Carceri, nel 2022 record di suicidi in cella con 84 casi di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 1 gennaio 2023 Un suicidio ogni cinque giorni. E poi poco personale e una maggiore necessità di interventi per rafforzare la sanità. Per le carceri italiane il 2022 è quello che le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti, viene definito “l’anno nero”. Nel 2022 sono stati 84 i detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre. A stilare il rapporto sono i volontari dell’associazione Antigone, sodalizio che da anni si occupa di diritti e delle garanzie nel sistema penale.  Peggio del 2009 - A sentire i volontari che seguono quotidianamente le vicende che riguardano il mondo carcerario “quest’anno, ci si è tolto la vita circa 20 volte in più di quanto non avviene nel mondo libero”. Non solo, “un detenuto ogni 670 presenti si è ucciso”. Per trovare un dato negativo alto è necessario fare un passo indietro di 13 anni. “Il precedente primato negativo era del 2009, quando in totale furono 72. Ma all’epoca i detenuti presenti erano oltre 61.000, 5.000 in più di oggi”.  Segnale preoccupante da non sottovalutare - Ricordando quegli anni e facendo un paragone con oggi Patrizio Gonnella, presidente di Antigone sottolinea che “all’epoca eravamo alla vigilia del periodo che portò poi l’Italia alla condanna della Corte Europea dei Diritti Umani per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea, per il trattamento inumano e degradante. Alcune iniziative parlamentari furono prese. Non vedere negli 84 suicidi di quest’anno un segnale altrettanto preoccupante delle condizioni in cui versano le carceri del paese è ingiustificabile”.  Carceri sovraffollate - Un altro elemento che i volontari evidenziano riguarda il sovraffollamento delle strutture penitenziarie che “dopo la deflazione delle presenze a seguito della pandemia, sta tornando a livelli preoccupanti”. “I detenuti sono quasi 57.000. I posti regolamentari sono 51.000, anche se sappiamo che di quelli conteggiati circa 4.000 sono indisponibili - prosegue Gonnella. Possiamo dire quindi, che ad oggi ci sono nelle carceri italiane circa 9.000 persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Questo significa aggiungere letti in celle non pensate per ospitare quel numero di detenuti”.  Spazi troppo piccoli - Poi ci sono le valutazioni effettuate dall’Osservatorio di Antigone dopo la visita in 99 carceri nel corso del 2022. “Nel 39% degli istituti sono state trovate celle dove il parametro minimo dei 3 metri quadrati di superficie calpestabile a testa non era rispettato. Entrare anche solo pochi minuti in una cella dove non c’è neanche questo spazio minimo è un’esperienza claustrofobica - sottolinea Gonnella. Specie laddove le celle vengono condivise da 5-6 persone”. In questa valutazione rientrano anche le strutture e i servizi. “Nel 44% delle carceri Antigone ha rilevato celle senza acqua calda, nel 56% celle senza doccia (che sarebbero dovute non esistere più dal 2005), nel 10% c’erano celle in cui non funzionava il riscaldamento, e in ben 6 istituti (9%) c’era celle in cui il wc non era in un ambiente separato dal resto della cella da una porta”.  Maggiore attenzione alla salute - Un altro aspetto riguarda poi lo stato di salute dei detenuti, soprattutto dopo la pandemia e l’impatto drammatico “sulla salute mentale di tutti”. “Chi entra in carcere, oggi, è ancora più fragile di quanto non avvenisse in passato”. L’Osservatorio evidenzia poi come “proprio in carcere, la tutela della salute mentale non ha subìto interventi incrementali. All’8,7% dei detenuti era stata diagnosticata una patologia psichiatrica grave, il 18,6% assumeva regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e ben il 42,4% sedativi o ipnotici ed il 18,9% erano tossicodipendenti in trattamento. A fronte di questo c’erano 8,3 ore la settimana di copertura psichiatrica ogni 100 detenuti e 17,2 ore la settimana di servizio psicologico”.  Manca il personale - C’è un altro elemento che viene evidenziato dall’Osservatorio, e riguarda il personale in cui si passa da “1,8 detenuti per ogni agente” a “un operatore per 93 detenuti”.  Un sistema da riformare - Per Patrizio Gonnella “il sistema penitenziario è purtroppo immobile”. “Il 2022 non è stato l’anno delle riforme, della modernizzazione, della umanizzazione come si sperava - conclude. È stato invece l’anno dei suicidi. 84 in 12 mesi. Una tragica sequenza di morti che deve farci riflettere. Speriamo di sentire nel 2023 da chi ha responsabilità politica parole miti evocative di umanità”. Il 2022 è stato l’anno dei suicidi in carcere di Stefano Barricelli agi.it, 1 gennaio 2023 Negli ultimi 12 mesi si sono tolti la vita 84 detenuti, uno ogni 5 giorni. Il record negativo precedente era del 2009, con 72 morti. Il presidente di Antigone: “Il sovraffollamento sta tornando a livelli preoccupanti”. In dodici mesi in Italia “si sono tolti la vita 84 detenuti. Uno ogni 5 giorni. Il 2022 per le carceri italiane verrà ricordato come l’anno dei suicidi”. Lo denuncia Antigone, ricordando che nei nostri istituti di pena “quest’anno, ci si è tolto la vita circa 20 volte in più di quanto non avviene nel mondo libero. Un detenuto ogni 670 presenti si è ucciso. Il precedente primato negativo era del 2009, quando in totale furono 72. Ma all’epoca i detenuti presenti erano oltre 61 mila, 5 mila in più di oggi”. “All’epoca - ricorda Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione - eravamo alla vigilia del periodo che portò poi l’Italia alla condanna della Corte Europea dei Diritti Umani per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea, per il trattamento inumano e degradante. Alcune iniziative parlamentari furono prese. Non vedere negli 84 suicidi di quest’anno un segnale altrettanto preoccupante delle condizioni in cui versano le carceri del paese è ingiustificabile”. Il sovraffollamento, dopo la deflazione delle presenze a seguito della pandemia, “sta tornando a livelli preoccupanti”. I detenuti sono quasi 57 mila. I posti sono 51 mila, anche se di quelli conteggiati circa 4 mila sono indisponibili: ad oggi, dunque, “nelle carceri italiane ci sono circa 9 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare”. L’Osservatorio di Antigone nel 2022 ha visitato 99 istituti: nel 39% sono state trovate celle dove il parametro minimo dei 3 mq di superficie calpestabile a testa non era rispettato. “Entrare anche solo pochi minuti in una cella dove non c’è neanche questo spazio minimo è un’esperienza claustrofobica - sottolinea Gonnella - Specie laddove le celle vengono condivise da 5-6 persone. Viverci quotidianamente rende la detenzione ulteriormente gravosa”. Per il presidente di Antigone, il carcere ha “necessità di interventi di riforma profondi. Occorre innanzitutto incrementare le misure alternative alla detenzione. Ci sono migliaia di persone che potrebbero scontare la loro pena fuori dagli istituti di pena e persone che, per il reato commesso e la loro condizione personale - tossicodipendenza, disturbi psichiatrici - andrebbero presi in carico dalle strutture del territorio, evitando di trasformare le carceri in un luogo dove si rinchiudono le persone che non si è in grado di gestire fuori. Questo aiuterebbe anche il lavoro del personale, che andrebbe incrementato in tutte le funzioni e gratificato dal punto di vista sociale ed economico per il lavoro complesso e difficile che si trova a svolgere. Andrebbe poi modernizzata la vita interna, garantendo maggiori collegamenti, anche elettronici, con il mondo esterno. Quello all’affettività è un diritto che deve diventare centrale nel sistema penitenziario italiano fermo, da questo punto di vista, a disposizioni di oltre 40 anni fa”.  