Cospito peggiora, ma via Arenula ancora non risponde di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 gennaio 2023 Con la cattura di Matteo Messina Denaro, c’è l’inevitabile reazione - dettata dall’onda emotiva - che rafforza la necessità del 41 bis, sorvolando sulle sue storture sia nell’applicazione che nell’esecuzione visto le innumerevoli misure afflittive (alcune già tolte dalle sentenze della cassazione e della Consulta) che esulano dal suo scopo originario. E si rischia di oscurare la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito che da tre mesi è in sciopero della fame. Da giorni è sul tavolo del ministro della Giustizia Carlo Nordio la nuova richiesta di revoca presentata dall’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini. Ma ancora nessuna risposta e c’è il rischio che rimanga inevasa. Così come l’appello “Per la vita di Alfredo Cospito” rivolto al Guardasigilli e all’Amministrazione penitenziaria da parte magistrati, avvocati, personalità della cultura tra cui Massimo Cacciari, Gian Domenico Caiazza, don Luigi Ciotti, Gherardo Colombo, Elvio Fassone, Luigi Ferrajoli, Giovanni Maria Flick, Tommaso Montanari, Moni Ovadia, Livio Pepino, Nello Rossi. Nel frattempo, martedì scorso, il legale è andato a visitare il suo assistito recluso nel supercarcere di Sassari e l’ha trovato profondamente dimagrito. Ha perso 40 kg e rischia seriamente di morire. L’avvocato Albertini ha spiegato che Cospito continua ad affermare che non arresterà la sua protesta, se non con la revoca del 41bis a cui è sottoposto, consapevole del significato che questa affermazione può rappresentare. “Precisa che la vita al 41 bis non è vita e che se tale deve essere tanto vale sacrificarla in una lotta contro la barbarie”, fa sapere il suo difensore, riferendo che “Cospito continua a dimagrire superando, oltrepassando, il punto critico della sua protesta, condotto con e sopra il suo corpo e la sua salute, ma il ministero continua a serbare un incomprensibile silenzio sull’istanza di revoca inviatagli dalla difesa”. L’avvocato prosegue sottolineando che “eppure era stato lo stesso ministro a lamentare in una nota l’assenza di un suo formale coinvolgimento. Ciò detto, anche qualora la decisione ministeriale fosse negativa, Cospito e tutti e tutte coloro mobilitatasi in questi mesi a sostegno del suo sciopero della fame, hanno il diritto di sapere per quali ragioni l’anarchico debba essere condannato ad espiare la sua pena nel regime detentivo speciale”. Infine conclude amaramente: “Non vorremmo che, come spesso avviene, il ministero attendesse lo spirare dei 30gg dalla presentazione dell’istanza e quindi omettesse qualsiasi esplicita decisione trincerandosi in un silenzio- diniego privo di motivazioni, di ragioni, di senso dell’umanità”. Il caso dell’anarchico Cospito è serio. Le sue condizioni di salute sono ogni giorno più serie e il rischio che possa morire diventa sempre più alto. Così come, va ribadito, non si comprende come mai sia stato raggiunto da una misura nata per evitare che un boss o un terrorista invii messaggi occulti alla propria organizzazione. Quelli di Cospito, seppur farneticanti, sono pensieri inviati alla luce del sole. E non a una organizzazione criminale, ma a soggetti gravitanti nella cosiddetta galassia anarchica. A ciò si aggiunge un nuovo e fondamentale elemento che ha permesso al suo avvocato di ripresentare la richiesta di revoca: ovvero che non esiste la Federazione anarchica informale (FAI) come associazione o organizzazione. Non è un dettaglio da poco, perché il 41 bis - come prevede la legge che l’ha istituito - serve per evitare che i boss o i terroristi, diano ordini a una organizzazione ben strutturata. E non è il caso di Cospito. È quello che emerge nero su bianco dalle motivazioni della sentenza di assoluzione del processo Bialystok che ha visto 6 anarchici sotto accusa per diverse tipologie di reati. Ipotesi investigativa che dette il via all’operazione Byalistock, poi scaturito in un processo con tanto di assoluzione, parte dal presupposto dell’esistenza di gruppo criminale della federazione anarchica informale (Fai) avente come base a Roma presso il Bencivenga occupato, compagine che si muoverebbe nell’alveo delle indicazioni di Cospito. La sentenza in esame ha escluso la presunta esistenza di questa cellula ritenuta affiliata alla Fai. Ogni azione non è riconducibile alla Fai come associazione e organizzazione, ma alla Fai come metodo. In sostanza, emerge chiaramente una differenza tra Fai metodo e Fai associazione. Ogni singola azione è riferita alla “Fai metodo”, ossia a quel fenomeno di concorso di persone nel reato nelle singole vicende, ma rispetto al quale resterebbe esclusa la possibilità di ricondurlo a un’ipotesi associativa. Come già riportato su Il Dubbio, questa situazione è una grana non da poco per l’attuale governo, anche alla luce del fatto che il 41 bis, a causa del suo utilizzo spropositato, è stato al centro di varie sentenze che passano dalla Corte costituzionale fino ad arrivare alla Corte Europea di Strasburgo con il caso dell’ex boss Bernardo Provenzano. Ancora altre condanne, e il 41 bis potrebbe finire pesantemente compromesso nella sua legittimità a causa del suo stesso smodato utilizzo. a Corte Costituzionale, nella nota sentenza numero 376 del 1997, ha ben spiegato come anche nel caso del 41 bis, pensato per contrastare la criminalità organizzata, sia necessario sempre tenere in adeguata considerazione l’articolo 27 della Costituzione, con i suoi riferimenti alla dignità umana e alla rieducazione del condannato. Non solo. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, tramite un rapporto rivolto alle autorità italiane relativo a una visita effettuata nel 2019, raccomandò alle stesse di effettuare sempre “una valutazione del rischio individuale che fornisca ragioni oggettive per la continuazione della misura”. Il Comitato sollecita che vi sia sempre una valutazione estremamente rigorosa del caso individuale evitando standardizzazioni nel trattamento solo sulla base del titolo di reato. E proprio intorno a una accurata valutazione del rischio si sofferma anche la Raccomandazione del 2014 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa rivolta ai Paesi membri sul trattamento inflitto ai detenuti ritenuti pericolosi. Ricordiamo che la Corte europea dei diritti umani, nel 2018, ha condannato l’Italia per la decisione di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 fino alla morte del boss mafioso, nonostante fosse in stato vegetativo. Attenzione: la Cedu non condanna l’Italia per le condizioni di detenzione previste dal 41bis in sé, ma per la riconferma di un regime duro lì dove non ci siano più i presupposti. E i presupposti non ci sono nemmeno nel caso di Cospito come ben argomentato dal suo legale. L’allarme della dottoressa: Cospito sull’orlo del precipizio di Frank Cimini Il Riformista, 20 gennaio 2023 “Alfredo Cospito è sull’orlo del precipizio. Ha consumato ormai tutto il grasso, la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro. L’ho sconsigliato di camminare durante l’ora d’aria perché il quadro potrebbe ulteriormente aggravarsi consumando altre energie”. È questa la sintesi della visita settimanale nel carcere di Bancali della dottoressa Arcangela Melia, il medico di fiducia. Intanto il suo avvocato Flavio Rossi Albertini racconta che Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre gli ha confidato: “È l’inferno dal quale mai mi faranno tornare a riveder le stelle”. Il legale aggiunge: “C’è una finestra nella cella di due metri e mezzo per tre metri e mezzo, una finestra schermata dal plexiglass che non si apre quasi mai e che si affaccia, al di là delle sbarre, su un cubicolo interno circondato da muri di cemento alti metri e metri, schiacciati da una rete metallica a chiudere il quadrato di cielo. Cospito vive in quella cella da solo, come impone il regime carcerario al quale è sottoposto, ci passa 21 ore della sua vita. Le restanti tre le divide tra socialità, un colloquio di un’ora con gli altri 3 detenuti del suo gruppo di socialità, e due ore d’aria in quella sorta di cubicolo di cemento dal quale non può vedere un albero, solo sbarre e cemento”. “Qual è la finalità di questo trattamento: il 41 bis non dovrebbe servire unicamente a recidere le comunicazioni con gli associati all’esterno del penitenziario? Rappresenta una punizione aggiuntiva oppure il tentativo di indurre il detenuto a fare ciò che volontariamente non farebbe mai? - chiede allora l’avvocato dell’anarchico Perché rinchiudere queste persone esclusivamente in istituti penitenziari che si trovano su isole, costringendo i parenti a raggiungerli con viaggi-odissee per parlarci una sola ora al mese attraverso un vetro con il citofono? Perché consentirgli una sola telefonata al mese? Perché - incalza non consentirgli di sentire e vedere i familiari con maggiore frequenza?”. “Cos’è il 41 bis? Una micro sezione dove si è costretti a vegetare in cella 21 ore al giorno, altro che rieducazione ed articolo 27 della Costituzione. No, Cospito non ha una vocazione suicida, non vuole morire, ha tanta voglia di vivere - dice ancora l’avvocato Albertini Rossi all’Adnkronos - ma vorrebbe farlo degnamente”. “Il 41bis è inferno dal quale mai mi faranno tornare a riveder le stelle” di Silvia Mancinelli Adnkronos, 20 gennaio 2023 Alfredo Cospito, detenuto al carcere di Bancali, ha descritto così al suo avvocato Flavio Albertini Rossi la sua vita al 41bis. “C’è una finestra nella cella di due metri e mezzo per tre metri e mezzo - racconta il suo legale all’Adnkronos - una finestra schermata dal plexiglass che non si apre quasi mai e che si affaccia, al di là delle sbarre, su un cubicolo interno circondato da muri di cemento alti metri e metri, schiacciati da una rete metallica a chiudere il quadrato di cielo. Cospito vive in quella cella da solo, come impone il regime carcerario al quale è sottoposto, ci passa 21 ore della sua vita. Le restanti tre le divide tra socialità, un colloquio di un’ora con gli altri 3 detenuti del suo gruppo di socialità, e due ore d’aria in quella sorta di cubicolo di cemento dal quale non può vedere un albero, una siepe, un fiore o un filo d’erba, un colore, solo sbarre e cemento”. “Qual è la finalità di questo trattamento, il 41 bis non dovrebbe servire unicamente a recidere le comunicazioni con gli associati all’esterno del penitenziario? Rappresenta una punizione aggiuntiva oppure il tentativo di indurre il detenuto a fare ciò che volontariamente non farebbe mai? - chiede allora l’avvocato dell’anarchico - Perché rinchiudere queste persone esclusivamente in istituti penitenziari che si trovano su isole, costringendo i parenti a raggiungerli con viaggi-odissee per parlarci una sola ora al mese attraverso un vetro con il citofono? Perché consentirgli una sola telefonata al mese, chiaramente registrata, in alternativa al colloquio visivo, e per soli 10 minuti? Perché - incalza - non consentirgli di sentire e vedere i familiari con maggiore frequenza, quale scopo persegue questa disciplina?”. “Cos’è il 41 bis? Una micro sezione dove si è costretti a vegetare in cella 21 ore al giorno, altro che rieducazione ed articolo 27 della Costituzione. No, Cospito non ha una vocazione suicida, non vuole morire, ha tanta voglia di vivere - dice ancora l’avvocato Albertini Rossi all’Adnkronos - ma vorrebbe farlo degnamente. Solo 204 detenuti su 750 sono condannati all’ergastolo, ciò vuol dire che moltissimi di loro transitano dal 41 bis alla libertà. Ha senso tutto questo? Per i detenuti nemmeno il conforto dei libri, la merce più rara per quanti si trovano al 41 bis: o non li autorizzano, come avvenuto con quelli scritti dalla Cartabia o da Manconi solo per citarne alcuni, o, quando permessi, sono consegnati al con estremo ritardo. La biblioteca di reparto, poi, è composta di soli 170 testi, per lo più puerili e infantili”. “Alfredo Cospito è in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso - racconta ancora il suo legale - assume solo gli integratori che gli permettono di sopravvivere. È una sua scelta non mangiare, anzi prima del 20 ottobre scorso mi ha sempre descritto come buona la qualità del cibo a Bancali. Ti nutrono certo, ma sempre lì stai, in un regime che recide totalmente qualsiasi relazione umana, dove non vedi la natura, dove lo sguardo privo di profondità abbassa la vista, dove sei sottoposto a prescrizioni il cui l’unico scopo è avvilirti, umiliarti, fiaccarti, piegarti, privarti di identità e dignità. Come un pesce rosso ben nutrito, costretto a nuotare in un acquario dove tutto è sempre uguale a se stesso”. Se lo Stato lascerà morire Alfredo Cospito avrà perso su ogni piano: è sbagliato negare l’ascolto di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2023 Se lo Stato lascerà morire Alfredo Cospito - in sciopero della fame nel carcere di Sassari dallo scorso 20 ottobre per protestare contro il regime speciale detentivo ex articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario a cui è sottoposto dallo scorso maggio - avrà perso su ogni piano. Lo sciopero della fame, che affonda le proprie radici nella storia della nonviolenza, è un’azione di protesta che mette a rischio il corpo di chi la compie. Uno Stato forte, in qualsiasi delle sue articolazioni, non misura la propria autorevolezza negando ascolto a chi protesta in forma nonviolenta. L’ascolto fa parte del gioco sano della democrazia ed è perdente un’istituzione che lo teme. Sul piano dei contenuti della protesta, il regime detentivo del 41-bis nasceva dopo la strage di Capaci del 1992 per fronteggiare il più grande attacco criminale allo Stato degli ultimi quarant’anni. Scopo di tale durissimo regime, nel quale il detenuto vive in condizioni di estremo isolamento, è quello di impedire i contatti tra la persona e l’organizzazione criminale di appartenenza, qualora tali contatti possano costituire un concreto e serio rischio per la sicurezza pubblica. Qualora dunque l’organizzazione in questione costituisca effettivamente una minaccia e un pericolo per l’ordine pubblico, secondo un’obiettiva valutazione politica e criminale che uno Stato forte deve essere capace di effettuare. Gli organismi internazionali sui diritti umani hanno sempre invitato le autorità italiane ad attente valutazioni individuali sulla reale pericolosità delle singole diverse situazioni. Una valutazione individuale può dimostrare come, al di fuori di casi estremi, per conseguire il risultato della neutralizzazione del pericolo sia sufficiente affidarsi alle forme ordinarie di detenzione. Nel sistema penitenziario italiano, a seguito di apposite circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fin dall’inizio degli anni 90 esistono le sezioni di alta sicurezza, nelle quali il regime di vita è meno duro per la salute rispetto a quello del 41-bis e nelle quali Cospito è stato detenuto per molti anni prima del maggio scorso. Molte voci si stanno autorevolmente alzando per chiedere una revisione della decisione che ha portato a recludere Cospito in una sezione 41-bis. Revisione che nulla sottrarrebbe alle politiche di contrasto alla criminalità violenta. Anzi. Nel solco della ragionevolezza costituzionale togliere Cospito dal 41-bis contribuirebbe a riproporre anche in fase esecutiva della pena il sacrosanto principio di proporzionalità evitando generalizzazioni che non giovano alla lotta al crimine organizzato. *Coordinatrice associazione Antigone I “demoni” del 41 bis: mafiosi e non solo nella tomba dei vivi di Francesco Grignetti La Stampa, 20 gennaio 2023 Serve a spezzare i contatti dei boss con l’esterno, ma anche a piegarli per spingerli a collaborare. Condizioni pesanti che limitano i rapporti con la famiglia. Più volte la commissione europea dei diritti umani è stata chiamata a pronunciarsi sulla norma. È la tomba dei vivi, il 41bis, ovvero il carcere duro per mafiosi e terroristi. Ciò che davvero fa paura alla criminalità. Fu inventato ai tempi della mafia arrembante e la logica è intuitiva: serviva per spezzare i collegamenti con l’esterno, evitare che i boss continuassero a comandare da dentro le celle, e chiuderla con lo scandalo di certe carceri dove i padroni erano loro. Neanche troppo velatamente, c’è però un’altra motivazione meno nobile, ossia piegare le volontà più riottose e spingerle alla collaborazione. Le condizioni di vita del detenuto soggetto al 41bis sono obiettivamente pesanti. Obbligatoriamente chiuso in una cella singola per l’intero giorno. Ha diritto ad appena due ore al giorno di “socialità” in gruppi composti da massimo quattro persone, tutti allo stesso livello di sicurezza. La regola non vale però per i boss più in vista, il Gotha del Gotha criminale, che vengono detenuti nelle cosiddette aree “riservate” e svolgono la socialità con una sola altra persona, e sempre la stessa. Il capo dei capi - È il caso famoso di Totò Riina che nel carcere milanese di Opera poteva passeggiare esclusivamente con un altro detenuto, il pugliese Alberto Lorusso, affiliato alla Sacra Corona Unita e forse infiltrato agli apparati. Nelle loro lunghe e ripetitive passeggiate, ascoltate con microspie, Riina parlò di molte cose, anche con una buona dose di esaltazione. “Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza... Se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello”. E si vantava a ripetizione, di quello che aveva fatto. Aggrappato alla sua crudeltà del tempo che fu. Riferendosi alle stragi, infatti, e alla morte di Falcone e Borsellino, diceva: “Loro pensavano che io ero un analfabeticchio, così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda, quanto non se lo immaginavano. Totò Riina è morto in carcere, nel carcere di Parma, dove pure vengono rinchiusi quelli del 41bis, il 17 novembre 2017. Perché in carcere si muore davvero se soggetti al 41bis. Ultimamente è deceduto a Milano il boss Antonino Santapaola, fratello dello storico capomafia Benedetto. È morto all’Aquila il vecchio capo della camorra Raffaele Cutolo come anche Feliciano Mallardo. Colloqui - Ciò che più li spaventa sono le restrizioni nei colloqui: uno solo al mese (invece di sei), di un’ora al massimo, e dietro un vetro divisorio, tranne se hanno figli minori di 12 anni, videosorvegliati da un agente di polizia penitenziaria. Su ordine della magistratura possono essere ascoltati dagli agenti. “Nel caso in cui i detenuti non effettuino il colloquio visivo mensile, possono essere autorizzati, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, a svolgere un colloquio telefonico con i familiari, che devono recarsi presso l’istituto penitenziario piu vicino al luogo di residenza al fine di consentire l’esatta identificazione degli interlocutori. La partecipazione alle udienze avviene esclusivamente “da remoto” in videoconferenza”, sintetizza l’associazione Antigone. I Graviano - A luglio scorso erano 732 i detenuti al 41bis, in leggero calo rispetto al rapporto di Antigone del 2020 (759). La maggior parte sono nelle carceri dell’Aquila, di Opera, Sassari e Novara. Nel penitenziario abruzzese, Matteo Messina Denaro incontrerà vecchi sodali. C’è ad esempio Filippo Graviano, condannato anche lui per le stragi del ‘92 e ‘93. Erano giovani e sanguinari, al tempo. Riina inviò a Roma il fratello Giovanni Graviano e Matteo Messina Denaro per uccidere Giovanni Falcone, poi cambiò idea e organizzò il terribile “attentatuni” dell’autostrada. Ecco, Filippo Graviano è al 41bis da tempo immemorabile come il fratello. Entrambi sono riusciti nell’impresa apparentemente inspiegabile di avere concepito un figlio con le legittime moglie nonostante il carcere duro. “Non racconterò mai a nessuno come ho concepito mio figlio mentre ero al carcere duro, perché sono cose intime mie. Dico solo che non ho fatto niente di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche Dio e sono rimasto soddisfatto. Non ho chiesto alcuna autorizzazione, ma ho approfittato della distrazione degli agenti”, spiegò Giuseppe Graviano in un processo. All’Aquila c’è un altro mafioso palermitano, Cesare Lupo, ras del quartiere Brancaccio, che è arrivato fino in Cassazione per ottenere la libertà di salutarsi con gli altri boss. La direzione gli aveva vietato di salutarsi proprio con i fratelli Graviano. Il boss ha impugnato il provvedimento e i giudici gli hanno dato ragione, ma il ministero ha continuato a ribadire che il semplice saluto potesse invece essere pericoloso e “celare un messaggio occulto”. Altri mafiosi importanti che vivono in quelle celle sono Carlo Greco, reggente del mandamento di Santa Maria del Gesù, e Sandro Lo Piccolo, figlio del “barone di San Lorenzo”. Nel suo caso, essendo uno tra i più pericolosi, c’è un trattamento particolarmente occhiuto. Gli avevano vietato “ad personam” di stringere a sé la figlia anche se inferiore ai 12 anni. Ma da qualche tempo non può neppure avere una regolare corrispondenza con il padre, l’anziano capomafia Salvatore, pure lui al 41bis, nel carcere di Parma. “L’unico mezzo per acquisire affetto con mio padre, tra l’altro persona anziana di 74 anni, era la corrispondenza epistolare, posto che dall’arresto ci viene vietata la possibilità dei colloqui sia visivi che telefonici. Essendo entrambi ergastolani significa non vederci e non sentirci più a vita. Se tutto questo non è inumano, ditemi voi cos’è?”, ha scritto di recente in una lettera aperta. Non solo mafiosi, soffrono del 41bis. Ci sono anche alcuni terroristi. A Sassari c’è Alfredo Cospito, l’anarchico che sta facendo lo sciopero della fame, condannato per una tentata strage alla scuola degli allievi carabinieri di Fossano (Cuneo) e la gambizzazione a Genova di un manager dell’Ansaldo. È finito al 41bis perché i suoi proclami, scritti in carcere, sono finiti nei circuiti dell’anarchismo e ciò è considerato un pericoloso collegamento con i compagni che sono fuori. È Cospito che ha raccontato le stranezze del regolamento: gli permettono la lettura dei giornali e dei libri, ma solo se può comprarli un agente della penitenziaria nel supermercato vicino. Se li richiede da lontano, non se ne parla. All’Aquila c’è la brigatista Nadia Desdemona Lioce, responsabile degli omicidi di Marco D’Antona e Marco Biagi. Una irriducibile. Il 2 marzo 2003 con un altro brigatista Mario Galesi, era su un treno regionale Roma-Firenze, sottoposta a un normale controllo dei documenti, sparò agli agenti della Polfer. Colpirono a morte il sovrintendente Emanuele Petri; anche Galesi morirà dopo il trasporto in ospedale. Anche due brigatisti, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma, sono al carcere duro. La quarta della cellula di fuoco, Diana Blefari Melazzi, s’è suicidata in cella nel 2009. Aveva scontato ingiustamente tre anni di cella con il 41bis invece il macedone Ajhan Veapi, musulmano residente ad Azzano Decimo (Pordenone), assolto per non aver commesso il fatto dalla corte d’assise d’Appello di Venezia, che ha riesaminato la sua posizione alla luce di una sentenza della Cassazione. Il 41 bis è questo. Solitudine, controlli asfissianti. E poi c’è l’ex camorrista Pierdonato Zito, 63 anni, dei quali 30 trascorsi in istituti penitenziari; per 8 anni è stato al 41bis. Zito è il primo laureato del Polo universitario penitenziario di Secondigliano. “Sarei impazzito se non avessi potuto studiare”. C’è da credergli. Al “carcere duro” non sono detenuti solo i mafiosi di Giulia Merlo Il Domani, 20 gennaio 2023 Anche la premier Meloni ha fatto confusione, scambiando il regime ostativo con il carcere duro, quando ha dichiarato che “è stato il primo provvedimento del governo”. Il 41bis è un regime di detenzione che isola il detenuto per interrompere legami con la criminalità. Stanno scontando così la pena anche la Br Lioce e l’anarchico Cospito. In Italia ci sono 749 detenuti al 41 bis, di cui 13 donne. Solo 12 istituti carcerari hanno la sezione dedicata a questo regime per gli uomini, mentre ne esiste solo una per le donne. La cattura del boss mafioso Matteo Messina Denaro è stata accompagnata dalla dichiarazione della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha rivendicato come “Messina Denaro andrà al carcere duro perché quell’istituto esiste ancora grazie a questo governo”. In realtà, Meloni fa confusione. In realtà il primo decreto legge del suo governo ha riguardato il carcere ostativo e non quello che gergalmente si chiama “carcere duro”, ovvero il regime detentivo del 41 bis, dall’articolo dell’ordinamento penitenziario che lo disciplina. Il carcere ostativo, infatti, è un regime ancora più afflittivo che prevede il “fine pena mai” ed è stato dichiarato parzialmente incostituzionale da una sentenza costituzionale. I due regimi, però, spesso sono