Da Messina Denaro a Cospito: perché diciamo no al carcere duro di Paolo Becchi e Giuseppe Palma nicolaporro.it, 17 gennaio 2023 L’ultimo latitante della stagione stragista 1992-93 Matteo Messina Denaro è stato consegnato alle patrie galere e ora sarà sottoposto al regime del “carcere duro” disciplinato dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. La norma consente al Ministro della Giustizia di sospendere a determinati detenuti il regime penitenziario ordinario, precludendo alcuni diritti come ad esempio le visite, i permessi, la frequentazione di attività ludiche e la condivisione degli spazi con altri detenuti. In altre parole, isolamento e non solo. Il carcere duro si applica tuttavia solo se vi sono concrete ragioni di sicurezza e solo se il detenuto ha commesso uno o più di questi reati dettagliatamente previsti dalla legge: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; associazione per delinquere di stampo mafioso; delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’associazione mafiosa ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose; delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù; prostituzione minorile; delitto di tratta di persone e schiavitù; violenza sessuale di gruppo; sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione; contrabbando di tabacchi lavorati esteri e delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope. Insomma, se sei un tipo davvero pericoloso lo Stato ti mette - a volte a tempo indeterminato - in una condizione praticamente disumana perché tu non possa più nuocere a nessuno. Non siamo d’accordo con un simile strumento perché la pena, come stabilisce la Costituzione, deve tendere in ogni caso alla rieducazione del condannato e non deve mai essere disumana. Bernardo Provenzano morì nel carcere duro quando ormai era in stato vegetativo. C’è chi sostiene che un assassino che ha ucciso decine o centinaia di persone meriti la massima punizione. Ci può stare ma non ci può stare il trattamento disumano dei detenuti, fossero anche i peggiori criminali della terra. Lo Stato non si vendica; lo Stato punisce nella sola ottica rieducativa, mai vendicativa. Ora Messina Denaro verrà messo al 41 bis, ma ci sarà qualche giudice in grado di valutare serenamente se quest’uomo è ancora realmente pericoloso o meno, visto che la stagione stragista è finita da circa trent’anni? Ma sì, buttiamo via la chiave e non se ne parli più. Detto questo, il punto è che non sempre finiscono al 41 bis detenuti realmente pericolosi, ci sono infatti casi di detenuti costretti al carcere duro solo su valutazioni presuntive (giudizi meramente prognostici) da parte della magistratura prima e di via Arenula dopo. È il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico condannato a vent’anni di reclusione e attualmente in regime di 41 bis presso il carcere di Sassari Bancali. Cospito fu dichiarato colpevole per aver gambizzato nel 2012 l’ad di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi e per aver piazzato due esplosivi fuori da una caserma di Cuneo nel 2006. Reati gravissimi, su questo non c’è dubbio, ma non si tratta né di stragi né di omicidi, né tantomeno di associazione a delinquere di stampo mafioso. È pure vero che il 41 bis si applica anche al reato di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, ma è altrettanto vero che è la prima volta che viene applicato nei confronti di un anarchico, ammesso che Cospito volesse sovvertire concretamente l’ordine democratico. Cospito ha iniziato lo sciopero della fame e ha scritto al Ministro della Giustizia Nordio per chiedere la revoca del 41 bis. Nordio è il ministro più liberale e garantista che si possa avere; dunque, valuterà sicuramente il caso con molta attenzione. Il dato di fatto saliente è che purtroppo nel nostro Paese si è fatta dell’antimafia (generalmente intesa) una bandiera politica e così il carcere duro, da strumento eccezionale e mirato a casi particolari e gravissimi, è diventato uno strumento punitivo talvolta applicato a prescindere da concrete esigenze di sicurezza e applicato a casi per cui il regime penitenziario ordinario è più che sufficiente. No, il “carcere duro” non esiste ancora grazie al governo Meloni di Carlo Canepa pagellapolitica.it, 17 gennaio 2023 “Matteo Messina Denaro andrà al carcere duro perché quell’istituto esiste ancora grazie a questo governo”. Ma la presidente del Consiglio confonde il 41 bis con l’ergastolo ostativo. Il 16 gennaio, ospite a Quarta repubblica su Rete 4, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha commentato (min. 4:56) l’arresto di Matteo Messina Denaro dicendo che il principale latitante italiano “andrà al carcere duro”, un regime che “esiste ancora” solo grazie all’attuale governo. Le cose però non stanno così: con questa dichiarazione la presidente del Consiglio ha fatto confusione tra il cosiddetto “carcere duro” e l’ergastolo ostativo. Che cos’è il “carcere duro” - Con l’espressione “carcere duro” si fa generalmente riferimento a quanto previsto dall’articolo 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Come ha spiegato in un approfondimento per la Treccani Angela Della Bella, professoressa di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano, questo articolo fu modificato nel 1992 per introdurre un regime detentivo speciale che riguardasse in particolare i detenuti per reati legati alla mafia. All’inizio la norma sul “carcere duro” fu introdotta solo in via temporanea, ma negli anni successivi fu prorogata e modificata varie volte, diventando poi parte stabile dell’ordinamento penitenziario. In breve, i detenuti che sono sottoposti all’articolo 41-bis devono rispettare restrizioni più severe rispetto agli altri detenuti. Per esempio, un detenuto sotto il “carcere duro” deve stare da solo in una cella, isolato da tutti gli altri detenuti, e non ha la possibilità di accedere a spazi comuni. Al massimo si possono trascorrere due ore al giorno negli spazi all’aperto dell’istituto penitenziario (la cosiddetta “ora d’aria”). Esistono limitazioni anche per i colloqui: in persona ne è concesso solo uno al mese e solo con i familiari, senza la possibilità di passarsi oggetti, mentre per via telefonica si può fare al massimo una chiamata di dieci minuti al mese, registrata. Che cos’è l’ergastolo ostativo - Parlando di Matteo Messina Denaro in tv, Meloni ha fatto più volte riferimento al cosiddetto “ergastolo ostativo”, ossia il regime carcerario che esclude gli autori di alcuni reati particolarmente gravi, tra cui quelli di stampo terroristico o mafioso, da possibili benefici penitenziari, a meno che questi non decidano di collaborare con la giustizia. L’ergastolo ostativo è regolato dall’articolo 4-bis della già citata legge sull’ordinamento penitenziario, che è stato modificato a fine ottobre 2022 dal governo Meloni con il suo primo decreto-legge, poi convertito in legge dal Parlamento lo scorso 30 dicembre 2022.  Il governo è intervenuto con urgenza sul tema perché nel 2021 la Corte costituzionale aveva dichiarato incompatibile con la Costituzione il regime dell’ergastolo ostativo, invitando il Parlamento a intervenire, prima di un nuovo giudizio sul tema, previsto inizialmente per l’8 novembre 2022. Nel suo primo decreto-legge, il governo Meloni ha così riproposto alcune modifiche al regime dell’ergastolo ostativo contenute in una proposta di legge approvata dalla Camera il 31 marzo 2022, ma non dal Senato, vista la fine anticipata della legislatura.  Tra le altre cose, il decreto ha stabilito che i condannati per reati connessi all’associazione di tipo mafioso potranno accedere ai benefici penitenziari anche senza aver collaborato con la giustizia, a patto che sia rispettata una serie di condizioni. Per esempio, dovrà essere esclusa la presenza di legami attuali con la criminalità organizzata, il condannato dovrà aver adempiuto a tutte le obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, e il giudice dovrà valutare la presenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime. Inoltre, potranno essere ammessi alla libertà condizionale solo i detenuti che hanno scontato almeno due terzi della pena oppure, in caso di condanna all’ergastolo, almeno trent’anni di pena. L’errore di Meloni - Al di là del caso specifico di Matteo Messina Denaro, che negli anni è stato condannato più volte all’ergastolo nonostante la latitanza, Meloni sbaglia nel dire che il regime del “carcere duro” “esiste ancora” grazie al suo governo. Come abbiamo visto, il “carcere duro” è regolato dall’articolo 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario: non necessariamente riguarda detenuti condannati all’ergastolo e non è stato modificato dal governo Meloni. L’esecutivo è invece intervenuto sull’ergastolo ostativo, regolato dall’articolo 4-bis, per evitare un nuovo giudizio della Corte costituzionale. Il verdetto - Secondo Giorgia Meloni, “Matteo Messina Denaro andrà al “carcere duro” perché quell’istituto esiste ancora grazie a questo governo”. Al di là del caso specifico del principale latitante italiano, la presidente del Consiglio fa confusione tra il cosiddetto “carcere duro” e l’ergastolo ostativo. Il primo, regolato dall’articolo 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, stabilisce una serie di restrizioni severe per i detenuti anche per reati mafiosi. Il secondo, regolato dall’articolo 4-bis, prima dell’intervento del governo Meloni escludeva gli autori di reati di stampo mafioso dai possibili benefici penitenziari se non collaboravano con la giustizia. Il governo è intervenuto sull’ergastolo ostativo per rispettare una sentenza della Corte costituzionale, ma non sul “carcere duro”. Suicidi in carcere, un anno terribile di Patrizia Pallara collettiva.it, 17 gennaio 2023 Ottantaquattro detenuti solo nel 2022, uno ogni cinque giorni. Un fenomeno drammatico che riguarda anche gli agenti di polizia penitenziaria. Ottantaquattro detenuti si sono tolti la vita nelle carceri italiane nel 2022. Uno ogni cinque giorni. Quello appena trascorso è stato un anno orribile per i suicidi in cella, in cui si è superato il precedente record negativo del 2009, quando furono in totale 72. Sono numeri che rispecchiano la situazione di disfunzione in cui si trovano gli istituti di pena, che non riguarda solo chi è ristretto ma anche chi ci lavora: negli ultimi dieci anni si sono suicidati 69 agenti di polizia penitenziaria. Numeri di un fenomeno drammatico di cui la politica non si occupa e che i cittadini preferiscono non vedere. Condizioni pesanti - “Oltre all’impatto che il Covid ha avuto sul carcere, con le incertezze del lockdown e i contagi, c’è sicuramene il fatto che le persone ristrette vivono in condizioni sempre più pesanti e drammatiche - spiega Denise Amerini, responsabile dipendenze e carcere dell’area stato sociale e diritti della Cgil -. Crescono i detenuti con problemi di fragilità, di salute mentale, marginali, poveri. Le offerte lavorative e formative sono davvero poche e sono ridotte per durata e continuità”. Anche l’aspetto dell’affettività contribuisce. I carcerati sono privati della libertà ma anche delle relazioni parentali, della genitorialità. “Per questo ci vorrebbero luoghi e spazi dove le persone possano vivere le loro relazioni affettive in modo quanto meno dignitoso - aggiunge Amerini -. C’è una proposta di legge in parlamento per istituire case famiglia per madri detenute: sarebbe importante tirarle fuori, fare in modo che possano vivere la genitorialità, permettere ai bambini di uscire dall’ambiente carcerario, avere una quotidianità più normale, frequentare la scuola, incontrare coetanei”. Il tempo vuoto - E poi c’è il tempo, che in cella è vuoto e senza significato. La prospettiva di non fare niente tra le mura del penitenziario è devastante e lo è anche la mancanza di aspettative quando si esce. Non a caso i suicidi avvengono per lo più nel periodo immediatamente successivo alla carcerazione, segno della difficoltà di vivere in ambienti piccoli, sovraffollati, senza servizi igienici, con sconosciuti, e nei mesi che precedono la libertà, sintomo del disagio di fronte al non sapere cosa fare e dove andare, una volta fuori. Lavoro strumento di libertà - “Per prevenire i suicidi in carcere e i tantissimi comportamenti autolesionistici - afferma Amerini - bisogna creare condizioni di vita dignitose e riempire il tempo di significato, con attività di socializzazione come il teatro per esempio, e offrendo lavoro, che sia lavoro vero però, riconosciuto e retribuito, che serva alla persona per promuovere la sua identità e reinserirla nella società e non che abbia una funzione di supplizio o redenzione. A Palermo è appena partito uno sportello nel penitenziario per incrociare domanda e offerta di lavoro, un’iniziativa promossa da un organismo previsto dall’ordinamento penitenziario ma mai attuato. L’unico caso in Italia”. Situazione totalizzante - Il complicato ambiente carcerario pesa sui detenuti come anche sui lavoratori. “La condizione della persona ristretta e quella dell’operatore sono difficili da distinguere, vivono entrambi in una situazione totalizzante - spiega Florindo Oliverio, segretario nazionale Funzione pubblica Cgil -. Spesso il poliziotto penitenziario vive il carcere anche fuori dall’orario di lavoro, perché portato a centinaia di chilometri di distanza da casa, senza famiglia, trascorre il suo tempo dentro l’istituto come se fosse un recluso. E chi ha un disagio non lo può neppure denunciare, perché cerca di evitare lo stigma dei colleghi, teme di essere additato come il soggetto debole, il fragile”. L’arma a disposizione - L’amministrazione penitenziaria dispone di pochissime risorse per il supporto psicologico dei carcerati e ancora meno per i lavoratori, oltre al fatto che per chi vi ricorre è difficile proteggere la privacy. “Sfatiamo una falsa convinzione - dice ancora Oliverio. Non è che il poliziotto ha una configurazione particolare che lo porta al suicidio, non è il mestiere che lo spinge a togliersi la vita. Piuttosto si può affermare che nel momento della perdita di lucidità, del picco del disagio, avere un’arma a disposizione può fare la differenza. E questa arma il lavoratore se la porta sempre con sé, non se può mai separare, né riporla in sicurezza. È un dato emerso da una ricerca realizzata dalla Funzione pubblica Cgil di Padova in collaborazione con la Asl e l’università”. Carenze di organico - C’è poi il problema della cronica carenza di organico che costringe i lavoratori a turni insostenibili, da 9 fino a 12 ore al giorno. E a ricoprire tanti ruoli diversi, dai servizi centrali al ministro di culto, dall’educatore al mediatore culturale. “Oggi si contano 35 mila operatori di polizia penitenziaria, su una previsione organica di 41 mila - dichiara Mirko Manna, Fp Cgil -: la legge Madia ha di fatto depauperato il 30 per cento del personale. Ogni anno, a fronte dell’uscita di 1.100 dipendenti, ne entrano 200. E tra 2 anni 8 mila operatori assunti per concorso nel 1992 andranno in pensione. Questo vuol dire che tra due anni mancheranno all’appello 16 mila unità, situazione che comprimerà ancora di più la vita dei lavoratori e delle lavoratrici”. “Ogni anno facciamo il giro delle strutture carcerarie - conclude Oliverio - e continuiamo a denunciare deficit, carenze logistiche, ambienti fatiscenti. Abbiamo preparato documenti, scritto al ministero della Giustizia per chiedere la messa in sicurezza degli istituti e tutelare il personale oggi stremato e demotivato, ma c’è sempre un problema di risorse che non sono disponibili”. Giudice di sorveglianza di Spoleto ricorre a Consulta su divieto sesso detenuti ansa.it, 17 gennaio 2023 Il Garante Anastasia: “Il riconoscimento del diritto alla sessualità dei detenuti non solo favorirebbe la loro crescita personale, ma andrebbe a beneficio dell’intera istituzione carceraria perché migliorerebbe i rapporti con gli agenti di polizia penitenziaria e aiuterebbe il clima generale della vita in carcere”. Il giudice Gianfilippi, sulla base del ricorso di un detenuto scrive alla Consulta: “L’interessato si duole del divieto impostogli dall’amministrazione di svolgere colloqui intimi con i propri familiari e in particolare con la compagna”. Il Garante ricorda che “quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato”. Anastasia conclude sottolineando che “alla suprema corte, il giudice di Spoleto rivolge un quesito che è insieme giuridico e morale: a vietare i rapporti sessuali, poi, non si contravviene allo spirito della Costituzione sulla protezione della famiglia, anche quella di un condannato?”