Cospito: “Sono pronto a morire contro la barbarie del 41bis” di Davide Varì Il Dubbio, 18 gennaio 2023 Non si arresta lo sciopero della fame cominciato tre mesi fa dall’anarchico al carcere duro. Il legale, che oggi gli ha fatto visita: “Cospito continua a dimagrire oltrepassando il punto critico della sua protesta. Il ministero continua a serbare un incomprensibile silenzio sull’istanza di revoca inviata dalla difesa”. “Oggi ho visto Alfredo Cospito nel carcere di Bancali, l’ho trovato profondamente dimagrito, ha perso 40 kg passando dai 118 del 20 ottobre scorso agli attuali 78 kg”. Lo dice l’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore dell’anarchico al 41bis giunto a tre mesi di digiuno per protestare contro il regime di carcere duro al quale è sottoposto.  Il legale è andato a trovarlo nel carcere di Sassari, dove Cospito è attualmente detenuto, ed è lui stesso ad affermare che il suo sciopero della fame continuerà ad oltranza. “Continua ad affermare che non arresterà la sua protesta - spiega il legale - se non con la revoca del 41bis a cui è sottoposto, consapevole del significato che questa affermazione può rappresentare. Precisa che la vita al 41 bis non è vita e che se tale deve essere tanto vale sacrificarla in una lotta contro la barbarie”.  Per il suo difensore ”Cospito continua a dimagrire superando, oltrepassando, il punto critico della sua protesta, condotto con e sopra il suo corpo e la sua salute, il ministero continua a serbare un incomprensibile silenzio sull’istanza di revoca inviata dalla difesa. Eppure era stato lo stesso ministro a lamentare in una nota l’assenza di un suo formale coinvolgimento. Ciò detto, anche qualora la decisione ministeriale fosse negativa - spiega Rossi Albertini - Cospito e tutti coloro che si sono mobilitati in questi mesi a sostegno del suo sciopero della fame, hanno il diritto di sapere per quali ragioni l’anarchico debba essere condannato ad espiare la sua pena nel regime detentivo speciale. Non vorremmo che, come spesso avviene, il ministero attendesse lo spirare dei 30 giorni dalla presentazione dell’istanza e quindi omettesse qualsiasi esplicita decisione trincerandosi in un silenzio-diniego privo di motivazioni, di ragioni, di senso dell’umanità”. Nei giorni scorsi infatti il difensore ha presentato un’istanza al ministro della Giustizia per chiedere la revoca del carcere duro fondata sulle motivazioni di una sentenza depositata successivamente alla decisione del tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva respinto un reclamo di Rossi Albertini. Intanto la Cassazione dovrà fissare una data per trattare il ricorso presentato dopo la decisione della Sorveglianza. Il 9 gennaio all’attenzione dei Supremi giudici è arrivato l’incartamento con gli atti del tribunale di piazzale Clodio. Nel motivare il “no” all’istanza, i giudici capitolini sostengono che l’anarchico debba restare in regime di 41 bis perché possa continuare ad esercitare “il suo ruolo apicale” nella Fai (Federazione anarchica informale) anche dal carcere. In questo ambito la dotazione ordinaria anche “in regime di alta sicurezza, non consente di contrastare adeguatamente l’elevato rischio di comportamenti orientati all’esercizio” del suo ruolo all’interno dell’associazione di appartenenza. Per i magistrati le comunicazioni di Cospito “con le realtà anarchiche all’esterno del circuito carcerario appaiono assidue e producono l’effetto di contribuire ad identificare obiettivi strategici e a stimolare azioni dirette di attacco alle istituzioni”. La Corte di Assise di appello di Torino, davanti ai quali si celebra il processo contro Cospito e la compagna Anna Beniamino accusati di strage politica per aver piazzato nel 2006 due ordigni nelle vicinanze della caserma degli allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, hanno accolto una richiesta dei legali dell’uomo, sollevando una questione di legittimità costituzionale. Gli atti sono stati trasmessi alla Consulta, di cui si attende la pronuncia. Il ministero di Giustizia: “Su Cospito scelta giudiziaria, non politica” Il Manifesto, 18 gennaio 2023 “Sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito - ha detto il viceministro di Giustizia Francesco Paolo Sisto - la magistratura di sorveglianza saprà se e come intervenire. Ma attenzione a non scambiare una situazione giudiziaria, anche se drammatica, con un problema politico. Significherebbe trasferire su un quadrante improprio i problemi che invece vanno risolti dalla magistratura. Se ci sono i presupposti per intervenire sarà necessario farlo”. Il viceministro risponde così indirettamente all’istanza di revoca del regime di detenzione speciale presentata al ministro Nordio dall’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale dell’anarchico detenuto a Sassari al 41bis e in sciopero della fame dal 20 ottobre. “Ha perso quaranta chili, passando da 118 a 78 kg - ha riferito ieri l’avvocato dopo averlo visitato nel carcere Bancali dove l’uomo è rinchiuso - ma è pronto a sacrificare la vita, perché quella al 41 bis, dice, non è vita e se tale deve essere tanto vale sacrificarla in una lotta contro la barbarie”. “Il regime del 41bis evoca le finalità perseguite nell’ancien regime con i metodi inquisitori contro cui si scagliarono i filosofi del diritto nel ‘700 - afferma Rossi Albertini - Se ciò è vero nessun essere umano dovrebbe esservi sottoposto, che si chiami Cospito o Messina Denaro”. Ergastolo ostativo, un paese quasi normale di Davide Galliani* Il Manifesto, 18 gennaio 2023 Nel nostro paese infuriano le questioni di fiducia mentre si affacciano le ghigliottine parlamentari. E si registra una qualche titubanza dei garanti - politici e giuridici - della Costituzione. Non è compito solo loro, ma per loro è missione costitutiva. Il Capo dello Stato non ha speso una parola sul protrarsi del ritardo parlamentare dopo i due rinvii della Consulta: 18 mesi di silenzio. Sempre il silenzio è stato riservato all’intervento del Governo con decreto legge. Inevitabile il terzo silenzio, in sede di promulgazione della legge di conversione. Quanto alla Consulta, poteva fare meglio (in termini di tassatività) e poteva farlo prima (dal 22 ottobre 2019). Bisognerà comunque interrogarsi sui limiti di accertare senza dichiarare una incostituzionalità, dando tempo al legislatore per intervenire. Siamo al triplete: suicidio assistito, carcere ai giornalisti e ora regime ostativo/ergastolo. Nei primi due il legislatore ha messo la testa sotto la sabbia. Nel terzo no. Che fare alla Consulta? Mettersi in vigile attesa dovesse ricapitare un caso propizio, tirare il freno a mano, compiacersi del risultato ottenuto? Come che sia, oggi registriamo un dato: qualunque detenuto ostativo, nel momento in cui domanda qualsiasi beneficio/misura alternativa, dovrà essere valutato nel merito. Prima, la domanda era destinata al cestino della inammissibilità, se non si prestava utile collaborazione con la giustizia. Oggi, benefici e misure alternative devono essere meritati nel merito, senza che possa valere come assoluta preclusione la scelta di non collaborare utilmente con la giustizia. Da un punto di vista sostanziale, non esiste più il doppio binario: non mi pare poco. In soldoni lo chiedevano Strasburgo e Consulta. Peraltro, poteva andare molto peggio. Abbiamo rischiato il trasferimento della competenza in tema di ostatività ad un solo tribunale di Sorveglianza, quello di Roma. Così come sembrava certa la competenza collegiale distrettuale anche sui permessi. Eravamo rimasti in quattro gatti a sostenere che permesso e magistrato monocratico sono simbiotici. In molti di più avevamo difeso il salvagente della collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, la complicata posizione di coloro che magari avrebbero anche collaborato ma non lo potevano comunque fare per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità o per la limitata partecipazione al fatto. Anche in questo caso ci si può ritenere soddisfatti, sempre che si capisca veramente l’antropocentrismo costituzionale a fondamento del diritto al silenzio. E se poi la mole di informazioni e di pareri, che oggi bisogna verificare al fine di contribuire al giudizio della sorveglianza sulle istanze, riuscisse realmente a funzionare, avremmo poco da recriminare: il giudice non è un veggente, piuttosto uno scrupoloso geologo che, paziente e tenace, scava per scovare il minerale prezioso, senza disinteressarsi di niente. Sempre che protocollizzare non finisca per significare standardizzare. Del resto: chi avrebbe scommesso un euro sull’eliminazione dai reati ostativi di tutti quelli contro la pubblica amministrazione? Si poteva fare di più, ma meglio una pulce oggi che un dinosauro domani. Sia chiaro. Non siamo passati dall’inferno al paradiso. Alzare da 26 a 30 gli anni di pena scontata per domandare la liberazione condizionale, così come da 5 a 10 gli anni della libertà vigilata, significa riferirsi agli ergastolani ostativi in modo codardo - non si chiarisce se la riforma abbia effetto retroattivo, lasciando la soluzione ai giudici (che poi saranno criticati!) - e incostituzionale, poiché l’esercizio di una libertà, quella di non collaborare, non può ingenerare nessun effetto deteriore. In definitiva: siamo un paese quasi normale. *Professore associato di diritto pubblico nell'Università degli Studi di Milano Matteo Piantedosi: “Carcere duro? Si cambi la Carta. Finalmente faremo luce sulle stragi” di Federico Monga La Stampa, 18 gennaio 2023 Il ministro dell’Interno: “Nessun accordo con il boss, c’è chi vuole inquinare il dibattito. Adesso abbiamo una straordinaria opportunità per fare luce su una stagione buia”. Ministro Matteo Piantedosi, una settimana fa lei aveva detto: “Spero di essere in carica al ministero dell’Interno quando cattureremo Messina Denaro”. Una coincidenza, una profezia, o l’operazione era già in corso? “Era una speranza fondata. Era alimentata da sentimenti di ottimismo che coglievo da tempo”. Non si è corso il rischio di compromettere l’operazione? “L’operazione si è sviluppata nel rispetto della riservatezza assoluta che richiedeva. Sono stato avvisato al momento dell’arresto”. Perché è importante questo arresto? “Perché l’ultimo boss mafioso stragista è stato assicurato alla giustizia. Perché si è dimostrato che non c’è impunità per i criminali anche dopo molti anni. Perché adesso si apre una straordinaria opportunità per poter fare ulteriore luce su alcune pagine buie di un periodo storico del nostro Paese”. Si può parlare di vittoria dello Stato? “Assolutamente sì. È la vittoria dello Stato con un valore fortissimo anche dal punto di vista simbolico. Non può esistere impunità. Rappresenta anche uno storico successo per tutti coloro che sono impegnati nella lotta alla mafia con determinazione e coraggio. Ma la guerra contro la mafia non è vinta. Le infiltrazioni criminali sul territorio ci sono ancora e c’è ancora molto da fare per contrastare una mafia che ha cambiato aspetto privilegiando ora una azione silente di aggressione alla nostra economia”. Ci sono voluti trent’anni, non sembra un grande successo... “Si è trattato di un lavoro investigativo lungo e paziente da parte della magistratura e delle forze di polizia per assicurare alla giustizia un boss che probabilmente ha potuto godere di un’articolata rete di protezione. E proprio per questo il successo dello Stato è ancora più importante”. Possibile che in clinica nessuno sapesse chi era Andrea Bonafede? “Lo accerteranno i magistrati. Eventuali responsabili ora potranno essere individuati e perseguiti. D’altronde negli ultimi anni molti fiancheggiatori della latitanza di Matteo Messina Denaro sono già stati presi dagli investigatori”. Quanto sono forti oggi in Sicilia le complicità tra la società civile, la buona borghesia, e Cosa Nostra? “Purtroppo sono complicità che esistono, come ha denunciato il procuratore De Lucia. Vanno spazzate via, proprio utilizzando il patrimonio di conoscenze connesso a questo arresto e anche favorendo l’affermazione di nuovi modelli culturali”. E quelle con la politica? “In questi anni gli esponenti politici collusi sono ricorsi con frequenza, spesso per ottenere in cambio voti. Anche su questo fronte mi pare che il lavoro di magistrati e forze di polizia sia molto puntuale e porti a risultati continui”. Il giudice Giovanni Falcone sosteneva che la mafia come tutti i fenomeni è destinata a finire. A che punto siamo? “Sono ottimista. La comunità nazionale è molto unita al fianco di magistrati e forze dell’ordine per sconfiggere la mafia. Rispetto agli anni ottanta e novanta siamo in una fase in cui cogliamo risultati e segnali positivi anche dal punto di vista culturale. La mafia è un cancro che si alimenta anche di una narrazione fuorviante, sul potere dei boss. Il fatto che anche l’ultimo grande boss di mafia sia finito dietro le sbarre contribuisce a sfatare questo mito. Chi sceglie la criminalità prima o poi finisce in galera”. Dall’agenda rossa di Borsellino ai segreti del covo di Riina, che cosa può raccontare Messina Denaro della stagione delle stragi? “Anche se molti ne dubitano, potrebbe e dovrebbe raccontare molte cose per comprendere meglio questi ultimi quaranta anni di storia. Ho piena fiducia nei magistrati siciliani sul fatto che possano sfruttare al meglio questa occasione”. Crede che si sappia tutto delle connivenze di quegli anni tra lo Stato e le cosche? “È augurabile che si faccia piena luce su quegli anni e quegli avvenimenti drammatici. Ma la ricostruzione si deve sempre basare su fatti concreti e verificati. In giro ci sono dei professionisti del retroscena che inquinano il dibattito con tesi spesso strampalate e ricostruzioni forzate, prive di riscontri”. Ieri il capo della Procura di Palermo, Maurizio De Lucia, ha detto che senza le intercettazioni questo arresto non sarebbe stato possibile. Il vostro governo vuole restringerle... “Le intercettazioni per i reati di mafia rappresentano uno strumento fondamentale e nessuno le ha mai messe in discussione. Né ha espresso intenzione di limitarle. La lotta alla criminalità è al primo punto dell’agenda politica del governo Meloni”. Due mesi fa il Salvatore Baiardo, ex gelatiere e factotum dei fratelli mafiosi Giuseppe e Filippo Graviano, disse al giornalista Massimo Giletti che Messina Denaro era malato e si sarebbe consegnato alle autorità in cambio di cure e di un accordo sull’ergastolo ostativo. Sorprendente, no? “A parlare sono solo i fatti! Il Governo Meloni ha dato un segnale chiarissimo contro la mafia proprio con le misure sull’ergastolo ostativo. Tutto il resto sono soltanto ricostruzioni fantasiose”. Davvero non c’è stata alcuna trattativa prima dell’arresto? “L’arresto è avvenuto grazie al lavoro lungo e costante degli uomini e delle donne delle forze dell’ordine con metodi di indagine tradizionali e caparbi. Tutto il resto e fantasia senza argomenti”. Il presidente del consiglio Giorgia Meloni ha ribadito che l’ergastolo ostativo non si tocca... “Una scelta giusta e chiara contro la mafia”. La Costituzione, però, prevede che la pena debba essere anche riabilitativa... “Lo Stato ha ingaggiato una guerra contro la mafia che non può concedere al nemico dei vantaggi. Alla luce di questo vanno effettuate anche le valutazioni di ordine costituzionale”. Matteo Messina Denaro sta morendo? “Questo non lo so. La malattia lo ha esposto contribuendo alla cattura. Certamente, come ogni cittadino, libero o detenuto, avrà accesso alle cure”. Ha sentito le vittime delle stragi degli anni ‘90, dalla vedova Schifani alla sorella di Falcone? “Ho incrociato alcuni di loro e ne ho colto la pacata soddisfazione che in ogni caso non può alleviarne il dolore”. Il giudice Di Matteo, in un’intervista a La Stampa, ha detto: non possiamo escludere che questa mafia possa tornare quella delle stragi. Condivide? “Nel tempo le organizzazioni criminali hanno attuato diversi tipi di strategie a seconda dei territori in cui operavano e delle varie fasi storiche. È corretto mantenere sempre alta la guardia. Anche se non esiste alcun elemento che rende ragionevole questa previsione”. Ma nella battaglia a Cosa Nostra l’ergastolo ostativo non c’entra di Donatella Stasio La Stampa, 18 gennaio 2023 Tre anni dopo la sentenza della Consulta, su 1.280 ergastolani ostativi, solo 24 permessi. La mafia è un fenomeno umano e prima o poi finirà, diceva Giovanni Falcone. Ma non con un arresto, neanche dell’ultimo o penultimo boss latitante; a decretarne la fine sarà il tramonto della cultura che la mafia l’ha nutrita, cresciuta e l’ha resa capillare. E questo ce lo ha ricordato la sorella di Giovanni Falcone, Maria, subito dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, spostando lo sguardo sulla Palermo scesa in strada per dare un volto, una voce, un corpo alla cultura della legalità. Impensabile fino alle stragi del 92/93. “Mi ha telefonato mio fratello”, ha detto Maria Falcone inciampando in un lapsus; voleva dire “mio figlio” ma pensava alla felicità che avrebbe provato il fratello a vedere quelle persone in strada. Se di successo si vuole parlare, è lì che dobbiamo cercarlo, in quell’inedito abbraccio di donne, uomini, e soprattutto giovani, con le istituzioni, di cui Falcone e Borsellino sono stati l’esempio migliore. Quella cultura rivendica con forza giustizia e verità. Gioisce dell’arresto ma, con tutto il rispetto per la presidente del consiglio Giorgia Meloni, non si può accontentare della gioia. Nessuno, neanche dall’opposizione, ha messo in discussione questo importante risultato raggiunto dallo Stato, di cui tutti siamo convinti. Allo stesso modo, nessuno può compiacersi di ricostruzioni dietrologiche che alzano una cortina fumogena sui fatti. Resta un irrinunciabile bisogno di verità a tutto campo. Anche sull’ergastolo ostativo, tema troppo cruciale per essere manipolato. Eccolo già diventato oggetto di scambio dell’operazione che ha portato all’arresto di Messina Denaro, battezzata dal Ros operazione “Tramonto”... D’altra parte, fin dalla sentenza della Consulta n. 253 del 2019 - che ha aperto la strada alla mera possibilità di concedere permessi ai condannati per reati ostativi anche in assenza di collaborazione con la giustizia ma in presenza di altri elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale - si è gridato al complotto, allo scandalo, alla connivenza con la mafia e alla scarcerazione immediata di boss mafiosi di grosso calibro; idem dopo l’ordinanza n. 97 del 2021 che ha aperto la strada, tra mille cautele, anche alla liberazione condizionale, chiedendo al Parlamento di intervenire. Ebbene, dopo tre anni e mezzo, su 1.280 ergastolani ostativi, solo 24 hanno avuto un permesso e nessuno la liberazione condizionale. Ma tant’è. Per molti il carcere è carcere solo se ostativo, se butta la chiave, altrimenti non è. E i giudici di sorveglianza, chiamati a decidere se, come e quando aprire la porta, sono creature tremule incapaci di portare il peso di queste decisioni oppure marionette i cui fili sono tirati dai boss a piacimento. Non è così. A far riaccendere i riflettori sull’ergastolo ostativo è stato Salvatore Baiardo, uomo di fiducia (al punto da gestirne la latitanza) dei fratelli Graviano, capimafia di Brancaccio, ma dagli anni ‘90 collaboratore di giustizia. Ora fa il gelataio in Piemonte e poco più di due mesi fa, in un colloquio con Massimo Giletti, lasciò intendere di essere ancora ben collegato con certi ambienti al punto da preconizzare l’arresto imminente di un Messina Denaro molto malato, che stava trattando per consegnarsi: lui sarebbe entrato in carcere con un arresto clamoroso mentre qualcun altro ne sarebbe uscito senza molto clamore grazie alla riforma dell’ergastolo ostativo, all’epoca in fase di approvazione. A distanza di mesi, il suo racconto viene rilanciato perché trova parziale riscontro nella realtà. Manca solo lo “scambio” del suo arresto con qualche detenuto ostativo che guadagni la libertà grazie alla riforma… Riforma delicata - e perciò lasciata dalla Consulta al Parlamento, anche per bilanciarla con le esigenze della sicurezza - ma necessaria per dare concretezza alla cultura costituzionale in cui affondano le radici del nostro “stare insieme”. Riforma peraltro ambivalente nel testo diventato legge. La premier Meloni, infatti, si vanta di aver “salvato l’ergastolo ostativo”, che però, in quanto incostituzionale, dovrebbe essere morto. E del resto, anche chi quella riforma è chiamato ad applicare nei confronti dei detenuti “ostativi” - che non sono né tutti ergastolani né tutti mafiosi - la considera un tradimento delle sentenze della Consulta perché per ottenere i benefici impone una prova “diabolica”, quindi, impossibile. Ieri, su questo giornale, Roberto Saviano ricordava giustamente che l’ergastolo ostativo “contraddice la vocazione stessa della Costituzione” secondo cui la pena “serve a reinserire e non a escludere”. Quindi, aggiungeva, bisognerà valutare “caso per caso”. Ed è quello che devono fare i giudici di