associati, anche se non è automatico: il 41bis riguarda le condizioni alle quali la pena viene scontata, il 4bis riguarda invece le regole di accesso ai benefici penitenziari, impediti nel caso in cui i detenuti per mafia e terrorismo non collaborino con la giustizia, dando prova di allontanamento dal contesto criminale. Entrambi i regimi, che sono misure eccezionali, hanno sollevato dubbi di costituzionalità sia per la Consulta che la Corte europea dei diritti dell’uomo. Questo tipo di detenzione prevede restrizioni aggiuntive per il detenuto e viene disposta “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza”, deve essere “motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza”, ha una durata prevista e viene modulato. Vista appunto la sua eccezionalità, la misura deve essere firmata dal ministro della Giustizia, su richiesta della procura. In concreto, il regime prevede che il detenuto sia tenuto in una cella singola e sotto sorveglianza 24 ore su 24. Le visite sono ridotte a una al mese e della durata di un’ora, con il visitatore, che può essere solo un familiare o convivente o l’avvocato, separato da un vetro per evitare contatto fisico. È prevista la censura della corrispondenza e delle riviste o dei libri da leggere, è limitatissima anche la possibilità di ricevere oggetti dall’esterno. Infine, ogni detenuto ha diritto a non più di due ore d’aria al giorno e in gruppi di non più di quattro persone, associate dalla direzione del carcere sulla base dei reati commessi. Infine, la partecipazione alle udienze è inoltre esclusivamente da remoto. Secondo i numeri forniti dal ministero della Giustizia, al novembre 2021 in Italia ci sono 749 detenuti al 41 bis, di cui 13 donne. Solo 12 istituti carcerari hanno la sezione dedicata a questo regime per gli uomini, mentre ne esiste solo una per le donne ed è quello dell’Aquila, dove nell’ala maschile è stato portato anche Messina Denaro. Inoltre, anche tra questi detenuti speciali esistono ulteriori distinzioni per livello di pericolosità. Per esempio, i boss mafiosi vengono detenuti in un regime ancora più restrittivo nelle cosiddette “aree riservate”, dove l’isolamento è ancora maggiore. Contrariamente a ciò che si pensa, il regime del 41bis non equivale necessariamente ad una condanna all’ergastolo. Dei 749 detenuti, solo 298 sono condannati all’ergastolo e di questi solo 209 in via definitiva. L’età media di questi detenuti è piuttosto alta, tanto che alcuni di loro sono ultraottantenni. Recentemente è morto in questo regime Raffaele Cutolo: aveva ottant’anni, di cui 57 trascorsi in cella. Le donne detenute sono per la maggior parte mogli di boss delle varie organizzazioni criminali che hanno preso il comando dopo l’arresto dei mariti. La più nota è forse Maria Licciardi, detta lady camorra, arrestata nel 2021 dai Ros mentre stava per imbarcarsi su un volo diretto a Malaga. La donna è considerata uno degli elementi di vertice dell’alleanza di Secondigliano e a lei è ispirato il personaggio di Chanel, nella serie Gomorra. Non solo mafiose e camorriste, però. Tra le donne al 41 bis c’è anche la brigatista Nadia Desdemona Lioce, leader delle nuove Brigate rosse e tra i membri del commando che uccise i giuristi Massmo D’Antona nel 1999 e Marco Biagi nel 2002. Arrestata nel 2003 e condannata all’ergastolo, da allora è detenuta all’Aquila in regime di carcere duro. All’Aquila, inoltre, sono detenuti anche il reggente del mandamento di Santa Maria del Gesù di Palermo, Carlo Greco, il boss della ‘ndrangheta Pasquale Condello, detto ‘U Supremu e il camorrista Paolo Di Lauro. Tra i più giovani detenuti al 41 bis c’è anche Leandro Greco, poco più che trentenne e considerato capomandamento di Cianculli sulle orme del nonno, il “papa di Cosa nostra” Michele Greco. Condannato a 12 anni con rito abbreviato per aver tentato di ricostituire la cupola mafiosa dopo la morte di Totò Riina, sono state rifiutate tutte le sue domande di attenuamento del regime carcerario perché è considerato ancora una figura di riferimento per la cosca. Dopo Messina Denaro, il detenuto più tristemente famoso oggi che sta scontando la pena al 41 bis è l’anarchico Alfredo Cospito. La misura è stata disposta nel maggio scorso e da quasi 90 giorni Cospito è in sciopero della fame nel carcere di Sassari, per protestare proprio contro questo regime carcerario che lui considera ingiusto. Intellettuali e giuristi hanno firmato un appello per la revoca della misura nei suoi confronti, viste le sue sempre più precarie condizioni di salute. Pochi studenti in carcere, tra disagi e carenze. “I libri ci rendono liberi” di Matria Elena Viggiano Corriere della Sera, 20 gennaio 2023 Sono i cosiddetti “ristretti”: oggi 1.246 rispetto ai 796 del 2018. Aderiscono solo 75 istituti su 190 e mancano gli spazi per studiare. Il progetto della Statale di Milano: “Così abbattiamo la recidiva”. “Mi sono reso conto che gli studenti ristretti (i detenuti che frequentano corsi universitari, ndr.) studiavano in un contesto di estremo disagio. Lavoravano in carcere di giorno per pagarsi le tasse universitarie e studiavano di notte nelle celle, si procuravano i libri con molte difficoltà e, soprattutto, non erano visti di buon occhio dagli altri detenuti”. A raccontarlo è Stefano Simonetta, docente di Storia della filosofia e responsabile del Progetto Carcere dell’Università Statale di Milano. Perché se il diritto allo studio è da sempre garantito, è pur vero che la situazione delle carceri italiane con problemi di sovraffollamento e mancanza di spazi dedicati, non ne permette la piena realizzazione. E i dati lo confermano. Secondo il Cnupp (Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari), nell’anno accademico 2021/2022 gli iscritti sono 1.246 di cui 1.201 uomini e 45 donne, nel 2018 erano 796. Un numero in crescita ma ancora troppo basso se si considera che, come riporta il Ministero della Giustizia, i detenuti italiani e stranieri sono 56.524. Inoltre i poli universitari penitenziari sono attivi solo in 75 carceri su 190. I numeri - In questo contesto si contraddistingue la Statale di Milano che ha costituito il primo Osservatorio italiano sul diritto allo studio in carcere. “È un organo consultivo dell’Ateneo - racconta Chiara Dell’Oca, ideatrice dell’iniziativa e referente del progetto Carcere - nato per far emergere le specifiche necessità delle persone che studiano in carcere coinvolgendole direttamente nei processi decisionali e garantendogli una forma di rappresentanza”. Tra gli obiettivi c’è anche un lavoro di monitoraggio e ricerca, “sistematizzare e interpretare i numerosi dati che riguardano gli studenti ristretti può aiutare a comprendere come lo studio impatti sul percorso dei carcerati e sulla recidiva”. Infatti solo il 38% dei detenuti è alla prima carcerazione mentre il 62% ha già avuto precedenti esperienze di reclusione. Tassi di recidiva alti legati anche alla carenza di iniziative volte a favorire il ritorno in società. Ma garantire il diritto allo studio in carcere richiede tanto lavoro e passione. Simonetta racconta le varie tappe dalla nascita del progetto Carcere nel 2015 a oggi. Prima di tutto la Convenzione tra l’Università e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia che “ha reso più agevole le attività in carcere anche se all’inizio c’è stato un effetto respingente”. A seguire la cancellazione delle tasse universitarie per i detenuti, la decisione di fare le lezioni in carcere con studenti esterni e la rete di tutor che supporta gli studenti ristretti nel percorso di studi. Oggi la Statale di Milano è il primo ateneo italiano per numero di studenti carcerati, sono 150 iscritti a 35 diversi corsi di laurea afferenti alle 10 facoltà dell’Università. Nel 2015 erano solo 5. Gli studenti appartengono ai diversi regimi detentivi, dall’alta sicurezza alla media sicurezza, 7 sono in regime di 41bis mentre 21 beneficiano di misure esterne. L’impegno degli studenti ristretti emerge poi dal numero di esami sostenuti: nel 2020, anno della pandemia, erano poco più di 100 esami, nel 2021 180, nel 2022 oltre 210. I tutor attivi sono 125. Il valore - Ma sono soprattutto le testimonianze degli studenti ristretti a evidenziare il valore assunto dallo studio universitario nel contesto carcerario. “Lo studio mi ha aiutato a uscire dal carcere, cominciando così il percorso di graduale ritorno alla vita libera”, dice Rocco, prima persona in Italia a cui è stata concessa la semilibertà per ragioni di studio. Per Ambrogio “lo studio più che aiutare a uscire dal carcere, aiuta a non rientrarvi”, mentre per Corrado, condannato per reati gravi, “da quando ci avete portato i libri noi non abbiamo più alibi”. Di solito sono persone adulte che incontrano i libri in tarda età, per Simonetta “questo la dice lunga sul nostro sistema di istruzione che non offre a tutti la possibilità di studiare”. L’aspetto più sorprendente e significativo è l’incontro tra studenti ristretti e studenti esterni. “Ho una ottima opinione - commenta Simonetta - dei nostri giovani, è una generazione di grande generosità. Il dubbio iniziale era se avremmo trovato una ventina di studenti interessati ad entrare: le carceri sono un luogo impegnativo, le procedure sono lunghe. Invece è stato un piccolo tsunami”. È quindi un progetto collettivo “per chi è dentro è un primo incontro con il mondo esterno, l’occasione di percepirsi non più solamente come detenuti. Per chi è esterno è un modo per entrare in contatto con il disagio sociale o psicologico, un’esperienza che può cambiare la prospettiva di vita. Il mondo del carcere è come frequentare un quartiere complicato che trasuda dolore ma anche umanità”. Intercettazioni, Nordio: “Con abusi democrazia dimezzata”. Penalisti: avanti con le riforme di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2023 Camere penali: la speculazione politica di stampo giustizialista e populista ha come obiettivo quello di impedire il programma di riforme liberali. I penalisti italiani plaudono alla ennesima presa di posizione del ministro della Giustizia Nordio contro l’abuso delle intercettazioni telefoniche. Un tema da sempre al centro del dibattito politico ma reso ancora più attuale dal recente arresto del super latitante Matteo Messina Denaro anche grazie all’utilizzo di captazioni telefoniche. Intervenendo ieri al Senato e questa mattina alla Camera, il Guardasigilli ha affermato: “Se non interverremo sugli abusi delle intercettazioni cadremo in una democrazia dimezzata”. “Andremo avanti sino in fondo - ha poi proseguito -, non vacilleremo e non esiteremo. La rivoluzione copernicana sull’abuso delle intercettazioni è un punto fermo del nostro programma”, ribadendo che non ci saranno invece “mai” interventi per limitare l’uso di questo strumento nelle indagini di mafia e terrorismo. Per l’Associazione nazionale forense il Ministro correttamente ha fatto “ribadito l’importanza delle intercettazioni, anche preventive, ma puntualizzando che occorre mettere un deciso stop alle intercettazioni giudiziarie che coinvolgono persone che non sono né imputate, né indagate”. “Come avvocati - prosegue il segretario Anf Giampaolo Di Marco - difenderemo sempre ogni libertà, compresa quella della stampa, ma solo fino a quando non si tramuti in libertà di gogna”. Mentre la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha espresso “il più vivo apprezzamento per le posizioni espresse dal Ministro”, aggiungendo che “non era una prova facile”. “L’arresto del latitante Matteo Messina Denaro - prosegue la nota -, giustamente salutato con unanime sollievo e consenso, ha tuttavia da subito prestato il fianco a inammissibili e grossolane speculazioni di stampo giustizialista”. Nel mirino dei legali le dichiarazioni del Procuratore della Repubblica di Palermo definite “inappropriate” proprio laddove nel corso della conferenza stampa “ha scatenato una avventata ed inutile polemica con il Ministro Nordio sullo strumento delle intercettazioni telefoniche ed ambientali”. In attesa, di conoscere le proposte di riforma, e dopo aver già espresso “forti perplessità circa il ventilato rafforzamento delle intercettazioni preventive di polizia”, i penalisti definiscono quella di Nordio “una posizione chiarissima”, proprio con riguardo alla ribadita intangibilità delle intercettazioni antimafia, “che il procuratore De Lucia non poteva certamente ignorare”. Più in generale, le Camere penali si scagliano contro la “speculazione politica di stampo giustizialista e populista”, che ha come obiettivo quello di impedire “il programma di riforme liberali”. “Sull’onda emozionale di questo arresto eccellente - conclude il documento della Giunta - il giustizialismo nostrano pensa di poter da subito chiudere i conti con quel programma di riforme liberali che, ben oltre il tema delle intercettazioni, punta dichiaratamente a modificare gli assetti ordinamentali e costituzionali come impellentemente richiesto dalla ormai più che ventennale riforma dell’art. 111 della Costituzione: separazione delle carriere, e profondo ripensamento della obbligatorietà dell’azione penale”. “Sulle intercettazioni parole sbagliate e fuori linea”. Il governo prova a contenere le uscite di Nordio di Conchita Sannino La Repubblica, 20 gennaio 2023 Anche in Parlamento la destra si divide sulle dichiarazioni del ministro: “Un errore inimicarci proprio adesso il fronte dell’antimafia”. Contenere la “bomba” Nordio. “Com’è possibile aver fatto questo capolavoro, cioè inimicarsi il fronte antimafia nella settimana in cui la giustizia in Italia scrive una pagina storica?”, si sfoga un senatore FdI. Ovattare le provocazioni del Guardasigilli con l’elmetto. Era difficile, in effetti, segnare un colpo come la cattura di Matteo Messina Denaro e contemporaneamente accendere la contrarietà di magistrati e antimafia civile intorno al progetto del ministro della Giustizia di “una revisione profonda dello strumento delle intercettazioni”, obiettivo mai nascosto da parte dell’ex toga veneta, ma rilanciato e dettagliato con “lezioni” somministrate ai pm, prima dal Senato, poi ieri dalla Camera, proprio nelle ore di una temporeanea, non scontata vittoria comune. “E comunque sul fatto che si continua a intercettare anche per corruzione, frodi, e vari traffici criminali mi pare che adesso è più chiaro, no? Il ministro si è spiegato con maggiore chiarezza, e pazienza”, dice sarcastico uno dei deputati più in contatto con Palazzo Chigi. Sempre di maggioranza, un’altra voce, lucida: “Il ministro dice cose non scorrette, ma un po’ datate, a volte. Anche sull’abuso d’ufficio: ci sono stati interventi normativi che già hanno delimitato l’area in cui incide. Certe intemerate appaiono superflue”. È giovedì sera, l’ora in cui i parlamentari scattano con i trolley verso gli aerei o i treni, sospiro di sollievo per come si è chiusa la seconda giornata di relazione del Guardasigilli ieri, a Montecitorio (tra i troppi applausi di Forza Italia, non graditissimi), andata a segno anche l’elezione del decimo laico al Csm che, dopo il grave impasse del caso Valentino, si prepara all’insediamento dopo veleni e scandali. “Ecco, che bisogno c’era di svegliare il can che dorme, noi, adesso?”, è la rustica immagine che usa un altro parlamentare meloniano, riferendosi alle toghe che non erano pregiudizialmente sul piede di guerra. “Una parte dei magistrati, seri, sono alla finestra a capire quale idea abbiamo: magari persino disposti a considerare che la nostra politica giudiziaria non è vetero berlusconismo. E invece: bum, gli facciamo ‘sto regalo”. Nervosismo, è dire poco. Anche se le dichiarazioni ufficiali di FdI ieri blindano i varchi creati in queste ore, l’irritazione per “i concetti” e “i toni” espressi da Nordio - ritenuti “sbilanciati” - non viene nascosta. Accomuna anche esponenti della Lega, oltre ai meloniani di peso: “Visto che noi siamo quelli che difendono l’ergastolo ostativo, chiedono certezza della pena, teniamo il punto all’ultimo referendum con il No alla cancellazione della Severino”. Queste “complicazioni” create dalla postura di un Guardasigilli (che era stato scelto dalla premier anche in ragione del suo profilo autonomo e ruvido), ora spinge Palazzo Chigi a qualche attenzione. Sopire, correggere. Anche se poi Meloni e Nordio ieri si vedono intorno alla torta di compleanno di lei, con tutti, e saluti e sorrisi appaiono senza cedimenti. Ma la consegna è “armonizzare” le esternazioni più radicali di lui. E per svolgere la missione, che non vale solo per ieri, ma da oggi si consolida, la presidente del Consiglio fa leva soprattutto su due figure. Da un lato Andrea Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia che non a caso, tre giorni fa, mentre Nordio apriva il fuoco su captazioni, trojan e abusi dei magistrati, si precipita in tv a dire: “Le Procure non saranno mai private delle intercettazioni”. Dall’altro, la figura chiave di Chigi, il sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, altra toga, pacato, lontano da tensioni conflittuali. “Le mafie e i delinquenti sono quelli che dobbiamo fare arrabbiare, appena arrivati, non i magistrati che ti arrestano Messina Denaro. Quindi, anche per i reati spia restano le cimici, tranquilli: però senza gli abusi ignobili delle conversazioni private sui giornali. Questo vuole dire il ministro, ma si fa coinvolgere forse da vecchie battaglie. E alla Camera lo ha detto. Certo, meglio di mercoledì in Senato con quella scivolata mostruosa con i boss che non parlano al cellulare”, ancora il senatore. Sospiro teatrale: “Alcune cose le dice male, con la spada. Altre non sono completamente in linea”, ribadisce il parlamentare di FdI. Se c’è una cosa che però ha creato disagio, e incrinato seppur per qualche ora gli equilibri tra Palazzo Chigi e via Arenula è stato quell’annuncio dello stop alle intercettazioni “per i reari minori”: “Non vacilleremo, non esiteremo nella rivoluzione copernicana su questa forma di abuso”, uno squillo di tromba al Senato, Ieri, altra musica: “Intercettazioni anche per i reati satellite”, corregge Nordio. Frenare il ministro con l’elmetto, salvare, dicono, il senso di Meloni per la giustizia. Nordio e la trappola delle tre intercettazioni di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 gennaio 2023 Per il ministro vanno bene quelle dei servizi e quelle senza controllo del giudice, non le ordinarie. Nel suo discorso di ieri alla camera è tornato alla carica. Abbiamo sentito i pareri del professore ex consigliere di Cartabia, Gian Luigi Gatta e del magistrato di Md Stefano Celli. Riecco Nordio sulle intercettazioni. Nella replica della relazione sullo stato della giustizia che ha tenuto ieri alla camera, il ministro è tornato con insistenza sul tema. Per riproporre la distinzione tra intercettazioni preventive, quelle che non passano dall’autorizzazione di un giudice, e intercettazioni giudiziarie, che invece tale autorizzazione prevedono. E per concludere, con una singolare torsione nella sua dichiarata ispirazione garantista, che preferisce le prime. Perché sono intercettazioni condotte nella totale segretezza e dunque, lapalissianamente, non corrono il rischio di finire sui giornali. “Le intercettazioni sono di tre tipi”, ha spiegato Nordio ai deputati. “Il primo è quello relativo ai crimini che riguardano la sicurezza dello Stato, di competenza della procura nazionale di Roma. Nessuna di queste intercettazioni ultrasegrete è mai uscita sui giornali per una ragione molto semplice: è perfettamente individuata la competenza di chi deve garantirne la segretezza”. Spiega Gian Luigi Gatta, professore di diritto penale a Milano ed ex consigliere della ministra Cartabia che “queste sono le intercettazioni dei servizi segreti. Sulle quali peraltro il governo è intervenuto nella legge di bilancio, prolungando a sei mesi il periodo in cui possono essere conservate prima di essere obbligatoriamente distrutte. Sono intercettazioni che servono a sventare reati gravissimi, non a raccogliere elementi di prova. I servizi sono tenuti a informare l’autorità giudiziaria nel caso vengano a conoscenza di reati commessi, ma le intercettazioni così raccolte non sono utilizzabili nel procedimento giudiziario. Chi è stato ascoltato di regola non lo saprà mai”. “Vi è poi un secondo tipo di intercettazioni, preventive”, ha continuato Nordio parlando ai deputati, “sono autorizzate dal pubblico ministero e servono come impulso alle indagini nella ricerca anche della prova ma, soprattutto, dei movimenti dei sospetti autori di reati. Queste intercettazioni sono utilissime. E sono segrete perché essendo il pubblico ministero, cioè il procuratore capo, l’unico responsabile della loro autorizzazione e della loro gestione, rimangono nella sua cassaforte e non vengono mai diffuse sui giornali, anche perché se lo fossero si individuerebbe subito in lui il responsabile”. “Questi due tipi di intercettazioni lodate da Nordio sono quasi sconosciute nella pratica del lavoro di un magistrato”, spiega Stefano Celli, sostituto procuratore a Rimini, del comitato direttivo centrale dell’Anm per Magistratura democratica. “Se la tesi del ministro è che nessuno oltre il pm deve intervenire nell’esecuzione degli ascolti perché altrimenti c’è fuga di notizie, allora il magistrato dovrebbe non solo autorizzare le intercettazioni, ma anche materialmente disporle, far partire i nastri, ascoltarli, distruggerli… tutto lui da solo. Naturalmente non è così, sono operazioni che fa la polizia giudiziaria”. “Queste intercettazioni urgenti autorizzate direttamente dal pm - dice il professor Gatta - si giustificano per evitare la commissione di reati e solo per questo, e temporaneamente, possono fare eccezione alla regola che gli ascolti vanno autorizzati da un giudice, a garanzia dell’indagato e del principio costituzionale della segretezza delle conversazioni”.. Ed ecco finalmente Nordio arrivare alle intercettazioni propriamente dette e comunemente impiegate, quelle dove c’è il controllo di un giudice e l’intervento della difesa. Quelle che gli piacciono di meno. “Poi vi è un terzo tipo di intercettazioni, quelle giudiziarie, effettuate su richiesta del pm e autorizzazione del giudice delle indagini preliminari”, ha detto il ministro ai deputati. Aggiungendo subito che “qui il pasticcio è colossale. Perché transitando dal pm al gip, attraverso il deposito ai difensori, il transito dalle segreterie e dalle cancellerie e la selezione che viene fatta nel contraddittorio davanti al giudice, le intercettazioni finiscono a conoscenza di decine di persone. Poiché tutti hanno il diritto di ascoltarle tutte, gran parte delle quali riguardano fatti che non hanno niente a che vedere con i processi, inevitabilmente escono sui giornali notizie che diffamano l’onore di privati cittadini. Ecco l’abuso - ha concluso Nordio - sul quale noi vogliamo intervenire e sicuramente interverremo”. “Tutte le indagini - chiarisce il professor Gatta - devono essere fatte quando ci sono degli elementi concreti che lasciano immaginare la commissione di un reato, non si può intercettare a caso ed è proprio questa la valutazione che fa il giudice nell’autorizzarle. È lui a garantirle e proprio per questo solo queste intercettazioni, a certe condizioni, possono essere utilizzate nel processo”. Quanto al rischio che denuncia Nordio “Il principio generale è che le attività di indagine sono coperte dal segreto, altrimenti non sono indagini. Il problema dunque va spostato sulla conservazione e sul momento in cui possono diventare note e quindi pubblicate. Proprio il punto su cui è intervenuta la riforma Orlando”. Si tratta di una riforma del 2017 che però, per via dei ripetuti rinvii dei governi Conte uno e due, è entrata in vigore solo a fine 2020. Prevede che le conversazioni irrilevanti vadano stralciate, ma quello che è rilevante a garanzia dell’indagato deve essere stabilito in contraddittorio con la difesa. Al momento di consentirne finalmente l’entrata in vigore, l’allora ministro 5 Stelle Bonafede cancellò dalla riforma il divieto di trascrizione delle conversazioni irrilevanti. “Il rischio che circoli materiale non rilevante c’è - dice ancora il magistrato Celli - ma seguendo il ragionamento del ministro bisognerebbe concludere che il pm deve fare tutto da sé, le intercettazioni devono servire solo a lui e dunque la difesa neanche le deve conoscere. E sarebbe questa la soluzione garantista. Allora, se il problema sta a valle, non capisco perché non si stia proponendo di migliorare la procedura di deposito, conferimento all’archivio riservato, individuazione delle conversazioni rilevanti, trascrizione… Ma si stia invece immaginando di limitare a monte le intercettazioni, una fase in cui neppure il ministro individua criticità”. “La mia