettari e dei giustizialisti, il loro uguale e contrario. Un salto nel passato - Ma così, grazie a Nordio, l’Italia precipita nel passato, si risveglia trent’anni fa in piena apocalisse, in pieno giudizio universale: giustizialisti contro garantisti, giudici contro politici. Con la differenza che oggi le posizioni si spostano e si rimescolano in ciascuno di noi perché la storia è stata lunga e siamo stati tutti un poco bianchi con il sindaco di Lodi Simone Uggetti, molto maltrattato dai Pm, ma siamo sempre neri contro i mafiosi e contro i corrotti perché in fondo in Italia non c’ è nulla di più valoroso e di più pulito della spazzatura, visto che quel che di importante è accaduto lo abbiamo appreso dalla spazzatura: dalla spada di latta del generale De Lorenzo al bunga bunga di Stato del cavaliere Berlusconi. In un paese dove tutto era falso e paludato, era posticcio e imbellettato, la verità spesso si trovava nella spazzatura. Così dalla spazzatura di Tangentopoli fiorì Di Pietro e nella spazzatura del “questo io lo sfascio” sfiorì Di Pietro. Rovistando nel sacco dell’immondizia abbiamo illuminato la morte di Giuliano e il delitto Montesi; l’emblematico Pasolini è morto nell’immondizia; la P2 era un grattacielo di immondizie. Nell’immondizia abbiamo trovato il caffè di Pisciotta ma anche il bacio di Andreotti. E nella spazzatura si innalzarono come grandezze le miserie di Maradona e di Pantani. Dunque, si calmi, per favore, signor ministro, l’Italia è andata avanti, ma lei sembra ibernato. Anche la trattativa stato-mafia è stata spazzata via dai giudici di merito. E l’antimafia di Palermo ha perso quella faccia da “la storia siamo noi “. Oggi i procuratori De Lucia e Guido sembrano garantisti e liberali di Bloomsbury. Metta a confronto l’arresto di Totò Riina, esposto e trascinato nella gogna, sotto la regia di Caselli con quello di Matteo Messina Denaro che senza manette è stato accompagnato e curato persino da una gentile carabiniera. E per l’omicidio di Yara, ancora nel 2011, Bossetti fu arrestato in diretta, perfetto colpevole ben prima del giudizio perché si faceva le lampade e aveva le sopracciglia ossigenate. E invece l’anno scorso, al Montarone, quando crollò la cabina e il reato era l’orribile strage colposa, il Gip non convalidò il fermo e infatti nessuno si ricorda com’erano fatti quegli imputati sottratti dal garbo del Diritto al destino di capri espiatori. E a Torino, senza insultare nessuno, Armando Spataro, quand’era capo della procura, vale a dire sino alla fine del 2018, rese esemplare l’uso delle intercettazioni. Il rancore ottunde l’intelligenza e può diventare persino ideologia politica come dimostrarono gli allora ministri Matteo Salvini, agli Interni, e Alfonso Bonafede, alla Giustizia, che si precipitarono a Ciampino per accogliere quel Cesare Battisti con il quale furono solidali di ghigno e di grugno: quello si atteggiava a vittima, mentre loro due si atteggiavano a boia. Rancore problema italiano - É vero che il rancore è un grande problema italiano. Ma proprio la recentissima autobiografia di Nordio, affascinante perché scritta come l’autobiografia di una nazione, dimostra che con il rancore non si amministra giustizia. Nordio racconta di essere stato “convocato dai probiviri dell’Anm, che non è un organo istituzionale, ma un semplice sindacato” per rendere conto di certi suoi scritti critici: “potevo anche mandarli al diavolo ed è quello che feci: risposi pubblicamente al Tg1 che si trattava di un metodo stalinista, che non ci sarei andato neanche dipinto, e che se mi avessero espulso avrei risparmiato la quota annuale devolvendola da buon gattaro alla protezione animali”. Ma si vendicarono e, quando arrivò la dovuta promozione a magistrato di Cassazione “fui promosso con l’astensione di nove membri, caso rarissimo nella magistratura. Mi fu suggerito di fare ricorso o almeno di attivarmi affinché quelle valutazioni critiche non fossero inserite nel mio fascicolo personale, ma risposi che al contrario ne ero ben lieto perché quelle astensioni erano solo sibili di rancore, per me un elemento di orgoglio”. Eccoli “i sibili di rancore” esibiti come “orgoglio”. Attaccato come un ragno al filo di quel rancore Nordio non cerca, come tutti noi, il punto di equilibro tra l’uso lecito delle intercettazioni e l’inutile violazione della vita degli altri, tra il dovere delle indagini e il diritto alla riservatezza ma ci trascina in un’Italia che non esiste più. E leggendo il suo libro lo capisco bene quando arrivo al nome di Elena Paciotti, che oggi ha 82 anni, ed è ovviamente in pensione: “Tempo dopo un giornalista chiese alla dottoressa Elena Paciotti, allora presidente del sindacato e successivamente eletta nelle liste del Pds al Parlamento europeo, che fine avesse fatto la vicenda Nordio. La collega rispose con soave indifferenza che il problema non gli interessava più. Nondum matura est. Ci avevano provato”. Ecco, si può rivelare la verità su noi stessi anche così, acchiappando memorie che ancora fluttuano dense di scontri. E come la signora del film “Good by Lenin”, che si addormenta nella Berlino comunista e si risveglia nella Berlino senza muro, ma nessuno le dice nulla, il passato diventa il presente. Carlo Nordio si batte contro il morto e intanto uccide il vivo. Nordio diventa un caso: “Deve darsi una calmata...” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 gennaio 2023 Le uscite del guardasigilli agitano Fratelli d’Italia. E qualcuno pensa già all’opzione Bongiorno. Il Guardasigilli Carlo Nordio rappresenta un problema per la maggioranza di destra-centro? Lecito chiederselo alla luce del fatto che proprio il ministro della Giustizia, quello più voluto e sostenuto dalla premier Giorgia Meloni, sia quello che sta creando più problemi al Governo in questi giorni. Candidato un anno fa da Fratelli d’Italia addirittura alla presidenza della Repubblica, ora rappresenta una vera grana soprattutto per Fratelli d’Italia; eppure Meloni lo aveva fortemente sponsorizzato anche quando Silvio Berlusconi stava minacciando di far saltare l’alleanza perché voleva a via Arenula Maria Elisabetta Alberti Casellati. Oggi però le posizioni di Nordio stanno diventando un problema per l’esecutivo, a partire dal tema delle intercettazioni. E dalla sua frase di un mese fa a La7: “Crediamo veramente che la mafia parli per telefono? Un mafioso vero non parla né al telefono, né al cellulare perché sa che c’è il trojan, né in aperta campagna perché ci sono i direzionali”. In questi giorni alla Camera e al Senato ha aggiustato il tiro - “non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo” - ma non è bastato a placare i malumori. Senza dubbio quelli del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle, ma altresì quelli del partito che lo ha fatto eleggere e anche della Lega. Se Nordio ha il pieno sostegno di Forza Italia (moltissimi gli applausi durante la sua relazione alle Camere), qualcosa scricchiola altrove. Da un lato apparentemente Fratelli d’Italia rimane compatto intorno all’ex pubblico ministero, dall’altra parte sono costretti a correre ai ripari con interviste, precisazioni e dichiarazioni in televisione per tradurre e mitigare il pensiero di Nordio. Mentre lui tira dritto come un treno, gli altri sono costretti a buttare acqua sul fuoco. Anche perché le offensive dell’ex procuratore - “l’Italia non è fatta di pm e questo Parlamento non deve essere supino e acquiescente a quelle che sono le posizioni dei pm”, ha detto due giorni fa alla Camera dei Deputati - rischiano di vanificare l’intenzione della premier di alleviare le tensioni con i magistrati. Ed è quasi paradossale che nella settimana in cui è stato catturato il boss Matteo Messina Denaro anche grazie alle intercettazioni il ministro della Giustizia sia stato capace di inimicarsi tutto il fronte antimafia. Nordio manca di esperienza politica? Lui continua a dire quello che ha sempre ribadito in questi anni da magistrato, autore di libri ed editorialista, rimane fedele a se stesso senza compromesso di sorta. Ne erano consapevoli di questo in FdI? Sembra di sì, a sentire quanto detto dal presidente del Senato Ignazio La Russa due giorni fa in televisione: Nordio “ha detto chiaro e tondo a Giorgia “io mi candido, ma ho le mie idee, devo avere la possibilità di esprimerle” e ha trovato un partito che gliele fa esprimere le proprie idee, che non lo ingabbia”. Eppure sono stati costretti a correre ai ripari. Come il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che proprio quattro giorni fa, mentre Nordio sparava su captazioni, trojan e abusi dei magistrati, correva in tv a placare la polemica: “Le procure non saranno mai private delle intercettazioni”. O come l’onorevole Federico Mollicone, che va sempre a La7 a ribadire che Nordio “è uno dei fiori all’occhiello del nostro Governo”. Costretto a scendere in campo anche il sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano: “Per i reati spia restano le cimici, tranquilli: però senza gli abusi ignobili delle conversazioni private sui giornali. Questo vuole dire il ministro, ma si fa coinvolgere forse da vecchie battaglie. E alla Camera lo ha detto. Certo, meglio di mercoledì in Senato con quella scivolata mostruosa con i boss che non parlano al cellulare”, ha dichiarato a Repubblica. Tuttavia dietro le quinte di Fdi, qualcuno mormora che il ministro deve darsi una calmata nelle sue esternazioni, essere più tattico e sfoggiare più capacità di mediazione. Invece alla piena luce del sole è la responsabile giustizia del Carroccio, la senatrice Giulia Bongiorno, a fare un passo indietro rispetto ai desiderata del responsabile di via Arenula che non ha ancora fornito rassicurazioni sul tema di intercettazioni e reato di corruzione, mentre l’avvocato di Salvini rassicura: “È un reato grave per cui non si può escludere l’uso delle intercettazioni”. Tensione in maggioranza vi erano state qualche giorno fa anche sull’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. Su questo tema infatti sempre la Bongiorno non è d’accordo con Nordio: “Ritengo opportuno un intervento legislativo diretto a tipizzare ulteriormente in maniera più precisa possibile la condotta dell’abuso, vista la tendenza della giurisprudenza a dilatare l’ambito applicativo, ma non credo che sia auspicabile l’abrogazione”. Si risaneranno queste spaccature? Il ministro della Giustizia due mesi fa sembrò convinto di non voler cedere su alcune battaglie: “Questa - disse sempre in tema di abuso nella pubblicazione delle intercettazioni - non è civiltà, questa non è libertà, questa è una deviazione dei principi minimi di civiltà giuridica per la quale questo ministro è disposto a battersi fino alle dimissioni”. Qualcuno sostiene che alla fine andrà così e che è già pronta la Bongiorno a prendere il suo posto. Nordio isolato confida: “Posso lasciare”. Calenda: “FdI è giustizialista” di Carmelo Caruso Il Foglio, 21 gennaio 2023 Il ministro viene arginato da Fratelli d’Italia per le sue uscite sulle intercettazioni e difeso da Lega e Forza Italia: “Stiamo buttando via le nostre battaglie liberali e garantiste”. I “campioni” si difendono o non si chiamano al governo. Carlo Nordio è un campione della Meloni o un ministro fastidioso? I quotidiani raccolgono firme contro di lui, parte della maggioranza lo tratta come un naïf. Dice Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera, deputato di Forza Italia, che “bisognerebbe essere all’altezza della sapienza giuridica di Nordio e riflettere sulla straordinaria opportunità che ha questa maggioranza ad avere un ministro della Giustizia come lui”. Il ministro della Giustizia potrebbe presto lasciare l’incarico. Lo ha confidato ad altre figure istituzionali: “Se non sono accettato posso tornare alle mie letture”. E’ la seconda volta che il ministro fa questa confessione. Gli era accaduto di pensarlo dopo il decreto sui rave. Venne accusato, anche dalla sua maggioranza, di essere allora poco garantista mentre oggi di esserlo troppo. La premier conosceva le opinioni di Nordio sulle intercettazioni, sulla civiltà giuridica e si è battuta per averlo candidato tanto da strapparlo alla Lega. Oggi Nordio è compatibile con FdI? Carlo Calenda, leader di Azione, dice al Foglio che “Nordio smaschera finalmente FdI che resta un partito giustizialista”. Si sta rompendo qualcosa tra il ministro che Mulé definisce la “punta di diamante del governo” e il partito di maggioranza che guida il governo. Forza Italia e Lega denunciano alla Camera la mancata difesa di un simbolo: “Lasciare trattare Nordio come uno scolaro, uno che la spara grossa, significa sconfessare vent’anni di battaglie liberali”. I governatori della Lega, due sue tutti, Attilio Fontana e Luca Zaia, possono testimoniare i guasti del circo mediatico-giudiziario. Quando Nordio si presenta in Parlamento chiedendo di non essere “mai supino ai magistrati” tocca le corde di Fedriga-Zaia-Fontana e nello stesso tempo rivendica l’antica battaglia di Forza Italia sulla