. “Il riconoscimento del diritto alla sessualità dei detenuti non solo favorirebbe la loro crescita personale, ma andrebbe a beneficio dell’intera istituzione carceraria perché migliorerebbe i rapporti con gli agenti di polizia penitenziaria e aiuterebbe il clima generale della vita in carcere”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, alla notizia che il giudice di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha sollevato una questione di legittimità innanzi alla Corte costituzionale sul divieto ai detenuti, derivante dall’applicazione dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, di fare sesso con i loro partner, in quanto tale divieto potrebbe colpire i diritti costituzionali. “L’interessato si duole del divieto impostogli dall’amministrazione di svolgere colloqui intimi con i propri familiari e in particolare con la compagna”, - si legge nell’ordinanza del giudice Fabio Gianfilippi, chiamato in causa da un reclamo di un detenuto. Quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, infatti, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato. E ci sarebbero pure in questo senso le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa o del Parlamento europeo che auspicano le “visite coniugali” ai detenuti. E c’è anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo, il tribunale internazionale di Strasburgo, a manifestare apprezzamento per gli Stati che prevedono i colloqui intimi e l’esercizio dell’affettività anche di tipo sessuale. C’è una recente sentenza del 2021 che ribadisce questo orientamento. “Una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività - scrive il giudice Gianfilippi - finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta”. Siccome non ci sarebbero motivi di sicurezza ad impedirlo (il giudice stesso avverte che ovviamente non se ne può parlare per i detenuti sottoposti al 41 bis, il carcere duro che deve troncare i rapporti con l’esterno), la negazione della sessualità a chi sta dietro le sbarre “si volge in mera vessazione, umiliante e degradante, peraltro non soltanto per il condannato, ma per la persona con lui convivente, cui pure viene interdetto l’accesso a quella sessualità e genitorialità che potrebbe, ove lo si volesse, derivarne”. Alla suprema corte, il giudice di Spoleto rivolge un quesito che è insieme giuridico e morale: a vietare i rapporti sessuali, poi, non si contravviene allo spirito della Costituzione sulla protezione della famiglia, anche quella di un condannato? “Già nel 1999 - ricorda Anastasìa - l’allora capo del Dap Alessandro Margara propose la revisione dell’ordinamento carcerario con la previsione di aree ad hoc per incontri non a vista: il Consiglio di Stato rispose che non si poteva cambiare il regolamento, ma si doveva emanare una legge. Dopo oltre vent’anni siamo ancora qua a discuterne”. Sono anni che si parla di concedere pause di intimità ai detenuti italiani. La legge lo vieta, perché il regolamento carcerario impone che i colloqui del detenuto con il o la partner, anche se concesso in sale separate, dev’essere sempre sottoposto alla vigilanza degli agenti. Il carcere non è mai considerato un luogo privato, ma pubblico per definizione. E va da sé che il sesso in un luogo pubblico non si può fare perché, a rigore, è un reato in sé. Due proposte di legge, avanzate dai Consigli regionali di Toscana e Lazio, in discussione in Senato nella passata legislatura, non hanno concluso l’iter. La proposta di legge approvata con una mozione del Consiglio regionale del Lazio, in particolare, è partita dalla ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, realizzata con la condivisione e il supporto del Garante dei detenuti e della Presidenza del Consiglio regionale, “Affettività e carcere. Un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte”, i cui risultati sono stati raccolti nel libro di Sarah Grieco, la ricercatrice che ha coordinato la ricerca, “Il diritto all’affettività delle persone recluse”. Rapporti affettivi dei detenuti: il parere del Garante dell’Umbria “Tempi maturi per impugnare la normativa. Rapporti affettivi da intendere come diritti inviolabili dell’uomo e, perciò, da rendere possibili”. Questo il parere di Giuseppe Caforio, giurista e garante della Regione Umbria per le persone sottoposte a misure restrittive, in merito al bisogno di rapporti sessuali per chi si trova in carcere. L’argomento è tornato d’attualità dopo la decisione del magistrato di sorveglianza di Spoleto di inviare alla Corte costituzionale la richiesta di un detenuto per valutare la legittimità della norma che ne prevede il divieto. Per Caforio sarebbero tante, in Italia, le persone pronte a chiedere di avere rapporti con il proprio compagno o la propria compagna: una questione annosa e già affrontata parecchie volte in passato. Poiché l’Italia risulta essere tra i pochi paesi europei ad applicare il divieto, secondo il giurista sarebbe arrivato il momento di impugnare la normativa. Tra le province di Perugia e di Terni la popolazione carceraria avrebbe un’età media abbastanza bassa, essendo composta da diversi giovani con età compresa tra i venti e i quarant’anni: in tanti avrebbero delle aspettative sessuali che, quando non soddisfatte, possono generare episodi di violenza. Insomma, per Caforio i tempi sarebbero maturi per affrontare concretamente un aspetto simile. Auspicabile, in tal senso, una legge organica e meditata, con la creazione di spazi appositi. Pierdonato Zito, torna in carcere il detenuto laureato: “Licenza scaduta: sono cambiato ma non per lo Stato” di Claudio Mazzone Corriere della Sera, 17 gennaio 2023 Il primo laureato del Polo Universitario penitenziario della Federico II è tra i 700 detenuti semiliberi che godevano di licenza straordinaria Covid: ma il governo Meloni non l’ha prorogata: “Mi sento come la vittima di un accanimento terapeutico”. “Mi trovo proprio vicino al carcere, sto per rientrare”. Sono le 20 e la voce di Pierdonato Zito, che arriva con un vocale su Whatsapp, è quella di chi non riesce a liberarsi da un passato pesante. Quella di un 63enne che ha trascorso più 30 anni da detenuto, di cui 8 al 41-bis. Quella di un uomo cambiato che è stato, nell’ottobre scorso, il primo laureato del Polo universitario penitenziario di Secondigliano dell’Università “Federico II”, ottenendo anche la lode. Eppure Pierdonato dal 30 dicembre è tornato a dormire in carcere perché è tra i 700 detenuti semiliberi che godevano di licenza straordinaria Covid; licenza che, dopo due anni e mezzo di misura alternativa, il governo Meloni non ha prorogato. Come si sente a dover tornare in carcere la notte? “Come una persona che è guarita ma non viene dimessa dall’ospedale, sono vittima di un accanimento terapeutico. La mia storia è l’eterno ritorno dell’identico perché è come se fossi uscito da un labirinto per entrare in un altro ugualmente ingarbugliato. La mia vicenda assomiglia alla fatica di Sisifo, condannato in eterno a spingere un enorme masso fino alla cima della montagna per poi lasciarlo rotolare a valle e tornare a portarlo su fino in cima. Sono entrato per la prima volta in carcere nel 1980. Sono trascorsi 42 anni e sto ancora cercando disperatamente di liberarmi ma non ci riesco, la mia storia resta ancorata al passato. Eppure da allora sono cambiato nel fisico, nella visione della vita ma purtroppo cambiare non basta”. Cosa serve allora? “Devi avere anche la fortuna di trovare chi nel tuo cambiamento ci vuole credere. A nulla o a poco vale cambiare se tutto, intorno a te, resta uguale e immobile”. A cosa si riferisce? “È il sistema che non prende atto del mio cambiamento. Io ho ridefinito la mia esistenza, da oltre 20 anni non sono più iscritto nel registro degli indagati, le procure non si interessano più di me, e questa è la prova documentale che non possono rappresentare una pericolosità sociale perché manca il requisito dell’attualità. Purtroppo però la mia storia processuale è parte di un passato che non mi appartiene più ma che cristallizza il mio presente”. Cosa rappresenta la sua laurea? “È una prova documentale del cambiamento di Pierdonato Zito detenuto. Ma il nostro sistema giudiziario fa fatica a riconoscerlo e questo vanifica gli sforzi e rende impossibile che un detenuto cambi davvero. Basti pensare che il dato della recidiva nei penitenziari italiani è all’amante, per una media del 70%, il che significa che il trattamento carcerario non funziona e quella volta che invece dà frutti, come nel mio caso, le istituzioni non lo riconoscono anzi. Il giorno della mia proclamazione, ad esempio, ero rientrato a casa da detenuto ma anche da dottore in Sociologia. Alle 3 di notte i carabinieri sono venuti a casa per un controllo. Questo mi ha fatto capire che dal carcere e dal mio passato rischio di non liberarmi mai”. Eppure lì ha trasformato la sua storia personale in una questione collettiva. “Si. Ho fatto della mia esperienza, della mia conoscenza ultratentennale dell’universo carcerario, delle dinamiche di come si entra e di come si può uscire dal carcere, una storia da condividere. Attraverso l’analisi sociologica, grazie agli strumenti che la Federico II mi ha dato e alle lenti con cui l’Università e lo studio mi ha fatto guardare il mio mondo, ho trasformato il mio vissuto in uno strumento per fare prevenzione, per aiutare i giovani a non sbagliare. E infatti sono stato nelle scuole per parlare con gli studenti, per raccontare la mia storia e per fornirgli uno strumento di prevenzione”. Come valuta la scelta del governo Meloni di non prorogare la licenza eccezionale? “È un errore, perché lo Stato ha investito nella nostra rieducazione ma poi non ci permette di tornare liberi. È un aspetto paradossale e contraddittorio del sistema penitenziario italiano ed è una criticità concreta dell’intero sistema giudiziario che ci ripropone una situazione kafkiana”. In che senso? “In questi due anni i detenuti in semilibertà non hanno dato alcun motivo di allarme sociale. Al contrario, hanno dato segno di maturità, e di essere protagonisti di percorsi positivi. La mia storia è un esempio di un percorso trattamentale che ha funzionato perché ha avuto come fondamento l’idea che la finalità della pena deve recuperare il detenuto. Purtroppo però nella maggior parte delle strutture non funziona così. Eppure ci sono sistemi diversi e possibili che applicano i principi indicati dalla nostra Costituzione a partire dal ruolo del penitenziario che deve essere quello di responsabilizzare il detenuto e non di infatilizzarlo”. Sulla riforma Cartabia una pioggia di menzogne (e malizie) scatenata da pm e media faziosi di Alessandro Barbano Il Dubbio, 17 gennaio 2023 “Ladri impuniti”, ma a cadere è al più la misura cautelare. “Mafiosi legalizzati”: palesemente falso. Il solito “pestaggio” giustizialista. La manina nascosta, la velina velenosa, la gran cassa che amplifica senza discernimento, l’agente incursore nei talk, i mazzieri della menzogna negli editoriali dei quotidiani più faziosi, e la riforma della giustizia diventa una vergogna nazionale, di cui indignarsi. Missione compiuta. Il giustizialismo di lotta e di governo ha colpito all’unisono, dimostrando quanto fragile e incerta sia, nella politica e nel giornalismo allo stesso modo, la cultura delle garanzie e l’accertamento della veridicità dei fatti. La prima mossa è una notizia confezionata chiavi in mano: riferisce che la mancanza della querela fa impuniti ladri, sequestratori e picchiatori. Chi, e come, la faccia giungere alle redazioni dei giornali è un mistero. Però viene rilanciata, com’è costume dei tempi, senza alcun fact checking. In realtà la riforma Cartabia ha esteso la procedibilità a querela per le ipotesi meno gravi di alcuni reati, tra cui violenza privata, furto non in casa, sequestro di persona semplice e lesioni personali, puniti dal legislatore con sei mesi o poche settimane nel minimo. Negli ultimi quarant’anni è accaduto quattro volte, nel 1981, nel 1999, nel 2018 e adesso, sempre con lo stesso obiettivo: consentire alla macchina della giustizia di concentrare le proprie risorse sui delitti più pericolosi. Tra il 2015 e il 2021 trentuno mila furti sono andati impuniti per “particolare tenuità del fatto”, riconosciuta in primo o in secondo grado dopo anni e anni di udienze. La riforma si propone di evitare il processo tutte le volte in cui l’interesse della vittima viene meno, o perché risarcita o perché disinteressata. La querela rimette l’azione penale in connessione con l’offensività del reato, cioè con la concreta lesione di un bene giuridico. La quale, nel caso del furto, è il danno subito per la sottrazione della cosa. La misura di questo non può prescindere dalla rappresentazione che la vittima esprime del fatto con una manifestazione di volontà. Non si può qualificare il furto senza una percezione soggettiva della sottrazione della cosa, o il sequestro di persona senza una percezione soggettiva della compressione della propria libertà, fuori dai casi in cui possa ravvisarvi una violenza che coarta all’inerzia la volontà della vittima. In questo senso la querela riporta la fattispecie in asse con i principi di un diritto penale liberale. Senonché a Jesolo due ladri, pizzicati a rubare in un hotel, vengono scarcerati perché il titolare è un oligarca russo, che non è nella condizione di presentare querela. A Vicenza la storia si ripete con una società di noleggio, il cui rappresentante legale è assente. Ciò che viene meno è l’arresto in flagranza, non certo l’azione penale nei confronti degli autori, la quale si ferma dinanzi all’improcedibilità solo se entro tre mesi la querela non giunge. Eppure gli allarmi che connotano queste notizie parlano d’impunità. Sarà per il malinteso senso della sanzione penale, che ormai nella percezione collettiva coincide con la custodia cautelare. “Se proprio la si volesse disporre - spiega ai giornali il giurista Gian Luigi Gatta, già