L’annus horribilis delle carceri italiane alla ricerca del senso politico di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 1 gennaio 2023 Il compito della politica dovrebbe essere quello di “liberare il carcere” da condannati o da persone in attesa di giudizio, che di carcere non hanno bisogno, mentre per altri che ne hanno bisogno, mancano i posti letto; il carcere non può essere la casa per e dei poveri, occorre diminuirne e differenziarne l’utenza, cosa che forse potrebbero evitare i parecchi suicidi dei detenuti. Non che gli anni precedenti siano stati “mirabili”, ma il 2022 si chiude con tutta una serie di risultati disastrosi per la politica detentiva, anche a fronte di una continua informazione su ciò che avviene in carcere, tra sovraffollamento, suicidi di detenuti ed agenti, e fughe rocambolesche. Ma si sa che nella mentalità generale, chi viene condannato ad una pena di reclusione è chiaramente considerato un “individuo cattivo” da punire nel peggiore dei modi, in barba al dettame costituzionale che ci chiama a ricordarci che dietro un carcerato c’è una persona che va rispettata in quanto tale. All’orizzonte del 2023, con una Legge di Bilancio in discussione, si prevede che il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per il conseguimento di risparmi di spesa dovrà ridurre i costi di circa 36 milioni nel giro di tre anni. Questo taglio avverrà attraverso la riorganizzazione e l’efficientamento dei servizi degli istituti penitenziari, in particolare con la ripianificazione dei posti di servizio e la razionalizzazione del personale. Tuttavia si tratta di tagli di bassissimo valore rispetto alla spesa complessiva del comparto Giustizia, anche se i tagli più preoccupanti riguardano il carcere con la razionalizzazione del personale di polizia penitenziaria. Mi auguro che questa privazione di risorse possa diventare stimolo per il nuovo e il buono, anche se a dire il vero, non si riesce a capire come si ricavi l’ammontare di queste cifre, perché secondo i dati ministeriali, la pianta organica della polizia penitenziaria dovrebbe essere ora composta da 41.595 unità, che nel 2021 erano 36.653. Ma se uno dei primi atti del Guardasigilli è stato quello di esprimere il disappunto su come si attua la detenzione, lontana dall’ essere portatrice di valori più alti, quali l’umanità e la rieducazione, c’è da augurarsi che il senso politico della bozza di Legge, con taglio alle risorse, faccia pensare che esiste un progetto di come si vuole punire, alternativo al carcere. Parlare di carcere inoltre, vuol dire parlare anche di chi ci lavora e della Polizia Penitenziaria: un ampliamento dell’organico di Polizia Penitenziaria non può considerare solo un maggior numero di personale, specie se assegnato al servizio custodiale, ma che questo comporti un diminuito impegno lavorativo e magari di qualità, un minore stress e meno suicidi in divisa. L’elemento saliente di questa nuova immissione di agenti di polizia penitenziaria, dovrebbe seguire una attenta politica strategica che valorizzi gli agenti di custodia nei reparti carcerari, che sappiamo sono invece considerati come posti di lavoro da evitare, perché considerati i meno gratificanti ed i più pericolosi. L’errore strategico di questi ultimi 20 anni è stata la mancanza di una politica detentiva, che ha portato, organizzativamente, a ramificare le unità operative di polizia penitenziaria in una enormità di attività collaterali, distogliendo le forze dal mandato istituzionale principale della custodia, per convogliarle in una molteplicità di rivoli, da molti voluti per rendere visibile il Corpo! Il compito della politica dovrebbe essere quello di “liberare il carcere” da condannati o da persone in attesa di giudizio, che di carcere non hanno bisogno, mentre per altri che ne hanno bisogno, mancano i posti letto; il carcere non può essere la casa per e dei poveri, occorre diminuirne e differenziarne l’utenza, cosa che forse potrebbero evitare i parecchi suicidi dei detenuti. Si tratta di avere il coraggio di investire (politicamente ed economicamente) nella costituzione di un Terzo Polo Custodialistico (struttura intermedia tra carcere e libertà in misura alternativa) per non tenere in carcere persone povere in quanto prive di soluzioni esterne, e per attuare appieno forme di Giustizia Riparativa, attuabili con la collaborazione tra Amministrazione Penitenziaria, Magistratura di Sorveglianza, Ente Locale, Privato Sociale. Per il 2023, quello che si spera, è che il taglio previsto alle risorse per il carcere, diventi motivo per dare il via al nuovo pensiero politico sulla detenzione, che rassicuri sì la società civile ma dia, civilmente, una offerta di servizi al detenuto ed ai suoi familiari. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza Salvare la vita ad Alfredo Cospito, in nome della democrazia di Graziella Di Mambro articolo21.org, 1 gennaio 2023 Le condizioni di salute dell’anarchico Alfredo Cospito stanno peggiorando e la sua storia sta diventando, ogni giorno di più, lo specchio di cosa significhi il carcere duro in una democrazia. Il precipitare della situazione è stato denunciato in queste ultime ore dal legale di Cospito, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, che ha sottolineato come i medici siano allarmati dal peggioramento dello stato fisico dell’uomo, tanto che gli hanno somministrato degli integratori, poiché ha perso già 35 chili dall’inizio dello sciopero della fame, attuato in forma di protesta contro il regime di carcere duro. Alfredo Cospito è detenuto per aver fatto esplodere nel 2006 due ordigni a bassa intensità in una scuola di allievi carabinieri in provincia di Cuneo; l’esplosione non ha causato morti, feriti o danni gravi. A luglio scorso il reato contestato è divenuto quello di “strage ai danni dello Stato” mentre in precedenza era stata contestata la finalità terroristica. La strage in danno dello Stato è il reato più grave previsto dall’ordinamento vigente in Italia e può essere applicata la pena dell’ergastolo. Cospito, 55 anni di Pescara, si trova in carcere in regime duro, cosiddetto 41 bis; dal 20 ottobre ha smesso di mangiare con gravi conseguenze fisiche. Prima del 41 bis era nel settore alta sicurezza. La sua storia ha già portato a numerose prese di posizione, tra le altre quella di Patrizio Gonnella dell’Associazione Antigone, che ha scritto: “I regimi differenziati - come ad esempio il 41-bis - incidono significativamente sulla vita e i diritti delle persone recluse. Riducono notevolmente le occasioni di socializzazione, le possibilità di partecipazione alle attività interne all’istituto penitenziario nonché le relazioni con il mondo esterno. Sostanzialmente intervengono eliminando ogni opportunità di aderire a progetti di reintegrazione sociale”. Nelle