impressione - conclude il professor Gatta - è che il problema più che dalle norme dipenda dalle prassi e possa essere risolto perseguendo e sanzionando, così com’è previsto, i comportamenti censurabili. Dopo di che non è possibile continuare a discutere in astratto una materia così tecnica. Attendiamo che il ministro proponga un testo sul quale confrontarsi, cominciando però da una valutazione della riforma Orlando, che ha solo due anni di vita, basata sui fatti e non sulle sensazioni”. Intanto, zitto zitto, il governo dà ai servizi la facoltà di intercettare come e quando vogliono di Federica Olivo huffingtonpost.it, 20 gennaio 2023 Mentre si discute dell’ipotesi di una stretta per le procure, con la manovra finanziaria è passato sotto silenzio un emendamento che esclude le operazioni del Sisde dall’area del comparto giustizia. Cdm approva le modifiche alla riforma Cartabia. “Se non interverremo sugli abusi delle intercettazioni cadremo in una democrazia dimezzata”, dice il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, alla Camera. Presentando la relazione sull’amministrazione della giustizia, precisa - come anticipato da HuffPost - che quando si interverrà sulle intercettazioni, non se ne vieterà l’uso non solo per i reati di mafia e terrorismo, ma anche per altri illeciti presenti nella lista. Nello specifico, dopo le sollecitazioni dei pm, il ministro fa riferimento ai “reati satelliti della mafia”. La corruzione è tra questi. A dimostrazione del grande attivismo del governo in tema di giustizia, in Consiglio dei ministri sono stati approvati, il 19 gennaio, ritocchi alla riforma del processo penale Cartabia. Nello specifico, è stato modificato il meccanismo per cui alcuni reati erano diventati perseguibili solo con la querela della vittima, anche nel caso in cui si ipotizzasse l’aggravante mafiosa. Il nuovo disegno di legge stabilisce che ogni volta che viene contestata l’aggravante di metodo mafioso, i reati potranno essere perseguiti d’ufficio - e quindi direttamente dalle procure - anche se non arriva la querela della vittima. Lo stesso discorso vale per l’aggravante di finalità di terrorismo o di eversione. Il secondo intervento - che, come il precedente, segue la scia proposta da Gian Luigi Gatta, consigliere dell’ex ministra, anche su HuffPost - riguarda l’arresto in flagranza. La legge Cartabia, infatti, prevedeva che un ladro non avrebbe potuto essere arrestato se la persona cui era stata rubata, ad esempio, l’auto non fosse stata presente al momento del furto, o reperibile. Con la nuova proposta firmata Nordio, la vittima avrà 48 ore di tempo per fare la querela. “In una settimana aperta dallo storico arresto del più pericoloso mafioso ancora latitante, il governo propone al Parlamento, con procedura d’urgenza, di innalzare il livello di contrasto alla criminalità più pericolosa”. Quello che la presidente del Consiglio non dice è che queste modifiche erano già state pensate da via Arenula prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro. Riforma Cartabia a parte, quel che viene dimenticato in questo dibattito che accende le opposizioni e, sottotraccia, divide la maggioranza, è che mentre ci si accapiglia sulle intercettazioni che i pm usano per cercare le prove di un reato di cui - come vuole il codice di procedura penale - già si ipotizza l’esistenza, con la manovra finanziaria sono state allargate le maglie di un altro tipo di intercettazioni. Quelle, cioè, definite preventive (e segrete). Si tratta di una tipologia di intercettazioni che dal 2005 può essere effettuata dai servizi segreti, quando ritenuta indispensabile per l’attività di intelligence. Per il Guardasigilli questo strumento è da considerarsi più sicuro rispetto alle intercettazioni che si fanno durante le indagini preliminari. Il motivo? Perché le intercettazioni degli 007 non possono essere utilizzate nei procedimenti penali e, almeno questa è la regola, restano riservate. Si tratta, però, di un’attività considerata problematica dagli esperti, perché avviene non all’interno di un’indagine della procura che già ha indizi di reato, ma sulla base di mere informazioni. Non informazioni qualunque, certo, perché la legge chiede che i servizi debbano avere “elementi informativi specifici e concreti” che “rendano assolutamente indispensabile l’attività di prevenzione”. Per quanti paletti ci possano essere, però, un’intercettazione di questo genere è un atto molto invasivo. Che - in ragione della riservatezza - non prevede garanzie a tutela degli intercettati. E, quindi, si presta - almeno in astratto - ad abusi. Per legge è il presidente del Consiglio che può delegare i direttori del Sisde a intraprendere questa intercettazioni preventive. L’attività deve essere autorizzata da un unico magistrato: il procuratore generale di Roma. La finanziaria ha previsto che le spese fatte per queste intercettazioni non ricadano sotto il ministero di via Arenula, ma siano a carico del Mef. Un modo, questo, per separare i piani e per escludere il comparto giustizia dal dossier. Nel presente, come nel futuro: “L’obiettivo è preservare il più possibile la riservatezza”, ci racconta chi ha studiato con attenzione il tema. Sul punto, però, le interpretazioni non vanno tutte nello stesso senso. Perché resta il fatto che i servizi segreti possono intercettare chiunque - per fini di sicurezza nazionale, naturalmente - con pochi controlli. Come ha fatto notare su Linkiesta Cataldo Intrieri, è singolare che si intervenga su un tema delicato come questo infilando un emendamento in manovra. E che sulla questione non ci sia stata alcuna discussione pubblica. Il dibattito, infatti, è stato limitato alle rimostranze - senza esito - delle opposizioni. La vicenda non è di poco conto, perché le modifiche non riguardano solo il ministero che si occupa delle spese. Intanto, si esplicita come praticamente possono essere attuate queste attività. I servizi, si specifica, possono chiedere “l’intercettazione di comunicazioni o conversazioni, anche per via telematica, nonché l’intercettazione di comunicazioni o conversazioni tra presenti, anche se queste avvengono nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p.”. Cosa vuol dire? Vuol dire che per mettere, ad esempio, che si possono mettere le cimici a casa di una persona che non è neanche indagata. Secondo Wanda Nocerino, esperta della materia che ha scritto un lungo articolo sul sito Sistema penale, questa non è una grossa novità, perché anche questa previsione - sebbene meno chiara - era già presente nella versione precedente della legge, anche se non era esplicitato perché si rinviava a un altro articolo. Andando a leggere, però, l’articolo cui si rinviava, si nota che è scomparso il riferimento alla “necessità” e il rinvio ad alcune norme precise del codice di procedura penale, ma è stata usata una formula più ampia. Che, di fatto, sgancia del tutto queste intercettazioni dalle regole di procedura penale e potrebbe rendere più frequente l’uso di uno strumento così problematico, in tema di diritto (costituzionale) alla segretezza delle comunicazioni. Quello che si dice, con questo nuovo articolo, è che si possono intercettare le chiamate, le chat, le conversazioni in presenza, quando è indispensabile, genericamente, per l’attività di intelligence. Con la manovra, inoltre, si allungano i tempi di deposito da parte dei servizi del materiale intercettato. Il verbale, e il materiale in generale, deve essere portato in procura non più entro 5 giorni dalla fine delle operazioni, o 10 nei casi più particolari, ma dopo 30 giorni. Che, però, possono diventare anche sei mesi, se si chiede una proroga. Il procuratore ha l’obbligo di far distruggere il contenuto delle intercettazioni immediatamente. Può, però, aspettare dai sei mesi ai due anni per far distruggere le altre tracce di questa attività: come, ad esempio, gli atti che sono venuti prima dell’autorizzazione ad intercettare e che sono negli uffici della procura. I segni di queste operazioni poco garantite - e anche più diffuse di quanto possiamo immaginare, a detta di chi ha studiato a fondo la materia - insomma restano nelle segrete stanze della procura generale per un bel po’. La ragion di Stato prevale sui diritti degli ignari intercettati. E si espande oltre il confine precedentemente tracciato. Il fatto che queste attività dell’intelligence - per quanto necessarie - non possano essere poi trasportate in un procedimento penale, né indirizzare le indagini, né, di conseguenza, finire sui giornali, non le rende meno problematiche. Ma questo al governo non sembra interessare. Non intercettate la Costituzione di Claudio Cerasa Il Foglio, 20 gennaio 2023 Oggi le intercettazioni sono consentite per cercare prove di qualsiasi reato punito con il massimo di 5 anni, cioè quasi tutti, il che ha portato a una espansione incredibile degli ascolti. Per il 5 stelle Scarpinato intervenire sulle intercettazioni sarebbe “una restaurazione dell’assetto precostituzionale”. È vero il contrario: è il loro l’uso indiscriminato che contrasta con il principio fondamentale della libertà della persona. Vedremo come sarà la riforma ma l’impostazione del Guardasigilli è corretta. La volontà del Guardasigilli di contrastare gli abusi e le propalazioni delle intercettazioni - che per ora non ha generato provvedimenti di legge e tantomeno ipotesi di limitare quelle relative a indagini di mafia - ha ugualmente suscitato un dibattito che in qualche caso ha assunto i caratteri di una battaglia pregiudiziale e senza esclusione di colpi. Roberto Scarpinato, parlamentare dei Cinque stelle ed ex procuratore esattamente come Carlo Nordio, è arrivato a sostenere che la riforma proposta sarebbe “una restaurazione dell’assetto precostituzionale”, cioè una violazione, se non proprio della lettera, almeno dello spirito della Carta costituzionale. In realtà è vero proprio il contrario: l’uso indiscriminato delle intercettazioni “a strascico” e di quelle ambientali contrasta con il principio fondamentale della libertà della persona, che non è una “concessione” dello Stato, ma un diritto che lo precede. C’è poi la pratica della propalazione a mezzo stampa delle intercettazioni, fenomeno illiberale che ha contrassegnato gli ultimi decenni, che è già proibita: ma solo sulla carta, visto che non si ha notizia di inchieste sulla sua violazione che siano arrivate a una condanna. Se c’è un caso di palese impunità è proprio quello degli uffici giudiziari dai quali sono uscite indebitamente trascrizioni delle intercettazioni. Il problema è quello di trovare un equilibrio tra l’esigenza di perseguire i reati e quella di garantire il diritto alla riservatezza dei cittadini. Oggi le intercettazioni sono consentite per cercare prove di qualsiasi reato punito con il massimo di 5 anni, cioè quasi tutti, il che ha portato a una espansione incredibile degli ascolti. Si vedrà, quando sarà depositata in Parlamento la riforma, che correttivi e che limiti si vogliono introdurre per restaurare lo Stato di diritto, quello previsto dalla Costituzione, e non dagli allarmi francamente forzosi di Repubblica. Solo allora il confronto avrà un senso: per ora c’è solo una levata di scudi giustizialista, un fuoco di sbarramento che vuole impedire che si ragioni concretamente sui mali della giustizia, che sono invece sotto gli occhi di tutti. Nordio non si è fatto impressionare e va avanti nella costruzione di un sistema in cui naturalmente si possano perseguire i reati senza eccessi di limitazione non necessaria dei diritti delle persone. Bene così. La gogna non è giustizia, per nessun reato di Pier Luigi del Viscovo Il Giornale, 20 gennaio 2023 Ridurre il tema delle intercettazioni a uno scontro tra manettari e simpatizzanti dei delinquenti è la mortificazione della civiltà sociale e giuridica. La gogna sulla pubblica piazza non è l’atto finale della giustizia, ma solo l’appagamento della peggiore anima popolare. D’accordo che la folla ha sete di nemici su cui scaricare le paturnie, ma dopo trent’anni la misura può ritenersi anche colma. Tanto più che la vagheggiata superiorità morale politicamente colorata non è stata trovata. Ci sono solo e dovunque onesti e disonesti, i secondi a loro volta ripartiti tra chi ha facoltà di approfittarsi e chi invece non è riuscito a entrare nel giro, o non ancora. In punto di civiltà giuridica, non essendo in discussione la persecuzione del crimine, il dibattito è sulla scelta del bene da privilegiare. Da un lato, massimizzare la capacità di intercettare e combattere i piani criminosi. Dall’altro, proteggere la riservatezza, su fatti non attinenti all’indagine, di chi non è indagato. Qualsiasi opzione comporta una perdita. La soluzione che stiamo ascoltando è di quelle dettate dagli appetiti del popolo. Il mafioso o il terrorista sono talmente esecrabili da valere la rovina della vita di un povero cristo e l’umiliazione dei suoi familiari. Viceversa, gli altri reati non meriterebbero tale sacrificio. Quali reati? E se poi ci scappa il morto o la violenza? Dal campo, magistrati e forze dell’ordine fanno notare che alcuni reati pubblicamente ritenuti minori, come la corruzione, possono essere essenziali per contrastare mafie e terrorismo. Insomma, cercare la soluzione al dilemma nella classificazione dei reati non pare la via migliore. Allora c’è chi sostiene che non vadano limitate le intercettazioni bensì la loro diffusione. Vero, ma come? Questa strada porta dritta alla libertà di stampa: apriti cielo! No, se una cosa esiste può finire sui giornali. Se non oggi, domani. Anche perché il processo è pubblico. Ricapitolando: le intercettazioni sono necessarie, va bene, ma dentro ci sono frasi e persone estranee all’indagine e se finiscono negli atti processuali poi diventano pubbliche, non va bene. È da questo percorso che deve uscire la soluzione. Filtrare frasi e dichiarazioni per eliminare e cancellare quelle non pertinenti? Facile a dirsi. La tecnologia e l’intelligenza artificiale possono aiutare? Forse sì. Ecco, di questo si dovrebbe ragionare con un pubblico civile. La sfida tra giustizialisti e presunti favoreggiatori no, è solo umiliante. Per chi la agita e per chi la segue. Bongiorno difende le intercettazioni: “Indispensabili anche per la corruzione nonostante i molti casi di errori di trascrizione” di Liana Milella La Repubblica, 20 gennaio 2023 Intervista alla presidente leghista della Commissione giustizia del Senato: “Sono contro il blackout informativo, ma la divulgazione di conversazioni private e penalmente irrilevanti, o di frasi decontestualizzate, è un’altra cosa”. Senatrice Giulia Bongiorno, come 20 anni fa, quando era premier Berlusconi, siamo allo scontro duro sulle intercettazioni. Lei allora, da presidente della commissione Giustizia della Camera, fece baluardo contro la loro demolizione. Oggi, dal vertice della stessa commissione al Senato, come legge il nuovo scontro? “Sono situazioni diverse. All’epoca mi schierai contro un testo che presentava molte criticità; oggi c’è una polemica politica soltanto sulle parole del ministro. Suggerirei di attendere il testo”. Lei da che parte sta? Da avvocato di grido, e visto che la sua categoria è contro le intercettazioni. Le considera indispensabili per arrestare i colpevoli di reati? “Guai a cancellare le intercettazioni. L’apporto fornito nella cattura di Messina Denaro, per esempio, è indiscutibile. Di contro, guai a pensare che ci sia sempre uno scrupoloso rispetto della normativa: in alcuni casi è emersa la ricerca dei reati “purchessia” e “a ogni costo”. E questo non va”. Occuparsi di intercettazioni proprio adesso è davvero la priorità per cambiare la giustizia? “Ci occuperemo della sua efficienza in via prioritaria, ma bisogna ragionare con equilibrio e lucidità anche sulle intercettazioni”. Con il governo Draghi e la ministra Cartabia, pur votando le sue leggi, lei non ha fatto mancare perplessità e critiche. Stavolta, davanti alle continue dichiarazioni del Guardasigilli Nordio, che fanno apparire le intercettazioni come il problema più importante della giustizia italiana, che fa? “Avevo segnalato alla Cartabia, e pubblicamente, una serie di problemi che sarebbero potuti scaturire dalla riforma: i fatti hanno confermato che il mio allarme non era infondato. Sul tema intercettazioni ho voluto un’indagine conoscitiva al fine di individuare eventuali disfunzioni o lacune normative”. Che farebbe per i reati di mafia e terrorismo? Confermerebbe la piena possibilità di fare intercettazioni? I più noti pm non hanno dubbi... “La magistratura e le forze dell’ordine devono disporre di tutti gli strumenti previsti dal nostro ordinamento per combattere la criminalità: è innegabile che le intercettazioni sono indispensabili”. E la corruzione? La si può considerare un reato che non è più grave? “Mi sono espressa più volte su questo punto: è un reato grave per il quale non si può escludere l’uso delle intercettazioni”. Si fiderebbe di più delle intercettazioni preventive perché non finiscono sui giornali? “No, non ho grande fiducia nelle intercettazioni preventive”. C’è una frase di Nordio che ha infastidito partiti che stanno dalla parte delle polizie, quella sui marescialli che trascrivono male le intercettazioni, mentre i pm prendono quello che vogliono... “Non mi risultano fastidi. Comunque sono contraria alle generalizzazioni e credo nella correttezza di forze dell’ordine e magistratura. Certo, se poi mi chiede se ho mai riscontrato errori nelle trascrizioni, la risposta è: sì molte volte. Inoltre, capita spesso che nelle prime fasi delle indagini vengano trascritte solo le intercettazioni a favore dell’accusa”. Qual è il problema allora, il fatto che le intercettazioni escono sui giornali? Ma non sono atti di indagine come i verbali di interrogatorio? “È noto che mi sono schierata in passato contro il blackout informativo, ma la divulgazione di conversazioni private e penalmente irrilevanti, o di frasi decontestualizzate, è un’altra cosa. Il tema cruciale è il limite entro il quale la riservatezza può e deve essere obliterata”. Non basta la legge Orlando che obbliga i pm a mettere le intercettazioni inutilizzabili nell’armadio blindato? “È un rimedio del tutto insufficiente a tutelare tanto la reputazione dell’indagato quanto quella di terzi del tutto estranei alle indagini”. Al Senato la sua indagine conoscitiva sulle intercettazioni è stata letta come un ulteriore attacco. Non si è posta il problema? “Credo molto nella necessità di approfondire prima di legiferare. Ascoltare esperti e raccogliere dati oggettivi è utilissimo”. In commissione è già esploso l’attacco alla microspia Trojan, di cui viene messa in crisi la liceità, e se ne chiede una profonda modifica. Anche lei la pensa così? “È emerso un dato allarmante: il captatore informatico può alterare il contenuto dei dati di un cellulare. Se questo accadesse in concreto sarebbe un fatto di una gravità inaudita. È necessario regolare in modo rigorosissimo la materia prevedendo il tracciamento di tutta l’attività tecnica della captazione e richiedendo certificazioni alle società che operano. C’è una lacuna da colmare immediatamente”. Nordio contro i pm antimafia “Le Camere non siano supine” di Liana Milella La Repubblica, 20 gennaio 2023 Il Guardasigilli a Montecitorio tiene il punto sulle intercettazioni: “Solo per mafia, terrorismo e reati satellite”. Il Terzo polo apprezza. Polemiche da Pd e 5S : “Crociata che indebolisce la lotta ai clan”. Via libera in cdm alle modifiche sulla Cartabia. Nordio sulle intercettazioni non demorde. Sì “per mafia, terrorismo e reati satelliti”. Ma non cita la corruzione. Parole sempre uguali, alla Camera ieri, al Senato il giorno prima. Le stesse da quando è Guardasigilli, e prim’ancora da magistrato. Stavolta con una punta di fastidio vagamente snob: “Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Non ho mai detto di voler toccare le intercettazioni su terrorismo e mafia, e neppure quelle sui reati satelliti”. Pure il nemico resta identico, gli ascolti “che finiscono sui giornali”. Le citazioni dotte si sprecano, latino, inglese, francese. E stavolta gli applausi sono ricorrenti. Se ne contano una dozzina in 50 minuti di speech. Al punto che l’amico Enrico Costa non solo gli porta il voto del Terzo polo, come a palazzo Madama, ma assicura che deputati del Pd, “se ci fosse stato il voto segreto, sarebbero stati dalla parte dell’ex procuratore aggiunto di Venezia”. A riprova che le intercettazioni sono tornate a essere il nemico numero uno della politica. E Nordio il vessillifero della battaglia. Ma contro Nordio sono durissimi Pd e M5S. Deborah Serracchiani ironizza sui “quattro Nordio che negano perfino che i mafiosi abbiano e usino i telefonini, anche se Messina Denaro ne aveva due in tasca”. Giuseppe Conte si scatena per “l’improvvida crociata contro le intercettazioni”, anche contro la corruzione, “mentre la mafia non si serve più delle bombe, ma di mazzette e intimidazioni per entrare nelle nostre istituzioni”. Non li addolcisce neppure la mossa, che Nordio ha imposto ai due sottosegretari falchi di FdI, Alfredo Mantovano a palazzo Chigi e Andrea Delmastro in via Arenula, che chiedevano non solo un nuovo decreto, ma pure di ampio contenuto. Invece ecco il mini ddl sui reati perseguibili a querela escludendola sempre se di mezzo c’è la mafia. In cui in sede di conversione potrebbe finire il nuovo abuso d’ufficio. Nordio difende la riforma penale Cartabia che “va nella giusta direzione”, tant’è che il ddl non riguarda solo i suoi 12 reati resi perseguibili a querela, ma tutti i 60 reati dello stesso tipo che esistono nel codice, da Rocco in poi. Con Nordio la regola varrà anche per il terrorismo. Se vieni arrestato in flagranza la querela può arrivare 48 ore dopo, senza vittima presente. Come ha proposto subito l’ex consigliere giuridico di Cartabia, il giurista Gian Luigi Gatta. Certo non c’è traccia di intercettazioni in vista della “grande riforma Nordio”. Che riguarderà quelle giudiziarie. Dove, s’indigna il Guardasigilli, “c’è il pasticcio colossale, perché per fare la punta troppo aguzza, la punta stessa s’è spezzata. Col passaggio da pm a giudice e le perizie, le intercettazioni finiscono a chi non ha diritto di conoscerle, e su fatti che non hanno a che fare col processo. Ecco l’abuso su cui sicuramente interverremo perché si tratta di notizie che diffamano l’onore privato dei cittadini”. E qui si scatena l’applauso dei deputati. Che sale a mille quando Nordio cita il caso Zaia-Crisanti, gli ascolti “finiti sui giornali nonostante la legge Orlando”: “Se non intervenissimo su questo abuso cadremmo in una democrazia dimezzata perché la segretezza è l’altra faccia della libertà, una volta uscita l’intercettazione, la conseguenza icastica è irrimediabile”. E gli ex colleghi pm che lo criticano? Li liquida così: “Ognuno vede la realtà attraverso i propri pregiudizi. Chi si è sempre occupato di mafia è ovvio che la pensi così, ma questo non vuol dire che io debba essere supino e acquiescente”. Una bacchettata pure per Roberto Scarpinato, l’ex pm antimafia di Palermo divenuto senatore del M5S che vede in lui la doppia personalità di Jeckyll e Hyde. Allora gli ricorda quelle che lui considera due vittime della giustizia, il colonnello Ganzer e il colonnello Mori, processati ma assolti, “con una carriera rovinata e nessun risarcimento”. Nordio attacca le procure: “Non siamo supini ai pm” di Antonio Bravetti La Stampa, 20 gennaio 2023 Il ministro della Giustizia va anche all’attacco dell’Antimafia. Carlo Nordio insiste: sulle intercettazioni il governo “interverrà radicalmente”. Dopo il passaggio di mercoledì in Senato, il Guardasigilli si presenta alla Camera per ribadire, precisare, ribattere e attaccare, “perché non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. Prende gli applausi della maggioranza, si attira le critiche dell’opposizione, incassa l’apertura di credito del Terzo Polo. “Non toccheremo le intercettazioni per mafia e terrorismo - rassicura - e nemmeno quelle per i reati “satellite”“, ma “se non interverremo sugli abusi delle intercettazioni cadremo in una democrazia dimezzata”, perché “la segretezza delle informazioni è l’altra faccia della nostra libertà”. Il Parlamento “non sia supino e acquiescente a quello che sono le affermazioni dei pubblici ministeri”, dice in un passaggio che scatena l’indignata protesta delle opposizioni. “Parli in modo più consono, siamo tutti teste pensanti”, reagisce il leader M5S Giuseppe Conte. E nei giorni della cattura del boss Matteo Messina Denaro, il ministro ricorda gli “errori giudiziari” che hanno portato a processo gli ex generali Mario Mori e Gianpaolo Ganzer, assolti dopo anni di gogna mediatica, “con la carriera rovinata e senza che nessuno li abbia risarciti”. Nella sua relazione sullo stato della giustizia, Nordio parla anche di abuso d’ufficio, reato che genera la “paura della firma” in tanti amministratori. Rivolto ai banchi delle opposizioni e del Pd in particolare, precisa: “È noto che io sarei per l’abrogazione “tout court”, ma sono disponibilissimo anche a una revisione del reato. Vi assicuro che da me c’è stata una vera e propria processione di sindaci dei vostri partiti che sono venuti a chiedermi di eliminarlo”. Una sponda arriva dal candidato alla segreteria del partito, Stefano Bonaccini: “Hanno ragione i sindaci a voler rivedere quel tipo di reato”. Parlando di intercettazioni, Nordio sostiene che gli abusi si annidano in quelle giudiziarie, effettuate su richiesta del pm e autorizzazione del gip. Perché, spiega, per i vari passaggi previsti dalla legge “finiscono a conoscenza di decine di persone. L’abuso su cui vogliamo intervenire è in questo mare magnum”, che fa finire sui giornali “notizie che diffamano e vulnerano l’onore di privati cittadini”. La maggioranza applaude forte. Ma è sulla lotta alla mafia e le intercettazioni che si consuma il confronto più duro a Montecitorio. Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale Antimafia e oggi deputato M5S, giudica “gravissima la stretta” annunciata dal governo, che “evidentemente non ha capito cosa sono le mafie”. Nordio risponde a lui, ma anche al procuratore di Palermo, che ha parlato di “borghesia mafiosa”, quando dice: “Sentendo voi sembra che la mafia sia annidata nello Stato in tutte le sue articolazioni. Ma allora dov’era l’Antimafia, se siamo arrivati a questo risultato?”. Conte boccia la “crociata improvvida” contro le intercettazioni e accusa il governo di “depotenziare gli strumenti per combattere la mafia, che non usa più le bombe ma le mazzette”. L’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando definisce “discutibili” gli argomenti di Nordio: sulle intercettazioni “non dice nulla sui reati contro la pubblica amministrazione e contro la persona”. Carlo Calenda, invece, conferma il suo giudizio positivo: “Con il ministro abbiamo una grande sintonia sia con la persona sia di progetti. Poi che riesca a fare le cose è un altro paio di maniche”. La Lega gradisce il programma “vasto, ambizioso e rivoluzionario” del Guardasigilli. “È la persona giusta per arrivare a una riforma seria della giustizia”, garantisce la deputata di FdI Ylenia Lucaselli. Forza Italia si allinea: “La linea del ministro è il nostro Dna”, assicura il presidente della commissione Affari costituzionali Nazario Pagano. Gabriele Paci: “Questo ministro tratta i magistrati come un’associazione a delinquere” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 20 gennaio 2023 Il procuratore di Trapani: “Davvero ha detto così? Mi pare che il dibattito stia scivolando su luoghi comuni, fino a trattare l’Italia come la Danimarca, e noi pubblici ministeri come una specie di associazione a delinquere”. Dopo una vita da pm antimafia a Palermo e Caltanissetta, Gabriele Paci da un anno e mezzo è procuratore di Trapani, il feudo di Messina Denaro. Si è stupito della rete di complicità di cui godeva? “No. Questa è Trapani. Una roccaforte, se la definizione non risultasse ormai perfino patetica”. Perché roccaforte? “Questo era un paradiso fiscale per i corleonesi. Banche, finanziarie e prestanome come in Lussemburgo. Riina passava le estati tra Mazara e Castelvetrano, investiva in terreni e immobili. Si appoggiò ai trapanesi per vincere la guerra di mafia contro i palermitani, incoronando il fedelissimo padre di Messina Denaro, don Ciccio, come capo provinciale”. E oggi? “L’immagine della città è cambiata, il sostrato sociale e criminale no”. In che senso? “A Palermo il 23 maggio e il 19 luglio si ricordano le stragi di Capaci e via D’Amelio. A Trapani, nel 1985, ci fu la strage di Pizzolungo: un’autobomba contro il giudice Carlo Palermo, una madre uccisa con i due figli. Ma quando chiedo agli studenti se la conoscono, mi accorgo che è stata rimossa”. Il vostro lavoro cambia? “I cadaveri per strada sono firmati cosa nostra. Ma oggi non ci sono più cadaveri per strada, la mafia fa affari. Tutto passa dai nuovi strumenti di comunicazione. Per questo le intercettazioni sono imprescindibili per corruzione e reati economici”. Se ne fanno troppe? “Rispetto a quale parametro? In Inghilterra hanno un Messina Denaro? In Danimarca hanno visto saltare per aria un’autostrada per ammazzare un giudice?”. No, però… “... però dovrebbe vedere gli sguardi dei colleghi stranieri quando racconto che a Gela lavoravo su due famiglie di cosa nostra, due articolazioni della stidda, una fazione di fuoriusciti. Cinque clan per 70mila abitanti”. Le piace l’idea di dare budget alle Procure? “Mi pare un sistema brutale e arbitrario. Se scompare un bambino che faccio, intercetto o rispetto il budget?”. Non si spende troppo? “Un corretto conto economico dovrebbe sottrarre il valore dei beni confiscati grazie alle intercettazioni e dare un valore ai crimini scongiurati. Comunque, lo Stato potrebbe comprare le strumentazioni, anziché affittarle dai privati. Sarebbe meno caro e più sicuro”. Il ministro denuncia abusi. “Quali? Quanti? Si è violata la legge? Ha gli strumenti per accertarlo e, nel caso, intervenire”. Le intercettazioni finiscono sui giornali. “Un momento. Se intercetto un boss che racconta all’amante dove ha messo i soldi delle estorsioni è chiaro che prima o poi, nel processo, viene fuori. Altro discorso se si tratta di conversazioni irrilevanti, gratuitamente pruriginose”. La legge Orlando funziona o no? “Le regole ci sono. Siamo indietro sulla professionalità - di tutti, anche nostra - rispetto a una realtà cambiata. Non nego gli errori”. Quali? “Accumuliamo una mole impressionate di dati sensibili. Non siamo attrezzati per gestirli adeguatamente”. C’è scarsa sensibilità per la privacy? “È una questione di preparazione, di cultura. Ma attenzione a non buttare il bimbo con l’acqua sporca”. Chi è il bimbo? “La corruzione esiste, è radicata, priva la collettività di denaro e servizi. Tanto più quando arriva un fiume di soldi europei”. Senza intercettazioni non si possono fare le indagini? “Per reati come la corruzione, le possibilità sono nulle. Se la politica vuole elevare la privacy a valore assoluto, a scapito di ogni esigenza di sicurezza collettiva, lo dica. La privacy è più importante della corruzione? Ne prenderemo atto. Ma sia chiaro che significa chiudere gli occhi di fronte a una radicata realtà criminale”. Che ci sia corruzione si sa anche senza intercettazioni. “Ma noi dobbiamo accertare fatti e responsabilità. Servono prove. E mezzi adeguati per trovarle. Altrimenti siamo disarmati”. E le intercettazioni a strascico? “Sono abusive. Già vietate, non serve una nuova legge. Ci sono casi del genere? Il ministro ha statistiche, casistiche? Vediamole. Altrimenti sono luoghi comuni”. L’appello al Parlamento a non essere “supino ai pm” è stato molto applaudito. “Sembra che le intercettazioni siano un capriccio dei pm che giocano a spiare le persone. Veniamo trattati come un’associazione a delinquere”. Dice il ministro: se si sostiene che la mafia è ancora forte, vuol dire che l’antimafia ha fallito. Si sente un fallito? “Perché non abbiamo eliminato fenomeni criminali radicati da un secolo e mezzo? Abbiamo non solo neutralizzato la cupola stragista, ma chiuso le scuole di formazione dei nuovi quadri. Impedendo che un nuovo Messina Denaro crescesse “sulle mie ginocchia”, come diceva Riina. Per farlo, abbiamo tagliato l’erba ogni giorno, con la legislazione antimafia. Ora per qualcuno il tagliaerba non serve più”. Ritocco alla riforma Cartabia: se c’è l’aggravante di mafia i reati sono perseguibili d’ufficio La Repubblica, 20 gennaio 2023 Il Consiglio dei ministri corregge la norma sulla necessità della querela. La decisione dopo la scarcerazione di tre boss accusati di lesioni. Procedibilità d’ufficio per tutti i reati nei casi in cui ricorre l’aggravante mafiosa o di terrorismo. E possibilità in tutti gli altri casi di procedere all’arresto in flagranza, anche senza la querela delle vittime del reato, purché questa sia acquisita entro 48 ore. Dopo l’allarme della magistratura sul rischio di scarcerazioni e impunità per una serie di reati divenuti o che erano già perseguibili a querela, il governo corre ai ripari con un disegno di legge presentato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e approvato dal Consiglio dei ministri. Un intervento “chirurgico e mirato”, come lo aveva definito in mattinata Nordio alla Camera, non solo sulla riforma Cartabia, di cui il ministro apprezza la direzione complessiva, ma su tutte le norme precedenti che nel tempo hanno reso perseguibili solo su denuncia della vittima alcuni reati, pur in presenza dell’aggravante mafiosa e terroristica. Una sessantina in tutto, di cui sette introdotti dall’ultima riforma. L’esigenza di intervenire si era posta in particolare dopo un caso che aveva fatto scalpore: durante un processo a Palermo, dove la procura era stata costretta a chiedere la scarcerazione di tre imputati di lesioni aggravate dal metodo mafioso per mancanza della querela. Nessuno era stato scarcerato in quanto detenuto per altri reati. Ma sull’onda di quella vicenda sia i pubblici ministeri sia l’Associazione nazionale magistrati avevano sollecitato “un ripensamento, in tempi rapidi, delle scelte del legislatore”. A far discutere erano state anche altre vicende di cronaca, come i responsabili di diversi furti d’auto in Veneto che erano stati scarcerati per la mancanza di querela. Le misure adottate dal governo intendono rimediare proprio a queste “criticità”, come aveva spiegato in mattinata il ministro, annunciando l’intervento. Così per quanto riguarda mafia e terrorismo, con la procedibilità d’ufficio per tutti i reati in cui ricorre questa aggravante, si intende tutelare la libertà di determinazione della vittima, che per paura potrebbe rinunciare a denunciare i responsabili del reato. Con l’intervento sull’arresto in flagranza di reato perseguibile a querela accadrà, nel caso per esempio del furto di un veicolo con violenza sulle cose, che si potrà procedere all’arresto del reo in flagranza, anche se non è possibile reperire subito la vittima. Naturalmente l’arresto decadrà dopo 48 ore, se non si è acquisita la querela. A spingere per un intervento erano state soprattutto la Lega e Fdi. “Il governo Meloni, intervenendo in maniera tempestiva e oculata, conferma così il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata, in coerenza con quanto avevamo detto durante la campagna elettorale e cioè lotta senza tregua a tutte le mafie”, dichiara il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan. E il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari (Lega) parla di “promessa mantenuta”. Mentre Enrico Costa, vicesegretario di Azione, osserva che si tratta di un abile colpo di Nordio contro i detrattori della riforma Cartabia. Resta aperto il dibattito sulle intercettazioni, che vede su posizioni contrastanti anche componenti della maggioranza di governo. E che a tratti assume le caratteristiche di un vero e proprio scontro. “Riforma Cartabia da difendere: con i reati a querela si salva il processo” di Errico Novi Il Dubbio, 20 gennaio 2023 Parla Raffaele Cantone, procuratore di Perugia: “Se vogliamo scongiurare il rischio che la politica arrivi a cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale, dobbiamo renderla sostenibile”. “È un intervento intelligente e realistico. Non condivido le critiche alla riforma Cartabia. Se si vuole preservare davvero, anche per il futuro, il principio di obbligatorietà dell’azione penale, in cui credo fermamente, non si possono che adottare soluzioni come l’estensione della perseguibilità a querela estesa a ulteriori fattispecie”. Raffaele Cantone non è nuovo a posizioni autonome rispetto alla maggioranza dei magistrati, al mood prevalente nel dibattito sul processo penale. Passa non a caso per una sorta di eccezione del sistema. E in questa ampia intervista al Dubbio, illustra la propria valutazione positiva sulla riforma penale di Cartabia. Il procuratore di Perugia lo fa negli stessi minuti in cui in Consiglio dei ministri arriva il ddl con il quale Carlo Nordio rivede quel testo limitatamente a due aspetti: assicurare più tempo per la denuncia in caso di arresti in flagranza e ripristino della procedibilità d’ufficio quando sussiste l’aggravante del metodo mafioso. Bastano questi due correttivi, procuratore Cantone? Mi sembrano soluzioni sensate, che peraltro intervengono su aspetti della legislazione precedenti alla riforma. Mi pare nessuno abbia ricordato, in questi giorni, un dettaglio: già prima della riforma Cartabia, per i reati procedibili a querela, l’individuazione del metodo mafioso non faceva scattare affatto la perseguibilità d’ufficio. L’estensione della procedibilità a querela ad altre fattispecie ha fatto emergere una questione che in realtà già esisteva. Sarebbe il caso di tenerlo presente. In generale, quindi, eliminare la procedibilità d’ufficio per reati come le lesioni personali guaribili in 40 giorni non è insulto alla sicurezza... So di parlare in controtendenza, ma ribadisco: non sono affatto critico sulla riforma perché mi pare risponda a criteri di realismo. Se vogliamo mantenere in vita, davvero, il principio di obbligatorietà dell’azione penale, dobbiamo renderlo compatibile con altre esigenze di sistema. Cioè con l’effettiva possibilità di sostenere il carico dei procedimenti? Da anni tutti gli studiosi di diritto penale segnalano come l’articolo 112 della Costituzione possa essere preservato col ricorso a tre soluzioni: estensione dei reati procedibili a querela, depenalizzazione e strumenti deflattivi. La depenalizzazione, esclusa dalla riforma Cartabia, non era alla portata di un governo tecnico. Ma ci sono gli altri due strumenti: procedibilità a querela e non poche soluzioni deflattive. Sui reati a querela in presenza del metodo mafioso, il governo introduce una correzione: la condivide? Se sono esatte le informazioni secondo cui scatta la procedibilità d’ufficio se sussiste l’aggravante del 416 bis 1, mi pare si tratti di un intervento ragionevole. Ma ripeto, in generale ampliare la procedibilità a querela era opportuno. Non mi scandalizzo se il criterio viene esteso alla violenza privata o al sequestro di persona semplice. Altro discorso vale per il furto. Premesso che scippo e furto in abitazione restano procedibili d’ufficio, ci sono casi tipici come i furti d’auto in cui è necessario lasciare agli investigatori un minimo di agibilità, dunque di tempo, per rintracciare la vittima. Ma è giusto che si tratti di un tempo contenuto, come pare sia previsto dal ddl all’esame del governo. Nel senso che va bene consentire l’arresto e l’applicazione della misura cautelare per la persona colta in flagranza anche se la vittima non ha ancora presentato la denuncia, ma quelle misure non possono essere mantenute, in assenza di querela, per un tempo irragionevolmente lungo. Perché, vorrei dirlo con chiarezza, la tutela dell’indagato va intesa a 360 gradi, e non è immaginabile trattenere in carcere un soggetto quando non esistono neppure i presupposti per la persecuzione di quel reato. Lei dice: solo con misure simili si preserva il principio di obbligatorietà... Evidentemente. Se non si provvede con misure del genere, prima o poi l’obbligatorietà dell’azione penale, in cui credo fermamente, salta. E mi pare che il provvedimento del precedente governo si impegni a salvaguardare l’obbligatorietà anche con altri strumenti: nel momento in cui estende l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, il ricorso al decreto penale, i riti alternativi come l’abbreviato con ulteriore riduzione di pena, e anche con le pene sostitutive irrogate direttamente dal giudice in sentenza. Sono tutte soluzioni che riducono i casi in cui si va a giudizio. Nella mia Procura siamo da tempo al lavoro, sul piano organizzativo, per ampliare l’area dei decreti penali di condanna. Ed è d’accordo col ricorso ai criteri di priorità nella persecuzione dei reati, pure previsto dalla riforma? Mi pare si sia concepito un meccanismo equilibrato: il Parlamento dà solo un’indicazione di massima, dopodiché si prevede una gerarchia individuata dai vertici degli uffici nel confronto con diversi interlocutori. E guardi, non lo dico perché il Dubbio è il giornale dell’avvocatura, ma già prima della riforma io ho preventivamente sottoposto il mio piano organizzativo di procuratore alle rappresentanze forensi. Non per una questione ideologica, ma per un’esigenza pratica: prima di andare in una certa direzione è giusto ascoltare il punto di vista di una parte che può segnalarti aspetti sottovalutati, ed eventualmente rivederli. Nella riforma, il confronto con l’avvocatura è istituzionalizzato: il che risponde, credo, a un principio di trasparenza. E, ripeto, di realismo: se teniamo all’obbligatorietà, la dobbiamo tutelare, anche con le priorità nell’esercizio dell’azione penale. Chi non la pensa come lei antepone una sorta di illusoria rassicurazione sociale alla effettiva sostenibilità del carico processuale? Non ci sarebbe rassicurazione sociale se saltasse l’obbligatorietà. Se a un certo punto la politica, il Parlamento, stabilissero che è il legislatore a indicare rigidamente le priorità nell’azione penale. C’è rassicurazione sociale se le misure deflattive per i reati meno gravi consentono di perseguire davvero le fattispecie più allarmanti. Intercettazioni: secondo il ministro Nordio, la riforma Orlando, pur ben scritta, prevede che il materiale intercettato passi per così tante mani da rendere inevitabile la “tracimazione” degli ascolti... Va distinto l’uso patologico delle intercettazioni dalla possibilità stessa di adottarle. A me sembra inaccettabile, sul piano metodologico, che per scongiurare la patologia vada messo in discussione lo strumento. In chiave un po’ ribaltata, è quanto sostenni a proposito della candidatura di Roma per le Olimpiadi: che senso ha rinunciarvi per scongiurare i casi, patologici, di corruzione che potrebbero verificarsi attorno all’evento? Il guardasigilli sembra insistere sulla divulgazione più che sulla legittimità delle intercettazioni... Sulla tutela della riservatezza c’è una questione oggettiva che può trovarmi d’accoro. Ma attenzione: con l’intervento operato da Bonafede nel 2020, la riforma Orlando è stata assai modificata, e ancora mi pare sia presto per giudicarla. Neppure si è avuto il tempo di implementarla del tutto. Intanto mi pare che i casi patologici si siano già molto ridotti. Il ministro cita l’intercettazione di Zaia diffusa da Report... Non conosco il caso specifico, ma il nodo non consiste nei passaggi di mano, che in realtà con la riforma si sono ridotti. Tutto ruota attorno alla selezione del materiale rilevante: nel caso specifico andrebbe capito se quelle intercettazioni erano state individuate o meno come rilevanti per l’indagine. Ma di intercettazioni ce ne sono troppe? Chi lo sostiene dovrebbe tener conto di casi come quello del mio ufficio in cui non è affatto così. Ma sempre qui a Perugia le intercettazioni sono state indispensabili per portare a termine indagini, ad esempio, su organizzazioni dedite a furti in appartamento. Senza, il risultato non sarebbe stato raggiunto. E a parte casi davvero bagatellari, non c’è un’indagine per corruzione possibile senza intercettazioni. Perché rendere ancora possibili le intercettazioni dei colloqui fra difensore e assistito? I rarissimi casi in cui si scopre una condotta illecita dell’avvocato possono giustificare l’intrusione nella strategia difensiva? In tutti gli uffici abbiamo impartito chiare direttive alla polizia giudiziaria sulla non trascrivibilità delle intercettazioni in cui parla l’avvocato. Andare oltre quanto prescritto dalla riforma Orlando-Bonafede sarebbe rischioso. Persino sul parlamentare, coperto da immunità rispetto all’arresto, si interviene in caso di flagranza. “Coi trojan si possono creare anche prove del tutto tarocche” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 20 gennaio 2023 Paolo Reale, Osservatorio nazionale di informatica forense: “È uno strumento di invasività unica”. Il captatore informatico, più comunemente chiamato “trojan”, è attualmente in grado di fare “qualsiasi cosa” una volta installato su uno smartphone o su un comune device come l’ipad o la smart Tv. È quanto sta emergendo in questi giorni durante le audizioni dei tecnici informatici nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni telefoniche in corso presso la Commissione giustizia del Senato. Il primo ad essere sentito, la scorsa settimana, era stato l’ingegnere Paolo Reale, componente dell’Osservatorio nazionale di informatica forense e consulente tecnico della difesa nel processo in corso a Perugia nei confronti di Luca Palamara. Martedì scorso è toccato al collega Paolo Dal Checco. Inizialmente previsto per il contrasto ai reati di mafia e terrorismo con la legge Orlando del 2017, l’utilizzo del trojan venne poi esteso nel 2019, con la Spazzacorrotti voluta dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5s), anche ai reati contro la pubblica amministrazione con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Ad oggi non esistono dati circa il suo impiego. Tranne qualche ufficio giudiziario, ad esempio quello di Napoli, la stragrande maggioranza delle Procure non comunica il numero di ascolti disposti con tale strumento. Eppure la legge del 2017 aveva istituito un tavolo tecnico fra rappresentanti del Ministero della giustizia e i vari fornitori privati dei servizi intercettivi. Il tavolo, in particolare, avrebbe dovuto mettere dei punti fermi all’utilizzo di uno strumento investigativo di cui in pochi, come è stato ricordato, conoscono fino in fondo le potenzialità. La normativa di riferimento prevede degli obblighi per coloro che forniscono le prestazioni. Non essendo, però, stato definito chi dovrebbe procedere al loro controllo, gli obblighi sono rimasti solo sulla carta. Oltre a non sapere quanti captatori sono attivi, nessuno è in grado di conoscere la spesa per il loro noleggio da parte delle Procure in quanto il capitolo di spesa è lo stesso delle tradizionali intercettazioni telefoniche. L’unico dato certo è che ogni anno vengono spesi fra i 160 e i 180 milioni di euro per tali attività investigative. I trojan di ultima generazione, come ricordato da Reale e Dal Checco, hanno potenzialità sconfinate. Se i primi sistemi si limitavano ad accendere il microfono, trasformando così lo smartphone in una microspia, quelli più recenti possono attivare le telecamere e scattare foto o registrare video. Essendo in grado di acquisire qualsiasi tipo di messaggistica, riescono ad ispezionare il contenuto nella memoria e la cronologia della navigazione internet. I più evoluti, poi, raggiungono anche i “privilegi di amministrazione” del cellulare. Questo significa che è possibile scrivere una mail o un messaggio senza che il possessore dello smartphone si accorga di nulla. Il trojan, essendo inoculato e rimosso da remoto, non consente alcuna analisi per provare che siano state effettuate simili manipolazioni finalizzate a creare “prove” tarocche. Un aspetto da non sottovalutare è che questi software sono prodotti da aziende private, quasi tutte straniere che sfornano continuamente prodotti sempre più performanti ed i cui tecnici hanno poi accesso senza limiti a tutti i dati. “Con tale strumento viene registrata la vita privata, i gusti commerciali, l’orientamento sessuale, le preferenze sessuali. Chi conserverà questi dati? Che uso ne farà? Quali garanzie avranno i cittadini di un utilizzo corretto di questi dati?”, ha affermato il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama. L’unica possibilità per arginare i trojan, hanno affermato gli ingegneri, è quella di procedere al “tracciamento” di tutte le attività che vengono effettuate. “Il governo deve attivare subito un tavolo tecnico di monitoraggio sull’uso del trojan e approfondirne le problematiche applicative. Questo tavolo, invece, non è mai partito. E’ inaccettabile questa inerzia dei governi che si sono succeduti nel tempo. Urge modificare la normativa per garantire tutti i cittadini”, ha aggiunto Zanettin che l’anno scorso ha presentato un ddl per vietare l’utilizzo del trojan nei reati contro la pubblica amministrazione proprio per la sua invasività estrema. “Le intercettazioni sono un preziosissimo strumento per combattere la criminalità - ha sottolineato invece la senatrice leghista Erika Stefani - ma è necessario utilizzarlo nel rispetto dei diritti