consigliere di Marta Cartabia - basterebbe prevedere che la querela giungesse nelle 48 ore che passano tra il fermo del pm e la convalida del gip”. Ma è più utile gridare all’impunità e dire, come fa il prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto, che “la riforma Cartabia fa solo gli interessi dei delinquenti. Mi auguro che finisca in soffitta”. Può un rappresentante del governo attaccare una legge del Parlamento senza subire alcuna conseguenza disciplinare? La risposta è sì. Può farlo perché la nostra ha smesso di essere una democrazia parlamentare per somigliare a uno Stato di polizia. Dove i poliziotti sono irresponsabili non solo per quello che fanno, ma anche per quello che dicono. Prendete il super poliziotto Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro e oracolo di molti talk televisivi, dove sdottoreggia senza contraddittorio sullo scibile umano, sollecitato da giornalisti compiacenti. Dopo aver detto che il governo Draghi ha fatto disastri nella lotta alla mafia, adesso fa l’agente incursore contro la riforma Cartabia: “È un disastro - ripete -, non degno di un Paese civile”. E rilancia la confusione tra mancati arresti e impunità, arrivando a sostenere che da oggi in poi i ladri aggrediranno i beni degli stranieri, lontani dall’Italia, essendo certi di farla franca. L’artificio dialettico del magistrato è una sineddoche: si racconta una parte, del tutto residuale ed eccezionale, per il tutto, allo scopo di demolire il tutto. Ma al peggio non c’è fine. “Riforma Cartabia, il caso scarcerazioni: a Palermo salvi tre boss, nessuno denuncia”, recita il titolo di un grande quotidiano. In realtà è accaduto che, sollecitati da un imprenditore che subiva di continuo assalti nei suoi negozi, i tre mafiosi abbiamo individuato, sequestrato e picchiato gli autori delle rapine, ottenendo da questi anche la promessa di restituire quanto portato via dalla cassa. Per questo sono stati condannati rispettivamente a sedici, tredici e cinque anni di carcere. La mancata querela delle vittime, indotta dalla paura, fa cadere la meno grave accusa di sequestro. Ma nessuna scarcerazione è mai avvenuta, né mai avverrà. Perché gli imputati rispondono, come normalmente accade in contesti mafiosi, anche dei reati tipici della criminalità organizzata, che erano e restano - anche dopo la riforma - procedibili d’ufficio: associazione mafiosa ed estorsione. È del tutto improbabile che un mafioso a cui è contestato un reato comune e non grave (sequestro di persona semplice, lesioni personali lievi) non abbia a suo carico anche i classici e più gravi reati di criminalità organizzata, come l’associazione per delinquere semplice e di tipo mafioso, l’estorsione, l’usura, il sequestro di persona a scopo di estorsione, l’omicidio, le lesioni personali, anche lievi, commesse da più persone (anche solo due), oppure con armi. Tutti reati che erano e restano procedibili d’ufficio. In ogni caso il governo ha rinviato la riforma di due mesi per correggere eventuali criticità. Se queste c’erano, sia pure nell’ipotesi di casi eccezionali, c’è da chiedersi perché non abbia adempiuto prima al suo impegno. Avrebbe evitato di dare ai mazzieri della menzogna l’occasione di gridare all’impunità e di lanciare l’allarme inesistente di un’ondata di scarcerazioni, chiedendo, come fa Marco Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, un esame psichiatrico per quei magistrati che, come Carlo Nordio, “vanno in pensione e poi diventano ministri della Giustizia”. Gli fa eco Maurizio Belpietro su “La Verità”: “Con la riforma Cartabia - scrive - delinquenti subito liberi”. Il disegno occulto non si vede ma c’è. Marta Cartabia ha tolto il microfono dalle mani dei procuratori showman, riaffermando la presunzione di innocenza per gli indagati, ha staccato la spina della prescrizione “sine die”, ha chiamato i pm alla responsabilità con un primo abbozzo di valutazione e imponendo loro un giudizio di probabilità di condanna su chi portano a processo, ha cercato di svuotare il buco nero delle carceri, simboli del totalitarismo giudiziario. Nordio ha detto di voler rendere tassativo il codice penale, compiuti il rito accusatorio e la separazione delle carriere, inappellabili le sentenze di assoluzione di primo grado, inservibili le intercettazioni come mezzo di gogna giudiziaria. Ce n’è quanto basta per metterli entrambi alla gogna, da destra e da sinistra, dai giornali e dai talk, dai giudici e dai prefetti. Il partito dello sfascio non ha colore né ideologia, ma una concrezione di poteri, pregiudizi e interessi diversi che si tengono insieme. I suoi protagonisti, palesi e nascosti, non hanno bisogno di consultarsi, perché difendono tutti la stessa ditta, a danno del Paese e della sua necessità di cambiare. C’è un solo filtro che potrebbe fermare il loro assalto alla democrazia liberale: un giornalismo non supino, ma indipendente, capace di sottrarsi al fascino dell’emergenza. È merce rara. Nordio sulle intercettazioni: “Sono indispensabili nella lotta alla mafia ma impedirne l’abuso per i reati minori” di Liana Milella La Repubblica, 17 gennaio 2023 Dopo la cattura di Messina Denaro, “grande successo governo centrodestra” per il Guardasigilli, si apre il caso per le parole del capo dei pm di Palermo. Nella riforma della giustizia del ministro verrebbero mantenute quasi esclusivamente per mafia e terrorismo. “Le intercettazioni sono assolutamente indispensabili nella lotta contro la mafia e il terrorismo. Sono fondamentali per la ricerca della prova e per comprendere i movimenti di persone pericolose. Però bisogna cambiare radicalmente l’abuso che se ne fa per i reati minori con conseguente diffusione sulla stampa di segreti individuali e intimi che non hanno niente a che fare con le indagini”. Dopo l’arresto del super latitante Matteo Messina Denaro, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in diretta su Radio 24, parla di intercettazioni, al centro della riforma della giustizia in cui verrebbero mantenute quasi esclusivamente per reati di mafia e terrorismo. Un’opzione che ha già provocato tensioni e polemiche con i magistrati. E ancora. Per il ministro, le intercettazioni “sono elementi fondamentali per la ricerca della prova e sono ancora più fondamentali per comprendere i movimenti delle persone. Ma è chiaro che i mafiosi - ha proseguito Nordio - non parlano per telefono dei loro programmi criminosi, le intercettazioni servono ovviamente per capire con chi parlano, come si muovono e quali siano le loro problematiche. Ad esempio in questo caso si è capito che parlando di una malattia molto grave si poteva risalire ad un luogo di cura e così pare sia stato fatto”. Il caso si è aperto ieri dopo le parole del procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia, in conferenza stampa sulla cattura di Matteo Messina Denaro. “Senza intercettazioni non si possono fare le indagini di mafia. Sono uno strumento indispensabile e irrinunciabile nel contrasto alla criminalità organizzata e alla mafia”, ha detto il capo dei pm. Poco dopo è arrivato anche il commento di Giorgia Meloni: “Le intercettazioni - per come sono utilizzate per i procedimenti di mafia - sono fondamentali. Uno strumento di indagine di cui non si può fare a meno. Per questo genere di reati nessuno le ha mai messe in discussione”. Sulla cattura del super boss latitante da 30 anni, il Guardasigilli ha detto: “È illusorio pensare che la mafia possa essere vinta perché si arresta qualche boss, anche il più pericoloso. È un fenomeno che va combattuto con un arsenale di armi e con una rivoluzione copernicana culturale”. Nella lotta alla mafia “si devono coniugare tecnologie, e di questo fanno parte sicuramente le intercettazioni, e il metodo Falcone: una continua ininterrotta analisi di dati finanziari, movimenti di denari, pedinamento e controllo che non può mai essere interrotto”, ha continuato parlando a Radio 24. Per ministro del governo Meloni, poi, l’arresto di Messina Denaro è “un grande successo dell’esecutivo di centrodestra”. Su alcuni giornali, ha commentato ancora, si leggono “sibili di rancore” da parte di chi “non si rassegna al fatto che questa grandissima operazione sia stata operata da un governo di centrodestra. Dopo aver lamentato una inerzia di questo governo nei confronti della lotta alla mafia arriva un successo straordinario”. Nordio dunque resta fermo sulla sua posizione. E le reazioni non mancano. “L’unico strumento che si utilizza per la mafia sono intercettazioni e collaboratori di giustizia. Quando si indebolisce l’uno e l’altro è evidente che si indebolisce tutta la lotta - ha detto Federico Cafiero de Raho, parlamentare del M5S, ad Agorà Rai Tre - Le intercettazioni il più delle volte non nascono per il contrasto alle mafie. Alle mafie si arriva dopo. Perché le intercettazioni partono dalla corruzione e da altri reati e sviluppandosi su questo binario poi arrivano a tutto quello che c’è dietro”. La capogruppo del Movimento 5 Stelle in Senato Barbara Floridia ha ricordato che poche settimane il ministro della Giustizia, ospite de “L’aria che tira” su La7, “diceva con assoluta sicumera che ‘i mafiosi non parlano al telefono’, per giustificare l’attacco alle intercettazioni. Oggi invece lo stesso Nordio fa sapere che ‘le intercettazioni sono indispensabili per il terrorismo e la mafia’. È questo il livello del governo targato Giorgia Meloni: su argomenti decisivi per la vita dei cittadini e del Paese cambiano idea come le stagioni fino a smentire addirittura se stessi”. Quando la violenza è delle istituzioni: il servizio sociale può ridurre il rischio di maltrattamento di Gianmario Gazzi huffingtonpost.it, 17 gennaio 2023 Dalla scuola Diaz alla morte di Stefano Cucchi, dal Forteto alle carceri sovraffollate. Ma anche le sentenze che non arrivano mai e la colpevolizzazione delle vittime: l’iniziativa di quarantaseimila assistenti sociali per fare in modo che tutti possano accedere ai propri diritti. È intuitiva la differenza tra diritto e concessione. Quando sentiamo parlare di concessioni, soprattutto nei tg, sui giornali, sui nuovi media, pensiamo alle infrastrutture autostradali, a quelle radiotelevisive o ultimamente a quelle balneari. Concedere, guardando il dizionario, vuol dire “dare, per grazia, per favore, per generosità, qualcosa”. La concessione, quindi, è un atto evidentemente legato al potere dello Stato e della sua amministrazione. Però, se spostiamo il punto di osservazione, c’è l’altro lato della medaglia “il diritto”. Non una concessione, soprattutto se parliamo di quelli civili, di sicurezza e di salute. Sono sanciti nella nostra Carta costituzionale. Lo Stato ne regola l’erogazione, le organizzazioni e le responsabilità correlate, ma è il suo scopo garantirli. Quando si perde questo quadro generale, quando le componenti della Repubblica si dimenticano che non è un favore quello che fanno, ma un preciso dovere, ecco che ci troviamo nel terreno ideale per il maltrattamento istituzionale, la violenza di Stato per l’oppressione di molti. Maltrattamento e violenza istituzionale, oppressione o soppressione dei diritti, sono molto più frequenti di quanto pensiamo. Ne abbiamo visti molti aberranti, dalla scuola Diaz alla morte di Stefano Cucchi, dal Forteto alle numerose strutture lager dove persone non autosufficienti sono state recluse e maltrattate sino alla morte, dalle carceri sovraffollate alle file infinite per il permesso di soggiorno, dalle sentenze che non arrivano mai alla colpevolizzazione delle vittime. Tutte storie di uno Stato incapace di gestire il proprio potere, distratto o colpevole. Insieme a queste però ce ne sono molte più sottili, meno evidenti, striscianti. Sono violenze da ignoranza, quella dei diversi legislatori che - più o meno consapevolmente - dimenticano pezzi interi di umanità producendo norme capestro che impediscono di accedere ai diritti. Ancora sono violente le scelte di ignorare fasce intere di bisogni dando briciole del bilancio per la salute e il benessere dei minorenni, per esempio. Focalizzarsi solo su questo sarebbe qualunquista, a ognuno la propria responsabilità. Perché lo Stato non è un’entità astratta o meramente rappresentativa. Lo Stato è composto anche da un apparato, che produce nel concreto queste forme di maltrattamento. Noi assistenti sociali siamo parte del sistema e dobbiamo contrastare queste forme di discriminazione e di oppressione. Dobbiamo fare in modo che tutti possano accedere ai propri diritti sociali e civili, aiutare chi è in difficoltà a uscire da quella condizione. Dobbiamo contribuire alla realizzazione concreta dell’articolo 3 della Costituzione così fortemente richiamato a fine anno dal presidente Mattarella. Noi ci proviamo, ma non sempre siamo in condizione di farlo al meglio. Sbagliamo per tanti motivi e situazioni, ma non possono essere giustificazioni. Tutti sbagliano, ma i professionisti - noi per primi - devono essere consapevoli che hanno più responsabilità di altri. Il tema del potere nelle professioni è spesso rimosso, ma come Ordine abbiamo deciso di accendere un faro su ciò che facciamo e soprattutto sul come. Abbiamo deciso, con una conferenza nazionale a Firenze il prossimo 20 gennaio, di ascoltare storie che ci toccano profondamente come persone, cittadini e professionisti. Vogliamo aprire un dibattito su come il servizio sociale può ridurre il rischio di maltrattamento, ripensare strumenti e organizzazioni per non essere strumento oppressivo, ma fattore di vero cambiamento e promozione per le comunità. Non è mai semplice prendersi le responsabilità di decidere, di intervenire o meno, ma nessuno di noi si deve sottrarre dall’evidente necessità di riflettere e approfondire, di accettare gli errori fatti e provare a riparare. Quarantaseimila assistenti sociali vogliono farlo, provano a migliorare e a riconoscere cosa possono fare per essere dalla parte di chi è più debole, ci proviamo. Speriamo di non essere i soli a intraprendere questo percorso. Carceri, tribunali, comunità: quando lo stato diventa nemico di Barbara Rosina* Il Riformista, 17 gennaio 2023 Il 20 gennaio a Firenze la conferenza dell’Ordine assistenti sociali contro la “violenza istituzionale”. La Riforma Cartabia è sotto accusa. In questi giorni i media si occupano di giustizia perché c’è il rischio della probabile revoca di misure cautelari per reati procedibili a querela. Oggi si parla di carcere perché qualche boss potrebbe uscirne o non entrarci, ma, a meno di suicidi, pestaggi, rivolte, morti… l’occhio distratto dell’informazione - con le necessarie eccezioni - guarda altrove. Giustizia, carcere, ma anche aule di tribunali, questure, uffici, dipartimenti di salute mentale, servizi sociali. Luoghi dove chi ti dovrebbe proteggere ti colpisce, dove una vittima diventa colpevole, dove l’Autorità fa ingiustizia. Parliamo di violenza istituzionale, parliamo di Stato nemico e ne parliamo noi, assistenti sociali, non per puntare il dito contro gli altri, ma perché in tanti, dai giudici, agli avvocati, dalle forze dell’ordine agli impiegati, ai medici, ai professionisti, dobbiamo capire e cambiare. Perché dobbiamo riflettere e discutere per non commettere, mai, mai, nessun errore sulla pelle dei più vulnerabili. Lo facciamo con la nostra quarta