In difesa di Cospito e di tutte le persone segregate in un regime che non ha più ragione di esistere di Elton Kalica* Ristretti Orizzonti, 16 gennaio 2023 Venezia è forse l’unica città dove camminare di notte nel freddo non mi mette tristezza. La pioviggine si deposita silenziosamente sullo schermo del cellulare mentre seguo il google maps verso la Calle dei bari. Dopo l’ultima svolta nell’oscurità, le sagome di alcuni ragazzi che fumano sotto la luce sbiadita di una lampadina mi rassicurano di aver trovato l’indirizzo. Saluto e spingo la porticina. Entro. Il locale è caldo. Una ventina di sedie disposte in quattro file. Di fronte un piccolo podio dove stanno conversando alcuni ragazzi. Li raggiungo e mi presento. Da quando ho pubblicato la mia tesi di dottorato sul 41 bis sono stato invitato a presentare il mio lavoro in giro per l’Italia da molti circoli, associazioni e collettivi universitari. Ma il recente sciopero della fame di Alfredo Cospito ha suscitato in particolare l’interesse di alcuni circoli anarchici. Tra i quali anche questo gruppo veneziano che mi ha invitato a parlare della mia ricerca. Quasi tutti studenti universitari provenienti da varie facoltà. Sono indignati del trattamento inumano riservato ad un militante, e vogliono che spieghi al gruppo le ragioni teoriche dell’esistenza di un dispositivo di tortura come si può definire il 41-bis. Si tratta di un discorso tanto giuridico e filosofico quanto politico. E non è sempre facile spiegare in pochi minuti. Ma credo che il caso di Cospito mi faciliti in qualche modo la spiegazione del diritto penale del nemico: un diritto non scritto che si rivolge a coloro (come Cospito appunto) che non riconoscono l’ordinamento giuridico dello Stato e, pertanto, devono essere messi in condizione di non nuocere. Ecco perché lo Stato ricorre ad un sistema repressivo diverso da quello predisposto dal diritto penale “normale”. Si tratta di una logica politica dell’amico/nemico: è amico quando una persona si giudica solo per il reato commesso; è nemico quando si giudica per quello che rappresenta, per quello che fa, per quello che è, per quello che pensa e per quello che scrive. Il 41-bis fa parte di un dispositivo più complesso costruito con una logica di guerra al quale lo Stato non intende rinunciare. Creare la figura del nemico serve proprio per giustificare l’utilizzo di un “diritto penale della pericolosità” che si manifesta sospendendo per alcuni soggetti le garanzie previste per tutti gli altri nel processo penale e nell’esecuzione della pena. La mia dissertazione è seguita immancabilmente dal dibattito dei presenti sul caso concreto. Non conoscendo tanto della storia politica e processuale di Cospito, mi limito ad ascoltare. E mi immergo in lontani ricordi scolastici che affiorano improvvisamente. Cresciuto nell’Albania del socialismo reale, la mia infanzia è stata plasmata dalla letteratura russa e quando sento parlare di anarchia evoco irrazionalmente San Pietroburgo con i suoi demoni di Dostoevskij e le incitazioni sovversive di Bakunin rivolte ai contadini e penso a Pugaçev, il bandito rivoluzionario raccontato da Pushkin così come alle povertà sociali e morali raccontate da Gogol e Lermentov. In questo ritorno mentale ai banchi di scuola mi torna in mente anche il principe Andrej ferito ad Austerlitz e penso alla religiosità anarchica di Tolstoj, che considera Cristo ribelle e riformatore sociale, per cui gli ultimi saranno i primi in questa vita. Tutti elementi che appartengono ad un’idea romantica di lotta dove la narrazione accosta l’impotenza e la tragedia di singoli sognatori al potere istituzionale organizzato e determinato nella repressione e nella vendetta. Certamente, è impensabile tracciare qualche relazione tra i demoni di Dostoevskij con gli idealisti odierni che non devono lottare per liberare i servi della gleba, mentre