ultime ore e in attesa dell’esito del ricorso in Cassazione si sono moltiplicate le iniziative di solidarietà, da Nessuno tocchi Caino a Radio Radicale, da Zerocalcare agli attivisti in varie città italiane. Riforma Cartabia: senza querela niente indagini su furti, lesioni, molestie, truffe, sequestri di persona non aggravati di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 1 gennaio 2023 L’obiettivo è ridurre il numero di procedimenti e migliorare l’efficienza della giustizia, come richiesto dal Pnrr. Le altre novità su pm e gip, giustizia riparativa e carcere Riforma Cartabia, dal 30 dicembre senza querela niente indagini su furti, lesioni, molestie, truffe, sequestri di persona non aggravati. Con l’anno nuovo le indagini penali scatteranno solo se i pm riceveranno querele di parte. In altre parole, per reati che fino a ieri provocavano d’ufficio l’apertura di un fascicolo da parte delle procure, ora dovrà essere depositata una specifica denuncia. Lo prevede la riforma Cartabia nell’ambito del processo e del sistema sanzionatorio penale, il cui obiettivo primario è quello di ridurre tempi e dinamiche dei procedimenti così da ottenere maggior efficientamento nella giustizia (spronando la digitalizzazione), condizione richiesta dalla Ue per rientrare nel Pnrr. È uno dei tronconi della riforma (a lungo auspicata, mai concretizzata negli anni): a fine ottobre del 2021 era intanto già entrato in vigore quello sui tempi più brevi per celebrare i processi in appello e in Cassazione, e sulla prescrizione (con il suo blocco in primo grado), che a sua volta interveniva su quanto stabilito dalla riforma Bonafede (cosiddetta “Spazzacorrotti”) in parte bocciata dalla Corte costituzionale. Niente iniziative delle vittime, niente procedimenti - Con questo secondo filone relativo alle querele, in base alle aspettative del ministero della Giustizia ora guidato dall’ex pm Carlo Nordio di FdI, le ricadute potrebbero essere rilevanti. Sfoltire la quantità di procedimenti in atto spiazzerà però molti cittadini che si ritengono vittime di soprusi. Infatti, rientrano nella fattispecie dei reati non più perseguibili d’ufficio: furto, furto aggravato, truffa, frode informatica, appropriazione indebita, violazione di domicilio, lesioni lievi, lesioni personali colpose stradali gravi o gravissime, lesioni personali dolose, molestie, violenza privata, danneggiamento, sequestro di persona non aggravato. Senza iniziative delle vittime, niente procedimenti. Per i reati considerati più “tenui” (minimo due anni di pena) si potrà comunque procedere all’archiviazione (esclusa con violenza sulle donne, traffico di stupefacenti o reati contro la Pubblica amministrazione). Punti chiave - Le nuove regole valgono anche per i reati commessi prima dell’entrata in vigore della riforma voluta dal governo Draghi. Quest’ultima doveva aver luogo il 31 ottobre ma poi il governo Meloni l’ha posticipata al 30 dicembre, con molte polemiche per la fase transitoria non prevista. La riforma Cartabia, oltre all’allargamento della lista dei reati perseguibili da ora in poi soltanto su querela di parte, include inoltre anche altri passaggi chiave. Uno è quello di far evitare il carcere sotto i quattro anni di carcere, potendo scegliere poi tra pena pecuniaria per condanne fino a un anno, lavoro di pubblica utilità per condanne fino a tre anni e detenzione domiciliare e semilibertà fino a quattro anni. A decidere sarà il “giudice di cognizione”. Altro punto, la riparazione del danno. È infatti previsto dalla riforma che imputato e vittima, in apposite strutture pubbliche e con l’ausilio di mediatori, possano su base volontaria prendere le distanze da quanto accaduto, conciliandosi, con effetti sulle pene inflitte. La riforma Cartabia ha stabilito poi il diritto all’oblio (essere dimenticati in caso di assoluzione) e un maggior potere di controllo dei gip sui pm (e sulla loro presunta inerzia), in particolare su tempi di indagine e modalità di archiviazione (con cosiddette udienze filtro che decidono subito il “non luogo a procedere”). Le archiviazioni, qualora le prove non consentano “una ragionevole previsione di condanna”, andranno chieste anticipando i tempi di attesa. Le alternative sono il patteggiamento, il giudizio abbreviato e la sospensione con messa alla prova. Riforma Cartabia, i pm: “Corsa contro il tempo per raccogliere le denunce” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 1 gennaio 2023 A Milano, epicentro dello scontro fra gang, sono stati scarcerati Simba La Rue e altri tre trapper arrestati per il sequestro del rivale Baby Touché. Un regolamento di conti culminato con il pestaggio e il rapimento su un’auto per due ore, lasso di tempo in cui la vittima è stata ripresa con i telefonini con il volto tumefatto, derisa ed esposta al ludibrio dei social. Quei fatti, con l’entrata in vigore della riforma Cartabia, non sono più perseguibili d’ufficio. Occorre una querela di parte, che la vittima, già risarcita, e comunque parte del medesimo contesto in cui nasce la faida, ha già annunciato di non voler fare. Dunque, tutti liberi. Il caso di Milano, raccontato ieri dal Corriere della Sera, è finora il più eclatante. Ma nei tribunali di mezza Italia, i magistrati stanno correndo ai ripari, per evitare che la riforma si trasformi in una tagliola che potrebbe penalizzare le vittime e mandare in fumo migliaia di fascicoli. A Genova la Procura ha giocato d’anticipo e isolato oltre 150 casi, che rischiano il decadimento immediato: “Abbiamo cominciato un mese fa a fare una ricognizione - spiega il procuratore Nicola Piacente - abbiamo diramato nuove direttive e preparato corsi di aggiornamento per il personale” . I pm hanno dato mandato alla polizia giudiziaria di cercare le vittime dei reati e di avvisarle della necessità di presentare una querela il prima possibile. Ma spesso è tutt’altro che facile. Non solo perché il lavoro, specie nelle grandi città, si preannuncia immane. Un paradosso, se si pensa che l’intento del governo Draghi era di deflazionare i procedimenti. “Il vero problema - spiega un inquirente - è che non è sempre scontato ritrovare la vittima di un fatto, pensiamo a un furto, accaduto magari un anno fa”. L’elenco di illeciti destinati a finire nella tagliola della riforma Cartabia è lungo. Ci sono una serie di reati contro la persona o contro il patrimonio con una soglia di punibilità sotto i due anni di carcere. L’elenco comprende: le lesioni personali colpose stradale gravi e gravissime, e le lesioni personali dolose; la violenza privata; la violazione di domicilio; la truffa; il furto semplice e (con alcune eccezioni) quello aggravato; il sequestro di persona. Tra tutti i reati, quest’ultimo è quello che fa più discutere. “Non è un caso se esiste un fenomeno nei manuali di psicologia che si chiama ‘sindrome di Stoccolma’ - fa notare una fonte della Procura di Torino. Non sempre le vittime sono in grado di denunciare i loro carnefici. E noi dovremmo tutelarle”. Fonti inquirenti da Napoli sottolineano, oltre tutto, l’inutilità dell’inserimento di un reato così raro rispetto allo scopo dichiarato della norma, e cioè velocizzare la giustizia (cancellando il perseguimento dei reati): “Potrebbe avere un senso per reati comuni come il furto aggravato. Ma