giustizia. Secondo gli alleati della premier, FI-Lega, “il partito della premier ha dato prova in due giorni di essere subalterno alla cultura della gogna e dilapidato un successo come l’arresto di Matteo Messina Denaro”. Il ritiro della candidatura al Csm di Giuseppe Valentino, nome indicato da FdI ed estromesso per “un episodio che risale a vent’anni fa, senza rinvio a giudizio, non è altro che barbarie”. Oggi Nordio è il ministro dei liberali. Lo è ancora del governo Meloni? Roberto Giachetti, che è un irriducibile del diritto e deputato di Azione, dice che “questa destra fa anche la sinistra. Meloni non è coerente con quello che pensa. Alla premier va chiesto se sta con Nordio o con il suo responsabile della Giustizia, e sottosegretario, Andrea Delmastro che è l’anti Nordio”. È come se il governo si fosse inventato l’opposizione ombra. Lo fa con interviste come quella di Delmastro contro Nordio apparsa sul Corriere della Sera. Alfredo Mantovano, il sottosegretario alla Presidenza, è un garantista convinto, e non può che pensarla come Nordio. Dice ancora Calenda, che non esita a definire l’ex magistrato come “il miglior ministro del governo”, che “Nordio parla il linguaggio chiaro della verità ed è evidente che è un linguaggio che non appartiene a Meloni”. Estroso, intellettuale, complesso, poco popolare. Nordio è senza dubbio tutto questo, ma è anche una complessità che fa lustro a Meloni. Ecco perché per Mulé se non si vuol far torto a Nordio non resta che rifugiarsi nel suo amato Shakespeare e provarne a esserne all’altezza viceversa “quiete mortale invoco, vedendo il Merito a mendicare e la vuota nullità gaiamente agghindata”. Meloni sta con Zola o con Robespierre? Andrea Delmastro, ministro ombra della Giustizia di Federica Olivo huffingtonpost.it, 21 gennaio 2023 Intercettazioni, mafia, riforma Cartabia: c’è qualcuno che fa il controcanto a Nordio. E non è uno qualsiasi: è la voce della Meloni a via Arenula, incaricato di temperare le sortite garantiste del ministro. Il ministro alza la posta e lui corre ad abbassarla. Il ministro dice frasi di difficile interpretazione, che fanno indignare (sottovoce) l’ala oltranzista della maggioranza, e lui corre con l’interpretazione autentica. Quella di Fratelli d’Italia, si intende. E ancora, il ministro annuncia rivoluzioni, lui corre a circoscriverle. Al punto che di rivoluzione non si può parlare più. Andrea Delmastro delle Vedove, sottosegretario in via Arenula, plenipotenziario di Fratelli d’Italia per quanto riguarda la giustizia, si sta ritagliando sempre un ruolo sempre più importante. Da ministro ombra, o giù di lì. È l’addetto a stemperare le ire di chi - anche tra i meloniani - non condivide certe posizioni del ministro Carlo Nordio. E a mandare messaggi distensivi all’elettorato. Come a dire: “Tranquilli, passerà la nostra linea”. Sulle intercettazioni e su tutto il resto. Avvocato di Biella, un piede in via Arenula, un piede in Parlamento, Delmastro spesso attraversa il Transatlantico con passo spedito. Difficile vederlo di cattivo umore. Le parole d’ordine sono quelle di sempre, condite con qualche accenno di garantismo quando si tratta di eccesso di custodia cautelare per i reati contro la pubblica amministrazione o di sindaci indagati per abuso d’ufficio. “Noi siamo l’unico partito che non ha sostenuto quel referendum folle sulla custodia cautelare. Stai pur sicuro che non toglieremo le intercettazioni, che fino a quando ci sarà la destra al governo le misure cautelari per gli spacciatori ci saranno, che continueremo a fermare i criminali, che con la mafia il pugno di ferro sarà spietato”, tuonava, durante la festa di Fratelli d’Italia, rivolgendosi a Marco Travaglio, durante un confronto. Ironia della sorte, Delmastro si era trovato a sostituire Nordio all’ultimo momento. Il ministro avrebbe dovuto discutere di giustizia con il direttore del Fatto ma, inspiegabilmente, non si era presentato. Delmastro, con il piglio di sempre, ne aveva approfittato per sbandierare il manifesto meloniano della giustizia. Non esattamente coincidente con quello del ministro che proprio FdI ha voluto a dirigere via Arenula. Chiamato a dare garanzie sui programmi dei patrioti su criminalità, carceri, processi e simili, fino a poche settimane fa Delmastro poneva i distinguo in maniera pacata, attento a non dare l’idea di essere troppo in disaccordo con il suo ministro. Nelle ultime settimane, però, con le polemiche sulle parole di Nordio sulle intercettazioni - polemiche che si sono autoalimentate quotidianamente con le ripetute precisazioni del ministro - ha avuto un bel daffare. Sempre nell’ottica di “tranquillizzare” l’elettorato di FdI, abituato a un partito che ammiccava al giustizialismo e che invece ha scelto un ministro che vorrebbe cancellare alcuni reati, ridurre le intercettazioni e porre attenzione nei confronti del carcere. In una settimana infuocata dall’arresto di Matteo Messina Denaro, ecco che Nordio ribadisce la sua crociata contro le intercettazioni. O meglio, contro l’abuso che, sostiene, se ne fa. Per inciso, chi quotidianamente lavora con il ministro sa bene che la sua idea è quella di minimizzare le possibilità che le conversazioni intercettate possano finire nelle mani di chi non dovrebbe averle ed arrivare alla stampa. Eppure, con i suoi interventi alle Camere o sui media, il Guardasigilli sul punto non è mai stato chiaro, e così si è diffusa la convinzione - anche dentro Fratelli d’Italia, oltre che nella Lega - che fosse volesse andare un po’ oltre. Ed è proprio in questi momenti che Delmastro è intervenuto. Nel bel mezzo della tempesta, ha provato ad arginare i danni. Qualche esempio? Matteo Messina Denaro viene arrestato non molti giorni dopo che Nordio aveva sentenziato: “I mafiosi non parlano al telefono”. Ironia della sorte, le intercettazioni dei suoi sodali sono state fondamentali per la cattura de U siccu. Allora il ministro ha ristretto il campo, con poco successo: “Volevo dire che i mafiosi non parlano dei loro reati al telefono”, ed ha poi aggiunto che su mafia e terrorismo non sarebbe cambiata la disciplina. Ma siccome c’era bisogno di un’ulteriore rassicurazione, eccolo Delmastro, che prova a mettere la parola definitiva: “Le intercettazioni sono uno strumento essenziale per contrastare la criminalità. Con il governo Meloni, così come per il 41 bis, non verrà mai meno nessuna normativa per contrastare la criminalità”. Il riferimento al 41 bis - regime imposto a Messina Denaro - non è casuale. Il Guardasigilli, infatti, da quando è in via Arenula ha firmato vari decreti di carcere duro, quello nei confronti del super boss è solo l’ultimo, ma ha sempre mostrato qualche scetticismo rispetto a regimi di carcere più punitivi che rieducativi. Ancora sulle intercettazioni. Assodato che non si toccheranno quelle utili nelle inchieste su mafia e terrorismo, il ministro era stato vago su quelle che vengono fatte per i reati contro la pubblica amministrazione. Durante la presentazione della relazione sull’amministrazione della giustizia alla Camera ha fatto un fumoso riferimento ai “reati satelliti” della criminalità organizzata. “Ma la corruzione è tra questi?”, è stata la domanda, circolata a voce alta tra i banchi dell’opposizione ma anche, a sottoforma di qualche bisbiglio, tra i banchi di Lega e FdI. Anche in questo caso, ecco pronta la risposta di Delmastro, sulle pagine del Corriere della Sera, alla domanda “la corruzione è tra questi?”: “Assolutamente sì - dice il sottosegretario - perché molto spesso la mafia viene intercettata nel momento delicatissimo in cui i soldi sporchi diventano puliti”. Anche qui, il senso dell’operazione è chiaro. Ma, se vogliamo, lo diventa ancora di più quando finalmente il fedelissimo di Meloni disegna quelli che saranno i veri confini della (mini)riforma delle intercettazioni: “Bisogna intervenire da una parte con l’Ispettorato generale per verificare che non vi siano fuoriuscite di notizie dalle Procure stesse, dall’altra parte con una norma più stringente. E poi lo dico onestamente, sì, anche sui giornali”. Varrebbe la pena di ricordare che le fuoriuscite dalle procure di atti, magari contenenti anche intercettazioni, ancora coperti da segreto sono già reato - chiamasi rivelazione del segreto d’ufficio - e che per i giornalisti che pubblicano integralmente, non limitandosi al contenuto, intercettazioni non più coperte da segreto è prevista una pena pecuniaria (che la maggioranza propone in Parlamento di trasformare in carcere). Ma, al di là di questo, le parole di Delmastro hanno l’obiettivo di disinnescare quella che agli occhi di molti è parsa una bomba. E lasciano intravedere che, come già è accaduto per altri atti del governo, la montagna partorirà il topolino. Intercettazioni, ma non solo. Contrariamente al Guardasigilli - che considerava Marta Cartabia “il miglior ministro della giustizia dai tempi di Gonella” - a Delmastro la riforma del penale voluta dall’ex ministra non è mai piaciuta. A lui, così come al suo partito. E allora, quando si è iniziato a parlare degli effetti del provvedimento e dei rischi che - secondo i detrattori - si correvano facendo diventare alcuni reati perseguibili a querela, ecco che invece di accordarsi al ministro lo ha anticipato: “La riforma Cartabia va cambiata. I fatti successi sono gravissimi. E mi sento di poter assicurare che agiremo in fretta”, dichiarava il 13 gennaio. Il ministro si sarebbe esposto sul tema solo il giorno dopo. In questi giorni frenetici di dibattito più o meno superficiale sulla giustizia, la settimana di Delmastro finisce così: tra una giocata in difesa (della linea di FdI) e una in attacco (per scongiurare attacchi altrui). C’è da immaginare che, con le varie riforme della giustizia in cantiere, le prossime settimane non saranno più tranquille. Per lui e per tutta la maggioranza. C’è una complicata strategia di compromesso tra Meloni e Nordio di Salvatore Merlo Il Foglio, 21 gennaio 2023 Patto tra la premier e il suo ministro della Giustizia: a lei serviva scippare la giustizia alla “pelosità” di Forza Italia, raggiungendo un equilibrio tra nuove posizioni garantiste e giustizialismo storico della destra. Equilibrio che richiede però un ammorbidimento anche da parte dell’ex magistrato. Con l’obiettivo di una riforma ambiziosa. Lo apprezza, talvolta forse crede che lui un po’ esageri, dunque s’indispettisce e fa in modo che qualcun’altro, come il sottosegretario Andrea Delmastro, s’incarichi di correggerne le parole. Ma Giorgia Meloni se l’è scelto appositamente Carlo Nordio, il ministro della Giustizia. Ben sapendo chi fosse e come la pensasse questo ex magistrato ipergarantista e liberaldemocratico che è contrario all’ergastolo ostativo, che è sensibile ai diritti degli indagati e dei detenuti, e che vorrebbe circoscrivere l’uso delle intercettazioni. Limitarle, ben oltre quello che in realtà il governo si appresta a fare. Meloni sapeva, dunque, e sa benissimo con chi ha a che fare. D’altra parte, ancora prima che il governo si formasse, persino prima di aver vinto le elezioni, l’attuale presidente del Consiglio aveva già elaborato uno schema e un piano per la giustizia che prevedeva proprio Nordio ministro in nome di un principio che in alcune riunioni riservate lei stessa definiva “riduzione del danno”: non consegnare il ministero della Giustizia a Forza Italia, chiudere per sempre con la stagione delle leggi ad personam occupando e caratterizzando in maniera nuova quello spazio politico fin qui egemonizzato (in maniera “pelosa” secondo molti consiglieri di Meloni) proprio dal partito di Silvio Berlusconi. Ed ecco dunque Nordio. Per tagliare fuori Forza Italia dalla Giustizia, con l’obiettivo di non farsi trascinare da Berlusconi in meccaniche pericolose e dissennate, occorreva proprio “rubare” il garantismo a Forza Italia. Raggiungendo però - questo era (ed è ancora) il ragionamento empirico di Meloni - un complicato equilibrio tra queste nuove posizioni e il “giustizialismo” storico, per non dire atavico, dell’ Msi e di An. Quel genere di inclinazioni che sono popolari nell’elettorato di Fratelli d’Italia. Così Meloni, ancora prima delle elezioni, aveva individuato in Carlo Nordio la personalità che, per autorevolezza, biografia e limpidezza personale, potesse incarnare questa “strategia del furto”. Sulla base, però, di un compromesso. E di un accordo molto preciso che doveva determinare un ammorbidimento delle posizioni della destra legge e ordine, sì, ma anche di Nordio. Una via di mezzo, appunto. Ragione per la quale, in queste settimane, Nordio ha ceduto sull’ergastolo ostativo, mentre il partito di Meloni si appresta a un intervento sulle intercettazioni ispirato proprio da Nordio e dall’idea di riuscire a ridurne l’abuso. A Meloni non sfugge una cosa: il giustizialismo paga in termini elettorali. In un paese, l’Italia, dove si sono infatti spostati milioni di voti per effetto di uno scandalo corruttivo come Tangentopoli, il valore istruttivo, e per così dire pedagogico, di