sorveglianza. Di uno di loro abbiamo raccontato la storia su questo giornale lunedì scorso. Si chiama Marco Puglia, ha 40 anni e lavora in carceri difficili, quelle della Terra dei fuochi, ad alta densità mafiosa, dove imperversa il clan dei Casalesi. Questi detenuti, spiegava, hanno “una forte resistenza alla rieducazione perché la loro subcultura è profondamente radicata nel territorio ma - aggiungeva - la loro tendenziale immutevolezza non ci dà il diritto di sottrarre, a chi invece vuole cambiare, tutti gli strumenti per farlo”. Perciò l’ergastolo ostativo va abolito. Ma la riforma chiude la porta aperta dalla Consulta. “Toccherà a noi giudici della sorveglianza mantenerla aperta, e riempire di senso costituzionale le parole non proprio cristalline del legislatore”, aggiungeva Puglia, convinto che la vittoria sulla mafia passi, oltre che dalla punizione, dalla possibilità di cambiamento offerta a chi vuol tornare sui suoi passi anche per vie diverse dalla collaborazione con la giustizia. Non è un “liberi tutti”, anzi. È la piena assunzione di responsabilità di chi, per mestiere, deve decidere “caso per caso”. E così deve essere. Questo giudice è cresciuto con il modello di Falcone e Borsellino, con il loro stesso sguardo umano, la toga sempre “impregnata di realtà” e la Costituzione come bussola. Appartiene alla generazione che ci fa guardare con speranza al tramonto della cultura mafiosa, la generazione scesa nelle strade per testimoniare la cultura della legalità e rivendicare, in virtù di questa, giustizia e verità a tutto campo. È la stessa generazione di Nadia Nencioni, morta a 9 anni con altre quattro persone nella strage di via dei Georgofili, a Firenze, il 27 maggio 1993. Qualche giorno prima della bomba, Nadia aveva scritto una poesia intitolata “Tramonto”, che i ragazzi del Ros hanno fatto trovare a Messina Denaro: “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/Il sole sta andando via (a letto)/è già sera tutto è finito”. Il diritto dei detenuti alla sessualità di Luigi Manconi La Repubblica, 18 gennaio 2023 La Consulta dovrà valutare la legittimità della norma che vieta le relazioni personali tra reclusi e partner. Qualche giorno fa, un magistrato di sorveglianza di Spoleto ha rinviato alla Corte Costituzionale la richiesta di un detenuto del carcere umbro di Maiano di poter avere colloqui privati con i propri familiari e, in particolare, incontri intimi con la propria compagna. Così, la Consulta dovrà valutare la legittimità della norma che vieta le relazioni personali, incluse quelle sessuali, tra reclusi e partner. Già nel 2012 c’era stata una prima pronuncia sulla questione e la Corte ritenne fondato il problema e ammissibile il diritto dei detenuti alla sessualità, rimettendo tuttavia la decisione al Parlamento. Dunque, è ormai da decenni che si parla del diritto all’affettività e alla sessualità all’interno degli istituti penitenziari italiani. Nel corso delle ultime legislature sono stati presentati, alla Camera e al Senato, diversi progetti per riconoscere e regolamentare la possibilità di relazioni intime all’interno del carcere. Finora - ma c’è da stupirsi? - nulla è stato fatto. Di conseguenza, la sola opportunità di coltivare l’affettività è affidata ai cosiddetti “permessi premio”, che consentono alle persone detenute di trascorrere brevi periodi nella propria abitazione. Ma sono rari e limitati i casi in cui è possibile beneficiarne e riguardano una minima parte della popolazione detenuta. Qualche mesa fa, il Minu della commissione Bilancio del Senato, ha valutato la fattibilità di una proposta avanzata nel 2020 dal Consiglio regionale della Toscana, che prevede la realizzazione di strutture all’interno delle carceri nelle quali garantire uno spazio privato tra le persone detenute e i partner, senza controlli audio o video. All’ iniziativa della Toscana si è aggiunta di recente quella del Consiglio regionale del Lazio, che oltre a unità destinate all’intimità, propone ulteriori misure per coltivare l’affettività in carcere, come l’istituzione di permessi di necessità, in caso di congiunti in pericolo di vita e colloqui con i figli minori in spazi all’aperto. Per un verso, le istituzioni locali e le associazioni cercano da anni di sollecitare il Parlamento a legiferare in merito e ad adeguarsi alle normative che, in tema di affettività e sessualità in carcere, sono ormai consolidate in paesi europei come Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Francia, Spagna, Croazia e Albania; per altro verso, molte reazioni, da parte soprattutto di alcuni esponenti della destra e dei sindacati di polizia, tendono ad associare una simile iniziativa a qualcosa di frivolo e superfluo, che rischia di trasformare le prigioni in “postriboli” e gli agenti in “guardoni”. Sfugge evidentemente a tutti costoro che, la sfera dell’affettività e della sessualità, è componente essenziale della persona umana: e negarla e mortificarla equivale a una crudele mutilazione. “Mai più bimbi in carcere”. Legge in dirittura d’arrivo, la Camera accelera di Giovanna Casadio La Repubblica, 18 gennaio 2023 Montecitorio dà il via libera a una corsia preferenziale per far uscire dalla galera i figli delle madri detenute. Una corsia veloce per fare uscire dal carcere i figli delle madri detenute. La legge “mai più bimbi in carcere” - attesa da anni, arrivata quasi all’approvazione prima che cadesse il governo Draghi - è stata ripresa in mano. E oggi in aula a Montecitorio c’è stato il via libera all’accelerazione: entro quindici giorni sarà esaminata dalla commissione Giustizia della Camera. Debora Serracchiani, la capogruppo dem che è prima firmataria con Michela De Biase, dice che ci sono tutte le condizioni perché finalmente la proposta vada in porto. Sull’accelerazione a favore le opposizioni di Pd, Sinistra-Verdi, M5Stelle e Terzo Polo mentre le destre di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si sono astenute. Una astensione che però permetterà di velocizzarne l’approvazione. I Dem hanno ripresentato lo stesso testo di Paolo Siani, che ne aveva fatto la sua battaglia sin dall’inizio della passata legislatura. Cosa prevede - Viene modificata la normativa sulla tutela del rapporto tra detenute madri con figli minori di età inferiore ai sei anni: possano scontare la pena in case famiglia, evitando che finiscano in cella. Siani commenta: “Sono speranzoso e fiducioso. Questa accelerazione non era scontata per niente. Mi auguro la legge sia poi approvata all’unanimità”. De Biase spiega: “Con il voto di questa mattina la Camera ha deciso di accelerare nei tempi di approvazione. E mai più bambini in carcere deve essere l’obiettivo fondamentale che questo Parlamento deve raggiungere rapidamente, soprattutto dopo la conclusione anticipata della scorsa legislatura che ha impedito l’approvazione anche in Senato del testo di Siani. Avere dei bambini e delle bambine detenuti non è tollerabile. È necessario fare presto per poter permettere alle deteneute madri di scontare la pena nelle case famiglia. Queste strutture devono sostituirsi al carcere e agli Istituti a custodia attenuata”. Le reazioni - Non permettere che i bambini finiscano dietro le sbarre con le madri detenute è sancire un diritto fondamentale. Graziano Delrio, senatore, parla di “una battaglia vera da portare alla fine dopo lo sforzo di Paolo Siani, per i bambini che non sono il futuro ma il presente di un mondo che vogliamo migliore”. Quando Siani spezzò la lancia per incardinare la legge, a Rebibbia una detenuta madre aveva ucciso i suoi due figli gettandoli dalla tromba delle scale del nido. Nessuno può voltarsi dall’altra parte. A fine maggio 2022 erano 19 i bambini in carcere con le madri. Neppure uno deve restarci. Alessandro Zan, intervenendo in aula, ha messo in guardia dalle buone intenzioni che non si traducono in fatti. “Mai più bambini in carcere” si era detto, ma purtroppo si continua ancora a ripetere, perché è una piaga che tutt’ora attanaglia il sistema carcerario italiano. Questa proposta di legge tutela i diritti dei figli minori di madri detenute fissati dall’articolo 31 della Costituzione” Aggiunge Zan: “Da qui, l’obiettivo di favorire le case famiglia, in cui la detenuta madre sconti la pena. I numeri dimostrano che nel nostro Paese siamo indietrissimo: in Italia infatti esistono solo due case famiglia, una a Roma e una a Milano, una mancanza incredibile. La casa famiglia deve sostituirsi al carcere e agli Icam (gli istituti a custodia attenuata per detenute madri) previsti dalla riforma del 2011, che tuttavia vengono ancora previsti per i casi più gravi. È infatti dimostrato che gli Icam sono comunque lesivi per i minori, in quanto connotati da una forma tipicamente detentiva, che non è in grado di garantire il rapporto madre-figlio”. Un paese civile di Mattia Feltri La Stampa, 18 gennaio 2023 L’arresto di Matteo Messina Denaro è una buona notizia ma, per un vecchio sentimentale come me, ieri ne è arrivata una migliore. Nel giro di qualche mese lo slogan “Mai più bambini in carcere” smetterà di essere un jingle delle buone intenzioni perdute nei labirinti delle legislature, nelle ripicche fra partiti, nelle retromarce per non irritare l’elettorato più sanguinario. Senz’altro saprete che quando una madre finisce in carcere, si porta con sé i figli con meno di sei anni d’età. Attualmente sono una ventina, ovvero una ventina di troppo: quant’è disastrosamente ironica la loro età dell’innocenza trascorsa in cella, da innocenti al quadrato? Ho sempre trovato affascinante che, non potendo separare le mamme dai loro piccoli, anziché tirare fuori le prime si è deciso di portare dentro i secondi. Spiega bene che razza di teste abbiamo. Ma ogni tanto anche le nostre teste si sistemano e ieri le opposizioni, in particolare il Pd su iniziativa di Debora Serracchiani, hanno dato prova di come si deve ricoprire il ruolo, cercando di migliorare le cose anziché dedicarsi programmaticamente a guastare quelle del governo. Hanno ripreso in mano una proposta di legge sfumata con la chiusura in anticipo della scorsa legislatura, e hanno chiesto una dichiarazione d’urgenza, cioè una corsia preferenziale. E la maggioranza, per una volta riposta la contraerea, s’è astenuta cedendo dunque il passo alla richiesta. In pochi mesi potremo avere una legge che porta le madri detenute e i loro bimbi in case famiglia: una legge civile, voluta da un’opposizione civile e accompagnata da una maggioranza civile. Per una volta. Ostellari incontra i provveditori: “Serve nuova visione su lavoro e formazione” padovaoggi.it, 18 gennaio 2023 Il sottosegretario alla Giustizia in questi giorni sta lavorando sulla situazione dei penitenziari dopo quello che è accaduto a Roma la scorsa settimana. “Lavoro, formazione e vicinanza con il territorio. Questi sono i temi di cui abbiamo discusso oggi con il Capo del Dap, Giovanni Russo, i direttori generali Massimo Parisi, Gianfranco De Gesu e Pietro Buffa, insieme ai provveditori regionali dell’amministrazione penitenziaria. Quella che ho voluto trasferire è una visione complessiva sul percorso da compiere insieme, che valorizzi i progetti già in corso e ne sviluppi di nuovi”. Lo dichiara Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato alla Giustizia e senatore padovano della Lega. Fine rieducativo - “Il lavoro e la formazione in carcere non sono una generosa concessione dello Stato nei confronti dei condannati, ma la migliore soluzione, anche a fronte dell’analisi dei dati sulla recidività, per assicurare che chi delinque, una volta scontata la pena, non torni a violare le leggi e a ferire l’armonia sociale - prosegue Ostellari. Nessun liberi tutti, ma pene eseguite in modo rigoroso, secondo le indicazioni della nostra Costituzione che prevede il fine rieducativo delle sanzioni. Ringrazio i provveditori che hanno partecipato all’incontro e di cui riconosco l’impegno e la grande professionalità. Certamente esistono criticità negli istituti italiani, ma sono numerose anche le esperienze positive e le buone pratiche, anche se spesso non fanno notizia. Uno stimolo ulteriore è stato richiesto a tutti nei confronti del territorio di competenza: le carceri non siano un mondo a parte, ma si aprano ancora di più ai centri di formazione, alle università, alle associazioni di categoria del lavoro e dell’industria, per lo sviluppo di nuovi progetti comuni. Il Ministero è a fianco dei provveditori, dei direttori, del personale che partecipa al trattamento e degli agenti di Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente una funzione poco conosciuta dalla società, ma fondamentale per la democrazia e la sicurezza del nostro Paese”. Riforma Cartabia - “Il provvedimento per perfezionare la cosiddetta Riforma Cartabia sarà definito fra pochi giorni. Abbiamo individuato gli ambiti su cui intervenire, in relazione al decreto delegato di fine agosto scorso, e lo faremo - chiude Ostellari. L’obiettivo è tutelare le forze dell’ordine e tranquillizzare i cittadini, assicurando le operazioni che oggi sono impedite dalla necessità della querela. La modifica riguarda la diversa classificazione di alcuni reati ora non procedibili d’ufficio, e lo saranno sempre quelli con aggravante di mafiosità, e i casi di arresto in flagranza, con più tempo per sporgere querela. Il tutto mantenendo gli impegni sottoscritti in sede di Pnrr”.  Gli attacchi alla riforma Cartabia ricordano la furia contro la legge 180 di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 18 gennaio 2023 Quando vennero chiusi i manicomi furono in molti a predire che saremmo stati travolti dai “pazzi” liberi di scorrazzare per le strade. E nei giorni precedenti o immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge 180, molti giornali riportavano con grande evidenza episodi delittuosi commessi dagli ammalati di mente facendo così sponda a quelle forze politiche che per anni si erano battuti contro la chiusura dei manicomi. I profeti di sciagure furono smentiti dai fatti e la 180 si dimostrò un’ottima legge che consenti a migliaia di ammalati di recuperare la propria libertà e la propria dignità. Oggi, nessuno rimpiange quei lager che invece di curare, tormentavano gli ammalati. In questi giorni è stata messa in campo la stessa strategia demolitrice contro la riforma Cartabia. Non intendo assolutamente paragonare la riforma radicale e profondamente democratca di Franco Basaglia con la timida riforma che porta il nome dell’ex ministra Cartabia a cui però va riconosciuto un grande merito di aver approvato una legge senza tener conto del potere di veto del ‘ partito giustizialista’ con i suoi PM ‘ agit prop’ che considerano la Giustizia ‘ cosa loro’ 114 Le leggi non sono le Sacre Scritture. Se in una legge qualcosa non va bene è giusto rifletterci sopra, fare le opportune e verifiche e, se necessario, cambiarla. Per esempio ci sono una serie di leggi che hanno seminato solo ingiustizie e guasti. Si pensi a quella che consente gli scioglimenti dei consigli comunali pur in assenza di una sentenza del giudice e che ha fatto strage di democrazia; oppure alla legge che consente di mettere sul lastrico un” impresa sulla base di un semplice rapporto di polizia. Sono stati di una qualche utilità nella lotta alla mafia? Dubito molto, però sono lì, perché i legislatori hanno paura di mettersi contro le vestali della cosiddetta antimafia. Ritorniamo alla Cartabia. In questi giorni alcuni giornali hanno riportato con estrema puntualità, (troppa per non essere sospetta), i casi di delinquenti che, pur colti in flagranza di reato non è stato possibile portare in carcere per ‘ responsabilità’ della riforma Cartabia. Ciò ha fatto indignare molti... alcuni per davvero altri solo per finta. Fatto sta che contro la riforma Cartabia si sono schierati a fitte schiere moltissimi giornali, uomini politici e PM. Tutti più o meno convinti che il carcere sia l’unica risposta possibile al crimine. Non è giusto snobbare le preoccupazioni della gente ed ancora meno giusto accostarsi ad una riforma senza riflettere su eventuali limiti ma, come per la180, è il caso di ragionarci sopra. Prendiamo ad esempio gli scassinatori colti sul fatto a Jesolo ma che non è stato possibile portare in carcere perché è mancata la querela della parte lesa. Facciamoci qualche domanda: sarebbe stata più sicura la società se i responsabili del tentato furto fossero stati portati in carcere per scontare qualche mese di detenzione preventiva? Oppure il carcere avrebbe trasformato possibili ladruncoli occasionali in perfetti delinquenti, ben inseriti nel circuito del crimine? Solitamente il carcere non rende migliori le persone e e siccome non si possono buttar le chiavi come alcuni vorrebbero, bisogna ammettere che i peggiori criminali hanno avuto nel carcere la loro formazione Nelle galere regna la violenza, diminuisce la sensibilità verso le altrui sofferenze, la mancanza di luce e di libertà riempie il detenuto di oscurità, di angoscia e di frustrazioni, di odio verso la società che avverte come estranea e nemica. Ciò detto, so che in alcuni casi il carcere può essere realmente e drammaticamente necessario. Ma meno frequente sarà il ricorso al carcere più sicura sarà la società. Ritorniamo all’esempio dei due scassinatori di Jesolo: se fossero stati portati in carcere avrebbero avuto un costo di circa 150 euro al giorno. Per tre mesi il costo sarebbe stato di circa trentamila euro. Se chi governa fosse capace di utilizzare quegli stessi fondi in una strategia mirata a coniugare la prevenzione, la sicurezza dei cittadini ed il possibile recupero della persona che ha sbagliato, credo proprio che avremmo una società più sicura e più giusta. Si tratta di scelte e di coraggio perché è indubbio il fatto che la criminalità e la devianza non possono essere affrontati con gli stessi metodi di un secolo fa, in una visione che non sa vedere altri strumenti nel fronteggiare il ‘ crimine’ che le celle e la segregazione. La logica è quella che portava a buttare i “matti” in manicomio. Eppure una cosa è certa: i paesi che utilizzano il carcere a pieni mani sono gli stessi in cui il tasso di criminalità schizza verso l’alto. Nella campagna contro la Cartabia s’è fatto notare qualche magistrato che rivendica l’ostilità verso l’ex ministra della giustizia come fosse un merito ‘ ante marcia’. Sono gli stessi che solitamente riempiono le patrie galere di innocenti senza pagare mai il dazio. Sono gli stessi che vogliono licenza di arresto che molto più che alla giustizia serve alla loro popolarità e alla loro carriera Guai se costoro prevalessero su studiosi seri come la Cartabia, sarebbe come se nel 1978 i sostenitori dei lager chiamati manicomi avessero vinto su ‘ Psichiatria Democratica, su Franco Basaglia, e sulla riforma che porta il suo nome. Una sconfitta per la civiltà e per la Libertà. Intercettazioni, Nordio: “Sì per le mafie, ma attenti all’abuso nei reati minori” di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 gennaio 2023 L’Ordine dei giornalisti: “Autoregolamentazione, non leggi”. Sul tema delle intercettazioni il governo tenta di rassicurare i magistrati antimafia, dopo che il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia ha spiegato come l’ascolto delle telefonate sia stato “uno dei pilastri dell’inchiesta” che ha portato alla cattura di Matteo Messina Denaro. Il ministro di Giustizia Carlo Nordio, che solo poche settimane fa aveva asserito che “i mafiosi non parlano al telefono”, come ha ricordato la capogruppo del M5S al Senato Barbara Floridia, ieri ha tentato una difesa della riforma spiegando ai microfoni di Radio 24: “Sono anni che ripeto che le intercettazioni sono assolutamente indispensabili nella lotta alla mafia e al terrorismo e per comprendere i movimenti di persone sospettati di reati gravissimi. Quello che va cambiato è l’abuso che se ne fa per reati minori, con la diffusione sulla stampa di segreti individuali che non hanno a che fare con le indagini. Credo che ci sia malafede quando si confondono i due campi”. Subito dopo gli ha fatto eco il sottosegretario Andrea Delmastro che, partecipando al flash mob organizzato da Fd’I davanti al Comando dei carabinieri del centro di Roma per “festeggiare lo Stato trionfante contro la mafia schiacciata”, ha rassicurato sull’intenzione del governo Meloni di non toccare né le intercettazioni né il 41 bis, strumenti, a suo dire, “essenziale per contrastare la criminalità”. Nel governo, assicura il viceministro Francesco Paolo Sisto, “non c’è un partito “intercettazioni sì” e uno “intercettazioni no”. La questione sul tavolo è il loro utilizzo per reati minori e il livello di spesa importante che ciò comporta”. “Cosa intendono per reati minori? - partono all’attacco i capogruppo di Camera e Senato del M5S - Pensano forse che, ad esempio, la corruzione sia un reato minore slegato dalle condotte mafiose?”