Ergastolo ostativo. “Se la Costituzione è contro di noi, peggio per lei” di Mattia Feltri La Stampa, 19 gennaio 2023 Ricordo quand’ero bambino e nell’acqua della Pianura Padana c’era in eccesso non so più quale sostanza nociva. Allora si cambiò la legge, si innalzarono i limiti di tolleranza e la stessa acqua, all’indomani, era diventata potabile. Non so se il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, si sia ispirato a quell’estroso legislatore quando - nell’intervista di ieri alla Stampa - progetta di cambiare la Costituzione per reintrodurre l’ergastolo ostativo nelle stesse forme che erano state dichiarate incostituzionali. Per chi non fosse al corrente, l’ergastolo si dice ostativo quando annulla anche la speranza di poter uscire, un giorno per quanto lontano, e in Italia lo si applicava a chiunque rifiutasse di collaborare con la giustizia, magari per evitare che gli ammazzassero i parenti. La Corte costituzionale ha spiegato che così nega il principio del fine rieducativo della pena affermato nell’articolo 27. Sicché il governo Meloni è stato costretto a mettere mano alla legge. Intendiamoci: sfuggire all’ergastolo ostativo in assenza di pentimento resta quasi impossibile, ma perché non ci siano dubbi l’idea è di tornare alla vecchia formulazione. Ma come fare se la vecchia formulazione è incostituzionale? Facile, si cambia la Costituzione. Così la vecchia formulazione per magia diventa costituzionale. E pazienza se per farlo bisogna toccare un principio fondante (“significherebbe decostituzionalizzare la Costituzione”, è stato saggiamente detto). Una volta Gabriele D’Annunzio disse che “se il destino è contro di noi, peggio per lui”. Più modestamente, per Piantedosi “se la Costituzione è contro di noi, peggio per lei”. Ergastolo ostativo. La legalità parte dalla Costituzione di Gaetano Silvestri* La Stampa, 19 gennaio 2023 Come cittadino fedele alla Repubblica ed osservante delle sue leggi ho salutato con soddisfazione l’arresto di un capo-mafia ricercato da trent’anni e ritenuto responsabile di orrendi delitti oltre che di un continuo inquinamento della vita economica e istituzionale della Nazione. Risponderà dei suoi atti nei termini stabiliti dalle norme vigenti e pagherà il suo debito con la collettività, scontando le pene che si è meritato. Anch’io, come tutti i cittadini, sono grato ai magistrati e alle forze di polizia che hanno conseguito questo importante risultato, che segna una netta riaffermazione della legalità contro il crimine. Proprio perché sono convinto che l’arresto di Matteo Messina Denaro sia una battaglia vinta contro la mafia e perché sono altresì persuaso che la guerra invece continua sino ad un esito definitivo che certamente ci sarà (anche se non possiamo prevedere in quanto tempo) penso che oggi più che mai dobbiamo mantenere saldo il nostro senso della legalità, a cominciare da quella costituzionale. Dispiace sentire oggi, come anche in passato, tirare in ballo la Carta costituzionale per auspicarne modifiche congiunturali, allo scopo di additare soluzioni per problemi esistenti. In tutti momenti cruciali della nostra storia repubblicana si ripresenta quella che potremmo definire “fallacia normativistica”, quasi che fenomeni negativi, purtroppo radicati in estese realtà economico-sociali, possano essere eliminati con leggi-manifesto o proclami in favore di un irrigidimento autoritario delle istituzioni. Si tratta di un grosso equivoco. Se come cittadino, come studioso e come servitore dello Stato posso vantare con legittimo orgoglio la mia superiorità nei confronti di mafiosi, corrotti e loro complici è perché sto dalla parte della Costituzione e della legge. I mafiosi sono nemici della libertà perché assoggettano al loro dominio violento interi territori; chi li combatte, anche con le armi della repressione, è al servizio della stessa libertà. Il fine “rieducativo” della pena, indicato dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione non è stato introdotto dai nostri Padri costituenti per pietismo o per pura ostentazione di buoni sentimenti, ma per tracciare la strada della ricomposizione della società, lacerata dal crimine, mediante il reinserimento del reo nel tessuto sociale. Lo scontro tra Stato e mafia non si riduce ad un conflitto generico tra potenze ostili, ma è il confronto, anche sanguinoso purtroppo, tra civiltà e barbarie. La prima deve prevalere con i suoi metodi, altrimenti si priva di valore il sacrificio di tante donne e uomini che hanno anteposto la difesa della legalità alla loro stessa vita. Né dovremmo dimenticare, in questa specifica occasione, che Messina Denaro ha continuato la sua dorata latitanza per anni in pieno regime di ergastolo ostativo. Non saranno le parole di soggetti contigui alle cosche che ci possono far cambiare idea sui nostri princìpi. Mi ha colpito anche il rinnovato risorgere del tema delle intercettazioni telefoniche. Fermo restando che le stesse devono sempre essere effettuata con il pieno rispetto delle regole e con la razionalità che si pretende dalla giurisdizione, lontana dalle velleità di pretesi giustizieri, per i cui eventuali eccessi esistono rimedi processuali e disciplinari, occorre rammentare che la criminalità mafiosa si occulta molto spesso nell’illegalità “ordinaria” e che, perseguendo quest’ultima, si può risalire all’inquinamento mafioso dell’economia e delle istituzioni. Mi sembra opportuno ripetere che la mafia si sconfigge con una “straordinaria ordinarietà”, con la rigorosa osservanza della legge tutti i giorni e in tutti rapporti civili, economici e politici. Per questo motivo, rimangono necessarie le intercettazioni per tutti reati gravi collegati alle attività quotidiane, anche non apparentemente di tipo mafioso, poste in essere dalla criminalità organizzata. Le vittorie, come quella di questi giorni, si ottengono con un lavoro silenzioso e ininterrotto, che rifugge dai clamori, ma punta ai risultati concreti. Mi piace pensare che oggi, assieme agli artefici della cattura di Messina Denaro ha vinto pure la Costituzione della Repubblica, che essi hanno giurato di osservare fedelmente. Diamo loro, oltre il meritato plauso, anche i mezzi per continuare la loro battaglia nel segno della legalità e della libertà. *Presidente emerito della Corte Costituzionale Cultura del diritto più del 41bis, per battere le mafie di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 gennaio 2023 Il garante Mauro Palma: “Non è più lo strumento iniziale”. Fratoianni: “Non basta”. Più del 41bis potrà la cultura del diritto: è su questa strada che si vince la lotta alla mafia. Il concetto è chiaro e ineccepibile, ma difficile da far passare mentre va in onda a reti unificate la retorica del carcere duro rinvigorita dall’arresto di Matteo Messina Denaro, trasferito nel carcere ad alta sicurezza delle Costarelle, a L’Aquila, dove sono rinchiusi in celle singole 159 dei 749 detenuti sottoposti al regime di 41bis, tra cui i grandi mafiosi e terroristi non pentiti, dalla brigatista Nadia Lioce ai boss Leoluca Bagarella, Raffaele Cutolo, Felice Maniero e Francesco Schiavone. Il decreto con il quale è stato disposto il carcere duro all’ultimo superboss di Cosa Nostra ricercato da 30 anni, immediatamente firmato dal Guardasigilli Carlo Nordio, è stato accolto dal capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti, come gesto di fermezza del governo nella lotta alla mafia: “Nessun carcere dorato per Matteo Messina denaro - ha twittato ieri - il 41bis è il nemico numero uno di tutti i boss”. Gli risponde a stretto giro il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni: “Francamente non capisco l’enfasi dell’on. Foti: il 41bis - dice dai microfoni di Agorà, su Rai3 - mi pare un fatto scontato, e le cose scontate non c’è bisogno di dirle: viene arrestato il latitante più latitante d’Italia, ed è evidente che il Guardasigilli deve firmare la misura del 41bis. Lasciamo stare la propaganda”. La polemichetta s’infuoca immediatamente: “Che Fratoianni non capisca ci può stare ed è normale. Del resto - ribatte il capogruppo di Fd’I - la sinistra ha fatto ostruzionismo contro quell’ergastolo ostativo che tre mesi fa aveva votato”. Dimentica, l’on. Foti, che a “fare ostruzionismo” contro l’ergastolo ostativo, per usare le sue parole, è stata soprattutto la Corte costituzionale che con due sentenze - la n. 253 del 2019 e la n. 97 del 2021 - ha chiesto al Parlamento di intervenire su una pena giudicata nella forma attuale incostituzionale. Fratoianni comunque insiste e torna sui binari del confronto sostanziale: “C’è una componente decisiva nella lotta alla mafia e alla grande criminalità organizzata che deve essere ripresa e rilanciata: è la lotta per la dignità e per i diritti. Il diritto ad avere un lavoro, di poter andare a scuola, di avere un welfare che ti garantisca un’assistenza decente - afferma il parlamentare dell’Alleanza Verdi Sinistra - Il diritto nel rapporto con l’organizzazione mafiosa su che cosa si fonda? Sull’idea che il potente, il boss, elargisca concessioni. Il diritto diventa concessione. Lo Stato deve invece poter rappresentare, e non l’ha fatto fino in fondo finora, un’altra cosa: il diritto è ciò che posso avere perché mi spetta e lo rivendico. La garanzia del diritto è la fonte dell’emancipazione delle persone, ed è la strada prioritaria da seguire”, senza negare l’utilità degli “strumenti di indagine classica o gli strumenti giudiziari”. Il punto però è un altro: lo strumento del 41bis, “nato per interrompere le comunicazioni con le organizzazioni criminali di appartenenza” “non è solo giusto, ma addirittura doveroso”, afferma il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma intervistato dalla web radio del Pd. Ma “quando diventa una modalità carceraria meramente afflittiva, il cosiddetto carcere duro allora non è più accettabile. Il punto di partenza è il rispetto della dignità delle persone e il carcere duro, le privazioni dei diritti, non hanno nulla a che vedere con le finalità iniziali del 41bis. Inoltre - conclude Palma - bisogna pensare che su 700 persone sottoposte a questo regime carcerario, solo 200 hanno l’ergastolo. Immaginare un percorso differente, alla luce del fatto che sicuramente almeno le altre 500 torneranno in libertà è anche una cosa che garantirebbe maggiore sicurezza”. “Bene la lotta alla mafia ma non si può decostituzionalizzare la Costituzione” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 19 gennaio 2023 Intervista al professore Marco Ruotolo sull’ipotesi, lanciata da Piantedosi, di cambiare la Carta in nome della lotta alla criminalità organizzata: “L’articolo sulle pene è un principio supremo. Sarebbe un grave errore parametrare tutta la legislazione penale sulle esigenze del contrasto alla mafia”. “Lo Stato ha ingaggiato una guerra contro la mafia che non può concedere al nemico dei vantaggi. Alla luce di questo vanno effettuate anche le valutazioni di ordine costituzionale”. Parla così il ministro dell’Interno: riferendosi all’ergastolo ostativo e, in generale, alle pene per i mafiosi, apre alla possibilità di cambiare la Costituzione in una sua parte fondamentale. Non cita articoli Piantedosi, non dà dettagli, ma il bersaglio - è evidente - è l’articolo 27 della Carta, che disciplina la presunzione di innocenza e la funzione rieducativa della pena. Una di quelle norme che non sono state mai toccate, perché sono intangibili, o quasi, come ci spiega in questa intervista Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto costituzionale a Roma 3, direttore del master in Diritto penitenziario e Costituzione, nonché componente del comitato scientifico dell’associazione Antigone. Professore, dopo l’arresto di Messina Denaro, il ministro Piantedosi ha detto La Stampa che, in nome della lotta alla mafia, si può anche cambiare la Costituzione. Il riferimento era all’ergastolo ostativo. Ma ciò significherebbe intervenire sull’articolo 27 della Carta. Parliamo di un principio fondamentale dello stato di diritto. È possibile cambiarlo? Come ha scritto la Corte costituzionale nel 1990, la “tendenza a rieducare” è una delle qualità essenziali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nella sua astratta previsione, fino a quando in concreto si estingue. Ed è l’unica finalità espressamente indicata in Costituzione. L’opzione repressiva - è sempre la Corte ad affermarlo - non può mai relegare nell’ombra il profilo rieducativo. Cambiare l’art. 27 della Costituzione, andando in una direzione opposta a quella indicata significherebbe, incidere su un principio supremo, cosa che non è possibile fare nemmeno ricorrendo alla procedura aggravata prevista per la revisione costituzionale. La nostra è una Costituzione rigida, non modificabile per le vie ordinarie, e quindi sarebbe inaccettabile una clausola che nella sostanza attribuisca al legislatore il potere introdurre deroghe alle finalità indicate in Costituzione. Perché attribuire alla legge ordinaria il compito di derogare alla finalità rieducativa alla ricorrenza di circostanze particolari altro non significherebbe che rendere “flessibile” (e cioè modificabile nelle vie ordinarie) la stessa previsione costituzionale. La scelta sul se e come derogare sarebbe rimessa ad una contingente maggioranza parlamentare, se non al Governo mediante l’uso del decreto-legge. È quanto la Costituzione non vuole, ergendosi come limite al potere a garanzia dei diritti di ciascuno e di tutti. Né possiamo dimenticare che siamo in un sistema europeo che esprime valori precisi quanto alla funzione del potere punitivo e alla sua configurazione in concreto. Ogni intervento legislativo e persino costituzionale deve tenere conto anche di questa cornice. Quali sarebbero le conseguenze di un intervento del genere? Sarebbe come “decostituzionalizzare” la Costituzione, rendendola per questa parte una mera legge ordinaria. In effetti in parlamento è stata depositata, da parte di Cirielli di FdI, già una proposta di legge di revisione costituzionale che andrebbe a rivedere l’articolo 27, che va nel senso di far prevalere la visione punitiva dalla pena a quella rieducativa. Come si spiega questa tendenza di certa politica? Manca nella nostra società una cultura costituzionale della pena. È più semplice dire “buttiamo la chiave”, specie con riguardo a reati di particolare allarme sociale, piuttosto che ricercare la via complessa della ricostruzione del legame sociale attraverso percorsi rieducativi, spesso difficili e non sempre idonei. Al raggiungimento del fine della pena (la rieducazione) dovrebbe corrispondere la fine della pena. Il perseguimento della finalità rieducativa ha riflessi positivi non solo per il condannato, ma per l’intera società, perché garantisce la sicurezza dei cittadini. Un detenuto che abbia fatto un reale (e non opportunistico) percorso di ravvedimento e cambiamento è una persona che probabilmente non ricadrà nel reato al momento della fine della pena, come dimostrano gli studi sulla recidiva. Il governo Meloni è già intervenuto sull’ergastolo ostativo, con il decreto rave. La nuova norma, molto restrittiva, rispetta le richieste dalla Consulta secondo lei? Le indicazioni della Corte sono recepite in alcuni punti fondamentali, con scelte che rendono certamente difficile l’accesso alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo che abbiano commesso reati legati alla criminalità organizzata. La Corte al fondo ha detto che soltanto la collaborazione fa scattare una presunzione di ravvedimento; nel caso di mancata collaborazione la concessione dei benefici sarà improbabile, perché il condannato dovrà dimostrare non soltanto l’assenza di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche del “pericolo” di un loro ripristino, oltre ad aver avuto una condotta carceraria che lasci presumere la positività del percorso di rieducazione. Insomma, l’accesso alla misura sarà improbabile (come è giusto che sia, in assenza di collaborazione), ma non impossibile. Ad ogni modo, in questo ambito non rientrano i detenuti che siano collocati nel regime del 41-bis. Quel provvedimento presuppone proprio l’attualità dei collegamenti e quindi impedisce, logicamente e giuridicamente, che possano essere concessi permessi o la liberazione condizionale a boss che scontano la pena in regime di 41-bis. Semmai, ove questi riescano a dimostrare l’assenza di attualità dei collegamenti, dovranno prima agire per ottenere la revoca del 41-bis. Si è spesso sostenuto che una parte della legislazione antimafia, giusta in un determinato periodo storico ma molto restrittiva per quanto riguarda i diritti costituzionali, è da intendersi di carattere emergenziale. Invece è stata resa strutturale nel nostro ordinamento, ciò non confligge con la costituzione? L’emergenza non può divenire quotidiana, altrimenti non è più tale. Sarebbe un grave errore parametrare tutta la legislazione penale sulle esigenze specifiche del contrasto alla mafia. Ad ogni modo, il regime del 41-bis è strumento essenziale per evitare che gli autori di reati di criminalità organizzata mantengano vivi i rapporti con il consesso di appartenenza. Questo regime può ben giustificare più penetranti limitazioni all’esercizio dei diritti, ma mai oltre certi confini. Solo puntuali esigenze di ordine e sicurezza, che in questo ambito hanno senz’altro maggiore peso, possono infatti giustificare le limitazioni all’esercizio dei diritti. E, comunque, al decremento di tutela di un diritto fondamentale deve corrispondere un incremento di tutela di altro interesse di pari rango. Altrimenti la limitazione si riduce in mera afflizione ulteriore, come tale in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Il dibattito sul 41 bis si è riaperto anche con il caso Cospito, l’anarchico ristretto al carcere duro che da mesi è in sciopero della fame contro la misura nei suoi confronti. Che confini deve avere il 41 bis? Se ne fa un uso eccessivo? È un regime che va applicato con attenta analisi della ricorrenza dei presupposti. Ad ogni modo la determinazione ministeriale è quasi un atto dovuto dopo un vaglio di plurime autorità giudiziarie e di polizia. Ed è fondamentale la previsione che permette al destinatario del provvedimento di richiederne la revisione ricorrendo al giudice. È una garanzia fondamentale contro l’eventuale uso distorto dell’istituto. Per concludere parliamo di carceri. Come lei sa bene, il 2022 è stato l’annus horribilis dei suicidi - 84 persone si sono tolte la vita in cella - eppure il governo sembra voler rispondere al più immaginando la costruzione di nuove prigioni. Cosa serve, invece, al sistema penitenziario italiano? Non credo che la soluzione stia nella costruzione di nuove carceri. Bisognerebbe investire sul “trattamento”, rendere il carcere un luogo dove sia veramente possibile intraprendere percorsi di reinserimento sociale, garantendo condizioni dignitose per chi vi opera e per chi vi è detenuto. Cercando, finalmente, di far prevalere l’idea che la legittima risposta di giustizia debba essere anzitutto tesa a responsabilizzare in vista del futuro. “Il divieto di affettività configura una violenza fisica e morale al detenuto”. Ora la parola alla Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2023 Il tema del divieto della sessualità in carcere sarà nuovamente sollevato davanti alla Corte Costituzionale. Ma questa volta con argomentazioni diverse che prima non erano state prese in considerazione. A sottoporre la questione di legittimità innanzi alla Consulta sul divieto ai detenuti, derivante dall’applicazione dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, di fare sesso con i loro partner, in quanto tale divieto potrebbe colpire i diritti costituzionali, è il magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi. Nel sollevare la questione, il magistrato ha ritenuto precisare, in ordine alla rilevanza della stessa nel procedimento, che il detenuto si duole del divieto, derivante dall’attuale normativa, di poter disporre di spazi di adeguata intimità, anche per esercitare la sessualità con la compagna, nel momento in cui gli è consentito di svolgere con la stessa i colloqui visivi che prevedono la costante sottoposizione al controllo visivo della polizia penitenziaria. L’ordinamento penitenziario tutela in modo peculiare, in particolare mediante i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica, i rapporti dei detenuti con i congiunti, e tra questi certamente figura la persona convivente, con ricostruzione pacifica per l’amministrazione penitenziaria (art. 37 co. 1 reg. es. ord. penit.), di recente trasfusa nella disposizione di cui all’art. 1 comma 38 della legge 76/ 2016, secondo la quale “I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario”. Anche la legge in materia di colloqui telefonici, individua come categoria di soggetti il coniuge, la componente dell’unione civile, la persona stabilmente convivente o legata all’interessato “da relazione stabilmente affettiva”. Quindi è ben evidenziato chi è il soggetto riconosciuto nell’affettività. Ma nella stessa è vietata una relazione intima. E il detenuto reclamante, attualmente, non può godere nemmeno dei “permessi premio” che possono raggirare fittiziamente il divieto. Ovvero mantenere la sessualità all’esterno del carcere. Come sottolinea il magistrato di sorveglianza, a ogni modo, tale soluzione, non sembra esente da critiche (la Corte Costituzionale, non a caso, nella questione sollevata nel passato, aveva fatto cenno al fatto che il permesso premio costituisse una soluzione del problema solo parziale), “poiché determina la conseguenza di spostare il piano dell’esercizio di un diritto che, come si proverà a dire, appare da annoverare tra quelli fondamentali della persona, verso l’orizzonte della premialità precludendolo a chi si trovi nella condizione del condannato, e per diverse ragioni ai detenuti in custodia cautelare o a chi non abbia ancora maturate le quote di pena previste dagli art. 30- ter e quater ord. penit. per l’ammissibilità della richiesta”. Il magistrato di sorveglianza, ribadiamolo, ha le mani legati. Non può concedere la sessualità in carcere. E infatti nella questione sollevata alla Consulta, sottolinea che ha potuto già verificare la rispondenza dell’agire dell’amministrazione a disposizioni normative che, in particolare nell’art. 18 comma dell’ordinamento penitenziario, impongono di interdire momenti di intimità, specialmente di tipo sessuale, durante il colloquio visivo. Il divieto della sessualità in carcere ha le sue conseguenze. Lo stesso magistrato Gianfilippi, scrive nero su bianco che è lesivo anche sotto il profilo dell’umanità della pena, “poiché si impone una limitazione cosi pregnante di una componente essenziale della vita di ogni persona, che va ad aggiungersi alla privazione della libertà un sicuro surplus di afflittività, non sempre necessitata da ragioni di sicurezza, ma anche dal punto di vista della finalità rieducativa delle pena”. E che quindi ne derivano conseguenze desocializzanti che, piuttosto che fare del tempo vissuto in carcere una occasione per costruire e irrobustire relazioni socio- familiari esterne in grado di far da rete efficace alle fragilità personali che inevitabilmente conseguiranno alla restituzione di un detenuta alla società, “corrono il rischio - scrive il magistrato - di prepararne una maggior solitudine e una insicurezza personale più spiccata, connessa al mancato esercizio del proprio ruolo naturale all’interno di una relazione di coppia che, viceversa, ove vissuta o ritrovata nella sua pienezza, potrebbe far da volano alla risocializzazione della persona”. Il magistrato di sorveglianza è chiarissimo nell’esposizione e scrive senza mezzi termini che una “imputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività, finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta”. Stefano Anastasìa, coordinatore dei garanti territoriali, accoglie con entusiasmo la questione sollevata alla Corte Costituzionale. E ricorda che “quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato”. Anastasia conclude sottolineando che “alla suprema corte, il giudice di Spoleto rivolge un quesito che è insieme giuridico e morale: a vietare i rapporti sessuali, poi, non si contravviene allo spirito della Costituzione sulla protezione della famiglia, anche quella di un condannato?”