i sequestri si contano sulle punte delle dita: che logica ha? Senza contare che di solito è un reato che si verifica insieme ad altri più gravi, come la rapina o altri fatti violenti, punibili d’ufficio”. La riforma ha dato molto lavoro anche negli uffici più piccoli, dove i problemi non sono minori. “Sul sequestro di persona perseguibile a querela sono perplesso anche io - premette il procuratore di Tivoli, Francesco Menditto - Ma noi non possiamo che applicare quanto ha deciso il legislatore. Nel nostro ufficio ci siamo organizzati per tempo, abbiamo chiesto alle vittime di presentare querela: anche nell’unico caso che avevamo di sequestro di persona. Mentre parliamo il Parlamento sta approvando la norma transitoria che ci darà altri 20 giorni per raccogliere tutte le querele mancanti. Un paradosso che una norma così rilevante venga approvata in extremis”. Imputato a vita, la fine del principio barbaro di Bonafede e dei 5 Stelle di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 1 gennaio 2023 La riforma populista della prescrizione è stata senza dubbio una delle pagine più indecorose della legislazione nostrana degli ultimi decenni. Per più ragioni, naturalmente, ma una su tutte: la grossolana mistificazione politico-mediatica che l’ha accompagnata dal primo giorno. Da molti anni ormai in questo Paese si fanno sempre più eccezionali le prescrizioni di reati anche solo di media gravità. Da un lato, le varie riforme che si sono susseguite hanno innalzato a livelli iperbolici (che andrebbero essi sì ripensati!) il numero di anni entro i quali i reati si prescrivono, con la eccezione di un pugno di reati bagatellari (soprattutto contravvenzionali) e dei reati tributari, i quali ultimi obiettivamente emergono solo con l’accertamento amministrativo, che brucia già metà del tempo di prescrizione (e anche su questo si può facilmente intervenire). Dall’altro, da almeno un paio di decenni, si è stabilito che qualsiasi ragione di legittimo impedimento a partecipare all’udienza dell’imputato o del suo difensore determinano sì il rinvio del processo, ma con contestuale sospensione del corso della prescrizione, dunque senza nessun possibile esito dilatorio. Infine, statistiche alla mano, sei prescrizioni su dieci intervengono entro la celebrazione della udienza preliminare, dunque senza alcun possibile, materiale contributo dilatorio (che già, come ho ricordato, non è possibile) del difensore, ma solo quale conseguenza delle scelte di priorità adottate dalle Procure nell’esercizio dell’azione penale, oltre che delle obiettive carenze strutturali di magistrati e di personale amministrativo. E invece quella sciagurata riforma è stata venduta alla pubblica opinione come la fine dei privilegi degli imputati ricchi che, pagando fior di avvocati, facevano prescrivere il reato guadagnandosi l’impunità, evocando -non a caso- noti processi relativi a reati commessi venti se non trenta anni prima, sotto l’egida di un regime processuale morto e seppellito da tempo immemore. Il risultato di questa bravata è stato l’affermazione del principio barbaro dell’imputato a vita, prigioniero del proprio processo fino a quando lo Stato si compiacerà di concluderlo. Merito del Governo Draghi e della Ministra Cartabia, pur essendo quel governo funestato dalla maggioranza relativa grillina, è stato quello di puntare con determinazione al superamento di quella barbarie. Ma sotto la minaccia grillina della crisi di governo, si è dovuto salvare la faccia all’ex Ministro Bonafede, confermando il principio della interruzione del corso della prescrizione con la sentenza di primo grado. Il prezzo è stato pagato, ricorrendo all’idea del doppio orologio: fermo quel principio, introduciamo la improcedibilità dell’azione (insomma, la decadenza del processo) ove il successivo processo di appello non si celebri in due o tre anni (con il consueto catalogo di eccezioni per i reati di mafia eccetera, cioè i soli che certamente si celebrano entro due anni, perché altrimenti verrebbero scarcerati gli imputati: ma lasciamo perdere gli aspetti comici della vicenda). Insomma, un pastrocchio gravido di complicazioni in ordine alle quali non ho il cuore di annoiarvi. L’epoca dei grillini al governo è per fortuna alle spalle, ed è dunque dovere di ogni Governo che ambisca ad essere almeno rispettato dai cittadini consapevoli, porre fine a questa carnevalata. Noi penalisti italiani abbiamo combattuto con tutte le nostre forze sin dal primo giorno contro la riforma Bonafede, facendo finalmente entrare nelle case degli italiani anche una narrazione diversa da quella dolosamente mistificatoria che fino ad allora aveva trionfato. E già nel corso della ultima campagna elettorale abbiamo indicato il ritorno alla prescrizione ante-Bonafede (magari con qualche adeguato, indispensabile miglioramento, come d’altronde previsto dalla commissione ministeriale Lattanzi) come l’obiettivo -tra i tanti di una vera riforma liberale della giustizia penale- più immediatamente realizzabile. Ne abbiamo parlato al Ministro Nordio lo scorso 14 dicembre, con il risultato della imminente apertura di un tavolo con avvocatura e magistratura che si dedicherà a questo, oltre che alle necessarie modifiche degli assai discutibili decreti attuativi Cartabia. In questi giorni il Parlamento ha approvato un ordine del giorno proposto dall’ottimo e preziosissimo on. Costa, che impegna il Governo proprio nei sensi indicati da sempre da noi penalisti. E nella sua conferenza stampa di fine anno la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha esplicitamente confermato l’impegno del Governo nei sensi indicati dall’ordine del giorno Costa. Sembra proprio che, almeno ed intanto su questo fondamentale tema, ci si stia incamminando sulla giusta via, e certamente l’impegno delle Camere Penali italiane sarà strenuo e - ci auguriamo - decisivo. Intanto, visto che certamente ripartirà la grancassa della menzogna populista sulla prescrizione brutta e cattiva, ora potrete (dopo aver verificato la esattezza delle informazioni che vi ho fornito, beninteso) più facilmente e del tutto serenamente dare del cialtrone a chiunque se ne farà portatore. Buon anno a tutti! Di garantismo ce n’è più d’uno, come chi predica bene e razzola male. Vedi il ministro Nordio di Gian Carlo Caselli* Il Fatto Quotidiano, 1 gennaio 2023 Il nostro Paese è afflitto da una infinità di problemi. Tra questi lo sterminio del significato delle parole. Imperversa infatti, in particolare fra i politici, la tendenza malsana a snaturare le parole, di piegare i concetti fino a svuotarli di significato, rovesciando sistematicamente la verità e costruendo una realtà virtuale, sulla quale imporre le proprie scelte. Prendiamo la parola garantista. Chi si autodefinisce tale ogni tre per due di solito dimentica (o neppure sa) che di garantismo ce n’è più d’uno. C’è il garantismo classico, secondo il quale le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio. C’è un garantismo strumentale, diretto a depotenziare la magistratura, che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico. Parallelo a quest’ultimo è il garantismo selettivo, che adegua le regole in base allo status sociale dell’imputato. Molti di coloro che si autoproclamano garantisti doc, sentendosi