. Mentre l’ex Guardasigilli Andrea Orlando (Pd), su Rainews 24, avverte: “Non mi rassicura il fatto che si dica semplicemente che le intercettazioni non saranno precluse per la lotta alla mafia e per i reati direttamente collegati alla mafia. Perché spesso ci sono reati che non sono direttamente manifestazione dell’organizzazione mafiosa, che sono però reati cosiddetti “spia”, che indicano una presenza dell’attività criminale e attraverso l’individuazione di quei reati apparentemente minori si può risalire poi alla presenza mafiosa”. Il cuore del problema, però, sta nella pubblicazione delle intercettazioni, che spesso violano la privacy di persone neppure indagate. Su questo tema si è infatti espresso l’Ordine dei giornalisti che ieri è stato ascoltato in commissione Giustizia del Senato per l’indagine conoscitiva che si sta svolgendo sul tema: “Le Intercettazioni oggi sono atti pubblici già filtrati da elementi non essenziali, serve più autoregolamentazione per i giornalisti, non si può stabilire tutto per legge”, ha affermato il presidente dell’Odg Carlo Bartoli che. ricordando le sentenze della Corte europea dei diritti umani e i moniti del Garante della privacy, ha chiesto al Parlamento di “non restringere ulteriormente l’accesso alle informazioni necessarie all’opinione pubblica, impedendo di far conoscere eventi e comportamenti di interesse pubblico”. Intercettazioni, ha ragione Nordio di Tiziana Maiolo Il Riformista, 18 gennaio 2023 Il ministro - lo ha ripetuto anche in queste ore - riconosce il valore delle intercettazioni nella lotta alla mafia. Ma è contro l’abuso e contro l’utilizzo da parte del circo mediatico. Nessun passo indietro. Chissà se le indagini sul giro di amici e parenti che hanno aiutato l’individuazione di Matteo Messina Denaro sotto le spoglie di Andrea Bonafede hanno fatto uso di intercettazioni investigative. Cioè quelle preferite dal ministro Nordio, attuate in forma preventiva dai servizi di sicurezza come strumento di contrasto al terrorismo internazionale. Importanti perché vengono eseguite prima e a prescindere dalla commissione di reati. E che, soprattutto, non sono utilizzabili nel processo penale. Sarebbe interessante saperlo, e per molti motivi, non ultimo dei quali è la garanzia di riservatezza che lo strumento offre, dal momento in cui i dati sensibili acquisiti non subirebbero alcuna contaminazione con il processo e manterrebbero separati i due comparti, sicurezza e giustizia. Non abbiamo la pretesa che questi concetti e lo strumento dell’intercettazione investigativa diffuso in tutta Europa ma poco in Italia, vengano compresi da Marco Travaglio e dai pubblici ministeri, in toga o in Parlamento, di cui lui fa il ventriloquo. A lui, a loro, basta poter rinfacciare al ministro Nordio il fatto che nelle indagini di ricerca del trentennale latitante Matteo Messina Denaro, insieme, supponiamo, a tanti altri strumenti di ricerca della prova come per esempio i pedinamenti ci sia sempre la possibilità di spiare dal buco della serratura. Il fatto che gli uomini dei Ros abbiano ascoltato i personaggi immersi nel brodo di coltura del latitante è sufficiente per le anime semplici. Che questa possa esser stata attività di intelligence è concetto troppo sofisticato per chi definisce le norme introdotte dall’ex guardasigilli Cartabia come “schiforme” e di Carlo Nordio sa solo dire che “in un paese civile” (chissà quale) non sarebbe ministro di giustizia. Certo nessuno dei due somiglia a quello che si chiamava Bonafede, proprio il nome scelto per mascherarsi dal latitante Messina Denaro. Pure, la riforma delle intercettazioni preventive, inserita per insistenza del guardasigilli nella manovra finanziaria da poco approvata dalle Camere, dovrebbe segnare una svolta, nel solco di quel che Carlo Nordio, prima ancora di diventare parlamentare e poi ministro, ha sempre detto. Certo, governare è altra cosa. Si devono trovare mediazioni politiche, si devono usare toni più felpati, cui non sempre il ministro si arrende. Come quando ha detto che sulla modifica delle intercettazioni è disposto a mettere il proprio corpo e la propria carriera, “fino alle dimissioni”. Ma l’idea di separare la giustizia dalla sicurezza non è peregrina né recente. Ricordiamo una sorta di confronto a distanza tra il pm Nordio e il pm Gratteri nel 2015. Uno diceva che bisognerebbe vietare tutte le intercettazioni, tranne quelle preventive, utili come spunto investigativo ma che non hanno valore probatorio. L’altro, che allora era a Reggio Calabria, insisteva invece che non occorresse alcun limite alle intercettazioni, semmai si sarebbero dovuti punire con il carcere i giornalisti che le pubblicavano. Altri tempi, c’era Matteo Renzi presidente del consiglio e uno di quei due pm voleva diventare ministro. Invece lo è diventato l’altro. Quando il ministro Nordio afferma, come ha fatto ripetutamente ieri dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, che nelle indagini di mafia e terrorismo, certo che le intercettazioni sono indispensabili, non si discosta da quel che ha sempre detto. E del resto proprio quando ha inserito, nella manovra finanziaria, le voci di spesa delle investigazioni preventive in altro comparto del governo rispetto alla giustizia, cioè il ministero dell’economia e delle finanze, ha inteso metterle in sicurezza. Perché ha collocato le attività di intelligence lontano dal colabrodo del circo mediatico-giudiziario, e ha anche garantito una certa sicurezza sul piano economico e di bilancio. Occorre non dimenticarsene, quando si ricordano i tagli di spesa che sono stati effettuati sull’amministrazione della giustizia proprio riguardo alle intercettazioni. Considerando i dati relativi al 2021, con le 70.000 persone soggette a captazione con 150.000 intercettazioni autorizzate dall’autorità giudiziaria con una spesa complessiva di 12.785.338,67 euro, la riduzione di spesa di 1.575.136 euro all’anno a partire dl 2023 non è neanche un taglio così drastico. Visto lo spostamento di bilancio. In conclusione l’unica riforma finora concreta è stata proprio quella sulle intercettazioni preventive, le più adatte - ma come spiegarlo ai vari Caselli e Scarpinato - proprio a indagare sulla mafia. È per questo che il ministro Nordio dice con sicurezza che le intercettazioni “sono uno strumento indispensabile per la lotta alla mafia, un metodo chiave per la ricerca della prova, per capire i movimenti” delle persone sospettate. Ma non dimentica di ricordare che “quello che va cambiato è l’abuso che se ne fa per i reati minori”. Perché “una cosa è servirsi di intercettazioni per combattere la mafia, un’altra è far finire sui giornali persone nemmeno indagate”. Difficile da capire? Se Travaglio ha dubbi può sempre chiedere a Bonafede, stando attento a non confonderlo con l’omonimo. Il procuratore Melillo: “Intercettazioni fondamentali anche per i reati non di mafia” di Conchita Sannnino La Repubblica, 18 gennaio 2023 Il Forum a “Repubblica” del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo all’indomani dell’arresto del super latitante Matteo Messina Denaro. Giovanni Melillo, come procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, pensa sia corretto dire che Cosa Nostra è sconfitta, dopo la cattura di Matteo Messina Denaro? “Partirei da questo assunto. Le mafie sono strutture complesse in grado di assorbire qualunque colpo. Cosa Nostra ha una vitalità che prescinde dalla sorte dei singoli capi. Ma, prima di questo, mi lasci dire che al procuratore di Palermo e ai magistrati che hanno condiviso con lui questi mesi di paziente e silenzioso lavoro va tutta la mia ammirazione e la mia affettuosa solidarietà. A loro e ai carabinieri del Ros deve andare la riconoscenza del Paese”. Sono le 20 quando il vertice della Direzione nazionale antimafia atterra a Ciampino, dopo l’intera giornata trascorsa in Procura a Palermo. “È una buona pagina”, uno di quei giorni in cui Melillo sorride. Il risultato raggiunto lunedì mattina quale lezione ci consegna? “Dimostra ancora una volta la forza di un metodo di lavoro che del rigore, del coordinamento, della prudenza e della determinazione fa le sue leve fondamentali. E ci ricorda che la direzione delle indagini affidata al pm è un valore fondamentale”. A dispetto di una riduzione del suo ruolo, come sembrava volere questa destra? “Credo che anche questa vicenda dovrebbe aiutare a riflettere sulle solidità di certe opzioni, secondo cui il magistrato della pubblica accusa dovrebbe essere una sorta di avvocato delle forze di polizia: e credo che invece anche queste ultime riconoscano l’importanza di una funzione di controllo e di garanzia già durante le indagini, per orientarne tecniche e obiettivi verso rigorose finalità processuali. A maggior ragione quando, come in questo caso, le indagini si avvalgono di strumenti delicati come le intercettazioni”. Il ministro della Giustizia Nordio aveva annunciato “una profonda revisione” del sistema intercettazioni. Da lunedì dice: per i reati di mafia le teniamo. Ma ci sono tante altre condotte spia... “Si tratta di un campo delicato e complesso che interroga tutti i sistemi nazionali. Innanzitutto perché nell’era digitale nelle indagini e nei processi confluiscono masse informative incomparabilmente più gradi e delicate rispetto al passato, ciò che obiettivamente pone la necessità di rigoroso governo di strumenti e tecniche di indagini che coinvolgono diritti fondamentali. Dunque, tocca al legislatore tracciarne i confini, trattandosi di materia propria della sfera della responsabilità politica. Da procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo ho tuttavia la responsabilità di sottolineare che oggi le mafie parlano innanzitutto il linguaggio della corruzione e delle frodi fiscali, che è linguaggio praticato largamente dal mercato e nel mercato, fungendo da saldatura di interessi eterogenei”. Quindi, sottrarre alla corruzione lo strumento delle intercettazioni significa indebolire quella lotta? “Non c’è dubbio che sarebbe un danno serio. Perché una parte non secondaria delle conoscenze che costruiamo quotidianamente sulle mafie nascono da indagini su più rilevanti fenomeni di corruzione e di frode fiscale e perché dalle indagini di mafia emergono elementi importanti per individuare gravi fatti di corruzione. Non solo, ma l’esperienza rileva che spesso è più difficile penetrare la segretezza degli accordi corruttivi che quella di una riunione di mafiosi. Le intercettazioni. Capita frequentemente, ormai, di dover prendere atto che un incontro con fini illecito fra un pubblico ufficiale e un imprenditore sia circondato da cautele e tecniche di elusione dei controlli da far invidia alla segretezza dei movimenti che siamo abituati a considerare ossessiva precauzione di mafiosi. In alcuni casi, la polizia giudiziaria ha dovuto registrare persino il ricorso a tecniche di contro pedinamento da terroristi in clandestinità”. Di fronte alla gravità dei sospetti, vanno difese anche le captazioni più invasive: col trojan, per intenderci? “Sul versante della corruzione, credo sia necessario anche quello strumento. Che naturalmente va ancorato a parametri rigorosi, perché esiste un oggettivo problema di innalzamento delle garanzie, ciò che impone di rafforzare il ruolo del giudice e non di rinunciare allo strumento. Ma, naturalmente appartiene alla responsabilità della politica definire queste scelte, così come valutare il tempo di queste scelte”. La stagione del Pnrr suggerirebbe prudenza? “Dico solo che fui molto colpito dalle parole di Mario Draghi, quando lo scorso settembre volle incontrare me e gli altri magistrati della Dna nella nostra sala riunioni dedicata a Giovanni Falcone. Parlando del Pnrr, l’ex Presidente del Consiglio volle sottolineare, ritengo guardando anche alla responsabilità sociale della magistratura, che la credibilità dell’Italia subirebbe gravissimi danni se soltanto si diffondesse la percezione che una parte delle risorse finanziarie destinate al nostro Paese, ma finanziate dalla tassazione di cittadini e imprese di altri Paesi europei all’Italia finiscano nelle mani delle mafie o nei mille rivoli della corruzione”. Torniamo alla cattura di Palermo. La vera inchiesta, per paradosso, è iniziata da lunedì. E ora tanti auspicano che l’ultimo stragista corleonese si penta. “A Messina Denaro è attribuita la responsabilità di pagine sanguinose della storia delle organizzazioni criminali, alcune delle quali hanno avuto un evidente significato eversivo: penso alle bombe di Roma, Milano e Firenze. Che ci sia una dimensione politica dell’agire mafioso eclatante è evidente. E di questa dimensione “politica” egli è di certo a conoscenza. Quindi ritengo che alcune vicende, penso all’omicidio di Piersanti Mattarella ad esempio, penso alla campagna stragista del ‘93 nel continente, o a storie anche più risalenti nel tempo, meritino di essere approfondite, del resto fino a quando ci sarà la possibilità umana di farlo. D’altro canto, non sono io a stabilire l’imprescrittibilità di alcuni delitti. Soprattutto perché penso che una democrazia non possa permettersi di avere paura di conoscere la propria storia: e di farlo secondo le regole dello stato di diritto”.”. Ma ci sono trent’anni di coperture eccellenti, di connivenze, false piste e zone grigie da individuare. Se il boss decide di non parlare, fin dove si può arrivare? “Non faccio vaticini e non mi interessa iniziare adesso...”. Ma esistono nodi mai sciolti fino in fondo. Nel rapporto tra il boss corleonese, quell’ala stragista e la politica... “A Messina Denaro è attribuita la responsabilità di aver scritto alcune delle pagine più sanguinose delle storia delle organizzazioni criminali, alcune delle quali hanno avuto un evidente significato eversivo, ciò che senz’altro rivela una dimensione politica dell’agire mafioso con il metodo delle stragi. E di questa dimensione “politica” egli è certo conoscenza. Ma noi abbiamo comunque il dovere di continuare ad indagare su quei crimini, del resto imprescrittibili per tradizionale scelta legislativa. Una democrazia non può avere paura di conoscere la propria storia e di farlo secondo procedure regolate dalle leggi dello Stato”. Per questo non si può dichiarare né sconfitta Cosa Nostra né chiusa l’aziome di contrasto? “Trovo frettoloso e anche pericoloso il semplice pensare di chiudere considerare sconfitta Cosa Nostra e di rinunciare alla comprensione profonda di quelle vicende, sulle quali invece bisogna continuare a lavorare”. Di cosa c’è bisogno per andare avanti su questa strada? “Sostenere gli uffici che sono impegnati su questo fronte, assicurando il coordinamento delle loro piattaforme informative e delle loro iniziative. È ciò che tocca al mio ufficio fare”. La decisione della premier Meloni di volare a Palermo: giusto riconoscimento, facile ricerca di consenso o impegno necessario da cui si attendono scelte coerenti? “Io ho molto apprezzato la scelta del Presidente del Consiglio di essere ieri a Palermo e anche le sue parole di apprezzamento verso le istituzioni giudiziarie polizia. Per due motivi. Innanzitutto, perché quella presenza esprime simbolicamente il principio che il contrasto alle mafie non è questione riservata alla magistratura e alle forze di polizia, ma questione nazionale che interroga il complesso delle politiche pubbliche”. Il secondo? “Perché quel gesto e quelle parole aiutano a ricostruire un clima di fiducia e rispetto fra le istituzioni. E ben venga anche un giorno di memoria delle vittime delle mafie e del terrorismo dedicato alla riflessione collettiva, anche se più che un giorno di festa preferirei 365 giorni l’anno di reciproco rispetto e di fiduciosa collaborazione delle istituzioni. Bisogna svelenire questo clima che consuma le istituzioni repubblicane”. Messina Denaro non è solo l’ideologo delle stragi nel continente del ‘93. È anche l’incarnazione della mafia in affari con borghesia, imprese, pubblica amministrazione e massoni. È il volto delle mafie di oggi? “Le mafie oggi sono componenti strutturali del tessuto sociale ed economico, non solo delle regioni meridionali. Sono uno degli assi portanti dei circuiti organizzati della frode fiscale e della corruzione. Ed è questa una realtà che emerge particolarmente nelle indagini delle procure distrettuali delle regioni centro-settentrionali: dove banalmente non ha alcuna credibilità l’immagine del mafioso con la coppola sul capo e e il fucile in spalla. Il mafioso è oggi un agente fondamentale del sistema delle false fatturazioni, delle frodi IVA, della corruzione delle funzioni di controllo sulle imprese: ed è così che si consolida la connessione tra i circuiti del riciclaggio da traffici criminali e le imprese che mafiose non sono, ma si avvalgono di quei servizi. Suggerisco, a questo proposito, la lettura di un ormai risalente ma ancora illuminante saggio, Mezzogiorno e mediazione impropria, di Piero Barucci, un economista certo non incline ad aderire a visioni e eccessi inquisitori”. Che effetto le fa leggere di illazioni su presunte trattative, su una consegna di Messina Denaro? “Nessuno. Anche se occorrerebbe riflettere sugli effetti perversi di certe ricostruzioni fantasiose”. Ma la domanda serve a lasciare che i cittadini si facciano un’idea... “Certo. Ma c’è in questo Paese un rischio di contaminazione irrecuperabile con l’irrealtà. Allora: se non si arrestava, c’era una trattativa per consentirgli la latitanza sine die. Lo arrestano: e allora c’è stata un’altra trattativa. Banalmente penso che ai magistrati spetti restare coi piedi per terra e procedere con rigore a distinguere tutto ciò che è razionalmente controllabile e ciò che non lo è e non contribuisce a colmare il debito di verità e giustizia che abbiamo verso le vittime della mafia”. Il boss ha lasciato scritto del rispetto con cui è stato trattato... “Come dovrebbe essere sempre, per qualsiasi uomo la vita e la dignità del quale spetti allo Stato tutelare”. Questo arresto è stato il “riscatto” dei Ros, dopo le inchieste e le ombre? “Non è il caso di fare paragoni col passato. questa struttura di élite dei Carabinieri è oggi molto cambiata, non solo negli uomini, come è ovvio, ma anche e soprattutto nei metodi di lavoro e nella filosofia del rapporto con il pubblico ministero, del quale ricerca e rispetta la funzione di direzione delle indagini, come la vicenda dell’arresto del latitane dimostra”. Possiamo dire che la magistratura italiana e gli apparati di sicurezza sono cresciuti più della politica? “Sarebbe una facile provocazione. Su certi versanti, poi, direi che la magistratura è cresciuta poco: ci sarebbe bisogno di massicce dosi di trasparenza, di responsabilità sociale sui problemi della trasparenza e dell’efficienza della macchina giudiziaria, ma il clima di continua contrapposizione polemica non aiuta a vincerne le resistenze corporative”. Quegli applausi, lunedì in strada, possono riconnettere il sentimento degli italiani con la giustizia? “Non servono gli applausi per questo. Ma la ricostruzione di un clima generale di fiducia e di rispetto che spetta a tutti contribuire a ripristinare e difendere”. Csm, caos laico: eletti nove membri il decimo no. È indagato per mafia di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 18 gennaio 2023 Dopo una giornata convulsa, il Parlamento in seduta comune ha eletto nove dei dieci membri laici del Csm. Pasticci a ripetizione, manca il quorum un candidato di Fratelli d’Italia subentrato a un altro ritirato in corsa. La giornata era cominciata con lieti auspici: quattro posti a Fratelli d’Italia, due alla Lega, uno ciascuno a Forza Italia, Pd, M5S e Terzo Polo. Ma la festa appena cominciata era già finita pochi minuti dopo le 16, con la scoperta che Giuseppe Valentino, ex parlamentare e sottosegretario alla giustizia, oggi presidente della fondazione Alleanza Nazionale, principale candidato di Fratelli d’Italia al Csm, è indagato a Reggio Calabria per reati di ‘ndrangheta. Nel mirino, sulla base di intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di pentiti, i suoi rapporti con Paolo Romeo, che faceva parte della “struttura riservata” della ‘ndrangheta ed è stato condannato in primo grado a 25 anni di carcere. Lo stesso Valentino ne era stato messo al corrente quando, chiamato a testimoniare nel maxiprocesso Gotha, si era avvalso della facoltà di non rispondere “in quanto indagato per reato connesso”. A votazione in corso, il Parlamento va in tilt. Conciliaboli tra Conte e Orlando. Pd e M5S “chiedono chiarimenti” non si capisce bene a chi (a Valentino? Alla Procura? Alla ‘ndrangheta?). Provenzano butta il sasso: “Io non lo voto”. Sui telefoni dei parlamentari di Fratelli d’Italia arriva l’ordine di disertare la prima chiama, per tattica. Dopo venti minuti contrordine: votate pure, “dubbi M5S chiariti”. Manco per niente: il M5S non vota. Sono le 18. Anche il Pd non ci sta. Due minuti dopo Valentino annuncia il ritiro della candidatura denunciando “vergognose palate di fango”. Meno uno, a votazione in corso. Salta tutto. Qui si fa l’Italia o si muore. In due minuti Fratelli d’Italia perfeziona il cambio volante: subentra Felice Giuffrè, docente e avvocato amministrativista catanese, una militanza nel