è più facile trovare analogie nel potere punitivo, capace di annientare chi gli è ostile con estrema violenza. Alla fine saluto gli organizzatori e ripercorro le calli fredde e silenziose verso la stazione. Mentre sono in treno mi assale il desiderio di tornare in carcere e parlare di questo con i detenuti, quelli che forse non hanno mai voluto sovvertire l’ordine sociale, ma che hanno comunque vissuto la sofferenza delle repressioni draconiane. La mattina successiva il carcere di Padova mi accoglie con un’aria quasi familiare. Ogni volta che ritorno, ripercorro il lungo corridoi che porta nella redazione di Ristretti Orizzonti con la stessa serenità di undici anni fa, quando ci andavo da detenuto. Intorno al tavolo una decina di persone. Vedo diverse persone nuove ma anche alcune vecchie conoscenze, che sono entrate in carcere prima di me e che sono ancora lì. Racconto subito del mio desiderio di analizzare con loro la questione Cospito. Hanno letto i giornali. Sanno tutto. Mentre cominciano a commentare io annoto sul taccuino: “Va bene che si mobilitano così tante persone per l’anarchico, però dovrebbero farlo anche quando ci finiamo noi altri! Il 41-bis è una tortura per tutti, non solo per i detenuti politici”. “Quella persona forse è stata messa in 41 perché ha tanto seguito tra i giovani. Hanno voluto colpire il simbolo per dare un messaggio”. “Voi pensate che quello di Cospito sia un caso isolato, ma quando ero al 41-bis ho visto arrivare ragazzi di vent’anni che poi sono stati assolti, ho visto arrivare anche albanesi che portavano l’erba con i gommoni che non appartenevano a nessuna grande organizzazione criminale, ho visto arrivare gente arrestata per estorsione con “metodo mafioso. In 41-bis ora ci mettono di tutto. Hanno bisogno di riempirlo”. “Quello che mi fa specie è che per Cospito sono tutti disposti ad esporsi perché non è mafioso e non ha reati di sangue. Invece, se credono che il 41-bis sia una barbarie devono trovare il coraggio di esporsi anche per noi, indipendentemente dal reato.” A parlare sono principalmente persone che hanno vissuto il 41-bis in prima persona anche per periodi lunghissimi. Mentre scrivo penso a quando lavoravo sulla mia tesi di dottorato e mi sentivo dire che non dovevo difendere i mafiosi e che il 41-bis era una vittoria sulla criminalità organizzata. “Sei diventato amico dei mafiosi?” hanno chiesto anche a qualche parlamentare che manifestava contrarietà al carcere duro. Perché chi tocca il 41-bis si ritrova tutti contro, sempre. Chi studia la criminalità organizzata sostiene che la mafia è cambiata, che non spara più, che ormai si confonde con la criminalità dei colletti bianchi, e che non fa più paura per le strade. Chi studia i movimenti sostiene che l’anarchismo ormai non solo non pratica più il terrorismo, ma non ha più la presa che aveva sui giovani durante le proteste studentesche e operaie del ‘68. Ciò nonostante le leggi emergenziali sono diventate permanenti. È chiaro che mandare Cospito al 41-bis è stato un errore: certo, potevano impedirgli di pubblicare le sue lettere sugli opuscoli anarchici semplicemente mettendo la censura sulla posta anche tenendolo in Alta Sicurezza, dove stava prima; sospendergli i diritti penitenziari è diventato un boomerang tale da rimettere in discussione (giustamente) l’esistenza stessa del 41-bis. Ora che tanti capimafia sono morti è chiaro a tanti che il 41-bis non ha più motivo di esistere. E non è allargando la sua applicazione agli anarchici che si possa tenere in vita un dispositivo di tortura che sarebbe dovuto uscire di scena insieme a Riina e Provenzano. Finita la riunione con i detenuti torno a casa e mi metto al computer per leggere gli ultimi articoli e l’appello del Manifesto che chiede al Ministro di revocare il 41-bis a Cospito. Scorro la lista, forse centinaia, di firmatari costituita