quel fatto enorme rappresenta, per gran parte della classe politica, la prova della bontà di questa filosofia generale. Cui Meloni, almeno sul piano comunicativo, non intende discostarsi poiché è ovviamente attentissima al consenso. E difatti non parla di giustizia, se non deve. Non interviene nemmeno per difendere Nordio. Ma, al di là della comunicazione, sul piano tecnico e operativo, la premier, come Nordio, intende intervenire non solo sulle intercettazioni ma pure su una più ampia riforma della giustizia che arrivi persino alla separazione delle carriere. Obiettivo ambizioso. Per questo, assieme a Nordio, coltiva la “strategia del compromesso” che porta a qualche ambiguità, sì, talvolta persino a delle incomprensioni tra lei e il ministro, ma che è pure l’unico sistema che Meloni ritiene sostenibile per intervenire sul sistema giudiziario senza pagare un dazio elettorale. Nordio sotto attacco perché non teme le toghe di Tiziana Maiolo Il Riformista, 21 gennaio 2023 Ma il problema è sempre lo stesso, ieri come oggi, e si chiama corporazione dei magistrati, soprattutto della parte più reazionaria e controriformista cui appartengono alcuni dei più famosi procuratori. Cui va aggiunta la piccola combattiva truppa di quegli ex che non sopportano l’idea di essere pensionati e poi anche di quelli che sono transitati in Parlamento con i Cinque Stelle. Tutti costoro non vorrebbero cambiare mai niente, nell’amministrazione della giustizia, aggrappati come sono alla forza straordinaria che il mondo della politica ha regalato loro fin dai tempi di Mani Pulite. E stiamo parlando di trent’anni fa. Un tempo lungo quasi quanto la latitanza di Matteo Messina Denaro, anni durante i quali qualcosa però è cambiato, e almeno se ne parla. Al termine di un lungo commento su Repubblica ieri Stefano Folli lo ha detto esplicitamente. Sono proprio le ultime tre righe, ma sono anche quelle che ti rimangono in mente, al termine della lettura: “..nessuno può sottovalutare il potere vero della magistratura e la sua forza anche mediatica”. Il che vuol dire teniamone conto, non lo dimentichi neppure il ministro. Ma nello stesso tempo si mette anche in guardia il lettore dal fatto che in democrazia mai toghe e divise dovrebbero aspirare al potere, e men che meno afferrarlo anche quando viene loro servito su un piatto d’argento, come accaduto in Italia. Ma viviamo in un paese in cui un direttore di giornale come Travaglio con gli ufficiali di complemento Gomez e Padellaro può addirittura permettersi di raccogliere le firme per far dimettere un ministro, oltre a tutto appena nominato. La cosa dovrebbe fare un po’ ridere, in quanto si tratta di firme del nulla, perché dovrebbero servire, un domani a promuovere un referendum abrogativo di riforme future. Campa cavallo, ma i furbini sanno bene che un po’ di tagliagole pronti al tifo da stadio per introdurre anche da noi qualche sistema iraniano lo troveranno tra i propri lettori. Ma c’è poco da ridere visto che il guardasigilli è già sbattuto sul banco degli imputati, anzi decisamente già in gabbia, visto il livello delle accuse messe sul piatto. L’imputato Nordio dovrà rispondere soprattutto di istigazione a delinquere solo per aver avuto il coraggio di dire al Parlamento di svegliarsi, di smettere di essere “supino” davanti ai pubblici ministeri. Viene accusato di aver pronunciato a voce alta quel che la maggior parte dei politici da anni sussurra nei corridoi e nel transatlantico di Montecitorio. Il coraggio di Nordio spaventa le toghe. Perché sanno che un ex pubblico ministero che per 40 anni ha conosciuto dall’interno della corporazione più controriformatrice ogni battito, ogni sospiro, ma anche i complotti e le tentazioni “golpistiche”, non è un interlocutore da sottovalutare, soprattutto da avversario. Soprattutto perché, dopo l’uscita dei due libri di Palamara e Sallusti, tanti cittadini si sono fatti sospettosi, non credono più alla neutralità delle toghe, guardano con diffidenza quella bilancia che dovrebbe rappresentare l’imparzialità dei giudici, ne hanno capito il ruolo politico. E non giovano alla reputazione delle toghe vicende come quella che ha visto come protagonista un eroe di mani Pulite come Piercamillo Davigo e neppure il fatto che un altro pm della procura di Milano come Fabio De Pasquale sia processato a Brescia perché sospettato Dice le cose come stanno, vuol davvero fare le riforme. Ma soprattutto conosce i suoi ex colleghi pm e al Parlamento ha detto: basta subalternità. Per questo il ministro fa paura e contro di lui è partito un assalto feroce di aver danneggiato nel processo Eni, nascondendo prove a loro favorevoli, gli imputati che oltre a tutto sono poi stati assolti. E’ davanti a questa tipologia di pubblici ministeri che il Parlamento vuol continuare a essere supino? E inoltre: dobbiamo lasciare le cose come stanno, quando un eroe di quei Ros che hanno anche arrestato Messina Denaro, uno come Mario Mori ha sofferto per 17 anni processi e accuse ingiuste e ingiuriose, e altre persone per bene estranee ai processi. Il problema politico oggi non è dunque quello della tenuta del ministro sui propri principi giuridici, perché qualche compromesso, come lui stesso ha detto, dovrà trovarlo. E non è neanche quello della tenuta della maggioranza, perché se sorprendentemente la premier ha voluto proprio lui, l’ex procuratore aggiunto di Venezia che non ha mai celato il proprio pensiero dietro nessuna forma di opportunismo, questo significa quanto meno che Giorgia Meloni ha in mente un piano di riforme sulla giustizia. Pur non coincidendo il suo pensiero totalmente con quello del guardasigilli da lei stessa scelto. Il punto sta in quelle tre righe finali dell’editoriale di Folli: nessuno può sottovalutare il potere vero della magistratura e la sua forza anche mediatica. E’ su quello che la politica deve oggi misurare la propria forza. Occorrerà essere politicamente armati, cioè rivendicare l’autonomia del Parlamento, e abbandonare la subalternità alle toghe. Non facile. spetta di fornire una risposta. Intercettazioni, voglia di bavaglio di Francesco Grignetti La Stampa, 21 gennaio 2023 Il partito di Meloni sposta l’attenzione sulla diffusione delle intercettazioni: “Bisogna intervenire sulle fuoriuscite di notizie dalle procure e anche sui giornali”. Piuttosto che ingaggiare un micidiale corpo a corpo con i magistrati, foriero di molti guai, e sicuramente fuori dal comune sentire del popolo della destra, il governo di Giorgia Meloni immagina già una via di fuga dal vicolo cieco dov’è finito con le esternazioni del ministro Carlo Nordio. E perciò, prima cosa, tutte le macchine legislative sono state fermate, quantomeno per un mese, fino alle elezioni regionali di Lombardia e Lazio. Secondo, se proprio si deve fare qualcosa sul tema delle intercettazioni, si colpisca l’anello debole, i giornalisti, e non quello forte, i magistrati. Fonti autorevoli di maggioranza raccontano di un garbatissimo invito a Nordio affinché metta da parte per qualche settimana i bollenti spiriti. “Non serve a nessuno alimentare uno scontro con la magistratura tutta, che il Paese non capirebbe il giorno dopo l’arresto di Messina Denaro”, dice un parlamentare influente. E un altro: “Le intercettazioni non si toccano. La maggioranza, o quantomeno la sua gran parte, è contro la grande criminalità come contro la piccola criminalità”. Non è solo questione di tattica sbagliata. Il ministro Guardasigilli era partito alla carica contro i suoi ex colleghi? Il risultato - osservano sgomenti ai piani alti del centrodestra- è che la maggioranza si è spaccata, con FdI e Lega da una parte, Forza Italia e centristi dall’altra; le opposizioni fuoriuscite inaspettatamente dall’afasia; gli unici a beneficiarne sono quelli del Terzo Polo, vedi il successo della mozione di Enrico Costa. E così, se Nordio era partito con le sue esternazioni per aprirsi la strada e tagliare le intercettazioni, s’è ritrovato, dopo diversi colloqui ad alto livello, a doverle confermare per i “reati-satellite” della mafia, ovvero tutti quelli per cui già si fanno. Un completo disastro, il suo. E allora? Il mantra che può ricucire le divisioni del centrodestra a questo punto è la lotta ai presunti “abusi”, come ripeteva ieri anche il vicepremier Antonio Tajani, che ledono “i diritti di cittadini sbattuti in prima pagina per poi risultare completamente estranei alle vicende”. Solo che ora ad abusare delle intercettazioni non sarebbero più i magistrati, quanto i giornalisti. “Bisogna intervenire - dice infatti al mattino il sottosegretario Andrea Delmastro, FdI, intervenendo alla trasmissione tv Agorà - da una parte con l’Ispettorato generale per verificare che non vi siano fuoriuscite di notizie dalle procure, dall’altra parte con una norma più stringente. E poi lo dico onestamente, sì, anche sui giornali”. Chiosa il capogruppo FdI al Senato, Lucio Malan: “Si vogliono impedire gli abusi come la pubblicazione di conversazioni estranee alle indagini”. L’idea che piace dentro al governo, insomma, e che salverebbe la faccia al Guardasigilli, è un possibile divieto di pubblicazione delle intercettazioni tal quali, anche se ricavate da atti giudiziari, “qualora siano pregiudizievoli della onorabilità di un non indagato”. Spiegano: “C’è la nuova legge Orlando-Bonafede, ma non funziona, come anche ieri s’è visto nel caso Calovini (uno scoop di Repubblica su un’inchiesta a Milano teneva banco nella chat dei parlamentari di FdI. Troppo gustoso lo sfogo intercettato del deputato Giangiacomo Calovini contro Daniela Santanché per questioni territoriali. “Quando morirà, perché morirà, cagherò sulla sua bara”, ndr). Se pure qualche intercettazioni non rilevante penalmente sfugge al controllo dei magistrati, toccherà ai giornalisti valutare”. Un eufemismo. Perché in caso di pubblicazione “proibita”, scatterebbero multe salate. Ma il terreno è scivolosissimo, perché gli atti giudiziari allegati a un processo, esaurita la fase della discovery, sono pubblici per definizione. Lo ricorda l’Anm: “Ci sono gioco interessi fondamentali, come il diritto all’informazione e la stampa libera”.E infatti Delmastro aggiunge: “Ci rendiamo conto che bisogna agire con la massima prudenza rispetto ad un diritto che è il diritto di cronaca”. Intercettazioni: il bavaglio ai giornalisti è un’inutile provocazione di Francesco Bei La Repubblica, 21 gennaio 2023 Il governo ha un problema con il ministro della Giustizia. Oggi si parla di regole per la stampa per sviare l’attenzione. C’è un sentore di impostura nell’ultimo bengala sparato in aria dal governo, ovvero la minaccia di una nuova legge bavaglio per impedire la pubblicazione delle intercettazioni. La tentazione sarebbe quella di non parlarne proprio, visto il carattere palesemente strumentale della provocazione lanciata dal sottosegretario di FdI Andrea Delmastro. Partiamo dunque da qui, per poi entrare nel merito. È ormai chiaro a tutti, a cento giorni dal giuramento, che la maggioranza e il governo hanno un problema che si chiama Carlo Nordio. Ex pubblico ministero e brillante editorialista, abituato a scorticare con la penna i suoi vecchi colleghi magistrati, dimostra però ogni giorno di più di non essere adatto, per mancanza di equilibrio istituzionale, al ruolo delicatissimo di Guardasigilli. Unfit, come si diceva una volta. Lo sanno nel governo e lo dicono pure, a patto di restare anonimi. Il ministro delle retromarce, lo chiamano, perché costretto a smentirsi ogni giorno, che si parli dei mafiosi che non usano il telefono, o delle intercettazioni da vietare tranne che per mafia e terrorismo, o degli attacchi ai pm anti-mafia a 24 ore dall’arresto del boss latitante numero uno. Un chiaro disastro politico e comunicativo, per coprire il quale il solerte Delmastro, appartenente al partito che ha eletto Nordio, è intervenuto con un’operazione nemmeno troppo sofisticata: lanciare una bomba - la nuova censura ai giornali - per sviare l’attenzione dalle ultime esternazioni del ministro gaffeur e fornirgli una copertura politica. Per questo si fa fatica a prendere sul serio un progetto che, palesemente, non ha gambe nemmeno per iniziare il suo cammino parlamentare. Eppure occorre piantare subito dei paletti, ricordare anche agli smemorati del governo, agli improvvisati Ciano del Minculpop, che non è il 1994, non siamo all’anno zero dello scontro fra politica e magistratura. E le intercettazioni sporche, come quella pubblicata illegalmente dal Giornale nel 2005 per sputtanare Piero Fassino, allora segretario dei Ds (“abbiamo una banca”), da tempo sui quotidiani non finiscono più. È un film del passato. È trascorso un lustro dal decreto legislativo che, durante il governo Gentiloni, fissò i termini della nuova normativa sulla pubblicazione delle intercettazioni: dopo anni di risse il legislatore trovò un faticoso bilanciamento tra due diritti costituzionali meritevoli entrambi di tutela, il diritto alla privacy e il diritto di cronaca. Senza dimenticare naturalmente