Fronte della gioventù prima della carriera tra Sicilia e Parioli. L’accordo rivive a urne aperte, ma nel caos: alcuni parlamentari non possono più votare. Giuffrè manca l’elezione: problema tecnico, ma non mancano i sospetti su franchi tiratori. La lista va letta in controluce. Per la Lega due penalisti: Fabio Pinelli (padovano, già difensore di Morisi, ideatore della “bestia” social di Salvini) e Claudia Eccher (trentina, consigliera di amministrazione di Italferr, avvocato di Salvini). Per Forza Italia Enrico Aimi: avvocato modenese, ex An, poi senatore berlusconiano, ricandidato nel 2022 non rieletto. Per il M5S Michele Papa: docente di diritto penale a Firenze, amico personale di Conte che già l’aveva collocato nel consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Per il Terzo Polo Ernesto Carbone: prodiano legato a Paolo De Castro (Nomisma, ministero dell’agricoltura, Ismea), poi turborenziano, non rieletto in Parlamento nel 2018 ma ricollocato nel consiglio di amministrazione della società pubblica Terna. Si scrive Terzo Polo ma si legge Renzi: Calenda si era speso invano con Andrea Mascherin, già presidente del Consiglio nazionale forense. Il Pd, dopo aver fatto ballare anche il docente torinese Grosso e quello genovese Ferrante, vira su Roberto Romboli: costituzionalista pisano, allievo di Pizzorusso che fu membro del Csm, studioso di ordinamento giudiziario, membro del consiglio giudiziario, consigliere comunale per il Pds post tangentopoli da indipendente. Indicazione del duo Letta-Rossomando. Fratelli d’Italia schiera Isabella Bertolini (avvocato modenese, ex parlamentare di Forza Italia poi transitata anche dalla Lega, paladina “delle radici cristiane”), Daniela Bianchini (avvocato civilista di Roma, con il sottosegretario Mantovano nel centro studi Livatino di ispirazione conservatrice), Rosanna Natoli (avvocato siciliano di Paternò, paese natale di La Russa, già assessore e candidata per Fratelli d’Italia). Bisognerà rivotare tra una settimana per il decimo posto. Come vicepresidente in pole Pinelli (benché di indicazione leghista ha profilo indipendente, prova ne sia la stima di Violante che l’ha chiamato nella fondazione Leonardo) o Romboli (miglior curriculum anche se indicato dal Pd). Decideranno i togati, che hanno la maggioranza. E soprattutto le correnti moderate Unicost e Magistratura Indipendente. Csm, la trasparenza è una farsa. Pasticcio FdI di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 18 gennaio 2023 Parlamento riunito in seduta comune. Dieci nomine spartite con il bilancino malgrado la novità delle auto candidature. Fratelli d’Italia indica quattro candidati ma ne sbaglia uno e manca l’elezione del candidato di riserva. Servirà un nuovo voto martedì prossimo. Il candidato del Pd Romboli il più votato. Così come aveva mancato l’obiettivo la nuova legge per l’elezione dei magistrati nel Csm, per cui quattro mesi fa hanno prevalso ancora una volta i candidati scelti dalle correnti, allo stesso modo anche le novità introdotte dalla riforma Cartabia per l’elezione dei consiglieri laici hanno clamorosamente fallito la prima prova. Ieri, dopo un paio di rinvii, camera e senato si sono riunite per la prima volta in questa legislatura in seduta congiunta, l’aula e i corridoio di Montecitorio sono tornati a riempirsi di seicento parlamentari come prima del taglio. I candidati e le candidate per i dieci posti non togati del Consiglio superiore della magistratura erano in effetti i quasi trecento che si sono pubblicamente presentati in questi ultimi tre mesi di surplace, in omaggio alla trasparenza voluta con la riforma. Ma poi a essere eletti sono stati candidati segnalati dai partiti nelle ultime ore, oppure scesi in campo da soli ma all’ultimo momento, quando gli era stata offerta l’elezione. L’incidente c’è stato comunque, a conferma di una certa incapacità dei nuovi arrivati al potere nel gestire le pratiche delicate. Fratelli d’Italia ha confermato i tre posti a disposizione delle opposizioni - per Pd, 5 Stelle e Azione/Italia viva - ma dei sette posti della maggioranza ne ha voluti per sé quattro. Inserendo nella sua rosa, in posizione preminente per provare a pilotarlo verso la vicepresidenza del Consiglio, l’avvocato Giuseppe Valentino. Ex sottosegretario alla giustizia in anni di berlusconismo trionfante, l’avvocato Valentino durante una lunga carriera cominciata con le difese dei neofascisti e arrivata ai piani alti di via della Scrofa, è incappato in diverse inchieste. Dall’ultima, condotta dalla direzione antimafia di Reggio Calabria, non risulta ancora uscito e così i parlamentari 5 Stelle, ad accordo raggiunto, hanno fatto sapere che non lo avrebbero votato, convincendo evidentemente sia il resto dell’opposizione che lo stesso partito di Meloni che a un certo punto del pomeriggio ha cambiato cavallo. Per quanto furiosi con i 5 Stelle, gli esponenti del partito della presidente del Consiglio evidentemente hanno capito di non potersi permettere la nomina di un politico chiacchierato (già indagato in Calabria vent’anni fa da De Magistris), non dopo la photo opportunity di Meloni a Palermo nel giorno dell’arresto di Messina Denaro. La fortuna ha arriso allora professore di diritto catanese Felice Giuffrè, ex componente della commissione paritetica sullo statuto della regione Sicilia, stesso organismo dal quale proviene anche un’altra prescelta di Fratelli d’Italia, l’avvocata Rosanna Natoli. Solo che nel frattempo un bel po’ di senatori (non di FdI) avevano già risposto alla chiama nell’aula della camera e tra i dieci nomi che andavano scritti sulla scheda (da qui la lunghezza delle operazioni di voto) avevano già scritto quello di Valentino, poi ritiratosi indignato per le “vergognose palate di fango”. Per risolvere l’impiccio è stata necessaria anche una, non ortodossa, interruzione della seduta, lasciando in sospeso fino all’ultimo nella proclamazione notturna il risultato di Giuffrè che infatti con 295 voti non ha raggiunto il quorum dei 3/5 dei parlamentari indispensabile per l’elezione. Servirà, per lui soltanto, una nuova votazione martedì prossimo. Poi il voto è ripreso con la notizia che i 5 Stelle avrebbero sì votato il nuovo candidato di FdI, ma non quello messo in campo dai renzian-calendiani. In effetti l’avvocato Ernesto Carbone, pretoriano di Renzi dopo un esordio prodiano, non rieletto ma sistemato nel cda di Terna, non è noto per le sue competenze giuridiche quanto per aver tenacemente marcato il territorio del renzismo, segnalandosi come supporter fino al limite dell’autolesionismo (celebre il caso del “ciaone” agli elettori del referendum trivelle). Alla Lega l’accordo di maggioranza ha riservato due posti, dove Salvini ha destinato due avvocati di partito, la sua legale personale Claudia Eccher - moglie di un ex senatore leghista, Sergio Divina, sposato con “cerimonia padana” e abito nuziale verde - e il difensore di molti dirigenti leghisti, ultimo Luca Morisi, l’avvocato padovano Fabio Pinelli. Ma risultava essere della Lega, dopo lunghi trascorsi in Forza Italia, anche l’ex parlamentare Isabella Bertolini, che dopo tre legislature con il partito di Salvini si era inutilmente candidata alle ultime regionali in Emilia Romagna. Invece è finita nel poker delle candidature di Fratelli d’Italia, che oltre a lei, a Giuffrè e a Natoli, conta anche l’avvocata Daniela Bianchini, del centro studi cattolico conservatore Rosario Livatino, territorio del sottosegretario Alfredo Mantovano. Per Forza Italia sono rimaste le briciole, un solo Consigliere, Sergio Aimi, coordinatore del partito in Emilia Romagna e candidato non rieletto al senato, più noto come spalla legale del medico Luigi Di Bella ai tempi del “metodo”. Per il loro posto in Consiglio, i 5 Stelle hanno scelto il professore di diritto penale Michele Papa, ex preside della facoltà di Firenze, amico e collega di Giuseppe Conte. Papa viene dal consiglio superiore della giustizia amministrativa (ne è il vicepresidente) nel quale era entrato nel 2018 proprio per sostituire Conte che lì era stato destinato dai grillini prima dello sliding doors per palazzo Chigi. Il Pd invece ha indicato Roberto Romboli, professore emerito di diritto costituzionale, esponente della scuola pisana dei costituzionalisti, alla fine risultato il più votato e forse l’unico tra gli eletti con un curriculum all’altezza della vice presidenza del Csm. Partita per la quale, però, la maggioranza ha tutti altri programmi. Se riuscirà a trovare un’intesa più larga di quella con i soli sette togati della corrente di destra. Servono infatti almeno sedici voti. Effetto Messina Denaro: le intercettazioni non si toccano, l’ergastolo ostativo nemmeno di Federica Olivo huffingtonpost.it, 18 gennaio 2023 Fdi: “Con il governo Meloni non verrà meno nessuna misura contro la criminalità”. Forza Italia spinge almeno per un ritocco, ma precisa: “Non riguarderà i reati di mafia”. E a Nordio tocca firmare il 41 bis per il boss malato. “Le intercettazioni sono uno strumento essenziale per contrastare la criminalità. Con il governo Meloni, così come per il 41 bis, non verrà mai meno nessuna normativa per contrastare l’illegalità”. All’indomani della cattura di Matteo Messina Denaro tocca a Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario e plenipotenziario dei meloniani in tema di giustizia, gettare acqua sul fuoco sulla polemica. Risalire al boss, latitante per trent’anni, infatti, è stato possibile anche grazie alle intercettazioni. “Senza, non si possono fare indagini di mafia”, ha dichiarato in conferenza stampa il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia. Un’affermazione detta tra le righe ma che assume un peso enorme, nel momento in cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio - sostenuto in questo da Forza Italia - sta valutando di rivedere la disciplina delle intercettazioni. E allora spetta a un esponente di FdI blindare le captazioni che si fanno durante le indagini. Per il presente e per l’immediato futuro. “Un uomo che ha vissuto nascosto, latitante come un topo, alla fine è stato preso perché lo Stato vince sempre. È stato preso anche per il tramite delle intercettazioni, che rimangono uno strumento essenziale di cui non depriveremo la magistratura”, ha aggiunto il fedelissimo di Giorgia Meloni a margine di un flash mob organizzato da Fratelli d’Italia per ringraziare i carabinieri. Una posizione netta e necessaria, per il partito di maggioranza relativa, a fugare ogni dubbio. A non far credere ai propri elettori che ci saranno allentamenti di sorta. Né sulle intercettazioni di mafia, né sulle altre. Eppure queste parole sembrano andare in controtendenza rispetto a quello che, appena pochi giorni fa, diceva il ministro Nordio: “I mafiosi non parlano al telefono”. Parole che vengono brandite contro di lui soprattutto dai 5 stelle, perché il latitante italiano più ricercato è stato trovato anche perché di Iddu e della sua malattia parlavano i suoi sodali proprio al telefono. Per la maggioranza ora è un bel problema: una qualsiasi revisione della materia, se anche non andasse a toccare i reati di mafia, sarebbe vista come un favore alla criminalità. D’altro canto, però, quella di Nordio contro le intercettazioni non necessarie - e che comportano spese notevoli - è una vera e propria crociata. Che, però, dovrà rinviare, visto il clima. “Le intercettazioni sono uno strumento indispensabile per il terrorismo e la mafia, ma quello che va cambiato radicalmente è l’abuso che si fa, soprattutto nella stampa, di segreti individuali e intimi che non hanno niente a che fare con le indagini”, ha spiegato ancora il ministro. L’idea, quindi, sarebbe quella di intervenire non tanto sulle intercettazioni quanto sulla loro diffusione. A una stretta in questo senso - che non toccherebbe, quindi, i reati a cui si applicano - FdI e Lega sarebbero anche d’accordo. Ma tengono un profilo basso, perché parlarne oggi significherebbe prestarsi a fraintendimenti. E deludere gli elettori. L’idea, quindi, è quella accantonare questo capitolo. O, quantomeno, di rinviarlo. Perché il momento non è opportuno, certo, ma anche perché sulla scrivania del Guardasigilli ci sono altre priorità: la revisione dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze illecite viene prima di tutto. Quella di mettere da parte il dossier è una prospettiva che non piace a Forza Italia. Il partito di Berlusconi ritiene indispensabile ragionare su una stretta. Escludendo i reati di mafia e terrorismo. “Non c’è una questione intercettazioni sì, intercettazioni no”, ha dichiarato Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia di Fi. “Non abbiamo mai pensato di toglierle per i reati di mafia”, ha aggiunto. Forza Italia non solo vorrebbe una stretta sulla diffusione illecita delle intercettazioni, ma ambirebbe ad andare oltre: “Il punto - ha sostenuto ancora Sisto, parlando con l’AdnKronos - è se per gli altri reati minori, diversi da quelli mafiosi, non sia possibile un ridimensionamento di questa attività. Non una cancellazione, sia chiaro, ma un ridimensionamento (..). Sono due capitoli completamente diversi: sulla mafia avanti tutta, sul resto una riflessione mi sembra opportuna”. Questa affermazione ha fatto saltare dalla sedia i 5 Stelle, che sono pronti a dare battaglia: “Cosa intendono con questa espressione? Pensano forse che, ad esempio, la corruzione sia un reato minore slegato dalle condotte mafiose? Sanno o dovrebbero sapere che le mafie non indossano più la coppola ma il colletto bianco e mettono le mani sui grandi capitali proprio attraverso la corruzione”, si chiedono Valentina D’Orso e Ada Lopreiato, parlamentari M5s in commissione giustizia di Camera e Senato. La strada per intervenire sulle intercettazioni, anche solo con un ritocco minimo, si preannuncia dunque scivolosa. Alla maggioranza e al Governo, in questo momento, conviene non imboccarla. Allo stesso modo, sarebbe complesso ritoccare il resto della legislazione antimafia. Non che Lega e FdI, due forze storicamente più vicine al giustizialismo che al garantismo, volessero farlo. E le parole di Delmastro di oggi sono utili a ricordarlo. Il ministro Nordio, però, ha in passato mostrato - e dichiarato - disapprovazione nei confronti di istituti che, in nome della lotta alla mafia, odorano di illiberalità, come l’ergastolo ostativo e il 41 bis. E invece è toccato proprio a lui firmare l’ennesimo decreto di carcere duro. Destinato, questa volta, a Matteo Messina Denaro. La procura ha chiesto per il boss, che ha un tumore in stato avanzato, il 41 bis e la firma del Guardasigilli è arrivata, senza obiezioni di sorta, in mattinata. Il ministro ha dato garanzie su come sarà curato U siccu, nel carcere di massima sicurezza de L’Aquila: “Dobbiamo avere un minimo senso di umanità - ha precisato il ministro - un senso cristiano oltre a quello che dice la Costituzione di curare chi sta male anche se si tratta di criminali. Noi dobbiamo garantire che ci sia la completa espiazione della pena ma la salute dev’essere tutelata. Ho visto molti detenuti malati che erano assicurati alla giustizia in carceri di massima sicurezza ma curati adeguatamente”. Nelle frenetiche ore successive all’arresto di Chiddu, qualcuno ha ipotizzato che il boss fosse stato preso in seguito a una sorta di trattativa con lo Stato. Tesi che ha fatto infuriare la premier. E che non regge. “Il primo provvedimento in assoluto assunto da questo governo è la difesa del carcere ostativo. Qualcuno dovrebbe spiegarmi su che cosa si sarebbe fatta questa eventuale trattativa”, ha detto Meloni a Quarta repubblica. Con quell’intervento, contenuto nel decreto Rave, in effetti il governo ha reso estremamente difficile per gli ergastolani condannati per mafia la possibilità di chiedere la liberazione condizionale, dopo 30 anni di prigione, se non hanno collaborato con la giustizia. Lo ha fatto dopo l’aut aut della Consulta che, se il legislatore non fosse intervenuto, avrebbe cancellato la norma. E avrebbe equiparato, quindi, nella richiesta di benefici penitenziari, i condannati per mafia non pentiti con gli altri detenuti. Insomma, quel provvedimento può piacere o non piacere, ma non contiene tracce di un qualsiasi accordo con la mafia. Né, tantomeno, la premier ha espresso l’intenzione di rimetterci mano. Semmai lo farà, aveva lasciato intendere in una conferenza stampa, sarà per rendere la norma ancora più restrittiva. Proposito certamente discutibile, ma è l’esatto opposto di fare un piacere a Cosa nostra. Piantedosi sulla cattura di Messina Denaro: “Nessuna trattativa, questa è una vittoria senza colore politico” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 18 gennaio 2023 Il ministro dell’Interno: “Mai pensato di limitare gli ascolti. Chi sospetta accordi sulla cattura è in malafede”. Ministro Piantedosi, dopo la cattura del boss Matteo Messina Denaro lei è volato a Palermo e ha detto: “Sono fortunato”. Quando ha saputo che la pista imboccata era quella giusta? “Ho saputo dell’arresto nel momento in cui è avvenuto. Era ragionevole pensare che l’incessante lavoro che le forze dell’ordine stavano svolgendo da tempo potesse portare quanto prima al risultato. E confermo di sentirmi un uomo fortunato per aver vissuto in prima persona una giornata così importante. La telefonata del presidente Sergio Mattarella, la condivisione con la presidente Giorgia Meloni, le immagini degli applausi dei cittadini palermitani, il pensiero ai familiari delle vittime di mafia, la gioia negli occhi delle donne e degli uomini del Ros, l’abbraccio con il comandante dell’Arma Teo Luzi e con il capo della polizia di Stato Lamberto Giannini, questo giorno non potrò mai dimenticarlo”. Qual è la prossima mossa? “Lo decideranno i magistrati, ma sicuramente si deve scoprire come ha funzionato e chi ha tenuto in piedi la rete di protezione mafiosa che ha consentito una così lunga latitanza. Ma soprattutto mi auguro che questo arresto consenta di fare ulteriore luce sulle dinamiche mafiose di alcuni tra gli anni più bui della nostra storia”. Anche lui come tutti gli altri boss latitanti viveva a pochi chilometri da casa. Come è possibile? “È possibile perché la mafia ha ingenti risorse per arruolare gli affiliati e perché continua ad avere tanta forza e potere di influenza anche grazie all’uso della violenza, al ricatto e al compiacimento di esponenti di pezzi di società. Quelli che il procuratore De Lucia ha definito di borghesia mafiosa”. Allora il controllo del territorio non funziona? “Il controllo del territorio e l’attività investigativa hanno portato a questo straordinario risultato. È stato dato un segnale fortissimo al nostro Paese. Lo Stato c’è e ha dimostrato di saper presentare il conto ai criminali che si macchiano di delitti così gravi. Esserci arrivati dopo tanti anni conferma il valore della capacità di presidio del territorio, certamente non lo nega”. Lo Stato ha negoziato l’arresto di Messina Denaro? “Questo arresto è un risultato limpido, senza retroscena. Chi cerca di banalizzarlo e minimizzarlo, di metterlo in dubbio, di mortificarlo, fa un grave errore commesso in malafede. Le manette ai polsi di Matteo Messina Denaro le ha messe solo un lungo e duro lavoro investigativo portato avanti da unità dedicate con metodi di indagine tradizionali senza fronzoli e fantasie. Il merito e il plauso vanno ai magistrati e a tutti gli appartenenti alle forze di polizia che hanno svolto un grande lavoro per assicurare alla giustizia tanti fiancheggiatori di Messina Denaro. Lo Stato in questi anni ha lottato per questo storico risultato e ha vinto mettendo a sistema tutte le sue energie”. Lei guida il Viminale in un governo di centrodestra. Pensa sia corretto attribuire questo successo alla maggioranza politica del momento? “Le forze di polizia del nostro Paese sono una squadra, una delle più forti del mondo. Da sempre si vince e si gioca tutti insieme. Come ha sottolineato il comandante Luzi, i Carabinieri hanno segnato il goal di una vittoria storica, cercata e voluta da tutti. Celebrata anche all’estero. Quando con il capo della polizia abbiamo saputo dell’arresto eravamo ad Ankara e mi ha colpito il ministro Süleyman Soylu che ha gioito con noi. D’altronde, la lotta contro la criminalità non ha confini e non ha colori politici. È una vittoria di tutti. Interpretare questo successo con la logica delle divisioni non porta da nessuna parte”. Il procuratore De Lucia ha sottolineato che l’arresto è stato possibile grazie alle intercettazioni. Fermerete la riforma? “Le intercettazioni sono uno strumento di indagine importante e irrinunciabile. Nessuno le ha mai messe in discussione per i reati di mafia, men che meno questo governo. Di certo, non accettiamo lezioni sul fronte della legalità. Abbiamo dato segnali chiarissimi sulla lotta alla mafia, assumendo una posizione rigorosa e inequivocabile con il carcere ostativo e fornendo totale appoggio ai magistrati e alle forze di polizia impegnati in molteplici direzioni. Se talvolta sono state fatte critiche sullo