così autorizzati a scovare in ogni dove eretici giustizialisti da mettere alla gogna, si ispirano in realtà a quelle forme che sono la negazione dell’autentico garantismo. Ne offrono una dimostrazione coloro (in testa l’attuale Guardasigilli Carlo Nordio) che sfornano progetti su progetti per la riforma della giustizia penale che in realtà produrranno danni irreversibili: all’indipendenza della magistratura (separazione delle carriere); al principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (non obbligatorietà ma discrezionalità dell’azione penale); alla repressione dei reati più gravi, come mafia e corruzione (guerra alle intercettazioni). Altro che garantismo! Si tratta di controriforme pericolose per la qualità della nostra democrazia. Cominciamo allora a chiamare le cose con il loro vero nome e non con autocelebrazioni fasulle e fuorvianti. Così sarà davvero un Buon anno. *Ex magistrato Riforma civile, l’ira di “AreaDg”: “Miope anticipare l’entrata in vigore” Il Dubbio, 1 gennaio 2023 Secondo la corrente associativa nel prossimo anno “i tempi di definizione dei giudizi civili, invece di accorciarsi, si allungheranno”. “Forte preoccupazione per la paventata anticipazione al 28 febbraio 2023 dell’entrata in vigore della riforma del processo civile, che modifica in maniera pregnante i diversi riti e per alcuni aspetti l’organizzazione degli uffici”. A dirlo è AreaDg, con una nota pubblicata sul sito della corrente della magistratura. “Proprio con riferimento al Pnrr, già in precedenza non si era avvertita la necessità di sentire il parere dei magistrati italiani, ad esempio, nello stabilire l’obiettivo di riduzione dell’arretrato, fissato in una percentuale difficilmente raggiungibile, considerate la carenza di organico - certo non superabile con l’introduzione degli addetti all’Ufficio per il Processo - e le condizioni di oggettiva difficoltà in cui versano molti uffici giudiziari con carichi di ruolo che superano i 700 fascicoli a magistrato”. Ciò nonostante, “consapevoli che il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr sia stato posto interamente sulle loro spalle, senza attenzione alle condizioni effettive in cui si trovano a lavorare e senza essere coinvolti, se non marginalmente, nelle scelte più significative, i magistrati italiani hanno affrontato la sfida loro imposta, aumentando, in questi mesi, la produttività degli uffici giudiziari e tentando di sfruttare al meglio ogni innovazione, anche quelle con più criticità, cercando di evitare di ridurre la qualità delle decisioni” continua la nota. “In questi giorni, nuovamente senza alcuna precedente interlocuzione, senza alcun riguardo alla delicatezza e all’importanza della funzione giurisdizionale, la politica interviene a gamba tesa, in modo miopie e scoordinato, nell’esercizio della giurisdizione, senza confronto con magistrati, avvocati e altri operatori, senza chiedersi e senza chiederci quanto tempo occorra a far entrare a regime una riforma di portata così innovativa, con l’unico presumibile risultato che almeno nel prossimo anno i tempi di definizione dei giudizi civili, invece di accorciarsi, si allungheranno”. Riforma civile, Rizzo all’Anm: “Entrata in vigore concordata con la commissione europea” Il Dubbio, 1 gennaio 2023 Il capo di Gabinetto del ministro della Giustizia, in un incontro svoltosi ieri con i rappresentanti dei magistrati, ha spiegato i motivi dell’anticipazione del nuovo processo al 28 febbraio 2023. A gennaio ci sarà una nuova riunione con il Consiglio Nazionale Forense. Sulla riforma del processo civile, dialogo in corso tra il Ministero della Giustizia, l’Associazione nazionale magistrati (Anm) e il Consiglio nazionale forense (Cnf), sulle questioni organizzative connesse all’anticipazione dell’entrata in vigore del nuovo rito. Il capo di Gabinetto, Alberto Rizzo, ha incontrato ieri in via Arenula il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, e una delegazione della Giunta. Durante la riunione, il capo di Gabinetto ha spiegato come l’anticipazione dell’entrata in vigore della riforma del processo civile, al 28 febbraio 2023, sia stata necessaria alla luce di interlocuzioni con la Commissione europea sul monitoraggio delle riforme previste dal Pnrr. Il Ministero ha assicurato ogni supporto organizzativo agli uffici giudiziari, per creare le migliori condizioni possibili per facilitare la transizione al nuovo rito. Il capo di Gabinetto ha poi condiviso con l’Anm le rassicurazioni della Dgsia, Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero, sul completo adeguamento dei sistemi informatici in tempo per l’effettiva entrata in vigore della riforma. Un’altra riunione, sempre dedicata alle problematiche collegate all’anticipazione della riforma del processo civile, è stata già fissata nella sede del Ministero della Giustizia per la mattina dell’11 gennaio 2023, tra il capo di Gabinetto, Alberto Rizzo, e la presidente del Consiglio nazionale forense, avvocato Maria Masi. Roma. Manifestazione per Alfredo Cospito: anarchici tentano corteo verso il ministero della Giustizia di Luca Ianniello La Repubblica, 1 gennaio 2023 Un centinaio di persone si sono radunate in vicolo della Moretta, in pieno centro, per chiedere la fine del 41bis e la scarcerazione del militante. Anarchici in piazza nel centro di Roma per una manifestazione in solidarietà ad Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41 bis in sciopero della fame da due mesi per protesta contro il regime del carcere duro. Verso le 16:00 un centinaio di persone si sono radunate in vicolo della Moretta, in pieno centro, per chiedere la fine del 41bis e la scarcerazione del militante. I militanti hanno poi cercato di andare in corteo su via dei Banchi Vecchi per raggiungere via Arenula, sede del ministero della Giustizia, ma sono stati respinti dalla polizia. In piazza cori, fumogeni e striscioni come “contro ogni galera” e “Lo Stato tortura col 41bis”. Le forze dell’ordine in tenuta antisommossa si sono schierate tra via Giulia e via dei Banchi Vecchi. Pisa. Carcere Don Bosco, “Situazione sempre più critica: servono interventi strutturali” pisatoday.it, 1 gennaio 2023 La vivibilità nel carcere, la condizione di chi vi è recluso e chi ci lavora, continua a peggiorare: si susseguono sulla stampa interventi di denuncia provenienti da una sola fonte, quella dei sindacati di polizia. Colpevolmente, secondo noi, la politica tace ma anche gran parte della società civile. Eppure è la dura verità: il carcere è sempre più luogo di sofferenza e segregazione, in cui si esercita una vendetta collettiva ma non si preparano le persone a rientrare in società, come prescrive la nostra Costituzione. Diritti in Comune, nel vuoto del dibattito cittadino, periodicamente elenca criticità e avanza proposte per restituire senso e umanità alla detenzione, a beneficio dell’intera comunità, non solo di chi vive e lavora in carcere. Ci auguriamo che il 2023 sia un anno in cui anche l’amministrazione comunale faccia la sua parte, insieme alla Direzione della casa circondariale, per migliorare decisamente la situazione. In primo luogo c’è un problema di vivibilità di base. Nonostante alcuni interventi di recupero, il carcere ha molte criticità strutturali e il tasso di sovraffollamento