il fondamentale diritto alla legalità. Perché, come ci ricorda Raffaele Cantone, “senza intercettazioni sarebbe praticamente impossibile fare indagini sui fatti di corruzione”. Il decreto legislativo firmato nel 2017 da Orlando e Gentiloni è molto chiaro e bisogna ammettere che ha funzionato. Le maglie per la pubblicazione sono diventate strettissime. Intanto, a monte, le procure sono obbligate a fare una rigorosa selezione, escludendo tutte le intercettazioni non rilevanti per l’inchiesta che vengono messe sotto chiave in un archivio segreto. Nelle ordinanze di custodia cautelare e, successivamente negli atti del processo, possono essere infilate solo le intercettazioni necessarie a dimostrare le tesi della pubblica accusa e a sostenere il processo. A valle intervengono il garante della privacy e la deontologia dei giornalisti. Quindi il ministro e il sottosegretario dovrebbero aggiornare il loro repertorio: il film del giornalista e del pm che combuttano di notte per infangare la reputazione dell’avversario politico non viene più proiettato nelle sale da tempo. Le intercettazioni, come quelle dei costruttori che ridevano dopo il terremoto dell’Aquila pensando ai soldi che avrebbero fatto sulla ricostruzione, oppure come quelle dei manager che cercavano di nascondere le prove del crollo del ponte Morandi, finiscono sui giornali perché contenute in atti pubblici. E sarebbe grave, gravissimo se, per garantirsi l’impunità, la classe politica tornasse alla censura rompendo quel delicato equilibrio costituzionale. Siamo sicuri che non lo faranno, ma meglio metterlo subito in chiaro. La risposta in quel caso sarebbe all’altezza della sfida. Nel 2010, quando l’allora governo Berlusconi provò a varare una legge-bavaglio, che prevedeva una censura indiscriminata con multe milionarie agli editori, si mobilitò la società civile e la proposta finì su un binario morto. Repubblica fu protagonista di una imponente campagna che culminò con una manifestazione e uno sciopero nazionale della categoria. Persino Wikipedia si fermò per due giorni, chiarendo che avrebbe sospeso le pubblicazioni nel nostro Paese. La prima pagina di questo giornale uscì bianca in segno di protesta e tutto il mondo occidentale fu costretto a guardare a cosa accadeva in Italia, dove la libertà di stampa era messa a rischio. Davvero il ministro e i suoi amici hanno nostalgia di quei tempi? Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa la presidente Meloni di questo revanscismo fuori tempo massimo contro i magistrati e la stampa. Quella stessa Meloni che, apprezzata su queste colonne dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, è andata a Palermo a rendere omaggio ai pm per la cattura di Messina Denaro. Intende raccogliere il ramoscello d’ulivo o trasformarlo in un randello da rompere sulla testa di magistrati e giornalisti? “Intercettazioni fondamentali, ma limitandole sugli illeciti lievi risparmieremo 200 milioni di euro all’anno” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 21 gennaio 2023 Giustizia, il viceministro Sisto: “La riforma Cartabia aiuterà la giustizia: ognuno ora faccia la sua parte. Ha lo scopo di accelerare il processo penale e il civile. Per questi obiettivi è stato indispensabile rivedere alcune abitudini”. Una riforma “organica”, “frutto di una visione moderna”: così il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, definisce la Riforma Cartabia, difendendo anche quelle novità che fanno storcere il naso ai magistrati ma “che finalmente si preoccupano anche delle garanzie della difesa”. Così come farà la riforma che verrà sulle intercettazioni. Mentre sulla procedibilità a querela annuncia correttivi del Governo, per escluderne l’applicabilità ai contesti mafiosi. La Riforma Cartabia è entrata in vigore da pochi giorni ma Procure e Tribunali lamentano che non erano ancora pronti... “La riforma Cartabia ha lo scopo di accelerare il processo penale e il processo civile. Per raggiungere questi obiettivi è stato indispensabile rivedere alcune “abitudini” pluriennali. A tali novità ci si deve abituare e devono essere fortemente sostenute, per consentire alla giustizia di essere più a misura di cittadino e per dare il via libera agli aiuti europei del Pnrr. Si è trattato di un intervento in stato di necessità, scritto con un costante confronto fra tutte le categorie interessate. Accanto alle riforme normative ci sono quelle logistiche come il rafforzamento degli organici, l’aumento di magistrati e personale amministrativo, l’ufficio del processo, l’investimento massiccio sulla informatizzazione della giustizia. Bisogna che la giustizia torni ad essere “amica” di chi è per bene, che si perda il timore irrazionale del contatto con le aule, che il ruolo di garanzia del giudice prevalga sul protagonismo della pubblica accusa”. Anche per la Riforma del processo civile, in vigore dal 28 febbraio, ci sono dubbi sulla fattibilità. Il ministero ha assicurato il completamento dei sistemi informatici: è realistico? “L’anticipazione del vigore della riforma civile è stata richiesta dalla Commissione europea e non c’è stata alternativa nonostante il Ministero avesse ipotizzato soluzioni progressive. Il Dipartimento competente offre ampie assicurazioni sulla disponibilità dei sistemi informatici utili per il varo della riforma”. Torniamo al processo penale: da avvocato, quale novità considera più importante? “Il sistema penale ha finalmente ricevuto una riforma organica e non più “a macchia di leopardo”. Gli interventi hanno abbracciato l’intero panorama del processo, con costante riferimento anche alle osservazioni, pure critiche, espresse da dottrina e giurisprudenza. Le novità in tema di indagini preliminari, di criteri per le sentenze di proscioglimento del gup, ma soprattutto quelle relative al sistema sanzionatorio, sono frutto di una visione moderna, con conseguenze sulla speditezza molto rilevanti. Il meccanismo delle iscrizioni al registro degli indagati è finalmente regolamentato e controllabile, il rinvio a giudizio perde il suo carattere di quasi automatismo, viene spezzato il binomio pressoché esclusivo fra libertà e carcere. In definitiva, vengono riportati alla luce i principi costituzionali della presunzione di non colpevolezza, della funzione rieducativa della pena, del processo giusto e di ragionevole durata”. Il procuratore di Bari, Roberto Rossi, e i suoi aggiunti ritengono “quasi asfissiante” la possibilità di controllo dei procuratori generali sui pm e temono che i pm saranno più attenti a non cadere in violazioni disciplinari che a svolgere le indagini serenamente. “Se ciascuno svolge il suo compito rispettando le regole, si tratti di avvocati, magistrati, personale amministrativo, un sistema di verifica/controllo non solo non deve preoccupare ma consente, anche in via preventiva, di offrire maggiore efficienza al sistema. A chi teme i controlli dico: mettiamocela tutta per renderli superflui con un adempimento puntuale ai compiti di ciascuno”. Anche sui tempi delle indagini preliminari, i procuratori sono stati critici. La discovery anticipata degli atti è un danno per le indagini o una garanzia per gli indagati? “È una riforma che, finalmente, si preoccupa anche delle garanzie della difesa. La maggiore velocità delle indagini modella una giustizia capace di superare più rapidamente l’alternativa fra innocente o colpevole, con indubbio vantaggio, da un lato ,per chi nulla ha commesso; dall’altro per il rapido accertamento della responsabilità, anche nell’interesse delle persone offese. C’è un dato, certificato da fonti ministeriali, per cui la maggior parte dei processi è andata incontro alla estinzione per prescrizione proprio per l’eccessiva durata delle indagini”. Il fatto che il gup possa rinviare a giudizio solo con “una ragionevole previsione di condanna” è stato accolto con soddisfazione. dagli avvocati. “Durante i lavori preparatori della riforma si è ritenuto correttamente di collegare il rinvio a giudizio ad una qualificata e ponderata scelta del giudice di prevedibile responsabilità dell’imputato. Anche qui è notoria la vigenza, nelle udienze preliminari ante-riforma, del maccheronico broccardo “un rinvio a giudizio non si nega a nessuno”, con conseguente rarità delle sentenze di proscioglimento. Più che di rinvio a giudizio dell’imputato per esserne ipotizzata la responsabilità, si è fino ad oggi assistito ad un rinvio al giudice del dibattimento ai limiti del pilatesco. Tanto da rendere praticamente inutile il passaggio dall’udienza preliminare. Oggi non è più così”. L’allargamento dei reati procedibili a querela scarica la responsabilità sulle vittime, come sostengono i procuratori? “L’ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela è stato uno degli strumenti per liberare il nostro sistema da una lentezza intollerabile. Esistono già numerosi reati procedibili a querela, con la conseguenza che il processo penale può attivarsi solo ad impulso di parte. Anche qui, è necessario che le nuove regole siano messe in condizione di girare a pieno regime, fermo che su temi “chirurgici” è giusto intervenire per migliorarne la qualità applicativa. Per esempio, come discusso ieri in Consiglio dei Ministri, chiarire normativamente che va esclusa la procedibilità a querela in contesti mafiosi o terroristici ovvero consentire sempre l’arresto in flagranza obbligatorio, richiedendo la querela solo per l’emissione dell’eventuale provvedimento cautelare del giudice. Si tratta di aggiustamenti che il Ministero ha preso immediatamente in considerazione, ponendo rimedio a disagi applicativi riconosciuti. Sostenere, però, che la riforma del processo favorisca la criminalità è una bugia”. Oltre la riforma resta il nodo delle intercettazioni: fin dove arriverà la stretta del Governo? “Nessuno intende disconoscere, per i reati più gravi, il fondamentale apporto delle intercettazioni telefoniche. Ma davvero per gli altri illeciti non è possibile limitarne l’uso (vedi trojan), riducendo la spesa di circa 200 milioni di euro all’anno? Cercare l’equilibrio tra l’invasività dello strumento di indagine e la gravità del reato, a tutela della riservatezza di matrice costituzionale, ritengo sia uno sforzo che, con l’apporto equilibrato di tutti, possa e debba essere prodotto”. Lo Voi: “Bloccare gli ascolti è come cancellare i reati dal codice” di Carlo Bonini La Repubblica, 21 gennaio 2023 Il procuratore capo di Roma: “Incoerenza delle istituzioni tra l’allarme sul rischio di un assalto al Pnrr e questo processo ai pm e al principale strumento di indagine”. Il Procuratore di Roma Francesco Lo Voi è un palermitano mite di 64 anni. E dei palermitani ha il gusto dell’argomentare intelligente, ironico. È arrivato a Roma nel gennaio del 2022, dopo aver guidato per anni la Procura di Palermo e coordinato la caccia a Matteo Messina Denaro. La polemica scatenata dal ministro di Giustizia Nordio su intercettazioni telefoniche, cultura del pubblico ministero, separazione delle carriere, lo trova in grande forma dialettica. “La discussione sull’urgenza di modificare la disciplina delle intercettazioni e sul ruolo del pubblico ministero mi sembra lunare”. Lunare? “A parte il fatto che quando si parla di intercettazioni telefoniche o comunque di captazioni ambientali o informatiche non dovremmo mai dimenticare che c’è un pubblico ministero che le chiede e un giudice terzo che le dispone, ha presente quelle vecchie immagini in bianco e nero, un po’ sfocate, scattate da macchine fotografiche un po’ segnate dal tempo? Ecco, la rappresentazione della giustizia penale e della figura del pubblico ministero di cui ho sentito parlare in questi giorni da alcuni settori politici, mi ricorda una di quelle foto. Perché quel mondo semplicemente non esiste più. Soprattutto, da due anni, esiste una legge, cui si è arrivati dopo lunga e faticosa discussione, che impone l’inserimento nel fascicolo del processo soltanto di quelle conversazioni intercettate ritenute dal pubblico ministero e da un giudice terzo, dunque non dalla polizia giudiziaria, penalmente rilevanti ai fini della prova. Oggi, tutte le conversazioni intercettate non rilevanti non vengono trascritte e rimangono custodite nel cosiddetto “armadio giudiziario” cui hanno accesso, su richiesta, solo gli avvocati della difesa. Che, per giunta, possono ascoltarle, ma non farne copia”. Quindi dove è il problema? “Me lo dica lei. Io sono tra quelli che ritiene che non debbano essere rese note in nessuna sede e per nessun motivo conversazioni captate per motivi di indagine e potenzialmente lesive della privacy e della dignità di indagati o, a maggior ragione, di persone estranee all’indagine. E che, se questo accade, gli abusi vadano sanzionati. Ma, appunto, sono tra quelli che, da due anni, applica alla lettera una legge che è servita esattamente a metterci nelle condizioni di rendere un abuso di questo genere francamente molto difficile. A meno di non immaginare accessi illeciti a registrazioni destinate a non