strumento delle intercettazioni queste hanno riguardato l’uso distorto che se ne è fatto e non certo la loro utilizzazione nelle inchieste di mafia”. Che reazione si aspetta dalle cosche? “Lo Stato non ha mai avuto paura delle eventuali reazioni delle organizzazioni mafiose. Dobbiamo guardare già a domani, alla prossima rete criminale da smantellare e agli altri mafiosi da arrestare. Sono andato a Palermo a complimentarmi con il comandante generale Luzi e con gli uomini e le donne del Ros per questo grande obiettivo raggiunto. Questa operazione non è un punto di arrivo ma la prosecuzione verso altri risultati”. Ora non ci sono altri superlatitanti di Cosa Nostra... “Con questo arresto si chiude la pagina dei grandi latitanti della stagione delle stragi di mafia. Resta un tessuto mafioso che è cambiato negli anni ma è altrettanto insidioso”. I capi però sono morti oppure in carcere. È la sconfitta della mafia? “Arresti di boss, come quello di Messina Denaro, sono colpi durissimi alla mafia tradizionale. Lo sono anche dal punto vista simbolico in quanto sono la dimostrazione più potente che non esiste impunità. È un messaggio forte ai giovani anche rispetto ad una certa narrazione, del tutto inaccettabile, che tende a mitizzare il ruolo del boss mafioso tutto potere e violenza. C’è ancora molto da fare anche sotto l’aspetto culturale”. Il day after dell’arresto di Messina Denaro è un manifesto dell’Italia complottista e pataccara di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 gennaio 2023 L’osceno storytelling multimediale, fatto di articoli di giornale, talk-show, in cui si mette in scena la repubblica della gogna. Così, tra verità indicibili e teoremi da bar sport, si manifesta l’antimafia della chiacchiera. C’è sempre una realtà alternativa su cui scommettere, c’è sempre una zona d’ombra su cui concentrarsi, c’è sempre una verità indicibile su cui puntare, c’è sempre un mistero su cui investire, c’è sempre una menzogna da smascherare. E anche ieri, nel day after dell’arresto di Matteo Messina Denaro, l’atteggiamento di buona parte della stampa italiana è stato quello di sempre: scommettere sul complottismo giudiziario, scommettere sul retroscenismo processuale, scommettere sulle patacche mediatiche. E dunque, nel giorno dell’arresto di uno degli ultimi padrini, Matteo Messina Denaro, ciò che conta non è l’ennesimo colpo dello stato contro la mafia, non conta quel che sappiamo, ma conta quello che non sappiamo. Conta il mistero della latitanza. Conta il mistero dell’arresto. Conta il mistero del pentito farlocco, Salvatore Baiardo, già ritenuto non attendibile come testimone dalla procura di Firenze, che avrebbe anticipato la notizia dell’arresto. Non conta la scena, conta il retroscena, contano i processi che si fanno sui giornali non nelle aule del tribunale, e contano i retroscena perché in questo limbo tutte le verità indimostrabili, tutto il chiacchiericcio come direbbe Papa Francesco, diventano verosimili e ogni fregnaccia può essere spacciata come verità alternativa, attingendo, come ripete spesso il professor Giovanni Fiandaca su questo giornale, a un osceno storytelling multimediale, fatto di articoli di giornale, talk-show, libri di magistrati a due mani, di magistrati e giornalisti a quattro mani, pièce teatrali, film il cui scopo principale non è sostenere lo stato nella sua lotta contro il crimine ma è supportare un processo giudiziario che essendo basato più sui teoremi che sui fatti ha un’impostazione giuridica troppo debole e un’impalcatura probatoria troppo fragile per resistere alla prova dei fatti. E dunque il circo mediatico giudiziario, anche oggi, anzi oggi più che mai, per non perdere il suo core business ha bisogno di investire sulla fuffa. Ha bisogno di investire sulla Trattativa stato-mafia, nonostante le ripetute assoluzioni nelle inchieste sulla Trattativa stato-mafia (dal caso Mori al caso Mannino per non parlare dei sospetti infamanti lanciati su Conso, sul presidente Napolitano e su quel galantuomo del magistrato suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, tragicamente morto dopo essere stato infamato dal circo mediatico-giudiziario). Ha bisogno di trovare nuovi testimoni di giustizia portatori di verità alternative, nonostante le numerose sentenze sfavorevoli contro i pataccari alla Massimo Ciancimino. Ha bisogno di trovare magistrati disposti a usare la giustizia non per far rispettare la legge ma per riscrivere la storia, usando le leve del codice morale al posto degli ingranaggi del codice penale. Ha bisogno di trovare giornalisti complici desiderosi di far vivere le verità mediatiche sulle verità giudiziarie, dimostrando come sostiene il professor Giovanni Fiandaca, quanto la relazione gravemente patologica su cui bisognerebbe concentrarsi oggi, quando si parla di giustizia, è la relazione incestuosa tra buona parte dei media e gli uffici di procura. Relazione che paradossalmente emerge con chiarezza ogni volta che le tesi dei complottisti vengono smentite dai fatti perché è proprio in quelle occasioni che devi urlare di più, che devi concentrarti sulla creazione di verità alternative, che devi insistere sulla tua idea, che devi portare avanti, dice Fiandaca, “un bombardamento informativo continuo e drammatizzante, tendente ad assecondare come verità assodata ipotesi accusatorie ardite e basate (tanto più all’inizio) su teoremi storico-politici preconcetti, affondanti le radici in ‘precomprensioni’ soggettive e - purtroppo - costruiti anche in vista del perseguimento di impropri obiettivi lato sensu carrieristici”. È un paradosso questo così come è un paradosso di questa storia il fatto che di fronte a ogni atto eclatante messo in campo dallo stato, come l’arresto di un mafioso importante, il circo mediatico-giudiziario abbia come propri obiettivi gli stessi politici che hanno contribuito, insieme a molti altri, a mettere in campo strategie efficaci nella lotta contro la mafia. E così, come è successo ieri, si costruiscono altre verità alternative, come il desiderio della politica di sottrarre strumenti preziosi nella lotta alla mafia come le intercettazioni. Nessuno ovviamente, neppure tra i più feroci garantisti, sostiene che sia necessario mettere mano alle intercettazioni per i fatti di mafia, ma l’obiettivo del carrozzone mediatico è quello di confondere le acque ed è quello di allargare l’inquadratura sostenendo un’altra verità: le intercettazioni, si dice, sono tutte importanti, sempre, a prescindere dai reati, e chi vuole intervenire su questo fronte, anche se il fronte su cui si vuole intervenire non ha niente a che fare con la lotta alla mafia, si sta preparando a fare un regalo alla mafia. È falso, naturalmente, ma poco importa, perché per camuffare la realtà, per curvarla a proprio piacimento, per far vivere il processo mediatico su quello giudiziario, per continuare a dire, come fa da mesi il senatore Scarpinato e come ha iniziato a fare Roberto Saviano che il governo Meloni è inquinato dalle passate collusioni tra la destra fascista e la mafia, per fare tutto questo i professionisti dell’antimafia della chiacchiera hanno bisogno di avere tra le proprie mani il maggior numero di strumenti utili a tenere in piedi la repubblica della gogna, la repubblica del chiacchiericcio, la repubblica delle allusioni, l’unica all’interno della quale è possibile dare un futuro al bar sport giudiziario. Dove, anche di fronte all’arresto di un grande boss mafioso, ciò che conta non è l’azione dello stato ma è l’evocazione delle realtà alternative, delle zone d’ombra, delle verità indicibili, dell’uso della fuffa complottista come arma per difendersi da un problema chiamato realtà.  La necessità del dubbio e la sindrome del puparo di Antonio Polito Corriere della Sera, 18 gennaio 2023 Anche stavolta molti italiani si sono subito chiesti se non ci stanno mentendo sull’arresto del boss. Il dubbio sistematico è l’abito mentale dell’Occidente, da Cartesio in poi. È un metodo che ci induce a sottoporre al vaglio della ragione qualsiasi verità, fosse pure matematica, prima di accettarla come vera. Allo stesso modo, nelle società aperte lo scetticismo è il dovere deontologico della stampa libera; così come il potere di inchiesta e controllo è la funzione democratica del Parlamento, e in esso delle opposizioni. Vogliamo perciò sapere ogni cosa, non appena sarà possibile e senza pregiudicare le operazioni di polizia, dell’arresto di Messina Denaro, delle indagini che l’hanno preceduto, delle condizioni in cui è avvenuto. È peraltro comprensibile non accontentarsi mai della versione ufficiale, perché la storia della Repubblica purtroppo abbonda di notti ancora avvolte nel mistero. Ma bisogna riconoscere che, forse proprio a causa di questa tradizione di opacità, in ampi settori dell’opinione pubblica si è diffuso, al posto del dubbio, un pregiudizio di sfiducia sistematica nei confronti dello Stato e dei suoi apparati. Che ha trasformato spesso l’ansia di verità in presunzione di menzogna da parte delle autorità. Riforniti a getto continuo di presunti complotti da quella che potremmo definire una vera e propria setta, Dietrology, anche stavolta molti italiani si sono subito chiesti se non ci stanno mentendo sull’arresto del boss, se in realtà si sia consegnato, oppure sia stato tradito (il che non inficerebbe comunque la vittoria dello Stato); o peggio ancora se non sia stato immolato sull’altare di una nuova trattativa dei vertici mafiosi al fine di ottenere benefici per chi è in galera e concessioni per la mafia che verrà. Così, mentre in tutto il mondo dicono “gli italiani hanno preso il capo della mafia”, molti italiani si chiedono perché solo ora, se era così facile. I precedenti nel nostro Paese - l’abbiamo detto - inducono a dubitare. Ma anche tanti anni di teorie del “doppio Stato”, di giochi di parole su “chi è Stato”, di sospetti lanciati su servitori dello Stato fedeli, compresi quelli che presero Totò Riina, hanno scavato alla lunga un solco tra cittadini e istituzioni non sempre giustificato; creato un senso comune, un riflesso condizionato, per cui dietro ogni scena ci deve essere un retroscena, dietro ogni fatto una trama, e dietro ogni evento un puparo. Questo stato di cose è al tempo stesso effetto e causa della mancata identificazione di ampie sezioni della società italiana nello Stato democratico. Un po’ perché alcune componenti se ne sono sempre sentite estranee, e dunque ne hanno contestato fin dall’inizio la legittimazione. Un po’ perché la grande frattura della fine della Prima Repubblica è avvenuta nelle aule giudiziarie, contribuendo così a fare dell’inquisizione l’atto fondativo della Seconda e il motore della storia successiva. Un po’ perché un po’ alla volta la denigrazione ha preso il posto della politica nella lotta per il consenso, generando addirittura grandi e nuovi partiti di massa. Fatto sta che quel solco non si colma nemmeno nei momenti di gioia che dovrebbero essere comuni, nel momento del successo dello Stato. Ha preso insomma piede una cultura politica che prima di chiedersi “che cosa giova” al Paese, si chiede “a chi giova”. E che deforma la storia della Repubblica italiana come un mero gioco di specchi, un coacervo di intrighi shakespeariani, una vicenda di apparati e poteri, nella quale spariscono non solo le masse e il loro ruolo, ma anche i risultati conseguiti da quello stesso Stato che viene presentato come infido e nemico. La Repubblica italiana, in 77 anni di vita, ha sofferto molti misteri, ha visto molte deviazioni e subito molti attentati. È stata più volte sull’orlo della catastrofe. Ma alla lunga ha sconfitto nemici mortali come la “strategia della tensione”, fermando i manovali neri delle bombe e impedendo una svolta autoritaria. Ha prevalso su quello che è stato un vero e proprio tentativo di insurrezione armata, condotto nel sangue dalle Brigate Rosse. E ha chiuso i conti almeno con quella Cupola mafiosa che credeva possibile piegarla con le stragi, impedendo che diventasse vano il sacrificio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e di tanti magistrati, poliziotti, carabinieri, uomini politici, che non facevano trame, non ordivano complotti, ma anzi hanno reso fino in fondo il loro servizio alla Repubblica. Altre mafie e altri mafiosi da combattere arriveranno, lo sappiamo che non è finita qui. Ma, forse, pur con tutte le sue magagne e debolezze, lo Stato democratico merita almeno una presunzione di innocenza, quando arresta il Re di Cosa Nostra. Così la cattura del boss fa riaffiorare i veleni su ergastolo e “ascolti” di Errico Novi Il Dubbio, 18 gennaio 2023 Nordio: nessuno stop alle intercettazioni per la mafia. Ma de Raho: siano libere pure per i reati di corruzione. È il day after delle polemiche o dei “sibili di rancore” come li definisce Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia, a ventiquatrr’ore dall’arresto di Matteo Messina Denaro, evoca senza citarli attacchi come quello firmato da Marco Travaglio sul Fatto quotidiano di ieri, in cui si sostiene in pratica che la cattura del boss è avvenuta “malgrado il guardasigilli”, il quale avrebbe dichiarato “guerra alle intercettazioni”. Era inevitabile, aver messo fine alla latitanza dell’ultimo mafioso stragista ha un peso politico: è stato rivendicato subito da Giorgia Meloni come un successo, e produce contestazioni e repliche sul fronte avverso, cioè da parte delle forze di opposizione e dei giornali ostili all’esecutivo. Ma in generale l’intera materia dell’antimafia è scossa da nuove tensioni. La premier, a caldo, ha rivendicato per il proprio governo anche il merito di aver varato le nuove norme sull’ergastolo ostativo, inserite nel Dl Rave e appena convertite in legge dal Parlamento. Noin ci fosse stato quel provvedimento, certo, il prossimo 25 gennaio, nell’udienza fissata alla Consulta, poteva arrivare, in teoria, la definitiva abrogazione del precedente regime normativo in materia di “4 bis”, senza quella “rete di sicurezza” che la stessa Corte aveva sollecitato al legislatore. Ma tra i paradossi destinati a suscitare polemiche, c’è un pur astrattissimo dettaglio che riguarda proprio Messina Denaro: persino lui, boss sanguinario e stragista, di qui a trent’anni potrebbe presentare istanza per accedere alla liberazione condizionale. Seppur rigide al limite dell’irragionevole, le norme sull’ergastolo ostativo varate dal governo e ulteriormente inasprite in Senato lasciano aperto un piccolo spiraglio anche per il più efferato dei reclusi, che d’ora in poi avrà una chance di uscire dal carcere anche qualora non accettasse di collaborare con i pm. D’altra parte la legge così andava scritta, o sarebbe incappata in una definitiva pronuncia di incostituzionalità da parte del giudice delle leggi. Sempre a proposito dell’ergastolo va citata la velenosa illazione di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso in via d’Amelio, che intravede uno scambio tra l’arresto di Messina Denaro e la “liberazione di personaggi come i Graviano”. La legge lascia aperta una pur minima possibilità per i Graviano come per Messina Denaro. E anche se a pretendere di modificare le norme sul 4 bis è stata la Corte costituzionale, è facile immaginare che alla prima liberazione di un boss di Cosa nostra, le ipotesi di Salvatore Borsellino diventerebbero dogmi sulle prime pagine di diversi giornali. Nel day after della cattura, Roberto Saviano, in un’intervista alla Stampa, ha il coraggio e l’onestà di ricordare che “l’ergastolo ostativo contraddice la vocazione stessa della Costituzione”, in quanto misura contraria “alla natura stessa della pena, che serve a reinserire e non ad escludere”. Ma si rialza la tensione anche sul dossier intercettazioni. In un’intervista a Radio 24, Nordio, come detto, riporta tutto al fatto che a realizzare l’arresto di Messina Denaro sia stato “un governo di centrodestra”: a questo, osserva, “alcuni media non si rassegnano”. Il guardasigilli replica però anche nel merito ad accuse come quelle di Travaglio: “Da anni ripeto che le intercettazioni sono assolutamente indispensabili per la ricerca della prova e per comprendere i movimenti di persone indiziate di reati gravissimi. Ma”, aggiunge, “vanno cambiati l’abuso che se ne fa soprattutto per reati minori e la diffusione a mezzo stampa di intercettazioni senza alcun valore legale”. Intanto, è vero: Nordio aveva chiarito già ben prima dell’arresto di Messina Denaro che per mafia e terrorismo non sarebbe cambiato nulla, ne aveva parlato al question time la scorsa settimana. Ma non è detto che i chiarimenti bastino a spegnere le polemiche: sempre ieri mattina, ad Agorà su Rai 3, l’ex procuratore nazionale Antimafia e attuale deputato del M5S Federico Cafiero de Raho dice che sarebbe gravissimo limitare le intercettazioni non solo nel caso della mafia ma anche per la corruzione, visto che ai boss, sostiene, si arriva a partire da altri reati, come appunto quelli contro la pubblica amministrazione. Resterà insomma la guerra fredda su qualsiasi intervento in materia di Antimafia. È la dura legge del marketing politico, che a un trofeo conquistato dal governo Meloni deve per forza far corrispondere un attacco uguale e contrario dall’opposizione. La cupa stagione dei teoremi giudiziari sul doppio stato è finita. Molti faticano a dirlo di Maurizio Crippa Il Foglio, 18 gennaio 2023 Il cosiddetto “terzo livello” e la tifoseria dell’antimafia. Da Caselli alla Trattativa, come si sono formate le lunghe inchieste degli anni Novanta. Un periodo che ha lasciato solo macerie. Quelli che “non l’hanno preso, si è fatto prendere”; quelli che c’è per forza una nuova Trattativa (l’avevano detto da Giletti); quelli disturbati dal “tono trionfalistico”; quelli che “ma allora perché ci hanno messo trent’anni?”. Nelle reazioni scomposte o solo stupide, e in quelle incrostate di complottismo e vecchi teoremi, c’è spesso un’insipienza dovuta alla mancanza di memoria personale. Ma c’è anche un altro livello, più profondo, in cui s’incista un male vecchio di decenni: la menzogna della stagione dei teoremi giudiziari. Scriveva anni fa Sergio Romano che un certo ruolo forzoso, di supplenza, della magistratura era “antropologicamente il prodotto delle due grandi emergenze, il terrorismo e la mafia”. E non andrebbe dimenticato che tra quelle due s’infilò la grande narrazione dell’e-mergenza di Mani pulite. Ciò che oggi, tre decenni dopo, rende impossibile alla tifoseria dell’antimafia che ancora idolatra i suoi professionisti (nonostante le smentite dei tribunali e della storia) ammettere che lo stato, il Ros e una magistratura non ideologizzata hanno sgominato la mafia è un pregiudizio antico. Don Ciotti ha detto: “Non vorrei che si ripetessero gli errori commessi in seguito alla cattura di Riina e Provenzano”. Ma quali errori? Da allora Cosa nostra è stata perseguita e svuotata, lo ammette persino Saviano. È come il riflesso automatico di un lungo fantasticare. È aver costruito, da parte della politica, segnatamente il Pci-Pds come allora si chiamava, di una magistratura allineata e della loro stampa di complemento il Grande teorema del doppio stato. Così oggi si stenta a riconoscere che i Ros che hanno arrestato Messina Denaro sono gli stessi che furono guidati dal generale Mori. E questo nonostante i processi abbiano smontato la Trattativa. Perché quel teorema parte da lontano. Parte da molto lontano l’ambizione di fare non tanto processi per condannare i reati, ma di riscrivere, coi processi, la storia d’Italia. Per dimostrare che 50 anni, allora, di democrazia erano stati una conventio ad excludendum criminale. Insomma lo schema di Gian Carlo Caselli che da Torino, ambiente di ferreo patto ideologico tra Pci e magistratura, giunse a Palermo nella grande emergenza del 1993, dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Falcone era morto, ma già in vita si era provato a cancellare il suo metodo laico, il suo lucido rifiuto di ogni teoria del complotto. Del cosiddetto “terzo livello”, che fu pure definizione sua, già nel 1988 a Palermo disse pubblicamente: “Al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono terzi livelli di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa nostra”. E nella drammatica audizione al Csm del 1991, ormai costretto a difendersi da accuse e insinuazioni come quelle di Leoluca Orlando da Michele Santoro, “Falcone ha dei documenti sui delitti eccellenti, ma li tiene chiusi nei cassetti”, disse: “Il terzo livello, inteso quale direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria ecc… e che sia quello che orienta Cosa nostra, vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica”. Ma venne Caselli a governare la grande emergenza palermitana e formò il suo pool di fedelissimi: Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato. E impostò il processo ad Andreotti, che avrebbe dovuto essere la summa teologica del terzo livello. Riscrivere la storia, e en passant mettere in cattiva luce o sotto inchiesta i magistrati che avanzavano dubbi. Paradossalmente le