. Ricordiamo che due proposte di legge, avanzate dai Consigli regionali di Toscana e Lazio, in discussione in Senato nella passata legislatura, non hanno concluso l’iter. La proposta di legge approvata con una mozione del Consiglio regionale del Lazio, in particolare, è partita dalla ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, realizzata con la condivisione e il supporto del Garante dei detenuti e della Presidenza del Consiglio regionale, “Affettività e carcere. Un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte”, i cui risultati sono stati raccolti nel libro di Sarah Grieco, la ricercatrice che ha coordinato lo studio, “Il diritto all’affettività delle persone recluse”. È intervenuto anche il garante dei detenuti della regione Umbria Giuseppe Caforio, sottolineando che sarebbero tante, in Italia, le persone pronte a chiedere di avere rapporti con il proprio compagno o la propria compagna: una questione annosa e già affrontata parecchie volte in passato. Poiché l’Italia risulta essere tra i pochi paesi europei ad applicare il divieto, secondo il garante regionale sarebbe arrivato il momento di impugnare la normativa. Un dato fa riflettere: tra le province di Perugia e di Terni la popolazione carceraria avrebbe un’età media abbastanza bassa, essendo composta da diversi giovani con età compresa tra i venti e i quarant’anni. In tanti avrebbero delle aspettative sessuali che, quando non soddisfatte, possono generare episodi di violenza. Ragazzi dentro: più formazione meno farmaci di Alessandra Ventimiglia La Discussione, 19 gennaio 2023 Sempre più gravi le condizioni nelle 17 carceri minorili. Il 2022 è stato un anno difficile per il mondo del carcere: record di suicidi, proteste, incendi dolosi ed evasioni, che non hanno risparmiato neanche gli istituti penitenziari minorili, come il Beccaria di Milano e Casal del Marmo a Roma. La recentissima rivolta, questa volta nel carcere minorile romano, ci costringe ancora una volta a esaminare la grave situazione all’interno di molte istituzioni penitenziarie per minori. La causa dell’incidente sembrerebbe attribuibile a un ritardo nella distribuzione dei farmaci, per lo più ansiolitici. Nel caos generatosi si è sarebbe sviluppato un incendio, di natura dolosa stando alle prime indagini degli inquirenti. Secondo l’associazione Antigone “nel 2022 è emerso che il 43% dei detenuti adulti assume sedativi o ipnotici, mentre il 20% risulta assumere regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi”. Numeri che farebbero presumere un ricorso agli psicofarmaci forse troppo disinvolto o come palliativo di problematiche, come la tossicodipendenza, che andrebbero trattate più specificamente. E se il fenomeno fosse nei numeri identico anche nelle carceri minorili significherebbe non considerare le conseguenze a lungo termine sulla salute mentale dei giovani detenuti. “Chiedono farmaci in continuazione, è una costante del carcere, i ragazzi lo chiamano il “carrello della felicità” - dichiara la Garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni. Non si tratta di grandi terapie trattandosi di minori e sempre dietro prescrizione medica, per lo più ansiolitici e calmanti, ma spesso ne abusano, li mischiano oppure li mettono da parte”. È possibile che questi farmaci vengano adoperati come mezzo per sedare i reclusi, anziché per curare veri e propri disturbi mentali. Un fatto che preoccupa profondamente, perché può anche rendere più difficile il loro reinserimento nella società. In molti casi i giovani reclusi vengono dimessi dalle carceri senza alcun supporto o trattamento per le patologie che presentano, causa spesso della reiterazione dei reati. Le comunità e i centri di riabilitazione in cui sono inseriti dovrebbero offrire diversi servizi, quali l’istruzione e l’educazione, ma molte di queste strutture non riescono a garantirli, rendendo inutile la reclusione e il percorso riabilitativo. “Negli istituti penali per minorenni, così ormai impropriamente definiti visto che l’età degli ospiti può spingersi fino a 25 anni, insistono gravi problemi, di natura organica, gestionale, organizzativa e persino legislativa, ma la soluzione non può essere, come da alcuni sostenuto, la soppressione del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità”, ha dichiarato pochi giorni fa Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria, commentando l’incendio appiccato dai detenuti del carcere di Casal del Marmo. Maggiore trasparenza e controlli, dunque, sull’utilizzo dei medicinali all’interno delle carceri minorili e misure che garantiscano che vengano utilizzati solo quando strettamente necessari e in modo appropriato. Ma le difficoltà sono anche altre. Se la durata della pena è lunga e vengono superati i 25 anni di età, i ragazzi sono trasferiti nelle carceri per adulti. La convivenza lì è difficile e i continui spostamenti rischiano di far perdere loro anche il contatto con le famiglie. I trasferimenti possono portarli molto lontano dove le famiglie non possono andarli a trovare per le loro condizioni di povertà. Alcuni, poi, sono stranieri, con le famiglie restate nei Paesi di origine. Gli incendi appiccati negli ultimi tempi sono una reazione, un segno di disagio e un modo per farsi sentire e alzare la voce. Ad oggi le carceri minorili in Italia sono 17. La struttura con più detenuti è quella di Nisida, con circa 45 detenuti. Si tratta, quindi, di strutture con pochi detenuti, se si pensa che alcune di esse arrivano a ospitare anche solo un paio di detenuti. Ciò dovrebbe comportare una maggiore semplicità nella gestione dei singoli detenuti. Ma così non è. L’obiettivo principale resta quello di implementare i percorsi formativi ed educativi soprattutto per i più giovani, dar loro la possibilità di crescere e di arricchirsi all’interno di spazi appositamente creati per le loro esigenze. Uno, nessuno e Carlo Nordio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 gennaio 2023 Il ministro in Senato si corregge sulle intercettazioni. Sul programma le promesse sono garantiste, ma la maggioranza non lo è affatto. E il Guardasigilli deve rettificare gli annunci e poi smentirsi nei fatti. Alla relazione sullo stato della giustizia con la quale da quasi vent’anni il ministro guardasigilli inaugura l’anno giudiziario, Carlo Nordio è arrivato ieri avendo già abbondantemente provveduto in interviste, dichiarazioni e audizioni parlamentari a dispensare i suoi ampi propositi. In termini in realtà ancora molto generici, come ha confermato ai senatori ieri mattina affermando “il fermo proposito di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale”. Ascoltando lui e ancor di più ascoltando la sua maggioranza è apparso chiaro che il ministro è al centro di due spinte per nulla conciliabili. Forza Italia gli chiede di passare dalle alate professioni di garantismo a provvedimenti concreti - nei quali peraltro poco si distingue l’interesse generale da quello di partito - Lega e Fratelli d’Italia al contrario ne esaltano il tratto di uomo d’ordine che deve abolire il reato di tortura e rimettere in riga una magistratura troppo politicizzata. Probabilmente Nordio è il volto pubblico perfetto di queste contraddizioni, capace com’è di tenere insieme, in una nebbia di citazioni erudite, slanci teorici inappuntabili e mosse concrete all’insegna della solita giustizia di classe. Così si è intestardito in una battaglia contro l’eccesso di intercettazioni mentre le autorizzava per decreto persino contro i rave, ha motteggiato sull’abuso del penale mentre esordiva con la creazione di un ennesimo reato “per dare un segnale”, ha distillato perle su diritti e garanzie prestandosi al trasferimento, di nuovo per decreto, del potere di sequestro delle navi delle Ong dall’autorità giudiziaria a quella governativa prefettizia, si è impegnato anche con gesti simbolici per le carceri e poi ha acconsentito al taglio delle risorse in legge di bilancio per penitenziari e agenti di custodia. In questa confusione la disputa sulla giustizia è il terreno ideale per dispute assai poco concrete. Si litiga sulle etichette, o magari si va anche d’accordo, come ha fatto ieri il partito di Renzi e Calenda che ha avuto gioco facile a posizionarsi dalla parte di un astratto garantismo. La sua risoluzione, che impegna il governo ad andare avanti con quanti “condividono l’obiettivo di un’azione riformatrice di matrice liberale e garantista” è stata accolta e approvata dalla destra, assieme a quella più scarna della maggioranza. L’invito a Nordio a essere conseguente poco prima era arrivato in termini anche più perentori dal senatore di Forza Italia Zanettin: “La invitiamo, signor ministro, a cominciare a portare in parlamento le riforme che lei finora ha così magistralmente annunciato. Ora è necessario che comincino ad arrivare i testi”. Perché questo accada realmente, però, bisognerebbe che le opposte spinte di maggioranza trovassero un punto di convergenza che al momento non c’è. Sulle intercettazioni - “annosa questione”, ha meditato il ministro, prima di citare sull’argomento sia Shakespeare che (sarà contento Sangiuliano) Dante - Nordio in imbarazzo per le dichiarazioni dei pm che hanno dato la caccia a Messina Denaro ascoltando i colloqui dei suoi parenti, ha dovuto una spiegazione: “Quelle per mafia e terrorismo non saranno toccate”. Lui stesso, quando aveva detto in tv che “la mafia non parla al telefono”, non intendeva demolire le intercettazioni “preventive”, che servono a indagare, ma quelle “giudiziarie” che, sostiene, non “servono a ricercare una prova ma si vuole che siano esse stesse una prova” e che “coinvolgono persone non indagate”. La confusione è grande, visto che evidentemente questa differenza riguarda l’utilizzo delle intercettazioni più che la loro attivazione. Soprattutto riguarda non l’utilizzo ma la diffusione sui media. Che può certamente essere illecita, ma la riforma c’è già stata (Orlando) e si tratterebbe di applicarla seriamente e verificarne gli esiti. Però in replica il ministro ha voluto tenere il punto. Sulle intercettazioni, ha detto, “non vacilleremo e andremo fino in fondo”. Si riferiva però solo (citando “il grande Richelieu”) alle intercettazioni fatte con i trojan, sulle quali problemi sono emersi anche nelle audizioni in commissione. Altri impegni precisi per la verità il ministro non li ha presi, se non quello di rispettare - mancherebbe - le scadenze del Pnrr che prevede forti contrazioni dei tempi dei processi sia nel civile (-40%) che nel penale (-25%) attraverso interventi sull’organizzazione e non sull’ordinamento giudiziario. Impossibile, almeno dalla relazione in aula, capire in concreto le intenzioni, pure tutte rilanciate (se non ieri, l’altro ieri), su abuso d’ufficio, prescrizione e procedibilità d’ufficio per i reati minori quando aggravati dal metodo mafioso. Ribadita infine l’intenzione con la quale il ministro si presentò al giuramento al Quirinale di riformare l’impianto complessivo del codice penale, “ma nel lungo periodo” (nel quale “saremo tutti morti”, qui però la citazione di Keynes è mancata). Nordio 1 vs Nordio 2: come l’arresto di Messina Denaro ha ribaltato la linea del ministro di Alessandro De Angelis huffingtonpost.it, 19 gennaio 2023 Il guardasigilli va in aula e sulle intercettazioni dice il contrario di quello che aveva detto in commissione. Poi cancella trojan e separazione delle carriere. Il ministro, Carlo Nordio è sempre lo stesso. Solo che c’è Nordio 1 che in tv, pochi giorni fa, aveva sentenziato che “i mafiosi non parlano a telefono”. E oggi in Parlamento - in gergo si chiama toppa - ha spiegato, a mo’ di precisazione, che al telefono ci parlano, ma non dei loro reati (tesi che comunque non regge perché proprio dall’ascolto dei sodali di Matteo Messina Denaro si sono trovate le tracce necessarie all’arresto). E poi c’è Nordio 2, sempre lo stesso ministro, non un altro, che in commissione, nello stesso Parlamento, non in un altro, aveva denunciato “l’uso eccessivo e strumentale” delle intercettazioni annunciando una stretta, in particolare legandola a interventi sul carcere (“Spendiamo 200 milioni sulle intercettazioni, mentre non abbiamo soldi per fare misure contro i suicidi”). E oggi in Aula si limita solo a stigmatizzare la pubblicazione di quelle che riguardano persone non coinvolte dalle indagini senza tuttavia minacciare interventi “rigorosi” verso chi le pubblica, come pure aveva detto il Nordio 1. E, sempre a proposito di Nordio 2, è scomparso il riferimento all’“inciviltà del trojan”, all’eccesso di custodia cautelare, usata come “pressione investigativa” e “intollerabile arbitrio”. E pure alla separazione delle carriere. Alla fine i due interventi - che logica avrebbe voluto come speculari ed entrambi chiarificatori di una medesima linea, di un medesimo programma, di una medesima visione del ministro (che Giorgia Meloni avrebbe voluto al Quirinale) e del governo - risultano due interventi sensibilmente diversi, di cui il secondo correttivo del primo. È uno schema che si ripete e sta diventando il leitmotiv del governo, questo iato tra annunci facili e principio di realtà, nel momento in cui esso irrompe. Con conseguente brusca retromarcia, come sui rave, sui Pos, sul contante, sulla benzina, sui porti chiusi che sono diventati aperti, sia pur itineranti. In questo caso l’irruzione del principio di realtà è l’arresto di Messina Denaro e, con esso, la scoperta della sua dorata e spregiudicata latitanza, l’indagine sulla vasta rete di fiancheggiatori, insomma, con tutto il corollario di fatti (con la testa dura) che richiamano questioni fondamentali. Di cui diventa impossibile non prendere atto, dopo l’iniziale vacillamento nella discussione politicante: dalla funzione del 41bis all’uso delle intercettazioni, non solo per mafia e terrorismo, ma anche per i “reati spia”. Anche la discussione sul l’ergastolo ostativo, su cui Giorgia Meloni ha sempre avuto una posizione intransigente anche rispetto a pezzi della sua maggioranza, risente del dato climatico per cui il ministro dell’Interno, di fronte al proliferare di dietrologie su un’eventuale trattativa - l’ammorbidimento dell’ergastolo ostativo in cambio della cattura di Messina Denaro - si dice pronto a “cambiare la Costituzione” per far passare norme più stringenti di quelle appena varate per superare l’incostituzionalità dichiarata dalla Consulta. Che comunque blande non sono affatto - in un ordinamento per cui la pena ha una funzione anche rieducativa e non solo punitiva - e che di fatto rendono estremamente difficile uscire per chi è condannato all’ergastolo ostativo. E se i passi indietro, stavolta sul terreno del garantismo, cominciano a essere considerevoli nel numero, la parola realtà non basta a spiegarli senza che, inevitabilmente, l’analisi precipiti sul tema della “visione” e dalla “cultura politica” di un governo che, nella successione dei “vorrei ma non posso”, pare subire gli eventi anzi determinarli. Se, nello specifico, il tema fosse stato “sì alle intercettazioni, no agli abusi”, l’arresto di Messina Denaro non avrebbe spostato di una virgola la linea, mentre l’infelice battuta e il velleitarismo con cui il titolare della giustizia ha posto il tema dopo la retromarcia rende complicato affrontare anche il tema degli abusi. Così come la cavalcata mediatica sull’ergastolo ostativo, evocando modifiche alla Costituzione, rischia di esporre il governo all’ennesima percezione di una retromarcia o di uno spot senza conseguenze, nel momento in cui quelle modifiche - numeri e condizioni non ci sono nemmeno nella maggioranza - saranno impossibili da fare. E ci risiamo coi fatti. Affondo sulle intercettazioni. Nordio: “Non vacilleremo sugli abusi”. Ma la destra si spacca di Francesco Grignetti La Stampa, 19 gennaio 2023 Dalla Lega a Fdi crescono i malumori sulle limitazioni ai pm. Gli spifferi corrono. Le voci di dissidi nella maggioranza si accavallano. Forse la riforma della giustizia e delle intercettazioni, come l’aveva delineata il ministro Carlo Nordio, subirà più di un ripensamento. Specie dopo il successo investigativo di Palermo, con la premier Giorgia Meloni che si precipita in Sicilia, si fa fotografare tra i carabinieri, spiega al mondo come alla figlioletta che “è il successo dei buoni contro i cattivi”, e poi certo non ha alcuna intenzione di entrare in conflitto proprio con i magistrati, eroi positivi di questa vicenda. Perciò da giorni si sente dire nel centrodestra che la riforma delle intercettazioni slitterà a tempi migliori. Qualcuno è esplicito al riguardo. Tommaso Foti, il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, inviato a parlare nella trasmissione Agorà, alla domanda se il reato di corruzione sia un reato sul quale bisogna adoperare l’intercettazione come strumento di indagine, ha risposto seccamente: “Sì”. Oppure si ascolti il senatore indicato dalla Lega per intervenire in Aula, Manfredi Potenti: “Si è dimostrato intangibilmente come questo strumento sia indispensabile e insostituibile proprio per la lotta alla criminalità”. E di contro sale il mugugno di Forza Italia, che vedeva dietro l’angolo uno storico successo, con le intercettazioni ridotte al minimo indispensabile, e di nuovo tornate un tabù intoccabile per chi crede in legge e ordine a destra come a sinistra. Ecco, se queste sono le premesse, si capisce allora la veemenza con cui il ministro Guardasigilli, ieri al Senato, svolgendo la relazione annuale sull’andamento della giustizia, ha battuto virtualmente i pugni sul tavolo: “Non vacilleremo né esiteremo. Andremo avanti fino in fondo”. In realtà Nordio è stato sulla difensiva tutto il tempo. “Non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni sulla mafia e sul terrorismo”. Il punto è che la discussione non verte su mafia e terrorismo, ma sul resto. Sui cosiddetti reati spia, per dire. Sono intercettazioni “indispensabili”, dicono i magistrati. L’ha detto ieri il Superprocuratore antimafia, Gianni Melillo. L’ha ripetuto il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia, ospite di Metropolis sui siti Gedi: “I boss parlano, eccome se parlano. Le intercettazioni - ribadisce il magistrato - sono ambientali e telematiche, non solo al telefono. È un tema ineludibile: senza intercettazione i processi di mafia non si possono fare”. E un autorevole ex come Giancarlo Caselli è bruciante: “Le parole di Nordio non stanno né in cielo né in terra. I mafiosi parlano. Le intercettazioni siano rispettate da tutti, a partire dal ministro”. Su queste parole si arroccano le opposizioni, ma anche ambienti della maggioranza, dove molti considerano un po’ spericolata la sua frase “tanto i mafiosi non parlano al telefono”. Lui lo sa e ne è piccato. Perciò ci torna sopra alla Camera e scandisce: “Alludo al fatto che ritengo che nessun mafioso abbia manifestato al telefono la volontà di delinquere, o comunque espresso delle parole che costituiscono prova di un delitto in atto, in progressione o programmato”. Detto questo, anche Nordio, che è stato per decenni magistrato a Venezia, pensa che le intercettazioni siano indispensabili, specie contro l’ala militare delle mafie. “Ciò di cui abbiamo bisogno delle intercettazioni - dice - sono i movimenti delle persone sospettate di criminalità, terrorismo e altri reati gravissimi. Serve la capacità di comprendere attraverso le intercettazioni quali sono i rapporti occulti che legano queste persone ad altre. Per questo le intercettazioni, anche quelle preventive e non quelle giudiziarie, sono indispensabili”. C’è poi il caso spinoso del trojan, su cui sta indagando la commissione Giustizia. Alcuni esperti hanno paventato la possibilità di manipolare le intercettazioni e la messaggistica da parte degli intercettatori. Annuisce Nordio: “Non è una novità. Richelieu diceva: Datemi una lettera e un paio di forbici e io farò impiccare l’autore”. Non proprio una prova di fiducia per le toghe, anzi. “Si è potuto fare anche successivamente con la tecnologia del taglia e incolla delle conversazioni digitalizzate. Oggi con il trojan si può fare molto peggio”. In definitiva, Nordio non intende deflettere dal proposito di intervenire. Solo che ora pare concentrarsi sulla pubblicazione delle intercettazioni, scagliandosi contro quelle che “coinvolgono persone non imputate né indagate e che, attraverso un meccanismo perverso e tra l’altro costosissimo di diffusione pilotata, finiscono sulla stampa e sui giornali e delegittimano e offendono cittadini che non sono minimamente coinvolti nelle indagini”. Il resto della riforma, che richiederà tempi lunghi, resta quello annunciato: separazione delle carriere, riforma costituzionale sulla discrezionalità dell’azione penale, un nuovo codice penale che sostituisca il Codice Rocco. Ma è sulle intercettazioni che si scalda l’Aula. Dice Anna Rossomando, Pd: “C’è una continua confusione tra la pubblicazione