fondamentali del cittadino, fra cui non solo la privacy, ma anche e soprattutto il diritto alla difesa, evitando di decontestualizzarle o utilizzarle per scopi che non hanno nulla a che vedere con la giustizia”. “Mi sembra evidente che, sebbene si tratti di una astratta possibilità, il legislatore debba prevedere una disciplina specifica per questi strumenti captativi ben più invasivi delle intercettazioni telefoniche”, ha annunciato Giulia Bongiorno, presidente della Commissione giustizia di Palazzo Madama, riferendosi proprio al rischio che qualcuno “manipoli” i contenuti oggetto di captazione. Una prospettiva per nulla rassicurante. Matteo Messina Denaro: la docuserie di Michele Brambilla huffingtonpost.it, 20 gennaio 2023 Da cinque giorni l’Italia segue le notizie sul boss fra aspettative mirabolanti, retroscena inverosimili, dettagli clamorosi. La realtà non basta, serve il grande intrattenimento. C’è un po’ di delusione, diciamo la verità, per come sta andando questa storia dell’arresto di Matteo Messina Denaro. S’era risultato tanto, dopo quel blitz in clinica; s’era sperato tanto. E invece. Doveva pentirsi, e continua a essere un mafioso come è stato per i già trascorsi 62 anni e mezzo. Doveva collegarsi in video dal carcere di L’Aquila con l’aula bunker di Caltanissetta, e non s’è presentato: hanno rinviato l’udienza come fosse un processo qualsiasi. Perfino l’inizio della chemioterapia l’hanno rinviato. E poi doveva esserci il riscatto civile di un popolo, e al corteo antimafia organizzato al paese natale, Castelvetrano, si sono presentati in ventiquattro. Dovevano trovare il tesoro nascosto, e niente: tre covi e né soldi né pizzini. Solo un poster di Marlon Brando. E che cacchio. C’è un po’ di delusione, anzi molta, perché ormai ci si è abituati alle docuserie, quelle in cui i narratori sono colleghi presentati nel sottopancia come “giornalisti investigativi”. E dunque ci si aspettava e ci si aspetta ancora un seguito, a questa storia della primula rossa della mafia. Svelerà finalmente i misteri della nostra storia? Gli intrecci fra Cosa Nostra e politica? Si sarà mica messo in testa di continuare a fare il mafioso che sta zitto, questo Messina Denaro. C’è attesa di sapere come saranno le prossime puntate anche perché le ricostruzioni dei giornalisti investigativi e dei lettori investigativi già si accavallano. Dicono che insomma è un po’ strano che questo si sia fatto beccare così, senza poi neanche opporre resistenza, dai: è chiaro che s’è uscito lui dopo una trattativa. Ora, quindi, cari magistrati e cari politici: diteci finalmente che cosa ha ottenuto in cambio. Perché è evidente che non ce la state raccontando giustamente. Per altri, invece, nonostante il muro di gomma, tutto è chiaro: e cioè è chiaro che non chiariscono perché c’è di mezzo Silvio Berlusconi, con quei suoi vecchi rapporti via Marcello Dell’Utri, e poi le stragi del ‘92 e ‘93. E tutto può essere, intendiamoci. Ma adesso Berlusconi è al governo, e allora perché ha permesso che l’arrestassero? Misteri. Misteri d’Italia. Perché non prendere atto che la mafia è la mafia, una cosa schifosa e tragicamente potente, ma anche che qualche volta lo Stato vince? Che insomma questo padrino è finito finalmente dentro, come dentro erano finiti anche Totò Riina, Tano Badalamenti, Tommaso Buscetta, e ancor prima Luciano Leggio detto Liggio? Perché dobbiamo pensare che ci sia sempre qualcosa di nascosto, di inconfessabile, qualcosa che “non ci dicono”? E poi chi sono quei “loro” che non “ci” dicono? Vuoi vedere che c’è dietro ancora Giulio Andreotti, che aveva lasciato istruzioni scritte sul da farsi in caso che? E dove sono ora, quegli appunti di Belzebù? Chi si nasconde? E perché? Misteri. “In Italia ogni atto della vita pubblica ha due lati, uno apparente e uno nascosto: vi è la scena e la controscena, perché le tradizioni della tirannide secolare ci hanno abituati alla cospirazione. Onde non sappiamo pensare a qualche cosa che dovrebbe per se stessa prodursi alla luce del giorno senza apparecchiarla colla cospirazione”. Così scriveva Francesco De Sanctis in “Sopra Niccolò Machiavelli”: era il 1869 e non c’erano ancora le serie tv. Quelle dove il ritornello “guarda caso” domina ogni ricostruzione, collegando nomi, numeri, date, analogie, similitudini, coincidenze, supercazzole. Un filo narrativo con il quale si può portare non dico a dimostrare, e ci mancherebbe, ma a far sospettare tutti di tutto. Anche nella vita di ciascuno di noi si può ricostruire, a forza di guarda caso, una trama misteriosa. Qualche collega pistarolo, ad esempio, potrebbe indagare nella vita di chi scrive questo articolo, e far sospettare che l’abbia scritto per coprire qualcosa, magari anche per sminuire la mafia. E infatti. Quel pomeriggio del 12 dicembre 1969 mio padre (giuro che quello che segue è tutto vero) era appena transitato da piazza Fontana e stava dirigendosi verso la Banca Commerciale di piazza della Scala, dove guarda caso era collocata l’altra bomba, poi rimasta inesplosa. E chi celebrò i funerali delle vittime della strage di piazza Fontana? Guarda caso l’arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo, che era primo cugino di mia nonna. Che combinazione. E proprio questa settimana, chi scrive questo articolo ha fatto anche un’intervista a un ex arcivescovo proprio di Milano: sarà mica per dare un segnale in codice a qualcuno? Perché poi, sempre chi scrive anni fa era stato assunto al quotidiano La Stampa: e sapete da chi? Ma dal figlio del commissario Luigi Calabresi, che indagò su quella strage. E prima di lavorare a La Stampa dove aveva lavorato per due anni? Ma al Giornale di Berlusconi, quello della P2 e di Dell’Utri. E ora dove scrive? Sull’HuffPost, che guarda caso è dello stesso gruppo de La Stampa. Ma poi, ecco che alla fine salta fuori il colpo di scena: alle medie superiori era in classe con un racconto Salvatore Messina: parente? E perché poi, negli anni successivi, chi scrive questo articolo è andato diverse volte in Sicilia? Vacanze? Vacanze solitarie? Siamo sicuri? O vogliamo aprire gli occhi e vedere un filo rosso che lega stragi e mafia, Chiesa e massoneria, stampa e potere? alle medie superiori era in classe con un tale Salvatore Messina: parente? E perché poi, negli anni successivi, chi scrive questo articolo è andato diverse volte in Sicilia? Vacanze? Vacanze solitarie? Siamo sicuri? O vogliamo aprire gli occhi e vedere un filo rosso che lega stragi e mafia, Chiesa e massoneria, stampa e potere? alle medie superiori era in classe con un tale Salvatore Messina: parente? E perché poi, negli anni successivi, chi scrive questo articolo è andato diverse volte in Sicilia? Vacanze? Vacanze solitarie? Siamo sicuri? O vogliamo aprire gli occhi e vedere un filo rosso che lega stragi e mafia, Chiesa e massoneria, stampa e potere? Guardate che si scherza fino a un certo punto. Molte minchiate di questo genere sono il vero, se non l’unico collante delle docuserie nelle quali i “giornalisti investigativi” ci fanno intendere che, alla fine, tutto torna. E per carità, non è che non ci siano trame, misteri, complotti: ci sono, da che mondo è mondo. Ma non sempre è una trama, un mistero, un complotto. A volte, i “guarda caso” servono solo ad alcuni per fare quattrini, e ad altri - quelli che se li bevono - per placarsi, perché così si può pensare che, se nella vita non ce la si è fatta, è perché qualcuno ha remato contro. Complottando. A Milano il primo caso di “pena sostitutiva”: la stalker la sconta da subito a casa di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 gennaio 2023 Applicata la “legge Cartabia”: la 50enne che perseguitava l’ex compagno potrà scontare 1 anno e 8 mesi con la detenzione domiciliare. Potrà uscire solo per psicologo, lavoro e visite alla madre. Debutta all’Ufficio Gip del Tribunale a Milano, in un processo a una condannata a 1 anno e 8 mesi di reclusione per stalking ai danni di un uomo, la prima applicazione di uno dei capitoli qualificanti la cosiddetta riforma Cartabia della giustizia: le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. E cioè la possibilità direttamente per il giudice del processo di merito, subito dopo aver emesso la condanna, di sostituire con la semilibertà o la detenzione domiciliare le pene fino a 4 anni; con i lavori di pubblica utilità le pene entro la soglia dei 3 anni; e con la pena pecuniaria i verdetti sotto l’anno. Tutto senza più il beneficio della sospensione condizionale della pena sotto i 2 anni, e solo se il giudice ritenga che queste sanzioni sostitutive contribuiscano alla risocializzazione del condannato e assicurino (attraverso prescrizioni) che non torni a delinquere. Succede nel processo a una 50enne che era agli arresti domiciliari per avere violato in settembre un divieto di avvicinamento all’uomo perseguitato (dopo la non accettata fine della relazione) con 200 chiamate al giorno, appostamenti sotto casa (che l’uomo si era rassegnato a cambiare) e sotto il luogo di lavoro con tanto di manifesti con scritto “ladro”, danneggiamento dello specchietto dell’auto, e abbordaggi per strada come la volta in cui dalla borsetta le era caduta anche una preoccupante bottiglietta di acido muriatico. In rito abbreviato (dunque con la riduzione di un terzo) viene condannata a 1 anno e 8 mesi di reclusione, e 7.500 euro di acconto sul futuro risarcimento danni in sede civile. Fin qui tutto normale, e prima della legge Cartabia l’imputata avrebbe atteso le motivazioni; fatto ricorso; atteso l’Appello; fatto di nuovo ricorso; atteso la Cassazione; attesa la messa in esecuzione della condanna (entrando nel mare delle molte decine di migliaia “liberi sospesi” perché condannati a pene sotto i 4 anni che consentono di chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali a Tribunali di Sorveglianza sommersi dai numeri e dunque gravati da tempi biblici); proposto questa istanza ai giudici di Sorveglianza; atteso l’esito; e finalmente iniziato a scontare la pena, ma a distanza ormai di molti anni dal fatto. In questo caso, invece, iniziando ad applicare la legge Cartabia, e subito dopo aver emesso la condanna richiesta dalla pm Barbara Benzi, la giudice Ezia Maccora ha valutato dagli atti che sulla donna (che con l’avvocato Antonella Calcaterra aveva ad esempio già iniziato a sottoporsi a un programma di sostegno psicologico) si potesse scommettere una sanzione sostitutiva, quale la “detenzione domiciliare” al posto del carcere dei 20 mesi di pena: tutta una serie di prescrizioni da rispettare, il divieto di interagire in qualunque modo con l’uomo, l’obbligo di proseguire la terapia psicologica, la possibilità di lasciare casa tra le 10 e le 19 solo per le esigenze di vita, per andare a lavorare (laddove autorizzata) e per assistere la madre ricoverata. In generale è chiaro sin d’ora che il nuovo sistema produrrà i voluti effetti di deflazione delle presenze in carcere, di risocializzazione dei condannati e di abbattimento dei tassi di recidiva solo se gli Uepe-Uffici per l’esecuzione penale esterna (ad oggi largamente sguarniti) saranno rafforzati per poter di ogni vicenda processuale predisporre le prescrizioni e i progetti trattamentali. Ma proprio per non gravare ulteriormente in partenza sugli Uepe, si profila determinante il ruolo attivo dei difensori, che, come nel caso della stalker, si facciano carico di anticipare le condizioni valutabili dal giudice. Vallanzasca è malato ma perché i giudici lo vogliono in carcere? di Paolo Delgado Il Dubbio, 20 gennaio 2023 L’ex capo della mala milanese è dietro le sbarre dal 1977: oggi è un innocuo signore di 72 anni. Ma per i magistrati non ha diritto alla semilibertà. Ora arriva anche l’isolamento. Forse non basta più neppure scomodare Javert, il rigidissimo poliziotto dei Miserabili, diventato proverbiale sinonimo di una giustizia inflessibile e cieca, sostanzialmente ingiusta oltre che inumana. Ma il caso di Renato Vallanzasca va persino oltre. Il bandito più celebre degli anni ‘ 70, ma certo non il più efferato, è in carcere dal 15 febbraio 1977. Aveva meno di 27 anni, oggi ne ha 72. La libertà condizionale gli è stata negata più volte, nonostante fosse stata consigliata dagli psicologi e analisti del Carcere di Bollate, dove è detenuto. Il 18 aprile 2018 il Tribunale di sorveglianza di Milano ha respinto la richiesta: manca il “requisito di sicuro ravvedimento” senza contare il “carattere intemperante”. Da allora la libertà condizionale e la semilibertà sono state respinte di nuovo più volte. Renato Vallanzasca non deve mettere piede fuori dal carcere. Però non basta. La pm dell’Ufficio esecuzioni Adriana Blasco ha chiesto di comminare al pericolo pubblico 6 mesi di isolamento diurno. Non che la pena dipenda da qualche nuova “intemperanza”. E’ il riconteggio della pena con aggiunta l’ultima condanna, quella per cui il bandito della Comasina ha perso nel 2014 la semilibertà, che imporrebbe la misura severissima con 9 anni di ritardo sul delitto: il furto di due mutande e un paio di cesoie. Gli avvocati hanno chiesto la perizia medico- legale per verificare la capacità del detenuto, malato, di sottoporsi a giudizio. Altrimenti quelle mutande che René ha già pagato con quasi 10 anni di galera e l’impossibilità di accedere a qualsiasi pena alternativa gli costeranno anche l’irrigidimento delle misure cautelari. Ma quello che lo Stato non perdona a Vallanzasca non è il furtarello che in una quantità di articoli è stato promosso a “tentata rapina”, forse per vergogna. È il non aver accettato di riconoscere l’autorità, è la mancanza dell’atto formale e ufficiale di prosternazione e da questo punto di vista il suo caso non è molto diverso da quello dell’ex capo brigatista Mario Moretti e dell’ex terrorista nero Mario Tuti, che restano in galera perché non si decidono a spedire le lettere con la richiesta di perdono alle famiglie delle vittime. Un atto formale, sul cui significato profondo nessuno si racconta bugie, ma che ha appunto il valore di un atto di prosternazione. Loro però almeno hanno accesso alle pene alternative, anche se Tuti viene vessato spesso e senza motivo. Vallanzasca no. Per lui c’è solo la galera perché il rifiuto di riconoscere l’autorità dello Stato non passa solo per atti mancati, come le suddette lettere, ma anche per reati, sia pure di serie z come quel fatale taccheggio. Per tutta la vita “il bel René” ha dovuto fare i conti con un carattere spavaldo e ribelle che è rimasto indomato e anche se l’uomo non rappresenta più un pericolo sociale quel carattere ribelle deve essere punito. Il primo reato, commesso a 8 anni insieme al fratello è esemplare: il tentativo di liberare gli animali di un circo. Lo affidano alla prima moglie del padre, al Giambellino, e alla fine degli anni ‘ 60 è già un protagonista della malavita milanese. Guida una banda tra cui spiccano Antonio Colia, detto “Pinella”, secondo alcuni il vero cervello del gruppo e Rossano Cochis. Sono banditi quasi all’antica, mettono a segno una serie di rapine ma senza vittime e senza rapporti di sorta con la criminalità organizzata, vivono alla grande, spendono tutto in macchine e abiti, il capo, Renato, si vanta di vestire solo abiti cuciti da Caraceni. La corsa finisce nel 1972. A Milano c’è un nuovo capo della polizia, Achille Serra. Convoca e interroga Vallanzasca che lo sfida. Si sfila il rolex d’oro, lo mette sulla scrivania: “Se riesce a incastrami è suo”. Serra mastica amaro ma proprio in quel momento arriva la telefonata che incastra Renato. Durante la perquisizione sono stati trovati in un cestino della spazzatura i resti di un biglietto che prova la colpevolezza del bandito spavaldo e del fratello Roberto. Serra restituisce l’orologio ma Vallanzasca va in galera. Ci resta quattro anni, poi evade. La leggenda del “pericolo pubblico” nasce in quei pochi mesi di latitanza dal luglio 1976 al febbraio 1977. René rimette insieme la banda della Comasina. In ottobre attacca il carcere di Lodi e fa evadere Colia. Le rapine si contano a decine. La faida con la banda di Francis “Faccia d’Angelo” Turatello il boss numero 1 della mala milanese insanguina bische e night club. I due si riconcilieranno anni dopo in carcere, con un espediente diplomatico. Vallanzasca sposerà una delle tante ammiratrici che gli riempiono la cella di lettere d’amore. Turatello sarà testimone e il rito salva la faccia a entrambi. Nei mesi ruggenti la banda della Comasina si dedica anche ai sequestri. Il principale è quello della sedicenne Emanuela Trapani, figlia di un industriale. È un sequestro sui generis: una notte la ragazza imbocca la porta dell’appartamento dove la tengono prigioniera e torna a casa. Forse Vallanzasca, che la sorvegliava, si era addormentato. Forse avevano una relazione, avevano litigato e la ragazza si era innervosita: di certo non era la prima volta che lasciava la “prigione”. Di fatto la sequestrata arriva sotto casa e fa in tempo a citofonare. Poi il carceriere la raggiunge in macchina e la convince a tornare a casa. In febbraio una sparatoria a un posto di blocco sull’autostrada si conclude con la morte di due agenti e un bandito. Il capobanda, ferito, verrà arrestato otto giorni dopo a Roma. In carcere Vallanzasca non è stato un detenuto tranquillo: ha tentato tre evasioni e in una di queste è riuscito a restare fuori dal carcere per venti giorni, nel 1987. Ha ucciso un ragazzo della sua banda che lo aveva tradito sfidandolo in una sorta di duello rusticano, dopo avergli fornito il coltello. Un omicidio è sempre un omicidio ma negli sanguinosi dei boia delle carceri sembra una scena da romanzo. Renato Vallanzasca è un bandito e lo resterà in un certo senso sempre. Ma dopo quasi 50 anni di galera senza contare i 4 dal 1972 al 1976, invecchiato e malato, senza che rappresenti più un pericolo, non concedergli la condizionale, di cui godono condannati con una storia ben più sanguinosa e addirittura tenerlo in isolamento non è giustizia e neppure vendetta. È sadismo. Simone Ficicchia “non è pericoloso”: niente sorveglianza speciale per l’attivista del clima di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 gennaio 2023 Respinta la richiesta della questura. Il 20enne esponente di Ultima Generazione ha partecipato a vari blitz ambientalisti, tra cui quello alla Scala. Lui: “Chi si attiva per fare valere i diritti non è una persona da mettere sotto controllo”. Otto blocchi stradali di una ventina di minuti con la minaccia di farsi investire, dal Grande Raccordo Anulare al valico del Monte Bianco; l’imbrattamento dell’Acquario di Genova, incollando le proprie mani al vetro della vasca; i secchi di vernice nella hall del Ministero della Transizione Ecologica; e da ultimo il lancio di vernice all’ingresso del Teatro alla Scala la sera della “prima”, per un totale di 21 tra denunce e violazioni dei Fogli di Via amministrativi dalle varie città: da ciò la Questura di Pavia ricavava la “pericolosità sociale generica” di Simone Ficicchia, 20enne attivista di “Ultima Generazione”, movimento ambientalista che negli ultimi mesi dichiara di attuare “gesti eclatanti per denunciare l’inerzia dei governi sul fatto che l’emergenza climatica costituisca un rischio per l’esistenza del pianeta”. E per arginarne il suo “essere dedito alla commissione di reati che mettono in pericolo la sicurezza pubblica”, la Questura chiedeva di sottoporre Ficicchia alla misura di prevenzione della “sorveglianza speciale” di polizia per un anno con obbligo di soggiorno nella sua Voghera. Ma “per le misure di prevenzioni personali - osservano i giudici di questa sezione del Tribunale di Milano nel respingere ieri la richiesta - non sono sufficienti meri sospetti, ma vanno presi in considerazione fatti storicamente apprezzabili, che non possono essere desunti da risultanze investigative e di polizia che non si siano tradotte in provvedimenti giurisdizionali attestanti, quantomeno in termini di probabilità, l’effettivo verificarsi di quei comportamenti”. E invece, nel caso di Ficicchia, la proposta della Questura di Pavia di sottoporlo a sorveglianza speciale “si fonda su plurime denunce tutte ancora sub judice”, e anzi in quasi tutti i casi “neppure oggetto di procedimenti penali avviati dalle varie Procure, mentre gli “unici due instaurati a Milano e Firenze” sono per fatti “che non appaiono idonei, allo stato, a sorreggere” l’accertamento “dell’abitualità della commissione di reati”. Tutto ciò “senza minimizzare la gravità degli episodi descritti nelle varie denunce”, chiariscono i giudici Rispoli-Cernuto-Spagnuolo Vigorita: per i quali “ciascuno di essi ha già pronta la risposta istituzionale sul piano della prevenzione, rappresentata dai diversi Fogli di Via emessi dai Questori delle varie città, e dall’Avviso Orale emesso dal Questore di Pavia il 9 giugno”. “Chi si attiva per fare valere i diritti propri e di tutti - commenta Ficicchia - non è una persona pericolosa da mettere sotto controllo”. Piacenza. Uccise a coltellate un tunisino, Mourad Chail trovato morto in cella Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 20 gennaio 2023 A novembre dello scorso anno i giudici della corte d’Appello avevano ridotto la pena da 16 a 14 anni di carcere. L’accusa, per Mourad Chail, marocchino di 32 anni, era quella di omicidio volontario. Il giovane straniero, custode e lavapiatti alla trattoria Barchetta di Campogalliano, era infatti accusato di aver ucciso a coltellate il tunisino 36enne Mohamed Salah a seguito di una lite scoppiata in un bar del paese. Chail aveva poi deciso di rinunciare al ricorso in Cassazione, ‘accettando’ la condanna. Nei giorni scorsi, però, il detenuto è stato trovato morto in carcere a Piacenza ma è mistero su quanto sia accaduto al marocchino, al quale era stata affidata una cella singola. Per capire cosa lo abbia condotto alla morte, infatti, è stata disposta l’autopsia. Il decesso, secondo i primi riscontri, sarebbe stato causato da autoinalazione di gas da una bomboletta ma non è chiaro se si sia trattato o meno di un gesto volontario. Come spiega il suo legale, l’avvocato Lorenzo Bergami, Chail era entrato nel penitenziario di Piacenza a settembre, dopo essere stato trasferito dal carcere di Reggio Emilia. Pare infatti che il giovane marocchino fosse stato minacciato prima all’interno del carcere Sant’Anna, a Modena poi a Reggio Emilia. Secondo il garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, il 32enne “era stato valutato dallo psichiatra lo scorso ottobre: da allora, però, non erano seguite ulteriori valutazioni”. “Sappiamo soltanto che avrebbe inalato il gas in cella - spiega l’avvocato Bergami - ma ad oggi non possiamo stabilire se si sia trattato di un gesto volontario o meno. Oggi (ieri, ndr) è stato dato incarico al medico legale per effettuare l’autopsia e attendiamo l’esito, previsto tra sessanta giorni. La famiglia non è riuscita a nominare un consulente tecnico: vorrebbero tenere il denaro per inviare la salma in Marocco. Ad interessarsi di Chail è solo la moglie del cugino. Lo avevo incontrato recentemente - conclude Bergami - lui aveva deciso di non fare ricorso in Cassazione. Era stato però trasferito più volte proprio a seguito di continue minacce in carcere”. Il delitto risale a giugno del 2020. I giudici di secondo grado avevano concesso le attenuanti generiche al giovane, legate al fatto che lo straniero confessò di essere l’autore del delitto ma anche al fatto che più volte l’uomo si dichiarò pentito. Il delitto era avvenuto nelle campagne di Campogalliano. Chail era stato fermato poche a poche ore dall’efferato omicidio. Vittima e carnefice si erano incontrati in un bar e, dopo aver bevuto, avevano iniziato a litigare per motivi di droga. Alessandria. La direttrice del carcere ai politici: “Mancano agenti, educatori e spazi” di Adelia Pantano La Stampa, 20 gennaio 2023 Durante la visita con la Commissione consiliare, la direttrice del carcere di San Michele: “Qui è diventato difficile fare tutto e per tutti è sofferenza. Si lavora sempre di più con fatica nelle carceri di Alessandria. Un concetto che ripete da sempre anche la direttrice, Elena Lombardi Vallauri. Una questione su tutte, quella del personale della polizia penitenziaria con una carenza che è sempre più pressante. “Ad oggi manca un terzo del personale di cui avremmo bisogno - spiega la direttrice -. Tutto quello che viene fatto qui all’interno è fatto con estrema fatica e sacrificio”. Lunghi turni di lavoro, difficoltà nel gestire le emergenze. Una situazione che inevitabilmente ricade anche sui detenuti. “Cerchiamo di sopperire alle mancanze, anche loro ne risentono”, dice. Sofferenze che però non riguardano solo gli agenti ma anche altre aree. “Mancano tanti educatori, ce ne sono solo 4 per entrambe