da giuristi, accademici, politici, scrittori, artisti e altre categorie di spicco della società civile. Forse Cospito nella sua cella non sa cosa sta succedendo fuori, ma io sento di dovergli riconoscere il merito di aver fatto nascere una campagna che va oltre la difesa del suo diritto di espiare la pena in condizioni umane; una campagna che sta mettendo finalmente in discussione l’esistenza stessa del carcere duro e che esige il ripristino dei diritti penitenziari per tutti i detenuti seppelliti al 41-bis. Di fronte a questo drammatico sacrificio di Cospito penso alla scena in cui il dottor Zivago, che viaggia sul treno per la Siberia, incontra un anarchico in catene che urla “Io sono l’unico uomo libero su questo treno”. Ecco spero tanto che, dopo più di cento anni dalla repressione bolscevica degli anarchici, i magistrati si rendano conto che non c’è più nessuna guerra da combattere e che non è più tempo di neutralizzazione del nemico, e che non ha più senso colpire le persone per quello che sono oltre che per quello che hanno fatto. *Ricercatore Università di Padova Quelle morti nel carcere di Rieti rimaste nel silenzio: ecco cosa è successo di Luigi Mastrodonato Il Domani, 16 gennaio 2023 Il 9 marzo 2020 nel carcere di Rieti è esplosa una violenta rivolta, così come avvenuto in decine di altri istituti italiani. Sono morti tre detenuti ma la Commissione ispettiva costituita dal Dap ha stabilito che la rivolta è stata gestita in modo corretto ed efficace. Il racconto di ex detenuti e di un agente, così come il materiale che abbiamo visionato, gettano molte ombre sulla vicenda. Botte dagli agenti, litri di metadone incustoditi, soccorsi tardivi. Un detenuto in coma con fratture multiple. E poi spedizioni punitive, giornate intere senza cibo, celle chiuse per mesi. Questo, secondo le testimonianze che abbiamo raccolto, è ciò che sarebbe successo nel carcere di Rieti nel marzo 2020. Quello laziale è uno dei penitenziari in cui scoppiarono violente rivolte nei primi mesi di Covid-19. A Modena morirono in nove per overdose da metadone, poi la procura ha aperto un fascicolo per tortura e si indaga anche sui soccorsi. A Santa Maria Capua Vetere le immagini diffuse da Domani hanno mostrato le violenze degli agenti contro i detenuti, che hanno portato 105 persone a processo. Su Rieti, dove sono morti tre detenuti, finora ha regnato il silenzio e come scrive Sara Manzoli in Morti in una città silente, “la cortina fumogena calata sui fatti di Rieti è ancora più intensa e impenetrabile di quella scesa su Modena e altre carceri”. Ma il materiale che abbiamo raccolto prova a gettare un po’ di luce. La rivolta - Il caos nel carcere di Rieti è scoppiato alle 14.30 del 9 marzo 2020. La miccia è stata la sospensione dei colloqui causa Coronavirus, ma anche la paura del contagio in una struttura con un tasso di sovraffollamento del 42 per cento. Per sei ore l’istituto è stato in mano ai detenuti. Brandine usate come arieti per sfondare i cancelli, persone sul tetto, ambienti comuni devastati. Poi l’assalto all’infermeria. La relazione della Commissione ispettiva costituita dal Dap dice che sono stati “depredati gli armadi dei farmaci” ed è stata “svuotata la cassaforte con il metadone”. Alle 20.30, dopo lunghe trattative, la rivolta si è conclusa e alle 22 i detenuti avevano fatto ritorno in cella. Per il Dap la rivolta è stata gestita in modo “corretto ed efficace”. Eppure tante cose non tornano. Il metadone - Il giorno dopo la rivolta i tre detenuti Marco Boattini, Ante Culic e Carlos Samir Perez Alvarez sono stati trovati morti in cella. La relazione del Dap parla di “intossicazione da metadone” e nega un rapporto di causalità tra i decessi e il comportamento degli operatori penitenziari. Le nostre fonti smentiscono. “Quando è scoppiato il caos le guardie sono scappate dall’edificio e hanno lasciato