lunghe inchieste di mafia dagli anni Novanta in poi sono state un modo per provare a cancellare - in politica e nella mente malleabile dell’opinione pubblica - tutto ciò che contraddiceva la grande riscrittura della storia d’Italia come storia criminale. Una stagione che ha lasciato solo macerie giudiziarie, storiche e anche umane. Andreotti; Corrado Carnevale assolto dal concorso esterno in associazione mafiosa; Mario Mori, assolto da accuse di favoreggiamento e minaccia verso un corpo politico dello stato. Il Capitano Ultimo, Bruno Contrada e tanti altri. Fino al processo che avrebbe dovuto, nella mente degli ideatori, salvare restrospettivamente il fallimento di un’intera stagione di teoremi, quello della Trattativa. E pazienza che lo stesso Borsellino nei suoi ultimi drammatici giorni non si desse pace per come la procura di Palermo stava mettendo in un angolo il lavoro dei Carabinieri. La fine della storia è oggi sotto gli occhi di tutti. Riccardo Iacona, uno dei protagonisti dello storytelling non s’è tenuto su Twitter: “Lo scandalo di una latitanza durata 30 anni è finito. Ora bisognerà capire chi ha protetto #MatteoMessinaDenaro e in cambio di cosa. Vogliamo tutta la verità sulle stragi mafiose lo si deve a #Falcone e #Borsellino e all’Italia intera”. Basterebbe rileggere la storia, le parole di Falcone e Borsellino e gli atti giudiziari senza i paraocchi del teorema. Ha detto il generale Mori che è finita Cosa nostra. È anche la fine di un’epoca in cui politica, magistratura e intendenza mediatica hanno preteso di riscrivere la storia d’Italia. Il senso politico dell’arresto di Messina Denaro di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 18 gennaio 2023 Gli applausi dei cittadini di Palermo all’arresto del boss sono confortanti. Lo abbiamo sempre detto che parte dalla rassegnazione a fronte della criminalità organizzata di intimidire e ricattare, di punire, ma anche di premiare laddove lo Stato non mostri altrettanta forza e non crei opportunità. Su questo versante, la lotta contro la mafia continua e giustamente deve rivolgersi contro quelle frange di professionisti, avvocati, commercialisti, imprenditori e altre figure che hanno consentito ai mafiosi di infiltrarsi nel mondo degli affari e di moltiplicare i loro profitti. La cattura di Matteo Messina Denaro deve senza alcun dubbio essere considerata una importante vittoria dello Stato. Meglio, due sono gli apparati che, più precisamente, hanno vinto: qualche specifico settore della magistratura e i carabinieri del Ros. A coloro che si chiedono, alcuni perché vogliono effettivamente e legittimamente saperne di più, altri perché credono di saperne di più e adombrano trattative oscure e segreti inconfessabili, che cosa sta dietro, bisogna dare due risposte. La prima è che “dietro” stanno anni di indagini e di ricerche mai smesse, di raccolta e di selezione di informazioni leggibili e interpretabili attraverso la memoria storica che soltanto le istituzioni e i loro rappresentanti possono avere e sanno come utilizzare. Questa è la parte migliore dello Stato che, chi vuole, potrebbe anche chiamare lo Stato profondo, deep. La seconda risposta è che quelle informazioni, quelle conoscenze, quelle azioni che hanno portato al successo non possono e non debbono essere rivelate nella loro interezza. Gli informatori, le fonti hanno diritto (proprio così) all’anonimato. Ne va della loro incolumità, ma anche della possibilità di usufruire di loro apporti futuri nonché degli apporti che altri vorranno offrire contando sul silenzio degli apparati. Con Messina Denaro in carcere, è opinione diffusa, non è finita la mafia in quanto tale, ma è finita una lunga epoca di mafia basata sulla violenza anche estrema e repellente. Messina Denaro era l’ultimo di questi esponenti e, a quanto se ne sa, non lascia eredi. Non è stato “lasciato solo”, come si dice, ma era inevitabilmente rimasto solo, e a giudicare dalla sua resa senza opporre alcuna resistenza, ne aveva preso atto. Gli applausi dei cittadini di Palermo all’arresto del boss, uscendo dalla retorica non parlerei di “boss dei boss” e di “re”, sono confortanti. Lo abbiamo sempre detto che parte, forse grande, del successo della mafia, dipende da quello che definirei non il consenso, ma l’accettazione, il senso di inevitabilità e di rassegnazione a fronte della criminalità organizzata di intimidire e ricattare, di punire, ma anche di premiare laddove lo Stato non mostri altrettanta forza e non crei opportunità. Su questo versante, la lotta contro la mafia continua e giustamente deve rivolgersi contro quelle frange di professionisti, avvocati, commercialisti, imprenditori e altre figure che hanno storicamente consentito ai mafiosi di infiltrarsi nel mondo degli affari e di moltiplicare i loro profitti. Al mondo della politica e ai governanti tocca il compito, prima di attuare qualsiasi intervento legislativo in materia (ma davvero i mafiosi non usano il telefonino?) di chiedere a coloro che hanno condotto l’operazione contro Messina Denaro quali sono gli strumenti irrinunciabili. Senza polemiche, un auspicio, forse un imperativo. *Accademico dei Lincei Come cambia la mafia dopo Messina Denaro? di Roberto Saviano Corriere della Sera, 18 gennaio 2023 La gerarchia di Cosa Nostra è vecchia, come la società italiana. E gli interessi economici hanno permeato tutto. E dopo la cattura di Matteo Messina Denaro cosa succederà? In realtà non ha importanza rispondere a questa domanda perché tutto il peggio, il grave, l’irrimediabile sta già accadendo ed accade. Non sto spendendo toni apocalittici o esagerati, tutt’altro. Nel 2021 Banca d’Italia evidenziò che il giro di affari dei cartelli mafiosi valeva circa 38 miliardi di euro all’anno. Questi 38 miliardi di euro sono ben più di 100 milioni al giorno. Cento milioni al giorno che vengono movimentati e investiti, ma se a questo dato si aggiunge ciò che aveva già dichiarato la Direzione nazionale antimafia nel 2020, tracciando un patrimonio derivante dal narcotraffico di 400 miliardi di euro solo in Italia, comprendiamo che stiamo parlando di un’economia in continua espansione e che alimenta e sostiene l’economia legale. In questo momento, il tema mafie è completamente ignorato dal dibattito politico e in campagna elettorale è stato affrontato solo in modo retorico. Le mafie, quando ammazzano, sono visibili; quando fanno affari sono invisibili e quando fanno affari in realtà va bene a tutti perché non è distinguibile il loro comportamento da quello di qualsiasi altro imprenditore o fondo d’investimento. I grandi affari in gioco continueranno a crescere, come la legge 104 che ha dato, spesso senza controllo, valanghe di denaro a imprese edili in molti casi diretta emanazione dei cartelli mafiosi (ma di tutto questo avremo prove solo negli anni: ora abbiamo solo indizi). I partiti, come abbiamo visto nelle indagini antimafia degli ultimi 20 anni, non hanno neanche un sistema vero per proteggersi dalle infiltrazioni e dalle alleanze mafiose perché delegano tutto alla magistratura. Se ci sono indagini, i partiti iniziano ad avere (ma non sempre, anzi) cautela nel candidare alcune figure; se non ci sono indagini non fanno accertamenti propri e in molti casi ricercano i potentati elettorali mafiosi. Eppure la politica dovrebbe poter fare una selezione, con informazioni proprie e conoscenza territoriale, non dovrebbe aspettare le sentenze dei giudici per selezionare il proprio personale politico. Invece sembra cercare proprio quei mediatori politici in grado di portare i flussi di pacchetti di voti di scambio. Se si vuole arrivare dritti alle cose da fare il primo comportamento antimafioso sarebbe la legalizzazione delle droghe leggere: questo toglierebbe alle organizzazioni una importante fonte di profitto e alleggerirebbe il sistema giudiziario di leggi proibizioniste che colpiscono duramente i consumatori senza riuscire a rintracciare i grandi narcotrafficanti. Secondo la relazione al Parlamento della Direzione Investigativa Antimafia, l’economia sotterranea della cannabis vale circa 6 miliardi e corrisponde al 40% circa degli introiti delle mafie. Questo stroncherebbe un segmento importantissimo dell’economia mafiosa, quello dei gruppi emergenti. Ma torniamo a Messina Denaro, ora cosa succederà dopo di lui? Beh diciamo che è rischioso nell’analisi considerarlo solo un capomandamento con molto carisma: nessun uomo d’onore “semplice” capomandamento di provincia potrebbe gestire la massa di capitale che gli è stato attribuito dalle procure antimafia nel corso dell’ultimo decennio (nel 2007 individuati 700 milioni di euro, nel 2010 sequestrati beni per 1,5 miliardi di euro, nel 2018 sequestrati 1,5 miliardi di euro). Rischioso pensare che la commissione che riunisce le famiglie di Cosa Nostra - benché non strutturata come un tempo - non esista più. Tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia raccontano di Messina Denaro come di un capo che non mette bocca nelle decisioni delle famiglie lasciandole libere, “U Siccu” ha gestito i propri senza rendere conto a nessuno, proprio perché non chiedeva ad altri di rendere conto. Cosa Nostra così ha perso struttura, unitarietà dopo la cattura di Provenzano ultimo erede del verticismo corleonista; Messina Denaro non ha cercato di governare come avevano fatto i suoi padrini ma ha governato con l’ossessione di intervenire il meno possibile, cosa che spesso ha portato allo sbando l’organizzazione lasciando le famiglie palermitane e quelle della provincia senza piani condivisi. Cosa Nostra ha pagato la sua visibilità, l’estrema riconoscibilità dei suoi capi dopo la scelta stragista. Le altre organizzazioni continuano a sfruttare la sostanziale minore attenzione mediatica che nell’ultimo decennio è comunque aumentata rispetto al passato. Eppure quando, nel 2008, viene arrestato Pasquale Condello, boss della ‘ndrangheta che negli ultimi anni ha assunto un potere di influenza politico-industriale di gran lunga superiore alla mafia di Messina Denaro, non c’è stata la stessa attenzione mediatica perché la ‘ndrangheta ha saputo inabissarsi, perché la ‘ndrangheta non incorona sovrani. Pari tra pari. Stessa cosa per la camorra: quando vengono arrestati a Napoli importanti capi, come Michele e Ciro Mazzarella, fermati lo scorso dicembre, non c’è stata l’attenzione che un risultato del genere meritava. Anche la faida di Ponticelli - combattuta con bombe esplose nel quartiere nella primavera ed estate scorse - non ha mai raggiunto l’attenzione nazionale. Queste distrazioni, che spesso accadono per incompetenza, diventano poi omertà politica e sociale. Ci si chiede adesso: chi sarà il successore di Matteo Messina Denaro? Ci sono diverse ipotesi. Chi riuscirà a ricostruire la piramide dell’organizzazione? Seguendo la visione sclerotizzata dell’ultima Cosa nostra sarebbe designato Giovanni Motisi, “‘U Pacchiuni”, il chiattone, perché - benché faccia parte del mandamento Pagliarelli che non ha alcun peso in questa fase - la sua storia criminale potrebbe garantirgli i gradi per diventare capo. È stato in uno dei “gruppi di fuoco” di Riina e, seppur dal 1998 non si abbiano sue notizie, l’essere stato un fedele del capo corleonese gli attribuisce la mitologia giusta per poter essere riconosciuto leader. L’altro nome che viene molto citato è quello di Stefano Fidanzati, ma la Cupola, o quello che ne rimane, non darebbe mai il vertice dell’organizzazione a un uomo d’onore che è stato un narcotrafficante senza capacità di mediazione e comando politico. Stiamo parlando di uomini maturi, tutti sopra i settanta anni. Questo dimostra che Cosa nostra risente di una struttura organizzativa ricalcata sulle dinamiche del nostro Paese: i vertici affidati a persone anziane, lentezza decisionale, utilizzo solo di vecchi canali, incapacità di rinnovarsi e di vedere nuove possibilità di alleanze strategiche. E soffre ora mancanza di affiliazione, se paragonata alle altre organizzazioni, che dispongono di una quantità molto maggiore di soldati. Camorra, ‘ndrangheta, società foggiana sono in grado di essere molto snelle e di strutturarsi in forma liquida. Una delle forze della ‘ndrangheta, per esempio, è stata quella di non avere una struttura centralizzata ma federale, attribuendo il “bastone del comando” a una figura consolare, esclusivamente quando c’era da dirimere faide che rischiavano di danneggiare tutte le famiglie. Cosa nostra, invece, appare come un pachiderma monolitico distrutto dalla burocrazia del controllo interno voluta dai corleonesi: si è progressivamente consumata, soprattutto negli ultimi anni. Ma siamo tutt’altro che vicini alla sua estinzione. Ad oggi, Cosa nostra sul piano del narcotraffico è sostenuta dagli storici alleati: in Campania i maranesi (Marano di Napoli) che sarebbero i Nuvoletta-Polverino, che pur essendo in Campania non sono camorristi ma mafiosi, e che continuano a essere i grandi fornitori di hashish e marijuana per diverse famiglie del territorio siciliano. E poi le famiglie calabresi, storicamente alleate ai corleonesi, i Commisso, i De Stefano-Tegano. Ma in realtà tutto (o quasi, se escludiamo le famiglie siciliane con base in Sudamerica) il narcotraffico che passa per le mani di Cosa nostra ormai è egemonizzato da un’OPA - si direbbe nel linguaggio finanziario - dei calabresi. Ci sono prove che gli ‘ndranghetisti scelsero di appoggiare la fazione corleonese contro i palermitani negli anni ‘80 ma successivamente se ne allontanarono nella fase stragista e terroristica, consci che avrebbe portato all’impossibilità di fare affari ma soltanto di imporre le proprie ragioni alla politica; politica che la ‘ndrangheta ha sempre preferito gestire in maniera diversa rispetto a Cosa Nostra. Oggi le mafie sanno che decidere direttamente i ministri significa esporli a troppa luce, sospetti, condanne che comprometterebbero gli affari. In passato, al contrario, pretendevano che ci fossero direttamente uomini loro, esponenti di famiglie d’onore che si installassero nelle istituzioni. Oggi si preferisce governare i flussi di denaro che sostengono i politici e i partiti, avere uomini nella burocrazia di Stato che resta immobile al passare delle maggioranze, ci si installa nei luoghi della spesa e del controllo e che sono immuni alle maree ideologiche. Se si vuole davvero conoscere la risposta alla domanda “e ora, dopo la cattura di Messina Denaro?”, bisogna dirsi questo: “ora costringiamo il dibattito sulle mafie ad essere sempre più informato e presente, ma soprattutto il più lontano possibile dalla propaganda”. La mafia di Messina Denaro è morta da anni, ma ce n’è un’altra in ascesa di Attilio Bolzoni Il Domani, 18 gennaio 2023 Con la cattura del boss cade anche l’ultimo alibi. Sbagliato cantare vittoria con sicumera. Ora lo stato deve lanciare la sua sfida alla mafia “trasparente”, quella degli incensurati che sembra ancora intoccabile. Con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Matteo Messina Denaro è l’unico ormai in vita che conosce i segreti degli accordi stipulati da Totò Riina con “quelli di lassù”, Roma e Milano, negli anni delle stragi e delle bombe. È uno degli ultimi testimoni mafiosi di quella spaventosa stagione italiana. È un mafioso quasi morto che appartiene a una mafia già morta. Il suo arresto non è altro che il bollo dello stato su una battaglia vinta almeno una quindicina di anni fa, il sigillo sulla disfatta di Corleone inteso come potere mafioso, terrorismo, come ricatto alle istituzioni. Con l’ultimo dei boss di quella generazione dannata cade però anche l’ultimo alibi. D’ora in poi vedremo (o, forse, non lo vedremo mai) quale sfida sarà lanciata agli organismi criminali che infestano l’Italia. C’è una mafia degli incensurati che sembra ancora intoccabile, una mafia “trasparente” - per usare la felice definizione di una giudice siciliana - che si è fatta sistema infetto. La mafia che non c’è più - La cattura di Matteo Messina Denaro è uno spartiacque, è il confine tra un’epoca e l’altra ma anche il momento nel quale si può misurare la capacità e la volontà dello stato di non farsi sopraffare un’altra volta. In queste ultime ore ho sentito e letto tante stupidaggini e grossolane interpretazioni intorno alla fine della latitanza del boss: “La mafia è stata sconfitta”; “L’antimafia non ha più senso”; “Cosa nostra addio, basta 41 bis e leggi speciali”. Le stesse parole le avevo ascoltate anche nel dicembre del 1987, subito dopo le condanne al maxi processo di Palermo. Inni al trionfo. Nemmeno un mese dopo il Csm umiliò Giovanni Falcone non nominandolo consigliere istruttore a Palermo, due anni dopo ci fu l’attentato contro di lui sulla scogliera dell’Addarura, nel 1992 lo fecero saltare in aria insieme a Paolo Borsellino. Andrei molto cauto nel cantare vittoria con tanta sicumera. Sarebbe magari più giusto dire: una mafia è stata sconfitta, “una” e non “la” mafia. La politica che “arresta” i boss - Bisogna ragionare a freddo su Matteo Messina Denaro e non farsi prendere la mano o sbracare come fa quel titolo di giornale (“Bingo, preso un altro boss con la destra al governo”), personalmente sono contento quando arrestano un mafioso durante i governi di centrodestra e quando li arrestano durante i governi di centrosinistra, perché in realtà ad arrestare sono stati i carabinieri del Raggruppamento operativo speciale, il Ros, comandante Pasquale Angelosanto, da non confondere con il Ros di trent’anni fa, comandante Mario Mori, quello del covo non perquisito al capo dei capi Totò Riina. Torniamo a lunedì. Comprensibile l’euforia per la cattura di un mafioso che sembrava imprendibile e che ha fatto girare la testa ai cacciatori di latitanti, comprensibile anche la speranza che il fermo possa portare allo sviluppo di indagini interessanti e alla scoperta di altri complici. Ma c’è altro nella vicenda da esaminare. Fin da subito si è diffusa la voce che l’arresto di Matteo Messina Denaro non sia stato il risultato delle investigazioni dei carabinieri, ma che lui si sia consegnato. Qualcuno ha parlato anche di una telefonata arrivata al 112 (“Venite a prendere Messina Denaro: è qui”) e che, addirittura, all’altro capo del telefono ci fosse proprio lui. Non credo che le cose siano andate così. Credo piuttosto che l’inchiesta - lunga, complicata, con intercettazioni che hanno scoperto la malattia del boss indirizzando i carabinieri nella clinica di Palermo - sia arrivata quando Matteo Messina Denaro era da molti mesi rassegnato. Il cancro e la rassegnazione - Il cancro, la fuga sempre più difficile, la rete di protezione sempre più smantellata, addosso il fiato dei reparti antimafia più efficienti e agguerriti. Se non andassimo incontro a fraintendimenti, potremmo anche chiamarla resa, ma un arrendersi dolcemente al nemico, senza gesti plateali, senza patti né scambi. Era stanco Matteo Messina Denaro, stava male. Sapeva che, prima o poi, l’avrebbero intrappolato. Da una parte c’è l’indagine come andava fatta, dall’altra c’è l’uomo che si stava spegnendo. È ragionevole pensare che la cattura di Matteo sia il risultato perfetto di circostanze intrecciate. Un amico, ieri sera, con arguzia mi ha fatto notare la “serenità” delle immagini che riprendono Matteo sulla scena, fuori dalla clinica, filmati ufficiali e amatoriali tutti molto soft, morbidi, senza tensione alcuna. Quanto sia grave il suo tumore non lo sappiamo ma sostenere che il boss sia in perfetta forma mi pare azzardato. Quanta vita gli rimane? Tre mesi? Un anno? Dieci anni? Il tempo è decisivo. Perché tutti intanto si chiedono: parlerà o non parlerà, cederà o non cederà? Collaborerà? Interesse a svelare segreti, in teoria non ne ha. Tiene famiglia. Il fratello Salvatore, le quattro sorelle, i cognati, la madre Lorenza, la figlia Lorenzina. Se apre bocca consuma tutti. Anche economicamente, visto il patrimonio che ha accumulato con i suoi affari fra l’eolico e la grande distribuzione. Meglio stare zitti. Ha pur sempre una reputazione da mafioso da difendere, soprattutto se è convinto che non abbia molto da vivere. Ma non si sa mai. La mente umana è imprevedibile e, chissà, se il boss di Castelvetrano non smentisca sé stesso rinnegando tutta la sua esistenza e vuotando il sacco. La lista potrebbe comprendere: i mandanti esterni delle stragi del 1992 e del 1993; le protezioni di cui ha goduto; l’archivio di Totò Riina che, secondo alcuni pentiti, sarebbe in suo possesso; le relazioni che ha intessuto con imprenditori in mezza Sicilia. Primo punto. Con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano è l’unico ormai in vita (Leoluca Bagarella si è curato in Cosa nostra solo della macelleria) che conosce i segreti degli accordi stipulati da Totò Riina con “quelli di lassù”, Roma e Milano, nell’anno e mezzo che separano Capaci e via D’Amelio dal fallito attentato all’Olimpico, passando naturalmente dal massacro dei Georgofili di Firenze del maggio 1993. È uno degli ultimi testimoni mafiosi di quella spaventosa stagione italiana. Secondo punto. Per restare alla macchia trent’anni