le strutture - sottolinea -. Così come manca anche il personale per la parte amministrativa che in una realtà come la nostra è difficile da gestire”. C’è poi la questione, ormai atavica, dei problemi strutturali. Quello messo peggio è senza dubbio il carcere del Don Soria, in centro città, dove gran parte dell’immobile non è ad oggi utilizzabile. Le maggiori criticità sono ai tetti e agli impianti elettrici ma non solo. “Ci sono tanti spazi che potrebbero essere riutilizzati per le attività formative e lavorative - spiega la direttrice -. I progetti di riqualificazione e di ristrutturazione ci sono ma sono indietro, si procede molto a rilento. Le problematiche strutturali sono emerse di recente anche nel “Settimo dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi”, in cui era contenuto anche il contributo del garante comunale di Alessandria, Alice Bonivardo. “Le carenze sono evidenti soprattutto al Don Soria, dove molti spazi non possono essere sfruttati e che garantirebbe una migliore convivenza per gli stessi detenuti - commenta Bonivardo -. Al San Michele sono di meno, anche se una riguarda la sezione di alta sicurezza che ha degli spazi troppo ristretti per i detenuti”. Un esempio sono i locali che ospitavano il Polo universitario. “La sezione è rimasta inutilizzata dopo la pandemia - spiega Bonivardo -. È urgente che vengano ripristinati, perché fino a qualche anno fa erano circa una decina i detenuti iscritti all’università”. Il Garante mantiene un continuo dialogo sia con la direttrice che con gli stessi detenuti. “Una volta a settimana faccio visita in entrambe le strutture per parlare e soprattutto per ascoltare le loro esigenze e i loro bisogni e poi farmi portavoce fuori da qui”, aggiunge ancora. Un dialogo che insieme alla direttrice mantengono anche con l’amministrazione comunale. Ieri la commissione Politiche sociali e sanitarie ha deciso di spostarsi dalle aule di Palazzo Rosso per andare direttamente al San Michele. “Era necessario entrare dentro, per comprendere meglio e ascoltare le esigenze e le problematiche di chi il carcere lo vive quotidianamente, solo così si può a costruire con loro un rapporto di collaborazione costruttiva e continuativa”, le parole della presidente della commissione, Roberta Cazzullo. Milano. Mancano gli infermieri in carcere: a Opera sono 31 sui 56 previsti di Zita Dazzi La Repubblica, 20 gennaio 2023 Solo giovani medici specializzandi, alle prime armi nelle carceri milanesi. E pochissimi infermieri a gestire centinaia di detenuti che hanno bisogno di fare terapie, di essere curati per il disagio psicologico, per le dipendenze, per i gesti di autolesionismo. La situazione è difficile in tutte le case di reclusione della provincia, ma è Opera, carcere enorme di massima sicurezza, che viene descritto come il caso più eclatante, con 31 infermieri rimasti su 56 che erano previsti. In un turno normale di lavoro, ci sono solo due infermieri a fronteggiare i problemi sanitari di 600 reclusi. Ma non va meglio a San Vittore (17 infermieri), a Bollate, il carcere” modello” che ha otto infermieri, come al Beccaria dove vengono mandati i minorenni (due infermieri). “A Opera ci sono quattro sezioni, con due reparti di medicina, uno di 70, l’altro da 80 posti, e poi ci sono due padiglioni per 600 persone, tutte bisognose di assistenza, somministrazione di farmaci, cure e medicazioni - racconta Mimma Sternativo, segretario Fials (Federazione italiana autonomie locali e sanità) di Milano. I medici disposti a prendere servizio non si trovano, a gestire tutti i problemi rimangono soli questi pochi infermieri, comandati con un ordine di servizio da parte dell’Asst Santi e Paolo, che ha la gestione del tema carcere. In generale, dopo pochi mesi gli infermieri rinunciano all’incarico perché vanno in burnout, si licenziano perché non riescono a stare in un ambiente così difficile, dove c’è anche il problema delle minacce”. Stesso problema si verifica al Cpt di via Corelli, dove la cooperativa che gestisce il centro di espulsione è sempre alle prese con il problema di trovare medici disposti a lavorare in un luogo dove i migranti tentano ogni giorni di suicidarsi, ingoiano lamette, si feriscono per farsi trasferire in ospedale. “Nessuno vuole andare a lavorare in carcere a Milano - continua la sindacalista - nemmeno al Beccaria dove come si è visto con le evasioni di Natale il clima è pesantissimo anche se sono ragazzi. C’è una situazione insostenibile, infatti stiamo aprendo una trattativa con Regione Lombardia per questa che è un’emergenza esplosiva”. Il 30 gennaio tutte le organizzazioni sindacali del comparto sanitario andranno a presentare le loro istanze ai vertici della Direzione Welfare chiedendo interventi e fondi per pagare il personale che accetta questo carico di lavoro gravoso. “ L’Asst Santi Paolo e Carlo ha firmato un accordo per pagare di più le ore in servizio presso i penitenziari, usando un residuo dei fondi contrattuali aziendali, che di solito vengono usati per pagare i premi a tutti i lavoratori. Ma bisogna fare di più e garantire un supporto psicologico a chi accetta di andare in carcere a lavorare”, conclude la Fials. Non esistono standard assistenziali che stabiliscano quanto personale sanitario occorra per numero di detenuti. “ E questo è un danno, per i carcerati e per gli operatori. Lavorare in carcere significa lavorare in un ambiente difficile e ostile, con pazienti anche cronici e complessi, dove il personale è esposto a rischi medico-legali, ma anche ad un forte stress lavoro- correlato - spiega la sindacalista. Altro tasto dolente: non esiste formazione. Professionalmente chi va a lavorare in carcere “muore” tanto che nessuno ci va per scelta”. Firenze. A Sollicciano una Commissione comunale davanti a 70 detenuti nove.firenze.it, 20 gennaio 2023 I Consiglieri hanno ascoltato le richieste dei reclusi. Dardano: “Disagio e sofferenza”. “Una vera e propria Commissione consiliare all’interno del Carcere di Sollicciano per affrontare le questioni legate ai problemi dei detenuti ma anche per ascoltarli in prima persona”, spiega la presidente della commissione Politiche sociali e della salute Mimma Dardano dopo la seduta di ieri che si è svolta a Sollicciano. “Abbiamo incontrato la direttrice Antonella Tuoni, parte attiva durante tutta la seduta che si è svolta nella sala Cinema in presenza di circa 70 detenuti. Durante la seduta era presente anche la Polizia penitenziaria che ringraziamo così come il direttore sanitario della struttura Mauro Romilio, gli educatori, i responsabili dell’istruzione scolastica. All’ordine dei lavori c’era un Ordine del Giorno del gruppo Sinistra Progetto Comune, sulla dismissione dell’asilo nido all’interno del penitenziario. L’elemento più rilevante è stato quello di voler sperimentare una vera e propria forma di cittadinanza attiva per chi, in questo momento ne ha perso il diritto, facendo intervenire direttamente i detenuti. Ne abbiamo ricavato tante riflessioni ma soprattutto tante domande che evidenziavano disagio e sofferenza. Infine abbiamo - conclude la presidente Dardano - effettuato anche una visita, nella parte femminile del carcere dove è presente l’asilo nido ma che non ha, attualmente, bambini. Da parte dell’amministrazione c’è la volontà di continuare ad occuparsi del carcere e di attivarsi, affinché le loro richieste e le loro sofferenze non restino chiuse tra le mura del carcere”. Roma. Verifiche Gdf in mense di Rebibbia, indaga procura Roma ansa.it, 20 gennaio 2023 Gli uomini del nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza hanno effettuato una serie di controllo nel carcere di Rebibbia nell’ambito dell’indagine dei pm di Roma sulle pubbliche forniture per vitto e sopravvitto all’interno dell’istituto penitenziario. L’attività della Gdf ha riguardato la qualità del cibo servito nelle mense: acquisiti una serie di documenti che ora finiranno all’attenzione dei magistrati. L’attività di indagine era scattata anche alla luce di una denuncia presentata dal Garante capitolina dei diritti dei detenuti, Gabriella Stramaccioni. “Ho presentato una denuncia circa un anno e mezzo fa - spiega Stramaccioni - in cui segnalavo la qualità del vitto che veniva distribuito nei quattro istituti di Rebibbia e il prezzo del sopravvitto, il cibo che i detenuti acquistano a loro spese, con prezzi fuori mercato e scadenti. Ho denunciato l’anomalia che fosse la stessa ditta a gestire sia il vitto che il sopravvitto”. Padova. Ventidue espulsioni in diciotto giorni: la Questura impone la “tolleranza zero” padovaoggi.it, 20 gennaio 2023 Dall’inizio dell’anno sono fioccati i provvedimenti a carico di cittadini che non hanno i necessari requisiti per rimanere in Italia. Il lavoro di prevenzione a tutela della sicurezza pubblica proseguirà senza sosta. Lavoro super per la Questura di Padova in questo primo scorcio di 2023. A seguito dei servizi di prevenzione e repressione dei reati posti in essere dagli uffici della Questura di Padova, considerevole è stata l’attività svolta dall’ufficio Immigrazione. Dall’inizio dell’anno, in 18 giorni, la sezione Espulsioni ha eseguito 22 provvedimenti di espulsione emessi a carico di cittadini extracomunitari e comunitari irregolarmente presenti nella provincia di Padova, 12 dei quali relativi a detenuti o arrestati in flagranza di reato e processati per direttissima. Delle 22 espulsioni disposte, 14 sono state eseguite mediante trattenimento presso un Centro di Permanenza per i Rimpatri, 5 mediante ordine del questore a lasciare il territorio nazionale entro 7 giorni e 3 mediante rimpatrio nel Paese di origine. Gli episodi più significativi - In particolare, il 12 gennaio, è stato allontanato un cittadino rumeno classe 1989, uscito per fine pena dalla Casa di Reclusione di Padova dove era recluso per un cumulo di pene di 8 anni e 10 mesi per i reati di lesioni personali aggravate, rapina aggravata, ricettazione, furto aggravato, falsa attestazione a pubblico ufficiale, molestia e disturbo alle persone, resistenza a pubblico ufficiale, porto armi ed oggetti atti ad offendere e danneggiamento. Ieri l’altro, il 17 gennaio è stato rimpatriato, a seguito di espulsione come misura alternativa alla detenzione, un cittadino tunisino classe 1991 detenuto presso la casa di Reclusione di Padova dove stava scontando una pena detentiva per un cumulo di pene pari a 4 anni e 8 mesi. Pluripregiudicato con a carico numerose condanne in violazione normativa sugli stupefacenti, resistenza e violenza a un pubblico ufficiale, violenza e minaccia a un pubblico ufficiale, lesioni personali, rifiuto di indicazioni sulla propria identità, ricettazione, inosservanza provvedimenti delle autorità. Lo stesso giorno è stato inoltre rimpatriato un altro cittadino tunisino classe 1982, uscito per fine pena dalla Casa di Reclusione di Padova dove ha scontato una pena di 7 mesi per furto. Pluripregiudicato​ con a carico numerosi precedenti per produzione e traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, furto aggravato, porto armi od oggetti atti ad offendere, possesso ingiustificato di chiavi o grimaldelli, resistenza a pubblico ufficiale, inosservanza provvedimenti delle autorità, danneggiamento, deturpamento e imbrattamento di cose altrui, false attestazioni a pubblico ufficiale sulla propria identità, guida in stato di alterazione psicofisica per sostanze stupefacenti. Salerno. Detenuti a lezione d’imprenditoria La Città di Salerno, 20 gennaio 2023 I detenuti di Fuorni “studiano” da imprenditori. E pianificano la loro vita al di fuori dal carcere, cimentandosi attraverso l’affiancamento e la verifica di fattibilità tecnica, economica, logistica e di mercato di nuove attività concepite ricadenti nei settori della raccolta e lavorazione dei metalli, del noleggio auto, della movimentazione terra, di degustazione prodotti mediterranei, di lavorazioni meccaniche e artigianali. E questo grazie al concorso di idee destinato agli iscritti al laboratorio Sportello di orientamento e formazione per utenze speciali. L’iniziativa è finanziata dalla Regione nell’ambito della manifestazione di interesse rivolta a soggetti no profit interessati alla co-progettazione e gestione di percorsi di inclusione socio lavorativa delle persone in esecuzione penale, attuata da una rete di partner costituita dalla Ets Socrates di Sala Consilina, dalla Coop Sociale Fili d’Erba e dall’Associazione Quartieri Ogliara. Le attività sviluppate riguardano: servizi di affiancamento per la redazione del curriculum vitae, simulazioni per presentarsi o richiedere un colloquio di lavoro, affiancamento per l’avvio di nuove attività e per la redazione di un piano di impresa, attività di brainstorming per stimolare la creatività e lo sviluppo di “business idea” dei detenuti. Sono in corso di pianificazione gli incontri “one to one” che vedranno il coinvolgimento di titolari di imprese profit e no profit che terranno colloqui mirati con i detenuti finalizzati alla creazione di partenariati e all’inclusione sociale. L’iniziativa è seguita e sostenuta dalla direttrice del penitenziario Rita Romano, supportata dalla referente dell’area giuridico pedagogica Monica Innamorato e da un team di risorse umane qualificate della rete dei partner di progetto. Mentre i detenuti “studiano”, la polizia penitenziaria entra in stato d’agitazione. I sindacati di categoria (Sinappe, Uil pa, Uspp, Fns Cisl, Cgil Fp, Fsa-Cnpp), infatti, protestano per “l’indifferenza dell’Amministrazione penitenziaria della Campania che sta mettendo a rischio la sicurezza di tutte le carceri regionali”. Lo stato d’agitazione e l’interruzione dei rapporti sindacali, però, potrebbero essere solo la prima di una lunga serie di proteste. Perché “in assenza di urgentissimi interventi risolutivi - ammoniscono i sindacati - non si esclude di scendere in piazza per esternare tutto il proprio legittimo dissenso”. Diversi i motivi del malcontento, tra cui la drastica riduzione delle dotazioni organiche, i turni di lavoro oltre le otto ore che sono diventati la regola e non l’eccezione, le aggressioni dei detenuti nei confronti dei poliziotti che non vengono sanzionate adeguatamente, l’assistenza sanitaria dei detenuti nella regione che è praticamente inesistente, i nuclei traduzioni e piantonamenti che ormai sono ai limiti del collasso con centinaia di ore di lavoro straordinario non pagato, l’Amministrazione penitenziaria che vìola gli accordi per il mancato pagamento in anticipo delle missioni e con i ritardi eccessivi nel rimborso delle missioni”. Santa Maria Capua Vetere. Sartoria in carcere, le detenute cuciono le bomboniere per la garante di Rossella Grasso Il Riformista, 20 gennaio 2023 Il lavoro in carcere è fondamentale per i detenuti, sia per affrontare il presente, sia per prepararsi al futuro magari imparando un mestiere che possa cambiare la vita. Ne è convinta anche Emanuela Belcuore, garante dei detenuti della provincia di Caserta che il 20 gennaio festeggerà il suo compleanno. Per l’occasione ha chiesto alle detenute dell’alta sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere di cucire per lei dei piccoli “regalini” da donare agli invitati alla sua festa. Così le detenute hanno prodotto dei piccoli portachiavi colorati con la scritta “L’essenziale è invisibile agli occhi”, la stessa scritta che c’è su uno dei muri del penitenziario. E poi: “Fatto a mano dalle detenute dell’alta sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere”. La garante ha procurato alle detenute tutto il materiale necessario per confezionare le piccole bomboniere e le detenute hanno realizzato per lei i bellissimi pensierini da donare grazie al laboratorio di sartoria in carcere curato dalla sarta Anna. “Così 8 detenute si sono tenute impegnate e hanno messo a frutto il lavoro delle loro mani percependo un compenso”. La garante racconta che nell’alta sicurezza la sartoria già si occupa di lavori commissionati dal Ministero come ad esempio è successo per le mascherine in tempi di Covid. Oppure confeziona le divise per gli agenti della penitenziaria. “Ci sono anche alcune aziende storiche napoletane come Isaia e Marinella che commissionano lavori alle detenute. Ci vorrebbero sempre più imprenditori che decidono di investire in questo tipo di ingaggi lavorativi in carcere”. “Sono contenta, nel mio piccolo, di aver supportato questo laboratorio - continua Belcuore - di aver dato la possibilità alle detenute di lavorare e anche, donando un oggetto cucito da loro ai miei ospiti, di averle vicino in un giorno per me speciale. Per me è importante perché, loro lo sanno, io le porto sempre nel cuore”. Un’idea quella che ha avuto la garante per finanziare le detenute e supportare il lavoro in carcere. “Ci tengo anche a ringraziare Ciro Poppella che preparerà la torta per il mio compleanno - conclude la garante - che spesso dona i suoi famosi fiocchi di neve al carcere di Santa Maria Capua Vetere e Arienzo. Una bella iniziativa di solidarietà che lui fa senza dirlo a nessuno ma che riempie sempre il cuore di tutti i detenuti e le detenute”. Roma. “Dove non batte il sole”, il libro di Carmelo Sardo presentato a Rebibbia ansa.it, 20 gennaio 2023 Il romanzo con al centro l’ergastolo ostativo. “L’errore più grande che si possa fare è credere che l’uomo che sbaglia è e sarà sempre il suo reato”. Lo ha detto l’autore di “Dove non batte il sole”, Carmelo Sardo, il romanzo presentato nel teatro del carcere di Rebibbia, a Roma. Alla presentazione hanno assistito un centinaio di detenuti e diverse autorità tra cui la direttrice del carcere, Rossella Santoro, il vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carmelo Cantone, il direttore generale del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Massimo Parisi, il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), Giovanni Battista Durante. Al centro del dibattito, l’ergastolo ostativo che è anche il tema fondante del libro. Il romanzo, prendendo spunto dalle lettere che lo scrittore siciliano ha ricevuto negli anni da detenuti nelle carceri di tutta Italia, affronta temi relativi al sistema penale italiano “che contempla il fine pena mai - dice lo scrittore - una pena di morte in vita”. Napoli. Secondigliano, un film in carcere per discutere di divisioni e barriere Corriere del Mezzogiorno, 20 gennaio 2023 Un esperimento che nasce dalla collaborazione tra il centro penitenziario e la Federico II. Proiettare per i detenuti un film nel quale si racconta come possano crollare le divisioni e le barriere che si generano all’intenso del mondo carcerario: è l’esperimento che si farà oggi alle 14.30 nel centro penitenziario “Mandato” di Secondigliano, dove i reclusi potranno vedere il film di Leonardo Di Costanzo “Ariaferma”. Si tratta di un incontro organizzato dal Polo universitario penitenziario dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Un penitenziario innovativo - Un esperimento non casuale: il carcere di Secondigliano è un luogo particolare perché, nonostante il numero di detenuti superi quello previsto, nonostante la difficoltà di una struttura che sorge in un territorio complesso, qui la detenzione può rappresentare un’occasione di rieducazione per chi vive questa condizione. Polo universitario - Nel carcere “Mandato” è stato creato dall’Università “Federico II” il più grande polo universitario penitenziario d’Italia, quello con più corsi e con più studenti del Paese, lo stesso in cui una persona come Pierdonato Zito, dopo più di 30 anni di carcere di cui 8 al 41 bis, è riuscita a laurearsi con 110 e lode in Sociologia, mostrando che il trattamento penitenziario può essere un successo. Dopo il film il dibattito - Prima della proiezione interverranno Giulia Russa, direttrice della struttura, e Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti. Dopo il film si aprirà un dibattito sul valore della pena detentiva e sulla situazione del sistema penitenziario italiano al quale prenderanno parte il regista Leonardo Di Costanzo, l’attore Sasà Striano, la professoressa Marella Santangelo, che è la delegata del rettore per il Polo universitario penitenziario, e la dottoressa Lucia Castellano, provveditrice regionale per l’amministrazione penitenziaria. Giuliano Amato: “Abbiamo ancora bisogno di diritti” di Simonetta Fiori La Repubblica, 20 gennaio 2023 Giuliano Amato firma l’introduzione alla nuova edizione dello storico saggio di Louis Henkin e da ex presidente della Corte Costituzionale spiega dove c’è ancora da lavorare. Ci sono diversi motivi per parlare di diritti umani con Giuliano Amato, uscito recentemente dal Palazzo della Consulta e ora di nuovo nella sede cinquecentesca della Treccani (che lo ospita come presidente onorario), non distante da piazza del Quirinale. A settantacinque anni dalla Dichiarazione universale (1948), l’Istituto dell’Enciclopedia ripubblica il saggio di Louis Henkin Diritti dell’uomo del quale Amato firma l’introduzione. E a Cascais pochi giorni fa c’è stato il debutto, sotto la sua presidenza, della commissione internazionale con egida Onu sulla Global Rule of Law, con la partecipazione di giudici e presidenti di Corti Supreme, di ex presidenti della Repubblica, di accademici, diplomatici e politici di svariati continenti. “Doveva venire anche Gilmar Mendes, ma è dovuto rimanere in Brasile per gestire alcune migliaia di facinorosi”, dice Amato nel suo nuovo studio a Palazzo Mattei. Quello dei diritti è un filo rosso che attraversa la sua biografia politica e intellettuale, ma ora confessa di essere particolarmente angosciato dalle fratture sempre più profonde che dividono il mondo. “Dall’Afghanistan all’Iran, dalla rivolta dei trumpiani a Capitol Hill ai ribelli di Bolsonaro, oggi siamo molto distanti da quei valori comuni che permisero ai fondatori delle Nazioni Unite di dichiarare universali i diritti”. La definisce “una grande rivoluzione culturale”. “Per la prima volta venivano riconosciuti i diritti di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla cittadinanza e dall’appartenenza a una comunità”. Una rivoluzione culturale sempre più contraddetta da persecuzioni e da pulsioni antidemocratiche. Come scrive Henkin, quella dei diritti umani è “un’ideologia difficile da trapiantare”... “Henkin stesso rappresentava la sacrosanta vendetta dell’intelligenza contro la barbarie. Era arrivato a 6 anni negli Stati Uniti dalla Bielorussia dove il padre era un autorevole rabbino: la famiglia era scappata dalla persecuzione dell’Armata Rossa. Divenne un’autorità all’incrocio tra diritto costituzionale e diritto internazionale e io lo ebbi professore alla Columbia University. Da lui ho imparato uno dei punti essenziali, ossia la contraddizione tra quegli ideali universalistici e la capacità pratica molto parziale di realizzarli”. L’Occidente, che pure è stato artefice dei diritti, non sfugge a quella contraddizione... “Oggi assistiamo a una sorta di egolatria che colpisce le nazioni o singole parti della nazione, persuase di avere l’esclusiva nel rappresentare la volontà del popolo: chi non sta con loro diventa automaticamente nemico del popolo. Questo è già accaduto in Europa, in Ungheria, dove chi ha vinto le elezioni ha liquidato gli avversari in quanto nemici. Ma è accaduto in forma rovesciata anche a Washington e a Brasilia dove chi ha perso le elezioni non accetta l’esito del voto ma accusa l’avversario, ossia il nemico del popolo, di aver vinto con l’inganno”. Il pericolo dell’egolatria nazionale rischia di contagiare anche l’Italia? “Il governo di destra sa bene che non può deragliare dai binari fissati dall’Europa. Il legame con l’Unione risponde infatti a una necessità vitale che va molto oltre scelte contingenti. Ma in uno scenario sempre più colpito da guerre e pandemie, prevale ovunque la nozione di “autonomia strategica”, ovvero produrre da soli ciò che serve di più. Gli Stati Uniti stanziano fondi a sostegno delle proprie imprese, l’Europa vuole fare lo stesso, e dobbiamo augurarci che l’Unione non si limiti a riconoscere gli stanziamenti dei singoli Stati, abbandonando a sé stessi i paesi più indebitati. Ma dove ci può portare la chiusura di Europa e America nei rispettivi protezionismi? Davvero l’Occidente è un’entità che esiste soltanto attraverso le armi? Non è quello che dobbiamo augurare a chi voglia essere portatore di diritti universali”. L’ultimo rapporto di Amnesty International denuncia la risposta pericolosamente debole delle Nazioni Unite in un contesto sempre più segnato dalle guerre... “Questa è forse l’espressione più palese delle contraddizioni da cui siamo partiti. D’altra parte le Nazioni Unite nascono su un doppio fondale: da un lato l’aspirazione all’universalità, dall’altro l’accettazione della sovranità degli Stati. E la sovranità