conferenza nazionale - dopo “Povertà ed esclusione”, “Lavoro e dignità”, “Periferie umane e materiali - il prossimo 20 gennaio a Firenze dove insieme a specialisti e politici cercheremo di dare le risposte a quegli “esperti per esperienza” che ci hanno suggerito priorità e proposte contro la “Violenza istituzionale”. Abbiamo scelto Firenze perché quando parliamo di Stato nemico, non vogliamo dimenticare che proprio nel territorio toscano era presente la comunità del Forteto dove molte persone affidate per ragioni di cura e sostegno, sono state maltrattate e abusate per decenni. Le inchieste hanno fatto emergere non soltanto fatti delittuosi, ma anche i comportamenti negligenti di chi doveva vigilare; un clima di paura e timore che per persone che avevano subito nella vita vicende familiari difficili e che il Forteto aveva aggravato. È questa una vicenda che ha doverosamente creato interrogativi anche sul funzionamento di alcuni uffici giudiziari, sul comportamento di magistrati, sugli organi della pubblica amministrazione competenti in materia di tutela dei soggetti più deboli, sull’organizzazione dei servizi territoriali di assistenza ai minori, sui sistemi di decisione e controllo. Ma Firenze chiama Italia con le carceri sovraffollate (107,7% il dato ufficiale); con il record di suicidi in cella (84 nel 2022, dati Antigone), la metà delle persone che si sono tolte la vita era in attesa di giudizio; con la violenza, fino alla morte di detenuti; con la trasformazione delle vittime in colpevoli nelle aule dei tribunali attraverso magistrati, avvocati, consulenti tecnici; con i sette mesi per avere un permesso di soggiorno e i sei anni di media per la conclusione di un processo… Come assistenti sociali non abbiamo voce su molte delle violenze elencate, ma siamo nei luoghi dove queste si commettono ogni giorno, spesso senza che nessuno se ne accorga o ne parli. Conosciamo bambine e bambini, adolescenti, donne, migranti, persone private della libertà o con problemi di dipendenza. Per questo, dopo averne parlato con chi queste ferite le vede sulla propria pelle, chiediamo riunioni all’interno di carceri, ospedali, comunità, per migliorare la condizione di persone con problemi di tossicodipendenza; un programmazione nazionale di interventi nel rispetto delle leggi 833 e 180, delle indicazioni dell’Oms, della convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e fragilità; l’attuazione, a livello nazionale e con il sostegno della politica, di un piano di sensibilizzazione e informazione sulla violenza istituzionale. Noi tutti dobbiamo essere richiamati a chiare responsabilità quando non interveniamo dove dovremmo, quando non coinvolgiamo le persone nelle decisioni, quando avalliamo una politica pubblica che non promuove e non è orientata ai diritti. Respingendo strumentalizzazioni, giudizi sommari, criminalizzazione della professione per biechi interessi politici - non dimentichiamo Bibbiano - condanniamo chi sbaglia e lavoriamo per comprendere gli errori commessi e non farne mai più. Prima delle riforme del Pnrr, prima degli interventi della Corte Europea dei Diritti umani, ci sono ministri, parlamentari, magistrati, avvocati, forze dell’ordine, assistenti sociali, professionisti vari che possono e devono fare la differenza. Tutti, nessuno escluso. Perché lo Stato - in ogni sua forma - non sia un nemico. *Vicepresidente Consiglio Nazionale Ordine Assistenti sociali Salvate l’amministratore pubblico dal reato di abuso d’ufficio di Cristiano Cupelli* Il Foglio, 17 gennaio 2023 Necessario un intervento legislativo. Perché troppo spesso i funzionari pubblici non prendono decisioni che pur ritengono utili per timore. Ma l’abolizione non è una scelta conveniente. Sono le statistiche a supportare l’esigenza di tornare a occuparsi dell’abuso d’ufficio. Il dato che, pur a fronte di un numero elevatissimo di iscrizioni, solo il 3 per cento di queste si trasforma in sentenze di condanna, rende ineludibile un nuovo e ulteriore intervento legislativo diretto a circoscrivere il rischio di un coinvolgimento generalizzato, in sede penale, dei pubblici amministratori. Non vi sono parole più nitide, in questo senso, di quelle pronunciate un anno fa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 8 del 2022; qui, cogliendo nelle slabbrature interpretative dell’art. 323 c.p. operate in sede giurisprudenziale “una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come burocrazia difensiva”, nella quale “i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta ‘paura della firma’)”, si è infatti ben messo in luce che “il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un ‘effetto di raffreddamento’, che induce il funzionario a imboccare la via per sé più rassicurante”, con inevitabili “riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati”. Quali i contorni dell’auspicato intervento? Da più parti e autorevolmente si invoca l’abrogazione secca dell’art. 323 c.p., così da elidere alla radice qualunque tentazione di reinterpretazioni del potere giudiziario, che in questi anni sembra avere sempre trovato il modo di vanificare gli sforzi del legislatore riallargando i margini applicativi della fattispecie (è ciò che è avvenuto soprattutto con la riforma del 1997, che per la prima volta ha definito le modalità della condotta abusiva). Senonché, la scelta più radicale per un verso rischierebbe di provocare una paradossale riespansione di altre fattispecie punite più gravemente (quali il peculato per distrazione e la turbata libertà degli incanti o del procedimento) e, per altro verso, si esporrebbe a vizi di costituzionalità (il cui sindacato, pur se potenzialmente foriero di effetti in malam partem, è ormai ritenuto ammissibile), tanto per contrasto con l’art. 117 Cost. (violazione degli obblighi internazionali che impongono una penalizzazione di condotte abusive: art. 19 della Convenzione di Merida, ratificata dal nostro paese con la legge n. 116 del 2009), quanto perché, lasciando “scoperte” ipotesi di strumentalizzazione a danno della pubblica amministrazione, creerebbe vere e proprie “zone franche” dell’ordinamento. Resta la strada di una riformulazione dell’art. 323 c.p., che muova dalla presa d’atto di come, nelle riforme del passato, si sia scelto, punendo le sole violazioni formali di norme di legge, di limitare il sindacato del giudice all’attività vincolata della pubblica amministrazione, appiattendo l’area di responsabilità penale su illegittimità di carattere amministrativo ed esponendo i pubblici funzionari a facili contestazioni dei pubblici ministeri. Occorrerebbe un cambio di paradigma: recuperare l’essenza del concetto di “abuso” (ormai evocato solo nella rubrica dell’art. 323 c.p.), sforzandosi di tipizzare ipotesi di reale sfruttamento privato dell’ufficio, nelle quali cioè il pubblico amministratore abbia realizzato una distorsione funzionale dell’azione amministrativa, a fini privati o di danno, tracciando il perimetro della condotta rilevante all’interno di un indebito utilizzo a fini privati dell’ufficio caratterizzato dalla contrapposizione tra interesse privato e pubblico che mini l’imparzialità. *Professore ordinario di Diritto penale Università di Roma Tor Vergata Elezioni Csm, alle 16 Camere riunite per votare i dieci “laici” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2023 286 candidati, ma l’intesa tra i partiti non c’è ancora. Verso la fumata nera. I nuovi consiglieri dovranno essere scelti tra professori universitari ordinari in materie giuridiche e avvocati con almeno 15 anni di esercizio: serve la maggioranza dei tre quinti dei componenti. L’intesa tra i partiti però è ancora lontana: quasi sicuramente l’elezione non arriverà alla prima seduta. I candidati sono 286, ma i nomi “veri” potrebbero essere ancora coperti. La tentazione del centrodestra: schierare l’asse con Renzi e Calenda e fare “cappotto”. L’esordio delle nuove Camere riunite è fissato alle 16. Lo scopo è eleggere i dieci membri laici del prossimo Csm (Consiglio superiore della magistratura) l’organo costituzionale che decide su nomine, trasferimenti e sanzioni disciplinari di giudici e pm. L’incombenza è già stata rimandata per due volte: nella scorsa legislatura il Parlamento in seduta comune era stato convocato per mercoledì 21 settembre, subito dopo l’elezione dei venti membri “togati” da parte dei magistrati, tenuta il 18 e 19. Poi però lo scioglimento delle assemblee, dovuto alla caduta del governo Draghi, ha costretto a rimandare la pratica: da ormai quattro mesi il vecchio Consiglio (funestato dal caso Palamara) opera dunque in regime di prorogatio, cioè continua a gestire le pratiche pur essendo formalmente scaduto. Anche una successiva convocazione, al 13 dicembre, è stata fatta saltare per non rubare tempo prezioso all’approvazione della legge di bilancio. L’appuntamento definitivo, dunque, è stato fissato a martedì 17 gennaio: il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha già informato che in caso di “fumata nera” deputati e senatori saranno riconvocati a oltranza ogni settimana. E un certo pressing per non ritardare ulteriormente l’elezione è arrivata anche dal capo dello Stato Sergio Mattarella, che è presidente di diritto del Csm. Come sempre, i nuovi consiglieri laici dovranno essere scelti tra professori universitari ordinari in materie giuridiche e avvocati con almeno 15 anni di esercizio. Come sempre lo scrutinio sarà segreto e per l’elezione servirà la maggioranza dei tre quinti dei componenti. Ma quest’elezione è un inedito sotto almeno tre punti di vista: è la prima volta che il Csm viene eletto dalle Camere ridotte dopo il taglio dei parlamentari, la prima volta che i laici da scegliere sono dieci e non più otto (novità della riforma dell’ex ministra Marta Cartabia) e la prima volta (altro effetto della riforma) che le candidature devono essere formalizzate prima del voto. Così, nelle ultime settimane, il dibattito sul tema è stato monopolizzato dai nomi sempre nuovi che si sono aggiunti alla lista degli aspiranti consiglieri, consultabile sul sito della Camera. Chi ha i requisiti poteva candidarsi direttamente con una pec: in alternativa, i nomi potevano essere presentati da un minimo di dieci parlamentari, appartenenti ad almeno due diversi gruppi. Alle 10 di lunedì 16 gennaio (termine ultimo per autocandidarsi) i nominativi nell’elenco sono 286, di cui soltanto tre proposti dai partiti. Ma per le candidature di origine parlamentare c’è tempo ancora fino alle 10 di martedì. L’intesa tra le forze politiche però è ancora lontana: quasi sicuramente l’elezione non arriverà alla prima seduta. Il primo nodo da sciogliere è il numero di laici che spettano a ciascun partito: l’ipotesi più accreditata è che la maggioranza ne tenga per sé sette, di cui tre in quota FdI e due ciascuno a Forza Italia e alla Lega. In questo modo ai tre maggiori partiti di opposizione (Pd, M5s e Azione-Iv) ne spetterebbe uno ciascuno. Ma c’è chi pensa che il centrodestra abbia in mente di schierare ancora una volta il collaudato asse con il partito di Matteo Renzi e Carlo Calenda, che garantirebbe il quorum dei tre quinti e la possibilità di fare cappotto dividendosi l’intera torta. Scorrendo l’elenco dei candidati, e al netto dei nomi ancora “coperti”, si nota già qualche profilo papabile, a partire dalle tre proposte dei partiti. Forza Italia schiera l’ex senatore Enrico Aimi, Fratelli d’Italia il presidente della Fondazione Alleanza Nazionale Giuseppe Valentino (per lui si parla di un possibile ruolo da vicepresidente, il capo di fatto dell’organo), mentre la Lega sembra puntare su Fabio Pinelli, già avvocato di Luca Morisi e di Armando Siri. Tra gli autocandidati ci sono vari docenti universitari di area Pd: Marilisa D’Amico (Milano), Roberto Romboli (Pisa), Riccardo Ferrante (Genova), Luigi Pannarale (Bari). Ma anche un leghista, l’ex senatore Francesco Urraro, che da mesi è descritto come la prima scelta del Carroccio. E nomi importanti di ex parlamentari azzurri: su tutti Gaetano Pecorella, ex avvocato di Berlusconi, poi Luigi Vitali, Roberto Cassinelli, Ciro Falanga. Senza dimenticare l’ex presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Se non sarà decisivo, il voto di oggi aiuterà certamente a capirne di più. L’arresto di Messina Denaro è un duro colpo per la mafia. Ma anche per il circo mediatico-giudiziario di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 gennaio 2023 Sono trent’anni che una certa parte dell’informazione, ostaggio di una incessante trattativa fra giornalisti e magistrati, accusa lo stato di essere colluso. E sono trent’anni, invece, che lo stato non perde occasione, come ieri, di tagliare sempre più tentacoli a un mostro osceno di nome Cosa nostra Ha vinto l’Antimafia dei fatti, ha perso l’antimafia delle chiacchiere. Sono trent’anni che il circo mediatico-giudiziario accusa lo stato di essere colluso con la mafia. Sono trent’anni che il circo mediatico-giudiziario accusa i partiti, soprattutto quello di destra, di essere in trattativa con la mafia. Sono trent’anni che il circo mediatico-giudiziario accusa i Carabinieri del Ros di essere i terminali della suddetta trattativa. E sono trent’anni che l’antimafia delle chiacchiere tenta con successo di affermare una falsa verità smentita ieri ancora una volta dall’Antimafia dei fatti con l’arresto di Matteo Messina Denaro dopo trent’anni di latitanza. E la falsa verità è quella che purtroppo abbiamo tutti nelle nostre orecchie. La mafia è ovunque. La mafia imperversa. La mafia sta vincendo. La mafia non si ferma. E la vera ragione per cui da anni si è fermata la stagione delle stragi e dei delitti eccellenti non è legata al fatto che la cupola stragista e sanguinaria sia stata sgominata dall’iniziativa dello stato ma deriva dal fatto che da trent’anni lo stato ha intessuto con Cosa nostra un patto indicibile grazie al quale la mafia comanda l’Italia senza dare troppo nell’occhio. Sono trent’anni che il circo mediatico-giudiziario accusa lo stato di essere colluso con la mafia e sono trent’anni che lo stato dimostra con la forza dei fatti che lo stato colluso con la mafia non fa altro da trent’anni che smantellare colpo su colpo ciò che resta di Cosa nostra. E così l’arresto di Matteo Messina Denaro arriva trent’anni dopo l’arresto di Totò Riina. Arresto che arrivò nello stesso anno della cattura di Nitto Santapaola. Arresto che seguì la cattura dei fratelli Graviano. Arresto che precedette la cattura di Leoluca Bagarella e di Giovanni Brusca. E poi, ancora, Bernardo Provenzano, Salvatore Lo Piccolo, Gianni Nicchi e tutti gli altri boss arrestati tra il 2005 e il 2016 nell’ambito di alcune grandi operazioni passate alla storia (nel 2005, l’operazione Grande mandamento ha portato in carcere 49 mafiosi, nel 2008 l’operazione “Perseo” ha portato in carcere altri 79 mafiosi, nel 2016 l’operazione Villagrazia, borgata ad altissima densità mafiosa, ha portato all’arresto di altri 62 mafiosi). Sono trent’anni che lo stato ha dimostrato di essere più forte della mafia e sono trent’anni che i professionisti dell’antimafia tendono a descrivere coloro che la mafia sono riusciti a sconfiggerla come se questi fossero dei criminali pericolosi corrotti dal potere della malavita. I Carabinieri che