il gabbiotto con le chiavi delle celle e dell’infermeria aperto”, spiega un ex detenuto. “A quel punto è stato facile accedere alla cassaforte con il metadone”. La versione è confermata da un altro ex detenuto: “Gli agenti presi dal panico hanno lasciato tutto aperto”. Anche la relazione del Dap fa alcune ammissioni, scrivendo che gli ambulatori e la farmacia si sono rivelati “troppo alla portata” dei detenuti. Dubbi al riguardo arrivano anche da un agente del carcere. “Non si è capito perché c’era tutto quel metadone conservato in infermeria. La somministrazione ai detenuti è di pochi millilitri eppure nella stanza ne sono stati trafugati non ricordo se 8 o 18 litri. Una cosa assurda”. L’agente sostiene che i detenuti abbiano tirato giù la porta dell’infermeria con le brandine. Nel carcere non sarebbero state dunque prese le giuste precauzioni per rendere il metadone inaccessibile. “Lo bevevano dalle bottiglie come fosse acqua. Non volevano suicidarsi ma semplicemente farsi”, spiega un terzo ex detenuto. La relazione del Dap afferma che a partire dalle 18 il personale sanitario è entrato in carcere per soccorrere chi accusava malessere a causa del metadone. Altri sono stati soccorsi in serata. Eppure tre di loro sono morti solo il giorno dopo, in cella. Le perquisizioni - “Quando la rivolta è rientrata ci hanno lasciato allo sbando. Molti hanno continuato a prendere metadone, non sono stati fatti controlli in cella. Passavano giusto per chiedere se avevamo trafugato qualcosa ma ovviamente nessuno apriva bocca”, denuncia un ex detenuto. “Molte persone si sono tenute scatole di pasticche, altre hanno continuato a bere metadone durante la notte. Probabilmente sono morti così”, spiega un altro. La relazione del Dap non vede mancanze nell’operato securitario e sanitario nelle ore successive alla rivolta, ma ad aprire uno squarcio in questa narrazione è un agente penitenziario. “Alla sera a rivolta terminata abbiamo fatto giusto la conta ma non siamo entrati nelle celle”, spiega, aggiungendo che i detenuti avevano rubato bisturi e altro materiale e questo rendeva pericoloso intervenire. “Onestamente lo Stato doveva fare di più. Dovevano mandarci il personale, darci modo di fare perquisizioni cella per cella, metterci in condizione di poter lavorare bene. Non è stato così”. I detenuti avrebbero così continuato indisturbati ad assumere metadone, abbandonati a loro stessi dallo Stato. In tre avrebbero pagato con la vita. La squadretta - Nelle fasi finali della rivolta diversi detenuti sono stati ricoverati per intossicazione. Ma leggendo i referti medici si trova altro. Uno di loro ha passato diversi mesi in coma e si è risvegliato con decine di punti di sutura in testa. Il suo fascicolo sanitario parla anche di fratture costali multiple. “L’ultimo mio ricordo è l’irruzione degli agenti, poi si è spenta la luce”, racconta. “Le mie fratture non possono avere a che fare con il metadone. In questi anni ho provato a ricostruire quello che mi è successo. Dicono che gli agenti mi hanno riempito di botte”. L’agente con cui abbiamo parlato afferma invece che durante la rivolta diversi gruppi di detenuti si sono picchiati tra loro. Il detenuto uscito dal coma però non ci crede. “Ho dovuto ricominciare tutto da capo nella mia vita, a mangiare, a parlare. Sono messo male. Ho l’invalidità e ora ho fatto la richiesta per l’aggravamento”. Nei giorni successivi alla rivolta uno squadrone di agenti ha fatto diversi sopralluoghi a Rieti, che secondo il Dap si sono svolti senza condotte violente. Diversa la ricostruzione che abbiamo letto in alcune lettere di quei giorni, che parlano di “abusi fisici e psicologici” e di “pestaggi”. E quella raccolta da ex detenuti appartenenti a sezioni differenti dell’istituto. “Entravano in cinque-sei guardie in cella per fare la perquisizione, ci facevano spogliare e uscire. Dovevamo