intesa come esclusività del potere - il principio del ‘superiorem non recognoscens’ - contrasta con l’universalità”. Lasciando la presidenza della Corte Costituzionale lei ha denunciato la tentazione crescente in Europa di innalzare le barriere nazionali contro il diritto comune europeo. Una tentazione a cui non è estranea la destra oggi al governo, la quale ha annunciato attraverso il ministro Lollobrigida la volontà di cambiare l’articolo 11 della Costituzione, ossia quello che vincola la sovranità nazionale al diritto sovranazionale... “Credo che basti un solo dato per mettere in difficoltà psicologica chi ha formulato questa proposta: la Costituzione che per prima ha riaffermato il primato del diritto nazionale su quello internazionale è quella russa del 2020. Fare una riforma che ci assimili a Putin potrebbe apparire molto singolare: quello che è forse un errore diventerebbe un errore di collocazione dell’Italia nello scacchiere internazionale. Credo infatti che al fondo ci sia un equivoco che andrebbe chiarito”. Quale? “Per noi giuristi il rapporto tra il diritto europeo e quello nazionale non è fondato su una gerarchia, ma sulle competenze: ci sono settori in cui gli Stati hanno deciso sia meglio legiferi l’Unione Europea, e settori in cui è rimata la competenza degli Stati. Il problema quindi non è limitare la supremazia del diritto europeo, là dove noi lo abbiamo voluto, ma essere sufficientemente capaci di concorrere alla sua costruzione in modo da difendere i nostri interessi. E qui è giusto dire che bisogna farsi valere di più e meglio, ma non negando quel diritto, piuttosto contribuendo alla definizione dei suoi contenuti”. È molto accesa la discussione sul recente decreto del governo sui migranti. Le organizzazioni non governative, costrette a fare un salvataggio alla volta, contestano la violazione di un diritto umanitario internazionale... “Le regole hanno un’astrattezza che è destinata a misurarsi coi fatti. È evidente che se dopo un salvataggio m’imbatto in un’altra barca che sta affondando non c’è regola italiana che mi trattenga dal salvare quei naufraghi: rischierei di commettere una violazione ben più grave. E nessun tribunale mi potrebbe condannare per aver messo in salvo vite umane in pericolo. Devo anche aggiungere che queste regole, pur opinabili, sono i tentativi che fa un paese esposto come il nostro per limitare una responsabilità che sarebbe giusto condividere con la comunità europea, finora piuttosto micragnosa”. L’Italia non è messa benissimo sul piano dei diritti. Nell’ultimo anno sono cresciuti i ricorsi alla Corte di Strasburgo. E sono aumentate le condanne, specie per le condizioni nelle carceri... “Certo non aiuta una concezione punitiva della detenzione che ho visto accendersi in una parte della destra davanti alle sentenze della Corte Costituzionale in difesa dei diritti dei detenuti ritenuti più pericolosi. Diciamo che noi abbiamo alcune questioni aperte. E lo dico avendo firmato io stesso parte della legislazione antimafia. Siamo orgogliosi di aver affrontato terrorismo e mafia senza sottoporci a regimi speciali, ma non è meno vero che nella nostra legislazione ordinaria abbiamo messo norme speciali che sono da regime di sospensione dei diritti. Alcune di quelle norme sono ancora lì. E in più abbiamo anche esteso queste regole speciali a reati molto diversi. Quello che mi colpisce è che il ministro della Giustizia del governo di destra sia accentuatamente garantista: posso pensare che queste questioni non gli sfuggano”. Tornando alla contraddizione tra la teoria e la pratica, questa dei diritti è una storia condannata all’incompiutezza? “No, non penso. La grande forza di quel messaggio eversivo sui diritti universali è destinata ad agire soprattutto nella coscienza di chi non ha diritti e ne pretende il riconoscimento. Ma anche nella coscienza di chi quei diritti li nega e a un certo punto capisce che è una follia. Se penso all’incubo delle donne iraniane, confido nel ravvedimento non tanto delle autorità spirituali ma dei poliziotti costretti a sparare negli occhi delle ragazze. Ma forse - lo riconosco - qui parla il vecchio socialista che ha creduto nel protagonismo degli ultimi e dei diseredati. La storia del Novecento è cominciata così. E dobbiamo sperare anche oggi in un nuovo inizio”. “Interpretare la vita dentro un carcere minorile ci ha fatto capire quanto è difficile salvarsi” di Elvira Serra Corriere della Sera, 20 gennaio 2023 Hanno sedici anni di differenza e alcuni tratti in comune. Anzitutto gli occhi celesti, bellissimi. Poi un luogo del cuore: il Gianicolo. Una famiglia che per entrambe non ha nulla a che fare con il cinema. E quella personale determinazione che le ha portate a credere in sé stesse, quando ancora non ci credeva nessun altro, e a pagarsi da sole i primi corsi di recitazione. Una, la più grande, per alimentare il fuoco sacro ha fatto la barista; l’altra, la cameriera in un ristorante. E forse per questo diventa anche un gioco di specchi l’incontro romano con Carolina Crescentini, 42 anni, e Valentina Romani, 26, protagoniste di Mare Fuori, la fortunata serie tv che tornerà su Rai 2 in prima serata il 15 febbraio con la terza stagione. Carolina interpreta Paola Vinci, la direttrice dell’Istituto di Pena Minorile (Ipm) di Napoli, liberamente ispirato al carcere di Nisida. Valentina è Naditza, una giovanissima rom che sceglie di farsi rinchiudere nell’Ipm pur di sfuggire al matrimonio combinato dai suoi genitori. Come vi siete preparate per il ruolo? Crescentini: “Su YouTube sono andata a cercarmi le interviste ai giovani detenuti di Nisida e alle direttrici delle carceri. In passato, per I bastardi di Pizzofalcone (dove ha il ruolo della pm Laura Piras, ndr) avevo incontrato la direttrice di Poggioreale. Mi disse una cosa che mi colpì molto: dal carcere entrano ed escono le stesse persone”. Romani: “Io ho preferito non ispirarmi a nessun film per non farmi contaminare: volevo trovare dentro di me la voce di Naditza. E non sono nemmeno andata a visitare Nisida con gli altri attori perché sapevo che il mio personaggio in carcere si sente al sicuro, protetta: temevo che la mia impressione potesse inquinare la mia interpretazione”. La scena più difficile? Romani: “Una delle più difficili è stata nella prima stagione, quando ho trovato in bagno Serena (India Santella, ndr) con la ferita da autolesionismo. È stato impegnativo prepararmi, anche perché queste cose esistono e succedono per davvero e bisogna stare molto attenti quando si raccontano. Un’altra scena tosta è stata in cortile, quando Nad rivede Filippo e scopre che non è morto lui, ma Ciro: è stato complicato girarla dal punto di vista emotivo, ma anche tecnico, poiché eravamo in tanti”. Crescentini: “Interpreto una donna zoppa, e ho dovuto mettere un tutore per capire come camminare. Mio marito (il cantautore Francesco Motta, ndr) quando giravo per casa con il bastone era spaventatissimo! Poi c’è stata una scena in cui dovevo salire le scale con le stampelle, ad agosto, grondavo di sudore: arrivata in cima dovevo continuare a recitare le mie scene, è stato faticoso. Un momento emotivamente duro, invece, è quando il padre di Naditza, l’attore Ivan Franek, spacca tutto nel mio studio: ecco, lì anche se sai che stai recitando non resti indifferente”. Invece il momento più divertente? Crescentini: “Ho avuto tante crisi di riso con Vincenzo Ferrera, che fa l’educatore in carcere. Ci sentiamo ancora una volta alla settimana”. Romani: “È stato divertentissimo girare la scena del matrimonio saltato, quando Nad scappa in macchina con Filippo e Carmine. Guidavo io e l’auto mi si è spenta sei volte: sono abituata al cambio automatico, mentre quella era con le marce. Ma è stato bello vederci dal di fuori, respirare la conquista della libertà”. Che effetto vi ha fatto l’evasione dall’Istituto Beccaria di Milano il giorno di Natale? Romani: “È un gesto che lascia molti pensieri, ma l’ho trovato anche coraggioso: quei ragazzi sono fuggiti senza aver paura di annullare tutto il percorso fatto fino a quel momento pur di godersi un po’ di libertà”. Crescentini: “Le carceri non sono organizzate benissimo, servirebbero più educatori, non puoi pensare di buttarci dentro i delinquenti e gettare via la chiave. Manca il personale. La burocrazia rende complicate cose basilari come ordinare la carta igienica. Tempo fa sono stata a Regina Coeli per una gara di oratoria tra laureandi in legge e detenuti, avevano 20 minuti a testa prima di scambiarsi i ruoli su temi come l’uso delle armi: dovevano esporre una tesi a favore e una tesi contro. I detenuti hanno asfaltato gli altri”. Romani: “Trovo che ci sia una grandissima voglia di riscatto da parte dei detenuti, che però devono essere aiutati. Io ancora non me la sento di fare un’esperienza di volontariato dentro un carcere, perché ho bisogno di essere preparata, non posso improvvisarmi”. Crescentini: “Non posso dimenticare una premiazione ai Nastri d’Argento, dove ero candidata, e vinse tutto il cast di Cesare deve morire, il film dei fratelli Taviani girato con i detenuti di Rebibbia. Ricordo un omone che disse: “Non avrei mai pensato di passare dalle pagine di cronaca nera a quelle di cultura e spettacoli”. Era felice. Oppure un’altra volta, durante una trasmissione nella quale ero ospite assieme a un pizzaiolo che faceva dei corsi nel carcere minorile di Nisida: venne fatto un collegamento con un ex detenuto che aveva aperto due pizzerie a New York e aveva imparato il mestiere grazie a lui. È stato commovente, perché questi sono luoghi dimenticati, ma lì puoi davvero cambiare la vita di qualcuno”. Siete entrambe romane. Com’è stato l’impatto con il napoletano? Romani: “Sono romana di Roma Nord. La lingua per me ha rappresentato il primo scoglio, perché Nad parla napoletano e ho avuto paura di una responsabilità così grande. Sono stati fondamentali i ragazzi napoletani sul set”. Crescentini: “Io sono romana di Monteverde. Certe volte i ragazzi mi rispondevano in dialetto strettissimo e io non li capivo!”. Cosa vi ha lasciato dentro il vostro personaggio? Romani: “La parola chiave di Nad è libertà. La sua storia è un ossimoro, perché vuole rinunciare alla libertà assoluta del campo rom e rinchiudersi in carcere per inseguirne una più grande, quella del cuore. Trovo che sia un messaggio potente, un insegnamento grande. In generale fare Mare fuori è come fare un viaggio dall’altra parte del mondo, ti tocca profondamente. Vorrei imparare ad avere il coraggio di Nad”. Crescentini: “Quando abbiamo cominciato a girare, molti ragazzi non erano attori. C’è stato uno scambio bello, mi è arrivato amore in purezza. Ora li vedi che fanno i fighi, ma sono dei cuccioli! È stato molto emozionante tutto il percorso, anche quello di Paola, il mio personaggio, che all’inizio è tutta regolamenti da rispettare e poi si ammorbidisce, si addolcisce”. Vantaggi e svantaggi della notorietà... Crescentini: “La premessa è che sono molto grata al mio pubblico. Senza di loro non ci sarei io. Però non mi piace quando vengo trattata come un pupazzo. Mi è capitato di piangere al telefono dopo aver ricevuto una brutta notizia e di essere tormentata da alcuni fan che volevano un selfie. Per contro, senti proprio l’affetto della gente. A Napoli le signore mi invitavano a casa loro a bere un caffè. E io ci salivo! Oppure ci sono ex detenuti che mi si avvicinavano per strada e mi raccontavano il loro percorso di riscatto, come se fossi davvero una direttrice di carcere”. Romani: “Qualcuno ha detto che il successo appartiene già al passato, dunque non è da prendere troppo sul serio. Bisogna stare la gioco. E’ come se le persone si fidassero di te anche senza conoscerti, e questo è un vantaggio. Lo svantaggio è quando non rispettano certi momenti intimi tuoi, per esempio quando stai mangiando”. Siete personaggi, ma anche persone. Vi è capitato di conoscere i vostri miti grazie al lavoro che fate? Crescentini: “A me è successo con David Lynch a una Festa del Cinema di Roma. Io sono una che ha la parlantina, ma arrivata davanti a lui non ho spiccicato parola. Ero bloccata”. Romani: “Ho lavorato con Nanni Moretti per Il sol dell’avvenire, che deve ancora uscire. Mi aveva vista nella miniserie Alfredino - Una storia italiana. Quando l’ho incontrato la prima volta per me è stato un momento catartico: ero di fronte a un grande maestro del cinema, sono emozionata ancora adesso a ripensarci. Però posso aggiungere un altro aneddoto?”. Certo... Romani: “Avevo quattordici anni e frequentavo la scuola di recitazione Jenny Tamburi. Carolina Crescentini è venuta a incontrarci e io ho pensato: mamma che bella!”. Crescentini: “Ma veramente?”. Romani: “Sì, giuro. Mi ha colpito la semplicità con cui si è presentata, come se fosse passata a salutarci un’amica. Neppure io, come lei, vengo da una famiglia legata al mondo cinema, e l’idea che si potesse restare semplici facendo questo mestiere mi è piaciuta molto. Ritrovarmi a lavorare con lei è stato emozionante: è un’attrice sempre in ascolto, con lei sai di avere le spalle coperte. Spero un giorno di riuscirci anch’io”. Crescentini: “Ma lo fai già. Io tante volte mi sono persa negli occhi di Valentina. Diciamo che sul set c’era un bene tra Paola e Naditza un po’ più grande di quello scritto nella sceneggiatura”. Il film più bello? Crescentini: “Un tempo avrei risposto Mulholland Drive, oggi dico Magnolia”. Romani: “A me è rimasto dentro The Truman Show”. L’attrice più brava? Crescentini: “Beh, in Italia Monica Vitti: è la sintesi di una donna che ha la stessa forza e credibilità sia nei ruoli drammatici che in quelli comici, e non è mai spalla di nessuno. Tra le straniere, Julianne Moore, per la stessa capacità di cambiare registro ed essere sempre credibile”. Romani: “Scelgo Meryl Streep, icona di eleganza e femminilità: una grande attrice”. So che il Gianicolo è un vostro luogo del cuore... Crescentini: “Ci sono cresciuta, ci andavo a scrivere. Hai tutta Roma sotto di te e un silenzio incredibile, interrotto solo dallo sparo del cannone a mezzogiorno”. Romani: “Io ci andavo quando bigiavo a scuola. Lì è come se tutto si fermasse, anche la città che non si ferma mai”. Entrambe amate scrivere... Crescentini: “Non scrivo mai di me, ma prendo continuamente appunti di quello che vedo. Il treno è un luogo di ispirazione formidabile”. Romani: “Per me scrivere è una grande liberazione e un atto di ricerca di me stessa. Adesso, lo dico con grande pudore, sto provando a scrivere poesie. Mi fa sentire bene”. Il rap al carcere Beccaria con la Onlus 232 di Maria Elena Barnabi Gente, 20 gennaio 2023 “Grazie alla musica possono esprimere le loro emozioni”, dice il fondatore dell’Associazione 232. Dal progetto con il carcere minorile Beccaria è nato un cd. Sono tutti trentenni, sono pieni di entusiasmo e di bravura e la loro missione è lavorare nelle carceri minorili e con ragazzi in difficoltà, con uno strumento molto particolare: il rap. Sono gli operatori dell’Associazione 232, onlus nata nel 2019 grazie allo sforzo di educatori professionisti da sempre impegnati nel recupero di ragazzi in situazioni limite. Per ora il loro laboratorio principale è nel carcere minorile Beccaria di Milano (232 è l’interno telefonico della struttura), mentre sul territorio sono attivi in varie scuole in zone più o meno roventi del capoluogo lombardo e in comunità penali, ma l’idea è quella di espandersi e di fare rete con le altre associazioni presenti nelle carceri. Dal laboratorio nel Beccaria, grazie alla Carosello Records che ha messo lo studio di registrazione e i tecnici, è nato anche un cd: si chiama 232 Mixtape, ed è un progetto discografico fatto da tredici giovanissimi, dieci rapper e tre producer, che lavorano con l’Associazione 232. Per ora il disco non è in vendita, ma si può ascoltare su YouTube, mentre a breve dovrebbe partire un mini tour. E chi volesse può anche sostenere la 232: tutti i dettagli sono sul sito www.associazione232.org. Come funziona questo progetto ce lo racconta Fabrizio Bruno, fondatore dell’Associazione 232, che da tredici anni lavora come educatore nel carcere minorile Beccaria: “Ci sono entrato mentre facevo lo stage per la mia laurea in Scienze dell’educazione, e ci sono rimasto”. Che età hanno i vostri ragazzi? “L’età media è di circa 18 anni, ma nelle carceri minorili ci sono tanti ragazzi più giovani. Assurdo”. Hai 33 anni e lavori in carcere da quando ne hai 20. Che cosa ti colpisce di questa realtà? “Che la società non abbia ancora trovato una modalità alternativa per gestire questi problemi. Secondo me tra dieci anni guarderemo indietro e diremo: “Tu pensa che pazzi, un secolo fa mettevamo i ragazzi in prigione”. Perché il carcere non funziona con i giovani? “È uno strumento totalizzante in un’età molto delicata. Il criterio per cui si finisce in galera può essere poco equo: a volte succede per una cretinata fatta in una serata storta, per un episodio sbagliato, per un errore. Per carità, è giusto che la società dia una risposta, ma bisognerebbe anche capire perché i ragazzi sbagliano. E poi magari il carcere non sempre è la risposta giusta, viste le recidive che ci sono negli anni, oppure visti gli ottantaquattro suicidi che ci sono stati nelle carceri italiane nell’ultimo anno”. In che modo il rap può aiutare? “Intanto è uno strumento semplice, con poche regole, lo possono fare tutti. Ed è uno strumento di analisi, che ti permette di rielaborare le emozioni: esprime il pensiero attraverso le parole. Lo rende concreto. Poi ci risuona dentro: usa un tempo che è molto simile a quello del nostro cuore, viaggia intorno ai 90 bpm (in inglese beats per minute, cioè battiti al minuto, ndr), e ci ricorda un suono atavico, il cuore della mamma che sentivamo quando eravamo nel pancione. È arte, e l’arte aiuta sempre”. Cosa cantare lo decidono i ragazzi? “Sì. Noi magari li spingiamo a descrivere un momento importante della loro vita e a farlo capire agli altri. Così le parole non sono mai scelte a caso. E per i ragazzi fare ordine, perché per scrivere bisogna fare ordine, serve a rielaborare, a rivivere, a rileggere”. Qual è la cosa bella di questo progetto? “Tutti i ragazzi mi dicono che l’adrenalina che provano quando cantano sul palco è un’esperienza che non avevano mai vissuto. Non è la scarica che provi quando fai una rapina, quando assumi una sostanza o mentre scappi. È una sensazione positiva che avverti mentre restituisci qualcosa di bello alla società. Cambia tutto”. A Milano c’è una scena rap molto attiva. Vi sostiene? “Tantissimo. Abbiamo fatto una raccolta fondi e molti artisti ci hanno regalato cose che poi abbiamo dato come premi: Mahmood, Fabri Fibra, J-Ax, Nina Zilli, Ghali, Ernia... Altri si sono fatti intervistare dai ragazzi: produciamo un programma, si chiama Beccati, che gira sul nostro canale YouTube. Gli artisti ci sono vicini”. Dove ti vedi tra dieci anni? “A fare questo lavoro, sempre, 24 ore al giorno. Noi non abbiamo un prodotto da vendere e i nostri laboratori sono gratuiti. Viviamo dei bandi, dei concorsi, dei soldi che ci possono dare le fondazioni, e una parte del nostro tempo è speso anche nel cercare risorse. Sarebbe bello riuscire a sensibilizzare tante persone. Il nostro piccolo sogno è che in tutte le carceri italiane siano presenti realtà come la nostra. E poi ci piacerebbe avere uno spazio dedicato, dove poter fare attività tutto il giorno con i ragazzi. Noi ci crediamo davvero”. Il reddito di cittadinanza e il lavoro che manca di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 20 gennaio 2023 Su 364 mila beneficiari tra i 18 e i 29 anni, 11 mila possiedono unicamente la licenza elementare o addirittura nessun titolo e altri 129 mila soltanto il titolo di licenza media: cifre impressionanti, visto che parliamo di giovani. Il reddito minimo (che noi chiamiamo “di cittadinanza”) esiste in tutti i Paesi europei, e non solo. L’assunto di base è che la mancanza di risorse economiche sufficienti non dipenda da comportamenti individuali, ma da eventi accidentali e/o da circostanze avverse del contesto in cui si vive. La povertà è dunque un rischio sociale, che merita solidarietà collettiva. Questa idea ha fatto molta fatica ad affermarsi in Italia: una difficoltà paradossale vista la centralità che gli “ultimi” hanno nel pensiero cattolico e in quello socialista. Forse non è un caso che il reddito di cittadinanza sia stato voluto dai Cinque Stelle, un movimento che (allora) si definiva “né di destra né di sinistra”. La legge istitutiva del 2019 prevedeva un processo di monitoraggio in base a cui apportare eventuali modifiche. Come era naturale aspettarsi, l’attuazione del reddito ha messo in luce vari problemi. Si sarebbe potuta avviare una discussione pragmatica sulle cose da cambiare. Invece durante la campagna elettorale è emersa una contrapposizione manichea fra destra e sinistra: la prima schierata per l’eliminazione tout court, la seconda per la conservazione senza se e senza ma. Con la legge di Bilancio, il governo Meloni ha introdotto un insieme di modifiche, annunciando una riforma organica delle politiche contro la povertà. Sono diventati più stringenti i requisiti di accesso e si è (opportunamente) stabilito che i percettori fra i 18 e i 29 anni senza diploma completino l’obbligo scolastico. Inoltre, le persone “occupabili” potranno fruire del sussidio per soli 7 mesi nel 2023, invece di 12. Questo taglio ha suscitato aspre critiche. Va infatti a toccare i nervi scoperti di ogni sistema di reddito minimo: perché sussidiare una persona che potrebbe mantenersi lavorando? Per secoli, la cultura protestante del Nord Europa ha considerato i poveri come “peccatori”. Solo gradualmente è arrivata a riconoscere che la mancanza di lavoro ha radici strutturali e che la garanzia di un reddito minimo è un diritto fondamentale del cittadino. La cosa importante è disegnare con cura gli incentivi e investire nelle politiche del lavoro. Da noi, più che come un peccatore, chi non lavora è visto come uno scroccone, quasi sempre protetto da qualche consorteria locale. La metafora del “divano” (sul quale poltrirebbero molti sussidiati) segnala che l’idea della povertà come “scelta” è ancora molto radicata. La tradizione clientelare del welfare italiano ha sicuramente alimentato nel tempo questa concezione. La soluzione però non è quella di eliminare i sussidi, ma di disegnarli meglio. La riforma promessa da Meloni dovrà affrontare molti aspetti, come suggerito dal Rapporto 2023 della Caritas sulle politiche contro la povertà. La questione del lavoro andrà gestita con particolare attenzione. Innanzitutto, si dovranno valutare gli effetti del “giro di vite” appena varato, nonché l’effettiva attuazione dell’obbligo educativo. Non sarà un’operazione da poco. Su 364 mila beneficiari tra i 18 e i 29 anni, 11 mila possiedono unicamente la licenza elementare o addirittura nessun titolo e altri 129 mila soltanto il titolo di licenza media: cifre impressionanti, visto che parliamo di giovani. Un altro fronte delicato riguarda le capacità dei centri per l’impiego. Grazie ai fondi Pnrr c’è stato un potenziamento delle strutture e un aumento dei disoccupati presi in carico. Metà delle nuove assunzioni previste non si sono ancora perfezionate: manca personale qualificato. Teniamo presente che, anche quando teoricamente occupabili, i beneficiari del reddito di cittadinanza hanno grandi difficoltà di inserimento: su 850 mila individui, solo il 30% ha istruzione superiore alla scuola dell’obbligo, il 60% ha più di 40 anni, il 65% vive nel meridione. Senza adeguata assistenza da parte dei servizi pubblici, come pretendere che in sette mesi queste persone trovino un’occupazione? E qui arriviamo al punto più dolente. Soprattutto al Sud, mancano i posti di lavoro. È vero che c’è una quota di imprese che non riesce a trovare personale. Ma i dati di Eurostat ci dicono che il problema vero è un altro. La quantità di “occupazioni elementari” offerte dal mercato italiano è molto più bassa che negli altri Paesi sud-europei compresa la Francia. Il divario si riscontra in settori come il commercio, il turismo, le costruzioni, la sanità e l’assistenza. Data questa carenza, come si fa ad assorbire il nostro elevato surplus di disoccupati con basse qualifiche? La scarsità di lavori congrui è il fattore che rende così intrattabile la questione povertà in Italia. Ed è anche quello che smentisce - al di là di una limitata casistica - la teoria del “divano”. L’unica soluzione rapida, anche se parziale, per fronteggiare questa emergenza sarebbe quella di creare il massimo raccordo fra i progetti del Pnrr e i servizi per l’impiego (ad esempio mancano migliaia di semplici operai per completare la banda larga). Un uovo di