arrestano i mafiosi sbagliano perché quei boss si potevano arrestare prima. Lo stato che demolisce le cosche sbaglia perché le cosche hanno avuto il tempo di prosperare. E la mafia che non spara più come un tempo non è un segno di uno stato che vince ma è ovviamente il segno che la mafia è più forte. Sono trent’anni che lo stato, e la politica di ogni colore, ottiene risultati contro la mafia e sono trent’anni che il circo mediatico-giudiziario non perde occasione per dire che la mafia è più forte che mai per colpa anche della politica, soprattutto quella di destra, che con la mafia, come ci raccontano alcuni talk-show da trent’anni, è collusa fino al midollo. Sarebbe ovviamente da sciocchi credere che l’arresto di Matteo Messina Denaro possa avere una qualche forma di colore politico. Ma sarebbe altrettanto da sciocchi non accorgersi di quanta demagogia tossica vi sia nelle parole di chi periodicamente, come il compagno Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, ora senatore del M5s, tende ad associare la traiettoria del centrodestra con quella della criminalità. È anche grazie al centrodestra che oggi lo stato ha la possibilità di avere un 41 bis più stabile di un tempo ed è anche grazie al centrodestra che lo stato oggi ha a disposizione un sistema che permette l’estensione del sequestro e della confisca dei beni mafiosi o di provenienza illecita. Il nostro amato Massimo Bordin, nel maggio del 2017, sulle pagine di questo giornale ragionò sul tema dell’antimafia con la memoria corta e offrì una considerazione che vale la pena di riproporre. La mafia, ricordò Bordin, resta ovviamente un grave problema per l’Italia, ma se si finisce per essere tacciati di “negazionismo” quando se ne segnalano le sconfitte vuol dire molto semplicemente che l’antimafia della fuffa e delle chiacchiere ha cominciato a pesare nell’opinione pubblica più dell’Antimafia dei fatti e degli arresti. E se c’è un negazionismo vero, oggi in Italia, quando si parla di giustizia, il negazionismo è quello di chi di fronte a un arresto eclatante, come quello di Matteo Messina Denaro, pensa a un modo per negare l’evidenza piuttosto che a riconoscerla. Sono trent’anni che il circo mediatico-giudiziario, ostaggio di una incessante trattativa fra giornalisti e magistrati, accusa lo stato di essere colluso con la mafia. E sono trent’anni, invece, che lo stato accusato di essere colluso con la mafia non perde occasione, come ieri, di tagliare sempre più tentacoli a un mostro osceno di nome Cosa nostra. Ha vinto l’Antimafia dei fatti, ha perso l’antimafia delle chiacchiere. Una vittoria dei Ros che ora imporrebbe il silenzio di chi ha avvelenato i pozzi di Alberto Cisterna Il Dubbio, 17 gennaio 2023 La lunga latitanza del boss di Cosa nostra finisce grazie all’ennesimo gran lavoro del reparto speciale dei carabinieri, dopo decenni di illazioni e sospetti. La guerra dei Trenta anni. Un ciclo si chiude, così come è iniziato, con l’apporto decisivo del Ros dei Carabinieri che, esattamente trenta anni or sono, si fecero carico praticamente da soli di dare la caccia agli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in un paese spaurito e attonito. Praticamente da soli, perché la cattura - il 15 gennaio 1993 - di Salvatore Riina ha rappresentato obiettivamente la Stalingrado dei Corleonesi, ha rinfrancato e dato speranza a una Nazione attonita, ha dato forza a chi aveva pensato con Antonino Caponnetto che tutto fosse finito con l’esplosivo di Capaci e via D’Amelio e che la mafia ormai avesse vinto. È vero, ci sono state ancora le stragi del 1993, il paese e soprattutto alti vertici istituzionali hanno tremato e percepito il vento gelido della morte di mafia scorrere per le strade, ma è ormai chiaro a tutti che la cattura del “capo dei capi” aveva decapitato la piovra e lasciato “cosa nostra” senza il suo epicentro strategico e militare. Da allora solo arresti, sconfitte, decimazioni. Ai carabinieri del Ros, in questi trenta anni, la Nazione o, meglio, lo Stato deve moltissimo e si dovrà pur scandagliare la ragione per cui solo gli uomini del nucleo concepito e voluto dal generale Dalla Chiesa - malgrado tutto - siano stati al centro di indagini, campagne di stampa, processi, teorie complottistiche. E ci si dovrà pur domandare perché solo catture decisive come quella di Salvatore Riina in Sicilia o di Pasquale Condello in Calabria abbiano indotto sospetti, accanimenti, retropensieri. Sarebbe - e ci si augura sarà - il tempo per riscrivere per intero quella storia e di capire cosa non abbia funzionato nelle interlocuzioni tra magistrati e carabinieri e per quale motivo, invece, altre catture siano state sempre innalzate agli onori della cronaca da proni coreuti senza dubbi e domande che erano pur lecite. Succederà anche stavolta forse. Sebbene sia difficile contestare il successo di ieri che ha una portata epocale sul versante della lotta a cosa nostra e che ammutolisce l’intera compagine mafiosa del paese. Se per le strade di Palermo i siciliani onesti hanno applaudito ai militari che ammanettavano Matteo Messina Denaro, nei reparti di massima sicurezza, nelle celle del 41-bis i capi delle cosche di ogni tipo avranno preso atto che lo Stato, alla fine, porta all’incasso i propri conti e non si concede pause o amnesie. Per catturare Bin Laden i corpi speciali americani ci hanno impiegato dieci anni, per mettere le manette ai polsi dell’ultimo capo di “cosa nostra” dell’era stragista ne sono occorsi trenta; un tempo enorme, la maggior parte degli italiani di oggi o non era nata o aveva pochi anni. Eppure tutti percepiscono il successo e dovrebbero comprendere la svolta. Sulla epocale latitanza di Matteo Messina Denaro si sono dette cose per le quali in molti dovrebbero provare vergogna e chiedere scusa oggi. Illazioni, sospetti, dietrologie, l’ennesima cloaca di maleodoranti congetture che ammorbano da tempo la vita pubblica e impediscono una realistica presa d’atto dell’obiettiva rilevanza della forza delle Istituzioni e dei colpi mortali inferti ovunque alle mafie. Nel 1993 un esercito che rischiava di disperdersi e di indietreggiare venne rinfrancato da un manipolo di coraggiosi e di temerari; nel 2013 l’Arma consegna al paese un sonoro ed evidente “mission accomplished”, un chiaro “missione compiuta” che chiude un cerchio e consente alla collettività nazionale di fare finalmente un passo in avanti. Un composto silenzio si imporrebbe a quanti hanno avvelenato i pozzi della storia e hanno di fatto impedito e rallentato di combattere il crimine organizzato nelle sue più moderne dimensioni, solo sfiorate da pochissime indagini. Alla politica il compito di dichiarare chiusa una fase storica di dolore e di sangue. “Declaring victory” è il messaggio da lanciare alla Nazione non perché si abbassi la guardia, ma perché si vadano finalmente a scovare i nuovi epigoni della corruzione mafiosa in santuari scomodi da aprire e dietro porte imbarazzanti da spalancare. Lasciate che i morti seppelliscano i morti e, con essi, le menzogne che hanno generato. Oggi sul sepolcro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e dei tanti altri caduti con loro, soffia una brezza leggera e un raggio di sole riscalda le ossa di chi ha perso la vita per mano delle mafie. L’Aquila, il carcere di massima sicurezza dove è stato portato Messina Denaro: letti saldati e celle sorvegliate 24 ore al giorno di Agostino Gramigna Corriere del Mezzogiorno, 17 gennaio 2023 Alle “Costarelle” 159 detenuti al 41 bis, il maggior numero di tutta Italia. Nella stessa struttura (unica del genere per le donne) anche la brigatista Nadia Desdemona Lioce. Il controllo affidato agli agenti speciali del “Gom”: visite a sorpresa e in tv solo programmi nazionali (per evitare messaggi in codice su canali locali) Con un volo decollato da Palermo, l’areo militare che aveva a bordo Matteo Messina Denaro è atterrato a Pescara verso le 22 di ieri sera. Da lì il boss è stato trasferito (per ora) nel carcere delle Costarelle a L’Aquila. Manca ancora la conferma ma tutto fa pensare che il boss mafioso sia arrivato in nottata a L’Aquila. E il motivo è semplice: la prigione delle Costarelle accoglie il maggior numero di detenuti pericolosi in regime di 41 bis dei circa 760 che sono dislocati nei 12 istituti penitenziari che in Italia garantiscono il “carcere duro”. È qui, per esempio, che è detenuta Nadia Desdemona Lioce la terrorista condannata all’ergastolo per i delitti di Massimo D’Antona e Marco Biagi; e sempre qui che sono stati rinchiusi boss come Leoluca Bagarella, Raffaele Cutolo, Francesco Schiavone (detto “Sandokan”, esponente dei Casalesi) e Felice Maniero, il capo della Mala del Brenta. Assieme ad altri volti noti della criminalità organizzata. Da Filippo Graviano a Carlo Greco e Ignazio Ribisi; da Pasquale Condello ai camorristi Paolo Di Lauro senior e Ferdinando Cesarano. All’Aquila ha fatto tappa in alcune occasioni anche Totò Riina. La capienza- La struttura fu terminata nel 1986 ed entrò in funzione nel 1993, con la dismissione del vecchio carcere cittadino, nel centro storico della città, nell’antico convento adiacente alla chiesa di San Domenico. Ha una capienza regolamentare di circa 150 detenuti che può arrivare fino a 300. Dal 1996 è stata, per così dire, convertita alla funzione di ospitare solo detenuti sottoposti a particolari regimi di sicurezza che alloggiano in celle singole. Il numero di detenuti 41 bis è cresciuto negli anni. Gli attuali 159 non sono trattai come gli altri. Di conseguenza neanche l’organizzazione interna, gli agenti penitenziari e le strutture sono come quelli degli altri carceri. I controlli, ad esempio, sono maggiori e molto più rigorosi. Le telecamere - Tutti i locali sono visionati e monitorati da telecamere. Non c’è angolo della stanza del detenuto che sfugge all’occhio della regia interna, fatta eccezione per il bagno ma solo per ragioni di privacy. C’è una cesura all’entrata e all’uscita, i colloqui del detenuto, una volta al mese, sono video-registrati e ascoltati. La parola d’ordine è: vigilare 24 ore su 24 e il controllo è affidato agli agenti speciali del Gom (Gruppo Operativo Mobile), addestrati proprio per gestire detenuti come i boss di mafia o pericolosi terroristi. I Gom sono un’ottantina, due per ogni carcerato. È come in un gioco a scacchi. I boss sono al corrente del destino che li aspetta, conoscono il regime di controllo del 41 bis. Ce la metteranno tutta per escogitare mosse in grado di eludere la sorveglianza. Gli agenti del Gom sono preparati. I letti saldati - A L’Aquila il controllo alle celle è realizzato piu volte al giorno, a sorpresa. Gli agenti annusano anche i detersivi. I letti sono saldati a terra, le finestre sono fatte in modo da non permettere il contatto con altri detenuti. Tutto l’ambiente della struttura è asettico. Ogni cosa è ridotta all’essenziale. L’Aquila è anche l’unico penitenziario con una sezione femminile in regime 41 bis. Una è la terrorista Lioce, le altre sono moglie di pericolosi boss che avevano ereditato il comando degli affari criminali dopo l’arresto dei mariti (la piu anziana ha 72 anni). Non sono ammessi abiti firmati o tessuti trapuntati (per evitare che possano passare oggetti), è permessa invece la lettura (ma solo di libri messi a disposizione del carcere) e la televisione ma solo i canali nazionali: spesso le tv locali possono trasformarsi in una strategica forma di informazioni per i boss. Sabella: “Un boss spietato, ma va curato come tutti i cittadini” di Riccardo Annibali Il Riformista, 17 gennaio 2023 Ex pm e ora giudice al Tribunale di Napoli, Alfonso Sabella è stato un magistrato in prima linea nella lotta alla mafia. Ha fatto arrestare, fra gli altri, anche nomi illustri come Bagarella, Brusca, Spatuzza e Aglieri. Nel giorno in cui Matteo Messina Denaro è stato assicurato alla giustizia ha ricordato al Riformista come sia fondamentale, in queste occasioni più di ogni altre, che lo Stato sia obbligato a fare la differenza “sia che ci si trovi davanti un criminale o un santo, nel rispetto delle regole e delle garanzie riconosciute. Anche Messina Denaro deve essere tutelato e curato come si compete a qualunque cittadino italiano”. Garanzia alla salute del detenuto, non importa di quali crimini si è macchiato... Ci troviamo di fronte a un criminale responsabile di delitti immondi tra cui anche il sequestro e lo strangolamento del piccolo Di Matteo. Ma lo Stato, qui, marca la differenza con i criminali. Lo Stato si comporta da Stato. Quando ero pm a Palermo ho ottenuto risultati importanti nel contrasto all’ala corleonese a cui Messina Denaro era riconducibile, ma rispettando le regole. Questo è quello che ci rende diversi dagli altri. Questo modus operandi da parte delle forze dell’ordine e della magistratura paga quindi? Quando il nostro Paese era devastato dalle bombe, Falcone e Borsellino ammazzati, l’attentato alla Pinacoteca, bombe alla diocesi del Papa a Roma e i ragazzini uccisi come cani per strada, la tentazione da parte delle forze di polizia e della magistratura di fare qualcosa che andasse oltre ciò che le leggi consentono c’era ed era fortissima. Ma noi ci siamo comportati da Stato. Per questo sono orgoglioso di far parte di questo Paese. Pensa che la voglia di catturare Messina Denaro e sottoporlo a qualche tortura non ci fosse da parte di chi aveva visto i suoi colleghi morire? Da chi aveva pianto i suoi amici uccisi in quelle maniere ignobili? Ma come è possibile che sia resistito tutti questi anni da latitante? Nulla di anomalo. I latitanti si muovono liberamente nei territori di loro pertinenza. Questa è la forza delle organizzazioni di tipo mafioso. Come ricordava a tutti Leoluca Bagarella, che abitava in tutta tranquillità di fronte alla casa dove vivevano i procuratori aggiunti di Palermo: “La presenza è potenza”. Tutto normale. Non è normale che qualcuno riesca a rimanere latitante per trent’anni. È inutile che ci nascondiamo dietro a un dito, è verosimile che Messina Denaro possa aver avuto protezioni all’interno di qualche organo investigativo. C’è anche da dire che ha attuato una strategia di latitanza molto intelligente perché si è rintanato nella provincia di Trapani rinunciando a diventare il capo di Cosa Nostra. Oggi abbiamo arrestato il personaggio più importante, più prestigioso, uno dei vertici assoluti, l’ultimo erede dello stragismo corleonese degli anni 90, ma Cosa Nostra è da diversi anni tornata in mano ai palermitani. Giuseppe Di Lello: “Non era l’ultimo capo, quella mafia non c’è più” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 gennaio 2023 L’ex giudice del pool di Falcone e Borsellino. “Ci hanno raccontato per anni che Messina Denaro aveva chissà quali protezioni planetarie, e poi ieri non c’era neanche un guardaspalle per controllare che la clinica non fosse presidiata”. “Abbiamo dunque un boss che si mette in fila aspettando il suo turno per le cure come un malato qualsiasi; un boss che quando si accorge che qualcosa non va deve cercarsi da solo l’uscita secondaria e che quindi può essere fermato senza che attorno a lui ci siano guardaspalle armati e senza che scatti una rete logistica di protezione; un boss che arriva in clinica senza che nessuno sia andato prima di lui a controllare la