percorrere un corridoio di una cinquantina di metri, un agente ci teneva la testa bassa e le braccia bloccate e circa 20 guardie a destra e 20 a sinistra ci davano pugni, schiaffi, manganellate e ci insultavano”, racconta uno di loro. “Ci mettevano tutti in una stanza e finite le perquisizioni dovevamo rifare il percorso e riprendere le botte”. Scene che, se veritiere, ricordano quanto visto nei filmati di Santa Maria Capua Vetere. Secondo un altro ex detenuto gli agenti erano una cinquantina. “Non erano quelli di Rieti, loro erano abbastanza gentili. Era una squadretta che veniva da fuori. Hanno voluto dare una punizione per mostrare chi comandava, soprattutto contro quelli che pensavano avessero avuto un ruolo nella rivolta” Diverse persone rimaste ferite non sarebbero state soccorse. Anche altri due ex detenuti raccontano le stesse scene: “C’è chi ha preso un sacco di botte”, e “quelli che hanno partecipato alla rivolta sono stati trattati con maniere più forti”. L’agente di Rieti con cui abbiamo parlato ammette che “i vaffanculo si sono sprecati”. Per il resto è vago. “Mani addosso io non ne ho viste. Se c’è stato qualcosa quando non c’ero non lo so dire. Lascio il beneficio del dubbio perché non lo posso sapere, cosa dico una bugia?”. Il silenzio - Nei giorni successivi alla rivolta i detenuti sarebbero stati lasciati senza cibo. “Non passavano i pasti visto che la cucina era inagibile. Chi di noi aveva un po’ di spesa riusciva ad arrangiarsi, ci si lanciava anche il cibo tra le celle”. Un altro racconta che ci sono persone che “non hanno mangiato per tre giorni”. Tutti i detenuti senza distinzioni sarebbero poi stati lasciati chiusi 24 ore su 24 in cella per mesi, una sorta di carcere duro. “Una punizione per la rivolta”. Alcuni di questi elementi erano già emersi in una lettera anonima pubblicata su un blog e ripresa da Lorenza Pleuteri su Repubblica. Ora il racconto si arricchisce con le testimonianze di agenti e detenuti con nomi e cognomi (che abbiamo omesso) oltre che con materiale visionato direttamente. Abbiamo chiesto chiarimenti alla direttrice del carcere, Vera Poggetti, che non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Alla Procura della città laziale è aperta un’indagine a carico di ignoti sulle morti nell’istituto, ma come ci spiega l’avvocato della famiglia di una delle vittime, a quasi tre anni dai decessi tutto è fermo. Abbiamo fatto domanda al procuratore cittadino per avere qualche informazione in più, ma le richieste sono state respinte. Le immagini delle videocamere inoltre non ci sono, sarebbero state distrutte dai detenuti durante la rivolta. Sulle morti di Marco Boattini, Ante Culic e Carlos Samir Perez Alvarez e su tutto quello che è successo nel 2020 nel carcere di Rieti continua a regnare il silenzio. Marco Puglia, magistrato di sorveglianza nella Terra dei fuochi: “Io, giudice degli scarti” di Donatella Stasio La Stampa, 16 gennaio 2023 “Tengo accesa la speranza, la riforma dell’ergastolo ostativo guarda al passato”. “La pietra scartata è diventata testata d’angolo, dice la Bibbia. Significa che anche uno scarto può diventare prezioso per costruire un edificio e che, quindi, la speranza non va mai perduta. Io non sono cattolico ma questa frase mi ha ossessionato per mesi quando vinsi il concorso in magistratura. Era il 2015, avevo 32 anni e dovevo scegliere cosa fare. Quelle parole mi martellavano nella testa, giorno e notte, finché pensai che mi stessero indicando la strada. Oggi ho 40 anni, vivo e lavoro tra Secondigliano e la Terra dei fuochi e continuo a fare il giudice degli “scarti” perché credo nella speranza. Quella a cui la riforma dell’ergastolo ostativo sembra aver chiuso la porta aperta dalla Corte costituzionale, e che ora spetta a noi giudici di sorveglianza tenere aperta, riempendo di senso costituzionale le parole non proprio