del contenuto e l’impiego dello strumento”. E le grilline Valentina D’Orso e Ada Lopreiato: “Le acrobazie del governo sono ormai all’ordine del giorno”. La “riforma” di Nordio piace anche ai renziani. Pd e 5S al fianco dei pm di Valentina Stella Il Dubbio, 19 gennaio 2023 Il guardasigilli chiarisce la posizione sugli ascolti. Ma tira dritto: ”La rivoluzione copernicana sull’abuso delle intercettazioni è un punto fermo del nostro programma”. “Quando dico che i mafiosi non parlano al telefono alludo al fatto che nessun mafioso ha mai manifestato la sua volontà di delinquere o ha espresso parole che siano la prova di un delitto in atto oppure in progressione o ancora programmato”: il Guardasigilli Carlo Nordio in Senato, durante la sua prima relazione sullo stato della giustizia in Italia, inevitabilmente ha dovuto marcare l’accento sulla questione delle intercettazioni e correre ai ripari dopo la frase di qualche giorno fa che molte perplessità aveva suscitato: “Crediamo veramente che la mafia parli per telefono? Un mafioso vero non parla né al telefono, né al cellulare perché sa che c’è il trojan, né in aperta campagna perché ci sono i direzionali”, aveva detto a La7. Troppe le polemiche seguite da parte di chi accusa il Governo di voler privare la lotta alla mafia di uno strumento indispensabile. Da qui la necessità di chiarire: “Non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo”. Ha chiarito poi che esse servono soprattutto per individuare “i movimenti delle persone sospettate di mafia, terrorismo”. “Anche quelle preventive sono indispensabili - ha aggiunto -. Altra cosa sono le intercettazioni giudiziarie che coinvolgono persone che non sono né imputate né indagate e che attraverso un meccanismo perverso e pilotato finiscono sui giornali e offendono cittadini che non sono minimamente coinvolti nelle indagini”. Pertanto “la rivoluzione copernicana sull’abuso delle intercettazioni è un punto fermo del nostro programma”. Da qui il solito richiamo ai principi ai quali crede di più: “Il nostro fermo proposito è di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale. Realizzeremo la tutela della presunzione di innocenza della persona, assicurandone la dignità e l’onore durante le indagini e il processo. E parallelamente assicureremo la certezza della pena. Una pena che non coinciderà sempre e solo con il carcere, ma che sarà comunque afflittiva, certa, rapida, proporzionata, e orientata al recupero del condannato, secondo il nostro dettato costituzionale”. Nel suo discorso non poteva mancare un riferimento ai suicidi in carcere che costituiscono un “fardello di dolore. Stiamo lavorando per ridurre questo fenomeno comune nel mondo ma che in Italia ha assunto toni di estremo allarme”. Tra le linee di intervento Nordio ha indicato “l’aumento dei posti disponibili e la riduzione del sovraffollamento delle carceri” e il “massimo impulso” che si intende dare “all’’implementazione degli spazi” per le attività di trattamento nei confronti dei detenuti, con l’occhio rivolto soprattutto al lavoro, che in carcere è uno “strumento fondamentale per rieducazione del detenuto”. Al termine della Relazione è iniziata la discussione generale in Senato. Anatema ovviamente da Pd e M5s. “Esprimiamo delusione per la relazione del ministro Nordio - ha esordito il dem Walter Verini. Ciò che è stato fatto, con l’approvazione di riforme importanti nella scorsa legislatura, va salvaguardato. Il governo dovrebbe lavorare per l’attuazione di quelle riforme. Invece riproporre questioni divisive, evocare un diverso uso delle intercettazioni, rimettere in discussione i termini della prescrizione e altro rischiano di riproporre uno scontro tra politica e magistratura che pensavamo fosse superato. Siamo con il procuratore Melillo quando dice che le intercettazioni sono fondamentali per colpire reati gravi e importanti, anche non di mafia”. Parole dure anche da parte del senatore pentastellato Roberto Scarpinato: “La nostra valutazione è assolutamente negativa del suo programma, la nostra idea della giustizia, la nostra stella polare è la Costituzione antifascista del ‘48 imperniata sull’uguaglianza dei cittadini, mentre lei ha dimostrato con le sue esternazioni di non apprezzare l’assetto della giustizia voluta dai padri costituenti. Lei - ha proseguito - vuole una giustizia pre-repubblicana, forte con i deboli e debole con i forti”. Plausi invece dalla maggioranza, ca va sans dire. “Il ministro Nordio ha il nostro pieno sostegno, finalmente la giustizia italiana è nelle mani di una persona competente”, ha affermato il senatore di Fratelli d’Italia Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama. “Con questo governo e questa maggioranza abbiamo davvero la possibilità di costruire una svolta storica per la politica giudiziaria del Paese - ha detto il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin - dopo che, da Mani pulite in poi, abbiamo vissuto troppe stagioni improntate al giustizialismo manettaro, culminate da ultimo in quel dicastero Bonafede che ci ha trascinato nelle tenebre giuridiche del fine processo mai e dei trojan di Stato estesi anche ai reati contro la P.a”. Anche il Terzo Polo si pone accanto - con riserva - al Guardasigilli: “Noi la appoggeremo, perché pensiamo che attraverso la sua visione andiamo ad implementare una giustizia che assomiglia alla Repubblica Italiana che i nostri costituenti avevano in mente e che poi nel tempo non si è pienamente realizzata. E tuttavia non ci pare accertato che la sua maggioranza sia in linea con la sua visione garantista: lo provano il nuovo reato sui rave party”, ha dichiarato in aula il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto. L’Aula del Senato al termine ha votato a favore delle risoluzioni 3 e 5, presentate dalla maggioranza (firma Malan, Romeo, Ronzulli e De Poli) e del terzo polo, (Paita, Gelmini, Calenda e altri), depositate al termine della relazione sulla giustizia. Per la risoluzione di maggioranza i sì sono stati 95, 55 contrari e 7 astenuti. Mentre la risoluzione presentata da Az-Iv ha ottenuto 100 voti a favore, 54 contrari e 4 astenuti. La giustizia è ancora il vero inciampo del governo Meloni di Giulia Merlo Il Domani, 19 gennaio 2023 Dalla cattura del mafioso Matteo Messina Denaro allo scivolone sulla nomina dei laici del Csm il passo è brevissimo. La giustizia rimane il settore più scivoloso per il governo Meloni: strumento di propaganda ma anche causa di profondissime divisioni nella maggioranza, dove convivono sensibilità molto diverse. Il diritto penale dà grande visibilità ma anche trascinare in polemiche da emicrania e ne sa qualcosa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che nella sua relazione al Senato ha dovuto ritornare sul tema delle intercettazioni. Il suo obiettivo è quello di ridimensionarle, riducendo i reati per cui sono consentite, limitando la spesa e bloccandone la pubblicazione. Gli applausi per lui, però, si sono zittiti proprio con l’arresto del boss latitante: i magistrati hanno ricordato quanto le intercettazioni siano state fondamentali, e le opposizioni lo hanno attaccato. “Risposte date da un sordo a delle domande che nessuno gli pone”, si è difeso il ministro, citando Shakespeare. Ha detto che le riforme “non toccheranno le intercettazioni sulla mafia e sul terrorismo” e dato lettura autentica delle sue stesse parole: “Quando ho detto che i mafiosi non parlano per telefono, alludo al fatto che ritengo che nessun mafioso abbia manifestato al telefono la volontà di delinquere, o comunque detto cose che costituiscono prova di un delitto in atto o programmato”. Anche sul carcere il ministro ha dovuto mitigare il suo storico garantismo, dopo che la premier, Giorgia Meloni, ha rivendicato il mantenimento del carcere duro come uno degli strumenti che hanno permesso la cattura di Messina Denaro. “Assicureremo la certezza della pena, che non coinciderà sempre solo con il carcere, ma che sarà comunque afflittiva, certa, rapida, proporzionata e orientata al recupero”, ha detto Nordio in aula e proprio il termine “afflittiva” rappresenta il ridimensionamento delle sue posizioni. Alla luce delle tante divisioni sul penale che potrebbero metterlo in minoranza nella sua stessa maggioranza, il ministro ha scelto la prudenza ed enfatizzato priorità meno mediatiche e più concrete: “Accelerare e razionalizzare la nostra giustizia civile e ridurre l’impatto negativo nei confronti della nostra economia”. Il pasticcio Csm - Tuttavia, la giustizia rimane il terreno dei maggiori inciampi del governo e l’ultimo dovrebbe trovare parziale rimedio oggi. L’elezione dei membri laici del Csm - quattro su dieci in quota Fratelli d’Italia, di cui tre donne - ha mostrato l’inesperienza del governo nel gestire un passaggio d’aula spinoso. A gestirlo insieme a Meloni è stato Ignazio La Russa, nonostante il ruolo istituzionale di presidente del Senato che da subito gli è andato stretto, il quale è stato ispiratore di almeno due nomi su quattro per FdI e ha fatto da collante nella gestione delle trattative con le minoranze. Tuttavia la sbavatura è stata clamorosa, con il ritiro in corsa del nome forte dell’ex sottosegretario Giuseppe Valentino - dopo la notizia di possibili indagini a suo carico nell’ambito di un’inchiesta per ‘ndrangheta a Reggio Calabria - e la mancata elezione immediata del professore siciliano vicino all’Msi, Felice Giuffrè. Un pasticcio anche perchè il candidato di minoranza e outsider per la corsa della vicepresidenza, il professore pisano Roberto Romboli espresso dal Pd, è stato il più votato con 531 voti, superando anche il primo laico di centrodestra, l’azzurro Enrico Aimi che ne ha totalizzati 517. Una magra consolazione per gli azzurri, che hanno incassato un solo eletto e in molti si sono lamentati sia dell’ingordigia di FdI nel pretenderne 4, ma hanno anche criticato la gestione interna della trattativa. Storicamente se ne occupava il compianto Niccolò Ghedini e in questa tornata se ne sono disinteressati i parlamentari più esperti, come il viceministro Francesco Paolo Sisto e il capogruppo in commissione al Senato, Pierantonio Zanettin. Risultato: la pratica sarebbe stata gestita dalla capogruppo al Senato, Licia Ronzulli, poco addentro alla materia e non in grado di blandire gli alleati per spuntare il nome in più. Per questo si è deciso di correre ai ripari: visti i numeri, con i candidati delle opposizioni eletti meglio del previsto e tanti franchi tiratori sui nomi del centrodestra, la seduta comune del parlamento è stata anticipata ad oggi, per eleggere Giuffrè nell’ultimo posto mancante. Doveva avvenire martedì prossimo, ma in una settimana possono di cambiare molte cose. La sollecitazione per anticipare sarebbe arrivata anche dal Quirinale, che presiede il consiglio e vorrebbe il nuovo Csm operativo il prima possibile, dopo quattro mesi di stand by tra l’elezione dei membri togati e dei laici, visto anche che il 26 gennaio è in programma l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Sulla carta non dovrebbero esserci intoppi: il Pd ha assicurato che manterrà i patti e voterà Giuffrè e così dovrebbe fare anche il terzo polo. Tuttavia, per FdI sembra sfumata la presidenza dell’organo di governo autonomo della magistratura, dove si annuncia una corsa a due tra il laico in quota Lega, Fabio Pinelli, e il giurista dem Romboli. Governo garantista? Era solo una pia illusione di Iuri Maria Prado Il Riformista, 19 gennaio 2023 Gli arretramenti in senso anti-garantista della maggioranza di centrodestra possono sorprendere solo chi ingenuamente aveva dato credito a qualche vago proclama liberale di quello schieramento e alla scelta di officiare Carlo Nordio a capo del ministero della Giustizia. In realtà non era nemmeno necessario attendere qualche mese di esercizio esecutivo per capire che la linea di quella maggioranza si sarebbe affidata a una direttiva anche peggiore rispetto a quella del partito delle Procure, vale a dire il risentimento di piazza, violento e plebeo, che fa accantonare i diritti delle vittime dell’ingiustizia in omaggio a quelli della gente “perbene”, la gente che non tira la fine del mese, la gente che si comporta come si deve mentre i criminali e la canaglia la fanno franca: insomma la gente dell’Italia onesta che fa da serbatoio di voti per il demagogo forcaiolo che agita il pugno di ferro, possibilmente ornato di rosario, e reclama quel che dopotutto Giorgia Meloni aveva promesso, garantismo prima del processo (ma quando mai?) e giustizialismo nell’applicazione della pena (sempre). A cominciare dai tormenti del carcere duro e dell’ergastolo ostativo di cui addirittura ci si compiace nel vederli finalmente applicati ai malati di cancro. Evidentemente sul presupposto che quando un pericoloso criminale è arrestato non ci si debba limitare a impedirgli di nuocere: e che compito dell’ordinamento, da rivendicare orgogliosamente, sia invece di farlo soffrire. Che poi di garantismo prima del processo si veda poca traccia, anzi nessuna, e che in questi giorni si assista a intendimenti di involuzione illiberale che riguardano non solo l’esecuzione ma proprio la fase anteriore all’irrogazione della pena, proprio la fase di attivazione del potere punitivo dello Stato, proprio l’area in cui avrebbe dovuto insistere - figurarsi - il già dimidiato approccio garantista della destra Ruspa & Ordine, è solo la riprova di quanto fosse perlopiù apparente e dopotutto contraffattorio il lustro di attenzione ai diritti civili di cui faceva mostra questa destra: e di quanto fosse invece profonda e genuina la completa estraneità di quella tradizione politica alle ragioni dello Stato di diritto incardinato sul rispetto dei diritti individuali, non quelli degli amici e famigli, non quelli dei sodali di partito, ma quelli delle persone sottoposte a giustizia e perciò solo, dunque, in quanto parti deboli, bisognose dell’attenzione garantista. Una patina liberale certificata dalla presenza di un guardasigilli di ottime letture rischia di trasformarsi nel lasciapassare che licenzia controriforme anche più regressive rispetto a quelle che farebbero la felicità del potere togato, e questo proprio perché la subordinazione alla chiama forcaiola e il disinteresse per i diritti delle vittime della giustizia sono per questa destra motivi di indirizzo anche più forti della corrività di sinistra verso la prepotenza del sistema giudiziario. È un giustizialismo insediato e accreditato nella piazza, anziché nei corridoi delle procure e del Csm, e rischia perciò di essere anche più selvaggio. Se il ministro Nordio finge di non sapere che i reati di mafia si scoprono indagando su altro di Gianluca Di Feo La Repubblica, 19 gennaio 2023 “Nessun mafioso ammette reati al telefono”. Nel difendere davanti al Senato la volontà di limitare le intercettazioni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio è arrivato ad affermazioni paradossali e fuori dal tempo. Non si ricordano casi in cui qualcuno abbia ammesso reati al telefono, mafioso o meno: anche l’ultimo indagato per furto conosce la realtà della sorveglianza telefonica, centrale in dozzine di fiction tv. Se parla, lo fa in maniera allusiva. Questo però non significa che le intercettazioni abbiano perso importanza. Perché i boss e i loro fiancheggiatori hanno bisogno di comunicare. Magari usano le chat online: ad esempio Giuseppe Guttadauro, medico e capo del mandamento di Brancaccio, riteneva che Telegram fosse sicura. Oppure si confrontano tenendo i cellulari spenti o affrontando la conversazione solo in luoghi che reputano inviolabili. Esistono però tecniche diverse di intercettazione, che hanno dato e continuano a fornire un enorme contributo alle inchieste. Anzitutto, le microspie e le microtelecamere, nascoste dagli investigatori nelle auto e nei possibili covi. Poi gli strumenti più moderni e invasivi, come i Trojan telematici che una volta inseriti negli smartphone e nei computer permettono di registrare, raccogliere dati e immagini anche quando i telefoni sono staccati. Senza dimenticare che qualsiasi cellulare lascia una traccia - i cosiddetti metadati - che consente di ricostruire movimenti e contatti. Questi meccanismi di indagine raramente forniscono prove contro i boss ma permettono di mettere insieme le tante tessere di un mosaico da cui nascono incriminazioni e processi. È da queste attività investigative che - come ha dichiarato il comandante del Ros - si è arrivati a individuare la patologia di Matteo Messina Denaro. Microspie e Trojan si rivelano ancora più potenti se impiegati nei confronti degli imprenditori, dei professionisti e dei funzionari pubblici che contribuiscono agli affari e ai crimini delle cosche moderne: figure che spesso si ritengono insospettabili e quindi usano cautele minori ma che hanno permesso a mafiosi come il padrino trapanese di proseguire i traffici anche durante la latitanza. Cosa nostra, camorra e ndrangheta sono consapevoli dell’evoluzione tecnologica della vigilanza. Non a caso, spesso fanno bonificare auto e case da specialisti nella caccia alle microspie. E cercano di munirsi di apparati ancora più sofisticati, come gli smartphone criptati che sono al centro di tutte le istruttorie più recenti condotte contro le famiglie del narcotraffico. Il ministro Nordio sembra non essere consapevole di tutto ciò. E ha poi cercato di rettificare le sue dichiarazioni: “Quando si dice che i mafiosi non parlano al telefono alludo al fatto che nessun mafioso abbia espresso al telefono la volontà di delinquere o comunque pronunciato parole che costituiscano prova di un delitto in atto, in progressione o di un delitto programmato”. E questa affermazione forse è ancora più sorprendente. Perché le associazioni per delinquere di stampo mafioso non sono semplici bande che si uniscono per commettere un crimine, ma hanno caratteristiche diverse: gli affiliati possono venire condannati per mafia anche se non hanno mai commesso altri reati. È questo il punto di forza della nostra legislazione, entrato in vigore nel 1982 per volontà di un grande guardasigilli - Virginio Rognoni - che ha messo a frutto la lezione di Pio La Torre, parlamentare del Pci assassinato da Cosa Nostra. Perché l’arresto di Messina Denaro frenerà la “rivoluzione” di Nordio sulle intercettazioni di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 19 gennaio 2023 Una frenata in realtà è in atto da tempo, perché alla fine è Meloni che comanda. E la cultura della premier, se non si può definire giustizialista è di certo ultra-legalitaria e cozza con il rischio che un allentamento dei bulloni la faccia fare franca a qualcuno. Concetto numero 1: “Non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo”. Concetto numero 2: “Le intercettazioni servono soprattutto per individuare i movimenti delle persone sospettate di mafia, terrorismo. Anche quelle preventive sono indispensabili. Altra cosa sono quelle giudiziarie che coinvolgono persone che non sono né imputate né indagate e che attraverso un meccanismo perverso e pilotato finiscono sui giornali e offendono cittadini che non sono minimamente coinvolti nelle indagini”. Concetto numero 3: “Andremo avanti sino in fondo, non vacilleremo e non esiteremo. La rivoluzione copernicana sull’abuso delle intercettazioni è un punto fermo del nostro programma”. In teoria, il 18 gennaio al Senato Carlo Nordio, ha tenuto il punto nella sua battaglia ultra-garantista per una delle riforme per cui si batte da anni e sulle quali ora, da ministro della Giustizia, afferma di non volere recedere (ci sono anche cosucce come la separazione delle carriere dei magistrati e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale). In realtà, però, la sensazione sempre più diffusa è che l’arresto di Matteo Messina Denaro, per l’impatto politico e mediatico che ha avuto, abbia impresso una frenata pressoché definitiva agli intenti rivoluzionari di Nordio in tema di intercettazioni. Una frenata in realtà in atto da tempo, perché alla fine è Giorgia Meloni che comanda e la cultura della presidente del Consiglio, se non si può definire giustizialista, è di certo ultra-legalitaria e cozza d’istinto con il rischio che un allentamento dei bulloni della giustizia la faccia fare franca a qualcuno. Soprattutto se i reati di quel “qualcuno” - i colletti bianchi, i politici, gli amministratori - in molti casi non sono così distinguibili da quelli di mafia. Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, non a caso, ha parlato al Corriere di “borghesia mafiosa” per descrivere “quel mondo amorale al quale appartengono alcuni esponenti delle professioni, della politica e dell’imprenditoria allenati da generazioni a risolvere i problemi attraverso la mediazione di una mafia sempre disponibile”. Certo, resta un po’ un mistero perché Meloni abbia scelto Nordio, se la distanza culturale tra i due è così evidente (la Rassegna se n’era già occupata a fine ottobre), ma è un mistero fino a un certo punto. Alla premier Nordio piace per la sua brillantezza e la sua totale autonomia di giudizio, nonché per la capacità di tenere testa in qualsiasi dibattito a qualsiasi “toga rossa” e di opporsi al pensiero mainstream che tanto la irrita. Se lo propose come candidato del centrodestra alla presidenza della Repubblica, giusto un anno fa, è perché scelte come questa rientrano pienamente nel disegno egemonico meloniano sulla coalizione, il progetto di un grande Partito conservatore che annetta più o meno tutto, lasciando al suo fianco giusto una costola leghista a mo’ di Csu bavarese. E un progetto del genere non può non includere culture più garantiste della sua. Ma per quanto la cotta intellettuale della premier per Nordio sia forte, di fronte ai richiami della foresta e alle urgenze della politica non c’è cotta che tenga. E dunque. come scrive Francesco Olivo su La Stampa, “per Meloni va celebrata la “vittoria dello Stato” e non è il momento quindi per tornare alla stagione degli scontri con i giudici”. Il risultato è che, al di là dei proclami, l’agenda di Nordio dovrà probabilmente cambiare, e che l’idea di limitare fortemente le intercettazioni per i “reati minori” - fattispecie culturale più che giuridica che nell’approccio ipergarantista (soprattutto) di Forza Italia comprende quelli di corruzione - una volta uscita dalla finestra delle intenzioni più o meno buone, rientrerà dalla porta della realpolitik. Finora, in effetti, parole come quelle dell’ex Procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho - “Le intercettazioni il più delle volte non nascono per il contrasto alle mafie. Alle mafie si arriva dopo. Perché le intercettazioni partono dalla corruzione e da altri reati e sviluppandosi su questo binario poi arrivano a tutto quello che c’è dietro” - potevano essere derubricate a uscita di una toga giallorossa entrata nei ranghi parlamentari dei 5 Stelle e quindi di per sé, nell’ottica del centrodestra garantista, non credibile. Ma ora l’importanza dei cosiddetti “reati spia”, che permettono di risalire ad attività criminali prettamente mafiose, viene ribadita con gli stessi concetti dal successore di Cafiero. In una lunga intervista a La Repubblica, Giovanni Melillo fissa punti che, nella nuova temperie inaugurata dall’arresto del boss trapanese, per Nordio sarà molto difficile smuovere. Dunque, spiega il Procuratore: “Si tratta di un campo delicato e complesso che interroga tutti i sistemi nazionali. Innanzitutto perché nell’era digitale nelle indagini e nei processi confluiscono masse informative incomparabilmente più grandi e delicate rispetto al passato. Ciò obiettivamente pone la necessità di rigoroso governo di strumenti e tecniche di indagini che coinvolgono diritti fondamentali. Dunque, tocca al legislatore tracciarne i confini. Da procuratore nazionale ho tuttavia la responsabilità di sottolineare che oggi le mafie parlano innanzitutto il linguaggio della corruzione e delle frodi fiscali, che è linguaggio praticato largamente dal mercato e nel mercato, fungendo da saldatura di interessi eterogenei”. È un concetto fondamentale, che vale la pena ribadire: corruzione e frode fiscale, se non sono reati ascrivibili direttamente alla fattispecie mafiosa, sono però reati commessi spesso dai mafiosi, e quindi dire di voler intercettare i mafiosi ma non chi commette quei reati non sta in piedi. Ai mafiosi, insomma, si risale spesso partendo da quei reati, dal loro brodo di coltura finanziario, che è diventato il loro brodo preferito. Per queste ragioni, sottrarre la corruzione dai reati intercettabili in questo momento è impensabile, e Melillo lo dimostra con un artificio retorico che sorprende, spiazza e perfino diverte, nella sua capacità di illuminare il tema: “Sarebbe un danno serio. Perché una parte non secondaria delle conoscenze che costruiamo quotidianamente nascono da indagini su più rilevanti fenomeni di corruzione e di frode fiscale. Anzi, va sottolineato che è più difficile penetrare la segretezza degli accordi corruttivi che penetrare i contenuti di una riunione di mafiosi. Ce lo dice l’esperienza investigativa: capita di frequente che incontri illeciti tra pubblici ufficiali e imprenditori siano circondati da cautele e tecniche elusive da far invidia alla segretezza dei movimenti mafiosi”. Melillo non si ferma qui: difende tutte le intercettazioni, anche quelle più invasive, il cosiddetto trojan, che entra nei computer, nei telefoni e nelle “vite degli altri”, per citare uno splendido film tedesco, in un modo che non a caso i suoi detrattori paragonano alla Stasi, il famigerato spionaggio della Germania Est. Nordio, oggi al Senato, è stato appena un po’ più leggero, scegliendo un parametro storico più antico eppure più sofisticato: “Quanto sta emergendo nella Commissione Giustizia del Senato sulla possibilità di manipolare le intercettazioni del trojan non è una novità. Il grande Richelieu diceva “datemi una lettera e un paio di forbici e io farò impiccare l’autore”. È sufficiente prendere una lettera, tagliarla e ritagliarla e fare copia e incolla che si attribuiscono all’autore della lettera cose che non ha mai pensato”. Tutte argomentazioni che Melillo liquida seraficamente: “Sul versante della corruzione, credo sia necessario anche quello strumento. Che va ancorato a parametri rigorosi. Ma ripeto: appartiene alla responsabilità politica definire queste scelte, così come valutare il tempo di queste scelte”. Ecco, la “responsabilità politica” e “il tempo delle scelte” ora congiurano per un congelamento delle velleità copernicane di Nordio. Come andrà a finire, lo prevede una donna di mondo come Simonetta Martone, ex magistrata, volto storico di Porta a Porta e ora parlamentare leghista: “Quello che verrà cambiato sarà l’uso delle intercettazioni ai fini della pubblicazione sui mezzi di comunicazione”. Una riverniciata a fine mediatici, o antimediatici se si preferisce. Se a Nordio non basterà, non è tanto assurdo prevedere che prima o poi molli tutto, carica e coalizione, e passi magari al terzo polo. Renzi lo adora, e lui lo ha ricambiato con la prefazione al suo ultimo libro. Come avrebbe detto anche Richelieu, tout se tient. Dialogo e riforme: giustizia, lo scatto possibile di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 19 gennaio 2023 Auspicabile un sussulto bipartisan delle forze politiche (almeno di buona parte di esse) e di una grandissima fetta di magistratura, la quale non ha alcuna voglia di essere tirata dentro guerricciole di fazione. In un volume pubblicato undici mesi fa, per i trent’anni di Tangentopoli, “Giustizia, ultimo atto”, Carlo Nordio, allora semplice magistrato in pensione, anticipava con chiarezza le linee di riforma che ha poi esposto a dicembre alla Camera e al Senato nella sua nuova veste di Guardasigilli. Sicché, di fronte a talune reazioni di dissenso, ha replicato che tutti conoscevano da un pezzo le sue convinzioni di garantista liberale. Aggiungendo che, se era stato posto al vertice del ministero di via Arenula, è perché si voleva che le traducesse in pratica. Su questa seconda proposizione qualche dubbio deve nutrirlo lui stesso, avendo sentito allora il bisogno di sottolineare in sede parlamentare la sua determinazione a dimettersi ove non gli fosse consentito di svolgere il proprio compito fino in fondo: frase abbastanza irrituale per un ministro appena nominato e con una solida maggioranza alle spalle. La verità, come Nordio sa bene, è che, nell’agenda di grandi riforme immaginata da Giorgia Meloni, quella della giustizia è forse la più divisiva in potenza: persino dentro una coalizione vittoriosa, sì, ma ideologicamente assai eterogenea. Passati il giubilo e i (doverosi) applausi al Ros, l’arresto di Matteo Messina Denaro ha subito surriscaldato il clima. Da un lato prefigurando una nuova stagione di rivelazioni presunte e di veleni sicuri su eventuali “livelli superiori” (dunque politici) di connivenza col boss. Dall’altro rinfocolando tensioni sottotraccia con un giustizialismo trasversale al Parlamento e al Paese che vede, ad esempio, come fumo negli occhi le critiche di Nordio alle intercettazioni. Sicché, intervenendo ieri in Senato, il ministro è stato costretto a spiegare l’ovvio, sotto la pressione di sortite mediatiche delle Procure: che gli ascolti come strumento di indagine contro mafiosi e terroristi non si discutono; da rivedere è invece l’idea che costituiscano una prova in sé (e non una pista investigativa) e che possano essere abusati a strascico su soggetti non indagati, fino alla loro enfatizzazione mediatica. Già sull’abuso d’ufficio, reato poco tipizzato e troppo ricorrente (venti condanne su cinquemila indagini in dodici mesi) che indurrebbe alla “paura della firma” sindaci e amministratori pubblici, si arriverà a fine mese a un compromesso tra la cancellazione tout court voluta in origine da Nordio e un tagliando pur accurato. Scricchiolii in una materia, la giustizia, che è sempre stata esiziale per la vita dei governi. Ancora nulla a confronto di ciò che potrebbe avvenire quando si mettesse mano al corpo vivo dell’impianto giudiziario. Se una vera separazione delle carriere e la discrezionalità dell’azione penale sono obiettivi ambiziosi e legittimi ma da conseguire con i tempi e i modi di un mutamento costituzionale, ci sono materie controverse su cui una maggioranza coesa potrebbe fare da traino con legge ordinaria. Il traffico di influenze e il concorso esterno potrebbero ad esempio, nell’arco della legislatura, essere rivisti senza mettere mano alla Costituzione. Quanto all’uso delle intercettazioni, basterebbe un episodio recente, lo scontro surreale tra Luca Zaia e Andrea Crisanti (nato da una frase del governatore veneto contro il noto microbiologo “rubata” da una microspia e allegata agli atti di un’indagine che non riguarda nessuno dei due) per dimostrare l’invasività politica dello strumento e la debolezza delle riforme fin qui fatte per limitarlo. Il problema va ben oltre le questioni di tecnica giuridica. Lo stesso Nordio lo coglie con efficacia nel volume già citato: il ruolo di supplenza esercitato dalle toghe, ricorda da ex toga, è stato consentito dai partiti al tempo di Mani Pulite con “una ritirata precipitosa e un’abdicazione miserevole”. Il nodo continua a paralizzare da trent’anni il Paese: per debolezza e scarsa credibilità, la politica tuttora tende, almeno in alcune sue articolazioni, a ripetere la propria legittimazione dalla magistratura. L’attuale maggioranza non dovrebbe avere problemi del genere, forte com’è dell’investitura popolare di Giorgia Meloni. Tuttavia, nel partito della premier non è così piccola la componente giustizialista di antica memoria, accanto alla quale ne va emergendo una, diciamo così, pragmatica: questa parte più accorta alla tattica si domanda se, visto il vantaggio per il governo derivante dalla totale inanità delle opposizioni politiche, divise e litigiose tra loro, sia davvero il caso di andare a stuzzicare l’unica forza del Paese in grado di produrre un’opposizione de facto, la magistratura. Ragionamenti del genere sono di certo arrivati fino all’orecchio della premier, che ha fortemente voluto Nordio al ministero della Giustizia. La faccenda, come si vede, può diventare un inciampo notevole per la coalizione di centrodestra. Sarebbe superabile solo con un sussulto bipartisan delle forze politiche (almeno di buona parte di esse) e, verrebbe da auspicarsi, di una grandissima fetta di magistratura, la quale non ha alcuna voglia di essere tirata dentro guerricciole di fazione che ne diminuiscono autorità e prestigio agli occhi dei cittadini. È noto che mai nessuna commissione in Italia ha risolto granché e che, anzi, la sua stessa istituzione porta spesso a rinviare sine die il problema di cui dovrebbe occuparsi. Tuttavia, se la grande questione giudiziaria fosse ricondotta almeno a un dialogo razionale e non di parte, non poche regole della nostra convivenza civile potrebbero essere riconsiderate dopo trent’anni di contrapposizioni. Tra queste, e di portata costituzionale, non si dovrebbe dimenticare l’immunità parlamentare, abolita a “furor di popolo” in conseguenza degli abusi che ne fece la mala politica della Prima Repubblica e, tuttavia, più che mai necessaria all’equilibrio tra i poteri dello Stato. Nella prima e più bilanciata formulazione della riforma del 1993, ricorda Giuseppe Benedetto nel suo “L’eutanasia della democrazia”, s’era deciso non di eliminarla ma di posticiparla alla fine delle indagini preliminari, così che il Parlamento avesse elementi più concreti (e non ideologici o di camarilla) per valutare l’eventuale fumus persecutionis del magistrato contro il politico. Le monetine contro Craxi e il terrore della piazza spazzarono via, col coraggio, anche molto buonsenso. Nordio, idee ottime. Il rischio è che restino solo idee di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 gennaio 2023 Gli impegni assunti ieri mattina dal Guardasigilli sono importanti e stanno nel solco del garantismo. Il governo gli permetterà di realizzarli? Alla fine il ministro Nordio perde la pazienza e sbotta: vi interessa solo parlare di intercettazioni? Allora sappiate che su questo attueremo la rivoluzione copernicana, non vacilleremo, non esiteremo, andremo fino in fondo. Mezzo minuto di replica nell’aula del Senato dove ieri mattina il guardasigilli era atteso per la sua relazione sulla giustizia. Ampia e approfondita. Gli impegni assunti dal guardasigilli sono importanti. E lo si sarebbe potuto stimolare, o anche inchiodare su tempi e modi. Perché quello è il punto. Abbiamo un ministro campione di garantismo, il quale prende la parola chiarendo subito “il nostro fermo proposito è di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale”. E che poi chiarisce, a un Parlamento che dovrebbe esser stato già reso sensibile “realizzeremo la tutela della presunzione di innocenza della persona”. Impeccabile discorso, come sempre. Il problema però è che venga esplicitato meglio il come e quando, e con quali strumenti tutto ciò sarà garantito. Per esempio, al dottor Nordio non sarà sfuggito il fatto che Gratteri abbia ironizzato pesantemente sul provvedimento già votato dal Parlamento precedente. E abbia dichiarato con sarcasmo, in occasione del suo solito blitz: oggi abbiamo arrestato duecento presunti innocenti. E abbia anche tenuto una conferenza stampa in violazione delle nuove regole. Ora, se addirittura ci sono magistrati che della presunzione di non colpevolezza paiono infischiarsi, con quali strumenti pensa il ministro di far applicare la norma già esistente? E che dire invece della situazione carceraria o di quella “certezza della pena” invocata dalla premier? Alla fine il ministro Nordio perde la pazienza e sbotta: vi interessa solo parlare di intercettazioni? Allora sappiate che su questo attueremo la rivoluzione copernicana, non vacilleremo, non esiteremo, andremo fino in fondo. Mezzo minuto di replica nell’aula del Senato dove ieri mattina il guardasigilli era atteso per la sua relazione sulla giustizia. Ampia e approfondita. Accolta da un soddisfatto Presidente La Russa, che lo ha ringraziato “per lo spessore del suo intervento”. Non apprezzata dai partiti dell’opposizione che, non potendo replicare sugli interventi relativi al processo civile né sui progetti di riforma carceraria, rimangono vincolati al tema che il responsabile del Pd Walter Verini considera “divisivo” e che gli offre l’occasione, come se ce ne fosse stato bisogno, di aggrapparsi a una toga, quella del procuratore nazionale antimafia Melillo quando dice che le intercettazioni sono importanti non solo per colpire i reati di mafia, ma anche quelli meno gravi. Tralasciando di sottilizzare sul fatto che ai magistrati non spetta il compito di “colpire” e che le captazioni sono solo strumenti di indagine, siamo sempre alla favoletta del lupo e l’agnello. Se il ministro dice che bisogna diminuire il numero delle intercettazioni, gli si replica che non vuole combattere la mafia. Se lui si sgola, anche troppo, a ribadire che certo, per i reati di mafia e terrorismo sono importanti, allora si allarga il campo a contestare il fatto che spiare è rilevante sempre. Alla faccia dell’articolo 15 della costituzione. Lo dice un alto magistrato, quindi chapeau! Eppure gli impegni assunti dal guardasigilli ieri mattina sono importanti. E lo si sarebbe potuto stimolare, o anche inchiodare su tempi e modi. Perché quello è il punto. Abbiamo un ministro campione di garantismo, il quale prende la parola chiarendo subito “il nostro fermo proposito è di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale”. E che poi chiarisce, a un Parlamento che dovrebbe esser stato già reso sensibile dal dibattito della precedente legislatura e anche da un provvedimento approvato dai tanti che erano già presenti, “realizzeremo la tutela della presunzione di innocenza della persona, assicurandone la dignità e l’onore durante le indagini e il processo”. Impeccabile discorso, come sempre. Il problema però è che venga esplicitato meglio il come e quando, e con quali strumenti tutto ciò sarà garantito. Per esempio, al dottor Nordio non sarà sfuggito il fatto che un importante procuratore, il dottor Gratteri da Catanzaro, abbia già in due occasioni televisive ironizzato pesantemente sul provvedimento già votato dal Parlamento precedente. E abbia dichiarato con sarcasmo, in occasione del suo solito blitz: oggi abbiamo arrestato duecento presunti innocenti. E abbia anche tenuto una conferenza stampa in violazione delle nuove regole. Ora, se addirittura ci sono magistrati che della presunzione di non colpevolezza paiono infischiarsi, con quali strumenti pensa il ministro di far applicare la norma già esistente? E anche su quella sorta di contrappeso obbligatorio quanto meno nella cultura politica della presidente del consiglio (e non solo) che è “la certezza della pena”, le parole del guardasigilli necessitano di gambe su cui camminare. “Una pena che non coinciderà sempre e solo con il carcere, ma che sarà comunque afflittiva, certa, rapida, proporzionata, e orientata al recupero del condannato secondo il nostro dettato costituzionale”, può voler dire tutto e niente. Come la mettiamo per esempio con l’ergastolo ostativo già dichiarato incostituzionale, e quel decreto, di cui Giorgia Meloni mena vanto, che sottopone il detenuto alla prova diabolica che rende nei fatti inapplicabile il ricorso ai benefici penitenziari? E quindi rimane incostituzionale? Stiamo dunque parlando di carcere. E del suo funzionamento. Il che è un tema centrale, in quanto strettamente legato da vincoli di parentela, per la stessa amministrazione della giustizia. La prigione è il luogo di verifica sul funzionamento del processo, quindi della professionalità dei giudici e anche della “forza tranquilla” dello Stato. I tanti suicidi dello scorso anno hanno colpito la sensibilità del ministro Nordio. Il quale ha, per ora, solo afferrato il problema per la coda, tralasciando di fare accenno a come far entrare un numero minore di persone in carcere e come cominciare a farne uscire un po’, come per esempio tossicodipendenti e malati psichici, e magari anche tutti coloro che devono scontare meno di un anno di pena. È comunque importante anche la pena che cura e che dà attenzione al detenuto come persona, che ha un presente e anche un futuro che non abbia solo il sapore delle sbarre. Quindi “massimo impulso”, propone il ministro, alle attività di trattamento, anche con aumento degli spazi e dei tempi. Così come l’avviamento al lavoro. Ci sono istituti di pena, ma questo il ministro certamente lo sa, nei quali si combatte la noia, che spesso porta ad atti autolesionistici, con l’impegno di studio e di lavoro. Si combatte anche la recidiva, con le attività lavorative. Per questo è interessante sentir dire “Stiamo attuando un progetto per assicurare il lavoro a chi esce dl carcere attraverso defiscalizzazione delle retribuzioni a chi ottiene il lavoro una volta espiata la pena”. Ottimo progetto. Ma occorrerà costruire una rete che coinvolga il mondo delle imprese ma anche degli enti locali e di quel terzo settore di associazioni di volontariato che sono la ricchezza del nostro Paese. Perché su questi progetti non si impegnano tutte le forze politiche, invece di appigliarsi solo alle intercettazioni? Altre riforme? Meglio di no. La prudenza del neo eletto al Csm di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 gennaio 2023 Fabio Pinelli, avvocato indicato dalla Lega, è il più accreditato per la vice presidenza dell’organo costituzionale dopo il pasticcio di FdI su Valentino. Già oggi lo scrutinio di riparazione. Testardi sulla linea con la quale martedì hanno provato a chiudere la partita del Consiglio superiore della magistratura, i capi di Fratelli d’Italia hanno deciso di provare a rimediare immediatamente al pasticcio dell’altro giorno, quando avendo dovuto ritirare a votazioni già aperte il loro candidato di punta, candidato anche alla vicepresidenza dell’organo costituzionale, Giuseppe Valentino, sono riusciti a concentrare sul candidato subentrato meno voti di quelli necessari a eleggerlo. Dunque c’è un decimo consigliere da eleggere e FdI si incaponisce su Felice Giuffrè, anticipando a oggi la nuova seduta comune delle camere già convocata per martedì prossimo. I presidenti dei due rami parlamentari non hanno fatto una piega, La Russa avendo avuto un ruolo non marginale nel pasticcio su Valentino (è però stata eletta un’avvocata del paese di origine dei La Russa, Paternò). “Lo spettacolo di un parlamento che agisce come un automa e a metà chiama fa lo switch su un altro candidato e umiliante per il parlamento stesso e merita una reazione”, dice il deputato di +Europa Riccardo Magi, che invita l’opposizione a non intestardirsi anche lei su un accordo in forza del quale ha raccolto le briciole (ma il candidato del Pd, Roberto Romboli, è risultato il più votato) e ha scegliere oggi “una giurista con competenze in materia di diritto ed esperienza adeguate a ricoprire il ruolo importante e delicato di componente del Csm”. La scelta che Magi conferma è quella di Tamar Pitch, votata martedì anche dal gruppo Verdi/Sinistra che però oggi, per analoga protesta contro il metodo, non parteciperanno al voto. Sull’esito non ci sono dubbi, il centrodestra dispone praticamente da solo dei tre quinti dei componenti del parlamento che ancora servono nel secondo scrutinio (dal terzo il calcolo si sposta sui votanti), ammesso e non concesso che Azione/Italia viva o il Pd non intendano mantenere l’impegno già preso. Il guaio per Fratelli d’Italia è un altro: senza Giuseppe Valentino non dispone più di una candidatura con la quale tentare la conquista della vicepresidenza del Csm. Partita anche quella difficile, perché bisognerà necessariamente coinvolgere più di una corrente delle toghe per arrivare alla maggioranza assoluta. Si fa strada così la candidatura di Fabio Pinelli, avvocato proposto dalla Lega ma di relazioni assai vaste. E con posizioni che non dispiacerebbero ai magistrati anche lontani dalla destra. Le ha espresse pochi giorni fa in un lungo articolo su Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica. Passando in rassegna tutte le questioni sulle quali il governo annuncia pesanti interventi, l’obbligatorietà dell’azione penale, le intercettazioni e la separazione delle carriere, su tutte Pinelli conclude che la cosa più ragionevole e non affannarsi in nuove riforme visto che le precedenti non sono state ancora testate. “Il problema non sono le norme, ma le prassi applicative”, scrive, “serve un tempo di stabilità operativa”, una “pausa di applicazione”. Che Nordio lo sappia. Don Ciotti: “A Messina Denaro dico di collaborare. La sua latitanza favorita dalla politica” di Filippo Femia La Stampa, 19 gennaio 2023 Il fondatore di Libera: “Nella lotta alle cosche è necessaria una rigenerazione culturale. Cosa Nostra affonda le radici nel vuoto dei diritti, si può battere con la giustizia sociale”. La lunga latitanza di Messina Denaro è stata favorita da quella di alcuni politici: “Non hanno capito che le mafie si combattono anche con le politiche sociali, garantendo i diritti fondamentali come lavoro, istruzione e salute”. È