serve una montagna di denaro e protezioni di alto livello, che non possono includere soltanto quel centinaio di vivandieri che gli hanno assicurato riparo fra Castelvetrano e Marsala, fra Campobello e Palermo. Ci vuole ben altro per conquistarsi la libertà per oltre un quarto di secolo. Amici dappertutto, anche fra le forze di polizia. Spiate. Una singolare coincidenza - ma attenzione è solo una coincidenza temporale - è l’arresto che avviene appena un mese dopo l’entrata nel carcere milanese di Opera dell’ex sottosegretario all’Interno Antonino D’Alì, rampollo di un’aristocratica famiglia trapanese che con i Messina Denaro ha storicamente avuto stretti rapporti. D’Alì è stato condannato definitivamente in Cassazione a 6 anni di reclusione per concorso esterno, doveroso ricordare però che il suo “essersi speso a favore dell’associazione denominata Cosa nostra” è cessato nel 2006. In trenta giorni, ecco la coincidenza, sono finiti tutti e due in galera. Terzo punto. L’arma letale è il tesoro di Totò Riina, le carte che non sono state recuperate nella villa di via Bernini a Palermo perché una squadretta di mafiosi ha ripulito le stanze accuratamente grazie a un “disguido” dei carabinieri di Mori, che invece avrebbero dovuto sorvegliare ogni movimento intorno alla villa. “Ci sono cose da far tremare l’Italia”, hanno confessato più collaboratori di giustizia ai procuratori di Palermo. L’archivio sarebbe nelle mani di Matteo. Una bomba. Se lo facesse ritrovare, ci sarebbe veramente di che scrivere. Il giro dei soldi - Quarto punto. L’abbiamo sempre dipinto come il mafioso imprenditore che controllava ogni piccola e grande attività economica sul suo territorio. Se andiamo nell’area commerciale di Castelvetrano, appena fuori dallo svincolo autostradale della Palermo-Mazara del Vallo, si può fare una conta di chi è riuscito per esempio a piazzare il suo business proprio lì, nel regno di Matteo Messina Denaro pur provenendo da lontane zone dell’isola. Se spulciamo gli atti della confisca del patrimonio - valutato un paio di miliardi (sì, miliardi) di euro dal tribunale per le misure di prevenzione di Trapani - di Carmelo Patti, morto qualche anno fa e patron del gruppo Valtur, colosso del turismo e considerato molto vicino a Matteo Messina Denaro, troveremo nomi e cognomi di imprenditori che rimandano ad altre sconce vicende siciliane dove gli affari si legano ai segreti, intesi come servizi e intesi come misteri. A proposito di Carmelo Patti, in origine uno dei principali fornitori di componentistica elettronica della Fiat, un giorno del 1998 è ritornato in Sicilia per investire i suoi soldi. Il più famoso prestanome di Matteo Messina Denaro si è presentato al circolo della stampa del teatro Massimo esordendo così: “Dopo tanto tempo sono ancora qui perché, ormai, è evidente a tutti, che la mafia non c’è più”. Che brutto vizio quello di negare. Porta anche male. Matteo Messina Denaro nel carcere dell’Aquila, la fortezza del 41bis di Luca Prosperi ansa.it, 18 gennaio 2023 È il carcere d’Italia con il più alto numero di detenuti al 41 bis, le Costarelle sono il centro del carcere duro. Il penitenziario dove è stato assegnato Matteo Messina Denaro a Preturo è di fatto in mezzo al nulla, è una isola detentiva lontano dal resto della città dell’Aquila. Ciò ha favorito la sua costruzione e destinazione sin da subito a carcere di massima sicurezza. La struttura è stata ultimata nel 1986 ed è entrata in funzione nel 1993: già dal 1996 fu adibita quasi interamente alla custodia di detenuti sottoposti a particolari regimi di alta sicurezza che alloggiano in celle singole. Da una capienza iniziale di 150 detenuti si è poi passati ad un massimo di 300, compresi i carcerati comuni. All’inizio l’apertura di questo istituto con le finalità descritte non fu vista con grande favore dalla comunità aquilana. E’ considerata una delle opere del ‘Pentapartito’: alla fine degli anni 80 la città con il contributo del sottosegretario alle Finanze Domenico Susi (Psi), al Governo per 9 anni consecutivi con 3 esecutivi diversi, si dotò di nuove strutture come la scuola della Guardia di Finanza e appunto il carcere. Significativo che entrambe le strutture non solo hanno resistito al sisma del 2009, ma sono anche diventate proverbiali per la loro sicurezza. Fu insomma subito concepito per favorire il passaggio dall’art. 90 degli anni ‘70 -che riguardava la sicurezza in carcere- alla evoluzione nell’attuale 41 bis. Ora ospita dodici donne - essendo l’unico penitenziario con la sezione femminile per il regime 41bis - e circa 160 maschi e prevede anche aree riservate. Non ha mai dato vita a particolari episodi, proprio per la sua rigida e ferrea gestione. All’inizio degli anni duemila furono gli stessi agenti penitenziari a scioperare per la difficile vita interna e per l’adeguamento degli organici, anche perchè la struttura in quegli anni si gonfiò di detenuti pericolosi dopo la chiusura di Pianosa e Asinara. Qui fu trasferita e sta tuttora Nadia Desdemona Lioce, l’irriducibile delle nuove Br condannata all’ergastolo per gli omicidi D’Antona e Biagi. Nel super carcere de L’Aquila sono stati ospitati detenuti eccellenti come il boss mafioso Leoluca Bagarella - che sconta l’ergastolo per strage -, Raffaele Cutolo della Nuova camorra organizzata, l’esponente dei casalesi Francesco Schiavone detto Sandokan, l’esponente della Mala del Brenta Felice Maniero. Qui fu detenuto anche Totò Riina. Cagliari. Ex consigliere comunale di Palma di Montechiaro (Ag) muore in carcere agrigentooggi.it, 18 gennaio 2023 È morto nella Casa circondariale di Cagliari, dove si trovava detenuto, Salvatore Montalto, 53 anni, ex consigliere comunale di Palma di Montechiaro, che stava scontando una condanna a 12 anni di reclusione. Ricoverato nel Centro clinico dell’Istituto si è spento durante la notte, presumibilmente per un arresto cardiaco. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” sottolineando “la difficoltà di garantire la salute in carcere per chi soffre di gravi patologie”. Il palmese era costantemente monitorato e più volte era stato mandato in ospedale per accertamenti diagnostici e per sottoporsi a un intervento chirurgico. Il più delle volte però aveva rifiutato il ricovero. “Il più delle volte, però, aveva rifiutato il ricovero”, riferisce Caligaris. Montalto, coinvolto nella maxi operazione antimafia “Oro bianco”, che ha fatto luce sul cosiddetto “paracco”, ovvero la famiglia mafiosa alternativa a Cosa nostra e alla Stidda, venne arrestato con l’accusa di associazione mafiosa e condannato per aver messo a disposizione del clan i servizi bancari dell’Unicredit di cui era dipendente. La famiglia vuole vederci chiaro e conoscere le cause che hanno determinato la morte del loro congiunto, ed hanno affidato ad un legale di fiducia, l’avvocato Domenico Ingrao, il compito di seguire l’intera vicenda. Cagliari. “È un pedofilo!”: giovane si suicida dopo la gogna social di Monica Musso Il Dubbio, 18 gennaio 2023 Un uomo si è impiccato in Sardegna dopo essere stato accusato di molestie su Facebook. A far scattare la caccia all’uomo il post di un padre, che ha pubblicato la foto della sua auto. La gogna social, con tanto di foto segnaletica dell’auto. E poi il suicidio, in campagna, dopo un messaggio di addio inviato alla madre. Ha tutto il sapore di una vera e propria “esecuzione mediatica” quella di un giovane 28enne di Guspini, nel sud della Sardegna, che lunedì pomeriggio si è impiccato, dopo esser stato segnalato su un gruppo Facebook come molestatore di bambini. A far scattare la caccia al mostro il post di un padre che segnalava il presunto maniaco, reo, a suo dire, di aver mostrato i genitali ai figli di 7 e 11 anni mentre passeggiavano con il cane poco lontano da casa. Un episodio che avrebbe terrorizzato i due minori, subito corsi a casa a raccontare quanto accaduto al padre. E l’uomo, dopo essersi recato dai carabinieri - ma senza formalizzare la denuncia per “assenza di personale” -, si è messo al pc, raccontando ai propri concittadini quanto accaduto e pubblicando la foto dell’auto del giovane, estratta dal video di una telecamera privata della zona. “I miei due bambini si trovavano nei pressi di via Amendola, facendo fare una passeggiata al cagnolino - aveva scritto l’uomo -. Ad un certo punto sono stati seguiti da un uomo a bordo di una Ford Fiesta di colore celeste metallizzato. Dopo qualche centinaio di metri il tizio ha parcheggiato, una volta uscito dall’auto si è rivolto verso i bambini, sbottonandosi i pantaloni e mostrando loro i genitali. Naturalmente i bambini sconvolti sono rientrati a casa raccontandoci tutto”. Da lì il tam tam mediatico, con una vera e propria caccia all’uomo e la condanna immediata, senza appello, del giovane. E la gogna social ha avuto la meglio: dopo aver inviato un messaggio d’addio alla madre - “scusami, ho sbagliato”, avrebbe scritto nel suo ultimo sms -, l’uomo si è allontanato dal centro cittadino per poi togliersi la vita. I carabinieri di Guspini e Villacidro hanno ora inviato un’informativa alla procura di Cagliari, che potrebbe aprire un fascicolo per istigazione al suicidio. La denuncia contro il 28enne, comunque, non sarebbe mai stata formalizzata. I carabinieri, infatti, avrebbero avviato subito gli accertamenti, dopo il racconto del padre in caserma. Che però ha anticipato i tempi, decidendo di fare ricorso a Facebook. Il cellulare del 28enne è stato ora sequestrato per svolgere tutti gli accertamenti del caso. Ma la gogna social non si è placata nemmeno dopo il gesto estremo del giovane. Sono tanti, infatti, i commenti “esultati” sul web: “Per me è per come la penso lui l’unica cosa che doveva fare la (sic) fatta per non far manco un solo giorno di carcere quindi è più che giusto che sia andata così ogni pedofilo dovrebbe farla”, scrive un uomo commentando un articolo. “Ma per carità…. Istigazione al suicidio? Invece di pensare ai bambini e a quella famiglia finiscono per essere incriminati? Ma il mondo è al rovescio”, aggiunge una giovane donna. E ancora: “In questo caso i social sono serviti perché hanno permesso di individuare un malato e perverso personaggio… vuoi la testa vuoi lo schifo, poteva fare di peggio se lasciato indisturbato... meditate buonisti del web… poi la sua coscienza davanti la vergogna non ha retto ma non ha colpa nessuno solo lui.... dispiace ma è la cruda realtà… oggi si spogliava e forse la prossima violentava.... se non si scopriva quindi muti buonisti”. Ma c’è anche chi condanna il tribunale mediatico: “Personalmente mi fanno schifo i tribunali della Santa inquisizione, condannato senza prove certe. Avrete un morto sulla coscienza”. Bologna. Tribunale di sorveglianza senza personale: al centralino risponde la presidente di Francesco Mazzanti Corriere di Bologna, 18 gennaio 2023 Circolare della giudice Manuela Mirandola per far fronte ai buchi in amministrazione. La presidente sarà costretta a rispondere al telefono ogni mercoledì. Al tribunale di sorveglianza di Bologna manca il personale amministrativo. Addirittura non c’è nessuno che risponda al telefono. Per questo motivo, da adesso in poi, chi voglia richiedere delle informazioni dovrà parlare direttamente con la presidente. L’ordine di servizio - A renderlo noto è un ordine di servizio firmato dalla stessa presidente del tribunale di sorveglianza facente funzioni Manuela Mirandola, e diffuso alcuni giorni fa. La giudice Mirandola risponderà alle chiamate dal 23 febbraio: lo farà ogni mercoledì dalle 11.30 alle 12.30. Il servizio, specifica la nota diffusa, sarà garantito salvo “impedimenti per incombenti giurisdizionali o amministrativi” per i quali il “ricevimento telefonico potrà venire occasionalmente meno”. Insomma, si cercano faticosamente rimedi e soluzioni per continuare a garantire il servizio, ma è anche possibile che, chiamando, si resti senza risposta. Come specifica la nota, infatti, al tribunale di sorveglianza di Bologna “nonostante il rientro in servizio di parte del personale di cancellerie persiste una situazione di elevata scopertura dell’organico del personale amministrativo” e per questo motivo c’è la “necessità di effettuare scelte organizzative che consentano lo svolgimento (quantomeno parziale) di tutti i servizi del tribunale e dell’ufficio di sorveglianza di Bologna tenuto conto della limitazione dell’orario dello sportello e della grande difficoltà del personale amministrativo a rispondere al telefono”. Gli orari comunicati a magistrati e avvocati - Il servizio, inoltre, verrà garantito anche dalla direttrice amministrativa del tribunale di sorveglianza, Romana Quaranta, che si metterà di turno dietro la cornetta: risponderà, precisa l’ordine di servizio, il lunedì dalle 9,30 alle 12,30. Orari e turni che sono già stati comunicati a magistrati, avvocati, Camera penale e delegati sindacale del personale. Anche lo stesso ordine degli avvocati ne ha dato notizia sul proprio sito. “Si è ritenuto - conclude la nota - che la modalità maggiormente opportuna per lenire il disagio conseguente a tali scelte organizzative sia quella di prevedere degli orari di risposta alle telefonate esterne” da parte della presidente facente funzioni e della direttrice amministrativa. I compiti del tribunale - Secondo la relazione del tribunale di Bologna che riguardava la programmazione annuale delle attività di amministrazione e giurisdizione, pubblicata nel febbraio del 2022, nella sezione del riesame lavorano 6 magistrati previsti dalla pianta organica. Sono sempre 6, inoltre, i lavoratori in servizio del personale amministrativo. Il tribunale di sorveglianza di Bologna vigila sull’organizzazione degli istituti penitenziari e decide, tra le altre cose di cui si occupa, sulle richieste di concessione di misure alternative. All’interno del tribunale, come negli altri 25 distretti di Corte d’Appello, opera l’ufficio di sorveglianza: quello di Bologna ha competenza sul circondario dei Tribunali di Bologna, Ferrara, Forlì e Rimini. Roma. Il Pd vuole licenziare la garante dei detenuti Gabriella Stramaccioni di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 18 gennaio 2023 Il curriculum fitto di esperienza (fra cui 18 anni trascorsi a Libera l’organizzazione di Don Ciotti), impegno e ascolto non la soccorre: la garante capitolina Gabriella Stramaccioni, nominata dalla sindaca Virginia Raggi rischia di perdere l’incarico di vigilanza nelle carceri. La parola d’ordine dietro la quale il Pd romano marcerebbe compatto è “discontinuità”. Contro di lei la decisione del Pd appunto di affidarsi a Valentina Calderone assistente dell’ex senatore e politico di area Pd Luigi Manconi.  Stramaccioni, oltre alla quotidiana attività di monitoraggio della vita dei detenuti nei penitenziari romani, ha portato avanti denunce scomode come quella sul monopolio del vitto e sopravvitto ai detenuti ottenendo (grazie anche a un pronunciamento dei magistrati della Corte dei Conti) un nuovo bando nel quale i due servizi quelli di vitto e l’altro del cosiddetto sopravvitto, vengono separati. Sul tema sono in corso due delicate inchieste dei pm romani che indagano anche sulla vincitrice del bando, la ditta Ventura (storica titolare del servizio). Stramaccioni ha denunciato abusi e inefficienze ma anche piccole e grandi sviste della macroburocrazia del sistema carcerario, come accadde quando l’estate scorsa riuscì a ottenere la scarcerazione della pluri ottantenne Loretta Marconi accusata di tentato omicidio del marito (lui, aveva lanciato di recente un appello per poter tornare assieme alla moglie). Stramaccioni pubblica sul suo profilo Facebook il seguente post: “Mi auguro solo che i consiglieri valutino i curricula e le relative competenze/esperienze che abbiamo presentato per partecipare all’avviso pubblico”. Segue messaggio di Valeria, una signora alla quale la garante ha prestato ascolto: “Ricorderò per sempre quello che hai fatto per me lo scorso anno aiutandomi a trovare il mio amore nell’immensa Rebibbia”. Un post che suona come un congedo. Arezzo. Anni di lavori e carcere semivuoto. Le porte delle celle troppo strette di Alberto Pierini La Nazione, 18 gennaio 2023 Nessuno ha mai pensato a metterle a norma: la denuncia arriva da Beppe Fanfani, il garante dei detenuti. Le barelle non passano: circa 30 detenuti invece di 104. Il direttore: “Il cantiere sarà ancora lungo”. Le celle del carcere suonano a vuoto. Se non quando, nel rituale serale della polizia penitenziaria, un tubo di ferro viene sbattuto sulle sbarre per verificarne l’integrità. Suonano a vuoto perché sono quasi tutte vuote. La ritirata della criminalità? Il migliore dei mondi possibili? No, le porte sono troppo strette. Buona parte delle celle, e in particolare quelle del piano basso, non hanno gli accessi a norma. Dentro perfette o quasi, grazie ai lavori di ristrutturazione che per esempio hanno aumentato i bagni fino a provvederli di docce, ma inagibili. “Purtroppo è vero - conferma il direttore Giuseppe Brenna con franchezza - una barella non passerebbe e quindi è impossibile utilizzarle. E tempo che i lavori saranno ancora lunghi”. Poche parole, chi guida un carcere è sempre molto attento a non esagerare, ma chiarissime. La denuncia era arrivata dal garante regionale dei detenuti: che poi è una vecchia conoscenza, l’ex sindaco Giuseppe Fanfani. Il suo nuovo ruolo lo ha preso assolutamente sul serio, fino a produrre nei mesi scorsi un report che fotografa la situazione carceraria di tutta la Toscana. Con schede asciutte, nello stile dell’avvocato prima ancora dell’ex sindaco: numeri, servizi, accoglienza alle famiglie e tanti altri nodi scoperti. Nel caso di Arezzo, da sempre guidato da direttori sensibili e innovativi fino allo stesso Brenna, il punto dolente è quello delle celle. E delle “luci” delle porte. Da circa dieci anni il San Benedetto è sotto cantiere. Non continuato, beninteso, complici le vicissitudini delle ditte che si sono succedute e che a volte hanno portato a lunghi stop. Ma all’uscita da quei dieci anni le potenzialità del carcere non possono essere sfruttate. E’ una struttura su misura per 104 detenuti, si oscilla sempre intorno a una trentina: i numeri sono in continuo movimento, è una casa circondariale e quindi non ospita chi ha condanne definitive. Ma oscillano sempre di poco, perché le celle utilizzabili sono una minoranza. E’ una struttura completata nel 1926, che di sicuro non teneva conto delle regole attuali, modificate nel tempo, e neanche delle misure che sarebbero state via via imposte. Certo è però incredibile che non si sia mai preso di petto il problema, se non quando ormai il grosso dell’intervento era completato. A questo punto non resta che piangere? No, ma sperare sì. Perché è necessaria una coda ulteriore dei lavori. Da quanto filtra si parla di un anno e mezzo, quindi nei tempi classici dei cantieri di almeno due anni. Anche perché si tratta di modificare muri che sono portanti, non certo pareti di compensato. Tempi che moltiplicano i problemi degli altri carceri toscani, costretti a surrogare il sottodimensionamento del nostro, e rendono per ora inaccessibili spazi qualitativamente molto migliori che in passato. In una struttura che si è allargata alla sistemazione del giardino, all’illuminazione nuova delle celle, alla sistemazione del riscaldamento. Tutti punti che Fanfani ha riportato con cura nel report del 2022. A fronte di una trentina di detenuti ci sono 40 agenti penitenziari: l’organico completo sarebbe di 47, quindi mancano anche posti di lavoro. Un solo educatore, quando da organico dovrebbero essere due, uno psicologo. E un paradosso grosso come una casa, anzi come un carcere. Per non parlare dei disagi causati ai familiari e all’inevitabile aumento di spese di trasporto: i detenuti ovunque siano hanno il diritto di partecipare ai processi, vedere i loro avvocati, seguire da vicino il proprio iter giudiziario. E ogni volta vanno accompagnati a destinazione. Partendo da Firenze e da Siena invece che dal carcere dalle porte strette. Migranti. “Il decreto Piantedosi è incostituzionale, non convertitelo in legge” di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 gennaio 2023 Mediterraneo. Ong, avvocati, docenti, un ex magistrato, un ammiraglio in congedo e la Cei contro il provvedimento che limita i soccorsi nel Mediterraneo. In corso le audizioni nelle commissioni parlamentari per i pareri tecnici. Il decreto Piantedosi sui flussi migratori “potrebbe essere dichiarato incostituzionale dalla Consulta in qualsiasi istante”. A dirlo è il professore di diritto dell’università Bicocca Paolo Bonetti, ascoltato ieri durante le audizioni delle commissioni Affari costituzionali e Infrastrutture. Il provvedimento dovrà essere convertito in legge entro il 3 marzo, in questa fase i gruppi parlamentari stanno ascoltando soggetti qualificati a dare contributi tecnici. Gli inviti sono partiti soprattutto dalle opposizioni. Dura condanna delle scelte del Viminale è stata ribadita da monsignor Gian Carlo Perego, presidente di Fondazione Migrantes e