resta alto. Gli interventi educativi e formativi sono ridotti al minimo: le funzionarie giuridico-pedagogiche sono attualmente dimezzate. Molti detenuti con dipendenze non hanno accesso a veri percorsi di recupero: per loro, come per tanti, l’accesso alle cure resta problematico. I luoghi con maggiori criticità sono i reparti giudiziari, nei quali la presenza di persone straniere, molte senza permesso di soggiorno, è alta ma sono assenti forme di mediazione socio-culturale e sono molto carenti i percorsi di socializzazione e di preparazione all’uscita dal carcere. A tutto questo si aggiunge, dai tempi della pandemia, una contrazione dei progetti e della presenza del volontariato che, in altre fasi, ha costituito una risorsa preziosa. La situazione è destinata a peggiorare proprio in questi giorni: a fine anno rientrano le persone in semilibertà che, grazie alle licenze straordinarie durante la pandemia, hanno avuto la possibilità di trascorrere la notte presso la propria abitazione e svolgere durante il giorno le attività previste dai programmi di trattamento. Rientreranno tutte insieme il 31 dicembre, in una struttura assai precaria che da tempo dovrebbe essere stata trasformata, con il contributo del Comune, in un edificio separato. Se non vogliamo che il carcere continui a essere un buco nero della società, luogo di pena fine a se stessa, fonte di futuro disagio e di recidiva, occorre intervenire - oltre che con un piano strutturale di recupero dell’intero edificio - con veri progetti di formazione e di avviamento al lavoro, con progetti di inserimento abitativo, con servizi dedicati di mediazione e di recupero, con un aumento del ricorso alla semilibertà e alla possibilità di scontare parte della pena fuori dal carcere, avviando collaborazioni stabili con le associazioni di volontariato e con il Comune. Anche nel prossimo anno, su questo delicatissimo fronte, il nostro impegno non verrà meno. Agrigento. Un’area giochi destinata ai figli dei detenuti sarà presto aperta nel carcere agrigentooggi.it, 1 gennaio 2023 I figli dei detenuti giocheranno, per attutire il trauma dell’attesa del colloquio con i papà detenuti, dentro l’Istituto penitenziario. È stata inaugurata a Ragusa la prima delle 8 aree giochi attrezzate che da gennaio verranno aperte anche nelle carceri di Agrigento, Enna, Messina, Trapani, Catania, Palermo e Giarre. Si tratta di un progetto promosso da Uisp Sicilia, selezionato dall’impresa sociale “Con i bambini” nell’ambito delle disponibilità del Fondo per il contrasto della povertà educativa e minorile con il bando “Un passo avanti”. Un primo passo, appunto, di una gamma di servizi che permetteranno di aiutare detenuti e famiglie anche nella gestione del ruolo genitoriale in un contesto difficile come quello del carcere. “Quando posso con mia sorella veniamo a trovare nostro fratello - dice una delle parenti in attesa del colloquio -, incontri non semplici da gestire ma per fare felice mio fratello veniamo quando ci è possibile. Lui ha la possibilita’ di giocare con i bambini, di stare un po’con loro”. Siena. I detenuti preparano e servono ai poveri il pranzo di Capodanno La Repubblica, 1 gennaio 2023 Hanno chiesto e ottenuto un permesso speciale per uscire dal carcere e andare a lavorare alla mensa della Caritas. Oggi, domenica 1 gennaio 2023, saranno detenuti del carcere di Santo Spirito di Siena a preparare e a servire i pasti alla mensa della Caritas diocesana di San Girolamo. L’iniziativa che si chiama “Adozione a pietanza”: è stata voluta fortemente dal cardinale Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena Colle Di Val D’Elsa- Montalcino, e da Marco Santoro, comandante della polizia penitenziaria del carcere, grazie alla regia del cappellano dell’istituto di pena, don Carmelo Lo Cicero. Per questo vero e proprio evento si sono mobilitate anche le parrocchie di S. Isidoro a Taverne e di S. Ansano a Dofana che hanno raccolto i fondi per l’acquisto delle materie prime. I pasti verranno preparati in carcere da un vero proprio “team di cucina” per 70 persone con un menù a base di riso, pollo e minestra. Saranno tre i detenuti che potranno uscire per servire a tavola insieme ai volontari coordinati da suor Nevia. “Un’idea nata a Natale - spiega Don Carmelo Lo Cicero - Sono stati proprio i detenuti a chiedere di potere cucinare per gli ospiti della mensa della Caritas il primo dell’anno come segno di speranza e di condivisione con molte persone che sono in difficoltà. Il menù è stato scelto anche per rispettare le abitudini dei tanti pakistani che mangiano alla mensa di suor Nevia. Un ringraziamento speciale al magistrato di sorveglianza, Maria Pia Savino - conclude Don Lo Cicero - per avere permesso ai detenuti di uscire dal carcere per questa iniziativa veramente meritoria, e a Maria Josè Massafra, educatrice del carcere, e alla direttrice Santina Savoca. Un momento unico che vedrà il sottoscritto insieme al cardinale servire ai tavoli”. Il libro “Giustizia” del ministro Nordio, analisi impietosa e spunti di riforma di Andrea Venanzoni Il Foglio, 1 gennaio 2023 Il testo è una sorta di disegno sistematico di costruzione dell’identità della giustizia, attraverso due distinte ma connesse parti: una più teorica e che rimonta alle radici del concetto stesso di giustizia. E un’altra significativamente richiamante la pratica della giustizia. Nel brocardo fiat iustitia et pereat mundus, Salvatore Satta scolpì l’orrore del formalismo giudiziario, di quel moto squassante che in maniera autoreferenziale ed escatologica decretava la morte delle umane cose e dell’universo tutto per celebrare il dominio di un diritto alieno, claustrale e oscuro. E a ben vedere, decenni dopo, quel principio potrebbe essere sussunto nel feroce dispositivo (sub)culturale del giustizialismo, le cui componenti eccitate rimandano un carnicino orizzonte d’inferno. È possibile invertire una tendenza che, simile a una slavina di fango e tenebra, ha aggredito il ventre della politica e del dibattito giuridico-giudiziario negli ultimi decenni? È possibile, certo. A patto però di riappropriarci dell’essenza stessa della giustizia, dei suoi formanti, della sua funzione e della sua consistenza di scienza umana.  