la convinzione di Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera e Gruppo Abele. Da oltre trent’anni sotto scorta per le minacce di Cosa Nostra (Totò Riina diede l’ordine di ucciderlo), il “prete degli ultimi” auspica una “rigenerazione culturale” e la fine della “diserzione etica della politica”: in quel modo la mafia diventerà “un fenomeno criminale circoscritto, slegato dal resto della società”. Don Ciotti, l’esultanza per la cattura di Messina Denaro è ancora fresca. Teme che quegli applausi svaniscano in fretta per lasciare il posto a connivenza e omertà che hanno protetto il boss? “È un rischio che non possiamo permetterci. La cattura di Messina Denaro è importantissima, ma certo non è la conclusione della lotta alla mafia né a Cosa Nostra. È una tappa importante, non il traguardo. Non dobbiamo commettere gli stessi errori seguiti agli arresti di Riina e Provenzano”. Una latitanza così lunga può essere considerata anche un fallimento della politica? “La latitanza del boss è stata indubbiamente favorita dalla latitanza di quella politica che non ha capito, o fatto finta di non capire, che le mafie non si contrastano solo con indagini e arresti ma con le politiche sociali, garantendo i diritti fondamentali come lavoro, istruzione e salute. E con il superamento di un modello economico (quello neoliberista, che ha nel profitto il valore assoluto) terreno di conquista e razzie per tutte le mafie, nazionali e internazionali. C’è una convergenza stretta tra crimine mafioso, reato economico e diserzione etica della politica”. Serve un nuovo approccio nella lotta alla mafia? “Le mafie non si combattono soltanto con gli strumenti investigativi e la repressione. Le organizzazioni criminali affondano le radici nel vuoto dei diritti, nella debolezza e nella malattia delle democrazie: senza un cambiamento, una rigenerazione sociale e culturale, continueranno a sopravvivere, a trasformarsi, ad assumere forme adeguate ai tempi. In ogni caso bisogna riconoscere e ammirare l’impegno e la tenacia dei magistrati e delle forze di polizia, che non hanno mai gettato la spugna”. Qualcuno ventila una trattativa di Messina Denaro con lo Stato per la sua consegna. Nel caso fosse vero, troverebbe l’ipotesi scandalosa? “Se è dotato di un’etica, lo Stato non può trattare con chi vuole distruggerlo. Non l’ha fatto con le organizzazioni terroristiche e non può farlo con quelle mafiose. Ciò detto, credo che non sia più tempo di ipotesi e illazioni: abbiamo bisogno di documentate verità”. Il boss può contribuire a fare luce su alcuni dei più sanguinosi misteri d’Italia. Crede che collaborerà? “Me lo auguro di cuore, per le vittime di quei fatti ancora avvolti dal mistero e anche per lui. Sarebbe un modo non di sgravarsi la coscienza, ma di nutrirla con l’unico alimento che rende una vita degna di essere vissuta: la ricerca di verità”. Se si trovasse di fronte a lui, cosa gli direbbe? “Gli augurerei, dopo aver scatenato la guerra attorno a sé e provocato una miriade di vittime e dolore, di scatenare la guerra dentro di sé: sono i conflitti di coscienza a indicarci la strada della dignità e dell’umanità. Se diventassimo tutti più consapevoli del nostro essere vulnerabili smetteremmo di farci del male”. La mafia non è più quella stragista, i clan sono infiltrati ai più alti livelli politici ed economici. Crede che la società civile possa essere un antidoto? “Se non lo credessi non sarebbe nata nel 1995 Libera, con l’intento di dare all’impegno dei cittadini contro le mafie una strategia e un orizzonte. Per questo invito a non parlare di “società civile”: siamo tutti cittadini, il punto è come interpretiamo quel ruolo. È necessario uno scatto: se fossimo “società responsabile”, se ciascuno di noi avesse fatto la sua parte, la mafia sarebbe oggi un fenomeno criminale circoscritto, slegato dal resto della società. Un male individuabile e debellabile con il solo impegno di magistratura e forze di polizia”. “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani avrà un inizio e una fine”, diceva Giovanni Falcone. Condivide? “Lo incontrai a un convegno sulla lotta al narcotraffico pochi mesi prima della strage di Capaci. Se oggi fosse ancora con noi, ripeterebbe quelle parole. Ma aggiungerebbe, credo, che per sconfiggere la mafia dobbiamo diventare tutti più umani, cioè più responsabili, più giusti, più partecipi di quei beni comuni che ci rendono comunità”. Crede che i giovani si espongano poco nella lotta alla mafia? All’interno di Libera siete riusciti a passare il testimone alle nuove generazioni? “Per facilitare questo passaggio di testimone, ovvero di responsabilità, da circa vent’anni organizziamo i campi estivi di Libera. È bello vedere giovani arrivare da tutta Italia e anche da diversi Paesi europei, che capiscono quanto lavoro ci sia dietro la tutela dei beni comuni confiscati alla criminalità organizzata. Cittadini in formazione che fanno esperienza della democrazia come etica, come superamento di quell’individualismo che ha portato l’Occidente sull’orlo del collasso”. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha proposto che il 16 gennaio diventi la festa della lotta alla mafia. Cosa ne pensa? “Più che di “feste” abbiamo bisogno di strumenti e politiche che imprimano alla lotta alla mafia quel cambio di marcia e prospettiva necessario a estirparla una volta per tutte. Almeno da vent’anni le mafie non sono più un “mondo a parte” ma parte di questo mondo: un mondo forte quanto a egoismo e avidità, debole quanto a diritti, democrazia e giustizia sociale. Vorrei poi ricordare a Meloni che esiste già il 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, creata con una legge dello Stato”. Ilaria Cucchi: “Con le riforme di Nordio non ci sarebbe stato nessun processo per mio fratello” di Francesco Grignetti La Stampa, 19 gennaio 2023 L’accusa in Aula lanciata dalla senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra. Depositate le motivazioni della sentenza sull’appello bis: “Il falso verbale di arresto fu l’origine dei depistaggi”. “L’Italia spende meno di altri paesi europei per la giustizia, è ventiduesima per numero di magistrati in proporzione alla popolazione ed è uno degli ultimi, fra quelli appartenenti all’Ocse, per lentezza delle cause civili. L’art. 111 della Costituzione viene travolto dalla lunghezza dei processi penali con danni irreparabili per indagati e vittime dei reati, prosegue Cucchi - lo ha detto in Aula la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi sulla relazione del ministro Nordio sull’amministrazione della Giustizia. E la soluzione proposta è tagliare in modo lineare i processi penali, introducendo nuove scellerate regole di giudizio che, con i riformati articoli 408 e 425 del codice di procedura penale, si dà ai gip e ai gup la possibilità di proseguire con i procedimenti solo quando sono ragionevolmente convinti della previsione di condanna degli indagati, mentre fino a ieri era sufficiente che giustamente ritenessero opportuno e doveroso la celebrazione del dibattimento. In questo modo saranno già considerati colpevoli gli imputati rinviati a giudizio, in barba alla Costituzione. Tanti importanti processi per gravissimi reati non avrebbero potuto raggiungere la verità e fare giustizia”. “Faccio esempi importanti - ha aggiunto Cucchi - come il processo Aldrovandi e il processo Bergamini che si sta tuttora celebrando a 32 anni dalla sua uccisione e dopo ben due archiviazioni. E infine il processo che ho vissuto in prima persona dopo 160 udienze e 16 gradi di giudizio: quello per l’uccisione di mio fratello Stefano. Ebbene, queste scellerate modifiche non ne avrebbero consentito la celebrazione. Non ci saranno mai altri casi come questi perché non sarà consentita la celebrazione dei processi. Ci saranno tanti imputati figli di nessuno ritenuti colpevoli senza processo e tante vittime senza possibilità di ottenere verità e giustizia”. “Lancio oggi - ha continuato la senatrice - un vero e proprio grido di dolore per lo scempio che ci si appresta a fare della Costituzione in materia di giustizia. I cittadini percepiscono la giustizia come inadeguata ed incapace di assicurare la tenuta del patto sociale. La colpa, per la verità, non è del ministro Nordio o della maggioranza che la sostiene. Però il ministro eviti di assumersela con le riforme che ha annunciato di voler fare. Dia un taglio netto con il passato, non si renda corresponsabile di tale scempio. Qualcuno ha detto che questa riforma è buona perché suscita tante critiche. Vuol dire che ha vissuto poco, come ho fatto io, nelle aule giudiziarie. Non si può aziendalizzare il sistema giustizia tagliando indiscriminatamente il numero dei processi. Resta un miraggio la tanto sbandierata e sicuramente utile depenalizzazione delle migliaia di reati minori bagatellari che ingolfano i tribunali. Il rischio è che sarà ancora di più un processo per ricchi e potenti a danno dei cittadini normali o, peggio, dei più deboli. Penso di interpretare la supplica, il grido che viene dal paese di sotto, quello fragile, il più colpito da questo impianto legislativo: no alle riforme del ministro Nordio”. La sentenza del processo bis - “La conducente univocità probatoria dei fatti e la mancanza di una plausibile spiegazione alternativa inducono a ritenere provato che Mandolini avesse avuto notizia del pestaggio al momento della chiusura e sottoscrizione del verbale di arresto e che, dunque, avesse consapevolmente ed intenzionalmente omesso di menzionare i due autori della violenza su Stefano Cucchi fra gli operanti l’arresto e di riferire del comportamento oppositivo del Cucchi al momento dell’identificazione per accertamenti dattiloscopici e fotosegnaletici”. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza nel processo d’Appello Bis per le accuse di falso nel caso Cucchi con cui lo scorso luglio sono stati condannati a tre anni e sei mesi il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della stazione Appia, e a due anni e quattro mesi il carabiniere Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha fatto riaprire le indagini sul caso di Stefano Cucchi. Una sentenza pronunciata a poche ore dalla prescrizione. Per i giudici ricorrono tutti gli elementi del reato di falso, commesso dal pubblico ufficiale per occultare un altro delitto ed assicurare ad altri l’impunità per altro reato e consistito nell’omissione dell’attestazione di fatti destinati a provare la verità. “Il reato commesso da Mandolini è connotato da rilevante gravità, sia con riferimento alla capacità a delinquere - perché l’immediata falsificazione è rivelatrice dell’abilità di reagire, anche commettendo illeciti, senza frapporre all’azione delittuosa titubanze o meditazione -, sia per l’intensità del dolo intenzionale, sia per l’entità delle conseguenze della condotta, posto - si legge nelle motivazioni - che il falso nel verbale di arresto va individuato come la madre dei successivi depistaggi che hanno inizialmente sviato le indagini sugli autori della violenza subita da Stefano Cucchi verso gli agenti della polizia penitenziaria”. “Non deve omettersi, nella valutazione di elevata gravità del delitto e con riferimento alla condotta contemporanea al reato, che Mandolini, quando ha commesso il fatto, rivestiva, quale comandante interinale della Stazione Carabinieri Appia, una posizione di garanzia dell’integrità dei ristretti per l’attività di servizio, e che i doveri inerenti quella posizione sono stati violati - sottolineano i giudici - oltre che con la condotta di falso finalizzato a coprire la violenza subita dal Cucchi, con la denegata tutela connessa all’assenza di cure tempestive che sarebbero state prestate a Stefano Cucchi se il comandante della Stazione avesse, come era suo dovere fare, immediatamente attivato i controlli sanitari, anche solo per la verifica che lo stato di Stefano Cucchi, dopo le botte, non richiedesse interventi medici ulteriori e in modo tale da rassicurare l’arrestato sulla, doverosa, stigmatizzazione ambientale dell’abuso commesso dai pubblici ufficiali che lo avevano in custodia; condizione che - sottolineano i giudici - avrebbe certamente prodotto la rivelazione precoce delle sofferenze patite da Stefano Cucchi e, auspicabilmente, l’interruzione della serie causale che ha condotto alla sua morte”. Quanto a Tedesco, che non ha partecipato al pestaggio di Cucchi, i giudici sottolineano però “la gravità della condotta posta in essere da un pubblico ufficiale che avendo assistito ad un reato particolarmente odioso, in quanto commesso da altri pubblici ufficiali ai danni di un cittadino inerme, ha violato il suo dovere di denuncia, fornendo un contributo minore, ma non minimo, alla consumazione del reato di falso; che lungi dall’essere di modesta gravità, ha rappresentato l’origine di una serie di comportamenti devianti realizzati a cascata, reiterati nel tempo per anni, tentando sempre di allontanare gli inquirenti dal reale accadimento dei fatti”. “Non si vuole certo qui sminuire il coraggio dimostrato dal Tedesco quando è intervenuto nell’immediatezza in favore di Cucchi e, seppure tardivamente, a favore dell’accertamento della verità - scrivono i giudici in riferimento al ruolo e alle rivelazioni fatte da Tedesco in seguito - si vuole solo evidenziare che nella presente vicenda diversi sono gli elementi da considerare nella commisurazione della pena, diversi e di segno opposto, rispetto ai quali la sintesi attuata dal primo Giudice appare a questa Corte assolutamente condivisibile, così come il giudizio di comparazione - in termini di equivalenza - formulato relativamente alle attenuanti generiche già riconosciute all’imputato; piuttosto, tenuto conto delle conclusioni favorevoli all’imputato raggiunte a proposito di una delle condotta di falso contestate - concludono i giudici - la pena deve essere ridotta della misura di mesi due di reclusione”. L’Appello bis per Mandolini e Tedesco era stato deciso dalla Cassazione lo scorso aprile nell’ambito dell’udienza con la quale era stata resa definitiva la condanna a 12 anni di carcere per i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro accusati di omicidio preterintenzionale. “Renato Vallanzasca è seriamente malato, serve una perizia medica” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 19 gennaio 2023 I legali dell’ex bandito della Comasina contro la nuova richiesta di isolamento. È tornato in carcere nel 2014, dopo una tentata rapina di mutande e cesoie in un supermercato, e gli è sempre stata negata la semilibertà. Ma adesso i suoi avvocati dicono: “È un uomo di 72 anni provato nel fisico e nella mente”. Renato Vallanzasca “ha seri problemi di salute”, spiegano i suoi avvocati. Che adesso chiedono al Tribunale di Milano una perizia medico-legale per verificare la capacità di stare in giudizio dell’ex bandito della Comasina, detenuto a Bollate con “fine pena mai” e al centro di una richiesta della procura, che vuole per lui ulteriori sei mesi di isolamento diurno. Colpa dell’ultima condanna (definitiva dal 2016) per la tentata rapina del 2014 in un supermercato, quando venne beccato con due mutande, un paio di cesoie e del concime. Un colpo che gli costò caro, visto che da quel momento venne revocata la semilibertà. Di questi 180 giorni di isolamento, chiesti dalla pm Adriana Blasco, si è discusso oggi davanti alla giudice Ilaria Simi De Burgis. E se ne discuterà ancora in vista della prossima udienza fissata per marzo. Ma gli avvocati di Vallanzasca, Corrado Limentani e Paolo Muzzi, non si limitano a questo. Al giudice hanno chiesto di acquisire la cartella clinica dell’ex protagonista della mala milanese, che oggi ha 72 anni. “Per verificare le sue condizioni di salute”, dicono, che sono “serie”. Dal punto di vista fisico e mentale. Gli stessi legali hanno dato mandato ai propri consulenti di studiare i problemi di “Renè”: “Preferiamo avere in mano la perizia dei medici, che ci dirà con precisione cos’ha Vallanzasca”, aggiungono gli avvocati, che hanno chiesto al pm anche di applicare l’indulto sulle pene (sconto di 3 anni). Una mossa, quella dell’acquisizione della cartella clinica, che punta a dimostrare l’incompatibilità fra le condizioni di salute del detenuto e la misura dell’isolamento diurno, che i legali contestano comunque anche da un punto di vista strettamente tecnico. Già in un provvedimento dei giudici della Sorveglianza, con cui nei mesi scorsi era stata rigettata un’altra richiesta di liberazione condizionale o di semilibertà, era scritto che Vallanzasca “in particolare dal 2021” è un “uomo provato”, sia nel fisico che nella mente, “segnato ovviamente da circa 50 anni di carcere”. E che “a volte” appare “un po’ spaesato”. E i legali avevano depositato documentazione medica con valutazioni neurologiche. Un cortocircuito giuridico sta cancellando sentenze di condanna già emesse per reati gravi di Giulia Merlo Il Domani, 19 gennaio 2023 È successo in due casi, a Messina e Palermo, in cui sono state annullate le condanne per un caso di contagio volontario da Aids e di omicidi correlati a fatti di mafia, sul presupposto che due giudici popolari della corte d’assise avevano superato i 65 anni al momento della pronuncia della sentenza. E rischia di accadere di nuovo se il ministero non interverrà. In Italia la giuria popolare nei processi penali esiste solo per reati particolarmente gravi come i fatti di sangue: l’imputato viene giudicato da un collegio costituito da due giudici togati e sei giudici cosiddetti popolari, estratti a sorte da una lista a cui può iscriversi chiunque abbia i requisiti, ovvero il godimento dei diritti civili e politici, età non inferiore a 30 anni e non superiore a 65 e possesso della licenza media. Per un assurdo cortocircuito nell’interpretazione della legge - la numero 287 del 1951 che ha introdotto la figura dei giudici popolari - in Sicilia sono già saltati due processi di condanna e rischia di avvenire anche in un altro caso, se il ministero della Giustizia non si attiverà con una interpretazione autentica della legge. I due casi - I due casi sono accaduti presso le corti d’assise di Palermo e di Messina e a sollevarli è un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, firmata dai senatori del gruppo Autonomie, la siciliana Dafne Musolino e gli altoatesini Julia Unterberger e Luigi Spagnolli. Nel caso di Messina, l’imputato era stato condannato per aver volontariamente trasmesso l’Aids alla sua vittima, un’avvocata, morta in seguito al contagio. Il 22 dicempre il grado d’appello ha cancellato la condanna a 22 anni a Luigi De Domenico, imputato per omicidio volontario per la morte della compagna, a cui aveva trasmesso la sieropositività senza però mai rivelarglielo. Nel caso di Palermo, invece, la corte d’assise aveva erogato una condanna per un caso di omicidio correlato a fatti di mafia. Invece Piero Erco, che era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’imprenditore Vincezo Urso nel 2009, è tornato in libertà il 10 gennaio ed è stata annullata anche la condanna al suo complice che avrebbe dovuto scontare 25 anni di carcere. In entrambi i casi, le due corti d’assise d’appello hanno annullato il processo sul presupposto che un giudice popolare nel caso di Messina e due nel caso di Palermo avessero superato i 65 anni di età al momento della pronuncia della sentenza. Risultato: processi da rifare con nuove sofferenze per le parti civili, costi di causa da sostenere e costi della collettività nell’istruire dall’inizio i processi, che inevitabilmente si allungheranno in un cortocircuito insensato. L’interpretazione della norma - Questo cortocircuito che ha fatto saltare ben due sentenze di primo grado già emesse è dovuto ad una peculiare interpretazione della legge sui giudici popolari. Le corti d’assise d’appello siciliane, infatti, hanno accolto il ricorso dei difensori degli imputati secondo cui il requisito di rimanere entro i 65 anni di età non valga solo per il momento dell’assunzione dell’incarico, ma che debba perdurare per tutta la durata del processo. “La predetta legge prevede espressamente l’obbligo di sostituzione dei giudici popolari solo in caso di loro assenza, impedimento o per casi di astensione o ricusazione, mentre non c’è alcuna disposizione normativa che prevede l’obbligo di sostituzione dei giudici che nel corso del dibattimento abbiano superato il limite del sessantacinquesimo anno d’età”, scrivono però i senatori nell’interrogazione. Tradotto: la legge, ma anche i lavori parlamentari che hanno preceduto la sua approvazione, hanno previsto che il requisito dell’età doveva ricorrere solo al momento dell’assunzione dell’incarico. Tuttavia, i giudici siciliani si sono uniformati a una sentenza del 1998 che interpretava la legge nel senso del perdurare del requisito anche durante il processo - interpretazione “errata e palesemente forzata”, secondo i senatori - e hanno annullato le due condanne, costringendo quindi gli imputati a un nuovo processo di primo grado e le famiglie delle vittime a rivivere il dolore. Rischia di succedere ancora - Il rischio che questa giurisprudenza si consolidi produce una conseguenza che rischia di essere immediata e di inficiare un altro processo per femminicidio, commesso a Messina durante la pandemia. In quel caso la vittima dell’omicidio era una giovanissima universitaria specializzanda in medicina. La giovane è stata uccisa il 31 marzo 2020 dal fidanzato, un collega universitario, che l’ha strangolata al culmine di una lite e poi ha chiamato i carabinieri. Il ragazzo è stato condannato all’ergastolo nel luglio scorso dalla corte d’assise di Messina, ma anche questa sentenza potrebbe venire annullata perchè nel collegio dei giudici un giudice popolare aveva superato i 65 anni nel corso del processo. I suoi avvocati difensori hanno sollevato questo argomento nel ricorso d’appello che chiede l’annullamento della sentenza e, vista la giurisprudenza sul tema della corte messinese, ci sono ottime possibilità che venga accolto. La soluzione - Per questo i senatori hanno proposto interrogazione al ministro Nordio, chiedendo al ministro ”di disporre una verifica per comprendere come ciò sia potuto accadere” e di intervenire con urgenza ”per scongiurare, anche mediante un provvedimento di interpretazione autentica, che ciò possa verificarsi ancora”. La senatrice siciliana Musolino spiega che ”la giustizia deve avere il carattere della certezza, sia per imputati che per le vittime, e quando si consente un deragliamento è lo stato di diritto a deragliare. L’interrogazione è tesa a ripristinare il canone di certezza: può