Commissione Cei per le migrazioni. “Il provvedimento va abrogato - afferma - Se si vuole combattere il traffico di esseri umani l’attenzione va portata sul rinnovo del memorandum con la Libia piuttosto che sull’azione delle Ong”. Per Roberto Zaccaria, presidente del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), “non è emendabile e non può essere convertito in legge”. I punti problematici sono diversi, a partire dall’assenza dei requisiti di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione per simili provvedimenti. Le critiche si concentrano su due elementi. “Il primo dubbio riguarda la territorialità del diritto”, afferma l’avvocato Stefano Greco, per la Casa dei diritti sociali, riferendosi alla mancanza di giurisdizione italiana sulle navi straniere che navigano in acque internazionali. Un aspetto su cui insiste anche la docente di diritto internazionale dell’università Cattolica Francesca De Vittor: “Non si possono imporre competenze al capitano della nave di un altro paese che si trova in alto mare”. Una di queste sarebbe informare i naufraghi sull’asilo e, nel caso, raccoglierne le domande. Unhcr, per bocca di Chiara Cardoletti, è d’accordo sul primo aspetto ma ritiene problematico che la procedura possa essere avviata a bordo. L’agenzia Onu sostiene però che la responsabilità sugli sbarchi dalle navi Ong debba essere condivisa tra Stati costieri e di bandiera. Un tema molto caro al governo Meloni, anche se lo smacco ricevuto dalla Francia sul caso Ocean Viking sconsiglia di sfidare i partner Ue. L’altro elemento critico del decreto è il divieto dei soccorsi multipli. Cioè l’idea del governo italiano che le navi si dirigano verso i porti assegnati dopo il primo soccorso “senza ritardo”, nemmeno in caso di Sos aperti. “Non si può obbligare l’omissione di soccorso”, avverte l’ex magistrato Armando Spataro, che poi smentisce le dichiarazioni di Piantedosi sui presunti rapporti Ong-trafficanti: “non esiste un solo caso in cui siano stati provati”. Per Riccardo Magi, deputato di +Europa, “se un comandante farà salvataggi multipli a essere condannato sarà il decreto”. Filippo Miraglia, responsabile Arci immigrazione, ritiene che il provvedimento si basi su una “bugia pubblica”: l’Italia lasciata sola dall’Ue. In realtà si tratta di “un Paese che si fa carico di un numero di richiedenti asilo inferiore alla media europea”. L’ammiraglio in congedo della guardia costiera Vittorio Alessandro, a nome del comitato per il diritto al soccorso di cui fanno parte anche De Vittor e Spataro, ha sottolineato come de facto il decreto “non abbia ancora trovato applicazione, sebbene sia stato emanato in via d’urgenza. Si tratta di un strumento sostanzialmente sanzionatorio”. Infatti, prima della sua introduzione, a cambiare le carte nel Mediterraneo è stata la nuova prassi del Viminale: porti subito dopo il primo soccorso ma lontanissimi. Una tattica che rimarrebbe in vigore anche se il decreto andasse a sbattere contro la Costituzione o le Convenzioni internazionali. Per Spataro, però, il governo deve stare attento: spedire le navi Ong, e solo loro, a centinaia di chilometri apre a possibili richieste di risarcimento danni. Perché il decreto legge sulle navi delle Ong non va approvato di Riccardo Noury* Il Domani, 18 gennaio 2023 La combinazione di alcune disposizioni del decreto legge 1/2023 e la nuova prassi di prevedere porti di sbarco molto distanti dal luogo di salvataggio pongono evidentemente in ulteriore rischio la tutela dei diritti delle persone soccorse in mare e di quelle impegnate nei salvataggi. Il 16 gennaio le commissioni riunite Affari costituzionali e Trasporti della Camera dei deputati hanno ascoltato in audizione alcune organizzazioni non governative che si occupano di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Il tema era quello del decreto legge 1/2023 che, attraverso le modifiche al decreto legge 130/2020, aggiunge nuovi requisiti per consentire alle navi delle ong di ricerca e soccorso in mare. In passato le autorità italiane erano solite dare istruzioni alle navi di soccorso, spesso dopo estenuanti attese, di sbarcare le persone soccorse nei porti dell’Italia meridionale e in particolare in Sicilia. Questa è stata a lungo considerata una scelta naturale e ovvia, in considerazione dell’obbligo per l’Italia di sollevare i comandanti dalle loro responsabilità “con la minima ulteriore deviazione dal viaggio previsto per la nave”, in ottemperanza alla Convenzione internazionale sulla salvaguardia della vita umana in mare, e “non appena possibile”, in ottemperanza alle linee guida per il trattamento delle persone salvate in mare dell’organizzazione marittima internazionale. Prassi ad hoc - Tuttavia, dalla fine del 2022, il governo italiano ha iniziato a dare istruzioni alle navi delle ong di sbarcare le persone nei porti del centro e del nord Italia. Nello stesso periodo, le navi della Guardia costiera e della Guardia di finanza hanno continuato a ricevere istruzioni per lo sbarco in Sicilia e Calabria. Pertanto, la nuova prassi sembrerebbe applicarsi solo alle navi delle ong. La combinazione di alcune disposizioni del decreto legge 1/2023 e la nuova prassi di prevedere porti di sbarco molto distanti dal luogo di salvataggio pongono evidentemente in ulteriore rischio la tutela dei diritti delle persone soccorse in mare e di quelle impegnate nei salvataggi. Vediamo come. L’obbligo di procedere allo sbarco immediatamente dopo ogni operazione di salvataggio (requisiti [c] e [d] del decreto), combinato con la previsione di luoghi sicuri che si trovano a diversi giorni di navigazione dalla posizione in cui è stato effettuato il salvataggio, hanno come risultato quello di costringere le navi di soccorso - con a bordo persone già in situazione di vulnerabilità - a trascorrere una parte significativa del loro tempo di impiego nei trasferimenti, piuttosto che nelle aree del Mediterraneo centrale dove è statisticamente più probabile che avvengano naufragi. In assenza, come noto, di uno sforzo statale Italiano ed europeo per pattugliare quelle aree con mezzi navali pronti a intervenire in caso di pericolo, l’allontanamento forzato delle navi di soccorso delle ong aumenta significativamente il rischio di perdita di vite umane in mare. Inoltre, le nuove misure non possono essere giustificate dalla presunta necessità di garantire una più equa distribuzione delle persone in Italia. Ciò è ancora più evidente se si considera che questo obiettivo può essere facilmente raggiunto con mezzi meno invasivi e rischiosi - come trasferimenti via terra - che negli anni passati hanno permesso di distribuire i nuovi arrivati.  Le responsabilità del comandante - C’è poi l’imposizione di responsabilità eccessive o ingiustificate al comandante della nave (requisito [b] del decreto). Se le indagini di base da parte del comandante sulle persone soccorse possono essere necessarie e appropriate, tuttavia quest’ultimo non dovrebbe essere incaricato di valutare le richieste di asilo e dovrebbe invece concentrarsi sulla consegna delle persone soccorse in un luogo sicuro il prima possibile e senza ritardi inutili, come stabilito nelle linee guida per il trattamento delle persone salvate in mare dell’Organizzazione marittima internazionale. Infine, vengono reiterati obblighi già esistenti (requisito [a] del decreto) come quello di operare in conformità con le autorizzazioni e le certificazioni delle autorità competenti, che potrebbe essere visto semplicemente come pleonastico. In realtà, tali reiterazioni, accompagnate da sanzioni aggiuntive, discriminano negativamente le navi di soccorso delle ong. Il rischio, evidente, è che il governo utilizzi i requisiti imposti dal decreto legge per giustificare sanzione, stigmatizzazione e criminalizzazione di persone e organizzazioni che effettuano salvataggi del tutto legittimi. A tal proposito, è bene ricordare che ostacolare il lavoro dei difensori dei diritti umani, quali sono i soccorritori delle ong in quanto forniscono assistenza salvavita, può mettere uno stato nelle condizioni di violare i suoi obblighi di protezione del diritto alla vita, codificato in diversi strumenti internazionali, in particolare nell’articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’articolo 2 della Convenzione europea sui diritti umani. Inoltre, come sottolineato dalla Commissione europea, “la criminalizzazione delle ong o di qualsiasi altro attore non statale che effettua operazioni di ricerca e salvataggio in mare, pur rispettando il quadro giuridico pertinente, equivale a una violazione del diritto internazionale e pertanto non è consentita dal diritto dell’Unione europea”. Per queste buone ragioni, sarebbe importante che il parlamento non approvasse il decreto e che il governo non emanasse ulteriori provvedimenti osteggianti la solidarietà e dismettesse la nuova politica dei “porti lontani”. *Amnesty International Italia Stati Uniti. L’Alabama pensa di usare il gas per i condannati a morte di Alessio Marchionna Internazionale, 18 gennaio 2023 Joe Nathan James, Kenneth Eugene Smith e Alan Eugene Miller erano tre detenuti condannati a morte in Alabama di cui avevo già parlato nel novembre del 2022. Il primo è morto nella stanza delle esecuzioni del penitenziario di Atmore il 28 luglio al termine di una procedura durata più di tre ore, in cui gli operatori hanno eseguito vari tagli in un braccio prima di riuscire ad arrivare a una vena in cui iniettare i farmaci per l’iniezione letale. Il secondo e il terzo sono ancora vivi, perché le loro esecuzioni sono state interrotte a causa delle stesse difficoltà nell’inserimento degli aghi. Per questo gli attivisti per i diritti dei detenuti hanno chiamato il 2022 “l’anno delle esecuzioni fatte male”. Dopo l’ultimo caso, quello di Smith, lo stato dell’Alabama ha annunciato una revisione della procedura di esecuzione per capire come risolvere il problema. “Invece di intraprendere un percorso verso l’innovazione morale, cioè mettere in discussione la pena di morte, le autorità statali hanno scelto l’innovazione tecnologica”, scrive Elizabeth Bruenig, la giornalista che ha seguito questa storia per l’Atlantic. “Sembra infatti che lo stato abbia seriamente intenzione di sperimentare un nuovo tipo di esecuzione con gas letale”. Una serie di incognite - La procedura sarebbe diversa da quella usata nelle prigioni statunitensi fino a qualche decennio fa, in cui piccole celle venivano riempite di una sostanza che alla fine distruggeva gli organi dei detenuti, provocandone la morte. Ora lo stato propone di togliere ai detenuti l’ossigeno e di sostituirlo con l’azoto, causando la morte per ipossia. Se n’era già parlato anni fa, quando Alabama, Mississippi e Oklahoma avevano approvato l’uso dell’azoto per le esecuzioni. Ma la procedura non è mai stata applicata perché comporta una serie di incognite che la rendono potenzialmente pericolosa. I problemi emersi nel 2022 potrebbero però portare le autorità statali a puntare con decisione su questo metodo. Bruenig spiega che non è la prima volta, nella storia degli Stati Uniti, che le esecuzioni attraverso gas letale sono considerate un’innovazione. “Nel marzo del 1921 il governatore del Nevada, Emmet Boyle, firmò lo Humane execution bill (legge per l’esecuzione umana), che sostituiva i metodi più antichi e brutali - l’impiccagione e l’elettrocuzione - con un modo di morire che prometteva di essere indolore e incruento”. Si capì presto che le speranze erano mal riposte. L’8 febbraio 1924 i funzionari della prigione del Nevada portarono Gee Jon, un immigrato cinese, in una casa in pietra che era stata riconvertita per le esecuzioni letali. Lo spazio sarebbe stato inondato con una forma gassosa di acido cianidrico, una sostanza altamente tossica usata nell’industria per produrre fertilizzanti e sterminare gli insetti. “Quella mattina i testimoni osservarono dalla finestra della casa Gee che rantolava e si contorceva in mezzo alla nebbia di gas letale che riempiva la stanza. Un medico militare presente quel giorno avrebbe poi spiegato che il riscaldamento della casa si era rotto, di conseguenza il gas si era liquefatto parzialmente invece di vaporizzarsi e si raccolse sul pavimento della camera, dove rimase per ore dopo la morte di Gee. Lo stesso medico avrebbe poi ipotizzato che Gee, avvelenato alle 9.45 di mattina di una giornata gelida e rimasto incatenato fino a mezzogiorno, era probabilmente morto per il freddo”. Dopo quel giorno più di seicento persone sono morte nelle camere a gas delle prigioni statunitensi. “È sorprendente”, scrive la giornalista, “che gli Stati Uniti abbiano usato questo metodo per uccidere i prigionieri anche dopo che le camere a gas erano ormai associate in modo indissolubile alla Germania nazista”. Molti di quei detenuti morirono tra grandi sofferenze, e alla fine del secolo quella procedura fu abbandonata in tutto il paese. L’ultimo a essere ucciso con il gas fu Walter LaGrand, un detenuto dell’Arizona, nel 1999. LaGrand, un americano di origine tedesca condannato per omicidio, fu imbavagliato e immobilizzato e morì dopo diciotto minuti. Secondo alcune indiscrezioni, il piano attuale delle autorità dell’Alabama prevede di usare una maschera sigillata collegata a una fonte di gas azoto per indurre l’ipossia in un prigioniero immobilizzato. “L’azoto è economico e facilmente reperibile”, spiega la giornalista, “ma è anche estremamente pericoloso. Impiegato in un carcere, potrebbe rappresentare un rischio per il personale in caso di perdite. Nel 2022 una fuga di azoto liquido in un impianto di pollame della Georgia ha provocato sei morti e undici ricoveri”. Qualche settimana fa un portavoce di Airgas, un distributore nazionale di gas industriali che in passato ha collaborato con l’amministrazione penitenziaria dell’Alabama, ha detto a Bruenig che “la fornitura di azoto per le esecuzioni non è compatibile con i nostri valori aziendali. Pertanto Airgas non ha fornito e non fornirà azoto o altri gas inerti per indurre l’ipossia ai fini dell’esecuzione di esseri umani”. Sembrerebbe quindi improbabile che l’Alabama, dopo non essere riuscito a eseguire le condanne a morte con l’iniezione letale, decida di ricorrere a una procedura che non è mai stata testata e per cui è difficile reperire i composti. Ma, avverte Bruenig, non bisogna sottovalutare la determinazione dei politici di quello stato quando si tratta di mettere a morte delle persone. Bielorussia. Il processo farsa alla dissidente Tikhanovskaya di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 18 gennaio 2023 La leader dell’opposizione politica a Lukashenko è attualmente esiliata in Lituania. È accusata di alto tradimento e rischia una condanna a 15 anni di reclusione. Un processo farsa, così Svetlana Tikhanovskaya ha definito il procedimento in contumacia a suo carico iniziato ieri a Minsk, capitale della Bielorussia. La donna quarantenne si trova in esilio a Vilnius, in Lettonia, ed e di fatto la figura più rappresentativa dell’opposizione contro Alexandr Lukashenko, il presidente che governa il paese bielorusso con il pugno di ferro ed e considerato l’ultimo dittatore d’Europa. È stata l’agenzia di stampa statale, Belta, a riportare le pesantissime accuse che vanno dall’alto tradimento alla creazione di una organizzazione estremista che equivale a condanna certa. Lo stesso Lukashenko infatti, due anni fa, aveva inserito nel codice penale una fattisecie di reato abastanza ambigua che va sotto la definizione di tentato terrorismo. Ora Tikhanovskaya rischia dunque fino a quindici anni di reclusione se riconosciuta colpevole. Le ragioni dell’accusa sono palesemente dettate da una volontà di vendetta e di zittire qualsiasi voce dissidente in Bielorussia, Tikhanovskaya si era candidata proprio contro Lukashenko nelle elezioni presidenziali del 2020, il vecchio leader ufficialmente ha vinto con l’ 80% dei voti, ma secondo molti osservatori questo risultato e stato determinato da massicci brogli elettorali. Nei mesi seguenti la Bielorussia è precipitata in uno stato di forte instabilità con proteste di massa pacifiche che però sono state represse dal regime con grandi ondate di arresti. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, compresa la più conosciuta Viasna, hanno stimato che attualmente in Bielorussia sono almeno 1438 i prigionieri politici finiti in carcere per il loro attivismo. Ieri Tikhanovskaya ha parlato dalla località svizzera di Davos a margine del World Economic Forum dichiarando di non aspettarsi un giudizio equo: “In Bielorussia non ci sono prove oneste. Viviamo nell’assoluta illegalità nel nostro paese, quindi il processo sarà una farsa e uno spettacolo, ma non ci sarà una vera giustizia”. L’accusata ha chiesto le carte processuali all’avvocato nominato dal tribunale ma le è stato negato ogni accesso agli atti. Anche le parole dell’ufficio del procuratore generale non fanno ben sperare: “Tikhanovskaya, mentre si trovava sul territorio della Repubblica di Lituania, si è proclamata vincitrice delle ultime elezioni... è l’unico leader nazionale eletto dal popolo bielorusso”. Lunedì, un giorno prima dell’inizio del processo, le autorità hanno presentato nuove accuse contro il marito di Tikhanovskaya, un video blogger di 44 anni, arrestato nel 2020 mentre tentava di candidarsi contro Lukashenko. E stato questo il motivo per cui la donna ha deciso di raccogliere il testimone del consorte presentandosi alle elezioni. Tikhanovskaya anche se non risulta essere inserita in una lista internazionale dei ricercati e perseguita anche in Russia in virtù degli accordi che intercorrono tra Mosca e Minsk. In realtà il Cremlino non sembra avere troppo interesse ad intromettersi. Ma il giro di vite contro l’opposizione bielorussa non si allenta. Sotto processo sono finiti anche l’attivista per i diritti umani e premio Nobel per la pace Ales Bialiatski e altri due con l’accusa di finanziamento di proteste e contrabbando di denaro. Accuse che comportano da 2 a 12 di carcere. Il 9 gennaio poi è iniziato il procedimento a porte chiuse contro la stampa indipendente. Alla sbarra Marina Zolotova e Lyudmila Chekina, due ex direttrici generali del giornale indipendente bielorusso Tut. by, chiuso dal regime di Lukashenko nel maggio del 2021. Su di loro pende un’accusa di evasione fiscale, attività mirata all’odio sociale e incitamento a minare la sicurezza nazionale anche se sono considerate universalmente prigioniere politiche. Nigeria. Abolita la legge che imponeva la galera senza cure per chi soffre di disturbi psichici dire.it, 18 gennaio 2023 A promulgare le nuove norme, dopo il via libera parlamentare è stato il presidente Muhammadu Buhari. Ma ancora oggi chi tenta il suicidio si fa almeno un anno di carcere. Approvata in Nigeria la legge per la Salute mentale, un documento che consente dopo oltre 60 anni di superare un provvedimento di epoca coloniale, il “Lunacy Act”, che in caso di disturbi, psicosi o disabilità intellettive consentiva detenzioni forzate e non prevedeva né cure né terapie. A promulgare le nuove norme, dopo il via libera parlamentare, che ha seguito tentativi di riforma falliti nel 2003 e nel 2013, è stato il presidente Muhammadu Buhari. Secondo il ministero della Sanità della Nigeria, “la legge garantisce tutele dei diritti umani per chi è affetto da disabilità intellettive, vietando discriminazioni sulla casa, il lavoro, l’assistenza medica e altri servizi sociali”. Il disagio mentale bollato con il termine “idiota”. Il Lunacy Act era entrato in vigore quando la Nigeria era ancora una colonia britannica, nel 1958. In quel testo, denominato “legge sulla lunaticità” o anche sulla “follia”, si utilizzano parole denigratorie come “idiota” e sono previste norme giudicate oggi “superate e inumane”. Tra queste figura un articolo che permette di tenere recluse per osservazione per sette giorni, con o senza l’assunzione di farmaci, persone sospettate di essere “pazze”. Nel nuovo testo l’approccio cambia. “Il testo”, riferisce il ministero, “garantisce a coloro che ricevono cure il diritto di partecipare all’elaborazione dei piani medici e di non essere forzati o costretti, come avviene comunemente nei centri di salute mentale”. Ma ancora oggi chi tenta il suicidio si fa 1 anno di carcere. Come si ricorda sul portale di informazione All Africa, la Nigeria non è l’unico Paese subsahariano ad aver approvato norme di maggior tutela. A muoversi, recependo un appello globale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sono state infatti di recente sia Ghana che Sudafrica. In Nigeria, potenza petrolifera ancora ostaggio di povertà diffuse, vivono oltre 200 milioni di persone. Dopo l’approvazione della legge c’è chi ha ricordato la vicenda di Ifeanyi Ugokwe, un ventenne che nel 2017 era stato detenuto per settimane per aver cercato di suicidarsi. Ad oggi per quest’atto, menzionato nel Codice penale, come ha scritto su All Africa la dottoressa e scrittrice Maymunah Kadiri, continuano a essere previste condanne fino a un anno di carcere.