trovare ingresso neppure nel processo”. Forse una parte della classe politica e dirigente del Paese vede nelle intercettazioni una minaccia intollerabile perché potenzialmente capace di svelare il lato oscuro dell’azione politica, dell’amministrare pubblico, dell’interesse economico. A maggior ragione nel momento in cui finisce la latitanza di un uomo come Messina Denaro ritenuto depositario di segreti e collusioni indicibili con pezzi delle istituzioni. “Detto che in Sicilia, negli anni scorsi, è stato condannato per reati con aggravante mafiosa un ex presidente della Regione come Cuffaro, se il problema fosse Messina Denaro, direi che ormai, finita la latitanza, il problema è chiuso. Perché a questo punto scopriremo se e cosa c’è ancora da scoprire sulle sue collusioni con pezzi delle istituzioni, che si faccia o meno un nuovo intervento sulle intercettazioni. Se invece il discorso, come mi sembra, è rivolto al futuro, dobbiamo metterci d’accordo. Perché la questione è molto semplice. Siamo un Paese con un altissimo tasso di illegalità in cui le intercettazioni sono fondamentali per venire a capo non solo di reati di mafia e terrorismo, ma anche di quei reati “spia” che della mafia rappresentano l’altra faccia, o una delle facce, e che sono quelli contro la pubblica amministrazione e quelli fiscali. Decidiamo, dunque. Se non vogliamo più sentirne parlare, dobbiamo avere il coraggio non di modificare le intercettazioni, ma di cancellare quei reati. E dire che non ne vogliamo più sapere perché ci disturbano”. Il ministro Nordio e la maggioranza di governo dicono che al telefono non parla più nessuno ormai. “Vero, ai telefoni con disco rotella non parla più nessuno. Ma le indagini, oggi, si fanno con le ambientali. Noi, nel 2018, a Palermo, scoprimmo la ricostituzione della cupola provinciale di Cosa Nostra con una cimice. E il 50 per cento delle indagini di mafia prendono le mosse da indagini su reati di Pubblica amministrazione. Non solo in Sicilia. Qui nel Lazio, tanto per fare un esempio, i comuni di Anzio e Nettuno sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose partendo da indagini su appalti comunali. In quei comuni l’agire mafioso con la pubblica amministrazione non ha nulla di diverso, nel format, di quanto accadeva a Corleone o accade in altre parti del Paese”. Tra le urgenze democratiche Nordio segnala, non è una novità, il circuito magistratura-giornalismo. “Penso che un’urgenza democratica sia consentire che l’opinione pubblica abbia contezza e conoscenza attraverso il contenuto di atti giudiziari ostensibili di come viene amministrata la giustizia penale e delle responsabilità contestate a chi è accusato di reati”. Immagino che il ministro Nordio le obietterebbe che a farla parlare è “la lente deformata del pubblico ministero”. “Deformata da che? Se il ragionamento sul pubblico ministero fosse coerente, si dovrebbe proporre anche la separazione delle carriere tra giudici di primo e secondo grado e tra giudici di merito e giudici di Cassazione. Il che sarebbe ovviamente una sciocchezza. Ma, e torno a ripetermi, anche qui siamo di fronte a una discussione sfocata e, se posso dire, poco informata”. Perché? “Vuole sapere su 9 mila magistrati italiani quanti sono stati quelli che, nel 2022, hanno chiesto al Csm il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa? Ventuno. Con tutti i problemi che abbiamo stiamo a discutere di 21 magistrati su 9 mila? Dico di più. Già nel 2000, con la risoluzione numero 19, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che è un organo di indirizzo politico, raccomandò ai 47 Paesi membri di facilitare il passaggio dei magistrati tra le funzioni requirenti e giudicanti, e viceversa, perché questo serve a migliorare la qualità della cultura della giurisdizione. Quindi, per tornare al punto, mi sembra che additare i pubblici ministeri come i responsabili dei mali della giustizia italiana sia ingeneroso, indimostrabile, e soprattutto incoerente”. Incoerente? “Esattamente. Perché non vedo alcuna coerenza complessiva delle istituzioni nel lanciare un allarme, per altro fondato, sul rischio che le organizzazioni criminali si preparino ad un assalto ai fondi del Pnrr e, contestualmente, aprire un processo ai pubblici ministeri e al principale strumento di indagine che sono le intercettazioni. È un modo di procedere in ordine sparso che non giova e non gioverà a nessuno”. “Corsie preferenziali nei tribunali per fermare le violenze di genere” di Daria Lucca Il Manifesto, 21 gennaio 2023 Intervista al magistrato Franca Mangano sul nuovo processo di famiglia previsto dalla riforma dell’ex ministra Cartabia. “La riforma Cartabia del processo civile comprende un capitolo di portata innovativa dedicato a minorenni e famiglie. Le relazioni nelle famiglie si svolgono tra posizioni impari per età, reddito o genere. Gli strumenti del processo civile ordinario sono inadeguati a tutelare tali condizioni di disparità sostanziale. A questo fine, il giudice disporrà di poteri di intervento tempestivo, senza attendere che le parti ne facciano richiesta, per poter riequilibrare le disuguaglianze di fatto”. Con Franca Mangano, presidente di sezione della corte d’appello di Roma, fino allo scorso novembre capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, parliamo del nuovo processo di famiglia e di quanto le nuove norme possano aiutare l’irrisolta questione della vittimizzazione secondaria delle madri. Le norme nazionali e internazionali impongono di accertare ogni richiamo alla violenza. Ma i tribunali, nei procedimenti di separazione, tendono a derubricare la violenza in conflitto. Cambierà qualcosa? Dei 72 articoli che compongono il nuovo processo di famiglia, 7 sono dedicati alla violenza domestica o di genere. Si applicano a tutti i ricorsi nei quali sono esposti abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere, poste in essere da una parte nei confronti dell’altra o nei confronti dei minori. Prevedono regole speciali per i tempi dei giudizi, che beneficeranno di anticipate corsie preferenziali; sui poteri istruttori dei giudici, che potranno assumere informazioni rivolgendosi anche al pubblico ministero e alle autorità di polizia; sulle particolari cautele da adottare nei confronti delle parti, escludendo per esse l’invito alla mediazione familiare o secretando l’indirizzo della dimora dove la vittima si è rifugiata. Dunque, prima di affermare che non si tratta di violenza ma di conflitto, il giudice deve accertare i fatti che i difensori hanno l’onere di evidenziare. Come eviterà, la riforma, l’uso della Pas da parte dei consulenti tecnici? E’ espressamente disposto che, nella consulenza tecnica, le indagini e le valutazioni devono essere fondate su metodologie e protocolli riconosciuti dalla comunità scientifica. Tale non è la Sindrome di alienazione parentale (PAS), come in recenti sentenze ha precisato la Corte di cassazione e come già era stato esplicitato in una nota del Ministero della Salute del 29.5.2020. La diffusione ‘a macchia di leopardo’ tra i tribunali italiani, in gran parte dovuta al difetto di specializzazione dei giudici, sarà auspicabilmente colmata dalla piena efficacia delle nuove norme processuali. Non solo di Pas si tratta, ma di generiche etichette inesistenti nei codici... Quanto all’uso di formule generiche (‘condotte alienanti’ ‘conflitto di lealtà’), ritengo che queste possono definirsi effettivamente elusive, solo in quanto non siano ancorate all’accertamento di fatti precisi da parte del giudice. Un accertamento che, proprio in quanto imparziale, non può andare a senso unico. Lo specifico accertamento dei fatti è una garanzia per tutte le parti. Accertamento, appunto. Ritiene che una allegazione di violenza sia accertabile da una consulenza psicologica? Senz’altro no. La consulenza tecnica non è un mezzo di accertamento della violenza domestica. Questa deve essere riscontrata sulla base di fatti (minacce, percosse, discriminazioni, intimidazioni) che il giudice deve appurare acquisendo informazioni all’interno dello stesso nucleo familiare, nella cerchia dei parenti e delle persone che hanno rapporti con il nucleo familiare, nell’ambiente di lavoro o nella scuola dei figli. E con la comunicazione tra giudice civile, procura, giudice penale e tribunale per i minorenni. La Ctu, invece, serve per valutare i fatti accertati alla luce di specifiche competenze. Escludo che il processo di famiglia possa fare a meno dei consulenti psicologi o psichiatri, poiché il giudizio finale coinvolge conoscenze che non sono soltanto giuridiche. Tuttavia, delegare il potere di decidere richiamando le conclusioni di una Ctu non è il modo corretto di utilizzare uno strumento di cui, ripeto, è difficile fare a meno. E come può essere utilizzata correttamente? La riforma Cartabia ha introdotto nel processo di famiglia precise garanzie di professionalità per i consulenti tecnici. È prevista una sezione nell’albo dei consulenti tecnici dedicata agli esperti in neuropsichiatria infantile e dell’età evolutiva e della psicologia giuridica e forense; l’iscrizione è subordinata al possesso di titoli accademici specifici e all’esperienza clinica nella materia della violenza domestica e dell’abuso in danno dei minori. Ci sono state critiche anche ai metodi e all’uso improprio dei servizi sociali, i quali non sono una parte processuale né subordinati all’autorità giudiziaria... La tutela delle relazioni familiari non si esaurisce all’interno del sistema giudiziario: allo Stato sociale è richiesto di intervenire perché la protezione dei minori e delle famiglie in crisi sia effettiva. Ma il rapporto con i servizi sociali deve rimanere all’interno delle garanzie giurisdizionali. Le nuove norme dispongono che nelle relazioni dei servizi siano distinti con chiarezza i fatti accertati e le fonti dell’accertamento, le dichiarazioni rese dalle parti e le valutazioni formulate, per garantire la trasparenza dell’operato e il rispetto del contraddittorio. Come spiega la resistenza dei magistrati ad ascoltare il minore? L’ascolto del minore è un atto fondamentale del processo di famiglia. La riforma ne mantiene la centralità, disciplinandone i modi. Impartisce disposizioni particolari di ascolto nel caso in cui il minorenne si rifiuti di incontrare un genitore oppure quando si alleghino condotte violente o abusanti all’interno del nucleo familiare. Credo che la resistenza dei giudici a procedere all’ascolto, oltre ad essere motivata da esigenze di celerità dei processi e di tutela dei minori coinvolti in plurime controversie, sia motivata dal sovraccarico di giudizi e dal difetto di specializzazione del giudice civile. Non crede che il prelevamento forzato verso la casa-famiglia di un minore sia fuori dello stato di diritto? L’articolo 403 del codice civile, immutato dal 1942, prevedeva che, per tutelare il minore in stato di abbandono o di maltrattamento, i servizi sociali e gli organi di protezione dell’infanzia, potessero intervenire con urgenza collocandolo in luogo sicuro. L’esperienza applicativa ha evidenziato molteplici criticità: tempi lunghi sia nel contatto tra giudice e minore, sia per le informazioni ai genitori. Dal giugno di quest’anno, l’autorità amministrativa deve comunicare l’allontanamento entro 24 ore al pubblico ministero che ha 72 ore di tempo per revocarlo o per chiederne la convalida al tribunale, il quale deve provvedere entro i brevi termini stabiliti fissando un’udienza per sentire i genitori, il minore con il suo curatore speciale. Se la sequenza non è rispettata entro i termini perentori stabiliti dalla legge, il provvedimento perde efficacia. Un’ultima considerazione? Se non saranno predisposte adeguate risorse personali (giudici e personale amministrativo) e strumentali (digitalizzazione) a sostegno della riforma, è facile prevedere che tutto questo poderoso progetto, diventato legge dello Stato, sia destinato a fallire e allora sarà un’occasione perduta per la tutela giurisdizionale delle parti più fragili. Se l’ex boss deve cambiare carcere lo Stato paga il trasloco della sua biblioteca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2023 Accolto il ricorso dell’ex boss dei catanesi Salvatore Cappello, al 41-bis da 26 anni, contro la decisione di accollare a lui i costi per spostare da un penitenziario all’altro circa 450 libri. Lo Stato deve pagare i costi del trasloco di 450 libri acquistati negli anni dall’ex boss dei catanesi Salvatore Cappello, se lo spostamento da un carcere ad un altro non lo ha chiesto il detenuto. Per la Cassazione, infatti, la regola è che le spese per i trasporti di oggetti personali oltre i 10 chili è carico del detenuto solo se il trasferimento è frutto di una sua domanda accolta. A dare torto a Salvatore Cappello, classe ‘59, al 41 bis da 26 anni, era stata prima l’amministrazione penitenziaria secondo la quale lo spostamento sia i tantissimi libri sia il materasso ortopedico, doveva pesare sulle finanze del ricorrente. Una conclusione confermata