È per questo assai prezioso il nuovo libro di Carlo Nordio, ora ministro della Giustizia, edito dalla sempre attenta e preziosa Liberilibri. “Giustizia”, appunto, che si dipana e snoda non tanto per capitoli quanto per temi. Una sorta di disegno sistematico di costruzione dell’identità della giustizia, attraverso due distinte ma connesse parti: una, la prima, più teorica e che rimonta alle radici del concetto stesso di giustizia, e un’altra, la seconda, significativamente richiamante la pratica della giustizia. Il volume inaugura peraltro una collana, Voltairiana, con cui Liberilibri intende passare in rassegna i temi di illiberalismo, carcere, popolo, sorveglianza, tolleranza, processo, Costituzione, diritti, stato, rischio, autonomia, moneta. Si tratta a ben vedere di tutti quegli elementi che vanno puntualmente analizzati per decretare lo stato di salute, o al contrario di malattia, del sistema italiano e soprattutto la divergenza di un dato modello teorico-generale e storico dalla sua risultante contingente. E che il sistema italico della giustizia se la passi assai male, per non dire malissimo, lo testimonia il florilegio di preziosi contributi come “Diritto penale totale” (Filippo Sgubbi), “Populismo politico e populismo giudiziario” (Giovanni Fiandaca), “Giustizia mediatica” (Vittorio Manes); fenomeni accompagnati per mano da una parte politica vorace e ottusa che ha caldeggiato, più con spirito farsesco e volgare da Cola di Rienzo che non con il rigoristico sadismo dell’istituzione alla Joseph Fouché, l’involuzione sistemica di un ordinamento in cui davvero, sempre sattianamente, certi magistrati mandano al carnefice nemmeno fossero emuli del Grande inquisitore. La fenomenologia della giustizia, ricostruita con acuto nitore da Nordio nelle prime pagine del volume, risale su per i secoli, fendendo le nebbie delle dottrine filosofiche e religiose che spesso ne hanno alimentato la fisionomia. La Grecia, Roma, la Bibbia, Hegel, la trasmutazione dell’ordine sociale e ideologico di una data società in sistema di diritto. La parte più attuale del notevolissimo volume, scritto con prosa raffinata, è chiaramente quella che appunta la propria osservazione sulla giustizia penale in Italia e che poi affresca la figura del magistrato etico e di lotta. Nordio destruttura subito un luogo comune: l’Inquisizione non è l’antecedente logico-storico del giustizialismo contemporaneo, che sembra invece affondare le proprie radici in quel ritualismo in apparenza garantista ma nella sostanza profondamente turpe e violento che fu il processo giacobino. Garanzie solo teoriche, come la separazione tra giudicante e accusatore e la presenza di una giuria popolare, nel cui brulicante ventre sembra di sentire la eco colpevolista del sistema massmediatico eccitato dalla pubblicazione delle inutili conversazioni captate. Le garanzie, se non sostanziali, diventano solo tragica foglia di fico per coprire moralmente la pornografia giudiziaria spiattellata su alcuni giornali. Da meditare poi la parte conclusiva, “Principi liberali per una riforma radicale”, che si spera possa costituire manifesto programmatico e direttiva di prassi amministrativa del Nordio ministro. Mattarella e la responsabilità che serve contro gli agenti della sfiducia di Sergio Soave Il Foglio, 1 gennaio 2023 L’appello del capo dello Stato per un futuro ottimista. Tra paletti, giovani e messaggi a maggioranza e opposizione. Sergio Mattarella, nel messaggio augurale di fine anno, manda un messaggio tutto sommato rassicurante. Non trascura gli aspetti critici della situazione nazionale e internazionale, lamenta la condizione delle donne in Iran e Afghanistan, oltre ai patimenti del popolo ucraino, mentre sul piano interno sottolinea le difficoltà per famiglie e imprese e sottolinea l’aumento della povertà minorile e la perdurante distanza tra Nord e Sud. Tuttavia invita a pensare a un futuro che si può affrontare con fiducia, impegnando le energie per i temi che caratterizzano le sfide globali, la modernità, dalle nuove tecnologie alla protezione dell’ambiente, alla ricerca di nuove fonti energetiche, alle tecnologie digitali. Dobbiamo pensare al domani “con gli occhi dei giovani” dice, ma senza paternalismo. Infatti proprio ai giovani chiede di avere maggiore senso di responsabilità, per ridurre il numero di incidenti stradali causati da alcool droga o leggerezza nella guida. Sulla politica italiana osserva che nel corso della sua presidenza si sono alternate al governo praticamente tutte le formazioni, il che dovrebbe aver insegnato a tutti quanto sia complesso il compito di trovare soluzioni adeguate ai problemi che man mano si presentano: “la concretezza della realtà ha così convocato ciascuno alla responsabilità”. Per questo la democrazia si rafforza e si dimostra matura “anche per questa esperienza, da tutti acquisita, di rappresentare e governare un grande Paese”. È qualcosa di più della legittimità riconosciuta a tutte le formazioni politiche, è un appello a esercitare, nella distinzione di ruoli, una comune responsabilità nazionale. Per quel che riguarda il governo Mattarella sottolinea che “il chiaro risultato elettorale” ha portato a un esecutivo “guidato, per la prima volta, da una donna” e di questa novità si congratula. Insomma il Presidente vede un paese impegnato da grandi problemi ma capace di affrontarli, un sistema politico che ha aumentato il suo tasso di responsabilità, una società che resta legata ai principi della Costituzione. Una visione incoraggiante che è quel che serve in momenti di comprensibile incertezza. La Sanità delle disuguaglianze di Marcello Crivellini* e Filomena Gallo** La Stampa, 1 gennaio 2023 La sanità italiana sembra essere sempre più il mondo dei paradossi. Ci si lamenta della mancanza di medici nel settore pubblico ma una buona parte dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale, appena finito il turno sono reperibili senza attese ma a pagamento (in strutture pubbliche o private). Le attese in molti Pronto Soccorso sono tali da causare numerosi abbandoni ma alcuni medici si licenziano per fare i “gettonisti” cioè lavorare come privati a chiamata e guadagnare in due giorni quanto il precedente stipendio mensile. La disomogeneità nella qualità e disponibilità dei servizi sanitari fra le Regioni è tale da causare da decenni una migrazione sanitaria (la chiamano mobilità sanitaria) di circa 800 mila persone l’anno (dieci volte i migranti dei barconi) senza che qualcuno faccia decreti o organizzi centri di accoglienza nei pressi di quelle strutture prese d’assalto. Il controllo di questa disuguaglianza (cioè la misura dei Lea, Livelli essenziali di assistenza) è affidato a un Comitato composto per la metà da chi dovrebbe essere controllato (le Regioni) che rende noti i risultati circa tre anni dopo le indagini, quando ormai non servono più a nulla, nell’indifferenza generale. Mentre il numero quotidiano di dichiarazioni e convegni di Assessori e Ministri in materia di sanità si mantiene elevato, da 14 anni manca il documento che per legge dovrebbe identificare la politica di sanità e salute del paese su un arco pluriennale: l’ultimo Piano sanitario nazionale è stato approvato nell’aprile 2006. L’elenco dei paradossi potrebbe continuare ma il più grande è che la gran parte degli attori-decisori della sanità si focalizza sulla difesa (spesso corporativa) di questo o quel punto specifico e dimentica il funzionamento del sistema nel suo complesso. In effetti il maggior problema è che oggi il SSN non è più un sistema ma una somma di singoli parti che interagiscono male fra loro, alcune sufficientemente funzionanti altre pessime: in tal modo non è più un sistema capace di affrontare i problemi di salute e le esigenze dei cittadini con la dovuta efficacia di governo. La spesa sanitaria complessiva è contenuta ma è pur sempre il 9% del Pil e costituisce il settore maggiormente finanziato (più di difesa, istruzione, giustizia e ricerca messi insieme). Maggiori finanziamenti sono certamente benvenuti ma ritenere che la soluzione automatica dei problemi sia l’aumento della spesa è una illusione, se non un alibi. La soluzione deve partire dal rispetto delle regole e da un rinnovato ruolo del Ministero della Salute (da troppi anni semplice mediatore dei molti interessi regionali, non