essere sia in favore dell’interpretazione delle corti che in favore di quella che noi riteniamo sia stata la volontà del legislatore, ma è fondamentale che si evitino discrasie e pronunce contraddittorie, perchè si tratta di una grave offesa al sistema giudiziario e a chi ne viene coinvolto, sia imputati che parti offese, soprattutto per fatti estremamente gravi”. L’auspicio è che il ministero è di intervenire con una legge di interpretazione autentica, che ha efficacia retroattiva, sulla vecchia legge del 1951 che espliciti come il requisito dei 65 anni di età per i giudici popolari sia richiesto solo al momento dell’apertura del processo e non anche durante il dibattimento. Altrimenti, il rischio è che anche altri processi già conclusi vengano annullati e tutti per reati gravi o gravissimi, vista la peculiare competenza delle corti d’assise e d’assise d’appello. L’Aquila. Messina Denaro nel carcere più efficiente per i detenuti malati di Manuela D’Alessandro agi.it, 19 gennaio 2023 “Le Costarelle” dell’Aquila è dotato di infermerie per ogni sezione. Si eseguono interventi di primo soccorso ed è il più attrezzato per i reclusi in regime di 41 bis. Il garante dei detenuti Gianmarco Cifaldi racconta all’Agi la vita dietro le sbarre. Un carcere “efficiente” col più alto numero in Italia di 41 bis pronto ad accogliere anche un detenuto molto particolare e con una grave patologia come Matteo Messina Denaro che presto si doterà grazie ai fondi del Pnrr, “primo in Europa”, della cartella sanitaria elettronica per i reclusi. Il garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, spiega all’AGI che nella casa circondariale dell’Aquila ‘Le Costarelle’ c’è una particolare attenzione per chi si trova in regime di massima sicurezza e ha problemi di salute. “Ogni sezione ha la sua infermeria per interventi di primo soccorso e anche per le cure dentistiche, questo per impedire che i detenuti sottoposti al 41 bis si spostino di sezione in sezione viste le speciali restrizioni di movimento a cui sono sottoposti e che si rispetti l’articolo 27 della Costituzionale che garantisce il diritto alla salute oltre che i provvedimenti della Corte dei diritti dell’Uomo”. Proprio il 20 dicembre scorso, racconta Cifaldi, che insegna criminologia e sociologia nell’ateneo aquilano, “assieme al senatore Etelwardo Sigismondi e al direttore della Asl Ferdinando Romano, abbiamo svolto un’ispezione per promuovere il miglioramento dell’ecografo e del defibrillatore e delle macchine per le Tac che si possono spostare da una cella all’altra”. Dal 2009 “la gestione sanitaria dei detenuti non è più dello Stato ma delle Regioni e anche nel caso di Messina Denaro, come per tutti gli altri, è affidate alle persone del team di medicina penitenziaria che si occupano di tutti i generi di patologie. Come garante, mi sono attivato in particolare della cosiddetta ‘sindrome crepuscolare’ che colpisce i detenuti quando vengono a trovarsi in uno spazio ristretto”. Messima Denaro, come tutte le persone che si trovano in regime di massima sicurezza, è in regime di alta sorveglianza “proprio per possibili crisi di questa natura”. A vigilare su lui e gli altri in 41 bis sono uomini e donne del Gom (gruppo operativo mobile), il reparto della polizia penitenziaria che dipende direttamente dal Ministero della Giustizia e si occupa dei detenuti in 41 bis o collaboratori di giustizia. Sono ‘mobili’, dice il garante, “per motivi di sicurezza proprio per la particolare pericolosità dei detenuti”. Messina Denaro potrebbe essere tra i primi ad avere una cartella sanitaria elettronica. “Grazie ai fondi del pnnr sono particolarmente orgoglioso - annuncia il garante - di avere lanciato questo progetto che eviterà ai carcerati, come accade ora, di portarsi in giro i fogli di carta coi documenti sanitari”.   Macerata. Ipotesi di realizzare un nuovo carcere, Antigone: “Spreco di soldi pubblici” di Annalisa Appignanesi centropagina.it, 19 gennaio 2023 Il Garante: “Unica città con ufficio sorveglianza ma senza carcere”. Polemica sull’ipotesi di realizzare un carcere a Macerata. L’associazione Antigone si oppone e chiede di ristrutturare le strutture detentive già presenti. Si accende la polemica sull’idea avanzata dal Garante dei detenuti Giancarlo Giulianelli di realizzare una struttura detentiva nella città di Macerata. Una proposta lanciata già tempo fa, ma tornata in auge mediaticamente negli ultimi giorni sulla quale ha preso posizione l’associazione Antigone (che si occupa di diritti nel sistema penale) la quale si oppone a questa ipotesi sostenendo che comporterebbe “uno spreco di soldi pubblici” e per questo propone di “puntare sulle misure alternative”. “Tutto sembra pronto, nelle Marche, per la costruzione di un nuovo Istituto di pena. Ma ci serve davvero? La risposta è semplice: no”, Giulia Torbidoni, presidente di Antigone Marche. “Costruire un carcere da 250 posti costa circa 25 milioni di euro - osserva -. Ovviamente questa è la spesa per le mura, poi va aggiunta quella per il personale e la manutenzione. Per quanto riguarda i tempi, sappiamo che, in media, la costruzione richiede circa 20 anni. Siamo così sicuri che ci convenga costruire una struttura nuova anziché ristrutturare i 6 istituti esistenti che tanto ne hanno bisogno? A Montacuto il rivestimento esterno cade a pezzi mentre a Pesaro ci sono infiltrazioni d’acqua e c’è urgente bisogno di interventi risolutivi, giusto per fare rapidi esempi”. L’altra considerazione dell’associazione riguarda la popolazione detenuta nelle strutture marchigiane. “Al 31 dicembre 2022, nelle Marche, le persone in carcere che erano in attesa di primo grado di giudizio erano 111 su 855 presenti, il 12,9% del totale. Parliamo di persone ancora innocenti. Ma stanno in carcere, molto spesso perché non hanno un domicilio dove passare la misura cautelare - osserva l’associazione. Non sono poche: possibile che non si riesca a potenziare l’accoglienza sul territorio di queste persone, evitando loro la detenzione e alleggerendo le carceri? Non solo. Al 30 giugno, le persone con una pena residua sotto i 3 anni, nelle Marche, erano 347 su 808 (il 42,9%). Non sono poche neanche queste: potrebbero finire di pagare il loro debito con la giustizia in un modo diverso dallo stare chiuse? Crediamo di sì. E pensiamo che, invece di costruire nuove carceri, si debbano potenziare le pene alternative che abbassano la recidiva sotto il 20% (rispetto al 67% di chi non vi accede), sono più economiche e garantiscono un miglior reinserimento sociale”. Antigone osserva infine che “come a volte si usi la parola galera dimenticando che molto spesso i problemi per cui viene spesa sono temi politici: emarginazione, tossicodipendenza, disagio psichico (le diagnosi psichiatriche gravi tra i detenuti nelle Marche sono il 22,35% del totale, le tossicodipendenze arrivano attorno al 30%). È la politica che dovrebbe arrivare prima, occuparsi di tutti e creare le condizioni affinché le persone possano uscire dai margini ed emanciparsi, per vivere libere. Crediamo, quindi, che la migliore prevenzione al carcere sia nelle mani della vera politica: quella che garantisce scuole, lavoro, salute, spazi di socialità, cultura, prospettive. In definitiva, la domanda da porsi è se vogliamo costruire solo nuove carceri o una società più giusta”. Il Garante dei diritti dei detenuti Giancarlo Giulianelli - Precisando che “non spetta a me decidere la realizzazione di un carcere, è una proposta che avevo lanciato qualche tempo fa in una intervista”. il Garante dei Diritti dei Detenuti, Giancarlo Giulianelli replica all’associazione affermando: “Posso convenire con Antigone sulla necessità di ristrutturare le carceri marchigiane - spiega - ma Macerata è l’unica città in Italia ad avere un ufficio di sorveglianza senza avere un carcere”. La proposta di Giulianelli era scaturita dall’osservazione della realtà territoriale, dal fatto che “nella città di Macerata sono presenti Tribunale, Corte d’Assise, ufficio di sorveglianza e un corso universitario in diritto penitenziario, senza però la presenza di una struttura detentiva”. Entrando nel merito della polemica e analizzando la situazione delle carceri marchigiane, il Garante fa notare che “il carcere di Camerino è chiuso in seguito al sisma del 2016, mentre quello di Fermo è totalmente inadeguato e andrebbe chiuso. Mancano gli spazi - dice - anche in altri carceri, eccetto che a Barcaglione e Fossombrone, ma lo spazio è fondamentale per le attività trattamentali, il cui svolgimento permette di tenere impegnati i detenuti, diminuendo le tensioni interne agli istituti”. Savona. Manca un carcere da sette anni: gli avvocati scrivono al ministro Nordio La Stampa, 19 gennaio 2023 Il presidente dell’Ordine: “Situazione gravissima”. Da sette anni la provincia di Savona è senza un carcere. Dopo la chiusura della casa circondariale di Sant’Agostino, ipotesi di nuove sedi, sopralluoghi su sopralluoghi, promesse, impegni, la soluzione non si è ancora trovata. Il presidente dell’Ordine degli avvocati, Vittoria Fiori, ha così preso carta e penna e scritto al ministro della Giustizia Carlo Nordio, segnalando la “grave situazione” che si è venuta a creare. “Nel gennaio del 2016 - è scritto nella lettera - la casa circondariale di Sant’Agostino veniva definitivamente chiusa e, da allora, il nostro circondario è rimasto privo di istituto carcerario, con tutti i gravissimi disguidi che a ciò conseguono per magistrati e avvocati, ma soprattutto per i detenuti e per i loro famigliari” “Le persone in custodia cautelare - prosegue il presidente dell’Ordine degli avvocati di Savona - per reati di competenza del nostro Tribunale vengono ristrette negli istituti di Genova Marassi, Genova Pontedecimo, Imperia, Sanremo e talvolta, più raramente, La Spezia con la conseguenza che ogni contatto e/o visita implica tempo e spese che, inevitabilmente, direttamente o indirettamente, gravano sul detenuto stesso” “Talvolta - osserva ancora Vittoria Fiori - per i congiunti dei detenuti la lontananza costituisce ostacolo concreto ad esercitare il loro diritto ad un colloquio che, per il detenuto, come noto, è momento fondamentale anche di speranza e di cura dei propri affetti e gestione delle proprie attività extramurarie”. “Considerata - conclude il presidente dell’Ordine degli avvocati - l’importanza della problematica e la Vostra evidente e reale attenzione ai diritti degli indagati e/o imputati confidiamo in un Vostro intervento che consenta di dare concretezza alle ipotesi e alle promesse di realizzazione di un carcere per il nostro circondario”.  Catanzaro. Fismu: “Sciopero medici penitenziari, gravi condizioni di lavoro in cui operano” ansa.it, 19 gennaio 2023 Uno sciopero dei medici penitenziari del carcere di Catanzaro è stato proclamato dalla Federazione Italiana Sindacale Medici Uniti-Fismu. Il sindaco, è scritto in una nota, “ha ripetutamente segnalato le gravi condizioni di lavoro in cui operano i medici. A dicembre è stato proclamato lo stato di agitazione, ma senza nessun riscontro adeguato, ed è per questa ragione che per Fismu, il vaso è da considerarsi ormai pieno e annuncia lo sciopero per la tutela dei diritti dei professionisti sanitari che operano in questo istituto penitenziario”. “I professionisti della medicina penitenziaria - afferma Francesco Esposito, segretario nazionale Fismu - hanno un rapporto di lavoro disciplinato dal vigente Accordo Collettivo nazionale per la Medicina Generale che non viene rispettato, lamentano la carenza di personale medico all’interno della struttura carceraria con notevole appesantimento dei turni lavorativi; e spesso sono chiamati a supplire la mancanza di specialisti con compiti impropri. Ma non basta: altra nota dolente è il pagamento degli emolumenti dovuti e ancora non erogati”. “Nonostante siano state intraprese numerose iniziative con relative promesse di intervenire - aggiunge il segretario nazional Fismu - l’Asp di Catanzaro continua ad ignorare la problematica. La situazione lavorativa all’interno della struttura carceraria è oramai ai limiti dell’insostenibilità”. Fismu ha proclamato a dicembre lo stato di agitazione ma ad oggi “nessun reale riscontro è arrivato dalle istituzioni” interessate. “Il vaso è pieno - conclude Esposito- e non rimane che lo sciopero per la tutela dei diritti dei professionisti sanitari degli istituti penitenziari, non rimane che andare a una ferma protesta”. Bari. Liti con i condomini per i gatti, donna arrestata: finisce in carcere a 76 anni di Biagio Chiariello fanpage.it, 19 gennaio 2023 Lina è stata denunciata per le liti con i condomini a causa dei gatti. Disposta la misura dei domiciliari, dopo un controllo è risultata assente ed è stata tradotta in carcere: per la sua scarcerazione c’è stata anche una manifestazione davanti al tribunale di Poggiofranco. Una donna di 76 anni è stata arrestata a Bari con l’accusa di stalking condominiale, dopo essere stata denunciata dai suoi vicini di casa a seguito delle liti per i suoi gatti. L’anziana però non può essere mandata agli arresti domiciliari presso la propria abitazione, in quanto proprio qui sono nati i problemi per cui è stata arrestata, e non c’è una struttura disposta ad ospitarla. E mentre per lei si stanno mobilitando Servizi sociali del Comune, associazione di volontariato e parrocchia di riferimento della donna, ieri davanti al Tribunale di Poggiofranco dove si stava tenendo il processo nei suoi confronti, è stato apposto uno striscione con la scritta: “Lina libera subito”. Le discussioni con gli inquilini risalgono a qualche anno fa, quando nel palazzo in cui vive la donna, sono sorti problemi relativi agli assetti proprietari e alla gestione dei suoi gatti. Lina è stata denunciata da due vicini per presunte aggressioni e a una di loro sono state documentate anche lesioni guaribili in 15 giorni. La procura di Bari, che ha condotto le indagini, ha chiesto e ottenuto la misura degli arresti domiciliari con l’accusa di stalking condominiale nei confronti della 76enne. La donna, durante un controllo della polizia giudiziaria presso il suo domicilio, è risultata assente; a quel punto è scattato l’arresto in carcere con l’accusa di evasione. L’avvocato difensore di Lina, ritenendo esagerata l’applicazione della custodia in carcere, visti anche l’età e i problemi di salute della donna, ha chiesto ora i domiciliari. Ieri, proprio durante il processo, le associazioni e i volontari che nei mesi scorsi hanno assistito la signora Lina hanno manifestato davanti al Tribunale per chiedere la scarcerazione. Fate presto: uscite dai social di Concita De Gregorio La Stampa, 19 gennaio 2023 La tecnologia è sempre benedetta, diverso è farsi merce. È tempo di salvarsi e tornare padroni di noi stessi. Non mi preoccuperò, nello scrivere queste righe, delle reazioni che scatenerà sui social domattina. Ce la posso fare, devo solo pensare alla vita di prima. Me lo ricordo, quando la libertà di dire non era mai in nessun momento attraversata dal pensiero: pensa che giornata mi aspetta domani. Era meglio, senza un filo di dubbio. Era sano lavorare senza la preoccupazione preventiva del sabba infernale che comunque, anche se ti sforzi di ignorarlo, non ignora te: entra dagli interstizi, si fa spiffero e poi tempesta, c’è sempre un amico che ti avvisa: sei in tendenza, hai visto? Tendenza. Che parola assurda, senza l’indicazione di un approdo. Verso cosa tende, esattamente, questa tendenza? Che trappola. La reputazione, la popolarità. E invece, pensa: prima contavano l’identità, l’autorevolezza. La costruzione di una reputazione a uso del popolo del web là fuori (in verità là dentro: stanno tutti a casa loro) ha fagocitato l’identità. La popolarità e il consenso hanno preso il posto della competenza, della fatica che serve. Non importa chi sei, importa quello che fai credere di essere. Funziona così. Non penserai mica di sottrarti? Se esci sei fuori, fuori piove. Fa freddo. Nessuno ti vede, smetti di esistere. Esci dal mercato, non te lo ha spiegato il tuo agente? Ho vissuto cinquant’anni senza un’agente, rispondevo prima. Ma allora sei scema. E un assistente, un social media manager, un consulente per l’immagine? No, niente, ma siccome è una conversazione da binario morto non lo dico più. Ora però. Mi pare di intravedere qualche piccolo, timido indizio di saturazione perciò ripeto qui la proposta che feci anni fa all’uomo più illuminato che abbia mai conosciuto il quale mi rispose, saggio: è presto. Forse tra poco sarà tardi, però. Allora, amici: usciamo dai social. Non esistono senza di noi. Si sono impadroniti delle nostre vite per il semplice motivo che gliele abbiamo consegnate. Vivono del nostro sangue che gli forniamo ogni giorno: una bella edificante foto su Instagram, un post che ci renda interessanti e certo migliori di quello che siamo, che nasconda per carità le nostre fragilità, le vite occulte, le nostre vere pulsioni e passioni. E invece: un pensierino, una provocazione, un ricordo accorato, una foto col morto del giorno che certifichi io c’ero, lo conoscevo. Guardate come sono giusto, opportuno, apprezzabile. Ma se non gli dessimo materia, ai mangiamorte, ci pensate? Non esisterebbero. Lo so, ci sono milioni di persone che ci lavorano: per mancanza di alternativa, sovente. I social media manager, i costruttori di immagine del politico, della celebrità. Ma siamo sicuri che facciano un lavoro utile a loro e a noi, camuffando continuamente la vera natura delle persone? La disillusione, il sospetto, il complottismo che dilaga, il non ce la contate giusta non nascono anche dalla costante dissimulazione della verità come imperativo? La verità, insomma: sparita dietro la rappresentazione. Parli con il mio addetto stampa, con il mio manager, non è una bella risposta da sentirsi dare e neanche una bella frase da dire. Le persone migliori che conosco non sono sui social. Senza offesa per chi ci campa e lo capisco: i mestieri di una volta non ci sono più, questo è il mondo come va, bisogna arrangiarsi e starci. Però ripeto: statisti, inventori, poeti, navigatori, gente che pensa e scrive e lavora a costruire mondi. Gente che accudisce persone. Gente che lavora tutto il giorno e che poi si dedica a chi ha intorno, fisicamente: che parla e guarda in faccia chi c’è. Non sono sui social. Non hanno il tempo per farlo, né l’interesse. Hanno da fare. Che poi. Pensavo leggendo le cronache sul Grande Latitante. Hai vissuto trent’anni alla luce del sole, a casa tua. A parte le complicità che certo ci sono e ci sono sempre state, le massonerie, i piccoli politici locali che hai fatto votare e ti hanno protetto, le borghesie contigue con la mafia, le connivenze, va bene. Ma per non essere notati la cosa più semplice è sempre la stessa: non esibirsi, stare nei propri panni. È quando vuoi essere notato che hai bisogno di avere tribuna: un megafono social serve a questo. Quindi prendiamo nota: senza un profilo Facebook o quello che sia, TikTok la dannazione, puoi persino latitare per decenni. Potremmo noi, che non siamo Messina Denaro, vivere sereni la nostra vita di prima: fare cose che ci va di fare e di dire, o non farle, e tornare a essere chi siamo. Restare chi eravamo. Il grande problema è il terrore di non essere all’altezza delle aspettative altrui. Familiari, professionali, sociali: se scoprono chi sono davvero son rovinato. Dissimulare, costruire vite da recitare, recitarle (i professionisti dello spettacolo sono, in questo, in effetti, avvantaggiati: possono mettere in scena vite domestiche come fossero un film d’autore). Ne parla Niccolò Ammanniti nel suo ultimo libro, “La vita intima” (Einaudi): nell’intervista che Annalisa Cuzzocrea gli ha fatto su La Stampa, dice cose semplici e mirabili. Intanto, appunto, niente social. Non c’è tempo, la vita è una ed è breve. Ma poi: quanta energia, quanto tempo e lavoro quanta ansia ci costa sembrare diversi da quello che siamo. E perché. Per chi? Pensate ai ragazzi: alle loro vite tutte quante virtuali, ormai, al sesso imparato sui siti porno alle relazioni mediate dal giudizio del mondo intero, un mondo sconosciuto. Se parlo con qualcuno che ho di fronte so a chi parlo, se parlo con il web non so chi mi ascolta: e come faccio, se ho 12 anni, a piacere a chi mi ascolta senza sapere chi è? Posso solo fare come mi dicono di fare, imitare quelli già popolari. Essere uguale a qualcuno, rinunciare a essere chi sono. È una tragedia, per i ragazzi. Molto più che per noi. Ma è reversibile? Si può uscire dai social? Possono, gli adolescenti, tornare a parlarsi? Dipende anche da noi. Loro arrivano nel mondo che gli abbiamo apparecchiato. Possiamo sparecchiare. C’è qualche timido segnale, dicevo. “Prospettive economiche più deboli per i colossi di Silicon Valley”, leggo. Dopo Amazon, Facebook, Tesla (Twitter) ora tocca a Microsoft licenziare: diecimila dipendenti di troppo. Qualcosa si è rotto. Non sembrano averlo compreso i grandi gruppi editoriali che abbandonano la carta (e la qualità, e le competenze, e la storia delle persone e delle cose) per inseguire i clic, la pubblicità, un mercato vicino al punto di collasso. È una gara a perdere, alla lunga: economicamente, culturalmente. Piantare semi, si dovrebbe. Non raccogliere frutti di alberi esausti. “La verità è nelle mani, negli occhi e nel silenzio”, scrive Christian Bobin, poeta. La paura di non piacere, l’ansia di nascondere le nostre debolezze ci ha portati al più fasullo dei mondi che pretende da noi ogni momento qualcosa di più: che ci consegniamo, come comparse. Ma no. Non dobbiamo rinunciare alla tecnologia, ci mancherebbe. Non è passatismo, non è luddismo. Le guerre, le rivoluzioni in atto con migliaia di giovani donne e uomini che si sacrificano per la libertà sono sostenute dalle telecamere dei telefoni sempre attivi, dal poter sapere e vedere ogni momento quel che accade. Benedetti telefoni. Diverso è farsi merce. Diventare il telefono anziché servirsene. Poco a poco, non è facile. Ma poco a poco, proviamo: andiamocene da lì, torniamo noi. “Prendimi, portami con te come un incendio nelle tue abitudini”, scrive Mariangela Gualtieri. Inseguiamo i poeti, non gli influencer. Entriamo come un incendio nella vita di un altro, un altro vero di carne. Non come un fiammifero nel grande falò delle vanità che tanto già arde: si serve di noi, non ci serve. Abbiamo solo il tempo, questo è il patrimonio, e non è infinito: riprendiamocelo. Torniamo fragili, imperfetti. Torniamo veri, avremo un mondo vero. Studente modello nei guai per droga: non potrà chiedere la patente fino al 2028 di Denis Barea Corriere della Sera, 