dal Tribunale che nella sua decisione aveva osservato che “il materasso ortopedico e i numerosissimi libri (quattrocento quaranta quattro) erano stati acquistati dal detenuto con deliberazione autonoma, confidando erroneamente che lo Stato si accollasse le spese per la relativa spedizione in caso di trasferimento da una casa circondariale ad un’altra”. Speranza che però non si rivela affatto erronea, come affermato dal Tribunale, perché la Cassazione dà ragione al ricorrente. Il materasso era stato comprato, come nella facoltà di chi sconta una pena in carcere, dopo che lo specialista aveva certificato la sua assoluta necessità. Quanto ai libri cambiare penitenziario era una scelta dell’amministrazione. La lettera nel 2020 per chiedere la “grazia” della fucilazione - E la Suprema corte annulla con rinvio chiedendo al Tribunale di sorveglianza di rivedere la sua decisione. Salvatore Cappello, detto Turi, nel 2020, e dunque dopo 23 anni di carcere duro, aveva scritto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per chiedere la “grazia” della fucilazione. “Illustrissimo Presidente - scriveva l’ex boss - chiedo di essere fucilato nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta”. Una lettera divulgata allora attraverso l’associazione Yairaiha Onlus che da anni si batte contro l’ergastolo ostativo, nella quale Cappello chiedeva di rendere effettiva “la condanna a morte nascosta dietro la parola ergastolo, con fine pena 9999, cioè fine pena mai”. Per Cappello un atto di grazia anche nei confronti dei suoi familiari “chiedo che la condanna venga eseguita perché dopo 24 anni, di cui 23 passati al 41 bis, sono morto già tante di quelle volte che non lo sopporto più; ogni volta che lo rinnovano muoio - scriveva l’ex capo di Cosa nostra - quando guardo gli occhi dei miei figli, dei miei cari, di mia moglie penso che la condanna a morte è anche per loro. E non voglio che muoiano tutte le volte che lo rinnovano con scuse banali e senza fondamento, per questo chiedo di morire”. Anche in quell’occasione la missiva a Mattarella fece da apripista al dibattito mai chiuso sull’ergastolo ostativo. Michele Pais: “La Sardegna non può essere considerata una servitù carceraria” Il Dubbio, 21 gennaio 2023 Il presidente del Consiglio Regionale scrive al Ministro della Giustizia Carlo Nordio, lamentandosi del fatto che i detenuti al 41 bis stanno creando tanti problemi nel carcere di Sassari. “La Sardegna non può essere considerata una servitù carceraria. Troppi detenuti in regime di 41 bis scontano la pena nelle carceri sarde provocando dei problemi di sovraffollamento, di sicurezza, di carenza di personale oltre a un enorme impatto negativo sul territorio”. Lo scrive il presidente del Consiglio regionale, Michele Pais, in una lettera inviata al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Dopo la cattura del latitante Matteo Messina Denaro, la cui detenzione inizialmente era stata programmata in un penitenziario isolano, Pais ha colto l’occasione per aprire, ancora una volta, una riflessione sulla situazione insostenibile in cui versano le carceri sarde. “Sono numerosi i detenuti - scrive il presidente del Consiglio regionale - che scontano la pena in Sardegna con il regime dell’articolo 41 bis, soprattutto nel carcere sassarese di Bancali, con tutte le conseguenze che questo implica in termini di sicurezza nell’ambito di un territorio che, ormai da tempo, presenta forti segnali di crisi socio-economica e nel quale la situazione carceraria e’ fortemente critica, soprattutto per la grave carenza di personale e per il sovraffollamento”. Nella lettera, Pais evidenzia che l’Isola non può essere una “terra di servitù e scorie”, ma deve essere valorizzata per le potenzialità che offre in ambito naturalistico, culturale, storico-archeologico. “La condizione di isola - prosegue nella nota il presidente del Consiglio regionale - non può più essere il presupposto per “ospitare” tutto ciò che è rifiutato dal resto del Paese, non può costituire la sede naturale di ciò che deve restare isolato”. Roma. Detenuto si impicca al Regina Coeli: è il primo suicidio nelle carceri del Lazio nel 2023 di Alessia Rabbai fanpage.it, 21 gennaio 2023 Un detenuto di trent’anni si è suicidato impiccandosi nel carcere di Regina Coeli a Roma. Si tratta del primo caso nelle carceri del Lazio nel 2023 e il secondo in Italia. I fatti risalgono allo scorso mercoledì 18 gennaio e sono avvenuti all’interno della VII sezione. Si tratta di un uomo di nazionalità libica, senzatetto, che si trovava in isolamento Covid. A renderlo noto il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa: “Purtroppo sempre più spesso la detenzione appare come un buco nero senza speranza. Ancora una volta, senza colpevolizzare nessuno, bisognerà capire cosa avrebbe potuto fare e cosa potrebbe essere fatto per prevenire altri suicidi”. Da quanto si apprende l’uomo era entrato in carcere da tre giorni. Come da prassi per Covid, si trovava in una stanza da solo e si è tolto la vita verso l’ora di pranzo. “Mi hanno riferito che il detenuto è stato seguito e ha visto gli operatori sanitari tutti i giorni - ha spiegato Anastasìa raggiunto da Fanpage.it - Non c’erano a quanto pare indicatori che potessero far pensare al fatto che stesse nutrendo l’intenzione di lì a breve di togliersi la vita”. Anastasìa ha posto l’attenzione sulle misure anti Covid ancora in vigore nelle carceri: “L’isolamento in queste circostanze non aiuta, forse anche la normativa di prevenzione Covid ormai si potrebbe ripensare. Sacrosanto quando non c’erano le vaccinazioni ed eravamo in emergenza, forse oggi l’isolamento individuale si potrebbe evitare, perché rappresenta una condizione di rischio per il suicidio”. Il 2022 peggior anno in assoluto per i suicidi in carcere L’anno scorso è stato l’anno peggiore in assoluto dei suicidi nelle carceri italiane, con circa 84 decessi. Il garante nazionale ha riferito che al Regina Coeli lo scorso anno ce ne sono stati due, più tre morti per cause da accertare. Non si esclude che possa essersi trattato di eventi suicidari. “Rispetto a questa situazione c’è un problema di carattere generale, che riguarda le condizioni in cui riversano generalmente le carceri italiane - continua Anastasìa - Dopo la pandemia ad esempio non si è trovato il modo di dare qualche forma di speranza e di futuro a chi si trova al loro interno. Nel caso di Regina Coeli parliamo di un carcere che in questo momento è in grandissima difficoltà, con un tasso di affollamento molto alto e circa la metà dei detenuti con condanne definitive, ma senza spazi e progetti idonei al loro reinserimento in società”. Piacenza. Il detenuto ritrovato morto in cella era stato minacciato di Andrea Melli Corriere della Sera, 21 gennaio 2023 Accusato di omicidio volontario, reato per il quale si trovava in carcere da due anni e mezzo, Mourad Chail è stato trovato morto all’interno della propria cella nel carcere di Piacenza. Una morte sulla quale aleggia un grande punto interrogativo: per capire la causa del decesso del tunisino, che nel giugno del 2020 a Campogalliano (Modena) aveva ucciso a coltellate il connazionale Mohamed Salah, è stata disposta l’autopsia. Secondo le prime testimonianze la morte di Chail, che lavorava come custode e lavapiatti alla trattoria Barchetta di Campogalliano, potrebbe risalire all’auto inalazione di gas da una bomboletta. Resta da capire però, se si tratti o meno di un gesto di matrice volontaria. L’arresto e i trasferimenti - Chail, a cui la pena era stata ridotta da 16 a 14 anni, aveva confessato sin da subito il crimine, mostrandosi anche più volte pentito. L’ omicidio si era consumato nelle campagne di Campogalliano dopo una lite furibonda nata in un bar del paese, a causa di motivi dovuti alla droga. Il tunisino, come raccontato dal suo legale Lorenzo Bergami, in un primo tempo si trovava presso il carcere Sant’Anna di Modena, ma dopo alcune minacce era stato trasferito in un primo tempo a Reggio Emilia. Anche qui avrebbe ricevuto ulteriori minacce. Da lì il secondo spostamento, a Piacenza. “Non sappiamo se si sia tratto di un gesto volontario o meno. È stato dato incarico al medico legale per effettuare l’autopsia e attendiamo l’esiti previsto tra sessanta giorni. La famiglia non è riuscita a nominare un consulente tecnico, vorrebbero tenere il denaro per inviare la salma in Marocco”, sono state le parole dell’avvocato Bergami. Agrigento. Morto in carcere Raffaele Romano, boss del clan De Luca-Bossa napolitoday.it, 21 gennaio 2023 È morto a 50 anni il boss del clan De Luca-Bossa, Raffaele Romano. Soprannominato “Lellè”, è stato trovato senza vita all’interno della sua cella nel carcere di Agrigento. Al momento non sono ancora chiare le cause del decesso su cui si stanno svolgendo le indagini di rito. Romano è considerato dalla Dda partenopea, un elemento di spicco del gruppo che ha nei rioni popolari di Ponticelli l’epicentro del proprio potere criminale. Il 50enne era rimasto coinvolto anche nell’operazione dello scorso 28 novembre proprio contro il clan De Luca-Bossa. Lecce. Detenuto assolto dopo 11 anni. “Impunito chi mi ha pestato” di Nicolò Delvecchio Corriere del Mezzogiorno, 21 gennaio 2023 Picchiato da tre guardie dopo una lite con un agente penitenziario. Il racconto è dell’ex detenuto Giuseppe Rotundo, assolto dopo 11 anni dall’aggressione al poliziotto. “Dopo un litigio con un agente sono stato messo in isolamento e aggredito da tre guardie. Ho reagito, colpendo uno di loro, ma in un secondo mi sono ritrovato a terra privo di sensi. Mi avevano massacrato. Il giorno dopo avevo un appuntamento con una psicologa che mi conosceva, ma che non mi riconobbe. “E tu chi sei?”, mi chiese. Quando le risposi si mise a piangere. Avevo il volto completamente tumefatto, ero irriconoscibile”. Giuseppe Rotundo, 60enne di Minervino di Lecce, ripercorre con calma e lucidità l’orrore vissuto nel 2011, quando era detenuto nel carcere di Lucera. E anche la lunga vicenda processuale, durata oltre 10 anni, fatta di denunce reciproche e conclusasi nel 2021 con l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Rotundo, cosa è successo? “Quel giorno mi rivolsi male a un agente di custodia mentre ero in fila per una telefonata. Da lì fui condotto in una cella di isolamento e mi fu detto di spogliarmi per una perquisizione, visto che avrei dovuto parlare col Comandante. Una volta nudo mi aggredirono in tre, io reagii per difendermi ma mi ritrovai subito a terra. Mi colpirono con calci e pugni su tutto il corpo, anche sulla nuca, fino a farmi perdere i sensi, prima di trasferirmi - ancora nudo - nella cella a fianco. Era gennaio, passai la notte così”. E poi? “Dopo aver lottato tutta la notte per sopravvivere mi presentai al colloquio con la psicologa del carcere, la dottoressa Natali. Mi conosceva, ma ero ridotto talmente male che non mi riconobbe. Quando le dissi il mio nome scoppiò a piangere. Quel giorno mi dissero che gli agenti mi avevano denunciato per aggressione nei confronti di uno di loro, che effettivamente avevo colpito ma per difendermi. A quel punto non avevo scelta”. E quindi denunciò a sua volta... “Sì, ma non spedii la lettera a nome mio perché ero convinto che non sarebbe stata mandata. La inviai tramite un altro detenuto al mio avvocato, che avvisò la Procura. Pochi giorni dopo arrivò il personale della polizia giudiziaria per farmi delle foto. Avevo emorragie oculari, ematomi e tumefazioni su testa, braccia, mani, gambe e piedi. Quindi mi trasferirono a Foggia ma subii diverse ritorsioni: su 60 giorni da scontare lì ne passai 40 in isolamento, non mi facevano arrivare i pacchi, ai colloqui mi lasciavano solo, la mia famiglia rimaneva ore all’esterno ad aspettare nei giorni di visita”. Poi iniziò il processo, con le due denunce contrapposte... “Sì, ma passò tanto tempo. In primo grado fui condannato a un anno e dieci mesi per l’aggressione, mentre per gli agenti intervenne la prescrizione. In appello, i giudici di Bari mi assolsero riconoscendo di aver agito per legittima difesa. Quindi riconoscendo le colpe degli agenti che però non furono condannati. Ringrazierò sempre l’avvocato Simona Filippi e l’associazione Antigone per avermi sostenuto in tutto questo tempo”. Rotundo, per concludere: ora cosa fa? “Da 10 anni ho dedicato all’elicicoltura (allevamento di lumache, ndr) un pezzo di terra che ho ereditato da mio padre. Ho intrapreso una nuova strada fatta di non violenza e rispetto dei diritti, dopo aver sbagliato tanto in passato. Ma il sistema carcerario va cambiato, lì dentro si vive in un clima di costante guerra di cui si parla poco. I detenuti non denunciano quasi mai le violenze per spirito di sopravvivenza, perché anche se parli poi comunque devi finire di scontare la pena in carcere”. Firenze. Ilaria Cucchi al Michelucci: “Non releghiamo le carceri a discariche” Corriere Fiorentino, 21 gennaio 2023 La senatrice in visita all’istituto penale minorile fiorentino: “Qui una grande sensibilità, disponibilità