situazione, perché altrimenti, com’è successo ieri mattina a molte persone che lo hanno raccontato poi alla televisione, avrebbe visto i carabinieri schierati in anticipo ad aspettarlo”. Giuseppe Di Lello comincia le sue riflessioni su quello che è accaduto ieri a Palermo ripercorrendo le fasi dell’arresto con lo sguardo esperto del cacciatore di mafiosi. Lo ha fatto per anni nel pool antimafia di Antonino Caponnetto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma Di Lello è attento a mettere in guardia dalla costruzione di miti. Quello che è accaduto ieri, spiega, non può essere raccontato come l’improvvisa caduta di un re. Il film della mattina di ieri in via San Lorenzo, a metà strada tra il centro di Palermo e il punto dell’autostrada dove Cosa nostra inaugurò la stagione stragista uccidendo Falcone e la sua scorta, nel trentennale dell’arresto di Totò Riina a opera dello stesso Ros dei Carabinieri che poi per la mancata perquisizione del covo è finito sotto inchiesta, dice Di Lello, “potrebbe essere in astratto compatibile con lo scenario della resa, della consegna allo stato di cui aveva parlato, prevedendola, solo qualche settimana fa il collaboratore Salvatore Baiardo. Ma non c’è bisogno di credere a questa ipotesi estrema. Si può anche più facilmente, adesso, dichiarare sbagliate ed esagerate tutte quelle teorie su Matteo Messina Denaro latitante potentissimo e imprendibile perché assistito da protezioni indicibili, addirittura su scala planetaria”. Dunque non è caduto in trappola “l’ultimo capo di Cosa nostra”, non è stata “tagliata la testa della piovra”? I capi di Cosa nostra, come pure di altre mafie, sono tutti all’ergastolo. Messina Denaro è stato arrestato buon ultimo non perché fosse il capo dei capi ma perché era bravo a nascondersi. La testa della mafia è stata tagliata anni fa, la prova è che in Sicilia non ci sono più morti ammazzati dai mafiosi. Quella mafia lì è stata totalmente sconfitta. Questo arresto - importante, di cui mi rallegro - è il sigillo a una storia già chiusa. Bisognerebbe chiedersi non tanto chi è stato Messina Denaro, anche perché ci sono le sentenze a dirlo, ma chi era adesso. Tu che risposta dai? Non ho gli elementi sufficienti per una risposta completa. Però ricordo bene come qualche anno fa un suo parente si costituì perché non era più in grado di stare dietro alle continue richieste di denaro che il boss gli faceva dalla latitanza. Pare che Messina Denaro chiedesse con insistenza quattro, cinquemila euro pronta cassa. Strano che fosse ridotto così, a non riuscire ad arrivare a fine mese, uno al quale sono stati sequestrati beni e attività per diversi miliardi di euro. Probabilmente il nome di Messina Denaro veniva usato per coprire un giro di ricatti, intimidazioni e minacce più grande di lui. Se non era l’ultimo capo, non sarà sostituito... La mafia che è un’organizzazione territoriale quando ha avuto un vertice, quello stragista dei corleonesi, ha avuto bisogno di una cupola. Che, finiti in carcere i capi, non è stata più ricostituita. Le cronache di qualche tempo fa ci hanno riportato episodi anche patetici di alcuni vecchi boss che volevano sostituire Riina e Provenzano ma ovviamente non ci sono mai riusciti, ricordo che uno di questi aspiranti capi era ridotto alla bombola di ossigeno. Quella mafia non c’è più, ma quella che ancora c’è com’è fatta? Io penso che sia tutta da decifrare. È facile dire che la mafia si è inabissata, come tante volte in passato, che adesso bisogna cercarla nel mondo degli affari, nella corruzione, nei soldi sporchi. Sarà certamente così. Ma starei attento ad applicare troppo facilmente quell’etichetta, a dire che tutto è mafia. Fare confusione non serve. Nino Di Matteo: “Letale dire che lo Stato ha vinto se non si svelano le coperture” di Federico Monga La Stampa, 17 gennaio 2023 Il magistrato dell’inchiesta sulla presunta trattativa: “È stato davvero l’erede di Riina. Ora ci saranno scossoni nelle mafie. Cosa Nostra può colpire ancora il cuore del Paese”. “Oggi è una giornata importante per la lotta alla mafia ma sarebbe letale pensare che lo Stato abbia sconfitto Cosa Nostra”. Il magistrato Nino Di Matteo, noto per l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ha combattuto per una vita la criminalità organizzata siciliana è certo: “È un madornale errore pensare che con l’arresto del boss Matteo Messina Denaro, la mafia sia finita”. Anzi, “la mafia ha ancora la forza per tornare ad attaccare il cuore del nostro Paese”. Quale è il valore di questo arresto? “Viene posta la parola fine alla latitanza di un uomo che è stato condannato definitivamente per le stragi del ‘92 e ‘93 e di altri delitti gravissimi. Un boss crudele”. La politica e il governo sono euforici. Ma si può parlare di una vittoria dopo una latitanza durata 30 anni? “Lo Stato avrà davvero vinto quando avrà approfondito e fatto chiarezza sul come e sul perché sia stata possibile una latitanza così lunga nonostante l’impegno di migliaia di agenti delle forze dell’ordine e di decine di magistrati. Avevamo identikit molto fedeli, Messina Denaro ha vissuto a Palermo, è stato arrestato in una delle cliniche più frequentate della città”. Ha fatto un selfie con il suo medico curante. Che risposta si dà? “È assai probabile che la sua latitanza non sia dovuta solo all’abilità del fuggiasco ma anche alle protezioni di cui ha goduto. Proprio ieri in una sentenza della Corte di Assise di Palermo, a proposito della trattativa Stato-mafia che ha condannato i boss e assolto gli apparati dello Stato, è scritto che per un certo periodo gli alti funzionari del Vecchio Ros avevano coperto Provenzano per interesse nazionale in modo che potesse consolidare la leadership moderata rispetto all’ala stragista. Insomma ci sono sempre state coperture istituzionali. E fino a quando non si chiariranno le coperture e le complicità, allora come ora, non potremo di avere vinto”. Chi è stato Messina Denaro? “Ha avuto un ruolo centrale. Non solo operativo ma strategico negli attentati a Falcone e Borsellino. Per fare un esempio: indicò i monumenti da colpire. Era frutto solo delle sue conoscenze o aveva dei suggeritori?”. Un altro pentito, Salvatore Baiardo, pochi mesi fa ha detto in tv che Messina Denaro era malato e che avrebbe potuto farsi arrestare magari, ha lasciato intendere, se in cambio si discutesse davvero dell’abolizione dell’ergastolo ostativo... “Avevo già notato allora la precisione del suo racconto. Ora si deve fare il possibile per capire come abbia potuto prevedere tutto questo. E soprattutto come e attraverso chi aveva saputo delle condizioni di salute di Messina Denaro”. Quale è stata la forza di Messina Denaro? “È stato un capo particolare. Ha incarnato lo spirito corleonese. È cresciuto con l’esempio del padre Ciccio Messina Denaro ed è stato il preferito, fin da ragazzo, di Riina, ma ha saputo traghettare Cosa Nostra nel nuovo millennio. Ha una storia diversa rispetto ai boss storici. Ha frequentato ambienti nuovi, ha avuto relazioni con donne straniere. Non era il capomafia che ha sempre vissuto nei casolari dell’entroterra siciliano. Ha utilizzato la tecnologia per comunicare, non solo pizzini. Ha aperto le frontiere nuove per investire fuori dalla Sicilia”. È il custode di tanti segreti. Anche dell’agenda rossa di Borsellino e dell’archivio di Riina? “Non sono congetture, ma considerazioni fatte in un certo periodo dai boss e riferite dal pentito Nino Giuffrè, che è stato al vertice di Cosa Nostra. Giuffrè ha sostenuto che Messina Denaro avrebbe utilizzato l’agenda rossa e l’archivio di Riina come arma di pressione e ricatto all’interno e all’esterno di Cosa Nostra”. Si può pentire? “Non lo so. Auspico che, se decidesse di parlare, lo faccia pienamente. Ma anche lo Stato deve fare la sua parte senza avere paura di fare domande e di ascoltare risposte come avvenuto in passato. Messina Denaro non deve aggiungere qualche tassello sulla stragi ma farci capire chi ha voluto gettare nel panico un Paese, con finalità terroristiche”. L’ergastolo ostativo va abolito? “L’abolizione dell’ergastolo ostativo è uno degli obiettivi primari di Cosa Nostra. Il fine pena mai è stato uno dei motivi delle stragi e dei ricatti. Il decreto di questo governo ha evitato che, dopo le sentenze europee e della nostra Consulta, l’abrogazione possa accadere facilmente ma non lo ha escluso in via definitiva”. Questo è un governo che si impegnerà a fondo nella lotta alla mafia? “Me lo auguro. Lo vedremo dai fatti. Non posso però non ricordare che di questo governo fa parte un partito, Forza Italia, fondato anche da Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva per mafia e che, lo dice la stessa sentenza definitiva, il suo leader (Silvio Berlusconi, ndr) ha avuto per anni rapporti economici con uomini di Cosa Nostra protagonisti del periodo stragista”. Chi comanda ora Cosa Nostra? “Messina Denaro era il vero successore di Riina. Adesso non penso che sia facile capire cosa succederà. L’arresto darà uno scossone che creerà un assestamento attorno a nuovo equilibri, non solo nella mafia siciliana”. “Preso a Palermo perché un capo non abbandona il suo territorio” di Antonio Mattone Il Mattino, 17 gennaio 2023 Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino e marito di Lucia, una delle figlie del giudice ucciso dalla mafia corleonese il 19 luglio 1992, come ha saputo della cattura di Messina Denaro? “Ho letto un post scritto da un giornalista palermitano, una persona che stimo e ritengo attendibile e non ho avuto dubbi: la latitanza di Matteo Messina Denaro era finita”. Che giorno è oggi per la famiglia Borsellino? “Oggi è stato un giorno bello ed importante. Siamo felici, commossi ed emozionati. Con la cattura del boss si chiude definitivamente il cerchio sulla mafia corleonese. Un giorno che capita proprio nell’anniversario del nostro matrimonio, non potevamo avere regalo più bello”. Possibile che il boss malato si sia consegnato? “Ritengo che aver catturato l’ultimo rappresentante di quella compagine fedele alla politica di Totò Riina debba costituire per l’Italia intera motivo di enorme soddisfazione. Non è il caso di dar voce a sterili retropensieri. Piuttosto vorrei concentrarmi sulla cattura in quanto tale, sul fatto che stato assicurato alla giustizia un potente capo di Cosa nostra. Non voglio partecipare alle sottovalutazioni e minimizzazioni dello sforzo degli investigatori e dei magistrati che li hanno coordinati”. Colpisce che sia stato preso proprio a Palermo? “La cattura di Messina Denaro nel capoluogo siciliano ha un valore simbolico fondamentale perché un capo che si rispetti non abbandona mai il territorio. Inoltre è stato preso nel pieno esercizio delle sue funzioni. Il messaggio che vuole dare ai suoi accoliti è un messaggio rassicurante: restare a Palermo, con il grande rischio di farsi arrestare è la conferma dello spessore e della statura dell’ultimo dei capi corleonesi. Certamente non gli mancavano i mezzi e le possibilità di farsi curare all’estero, in luoghi più sicuri, ma così avrebbe perso quel prestigio che gli ha permesso protezioni e una latitanza così lunga”. Come stato possibile che boss sia potuto sfuggire alla giustizia per decenni? “Cosa nostra è stata un’organizzazione maledettamente complessa e ramificata. I trent’anni di latitanza possono trovare la loro ragione d’essere in una serie di circostanze: dalla morfologia del territorio alle rigorose regole di compartimentazione che l’organizzazione si dette per fronteggiare il fenomeno del pentitismo. In ultimo, reputo fondamentale l’esistenza di un mondo di mezzo legato a singole figure, non ancora individuate della politica, dell’imprenditoria e dello Stato che probabilmente con quel mondo hanno intessuto rapporti di contiguità e che hanno agevolato il perdurare di questa latitanza”. Ha mai perso fiducia nello Stato? “Oggi vediamo ripagata la nostra fiducia nelle istituzioni dello Stato, che dopo quella stagione, pur avendo commesso errori, ha comunque mostrato di voler combattere questo fenomeno. E’ una giornata che va festeggiata perché si intravede la fine di un’epoca dove non solo sono state colpite singole famiglie, ma l’intera collettività. Non credo sia azzardato paragonare questa cattura, con riferimento all’egemonia corleonese sull’intera organizzazione di Cosa nostra siciliana, con quella di Adolf Eichmann, catturato quindici anni dalla fine della seconda guerra mondiale, con cui si concluse il processo di Norimberga”. Che prospettive vede per la sua terra? “Cominciamo finalmente a sperare di poter raccogliere il frutto di quei sacrifici, nella speranza che il nostro Paese sia sempre meno condizionato ed oppresso dalla presenza asfittica della criminalità. Le nuove generazioni potranno sicuramente godere del frutto di quel seme di sangue che tanti servitori dello Stato hanno offerto generosamente, nella speranza di un’Italia migliore, che oggi si inizia ad intravedere”. Piacenza. Detenuto si uccide in carcere. È il quarto caso in un anno La Repubblica, 17 gennaio 2023 L’uomo aveva 32 anni, era arrivato a settembre dalla struttura circondariale di Reggio. Il Garante regionale ha chiesto un incontro urgente alla direzione. La scorsa notte nel carcere di Piacenza è deceduto un detenuto di 32 anni di origine marocchina. La morte sarebbe causata da inalazione di gas da una bomboletta. Il detenuto era a Piacenza dallo scorso settembre, sfollato per motivi di ordine e sicurezza dal penitenziario di Reggio Emilia, ed era stato posto sotto attenzione come a medio rischio suicidario. Si tratta del quarto decesso in un anno nel carcere di Piacenza. Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, aveva già manifestato forte preoccupazione per il susseguirsi di decessi in questo penitenziario. “Nel carcere di Piacenza - spiega Cavalieri - tutti i detenuti presenti sono stati classificati dalla locale unità di vigilanza e prevenzione suicidaria come a rischio: dei 382 detenuti presenti 8 sono ad alto rischio, 70 a medio rischio e 304 a basso rischio”. “Le valutazioni sulla situazione carceraria, pertanto, non permettono ai sanitari di operare al meglio per contrastare e prevenire i potenziali pericoli di suicidio e la scelta di certificare un rischio per tutti i carcerati produce, per gli stessi operatori, carichi di lavoro insostenibili”, sottolinea il Garante. Una criticità sulla quale concorda anche il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Il detenuto marocchino, conclude il Garante, “era stato valutato dallo psichiatra lo scorso mese di ottobre. Da allora, però, non erano seguite ulteriori valutazioni”. Roberto Cavalieri, pertanto, ha richiesto alla direzione del carcere e al responsabile sanitario un incontro urgente. In Italia il 2022 è stato l’anno dei suicidi in carceri: si sono tolti la vita 84 detenuti (6 nelle strutture dell’Emilia-Romagna), uno ogni 5 giorni. Il record negativo precedente era nel 2009, con 72 morti. Per il presidente dell’associazione Antigone il problema principale resta quello del sovraffollamento. Il sovraffollamento nelle carceri sta tornando a livelli preoccupanti: i detenuti sono quasi 57mila, mentre i posti sono 51mila, dei quali circa 4mila indisponibili. Va comunque rilavato che la maggior parte dei suicidi in carcere si verifica nei primi mesi di detenzione, più del 60 per cento dei casi. Cagliari. Detenuto muore nel sonno, tragedia al carcere di Uta L’Unione Sarda, 17 gennaio 2023 L’uomo, 53 anni, stava scontando una lunga pena e più volte era stato inviato in ospedale per accertamenti diagnostici ma aveva spesso rifiutato il ricovero. Il decesso è avvenuto nella notte, probabilmente per un arresto cardiaco, e la notizia è stata diffusa questa mattina. Quanto accaduto, commenta Marco Porcu, direttore della casa circondariale, “è sempre un motivo di grande dispiacere anche quando ciò avviene senza alcuna possibilità di un intervento risolutore”. La tragedia, aggiunge Maria Grazia Caligaris, dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, “riporta l’attenzione su un problema di efficienza della sanità penitenziaria soprattutto in questo periodo quando l’intero sistema sanitario in Sardegna mostra tutti i suoi limiti. Gli aspetti più problematici riguardano i detenuti con problemi psichici e tossicodipendenze la cui permanenza dietro le sbarre è molto difficile da gestire, se non addirittura impossibile quando si tratta di condizioni di vera e propria incompatibilità con la perdita della libertà. Al di là del singolo caso, anche con scelte personali discutibili, ovviamente devono essere rafforzati gli strumenti per garantire le cure. Per questo SDR rivolge un appello all’assessore regionale della Sanità Doria per una maggiore attenzione e assume l’impegno di promuovere un incontro sul tema per esaminare gli aspetti della salute in tutti gli Istituti sardi”. Roma. La voce dei detenuti di Rebibbia nel giornale ispirato da Suor Emma di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2023 La sofferenza e la speranza. E la voglia di ritrovare un’esistenza normale oltre le sbarre. È un filo rosso quello che cuce le storie che periodicamente trovano spazio nelle pagine di “Non tutti sanno” il giornale scritto dai detenuti di Rebibbia Cr, guidato da Roberto Monteforte, 69 anni, per parecchi anni Vaticanista a l’Unità oltre che vice presidente di Stampa Romana e consigliere nazionale della Fnsi e ispirato da suor Emma Zordan. Oggi, all’interno del carcere “da volontario, perché sono in pensione”, guida il gruppo di detenuti che manda in stampa “con strumenti di fortuna” il periodico che racconta il mondo penitenziario e quello strettamente collegato “che è fuori”.  Come è nato il progetto - Un’avventura importante per Monteforte che, terminato il suo rapporto di lavoro attivo e la lunga militanza sindacale ha deciso di seguire la strada del volontariato mettendo a disposizione degli altri le proprie competenze. “Diciamo che è una cosa che non ho cercato ma è capitata - racconta -. E tutto il merito va a Suor Emma, la suora che una volta alla settimana cura un corso di scrittura creativa all’interno del carcere”. È stata proprio Suor Emma, che una volta all’anno si occupa della pubblicazione di un libro in cui si dà voce ai detenuti, ad aprire la strada a questa iniziativa. “Un giorno mi ha detto: serve un giornalista per fare un giornale, io non ho le competenze, ma tu sei professionista. Quindi fai tu il direttore e organizza il lavoro”. Il resto sono riunioni, incontri e ore dedicate a costruire quello che, nel tempo, diventa una pubblicazione in formato A3.  “Fare un giornale in carcere è abbastanza complicato - racconta - perché non ci sono mail, non si possono fare telefonate e le regole sono stringenti. Allo stesso tempo però si affronta una sfida importante perché si cerca di dare una nuova opportunità a chi sta all’interno e si cerca anche di creare un ponte con la società che sta fuori”.  Attraversare la pandemia - In mezzo anche la pandemia “io e suor Emma siamo stati gli unici volontari, anche durante la pandemia, a fare attività in carcere: per il libro e il notiziario”. Quindi la rivisitazione del vecchio notiziario e la fattura di un vero e proprio giornale. “Un po’ per volta abbiamo cercato di fare un lavoro che guardasse la realtà e non uno sfogatoio, ma un luogo che da importanza agli aspetti della vita”. E poi i primi risultati positivi. “Oggi il giornale che abbiamo realizzato vede le persone soddisfatte, cerchiamo di dare una speranza, perché se c’è una speranza c’è anche futuro”.  E quell’argomento, le carceri, considerato sempre attuale. “Se non ci fosse Papa Francesco che parla di carcere o che va a fare la lavanda nelle carceri italiana questo mondo sarebbe dimenticato - conclude -. Perché è vero che ci sono i garanti, Antigone e altre associazioni che fanno un lavoro davvero molto importante, ma la sensibilità è una sensibilità inadeguata e il punto da cui si dovrebbe partire è che il carcere siamo anche noi. Invece molto spesso, tutti quanto facciamo finta di non vedere, ma ci appartiene. E dalla qualità di vita che c’è dentro si capisce quello che c’è fuori”. Un mondo parallelo da non dimenticare. Napoli. “Bust Busters”, il riscatto dei ragazzi parte anche dal mare e dalla sua pedagogia di Anna Maria De Luca La Repubblica, 17 gennaio 2023 Un modo per riscattare il futuro di ragazzi finiti nei guai con la giustizia: il progetto è promosso dal Dipartimento di Giustizia Minorile della Campania assieme all’Archeoclub con scopi educativi e formazione professionale. La pedagogia del mare per riscattare il futuro di ragazzi finiti nei guai con la giustizia: il progetto si chiama Bust Busters ed è promosso dal Dipartimento di Giustizia Minorile della Campania insieme all’Archeoclub per formare sia dal punto di vista educativo che professionale i ragazzi dell’area penale della Campania e dare loro una seconda possibilità. L’immersione nell’area protetta di Punta Campanella. Grazie ad un accordo con l’area protetta di Punta Campanella, alcuni ragazzi dell’area penale che già hanno preso il brevetto per sub, hanno fatto la loro prima prova in mare, dopo lezioni teoriche e pratiche, al largo di Massa Lubrense. Il progetto punta al recupero dell’eco-sistema di Borgo Marinari, dove si trova Castel dell’Ovo, a Napoli, in due fasi: la prima riguarda la pulizia della superficie dello specchio d’acqua, la seconda il fondale. E siamo appunto nella seconda fase. “Abbiamo cercato di immaginare - spiega a Repubblica Mondo Solidale, Pino Centomani, direttore del Dipartimento di Giustizia Minorile della Campania che si è immerso con i ragazzi - una professione per loro ed abbiamo quindi pensato alla pulizia del Borgo Marinari nel mese di febbraio, dopo averli formati con l’Archeoclub: è un percorso professionalizzante che inizia con il brevetto di subacquea e finisce con la qualifica di Ots, operatore tecnico subacqueo”. Chi sono i Bust Busters. Sono ragazzi dell’area penale esterna, vale a dire non ex detenuti o detenuti ma giovani ai quali sono state applicate misure penali non detentive, messi alla prova o in prescrizione o in permanenza in casa, con progetti educativi individualizzati. Bust Buster rientra tra questi progetti: “Bust”, in napoletano busta, e “busters” in inglese plastica. Con loro nella Baia di Ieranto, area patrimonio del Fai vietata alla navigazione, per comprendere l’importanza di tutelare e salvaguardare questo patrimonio ambientale sommerso, anche Rosario Santanastasio, presidente nazionale dell’Archeoclub e Lucio Cacace, presidente dell’Area Marina Protetta Punta Campanella che spiega: “Abbiamo accettato con entusiasmo questo progetto perché siamo rimasti molto colpiti dalla sua valenza sociale”. Obiettivo: diventare Ots. Ots significa operatori tecnici subacquei: una professione richiesta alla quale possono aspirare i ragazzi che seguono il progetto Bust Busters e che si trovano ora nei centri di giustizia minorile campani. Primo passo: ottenere il brevetto da sub per poi procedere verso il mondo del lavoro. Cinque sono stati formati lo scorso anno ed altri cinque sono in formazione quest’anno per comprendere l’importanza di tutelare e salvaguardare il patrimonio ambientale sommerso e capire come la tutela dell’ambiente possa diventare per loro un lavoro. Si punta al protocollo nazionale. Ha le idee chiare il direttore del Dipartimento di Giustizia Minorile della Campania: “Vogliamo che questo progetto diventi nazionale: puntiamo - spiega Pino Centomani - ad un protocollo nazionale tra Ministero della Giustizia, Dipartimento di Giustizia Minorile, Ministero dell’Ambiente ed Archeoclub d’Italia Marenostrum, dal quale dovranno poi discendere dei protocolli operativi locali. Miriamo alla formazione di un team di ragazzi professionisti: vogliamo che questa attività che oggi è più formativa che professionale diventi sempre più stabile e professionale e che i ragazzi possano essere chiamati a lavorare tutte le volte che c’è bisogno di un intervento del genere in un’area marina protetta o in una darsena. Nel giro di tre anni contiamo di formare un gruppo stabile - lo scorso anno ne abbiamo già formati cinque - formalizzato in una cooperativa attraverso la quale i ragazzi potranno proporsi come lavoratori dato che si tratta di una professione richiesta e non molto diffusa”. Pistoia. Lectio magistralis sulle attività rieducative di Antonella Barone gnewsonline.it, 17 gennaio 2023 Nel carcere di Pistoia dal 2021 alcuni detenuti studiano e compongono musica digitale. Il DigitalMusic Lab, nato come progetto pilota nell’ambito delle attività previste dal Protocollo d’intesa tra Conservatorio Statale di Musica “L. Cherubini” di Firenze e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria e sostenuto da Far.Com - farmacie comunali, ha presentato stamane alcuni risultati dell’attività e riflessioni sull’impatto di questa e di altre attività rieducative all’interno degli istituti penitenziari. “Carcere e Ri-Educazione” è il titolo della Lectio magistralis che, nella Sala maggiore del Palazzo comunale di Pistoia, è stata tenuta da Alfonso Belfiore, docente presso il Dipartimento di Musica elettronica e nuove tecnologie del Conservatorio fiorentino, Nadia Tirino, presidente dell’Associazione Artmonia di Pistoia che ha curato tutta la parte organizzativa del progetto, e Filippo Giordano, docente ordinario di Economia aziendale presso l’Università Lumsa di Roma, esperto in valutazione dell’impatto socio-culturale delle attività rieducative all’interno del carcere. Alla conferenza, introdotta dal saluto del sindaco di Pistoia, Alessandro Tommasi, hanno preso parte Pierpaolo D’Andria, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria, Anna Maria Celesti, vicesindaco e presidente della Società della Salute, Sandra Palandri, legale rappresentante di Far.Com S.p.a. e Loredana Stefanelli, direttrice della casa circondariale di Pistoia. Al centro dell’attività didattica le nuove tecnologie informatiche e digitali, i linguaggi multimediali e i legami tra musica e tecnologia nonché la relazione tra esperienza artistica e benessere psicologico. Nel corso dell’evento sono stati mostrati video di performance artistiche con commenti musicali composti dagli allievi del laboratorio. Reggio Calabria. Educare i giovani all’amore, il ruolo delle agenzie educative avveniredicalabria.it, 17 gennaio 2023 Ha registrato una larga partecipazione il Forum “Famiglie ferite ed educazione dei figli, sfide per la Chiesa e le associazioni” sull’importanza di educare i giovani all’amore, che si è tenuto nella sala conferenze della Chiesa del crocifisso su iniziativa del Forum provinciale delle associazioni familiari, del Centro Comunitario Agape e della parrocchia. Nel suo saluto don Marco Scordo ha ricordato l’impegno della parrocchia che ospita da anni il Consultorio Diocesano richiamando la necessità di pensare a nuove strategie pastorali che aiutino le famiglie ad aggregarsi, a socializzare, arricchendo la partecipazione alla messa domenicale con altri momenti d’incontro conviviali. Giuliano Quattrone, direttore della testata NeM-nessuno escluso Mai ha moderato l’incontro che ha registrato i diversi interventi con i quali ci si è interrogati in particolare su come possono essere accompagnati giovani, coppie e famiglie verso un percorso di una vera e propria Educazione all’amore che porti loro ad incarnare la cultura dell’amore scardinando la cultura dell’io. Su come intervenire sulle coppie in crisi per contrastare il dilagante fenomeno delle separazioni, dei divorzi e delle conflittualità che vedono soprattutto i figli vittime di questi fallimenti. Per Leonardo Trione, consulente e mediatore familiare, uno dei massimi esperti nazionali nel campo autore di diverse pubblicazioni, le famiglie che fanno fatica si sentono sole e senza punti di riferimento, bisogna pertanto cercare di intercettarle, ascoltarle e accompagnarle. Mancano infatti o sono sporadici i supporti alla genitorialità e se la coppia è fragile si giunge presto alla separazione. Nell’esperienza della comunità dell’alleanza della sua Diocesi si cercato di fare rete con le parrocchie e le associazioni e con tutte gli enti e le agenzie che si occupano di promuovere la famiglia attraverso iniziative di evangelizzazione e di formazione. La Chiesa in tutte le sue articolazioni ha un ruolo importante per ascoltare, accompagnare e sostenere le diverse fragilità e gli operatori pastorali che si occupano della preparazione al matrimonio devono avere una formazione mirata che li aiuti a leggere i cambiamenti della famiglia e acquisire strumenti idonei per intervenire. Diversi gli interventi dei soggetti locali, la famiglia Riso del Forum delle associazioni familiari ha posto l’accento sulla grave crisi che vive la famiglia nel nostro territorio con una incidenza delle separazioni che colpisce il 50% delle coppie e di quanto lavoro bisogna fare per cercare di contrastare il fenomeno almeno per alleviare le conseguenze sulla vita dei figli, attività che il Forum tenta di fare attraverso le varie associazioni aderenti. Per la famiglia Marino di Agape è importante per tutte le coppie l’associazionismo familiare come opportunità di condivisione di percorsi di crescita e di mutuo aiuto Don Mimmo Cartella assistente dell’ufficio pastorale della famiglia è importante valorizzare i corsi di preparazione al matrimonio che non possono essere puri adempimenti senza registrare per le coppie una continuità nella partecipazione alla vita della Chiesa ed ha confermato l’attenzione con la quale il Vescovo segue il progetto pastorale per la promozione ed il sostegno della famiglia. Don Nino Iachino, citando le esperienze delle comunità e dei servizi per le donne in difficoltà, le parrocchie devono essere più vicine a queste opere-segno nate nella chiesa locale. Piergiuseppe Marcelli, presidente del Consultorio Diocesano, ha raccontato il servizio che da decenni svolge di ascolto e di accompagnamento delle coppie, attività che s’intende rilanciare mettendola a disposizione di tutta la rete ecclesiale e civile. Giusi Nuri Presidente della Coop Soleinsieme, che attraverso il lavoro segue diverse donne che provengono da situazioni di sofferenza e di fargilità, è importante che chiesa, associazioni facciano rete coinvolgendo anche gli Enti pubblici e per questi motivi si sta cercando di promuovere un protocollo di collaborazione tra diversi soggetti con la finalità di accompagnare le madri sole con figli minori Concludendo i lavori, Mario Nasone