19 gennaio 2023 Nel frattempo si è laureato, ma per la motorizzazione “non ha i requisiti morali”. Uno studente modello, laureato con il massimo dei voti alla facoltà di economia dell’Università di Venezia, con una vita privata divisa fra gli amici, la fidanzata e la frequentazione di varie associazioni di volontariato. Insomma: il figlio che tutti vorrebbero. Ma nel passato di questo 25enne c’è un’ombra: due sentenze per spaccio di stupefacenti, una emessa nel 2016 e l’altra nel 2020 dalla procura di Pordenone. In entrambi i casi il ragazzo era stato trovato in possesso di una modesta quantità di marijuana che però gli investigatori ritennero fosse finalizzata allo spaccio. Per quei due fatti oggi il giovane non può chiedere la patente che gli serve per andare al lavoro che ha trovato a Padova. Mancherebbe infatti dei “requisiti morali” per accedere al foglio rosa. E questa mancanza di requisiti durerà almeno fino al 2028. Ma andiamo con ordine: la vicenda racconta della serie intricata di guai giudiziari a cui il ragazzo e andato incontro nell’arco di quattro anni, fra il 2016 e il 2020, quando era studente. Il 25enne era stato prima coinvolto in una indagine della procura friulana relativa ad uno spaccio di stupefacenti perché trovato in possesso di una modesta quantità di cannabinoidi ed era stato condannato a 8 mesi. Il giovane, alla lettura della sentenza, però aveva beneficiato del cosiddetto “quinto comma”. Lo spaccio di droga infatti prevede il riconoscimento della lieve entità (appunto quinto comma dell’art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica 309 del 1990) quando per qualità e quantità, la droga posseduta è considerata relativamente pericolosa. Insomma, la condanna non ha alcuna conseguenza pratica. La segnalazione della Prefettura Messa alle spalle la “ragazzata”, nel 2019 il 25enne si presenta alla motorizzazione a Treviso per sostenere l’esame per la patente, dopo aver superato la prova teorica e aver conseguito il numero minimo di guide pratiche. E qui la sorpresa: gli uffici respingono la sua iscrizione. Il motivo? La prefettura di Pordenone lo aveva segnalato sulla base di una norma, a dire il vero scarsamente applicata, secondo la quale avendo una condanna per droga gli sarebbero mancati i “requisiti morali” per guidare la macchina. Il ricorso dell’avvocato - Il giovane si rivolge allora all’avvocato trevigiano Salvatore Cianciafara che presenta ricorso, sottolineando come la condanna sia legata ad un fatto di lieve entità. Cianciafara vince una volta e poi una seconda, resistendo con successo al ricorso della Prefettura friulana. Sembra la fine dell’incubo del ragazzo, che si ripresenta alla motorizzazione trevigiana ma dagli uffici arriva un secondo stop. Spunta infatti un altro fattore ostativo: nel 2020 infatti c’era stata una seconda condanna, sempre per spaccio. La droga ancora una volta non era tanta e ancora una volta era stato applicato il “quinto comma” ma l’avvocato che l’aveva seguito nelle vicende penali aveva deciso di farlo patteggiare a 1 anno in continuazione con la precedente sentenza. Riabilitazione: parere negativo - E si arriva quindi al 2021 quando, su consiglio dell’avvocato Cianciafara, il 25enne persegue la strada della riabilitazione, che scatterebbe dopo due anni dall’ultima sentenza. Ma l’autorità giudiziaria dà un nuovo parere negativo: il 25enne è infatti, per la legge italiana, un recidivo in quanto condannato due volte per la stessa tipologia di reato e i termini sono fissati non a due ma bensì a otto anni. “L’accanimento della Prefettura di Pordenone - spiega Ciancafara - nasce dall’applicazione di una norma che praticamente nessuno in Italia utilizza, altrimenti ci sarebbe un esercito di persone, condannate per il possesso o lo spaccio di lievi quantità di droga, privo di patente. È un caso che appare assurdo e surreale, per quanto sia tutto perfettamente legale”. Migranti. Tajani e Piantedosi a Tunisi: “Più fondi, ma fermate i barconi” di Leonardo Martinelli La Repubblica, 19 gennaio 2023 I due ministri portano il sostegno al sempre più isolato Saied in un Paese sull’orlo del default. Più sostegni all’economia tunisina, se il Paese rispetterà i patti sulla lotta all’immigrazione clandestina. È stato il leitmotiv della visita lampo ieri di Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepresidente del consiglio, e di Matteo Piantedosi, responsabile degli Interni, al di là del Mediterraneo, a Tunisi, in una fase critica per il Paese maghrebino, con l’aumento dei barconi della speranza verso Lampedusa e una crisi economica senza precedenti. In una pausa, Tajani ha pure ricordato Bettino Craxi, morto ad Hammamet esattamente 23 anni fa, il 19 gennaio 2000. “A lungo - ha detto - è stato ingiustamente criticato e condannato. Ma poi, alla fine, ci si è resi conto che fu un protagonista della storia repubblicana”. La visita dei due ministri, annunciata pochi giorni prima, non è stata una casualità. Dall’inizio del 2023 già più di 1.800 migranti sono sbarcati sulle coste italiane in arrivo dalla Tunisia, un numero altissimo rispetto a un anno fa. In tutto il 2022 sono stati 32mila, 18mila dei quali tunisini: la loro quota sta crescendo. Nei supermercati della capitale prodotti come il latte, il burro e il caffè arrivano a singhiozzo. L’inflazione è oltre il 10% e i salariati si devono accontentare di uno stipendio medio di appena 300 euro. Lo Stato ha pochi margini d’azione, ormai sull’orlo del default. La Tunisia necessita disperatamente di un prestito previsto da parte dell’Fmi (1,9 miliardi di euro), ma che viene continuamente rinviato. Kais Saied, l’enigmatico presidente, sempre più impopolare in patria e isolato a livello internazionale, ha bisogno di sostegni. E così lui, che se ne sta sempre rintanato nel palazzo presidenziale di Cartagine, di fronte al mare, ha deciso di accogliere lì a braccia aperte Tajani e Piantedosi, che avevano già incontrato i loro ministri omologhi. “Sulla questione migratoria siamo stati in perfetta sintonia con lui”, ha precisato Tajani, mentre proprio ieri da Bruxelles la Commissione Ue ha invitato a non criminalizzare le ong, perché “salvano vite”. “Il problema va risolto nel suo complesso. Il tema della sicurezza ne è parte, ma poi ci sono la lotta alla povertà e quella contro il cambiamento climatico. Bisogna risolvere il problema alle radici”. “Vogliamo condividere iniziative di sviluppo economico - ha aggiunto Piantedosi - perché si prosciughi alla fonte la volontà di partire”. In soldoni? La cooperazione allo sviluppo “sta stanziando - ha ricordato il ministro degli Esteri - 50 milioni direttamente per lo Stato tunisino e altri 50 per le piccole e medie imprese. Stiamo per ultimare l’iter burocratico”. Intanto ci sono già progetti all’esame o in via di programmazione per un totale di 700 milioni di euro varati dall’Italia. Senza considerare un nuovo sforzo: la costruzione di Elmed, il cavo sottomarino elettrico tra la Tunisia e la Sicilia, che inizierà a partire dall’anno prossimo (degli 850 milioni necessari, 306 sono stati appena stanziati dall’Ue e la quota restante per la metà arriverà ancora dall’Italia). Tunisi, però, che pure l’anno scorso ha intercettato più di 40mila migranti in mare, prima che raggiungessero l’altra sponda, e che rappresenta già il Paese dove l’Italia realizza più rimpatri di clandestini, deve fare di più per ridurre i flussi in partenza. In cambio, ancora, “siamo disposti a offrire più possibilità a immigrati tunisini formati - ha detto Tajani - che arrivino da noi regolarmente”. Con Saied i due ministri hanno anche discusso di Libia. “L’Italia persegue l’obiettivo della stabilità e della pace in quel Paese - ha detto Tajani - E così bisogna frenare i suoi flussi migratori, che in parte passano attraverso la Tunisia, la cui collaborazione è necessaria”. Il ministro degli Esteri è stato appena in visita in Turchia e nel fine settimana si recherà in Egitto. “Vogliamo essere presenti nel Mediterraneo e svolgervi un ruolo di pace - ha detto - Tutti apprezzano la nostra capacità di risolvere i problemi, senza un atteggiamento predatore, aggressivo e da colonizzatore”. Ha preso appunto anche l’occasione per ricordare un politico italiano che portò avanti una strategia mediterranea “attiva”, Bettino Craxi. Fuggì i suoi problemi giudiziari proprio in Tunisia, dove morì 23 anni fa. “È stato uno dei nostri grandi politici, che più ci fece contare sul palcoscenico internazionale. Oggi viene fortunatamente rivalutato”. Migranti. “Presuntuoso se pensi che altre persone scelgano di lasciare tutto per venire a casa tua” di Luca Mastrantonio Corriere della Sera, 19 gennaio 2023 La poetessa britannica Warsan Shire: “Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo”. Nata in Kenya da genitori somali, nei suoi libri parla di povertà, crisi umanitaria, immigrazione: “Mio padre non ci ha protette dalla realtà, ci spiegava perché c’è la guerra, cosa vuol dire essere rifugiati”. Anni fa lessi un testo che iniziava così: “Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo”. E poi continuava: “Fuggi verso il confine solo quando vedi che tutta la città è in fuga. Il ragazzo con cui andavi a scuola, che ti stordiva di baci dietro la vecchia fabbrica di lattine, ora impugna una pistola più grande di lui. Lasci casa solo quando è la casa a scacciarti”. L’immagine dello squalo-casa, nella mia mente, si è mangiata la storia dei rifugiati da aiutare “a casa loro”. Le parole di quel testo, Casa, sono di Warsan Shire, poetessa britannica, nata a Nairobi nel 1988 da genitori in fuga dalla Somalia sull’orlo di una guerra civile, e poi cresciuta tra mille difficoltà a Londra. Infanzia difficile, talento precoce, Warsan è stata Young Poet Laureate of London e la più giovane componente della Royal Society of Literature. Il potere terapeutico della poesia - L’incontro che le ha cambiato la vita è in un laboratorio poetico dove scopre il potere terapeutico della poesia, trova amici e un editore per l’esordio del 2011: Teaching My Mother How To Give Birth. La fama arriva con Internet, dove le poesie diventano virali (Benedict Cumberbatch recita Casa a teatro). Beyoncé le chiede di lavorare all’album Lemonade, nel 2015, ma la prima raccolta arriva nel 2022, dal 14 gennaio in libreria per Fandango libri: Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa (trad Paola Splendore). C’è la poesia Casa e ricorre, in altri testi, l’immagine dei denti: affilate, lucide, dolenti e magiche sono le metafore con cui Shire affonda i versi nella vita. Anni fa, invitava le madri a dare nomi difficili alle figlie, “nomi che impongano l’uso completo della lingua. Il mio nome vuole che tu mi dica la verità. Il mio nome non mi permette di credere a nessuno che non lo sappia pronunciare nel modo giusto”. Come si pronuncia Shire? Sciré. L’abbiamo chiesto a Igiaba Scego, autrice italiana di origini somale, per guadagnarci un po’ di fiducia di Shire, che ci risponde al telefono da Los Angeles. Partiamo dalla dedica del libro, alle sue sorelle. Anche loro cresciute da una voce nella testa? “Io avevo già un fratello, ma quando mia madre si è risposata sono arrivate loro: Samawado è nata quando avevo 12 anni, un anno dopo Suban e poi Salma. Era molto stressante per me, e impegnativo per la mia salute mentale, perché ero una bambina genitorializzata, andavo a scuola e a casa mi occupavo di loro e nessuno lo sapeva, come se fosse un segreto, ma mi hanno fatto sentire meno sola, come se avessi sempre amici, le vestivo eleganti, giocavo e ballavo con loro, mettevo la loro felicità davanti a tutto, le trattavo come figlie mie: è come se mi avessero dato la possibilità di avere una seconda infanzia, visto che la mia era stata infelice. Ora Samawado va all’università a Londra e per me è come se ci andasse mia figlia. Il libro è dedicato alle mie sorelle che sono figlie cresciute da voci nella loro testa, hanno dovuto assumersi grosse responsabilità, prendersi cura dei loro genitori, della loro casa, delle proprie vite, come tante donne”. Lei poi è diventata madre davvero... “Si, e c’è differenza tra sentirsi madre ed essere madre. Ma grazie a loro ho imparato a essere paziente come una madre, ma prima di diventarlo”. Cosa è cambiato con la nascita dei suoi figli? “Beh, intanto pensavo che avrei avuto delle figlie e sono nati due maschi. Che strano giro ha fatto il destino, quando sono nata mia nonna paterna mi aveva dedicato una poesia per celebrare che fossi femmina, in risposta alla delusione del sesso del nascituro per alcuni parenti che speravano fossi maschio. La prima riga invitava tutti a essere felici lo stesso e per bilanciare il pregiudizio dicendo che una femmina è meglio di mille maschi...”. Poi, sorpresa, lei ha avuto due maschi... “Temo di essere in grado di generare soltanto maschi. Se ci riprovassi, sicuramente avrei un altro maschio. Ho due maschietti: uno ha tre anni, mentre l’altro uno. Ilias e Ayup. Ho sempre pensato che avrei avuto delle femmine perché amo le bambine, sono abituata alla loro compagnia. Ma aver avuto dei maschi ha avuto benefici, mi consente di scrivere con maggior empatia nei confronti di mio padre e dei maschi in generale. Avevo commesso, all’opposto degli uomini che dicono di non aver mai pensato a cosa farsene di una donna fino al momento in cui gli è nata una figlia, lo stesso peccato. Mi limitavo a pensare al significato che assume per una donna esistere e sopravvivere in questo mondo, restando distante dalla prospettiva maschile”. A suo padre ha dedicato molte poesie. In una dice che “Se la luna era l’Europa, mio padre era l’astronauta che morì / mentre andava sulla luna”. Poi lo immagina che vaga nello spazio e le lacrime, in assenza di gravità, non cadono... “Sono sempre stata molto innamorata di mio padre. Un uomo molto attivo in politica, un giornalista, ha abbandonato Mogadiscio perché stava scrivendo un libro che lo aveva messo nei guai con il governo, lo avrebbero ucciso. È andato in Kenya, ma non era sicuro neanche lì, il governo di Nairobi collaborava con quello somalo... così siamo scappati in Inghilterra, poco prima che scoppiasse la guerra civile in Somalia. Ricordo che nella mia infanzia c’erano per casa a Londra le foto che lui aveva appeso, della Somalia prima e dopo la guerra. Sono cresciuta in un museo del prima e del dopo, e pensavo che tutti avessero delle foto così”. Nei primi Anni 90, con la guerra civile in Somalia, lei era molto piccola. Che ricordi ha? “Nella casa di Londra, mio padre accendeva il telegiornale e ci diceva “questo è quello che è successo, questo è quello che sta succedendo a casa” e diceva “questa è la tua famiglia, quelli che vedi in tv sono i tuoi connazionali, non ti dimenticare di loro”. Lui non ci ha protetto dalla realtà, ci spiegava le cose: perché il tribalismo è sbagliato, perché c’è la guerra, cosa vuol dire essere rifugiati, come andare all’home office, il panafricanismo... è stata la prima persona che mi ha detto che sono nera, e cosa vuol dire essere nera e musulmana, essere nera e inglese... Quando mio padre e mia madre divorziarono mi è rimasta impressa l’immagine di mio padre che leggeva, tutte le mattine, le sere, in salotto, e scriveva al computer. Sono profondamente legata a lui, per me è come rivivere la sua vita. Grazie a lui mi sono interessata al mio popolo di origine, la Somalia, ai rifugiati di lì, da cui poi è nata anche la poesia Casa”. Quando l’ho letta per la prima volta era usata per una raccolta fondi per i rifugiati siriani. Le va di raccontarci com’è nata la poesia? “Me lo ricordo come fosse ieri. Ero in Italia per un festival (di Internazionale, ndr) e andai a Roma a incontrare alcuni rifugiati somali, vicino all’ambasciata. Era tutto fatiscente, non potevo pensare che potesse essere un posto dove vivevano degli esseri umani, che stessero crescendo dei bambini. Mi dissero che il giorno prima un ragazzo era morto buttandosi da sopra l’edificio perché gravemente depresso. Era come ground zero... avevo emozioni contrastanti: se si guarda alla storia dell’Italia che ha colonizzato la Somalia, e si vede l’ambasciata in quello stato, si pensa a quanto sia ingiusta la vita, e c’erano tanti italiani accoglienti e premurosi. Ho provato rabbia, rancore e tristezza, ero inerme di fronte a un’altra versione di me, bloccata lì”. “Tutti noi abbiamo avuto poco tempo per lasciare il Paese, che fossimo già nati o ancora nel grembo di nostra madre o anziani, o qualsiasi fosse la condizione siamo dovuti fuggire velocemente. Sono altre versioni della mia famiglia. Se uno della mia famiglia fosse arrivato in Italia, ecco come sarebbe andata. Ma sarebbe la stessa cosa se incontrassi rifugiati somali in altri Paesi... La vedo come una lotteria, è solo fortuna dove arrivi, non sei migliore o più intelligente di altri”. Ogni volta che quella poesia viene citata, si tratta di far aprire gli occhi su una crisi umanitaria, di abitare lo sguardo dell’altro da noi... “Fu intenso scoprire i rifugiati somali i Italia, vicino a dove vivevo, in Inghilterra. Ma ci sono tanti posti dove le persone sono in ginocchio così: la Palestina, Haiti, la Somalia, l’Iraq, la Siria, la Libia... l’Ucraina, che è tanto vicina all’Italia. Dobbiamo imparare che è tutta esperienza umana, non è solo per quelli che sono i più scuri di pelle o i poveri”. Qual è il principale errore che si fa nel guardare alle crisi umanitarie di tipo alimentare o bellico? “Non capire il punto di vista dell’altro, usare le parole senza che abbiano significato. Ricordo che da piccola quando mi dicevano “tornate in Africa” io pensavo “Magari! Andrei a casa domani se potessi”, ma non avevo la capacità linguistica di spiegare che avrei preferito essere a casa che lì”. La metafora della bocca dello squalo esprime bene quanto possa essere pericoloso restare a casa, piuttosto che rischiare di affogare in mare... “Sono tutte immagini e storie che ho ascoltato, devo dire che è stato molto catartico leggere poi quella poesia in Italia. Per me la poesia è molto terapeutica. Può aiutare chi ha vissuto situazioni simili a vivere meglio. E chi non le ha vissute, può aiutarlo a capire. Mi sono resa conto che con quella poesia c’è un intero mondo di persone che non possono capire perché non hanno vissuto certe situazioni. Ma non c’è niente di bello a lasciare indietro tutta la mia famiglia, tutti i miei amici, la mia integrità, la mia dignità, la mia cultura, la mia lingua, mio figlio, tutto quello che ho dovuto lasciare indietro perché lì, nel mio Paese, mi trattano meno di un essere umano. Chi farebbe una scelta del genere? Nessuno. Devi essere molto pieno di te stesso per pensare che altre persone vogliano lasciare tutto quello che amano per venire a casa tua. Perché uno rischia di perdere tutto andando per mare? Perché gli hanno già tolto tutto”. In una poesia dedicata a sua madre cita in maniera ironica dei versi di Maometto. Che rapporto ha con la religione islamica? “Sono nata in una cultura islamica, ma senza rigidità. Le zie che si prendevano cura di me, di estrazione modesta, arrivate a Londra da poco, erano ancora adolescenti. Indossavano il velo hijab integrale, dalla testa ai piedi, mentre a me intrecciavano i capelli. Negli Anni 90 c’era fobia verso l’islam, il razzismo era frequente verso donne di colore con l’hijab. Una volta a 7 anni decisi di andare a scuola con l’hijab perché volevo copiare le zie. Loro mi sconsigliarono ma io le convinsi. L’insegnante mi spinse in un angolo chiedendomi se stessi bene, come mai avessi quella roba in testa. Non sapevo che rispondere, mi piaceva indossarlo, mi sentivo bellissima, una principessa. Fui costretta a levarlo e ai parenti fu detto di impedirmi di metterlo nuovamente”. “Mi chiesi: “Perché non posso essere manifestamente musulmana? Cosa c’è di sbagliato?”