degli operatori e della direttrice”. “Si esce da queste realtà sempre una sensazione di angoscia, di tristezza, e soprattutto di senso di ingiustizia, perché poi in fondo in questi luoghi ci sono tutti coloro che già di per sé nascono sfortunati, che non hanno un futuro. E allora il sogno sarebbe quello di ridurre sempre di più la percentuale di ragazzi che devono essere reclusi in questi istituti, per dare loro una speranza”. Così la senatrice Sì Ilaria Cucchi al termine di una visita all’istituto penale minorile Michelucci di Firenze. “C’è da dire che abbiamo trovato una grande disponibilità da parte degli operatori e della direttrice - ha aggiunto - , una grande sensibilità, una grande voglia di fare e di costruire qualcosa per per i loro ragazzi. Ecco, realtà come queste magari dovrebbero essere da esempio per altre nelle quali si vuol fare un po’ di meno”. Oggi, ha sottolineato, “abbiamo fatto un’altra tappa di quello che è il nostro lungo viaggio all’interno delle carceri italiane, comprese le carceri minorili, e ovviamente quando si parla di carcere minorile è sempre molto complicato”. Cucchi ha spiegato di essersi “riproposta di fare è una vera e propria ispezione per capire le realtà carcerarie, le loro criticità ed anche cosa si può fare per migliorarle, quindi l’intenzione è quella di andare a vedere”, “per capire insieme come trovare la formula di rendere strutture come questa un qualcosa che possa veramente garantire un futuro” ai detenuti perché “non sempre si è in grado di farlo, e questo fa rabbia e dolore”. “Non per mancanza di volontà da parte di chi ci lavora - ha concluso -, ma per colpa di un sistema, per colpa delle istituzioni, per colpa, soprattutto di un problema culturale che continua a relegare le realtà delle carceri come se fossero una discarica sociale e basta”. “Molto spesso i detenuti sono considerati come degli animali. Ne so qualcosa per la fine che ha fatto mio fratello”. Viterbo. Clip&go, concluso il progetto di formazione attivato presso il carcere Il Riformista, 21 gennaio 2023 Il progetto Clip&Go dell’Università degli Studi della Tuscia, si è concluso con un momento di confronto e monitoraggio finale, che ha coinvolto lo staff operativo dell’Ateneo, un gruppo di detenuti e le educatrici. Finanziato dalla Regione Lazio e incentrato sulla promozione del miglioramento della vita detentiva e sulla formazione delle persone private della libertà personale, il progetto si è sviluppato tra ottobre e dicembre. Le attività progettuali sono state curate da Giovanni Fiorentino, Direttore del Dipartimento di Scienze Umanistiche, della comunicazione e del turismo, in qualità di responsabile scientifico e da Mirca Montanari, come coordinatrice, in collaborazione con il Centro di Ateneo per la Multimedialità (CAM) dell’Università degli Studi della Tuscia. Il progetto Clip&Go, basato sull’apprendimento non formale e informale, è stato scandito dall’ideazione, preparazione, realizzazione e fruizione di 7 cicli di 4 clip da 15 minuti ciascuna a cura dei/delle docenti Agnese Bertolotti, Luigi Di Gregorio, Giovanni Fiorentino, Federico Meschini, Chiara Moroni, Tony Urbani e Michele Zizza. Le clip inerenti tematiche e riflessioni su diversi aspetti della complessa realtà contemporanea, hanno sondato il linguaggio pubblicitario, la comunicazione politica, il turismo, il giornalismo, i new media, l’editoria e la fotografia digitale. Le knowledge clips prodotte sono state arricchite dalla clip introduttiva al progetto formativo da parte del Magnifico Rettore, Stefano Ubertini. La presentazione delle clip didattiche si è svolta in presenza presso la casa circondariale di Viterbo secondo una calendarizzazione, condivisa con le educatrici del carcere, che ha previsto la presenza di ogni docente-autore che, a turno, si è alternato nel carcere da novembre a dicembre 2022. Ampia partecipazione dei detenuti che hanno aderito al progetto a tal punto che si prevede un prosieguo dell’iniziativa attraverso la proroga del finanziamento regionale. Il progetto Clip&Go conferma, ancora una volta, la costante attenzione dell’Università degli Studi della Tuscia alla cosiddetta terza missione, attività con le quali gli Atenei interagiscono direttamente con la società e il proprio territorio di riferimento, sia mediante azioni di valorizzazione della conoscenza sia, più in generale, mediante eventi di natura culturale, sociale e di divulgazione scientifica. Armando Punzo, l’avventura estrema del teatro di Fabio Francione Il Manifesto, 21 gennaio 2023 Intervista. Leone d’oro alla carriera al grande regista e drammaturgo: “Un teatro che copia la realtà è depotenziato, ci vuole un teatro che crei un’altra realtà. L’arte in generale deve essere l’innesco per creare un’altra realtà, non copiare la realtà con la scusa di farci vedere come siamo. Bisogna rappresentare altro dell’uomo, altri bisogni, altre necessità. Quello che sto facendo dentro il carcere, e sto affinando questa mia idea, è proprio al servizio del sognare un uomo nuovo, e quindi abbiamo bisogno di un attore ideale e un teatro che sia capace di fare questo”. La tua attività è tutta concentrata a Volterra, all’interno del carcere, con la compagnia che hai fondato e contribuito a far crescere in più di trent’anni di fervide invenzioni, tra spettacoli, tournée, festival e, in ultimo, il primo mattone del primo teatro stabile in carcere prossimo a venire. Quando si dice, con tua felice intuizione, l’impossibile diventa possibile. Aggiungo: basta crederci. Però cominciamo dai tuoi inizi, dalla scoperta del teatro, da dove vieni... A Volterra ci sono arrivato per il Gruppo Internazionale L’Avventura che veniva dall’esperienza di Grotowski. In più occasioni ho parlato di quell’esperienza, anche nel mio ultimo libro di conversazioni con Rossella Menna, Un’idea più grande di me. A ogni modo, arrivo a Volterra negli anni 1982-1983. Non ero a digiuno di teatro, avevo già cominciato a far pratica a Napoli. Nei fatti partecipo a Viae, un progetto residenziale dove si viveva insieme, si dormiva, mangiava, lavorava in spazi che si trovavano in una villa settecentesca poco fuori della città di Volterra. E vi trascorro una settimana di lavoro intensivo: mi era sembrato talmente incredibile il fatto che non avesse a che fare con la rappresentazione, col teatro comunemente inteso, ma che fosse legato fortemente a quella che era un’idea performativa di fare esperienza, cioè un’esperienza altra, diretta, un lavoro quasi parallelo al teatro ma molto più profondo, che ti toccava dentro, ed è allora che comincio a pensare seriamente a un altro modo di fare teatro, all’esistenza di altre possibilità di espressione. Con “L’Avventura” sposavate interamente le teorie dell’estremo Grotowski? Bisogna pensare che nell’Avventura c’erano le guide che avevano lavorato all’ultimo progetto di Grotowski e avevano dato vita al progetto di Volterra. Quindi, riallineando un po’ di storia: nel 1980 l’ISTA di Eugenio Barba arriva a Volterra e lascia questa eredità del gruppo L’Avventura. Mi spiego: gli incontri dell’ISTA finiscono a Volterra e viene utilizzato per le loro attività il teatro di San Pietro, il teatro che poi sarebbe diventato la sede di Carte Blanche, il braccio organizzativo e operativo della Compagnia della Fortezza, e anche altri luoghi di Volterra, dove venivano ospitati altri partecipanti. L’ISTA di Eugenio Barba è stato un fatto storico molto importante per gli sviluppi del teatro a Volterra. Barba sicuramente si ricorda sia di Volterra sia di tutti questi passaggi, di quell’edizione che risulta fondamentale ancora oggi retrospettivamente. Quando è finita l’ISTA, dunque, è rimasta questa eredità, questo gruppo che ha lavorato poi nel teatro di San Pietro e l’ha rimesso in ordine e ristrutturato, ed è quindi nata una nuova esperienza. Io ero a Napoli, avevo iniziato il mio rapporto col teatro, avevo letto Per un teatro povero di Grotowski: rimasi colpito dalla parte dedicata all’attore-prostituta e da quella riflessione, dopo essermi preparato per l’esame di Storia del teatro, ho deciso che avrei fatto il regista. Quindi per me è stato naturale partire per Volterra e incontrare un gruppo proveniente dall’esperienza di Grotowski e con Grotowski ancora vicino a tutta questa esperienza. Insomma, l’ho incontrato anche in quelle occasioni. Finita l’Avventura ho deciso di ritornare al teatro ed è lì che a un certo punto, stando dietro la finestra del teatro, vedevo il carcere. Ecco, adesso ci arriviamo. Ma prima ti sei sempre ritenuto un regista, al di là che tu come corpo appari e guidi in prima persona gli attori in scena? No, inizialmente non andavo mai in scena - anche se avevo un vissuto da performer, ero abituato a stare in scena -, agli inizi in carcere vivevo più da regista. Tranne laddove c’è stato bisogno, nel processo creativo cominciato con la Gatta Cenerentola. Ma, tornando all’immagine evocata poco fa, alzando gli occhi verso il carcere ho detto: “È lì che creerò la mia compagnia di teatro”. Ed è nata la Compagnia della Fortezza... È nata così. Dentro il carcere sono arrivato e abbiamo studiato la Gatta Cenerentola, che è stato il primo tentativo di laboratorio di teatro, e successivamente allestito lo spettacolo. Dentro il carcere ho trovato tutta una comunità di napoletani che si era iscritta a questo laboratorio, e loro chiaramente mi sfidavano - però ci devi essere anche tu - con la parte di Femminella, questa parte storica nella Gatta Cenerentola, e io a ribattere: “Che problema c’è?”, anche perché ero stato io ad averli invogliati a travestirsi, erano tutti travestiti, in tutte le parti femminili, e dunque mi sono detto: “Lo faccio anch’io”. Così mi sono ritrovato in scena. Quindi sei andato sulla tradizione elisabettiana... Sì, esatto, ed era anche normale che io usassi il napoletano che è stato un ponte per cominciare a dialogare con loro, un territorio dove ritrovarci, in qualche modo, trovarci e ritrovarci. E così è iniziata quest’avventura. Conoscevi già l’esperienza di teatro in carcere o ti sei ritenuto subito un pioniere, come se fossi il primo a entrare in carcere e a provare a far teatro, a produrlo, direi, meglio, a generarlo? L’ho pensato in questi termini, poi ho scoperto che c’erano, chiaramente, altre esperienze. E avevo come esempio quella importante in America di Samuel Beckett, con questo detenuto- attore, Rick Cluchey, che ho fatto venire anche a Volterra a recitare L’ultimo nastro di Krapp in una delle edizioni del Volterra Festival. E attraverso Cluchey, io ho scoperto te. Perché sono venuto a Volterra, al festival, la prima volta, proprio per vedere Rick Cluchey, perché avevo organizzato la retrospettiva di Beckett con tutti i suoi film, con cinquanta e più video, con il Comune di Milano per il centenario nel 2006... Ecco, dopo mi sono reso conto che c’era, chiaramente, questa esperienza, che era, penso, di almeno venticinque, trent’anni prima di noi. Ma per quanto riguarda l’Italia sono arrivato credendo che fosse la prima esperienza e poi ho scoperto che era così, nessuno prima aveva fatto una scelta del genere: c’erano attori, artisti di vario genere che avevano portato i loro spettacoli dentro il carcere. C’era stato qualcosa a Roma, ma erano sempre cose temporanee, facevano uno spettacolo e poi era finita lì. Migliaia di morti e desaparecidos in mare ogni anno sulle rotte verso l’Europa di Marco Santopadre Il Manifesto, 21 gennaio 2023 I numeri spaventosi di Caminando Fronteras. La traversata via Mediterraneo o passando per “ruta canaria”, una strage infinita che i dati ufficiali non raccontano fino in fondo. Ormai nel Mediterraneo fanno notizia solo le stragi. Eppure i dati sul totale dei migranti morti ogni anno nel tentativo di raggiungere le coste europee sono spaventosi. Nel 2022 solo sulle rotte per la Spagna sono morte o sono scomparse 2.390 persone migranti, comprese 288 donne e 101 bambini. Il bilancio del 2022 dimezza quasi quello del 2021 - quando le vittime erano state addirittura 4.639 - ma supera comunque i 2.170 morti del 2020. A rendere pubbliche le terribili cifre, in un dettagliato rapporto sulle rotte migratorie che l’ong monitora ormai da venti anni, è l’organizzazione Caminando Fronteras. Le stime fornite dell’ong si basano su un certosino lavoro di contabilizzazione dei corpi recuperati e identificati, sommati ai dispersi in mare la cui scomparsa viene denunciata dai familiari nei paesi d’origine o da coloro che riescono ad arrivare sulle coste spagnole. A volte i naufragi o la caduta in mare dei “passeggeri” vengono comunicati agli operatori dell’ong direttamente dalle imbarcazioni ancora al largo, insieme a disperate richieste d’aiuto. Per questo le cifre fornite da Caminando Fronteras sono sempre molto superiori rispetto ai dati “ufficiali” forniti dalle istituzioni di Madrid o dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. L’agenzia dell’Onu, ad esempio, per quanto riguarda la rotta atlantica - quella che porta alle Canarie - contabilizza