Colombo, verrebbe da dire, che richiede tuttavia molta prontezza e capacità d’azione. Merce rara, purtroppo, nella nostra pubblica amministrazione. “I social non finiscono: se mai, peggiorano. Ci siamo tanto odiati anche prima di Twitter” di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 20 gennaio 2023 La giornalista Selvaggia Lucarelli: “Gli adulti sono dipendenti dai follower, non i ragazzi. Senza piattaforme saremo lo stesso scemi, ma con più tempo libero”. Selvaggia Lucarelli, scrittrice, giornalista e un sacco di cose, iperconnesse o (apparentemente) inconciliabili, curiosa di tutto, ha cominciato a scrivere per il teatro. Poi la radio. Poi la tv. Poi ha aperto un blog, Stanza Selvaggia, e - scrive Wikipedia - “è diventata nota”. Ed è arrivato tutto il resto. I giornali, i libri, gli odiatori, gli adoratori, le polemiche, le controversie, il rumore (mai bianco). Ha più di un milione di follower tanto su Twitter quanto su Instagram, e se facesse quello che sembriamo voler fare tutti, ora o tra un mese o un anno, e cioè disattivare tutti i nostri account sui social network, vivrebbe benissimo lo stesso ma qualcosa, forse, la farebbe peggio. Lucarelli, i social ci hanno resi migliori? Peggiori? Sempre uguali? “Per me i social sono come il successo: non è che trasformino la gente, la smascherano. Hai più libertà di azione, più potere, più strumenti per rivelare più o meno maldestramente forza e debolezze e alla fine quello che sei in potenza viene fuori. Io ero una discreta contestatrice al liceo, sui social sono una palla demolitrice, dicono”. A lei che effetto hanno fatto? “Sono peggiorata perché mi rendo conto che ho rinunciato a parte della socialità, quella delle banali uscite a cena con gli amici. Sono migliorata perché essendo i social la nostra memoria storica, vedo quante volte ho cambiato idea sulle cose e tendo ad assolvere con più facilità l’incoerenza altrui”. Dicono che siano al tramonto... “Non credo, ma sicuramente c’è una certa disillusione sul fatto che si possa fare qualcosa per renderli un posto migliore. Io mi dichiaro vinta rispetto ad alcune battaglie. Ricorda per esempio i grandi dibattiti sull’odio online? La mia netta sensazione è che si stia metabolizzando un fatto, e cioè che abbiamo accettato l’idea che una certa quantità d’odio sopravviverà a qualunque censura o tentativo di educazione digitale. Se ci fa caso, l’hate speech è un tema che non appassiona più, ci sono più articoli sui cinghiali in città che sugli insulti online”. Ma mettiamo si avveri: come se lo immagina il mondo? “C’è stato un periodo lontano in cui non sapevo cosa fare della mia vita, diciamo tra i 19 e i 22 anni, ero a Roma da sola, non ero convinta del mio corso di studi e nei tempi morti a casa facevo due cose: leggevo (e fin qui), ma soprattutto facevo puzzle. Li compravo proprio e li facevo sul letto con un cartone sotto. Forse sarebbe stato più stimolante litigare con Crosetto su Twitter. La verità è che abbiamo questa idea nostalgica dell’uso migliore che in altre epoche facevamo del tempo- mia madre da piccola mi rimproverava di perdere troppo tempo in casa a giocare con le Barbie anziché giocare fuori in giardino come faceva lei da piccola- ma la verità è che se siamo scemi, senza social rimaniamo degli scemi con più tempo a disposizione”. È poi così certo che usare i social sia solo una perdita di tempo? “No. Io imparo un sacco di cose sull’umanità, ci sono riflessioni di altri che mi spalancano porte, discussioni che ridimensionano il mio ego, scopro storie incredibili. E poi credo che il narcisismo incanalato nei social faccia meno danni che altrove. Un tempo era pieno di giornalisti, soprattuto uomini, che intervistavano facendo domande che erano lunghe il doppio delle risposte. Oggi non capita quasi più, perché pubblicano le loro foto su Instagram o la classifica dei giornalisti più influenti sui social e, appagati nell’ego, sono tornati ad ascoltare chi intervistano, una cosa commovente. Concita De Gregorio ha scritto su La Stampa: “La costruzione di una reputazione a uso del popolo del web là fuori (in verità là dentro: stanno tutti a casa loro) ha fagocitato l’identità. La popolarità e il consenso hanno preso il posto della competenza, della fatica che serve”. Che ne pensa? “Credo che il mito della fatica come valore assoluto sia nocivo. Ci sono meriti che imboccano strade veloci e fortunate e non per questo bisogna diffidarne perché non hanno masticato la polvere di redazioni. Detto ciò, è vero che è pieno di giornalisti che ormai aggiustano il tiro delle loro opinioni per accontentare il popolino, ma c’erano moltissime firme note, e parlo anche di editorialisti strapagati, che cercavano il consenso partorendo banalità anche prima dei social. E sono ancora lì. Prima erano acchiappalettori, ora acchiappalike, ma il succo è lo stesso”. Perché non siamo stati capaci di regolamentare gli scambi online? “Non si potranno mai regolamentare. Si può migliorare qualcosa ma il grosso sfugge e quello che sfugge è il classico bug della democrazia”. Continuiamo a dire che i ragazzi sono zombie attaccati al telefono. Io dico che, invece, quelli sono gli adulti. “A casa mia la situazione è la seguente: io 1 milione e 200 mila like su instagram, la mia foto migliore come foto profilo, 4367 post pubblicati. Mio figlio Leon, 18 anni, due post pubblicati e la foto profilo di un manga non meglio identificato. Veda un po’ lei”. Che ne pensa di quelli che hanno abbandonato Twitter per boicottare Musk? “Un’azione rilevante almeno quanto il mio rifiutarmi di vedere Italia 1 perché ha le Iene in palinsesto”. Il New York Times ha scritto che, senza social, Internet tornerà ad essere “un bel posto in cui stare”. Lo è stato mai? “Io sui blog mettevo le mie foto, ero più egoriferita di oggi, nei commenti c’erano gli hater che però non si chiamavano hater ma cazzoni avariati e leggevo blog altrui in cui si cazzeggiava parecchio. Solo una cosa era diversa: si potevano fare battute pessime senza venire crocifissi dalla prima Selvaggia Lucarelli che passa”. Abbiamo smarrito la differenza tra curiosità e morbosità? “Io vedo più morbosità in tv che sui social. Una cosa buona dei social è che su certi temi, per esempio la cronaca nera, ci sono sentinelle implacabili. In tv ci sono ancora il dettaglio morboso, il servizio splatter, il talk sule mutande macchiate di sangue”. Chi sono i peggiori tra i suoi hater? “I giornalisti”. Senza Twitter si vede smarrita? “No perché esistevo anche prima dei social, che detta così sembra una citazione dalle Confessioni di Agostino, mi rendo conto”. Sui migranti con la Tunisia funziona sempre uguale: più soldi in cambio di più guai di Claudio Cerasa Il Foglio La visita di Tajani e Piantedosi a Tunisi ricalca sempre lo stesso copione. E dare altri fondi non servirà. Costo totale del fallimento solo per il governo italiano: 47 milioni dal 2014 a oggi per il controllo dei confini. La visita ufficiale a Tunisi è diventata un appuntamento fisso di ogni esecutivo che si è avvicendato negli ultimi anni. Ma a fronte dei pochi risultati raggiunti, i viaggi dei rappresentanti del governo italiano nel paese nordafricano somigliano più a un rito stanco, svuotato di attendibilità. Da Minniti a Lamorgese e Di Maio, fino a Piantedosi e Tajani, che giusto ieri si sono recati dal presidente Kais Saied, il copione è sempre uguale: soldi in cambio di meno partenze dei migranti e di un aumento dei rimpatri. E se è vero che la Tunisia è una perla rara per l’Europa dei muri, perché una delle poche ad aver sottoscritto accordi bilaterali per i rimpatri, è pur vero che i risultati degli ultimi anni sono miseri. Prendiamo proprio il dato dei rimpatri. I numeri del Viminale li aveva rielaborati lo scorso ottobre Altraeconomia, che delineava uno scenario grottesco. Se nell’estate del 2022 i rimpatri con voli charter erano aumentati del 50 per cento, è pur vero che i costi erano esorbitanti. Al picco, nel solo mese di agosto dello scorso anno, a fronte di 200 tunisini rimpatriati con 10 voli sono stati necessari ben 465 agenti di scorta per un costo totale di circa 650 mila euro. Tre volte la spesa riferita al 2021, quando furono riportate in Tunisia 145 persone, non così poche rispetto al 2022. Ieri, in audizione alla Camera alle commissioni riunite di Affari costituzionali e Trasporti, il contrammiraglio della Guardia costiera Giuseppe Aulicino ha detto che i migranti provenienti dalla Tunisia sono stati nel 2022 ben 32 mila, con un amento del 60 per cento rispetto al 2021. Intanto nel paese si vive una crisi economica, alimentare e democratica che ricorda quella che diede origine alle primavere arabe. L’accentramento dei poteri nelle mani di Saied e gli attacchi alle libertà fondamentali rischiano di trasformare i tunisini, fino a ieri bollati automaticamente come migranti economici, in persone perseguitate a cui dare protezione. Costo totale del fallimento? 162 milioni di euro dall’Europa “per sostenere le riforme” e altri 47 milioni solo dal governo italiano dal 2014 a oggi per il controllo dei confini. Un affare sì, ma non per l’Italia. Belgio. I legali di Eva Kaili: “Atti di tortura nella cella di isolamento di Bruxelles” di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 gennaio 2023 “Al freddo, senza potersi lavare e con la luce accesa. Ha visto la figlioletta solo due volte”. Nelle mani dello Stato belga, Eva Kaili, l’ex vicepresidente del Parlamento europeo arrestata in flagranza per corruzione nell’ambito della maxi inchiesta “Qatargate”, sarebbe stata sottoposta a trattamenti inumani e degradanti. Anzi, secondo i sui legali si sarebbe trattato di vera e propria “tortura”. Lo hanno affermato ieri gli avvocati Michalis Dimitrakopoulos e André Rizopoulos poco prima che il tribunale di Bruxelles decidesse di confermare la custodia cautelare inflitta all’eurodeputata greca, negandole i domiciliari e il braccialetto elettronico, perché secondo la Corte sussistono i rischi di fuga e inquinamento delle prove. In carcere dal 9 dicembre scorso, l’esponente del Movimento Socialista Panellenico (che si dichiara innocente) ha potuto vedere sua figlia di 23 mesi “solo due volte”, e a questo punto non potrà vederla di nuovo “fino al mese prossimo”, riferiscono ancora i legali. Che spiegano: “In Belgio l’unica regola che permette ufficialmente di vedere la propria figlia in prigione è per i condannati, non per la carcerazione preventiva”. In queste sei settimane la bambina è stata separata dai genitori, entrambi in carcere in Belgio: una forma di ricatto sugli indagati che - va sottolineato - si riverbera come pena illegale e inaccettabile sul minore innocente. Perfino in Italia esistono le case a custodia attenuata per le madri con figli piccoli. Eva Kaili, attualmente rinchiusa nel carcere di Haren, “da mercoledì 11 gennaio a venerdì 13 gennaio è stata in isolamento su ordine del giudice istruttore Michel Claise. Per 16 ore - hanno riferito gli avvocati - è stata in una cella di polizia, non in prigione, e al freddo. Le hanno tolto il cappotto e le è stata negata una seconda coperta. Aveva il ciclo con perdite di sangue abbondanti e non si è potuta lavare. La luce della cella è sempre rimasta accesa e lei non poteva dormire. Questo è Medioevo, questa è tortura”. Al momento però, “prima di sporgere denuncia”, gli avvocati vogliono capire “cosa è successo davvero”, perché, spiegano, “la messa in isolamento è estremamente rara, la si usa nei crimini di mafia”. Ora, nel nuovo istituto di Haren, “viene trattata comunque meglio degli infelici che sono rinchiusi nella prigione di Saint-Gilles”, ha sottolineato l’avvocato Rizopoulos facendo riferimento al sovraffollamento cronico che affligge l’antico penitenziario usato durante le Seconda guerra mondiale dai nazisti per rinchiudere gli oppositori che in gran parte finivano nel campo di sterminio di Buchenwald. Ma che le carceri belghe non brillino almeno al pari di quelle italiane, non lo dicono solo i legali di Kaili: l’indagata Silvia Panzeri, figlia dell’ex europarlamentare pentito che sta collaborando con i pm del Qatardate, userà proprio l’argomento del sovraffollamento dei penitenziari belgi per fare ricorso in Cassazione contro la decisione della Corte d’Appello di Brescia di estradarla in Belgio. I suoi legali si appellano ad una condanna del 2014 della Corte europea dei diritti umani. Stessa procedura che nell’udienza fissata per il 31 gennaio potrebbe seguire anche Monica Rossana Bellini, la commercialista della famiglia Panzeri agli arresti domiciliari da mercoledì. Proprio per questo, ieri la Procura generale di Milano ha chiesto al ministero della Giustizia il rapporto sulle carceri belghe che Bruxelles ha trasmesso la scorsa settimana. Eppure, anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura nel novembre 2021 ha evidenziato una serie di problemi persistenti, se non cronici, quali il sovraffollamento, la carenza di personale e perfino un “problema ricorrente” di violenza tra detenuti. Mentre nel 2020 le nuove norme introdotte per contrastare la pandemia da Covid, che prevedevano un isolamento totale di 14 giorni per i detenuti, sono state ritenute dall’Osservatorio internazionale delle prigioni (Oip) contrarie al diritto ad un processo equo, perché precludevano perfino gli incontri con gli avvocati. Russia. Aleksandra Skochilenko, l’artista che metteva i bigliettini contro la guerra nei supermercati è in carcere da nove mesi Jacopo Storni Corriere della Sera, 20 gennaio 2023 L’appello al Corriere della fidanzata Sonia: “Ha problemi di salute, aiutateci. Deve essere scarcerata”. Il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury: “Rischia fino a dieci anni di carcere”. Sullo scaffale del caffè, proprio accanto al cartellino del prezzo, aveva appeso un bigliettino con su scritto: “L’esercito russo ha bombardato un teatro a Mariupol dove avevano trovato rifugio 400 persone”. E poi un altro foglietto accanto al prezzo delle noccioline: “Le truppe russe hanno impedito a 14 camion carichi di aiuti umanitari di entrare nella regione di Kherson, i civili hanno bisogno di acqua e cibo”. In alcuni casi veniva sfruttata la cifra sugli scaffali per denunciare con altri biglietti quel che stava accadendo in Ucraina, come il numero delle vittime tra i bambini o i cadaveri ritrovati a Bucha. Una protesta pacifica dentro un supermercato di San Pietroburgo per la quale Aleksandra Skochilenko, artista russa 31enne, è stata arrestata lo scorso aprile. Ancora oggi, a distanza di nove mesi, Aleksandra è in carcere: “Ha subìto abusi fisici e sessuali, è stata molestata, sta male, soffre di problemi fisici” racconta al Corriere la sua compagna Sonia, che preferisce non rivelare il suo cognome. A complicare la detenzione, i problemi di salute di Aleksandra: “Soffre di gravi soffi al cuore - ha aggiunto la compagna - Inoltre dopo l’arresto le hanno diagnosticato una grave depressione e stress post traumatico. E’ affetta anche da un’altra malattia: la celiachia. Questa condizione richiede una dieta specifica senza glutine, altrimenti corre il rischio di sviluppare insufficienze organiche e malattie oncologiche”. Skochilenko, spesso chiamata col soprannome di Sasha e da anni impegnata nel mondo dell’arte, della musica e del disegno, è stata fermata in violazione delle recenti norme del Cremlino “contro le fake news” che obbligano chiunque parli della guerra in Ucraina a definirla una “operazione militare speciale”. Per aver infranto tale legge, “screditando le forze armate della Russia”, l’artista-attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa di almeno 33 mila euro. Da più parti si moltiplicano gli appelli per la sua liberazione, che in qualche modo stanno alleggerendo le drammatiche condizioni di detenzione visto che adesso può accedere ad alcune delle cure di cui ha bisogno. Anche Amnesty International chiede la sua immediata scarcerazione: “Se condannata, Aleksandra rischia fino a 10 anni di carcere - ha spiegato il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury - Chiediamo alle autorità russe l’immediata scarcerazione, tutte le accuse devono essere ritirate. Le sue condizioni di salute destano molta preoccupazione”. Skochilenko, già prima dell’arresto, soffriva di episodi depressivi e disturbo bipolare. Negli ultimi anni ha lottato contro i pregiudizi sui disturbi mentali tentando di sferzare i tabù sul tema. Nel suo “Libro della depressione”, ha spiegato e mostrato con un linguaggio semplice da dove viene la malattia, che colpisce milioni di russi, e come viene curata. È stata una delle prime opere in lingua russa ad attirare l’attenzione su questo tema. Un problema, quello della depressione, non facile da affrontare dentro un istituto penitenziario, vista anche le difficoltà a reperire farmaci e parlare con lo psicologo. Secondo quanto riportato da alcuni media russi, compito dello psicologo del carcere, anziché curare Aleksandra, sarebbe in realtà quello di scoprire la reale motivazione che l’ha spinta ad attaccare cartellini al supermercato. Sasha e Sonia avrebbero voluto sposarsi: “Ma nel nostro Paese il matrimonio tra due donne non è permesso”. Sonia non parla mai con Alexandra: “Io e lei vivevamo insieme prima del suo arresto e per questo motivo mi hanno nominata testimone in questo caso. Ciò è stato un ulteriore pretesto per mettere sotto pressione Sasha. A causa del mio status di testimone, non posso fissare un appuntamento con lei, non ci possiamo telefonare. Posso vederla solo in tribunale per qualche secondo, solo quando sono fuori nell’atrio, perché essendo testimone non posso nemmeno assistere ai processi, non posso nemmeno vedere come viene processata una persona a me così cara”. E infine: “L’intera faccenda è legata a chi fa politica, il chiaro intento è quello di spaventare la gente”. Aleksandra non si considera un’attivista nel vero senso del termine. “Tutte le persone che mi conoscono personalmente - aveva scritto dal carcere - capiscono che tutto il mio tempo libero è occupato dalla musica, e ho gettato questi miserabili quattro cartellini del prezzo nel negozio in fretta tra lavoro, prove e sessioni musicali”. In una lettera dal carcere aveva inoltre scritto: “Se mai dovessero liberarmi, cosa che mi sembra piuttosto impossibile, vorrei abbracciare la mia ragazza, accarezzare i miei gatti e, ovviamente, suonare. La musica è la mia vita, ma gli strumenti musicali sono vietati in questo centro”. Il Parlamento Ue condanna il Marocco per i giornalisti detenuti di Vittorio Mezzi Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2023 Il Parlamento europeo “esorta le autorità marocchine a rispettare la libertà dei media e a garantire processi equi ai giornalisti imprigionati”. Con una risoluzione approvata a larga maggioranza (356 voti a favore, 32 contrari e 42 astenuti) durante la seduta del 19 gennaio, l’Eurocamera condanna, per la prima volta dal 1994, la condotta assunta dalle autorità di Rabat nei confronti di giornalisti e attivisti politici in aperta violazione dei diritti fondamentali e dell’accordo di associazione Ue-Marocco. Passa anche l’emendamento, presentato dal gruppo delle sinistre, che esprime “profonda preoccupazione” per le accuse secondo cui le autorità di Rabat avrebbero corrotto alcuni eurodeputati e chiede per i rappresentanti del Marocco “l’applicazione delle stesse misure applicate ai rappresentanti del Qatar”: tra queste lo stop all’accesso dei delegati dei due Paesi coinvolti nel caso. Con la risoluzione gli eurodeputati chiedono “l’immediato rilascio provvisorio per Omar Radi”, detenuto dal luglio 2020 e condannato in appello a sei anni di reclusione con l’accusa di spionaggio e stupro, e di “Souleimen Raissouni e Taoufik Bouachrine”, rispettivamente direttore e caporedattore dell’ormai defunto quotidiano indipendente in lingua araba Akhbar al-Yaoum, i quali, secondo Reporters sans frontières (Rsf) sono “altre due vittime della strumentalizzazione di scandali sessuali” in Marocco. Nella risoluzione si chiede inoltre la scarcerazione del leader del Hirak del Rif, “Nasser Zefzafi, finalista del premio Sacharov per la libertà di pensiero 2018”, condannato a 20 anni di prigione. Una risoluzione definita “storica” da Rsf, che accoglie con entusiasmo “la fine del silenzio del Parlamento europeo sul Marocco” e che, per bocca del suo segretario generale Christophe Deloire, spiega che “sono ormai diversi anni che avvertiamo gli eurodeputati in merito alle intimidazioni e alle vessazioni giudiziarie dei giornalisti marocchini”, ricevendo solo risposte negative. La risoluzione però è stata approvata non senza pressioni da parte del governo marocchino che ha criticato l’organo legislativo europeo e ha definito la misura legislativa ignorante della “situazione della libertà di stampa in Marocco”. Il voto - Sul voto della risoluzione spicca il No di condanna al Marocco di una nutrita pattuglia di oltre dieci socialisti spagnoli. Si astiene l’eurodeputato di Forza Italia, Massimiliano Salini. Più divisivo, nei gruppi del Pe, il voto sull’emendamento della sinistra che chiede l’estensione ai rappresentati del Marocco delle misure già adottate dall’Eurocamera sul Qatar. Il testo è passato senza i voti di Fdi-Ecr, i cui eurodeputati, tra i quali gli italiani Carlo Fidanza, Nicola Procaccini, Sergio Berlato, Denis Nesci e Raffaele Stancanelli, hanno optato per l’astensione. “La nostra astensione su questo emendamento non è ovviamente dovuta a qualsivoglia indulgenza”, si è giustificata in una nota la delegazione Fdi, “verso i gravissimi fatti che stanno emergendo con l’inchiesta Qatargate, sui quali abbiamo tenuto fin dal primo giorno una posizione intransigente”. Cosa prevede la risoluzione - Il testo approvato chiede al governo marocchino il rilascio di “tutti i giornalisti in prigione, la fine delle vessazioni nei confronti di tutti i giornalisti del Paese, nonché dei loro avvocati e delle loro famiglie”. Inoltre, Bruxelles condanna “con forza il fatto che le accuse di aggressione sessuale siano utilizzate in modo improprio per dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro attività”. Già il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie aveva concluso che le detenzioni dei giornalisti di Akhbar al-Yaoum erano arbitrarie, spiegando che “Bouachrine e Raissouni erano stati presi di mira per aver esercitato la loro professione e il loro diritto alla libertà di espressione”. Il testo va poi oltre ed esorta Rabat a porre fine alla sorveglianza digitale dei giornalisti e attivisti, “anche attraverso il software spia Pegasus del gruppo NSO”. Si chiede poi ai paesi membri dell’Ue di “interrompere l’esportazione di tecnologia di sorveglianza in Marocco”. Ma non finisce qui. L’Europarlamento “esprime profonda preoccupazione per le accuse secondo cui le autorità marocchine avrebbero corrotto alcuni deputati al Parlamento europeo”, chiedendo “l’applicazione delle stesse misure applicate ai rappresentanti del Qatar” e ribadendo il “suo impegno a indagare e ad affrontare in modo approfondito i casi di corruzione nei quali sono coinvolti paesi terzi che tentano di acquisire influenza in seno al Parlamento europeo”. Pressioni politiche di Rabat - Soprattutto quest’ultima parte ha allarmato il governo marocchino che ha cercato, nei giorni precedenti la discussione e il voto della risoluzione, di influenzare le decisioni dei deputati europei. In data 16 gennaio una delegazione di politici di Rabat ha chiesto infatti incontri urgenti a Bruxelles con europarlamentari esponenti di tutti i gruppi politici. Nello stesso giorno il presidente del gruppo socialista nella Camera dei deputati del Marocco, Abderrahim Chahid, scriveva alla presidente del gruppo S&d, Iratxe Garcia Perez, per esprimerle il suo rammarico verso la risoluzione e spiegando che “mentre il Marocco sta mobilitando tutti i mezzi necessari per rafforzare il partenariato” Marocco-Ue, “stiamo assistendo all’implacabilità di alcuni parlamentari” intenzionati a “danneggiare le nostre relazioni bilaterali”. Chahid spiega inoltre nella sua lettera che le proposte di risoluzione presentate, sia quella “verbale di Left, che quella scritta di Renew Europe dimostrano una reale ignoranza della situazione della libertà di stampa in Marocco”. “Il nostro obiettivo è riunire i punti di vista e rimuovere i malintesi, soprattutto in questi tempi di grande incertezza e crisi”, conclude il parlamentare marocchino. Lahcen Haddad, co-presidente della commissione parlamentare mista Ue-Marocco accusa l’Ue di “doppi standard” e critica il fatto che la risoluzione “si riferisce a un caso ancora in corso dinanzi a un potere giudiziario indipendente di un paese partner e interferisce quindi in un processo giudiziario in corso”.