tutti trasparenti) che approvi finalmente una politica sanitaria e di salute su base pluriennale, che controlli rigorosamente l’operato delle Regioni sul territorio e che intervenga in modo attivo, tempestivo e se necessario sostitutivo. L’Associazione Coscioni ha predisposto da tempo proposte generali di sistema e specifiche di settore adeguate alle esigenze di salute della popolazione. Tengono conto 1) dell’evoluzione demografica e dell’accresciuto peso del settore cronicità-disabilità-non autosufficienza rispetto alla tradizionale concentrazione sulle cure per acuti, 2) della necessità di consolidare fortemente i temi della Salute Mentale e di tutti i servizi connessi, 3) del funzionamento della medicina territoriale (intesa come filtro e giusto indirizzamento al resto del sistema) secondo le esigenze dei cittadini. Nell’individuare e attuare gli interventi sul Ssn vanno rispettate alcune condizioni. Il tempo di realizzazione è uno dei fattori essenziali; è del tutto inutile programmare e finanziare interventi che richiedono tempi indefiniti, lunghissimi o contraddittori rispetto agli obiettivi dichiarati. Se le regole di realizzazione dei programmi non consentono una realizzazione in tempi utili, vanno cambiate le regole prima di procedere ad annunci e finanziamenti destinati a restare solo sulla carta. È importante far funzionare quanto di buono già esiste: disinteressarsi di quello che non funziona e proporre sempre nuove aggiunte al sistema (con nuove sigle, nuovi incarichi, nuove funzioni...) è solo un palliativo destinato a rivelarsi (passato l’effetto eccitante) una illusione. *Docente al Politecnico di Milano, consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni **Segretaria Associazione Luca Coscioni Migranti. Richiesta di asilo a bordo, il “trucco” del governo Meloni per azzoppare il diritto alla protezione di Alessia Candito La Repubblica, 1 gennaio 2023 A venir meno potrebbe essere anche la possibilità dei naufraghi di avere aiuto. Nella partita fra governo Meloni e ong, c’è un campo di battaglia: il tempo. E se - come la maggioranza nel suo decreto prospetta - in barba a norme e leggi internazionali sarà necessario iniziare a bordo l’istruttoria per la richiesta d’asilo, a venir meno potrebbe essere anche la possibilità dei naufraghi di avere aiuto, giustizia e asilo per quello che hanno subito. Perché a terra e in mare il tempo non ha lo stesso lo stesso valore. Le ore sembrano dilatarsi mentre si cerca un gommone in difficoltà prima che si ribalti o la Guardia costiera libica lo intercetti. I minuti si sbriciolano rapidi mentre dai rhib tocca far sì che nessuno si agiti tanto da far ribaltare lo straccio su cui troppi viaggiano. I giorni si sfilacciano inutili per obbedire a un ordine di sbarco che sembra un dispetto. Il tempo su una nave di soccorso si spoglia delle convenzioni. A bordo, la velocità dei secondi che passano e diventano minuti, ore, giorni è proporzionale al periodo in cui puoi mettere in gioco nave, uomini e competenze per salvare vite. In acqua e sul ponte. Perché quando l’operazione di “rescue” è conclusa, i naufraghi sono a bordo, i rhib che li hanno salvati recuperati e agganciati agli argani, inizia la seconda, complicatissima parte dei salvataggi. Il cinismo istituzionale che ha plasmato le procedure della richiesta asilo lo impone. Per chi arriva dal mare, tanto più grave è il fardello di torture, stupri, abusi, violazioni che porta con sé, tanto è più facile avere asilo. Poco importa che tutti abbiano alle spalle lunghi viaggi, anni di detenzioni illegali in Libia, nessuno futuro nel Paese da cui provengono. Per tirare fuori il biglietto vincente alla lotteria dell’accoglienza in Italia, bisogna aver vissuto l’inferno e poterlo provare. Storie di umiliazioni, abusi, violenze. Storie che chiunque forse vorrebbe dimenticare. E invece ecco che, dopo aver attraversato il mare con la morte seduta accanto, i naufraghi potrebbero essere obbligati a tirare fuori tutto e in fretta pur di avere una speranza. Sempre che ci riescano. Lo sa bene chi oggi su Ocean Viking lotta contro il tempo per individuare e segnalare le cosiddette vulnerabilità. Minori soli o con un solo genitore ad accompagnarli, disabili, malati cronici, pazienti affetti da malattie psichiatriche, uomini e donne vittime di abusi e violenze sessuali. Adesso si tratta di una procedura funzionale ad accelerare le procedure di accoglienza e avviare le vittime in contesti più consoni. “Al momento abbiamo individuato trentacinque minori non accompagnati, un paio di casi di tratta, molte violenze sessuali, un uomo affetto da seri disturbi psichici da trauma”, spiega Sara, responsabile a bordo della Croce Rossa. Ma non basta farli emergere o avere il sospetto. Servono dettagli, storie e non è facile rompere la riservatezza di chi i traumi più intimi cerca di tenerli per sé. Ecco perché dal momento del salvataggio, Ahmed e Mosleh, i mediatori culturali sulla Ocean Viking lavorano ininterrottamente, e chi della crew è in grado di mettere in gioco le proprie competenze linguistiche pure. Perché ci vuole tempo per costruire un rapporto di fiducia, ancora di più per stendere un tessuto di confidenza, vincere la riluttanza. “Anche se va a loro beneficio, non li puoi certo obbligare”, spiega Sara. Ma la burocrazia non conosce sfumature, disegna solo procedure. Ogni vulnerabilità è una speranza in più di avere assistenza e asilo, ogni persona è un caso. Dietro però ci sono storie scritte sulla carne di chi le ha vissute. C’è Moussa che oggi ha diciassette anni, ma è diventato adulto lungo il cammino iniziato “quando avevo forse 13 anni, o forse meno” in Gambia. C’è una donna che si dondola sull’improvvisata altalena sul ponte e ride, ma alle spalle - ha finito per raccontare - ha tre anni di Libia, dove è stata sequestrata, picchiata, violentata, abusata più e più volte. “Kalaboush, kalaboush”, dice con negli occhi l’orrore, mentre un’altra ragazza lì vicino scorre forsennatamente le foto sul suo telefono. “Vuoi sapere cosa sia la Libia? Eccola”, dice e mostra il suo volto tumefatto, un occhio fatto nero da un pugno, il segno rosso di una ferita sulla guancia. C’è Adil che si è perso nel mondo di mostri in cui i suoi carcerieri in Libia lo hanno precipitato, trema come una foglia per qualsiasi rumore improvviso e riesce a dormire, mangiare, camminare solo se c’è l’uomo che lo ha preso sotto la sua ala protettrice. Non c’è nessun legame familiare fra loro, non erano amici, “semplicemente non potevo abbandonarlo così”, spiega Rakim. Perché lo raccontassero ci è voluto tempo. Così come hanno tardato giorni le donne a mettersi in fila per raccontare la loro storia di violenza e abusi. Non tutte, è il sospetto, ci sono riuscite. Ci vorrà tempo. E un luogo consono, protetto, intimo che non può essere una nave, dove l’intimità non esiste e gli spazi necessariamente condivisi. Ci vorranno psicologi esperti perché in ogni parola c’è un mondo e per entraci bisogna saper cercare la strada giusta. Oggi tocca a chi gestisce il servizio a terra, provare a vincere giorno dopo giorno la naturale riservatezza di chi ha visto l’inferno. Un naturale pudore che, se questo lungo processo potesse avvenire solo in nave, diventerebbe solo spietata ghigliottina.