presidente di Agape, ha affermato che di fronte alla gravità di queste sfide serve alzare l’asticella degli impegni da parte di tutta la comunità ecclesiale ma anche di quella civile, attivando delle vere e proprie antenne in tutto il territorio di soggetti in grado di intercettare i disagi delle famiglie ferite e per questo servirebbero investimenti soprattutto in formazione e in servizi di ascolto e di accompagnamento. L’arma del merito contro povertà e devianza di Salvatore Cingari Il Manifesto, 17 gennaio 2023 I recenti fatti di cronaca della fuga di alcuni ragazzi dal carcere minorile Beccaria hanno fatto da drammatico contrappunto alle notizie sui tagli in finanziaria per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Se urge togliere risorse meglio farlo a svantaggio dei meno meritevoli - devono aver pensato al governo - e cioè i carcerati. Questo atteggiamento rispecchia il più generale senso comune diffuso negli ultimi decenni per cui il disagio non si affronta cercando di rimuovere le sue cause sociali, bensì enfatizzando la responsabilità individuale dei soggetti che ne soffrono. Ma devianza e marginalità sociale - come si sa - si sovrappongono in buona parte. Jack London, in Il Popolo degli abissi, racconta come i derelitti dell’East-End di Londra, impediti nel loro vagabondaggio da severe sanzioni penali, finissero spesso sulla strada per questione di fortuna e non di merito. Oggi, nell’epoca della globalizzazione, è tornata l’ottocentesca imputazione individuale del disagio e della devianza. È stato spiegato da Jonathan Simon che i governi, impossibilitati a redistribuire le risorse proteggendo i ceti più deboli - dovendo seguire fiscalità antiprogressive e ricette favorevoli soltanto all’impresa - si legittimano difendendo i cittadini meritevoli contro la criminalità. Prima di lui Loic Wacquant aveva rilevato come l’istituzione penale ha il compito di identificare devianza e disagio sociale, criminalizzando la povertà e persino chi la vuole contrastare, come ad esempio le Ong che si occupano dei migranti o politici controcorrente come Mimmo Lucano. Anche Papa Francesco, in un discorso pronunciato all’Ilva di Genova, ha sottolineato che una conseguenza della “cosiddetta meritocrazia” è il cambiamento dell’atteggiamento culturale verso la povertà: “Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa”. Come la società è esonerata dal risolvere il problema della povertà - nella conferenza stampa di fine anno Giorgia Meloni è stata elusiva in proposito - così non mette conto di affrontare quello della devianza secondo il dettame costituzionale: recuperare il reo e reintegrarlo nella società. Anche perché per far questo sarebbe necessario investire risorse che andrebbero chieste - in misura progressiva - ai cittadini italiani meritevoli. Questo spirito del tempo corrisponde a ciò che Ralf Dahrendorf aveva intuito prima di quasi tutti a metà degli anni Novanta e cioè che le liberal-democrazie stavano sempre più assomigliando al “modello Singapore”: un regime, cioè, in cui la libertà è solo del mercato, a scapito dei diritti civili, politici e sociali. È abbastanza indicativo che, nel miliare best-seller Meritocrazia, Roger Abravanel, editorialista del Corriere della sera nonché consulente di Maria Stella Gelmini ai tempi della famigerata riforma, elogiava di Singapore legalità, efficienza e sicurezza, sostenendo che il non essere quel paese una democrazia non preoccupava i suoi cittadini e semmai avrebbe dovuto preoccupare noi (troppo sicuri delle esclusive virtù della democrazia). Mi sono sempre chiesto se Emma Bonino e Giovanni Floris lo abbiano letto veramente dato che in quarta di copertina son riportati i loro entusiastici giudizi sul libro, al cui autore, del resto, il sistema Singapore piace in quanto paradiso meritocratico. Del resto anche la Cina è in fondo un gigantesco sistema Singapore, in cui in alcune province - come ha raccontato in Red Mirror Simone Pieranni -, vengono sperimentate patenti a punti da cui dipende poi la riduzione o meno del proprio diritto a determinati servizi. La stessa storia, peraltro, raccontata in uno degli episodi della terza stagione della celebre serie tv distopica Blackmirror: si immagina una società in cui ognuno, tramite il cellulare, dà un punteggio ad ogni persona con cui entra in contatto, di modo che la società venga gerarchizzata fra alcuni soggetti che godono della pienezza dei diritti e anzi dei privilegi dell’aristocrazia del punteggio e chi invece è relegato fra i reietti destinati alla prigione. Da un lato, perciò, si stringono un po’ di viti autoritarie tradizionali (vedi il decreto anti-rave), dall’altro si lanciano campagne simboliche rivendicando il merito come veicolo di riscatto per l’underdog, di modo da integrare la società attraverso un autoritarismo più sottile che è quello della violenza, appunto, simbolica, per cui ognuno interiorizza la struttura competitiva ed elitaria della società all’insegna di un solo modello omologante di valori in cui vince l’atleta più forte, come se la vita fosse uno sport. Ma chiunque di noi può finire in fondo alla classifica. Come scriveva Pier Paolo Pasolini nell’ultima intervista prima di essere ucciso: “Siamo tutti in pericolo”. Lavoro, mezzo miliardo di persone ai margini. E peggiora la qualità degli impieghi La Repubblica, 17 gennaio 2023 Il rapporto globale dell’Ilo sui trend per il 2023: tra disoccupati e scoraggiati, ci sono 33 milioni di persone senza occupazione in più del pre-Covid. Poveri, giovani e donne più a rischio. “Serve un patto sociale”. Il mix di stagnazione economica e inflazione peserà anche sul lavoro. La recessione è alle porte per il gotha della comunità finanziaria, per quanto gli ultimi dati dicono che potrebbe essere di entità non così pericolosa. Ma il rallentamento generalizzato obbligherà sempre più lavoratori ad accettare mansioni di bassa qualità, con stipendi bassi, senza tutele e coperture: un avvitarsi delle differenze che già sono esplose con la pandemia, come ci hanno raccontato le più recenti statistiche sulle diseguaglianze. Disoccupazione in crescita, lontano il pre-Covid - A stendere questo ulteriore velo di pessimismo è il rapporto dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro. Diffondendo i trend per il 2023, l’Organizzazione stima una crescita dell’occuapazione globale del solo 1% quest’anno, meno la metà di quel che si è registrato nel 2022. La disoccupazione, di contro, è vista in salita: 3 milioni di persone in più in cerca di un lavoro, 208 milioni in tutto (per un tasso del 5,8%). Un cambio di rotta dopo la crescita costante del 2020-2022 che porterà per altro a lasciare una ferita aperta di 16 milioni di disoccupati rispetto ai livelli pre-crisi. Servirà più tempo per chiudere il gap: per Richard Samans, direttore del dipartimento di ricerca dell’Ilo e coordinatore del rapporto, “il rallentamento della crescita dell’occupazione globale significa che non prevediamo che le perdite subite durante la crisi Covid-19 vengano recuperate prima del 2025”. Un dato che per altro si può vedere ancora al rialzo se si considera un parametro leggermente diverso, ovvero quello del “global jobs gap” introdotto dal report. Si considerano non solo i disoccupati, ma anche coloro che vorrebbero lavorare ma non sono attivamente in cerca di occupazione perché disillusi o impegnati nel lavoro di cura. Ebbene, con questa lente allargata il problema del lavoro che non c’è travolge ben 473 milioni di persone, 33 milioni in più che nel 2019. Lavori di minore qualità - Ma non è solo una questione di numeri. È anche un tema di qualità. “La qualità del lavoro rimane una preoccupazione determinante”, dice il report ricordando che già durante la crisi pandemica un decennio di progressi in tema di riduzione delle povertà ha subito un pesante contraccolpo. E ora il rallentamento economico mette di nuovo a rischio lo sviluppo di un lavoro di qualità. Un problema soprattutto per i gruppi sociali a reddito più basso, i più esposti al peggioramento del quadro macro complessivo. Oltre a questi, a pagare il prezzo maggiore rischiano di esser le categorie solite note: le donne e i giovani. Nota infatti il report che a livello globale, il tasso di partecipazione delle donne alla forza lavoro si è attestato al 47,4% nel 2022, rispetto al 72,3% degli uomini. I giovani (15-24 anni) incontrano gravi difficoltà nel trovare e mantenere un lavoro dignitoso. Il loro tasso di disoccupazione è tre volte quello degli adulti. Più di un giovane su cinque - il 23,5 per cento - non lavora, non studia o non fa formazione (Neet). “La necessità di un lavoro più dignitoso e di giustizia sociale è chiara e urgente - ha dichiarato il direttore generale dell’Ilo, Gilbert F. Houngbo, commentando il rapporto - Per affrontare le molteplici sfide, dobbiamo lavorare insieme per creare un nuovo contratto sociale globale”. Un rapporto nuovo con l’Africa di Giampaolo Silvestri* Corriere della Sera, 17 gennaio 2023 Sulla base di un approccio “multistakeholder” si può creare una relazione fruttuosa tra noi e i Paesi africani. In questi giorni in cui si stilano i propositi di un anno nuovo, vorrei rimettere al centro dell’attenzione il nostro rapporto con l’Africa. È un tema carsico, affiora per emergenze varie, soprattutto legate ai flussi migratori che scatenano slanci opposti - dall’”aiutiamoli” al “respingiamoli” - ma poi scompare sepolto da altra attualità, per tornare ad essere materia di pochi tecnici. In queste fasi alterne, abbiamo letto idee di nuovi piani Marshall e piani Mattei per l’Africa, accompagnate da richieste di nuovi fondi: tutte proposte interessanti perché alimentano la riflessione su come impostare una relazione nuova tra noi e i Paesi africani, a cui siamo più vicini e più legati di quanto percepiamo. E costringono a mettere a fuoco quanto sono rischiose e fuorvianti le visioni di un’Africa come un tutto omogeneo che avrebbe bisogno di salvatori dal Nord del pianeta. Mentre l’Africa che conosciamo noi, grazie all’esperienza concreta di centinaia di progetti di sviluppo in collaborazione con decine di organizzazioni della società civile locale e istituzioni, ha il volto di tanti Paesi diversi, che chiedono partner affidabili e presenti - non salvatori tantomeno nuovi coloni - capaci di soluzioni innovative. Fondi importanti per l’Africa sono già disponibili o promessi (la Ue con la strategia Global Gateway ha destinato 150 miliardi di euro, Biden ha promesso 55 miliardi di dollari), ma bisogna renderli accessibili ai soggetti più capaci di spenderli bene, protagonisti di quel dinamismo della realtà africana che ha molto da insegnare e condividere. Solo qualche cenno: le imprese innovative crescono esponenzialmente e attraggono quantità sempre maggiori di investimenti arrivati nel 2021 a 5 miliardi di dollari; se sei anni fa l’Africa non aveva un solo “unicorno”, oggi conta circa 7 startup che superano il miliardo di dollari di valore; ci sono più di 150 fondi di investimento attivi nel continente e un ecosistema di oltre 600 incubatori che cresce di anno in anno. Certo questo fermento ha bisogno di infrastrutture fisiche e istituzionali, e servizi in parte non ancora esistenti, ed è a questo livello che si può interagire. Ma insieme, alla pari: gli africani sono forse i meglio posizionati per individuare percorsi di uno sviluppo sostenibile con chi in Europa e in Asia (e noi preferiremmo fosse l’Europa) dimostra di avere le competenze migliori. L’Africa si è dimostrata paradossalmente più capace di reagire a recenti shock economici globali rispetto ad altre aree del mondo. L’area subsahariana ha sofferto l’impatto del Covid, ma nel 2023 crescerà al ritmo del 3,8%. Entro il 2030 si calcola che la spesa combinata di consumatori e imprese toccherà i 6,7 trilioni di dollari trainata dalla crescita di una classe media e dal processo di integrazione dell’African Continental Free Trade Area. Il continente più giovane del mondo è destinato ad arrivare a 2,3 miliardi di persone in 30 anni, con un tasso di crescita demografica del 2,7% all’anno, contro l’1,2% dell’Asia e lo 0,9% dell’America Latina. L’aspettativa di vita prevista è in continuo aumento, dai 61 anni di oggi ai 68 del 2040, entro il 2050 più di un quarto dell’umanità sarà africana e la crescita demografica provocherà l’aumento della domanda di servizi pubblici e di infrastrutture. Sono trend questi che non nascondono né cancellano la fame, la povertà, i conflitti in corso, il terrorismo, i regimi antidemocratici, il mancato accesso a un’educazione di qualità che ancora colpiscono troppe persone nei Paesi africani, e sono la ragione per cui sono presenti sul terreno tante organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Ma se occorre misurare i bisogni e le diseguaglianze, altrettanto occorre aprire gli occhi su tutti i processi che tendono a restare in ombra. Sulla conoscenza integrale di questi fattori si può fondare un rapporto nuovo e fruttuoso tra noi e l’Africa, secondo un approccio multistakeholder, che chiami in campo tutti i soggetti investiti dalla sfida dello sviluppo: c’è questo ampio spazio per sperimentare e innovare, si pensi all’ambito dell’economia sociale e sostenibile, ed è quello che auspicheremmo per tutti i piani nuovi che si volessero avviare nel nuovo anno. Le organizzazioni della società civile che fanno cooperazione allo sviluppo - e che ci si ostina a chiamare genericamente “ong”, trasformandole così in un coacervo indistinto che viene spinto o nel recinto dei buoni o nell’angolo dei cattivi - possono e vogliono portare il loro contributo. *Segretario generale Avsi Iran. Racconto shock di un’attivista: “Torture e sedativi ai detenuti” ansa.it, 17 gennaio 2023 L’attivista iraniana Leila Hoseinzade, 32 anni, ha descritto in un post sui social media le terribili condizioni di vita a cui sono sottoposte le detenute nel carcere di Adel Abad a Shiraz, nel centro-sud del Paese, rivelando che a molti prigionieri vengono somministrati sedativi e pillole contro l’ansia, con degli effettivi indesiderati ed inaspettati. “Nella nostra stanza ho visto spesso che le persone rimanevano sveglie solo per quattro ore al giorno - ha raccontato -. Una volta, dopo una rissa sono state date delle pillole a due detenuti che per alcuni giorni non sono stati in grado di parlare correttamente”. Molti prigionieri non hanno accesso agli antidolorifici, ha precisato Hoseinzade che è stata temporaneamente rilasciata dal carcere su cauzione all’inizio di questo mese. La donna, che ha definito la somministrazione di pillole un orribile “crimine” ed il trattamento medico riservato ai detenuti “allarmante”, ha anche denunciato la crudeltà di alcune guardie carcerarie, il cui obiettivo è “distruggere totalmente la dignità umana”, come quando mostrarono indifferenza di fronte alle gravi condizioni di salute di una detenuta in sciopero della fame. Un racconto-testimonianza il suo che rivela il pesante clima che si respira a Adel Abad, dove oltre al cibo di scarsa qualità, la mancanza di acqua calda per lavarsi, la ventilazione assente, si vive anche l’angoscia della vicinanza del patibolo e si odono i pesanti “respiri dei prigionieri del corridoio inferiore che vengono sottoposti a costante tortura”.