per il 2022 “solo” 543 vittime. In quella tratta, invece, il rapporto di Caminando Fronteras registra 1784 tra morti e desaparecidos, confermando che la “ruta canaria” rappresenta di gran lunga il percorso più pericoloso per coloro che tentano di raggiungere le coste andaluse. Stando alle cifre fornite dal Ministero degli Interni spagnolo, negli ultimi mesi ilnumero di migranti che avrebbero tentato la “ruta canaria” sarebbe sceso del 30%, grazie alle buone relazioni allacciate da Madrid col regime marocchino dopo il riconoscimento da parte di Sánchez della sovranità di Rabat sui territori saharawi occupati dal Marocco. Le autorità marocchine sarebbero più attive nel bloccare la partenza dei natanti dalle proprie coste e nell’impedire con la violenza ai profughi di superare le recinzioni che blindano le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla. A costo di stragi come quella - 40 morti - provocata dai gendarmi marocchini e spagnoli il 24 giugno scorso. Lo stesso fanno le autorità mauritane, in cambio dei finanziamenti e dell’assistenza di Madrid. Il risultato è che i profughi sono costretti a salpare da porti più a sud e più lontani dall’arcipelago spagnolo, aumentando ulteriormente il già feroce indice di mortalità della rotta atlantica. Ma anche la rotta algerina, denuncia l’ong - che rivendica la rimozione di ogni ostacolo legislativo che impedisce o rallenta il salvataggio dei migranti - si rivela molto pericolosa: nel 2022 è costata la vita a 464 persone. Ucraina. La doppia escalation della guerra lunga di Nathalie Tocci La Stampa, 21 gennaio 2023 Siamo a un punto di svolta nella guerra in Ucraina. L’ultimo incontro dei ministri della Difesa della Nato e dei Paesi partner nella base tedesca di Ramstein non ne è la causa, ma la conseguenza. Al netto dei dettagli militari - dalle decisioni riguardo l’invio di sistemi di difesa aerea statunitensi Patriot, i carri britannici Challenger e i francesi Amx-10, fino alle diatribe sui carri tedeschi Leopard e gli americani Abrams - come va politicamente questo cambio di passo? In Occidente si è andata consolidando la consapevolezza che Mosca non è interessata a negoziare. Il Cremlino è ottusamente determinato a proseguire la guerra, nonostante i fallimenti militari, l’indebolimento dell’economia e, soprattutto, i giganteschi errori di valutazione strategica riguardo la resilienza sociale e militare ucraina e quella economica e politica occidentale. La Russia sta perdendo la guerra sia militarmente in Ucraina sia energeticamente in Europa, ma questo non cambia di una virgola la strategia di Vladimir Putin. Come spesso accade nei sistemi dittatoriali, quando ci si ritrova in una fossa, si continua a scavare. Putin continua imperterrito; anzi, pianifica una nuova escalation. È per questo che la propaganda russa sta gradualmente sostituendo la narrazione dell’”operazione militare speciale” con quella della “grande guerra patriottica”. Mosca fa finta di dimenticare che la Seconda guerra mondiale fu difensiva, e non aggressiva come questa. A differenza del secolo scorso, quando l’Urss vinse la guerra assieme alle potenze alleate, oggi Mosca è militarmente sola: fatta eccezione per Teheran, nessuno, inclusa Pechino, la sostiene militarmente, e nemmeno l’Iran appoggia l’annessione dei territori occupati dai russi in Ucraina. Anche Paesi vicini alla Russia hanno espresso critiche, da ultimo la Serbia, che ha stigmatizzato il ricorso ai mercenari del Gruppo Wagner. La narrazione della nuova “grande guerra patriottica”, però, non serve al Cremlino per rafforzare la propria legittimità internazionale, quanto per giustificare internamente una nuova mobilitazione di massa. Potrebbero arrivare altre 300mila truppe al fronte. Per quanto la stragrande maggioranza, inesperta e priva di mezzi e addestramento, finirà come carne da macello, ciò non toglie che si tratti di un rischio enorme per l’Ucraina. Non a caso la probabile escalation russa è stata al centro dell’incontro tra il capo della Cia Bill Burns e il presidente Volodymyr Zelensky due giorni fa. Insomma, anche i più idealisti (ingenui, cinici, disinformati?) devono fare i conti con la brutale chiarezza delle parole e, soprattutto, delle azioni russe. Come già scritto su queste pagine nei mesi scorsi, lo scenario russo purtroppo rimane quello dell’escalation fino al collasso. È con questo che bisogna fare i conti. E che piaccia o no, farci i conti (rispettando sia l’integrità dei valori sia l’interesse nazionale ed europeo) significa sostenere militarmente Kiev, permettendole di difendersi dall’escalation russa. A questo si aggiunge una seconda riflessione, di natura politico-temporale. L’unico reale vantaggio che Putin sa di avere rispetto non tanto all’Ucraina, ma all’Occidente, è il tempo. Non avendo un’opinione pubblica, istituzioni democratiche ed elezioni di cui tener conto, Putin è disposto a continuare la guerra a oltranza. Pensa che l’Occidente prima o poi si stancherà, e quello sarà il momento di rifarsi di tutte le disfatte militari subite. Il calcolo di Putin non è senza fondamento. Nel 2024 ci saranno sia le elezioni europee, sia le presidenziali americane. Mentre il sostegno all’Ucraina negli Usa per il momento è solido, non si può tuttavia escludere che il candidato dei repubblicani favorisca una politica di disimpegno, tanto più se quel candidato sarà (di nuovo) Trump. Da qui deriva la crescente presa d’atto, in Occidente, che bisogna fare il possibile affinché la guerra finisca il prossimo anno. Alla luce della prima consapevolezza - quella dell’escalation russa fino alla sconfitta - , l’unico modo per riuscire nell’intento è mettere gli ucraini nelle condizioni di sconfiggere la Russia liberando il proprio territorio. Sarebbe meraviglioso un mondo in cui la liberazione dell’Ucraina possa avvenire attraverso il dialogo, la non violenza e la diplomazia. Purtroppo, non è il mondo in cui viviamo; sicuramente non è quello in cui vive Putin. Ramstein non è altro che la crescente presa di coscienza di tutto ciò. L’Africa sull’orlo della guerra. Cinque Paesi coinvolti nello scontro Congo-Ruanda di Antonella Napoli La Repubblica, 21 gennaio 2023 Dopo la rottura della fragile tregua tra Kinshasa e Kigali, l’Africa precipita verso un conflitto che coinvolge anche eserciti e forze militari di Uganda, Kenya e Burundi. La fragile tregua tra la Repubblica democratica del Congo e il Ruanda, sul filo degli accordi di Luanda, in Angola, e del tavolo dei colloqui a Nairobi, in Kenya, è ormai in frantumi. Con uno scambio al vetriolo tra i due governi, ieri è stata ufficializzata la rottura. Alla nota diffusa per volontà del presidente Félix Tshisekedi, con la quale il Congo ha annunciato la ripresa delle azioni militari contro i ruandesi del Movimento 23 Marzo, il capo di stato del Ruanda Paul Kagame ha risposto che “il reclutamento di mercenari stranieri da parte della Rdc è una chiara indicazione che si stia preparando per la guerra, non per la pace”. E ha aggiunto che il suo Paese “si difenderà in ogni modo possibile”. “Il nostro governo - replica Kinshasa - chiede alla comunità internazionale di assumersi le proprie responsabilità, sanzionando le autorità del Ruanda e i leader del M23 che continuano a violare il diritto internazionale e i diritti umani nell’Est del Congo. Noi, popolo congolese, abbiamo deciso, questa volta, di porre definitivamente fine all’insicurezza e alle violenze, con o senza il supporto internazionale”. Il conflitto che si sta consumando nel cuore della Regione dei Grandi Laghi appare sempre più una guerra su larga scala, che rischia di destabilizzare tutto il continente africano. Negli ultimi giorni la situazione è precipitata, portando a un livello di tensione politica e militare che non si registrava da decenni, tanto da spingere il governo congolese a dichiarare la “mobilitazione totale in tutto il Paese”. Al momento in Rdc sono coinvolti gli eserciti di Uganda, Kenya, Burundi, come forza regionale della Comunità degli Stati dell’Africa orientale in supporto delle truppe congolesi. I militari dell’Eac non si trovano tutti nelle stesse aree di conflitto e operano con comandi separati: l’Uganda in Ituri, soprattutto per contrastare il Codeco (gruppo islamista di origine ugandese), il Burundi nel Sud Kivu, contrapponendosi ai Red-Tabara (oppositori del governo burundese), il Kenya dispiegando i propri uomini nel Nord Kivu, per fermare l’avanzata dell’M23. “Il Movimento 23 Marzo - spiega l’analista Giovanni Gugg - è formato principalmente da guerriglieri tutsi e il governo congolese ha apertamente accusato Kigali di supportare gli insorti che dopo aver annunciato di essere pronti a un gesto di buona volontà in nome della pace, non hanno dato seguito al ritiro annunciato”. Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha dichiarato che “i ribelli sono equipaggiati come un esercito regolare e i caschi blu sono in difficoltà nel contrapporsi alla loro offensiva”. A pagare le conseguenze degli scontri su larga scala in tutto l’Est del Paese è come sempre la popolazione civile. Solo pochi giorni fa la Monusco, la missione Onu nella Rdc ha diffuso la notizia del ritrovamento di 49 corpi, tra cui 12 donne e sei bambini, in due fosse comuni nella provincia orientale dell’Ituri. Assedio ai palazzi del potere in Perù. La folla: “Via Boluarte, elezioni subito” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 21 gennaio 2023 La presidente Boluarte ha preso il potere con un colpo di mano ma nel rispetto della Costituzione. Ora metà paese chiede le sue dimissioni. Tutto inizia qui, all’incrocio tra calle Cuzco e calle Lampa. Pieno centro di Lima, a due passi dalla Plaza de Armas. Sullo sfondo si staglia il Palazzo Pizarro, sede della presidenza. È l’obiettivo della folla oceanica che da tre ore ha invaso la capitale. L’hanno promesso, adesso sono solo in cinquantamila, arrivati dalle 13 regioni da una settimana in rivolta e sottoposte a coprifuoco. L’hanno chiamata la “Marcia per la presa di Lima”. Ricordano gli ultimi giorni del 2000 quando il Perù si ribellò ad Alberto Fujimori, invase le strade e costrinse il dittatore alla fuga. La storia si ripete. All’interno del palazzo, collegata in diretta con i ministri della Difesa e dell’Interno, è barricata la presidente Dina Boluarte. Mezzo paese chiede le sue dimissioni. Ha preso il potere con un colpo di mano. “Un attacco alla democrazia”, gridano in mezzo a una selva di bandiere con i colori nazionali. Era la prima vicepresidente e senza più un capo di Stato toccava a lei prendere il comando, così dice la Costituzione. Boluarte sa di essere debole. È sostenuta solo dai militari. Ha comunque un vantaggio: proviene anche lei, come Castillo, dalle Ande, regione di Apurimác. Conosce la sua gente, quelle popolazioni sempre ai margini del potere; quando parla arriva al loro cuore. Chiede una tregua, condivide il dolore per le 53 vittime colpite dai proiettili esplosi dalla polizia. La maggioranza dei morti non partecipava agli assalti degli aeroporti di Juliaca, Arequipa, Cuzco, Lambayeque. Sono morti sull’uscio di casa mentre soccorrevano chi era stato colpito dai proiettili. La foto delle 22 bare allineate sulla piazza centrale di Puno è il simbolo di questo sciopero nazionale che adesso si trasforma in guerriglia. È stato convocato da tutte le organizzazioni sociali e i sindacati. Hanno aderito gli studenti e i professori. La polizia ha tollerato ma poi, ieri mattina, è entrata con la forza nei campus e ha fatto sgomberare tutti. Dal 7 gennaio scorso milioni di peruviani, contadini, operai, commercianti, lavoratori informali, minatori, si sentono orfani. Privati del riferimento che con Pedro Castillo aveva restituito loro dignità e rappresentanza. Non basta cambiare presidente. Bisogna ricominciare daccapo. Sciogliere il Parlamento, indire subito nuove elezioni generali. Il Palazzo su cui puntano adesso i manifestanti è sordo ad ogni richiesta. Questo alimenta rabbia e frustrazione. Bocciata la proposta di anticipare il voto: non più quattro ma due anni. Non bastano gli appelli per fermare le violenze. Il corteo si divide in spezzoni: una parte prosegue lungo il percorso, un’altra si scaglia sul cordone di poliziotti. Lo scontro è durissimo. Sassi contro lacrimogeni. Gli agenti sono travolti, ne arrivano altri, reggono l’urto. Alle spalle spuntano i blindati, i soldati sono chiusi in caserma ma pronti a intervenire. Nel caos scoppia anche un incendio, brucia un palazzo. Le fiamme gialle e rosse illuminano la notte di Lima. Ci sono 22 feriti, 7 arresti. Due nuovi morti per gli altri scontri nel sud durante i tentati assalti agli aeroporti di Cusco, Ayacucho e ancora Juliaca. La folla si disperde. La presidente si presenta in tv. Accusa alcune frange che “cercano di violare lo Stato di Diritto”. Tiene il punto, non si dimette. “Il governo”, assicura, “è fermo e il mio gabinetto è più unito che mai”. Non è finita. I cinquantamila restano a Lima, pronti a scendere di nuovo in piazza.