. Se mi viene detto che non posso fare qualcosa, la desidero addirittura con maggior volontà. Con il divieto dell’insegnante, l’hijab divenne una vera ossessione per me. Sviluppai un sentimento esattamente opposto a quello di altre giovani che lo odiavano poiché erano costrette dai genitori a indossarlo. Però non avevo la disciplina necessaria per indossarlo costantemente. E mi piace la moda... quindi poi l’ho tolto. Poi ho scoperto il sufismo, un islamismo filosofico e oggi sono musulmana, come mio marito, che è messicano ed era cattolico, e i miei due figli. La mia famiglia, l’amore per tenerla unita, è la mia utopia. Che in somalo si dice barwaaqo . In fondo al libro, c’è un glossario di parole somale cui tengo”. Ucraina-Russia: l’ombra lunga di una guerra di logoramento di Federico Rampini Corriere della Sera, 19 gennaio 2023 Un paragone inquietante che comincia ad affacciarsi è con la guerra di Corea, combattuta dal 1950 al 1953, in realtà mai conclusa. Il termine più usato nelle analisi americane sull’Ucraina ormai è attrition o logoramento. Chi stia logorando chi, non è chiaro. Alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato non sembrano esserci illusioni su una vittoria totale di Kiev o su un negoziato di pace in tempi brevi. Un paragone inquietante che comincia ad affacciarsi è con la guerra di Corea, combattuta dal 1950 al 1953, in realtà mai conclusa (ad oggi non esiste un trattato di pace). Anche perché la Russia può ancora chiamare al fronte centinaia di migliaia di riservisti, così come Mao potè schierare sul fronte coreano tre milioni di soldati; l’inferiorità “demografica” dell’Ucraina pesa. Questo chiama in causa la dimensione degli aiuti occidentali (sempre inferiori alle promesse), e l’efficacia delle nostre sanzioni (l’economia russa soffre meno di quanto prevedessimo). Se questo conflitto dovesse avere una durata “coreana”, anche la nostra tenuta e i mezzi dispiegati andranno ripensati su un orizzonte lungo. Ne saremo capaci? Vladimir Putin ha sbeffeggiato quegli esperti “occidentali, e perfino qualche russo, che prevedevano un’economia russa in crollo del 10% o 20%”. Stando ai suoi dati il calo del Pil nel 2022 è stato del 2,5%, un arretramento netto ma non catastrofico. Non gli impedisce di pianificare un allargamento delle sue forze armate fino a un milione e mezzo di soldati, cioè cinquecentomila in più rispetto a un anno fa. La superiorità demografica lo rende fiducioso: la Russia ha tre volte e mezzo la popolazione dell’Ucraina, perciò pensa che a logorarsi per primi saranno gli altri. I dati ufficiali di Putin forse sottostimano l’impoverimento russo. Le sanzioni che contano, quelle contro le esportazioni di gas e petrolio, sono arrivate tardi ma a dicembre hanno contribuito a un calo del 17% degli introiti energetici di Mosca. Il ruolo della Russia sui mercati mondiali diventa marginale mentre cresce la sua dipendenza dalla Cina. Perfino la sua influenza in Asia centrale regredisce. I danni che Putin infligge al suo Paese nel lungo periodo diventeranno sempre più drammatici. Ma un regime autoritario affronta il “lungo periodo” in modo diverso da noi. In settant’anni dalla fine della guerra, la monarchia rossa che domina la Corea del Nord ha privato il suo popolo di tutto il benessere e il progresso di cui è stata capace la Corea del Sud. Però la dittatura di Pyongyang è ancora lì, a destabilizzare l’Estremo Oriente con missili e atomiche. Le lezioni della guerra di Corea sono molteplici, anche per ciò che fecero e non fecero gli Stati Uniti. Nel 1950 erano una nazione stanca di conflitti, molti dei combattenti nel sud-est asiatico erano reduci della seconda guerra mondiale. Quella sì era una “guerra per procura”, con la discesa in campo dell’armata rossa cinese. Però il generale americano Douglas MacArthur che propose di colpire Pechino fu licenziato in tronco: aveva violato (verbalmente) quel tabù dell’arma nucleare che Putin sembra ignorare. Oggi le ritrosie dell’Occidente sono superiori ad allora. Il pandemonio dei nostri pacifisti contro le forniture di armi a Kiev ha finito per nascondere la realtà dei fatti: gli aiuti militari procedono con il contagocce, con tali e tante limitazioni che la resistenza ucraina si difende con un braccio legato dietro la schiena. L’ultimo massacro di civili in un palazzo sventrato da un mega-missile russo ci ricorda che la Nato non ha mai preso in considerazione una difesa dello spazio aereo, senza la quale il combattimento è impari, tragicamente asimmetrico. In Germania il governo di Olaf Scholz promise una svolta storica, nuovi investimenti per la difesa, per essere all’altezza della minaccia russa: finora non è accaduto nulla. L’ex ministra della Difesa, passata alla storia per la sua offerta iniziale di soli elmetti agli ucraini (con cui proteggersi dai missili russi) ha dovuto dimettersi per manifesta incompetenza. La vicenda dei tank Leopard è una beffa crudele: per mesi Berlino ne ha bloccato la fornitura a Kiev, perfino ad opera di altri Paesi. Domani il neoministro tedesco della Difesa accoglierà nella base aerea di Ramstein un vertice di cinquanta Paesi (Nato e amici) e si vedrà se finalmente vengono sbloccati aiuti in attesa da mesi. Intanto Erdogan vuole rinviare a dopo la sua rielezione l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. È reticente perfino l’America, che i pacifisti a senso unico hanno sempre descritto intenta ad aizzare gli ucraini. In realtà le forniture americane sono ben al di sotto di quanto sarebbe necessario per fermare le stragi. È importante il gesto simbolico con cui il Pentagono accoglie per la prima volta dei soldati ucraini sul proprio territorio, per insegnargli a usare le batterie anti-missili Patriot. Ma per il momento l’America di queste batterie ne fornisce una sola, sulle tante decine di cui dispone. Gli Stati Uniti, con una potenza militare molto superiore agli europei ma dilatata su troppi continenti, troppe basi, troppi impegni, soffrono di limitazioni non molto diverse dagli altri paesi Nato. La loro industria bellica è dimagrita rispetto agli anni della guerra fredda. Per fornire munizioni a Kiev gli americani “raschiano il fondo del barile”, svuotano depositi in Israele e Corea del Sud. Le forze armate ucraine esauriscono munizioni a un ritmo doppio rispetto all’intera produzione dei Paesi occidentali. Questa è una situazione diversa da quella “guerra per procura”, che secondo i filo-putiniani vede un’America che manipola l’Ucraina per dare un colpo all’impero russo. Biden in realtà procede con una cautela estrema. Il presidente americano ha atteso quasi un anno prima di cominciare ad ammorbidire la sua posizione su un tema cruciale: aiutare le forze di Kiev a colpire anche il territorio della Crimea, che Putin usa come base di lancio per degli attacchi devastanti. La storia forse sarà severa con la prudenza di Biden, che può aver contribuito alla vulnerabilità della popolazione ucraina. Ma l’alternativa a Biden che cos’è? Alla Camera dei deputati la nuova maggioranza repubblicana, ricattata da un manipolo di ultrà trumpiani, minaccia di prendere in ostaggio perfino il bilancio della difesa, pur di fare ostruzionismo contro un presidente democratico. Quando discutiamo di “logoramento”, la prospettiva temporale va corretta. Questa è una guerra esplosa dal 2014 con l’annessione della Crimea da parte di Putin. Lui ha dimostrato di poter sopravvivere al nono anno di conflitto, e alle prime ondate di sanzioni. Una parte degli occidentali sembrano esausti dopo undici mesi, pur avendo sofferto una frazione infinitesimale di quel che subisce il popolo ucraino. Anche i più decisi fra noi sembrano essersi illusi in un “determinismo economico”: siamo talmente più ricchi, e più avanzati tecnologicamente, che la sorte di questo conflitto non può essere in dubbio. I rapporti di forze economici contano ma non sono tutto. L’esperto militare Michael Kofman, direttore del dipartimento di studi sulla Russia al Center for Naval Analyses, ricorda che “il potenziale economico può rimanere solo un potenziale, perché trasformarlo in risultato richiede tanta volontà, e le guerre sono una gara di volontà”. Iran. Quindici minuti per difendersi, poi la condanna all’impiccagione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 19 gennaio 2023 Come funzionano i processi farsa agli oppositori del regime degli ayatollah: gli avvocati scelti dalla corte, le udienze a porte chiuse e i resoconti manipolati. Tra le migliaia di persone arrestate in Iran nel corso delle proteste di piazza che da tre mesi scuotono le fondamenta del regime, diciotto sono state condannate alla pena capitale con quattro sentenze già eseguite. Quello che impressiona è il totale dispregio delle basilari garanzie degli imputati, con processi che le organizzazioni in difesa dei diritti umani hanno definito delle autentiche farse, oltre alle torture che molti di loro hanno raccontato di aver subito in carcere. Il 7 gennaio scorso è stato giustiziato mediante impiccagione il ventiduenne Mohammad Mehdi Karami, appena sessantacinque giorni dopo il suo arresto. La storia di questo ragazzo, una promessa del karate, è esemplificativa per comprendere l’aberrazione di questi procedimenti giudiziari in cui c’è in gioco la vita delle persone. Le autorità in Iran stanno infatti usando processi farsa per incutere paura nei manifestanti che chiedono la libertà e la fine del regime clericale. Durante le udienze, a Karami, da quello che riortano i rari testimoni in incognito, sono stati concessi solo quindici minuti per difendersi dalla pena di morte. L’unica possibilità è stata quella di chiedere perdono anche se è stato acclarato che le sue confessioni sono state estorte. Il ragazzo era stato arrestato in relazione all’omicidio di un membro della forza paramilitare Basij durante le proteste nella città di Karaj, appena a ovest di Teheran, il 30 novembre 2022. L’accusa è stata quella di corruzione sulla terra che prevede appunto la morte per impiccagione, insieme a Karami c’erano altre sedici persone tra cui tre bambini. Gli imputati hanno diritto a una rappresentanza legale in Iran, ma in casi delicati come questo, o in reati di spionaggio, non sono autorizzati a scegliere i propri avvocati. Invece il tribunale ne nomina uno da una lista approvata dalla magistratura. Ai giornalisti e ai membri della famiglia dell’imputato è vietato assistere alle udienze che non durano più di 15 minuti, quindi l’unica finestra su ciò che accade dietro le porte chiuse sono i filmati, palesemente manipolati dalle autorità. Sui processi cala una cortina di silenzio visto che sugli stessi familiari delle vittime vengono esercitate forti pressioni affinché rimangano zitte. Così non ha fatto però il padre di Karami che ha rilasciato un’intervista al quotidiano Etermad nella quale racconta delle parole del figlio e di ciò che aveva subito. Il campionario delle sevizie e terribile, dall’applicazione di elettrodi sui genitali alla continua minaccia di violenza sessuale. Tramite l’organizzazione 1500 Tasvir poi si e appreso delle altre torture inflitte, botte talmente forti da far perdere i sensi tanto che in un’occasione le guardie avevano pensato che fosse morto e avevano scaricato il suo corpo in una zona lontana dal carcere, ma andando via si sono resi conto che Karami era ancora vivo. Secondo il sistema legale iraniano, quando un tribunale di grado inferiore emette una condanna a morte, la sentenza viene inviata alla Corte Suprema per l’approvazione. Ma anche se la pena capitale viene considerata appropriata, può ancora essere appellata. Per questo motivo il padre del ragazzo aveva cercato di contattare più volte l’avvocato nominato dallo Stato, ma non ha avuto mai risposta. La stessa sorte toccata a Mohammad Hossein Aghasi, uno dei più importanti avvocati iraniani per i diritti umani che si è interessato alla sorte di Karami e dei suoi coimputati, quattro dei quali giustiziati. Aghasi ha scritto al tribunale locale e poi alla Corte suprema, tutte le sue lettere sono state ignorate. E anche la presentazione di un ricorso contro la decisione dell’Alta Corte è stato escluso dai giudici. Tunisia, la crisi è esplosiva. Tutti contro Saied di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 19 gennaio 2023 “Dégage” (Vattene). Lo slogan è tornato a risuonare nelle strade di Tunisi a dodici anni dalla cacciata di Ben Ali, il 14 gennaio 2011, benché la capitale fosse blindata dalle forze di sicurezza che per impedire proteste. Questa volta la rabbia è rivolta contro il presidente Kaid Saied, che ha tradito le aspettative di oltre il 70 per cento dei tunisini che l’avevano votato nel 2019. Forte del supporto allora ottenuto il presidente ha concentrato nelle sue mani tutti i poteri dello stato: sospeso il parlamento, approvata una costituzione fatta su misura e inscenata una farsa elettorale che però non ha tratto in inganno i tunisini che al 90 per cento hanno disertato le urne, non per disinteresse ma per scelta politica. Lunedì è cominciata, nell’indifferenza generale, la breve campagna elettorale per il secondo turno delle legislative, che si terrà il 29 gennaio. Interessati solo i candidati e il presidente che, dopo il flop del primo turno, ha sostenuto: “La partecipazione si misura sui due tempi, come nelle partite sportive”. Il 14 gennaio in piazza i tunisini hanno riproposto le richieste del 2011: pane, lavoro, dignità. La situazione del paese, sull’orlo della bancarotta, è infatti disastroso: l’indebitamento rappresenta l’80 per cento del Pil e a causa del debito sono bloccate le importazioni, mancano latte, zucchero, burro, caffè, medicine. La situazione è così drammatica che la Libia ha inviato nei giorni scorsi 96 camion carichi di zucchero, semola, riso e olio d’oliva! Chissà se i ministri italiani Tajani e Piantedosi, che ieri erano a Tunisi per bloccare l’emigrazione, si sono resi conto che ai tunisini manca anche la pasta. L’inflazione supera il 10 per cento e la disoccupazione il 15. Gli effetti sono allarmanti: la povertà colpisce il 20 per cento della popolazione. Da mesi è in sospeso un prestito del Fmi di circa 1,9 miliardi di dollari condizionato, tra l’altro, da una ristrutturazione di oltre 100 imprese pubbliche. Si riparte dunque dal 2011? La rivoluzione dei gelsomini non ha dato l’esito sperato, ma i processi di democratizzazione dopo una dittatura sono spesso ostacolati dalla mancanza di istituzioni solide, mire personali, corruzione. Così il parlamento è stato ostaggio degli islamisti o della frammentazione politica che ha aperto la via all’autoritarismo del paladino dei senza-partito, Kais Saied. L’opposizione al “golpe” del presidente non sembra tuttavia aver ridato credibilità ai partiti, con l’unica eccezione del Partito desturiano libero (Pdl) di Abir Moussi, la carismatica e ambiziosa avvocata già leader del partito di Ben Ali, ritenuta dai sondaggi, con oltre il 40 per cento, l’unica alternativa valida al presidente. Come gli altri partiti dell’opposizione Abir Moussi chiede le dimissioni del presidente e nuove elezioni, ma nello stesso tempo si scaglia contro l’islam politico impersonato da Rachid Ghannouchi fondatore di Ennahdha, la versione tunisina dei Fratelli musulmani, da lei considerato la causa di tutti i mali dopo il 2011. Tuttavia, travolto da scandali e inchieste giudiziarie che hanno portato in carcere anche l’ex-primo ministro Ali Larayedh, Ennahdha ha esaurito il credito politico che aveva permesso agli islamisti di vincere le prime elezioni dopo il 2011. In questo panorama una carta importante potrebbe essere giocata dal sindacato, l’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt). Il segretario generale Noureddin Taboubi ha invitato i sindacalisti a mobilitarsi “per una battaglia nazionale ben organizzata per salvare il paese”. L’iniziativa “di salvezza nazionale”, che si propone di esaminare la possibilità di tenere elezioni presidenziali anticipate, di emendare la costituzione e la legge elettorale, è stata lanciata dal sindacato in collaborazione con l’Ordine degli avvocati, la Lega tunisina dei diritti dell’uomo (Ltdh) e il Forum tunisino dei diritti economici e sociali (Ftdes). L’iniziativa sembra prefigurare una nuova edizione del Quartetto che nel 2015 aveva vinto il Premio Nobel per la pace “per il suo contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia dopo la rivoluzione dei Gelsomini del 2011”. Creato nell’estate del 2013, “quando il processo di democratizzazione era sul punto di crollare sotto il peso di assassini politici e disordini”, era stato decisivo per evitare che il paese precipitasse nella guerra civile. L’unica differenza rispetto ad allora è che nel Quartetto Utica (la Confindustria tunisina) è sostituita dal Ftdes, ma le proposte - sostiene l’Ugtt - saranno presentate alle organizzazioni della società civile, ai partiti politici e anche al presidente della Repubblica. Il sindacato ritiene infatti imprescindibile consultare il presidente sulle iniziative da prendere per uscire dall’impasse mentre per i partiti il punto di partenza è l’uscita di scena di Kais Saied. Caucaso. Pulizia etnica in Nagorno Karabakh: il Tribunale dell’Aia convoca l’Azerbaijan di Roberto Travan La Stampa, 19 gennaio 2023 Ma l’Italia ignora la grave crisi umanitaria e stringe nuovi accordi militari con Baku. Il Tribunale internazionale dell’Aia ha aperto un fascicolo sulla grave crisi in corso in Nagorno Karabakh, nel Caucaso meridionale. Da oltre un mese l’enclave armena è infatti completamente isolata: l’Azerbaijan ha chiuso il corridoio di Lachin, unica via di accesso verso l’Armenia e il mondo. La situazione è gravissima perché tutti i rifornimenti di merci essenziali, circa 400 tonnellate al giorno, dal 12 dicembre non possono più raggiungere il Paese. Di fatto i suoi 120.000 abitanti, di cui quasi la metà anziani e bambini, sono letteralmente ostaggio degli azeri. Ad aggravare la situazione il taglio delle forniture di gas e acqua potabile. Non solo: manca anche l’energia elettrica perché l’Azerbaijan impedisce la riparazione di un elettrodotto che transita nel suo territorio. E ha tranciato la rete a fibre ottiche per ostacolare le comunicazioni. A Stepanakert, la capitale del Karabakh, scuole e uffici pubblici sono chiusi da settimane, privi di riscaldamento. Drammatica la situazione negli ospedali dove le scorte di medicine sono insufficienti e il trasferimento dei malati più gravi continua ad essere ostacolato dalle autorità azere (un uomo è morto a fine dicembre per questo motivo). E nei negozi gli scaffali sono vuoti, il cibo inizia a scarseggiare: il rischio di una catastrofe umanitaria è purtroppo certo, imminente. Via gli armeni dal Karabakh La chiusura dei confini è solo l’ultimo atto della guerra lunga oltre trent’anni tra Azerbaijan e Armenia per il possesso del Karabakh, terra con profonde e indiscutibili radici armene e cristiane. Un conflitto dimenticato che ha causato fino ad ora quasi 40.000 morti e oltre un milione di sfollati. A dicembre decine di azeri avevano bloccato la frontiera inscenando una protesta ecologista. Per gli Ombdusmen di Armenia e Karabakh si trattava in realtà di provocatori tra cui “numerosi appartenenti ai servizi speciali di sicurezza azeri e simpatizzanti dei Lupi grigi, formazione terroristica dell’estrema destra turca”. A inizio dicembre la conferma: gli “ecologisti” hanno abbandonato il blocco e al loro posto, a fronteggiare l’inerte contingente russo schierato da due anni a protezione del valico, sono arrivati i militari inviati da Baku, la capitale azera. Infine le parole dello stesso presidente Ilham Aliyev, il 10 gennaio: “Coloro che non vogliono diventare cittadini dell’Azerbaijan possono farlo: il corridoio di Lachin è aperto, nessuno gli impedirà di andarsene”. In realtà il passaggio è chiuso, gli abitanti del Karabakh sono letteralmente in trappola. Rischio pulizia etnica - “Gli azeri stanno violando tutte le leggi internazionali a tutela dei civili nelle zone di guerra”. A lanciare l’allarme, un mese fa, erano stati i Difensori dei diritti umani di Armenia e Karabakh. “È in atto una vera e propria strategia per provocare la fuga della popolazione armena e lo spopolamento del Paese” avevano denunciato. Nel loro dossier “gli attacchi alle infrastrutture civili, l’interruzione sistematica di gasdotti e acquedotti, le incursioni nei villaggi pacifici per mettere in ginocchio l’agricoltura e l’economia”. Anche “le campagne di propaganda e disinformazione per terrorizzare gli abitanti”. Infine, l’appello: “È in corso un’autentica pulizia etnica, il mondo deve intervenire”. Le ambiguità della Russia - Neppure la forza di interposizione russa - schierata in base agli accordi tra Armenia, Azerbaijan e Russia dopo la Guerra dei 44 giorni - è riuscita a rompere l’isolamento del Karabakh. Peggio: Mosca è accusata di aver “consentito il blocco dei confini e di non aver protetto l’Armenia dai ripetuti attacchi dell’Azerbaijan” accusa Karen Ohanjanyan, attivista e fondatore a Stepanakert del Comitato Helsinki 92, organizzazione non governativa per i diritti umani. Forse per questo motivo il premier armeno Nikol Pashinyan la scorsa settimana ha annullato le esercitazioni previste dal Trattato di sicurezza collettiva, il Patto militare che lega alcuni Paesi dell’ex Unione Sovietica. Un legame certamente opaco quello tra Mosca e Yerevan. Perché la Russia, dal 1995 in Armenia con un folto contingente, è da sempre uno dei principali fornitori di armi dell’Azerbaijan. Anche di gas poi triangolato da Baku in Europa, in barba alle sanzioni per l’invasione dell’Ucraina. Il Karabakh nelle mani di un oligarca russo - Protegge l’operato della forza di peacekeeping inviata da Mosca il premier del Karabakh Ruben Vardanyan. Ci prova tentando di spostare l’attenzione sulla comunità internazionale: “Perché le Nazioni Unite, la Francia e gli Stati Uniti non fanno qualcosa? Perché l’Occidente non impone sanzioni all’Azerbaijan?”. Vardanyan, noto filantropo e oligarca russo (con cittadinanza armena), è sempre più contestato per i suoi altrettanto noti e stretti rapporti con il Cremlino. Amicizie che gettano più di un’ombra sul suo operato. “L’ascesa e il ruolo di Vardanyan sono in diretto contrasto con l’impegno decennale nella costruzione di istituzioni democratiche in Karabakh”, ha dichiarato l’analista Richard Giragosian. Ma l’oligarca russo “prestato” - secondo i suoi sempre più numerosi detrattori - alla causa della piccola Repubblica de facto, glissa e continua a spingere su un improbabile dialogo con gli azeri. Ma soprattutto non è intenzionato a rinunciare alla poltrona di premier, notizia data per certa a Yerevan dove circola insistentemente da settimane. “Non mi dimetterò. Anche le possibili dimissioni del Presidente o lo scioglimento del Parlamento sono inaccettabili. Dobbiamo riunire tutti i nostri sforzi per superare questa orribile situazione” ha dichiarato. L’Armenia ha le mani legate - L’Armenia, madrepatria del Karabakh (sebbene non ne abbia mai riconosciuto l’indipendenza) ha le mani legate dopo la pesante sconfitta subita due anni fa nella Guerra dei 44 giorni. E il suo premier Nikol Pashinyan sa perfettamente di essere con le spalle al muro. È immobilizzato in primis dall’ingombrante alleato russo che, impantanato militarmente in Ucraina, non può permettersi un nuovo fronte nel Caucaso dove ha già molti conti in sospeso per l’occupazione dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, territori strappati alla Georgia; è intimorito dalla Turchia armenofoba di Erdogan intenzionata a portare a termine il genocidio armeno (mai riconosciuto) iniziato un secolo fa dall’Impero Ottomano, ecatombe per un milione e mezzo di vittime innocenti; attaccato sul campo dall’Azerbaijan della famiglia Aliyev, al potere da oltre trent’anni, intoccabile per i suoi grassi affari con l’Europa affamata di gas; indebolito dalle proteste popolari agitate dalla débâcle bellica e diplomatica, certo, ma non meno dal peso della crisi sociale ed economica in cui da tempo è sprofondato il Paese. Le reazioni della comunità internazionale - I ministri degli Esteri di Armenia e Nagorno Karabakh un mese fa avevano ammonito con chiarezza la comunità internazionale: “L’assenza di una reazione adeguata all’aggressione azera potrebbe causare nuovi tragici sviluppi”. Ne ha discusso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 20 dicembre. E l’indomani - dopo il decesso di un uomo rimasto senza cure a causa dei confini bloccati - la Corte europea dei Diritti umani ha intimato agli azeri di consentire l’evacuazione dei pazienti più gravi. E l’Italia? Il 12 gennaio il ministro della Difesa Guido Crosetto ha incontrato a Baku il presidente Aliyev per “discutere - come ha sottolineato in una nota la nostra ambasciata - di stabilità regionale e nuove prospettive di collaborazione”. Tradotto: nuovi affari in campo militare e gas a volontà. Ma non una parola sulla grave crisi - regionale e umanitaria - che sta soffocando, giorno dopo giorno, il Nagorno Karabakh. L’appello degli armeni è stato fortunatamente raccolto dal Tribunale internazionale dell’Aia, il principale organo di giustizia delle Nazioni Unite: la Corte ha convocato l’Azerbaijan il 30 gennaio per “provvedimenti legati all’applicazione della Convenzione internazionale contro qualsiasi forma di discriminazione razziale”. Se non sarà troppo tardi.