cristalline della nuova legge”. Marco Puglia vive con il suo compagno Carmine a Secondigliano, periferia di Napoli, dove è nato e da dove non se ne è mai voluto andare. Da qui, ogni giorno si infila in macchina per 45 minuti fino a Santa Maria Capua Vetere, Carinola, Arienzo, ed entra in carcere. Fa il “giudice di prossimità” - così si definisce questo giovane alto, riccioluto e barbuto, sguardo largo e generoso - che si misura con i problemi quotidiani dei detenuti. È uno dei (pochi) magistrati che la sorveglianza la vive sul campo. Non se ne sta seduto in ufficio a sfogliare fascicoli sui quali i detenuti sono numeri, ma sale e scende le scale del carcere, entra nei reparti, nelle celle, attraversa corridoi, si ferma nelle cucine, nei cortili passeggio, ascolta, guarda, parla con tutti e così riempie di vita quei fascicoli. Ad ogni ora del giorno e della notte. Erano le 9 di sera, quel giovedì del 2020, quando si infilò in auto per raggiungere Santa Maria. Faceva freddo, il Covid imperversava, le strade erano vuote, il silenzio profondo. Mentre saliva al reparto Nilo del carcere, dove tre giorni prima si era consumata “l’ignobile mattanza” dei detenuti, si accorse che non aveva una penna; la chiese ripetutamente ma inutilmente; quindi, decise di usare il telefono per imprimere nella memoria quello che vide e che avrebbe preferito non vedere. Di più non dice perché sarà chiamato a testimoniare nel processo in corso a Santa Maria (105 gli imputati, tra poliziotti, funzionari medici e dell’amministrazione penitenziaria). Intanto continua a costruire un carcere “tempio della legalità” e una pena che non sia mai vendetta ma strumento di rieducazione e di ricucitura del tessuto sociale. I detenuti sotto la sua giurisdizione sono un migliaio. Tanti gli appartenenti al clan dei Casalesi, la mafia locale, e tanti gli “ostativi”, condannati per reati che limitano l’accesso ai benefici. Molti, nati a Secondigliano o nella vicina Scampia, sono suoi coetanei. Come Gaetano. Mentre Marco alle elementari scriveva temi su Falcone e Borsellino, seguito dalla mamma insegnante e dal papà avvocato, Gaetano imparava a impacchettare cocaina per 10 mila lire al giorno e a consumarla, a insaputa del papà salumiere che “si scassava di lavoro dalla mattina alla sera”; mentre Marco iniziava l’università, Gaetano affinava le sue tecniche di spacciatore di droga; mentre Marco superava il concorso in magistratura, Gaetano veniva arrestato e poi condannato per traffico di sostanze stupefacenti, un reato ostativo... Vite parallele che si incrociano un giorno di novembre del 2016 nel carcere di Santa Maria: Marco è arrivato da un mese e mezzo e vuole sfruttare un programma che consente l’affidamento in prova a detenuti con problemi di dipendenza dalla droga, mai utilizzato fino ad allora e che sta per scadere. Decide di scommettere su Gaetano, chiuso in carcere da 8 anni senza mai un permesso. Lo incontra, ci parla, e gli dice: “Lei oggi esce”. “Va bene” risponde l’altro; che sale in cella e sviene. In seguito gli spiegherà: “Dotto’, io so’ sceso convinto che lei mi doveva dire qualcosa di brutto invece mi ha detto che mi dava la misura e allora non ho capito più niente...”. Oggi Gaetano ha un regolare contratto di lavoro con Libera, che lo aveva preso in prova; ha una famiglia; ha cambiato vita e città. Certo, ci sono anche le “delusioni”, talvolta “sconfitte brucianti”. Nessuna però gli ha mai fatto cambiare idea sui suoi doveri di giudice della sorveglianza e sulla funzione della pena. Forse un peso l’hanno avuto anche le letture dell’infanzia, come Alice nel Paese delle meraviglie. Indimenticabili le parole di Bianconiglio, quando dice: “Non sono solito guardare a ieri perché ieri ero un’altra persona”. Le ricorda mentre parliamo della riforma dell’ergastolo ostativo. In teoria, dopo la Consulta, l’ergastolo ostativo in quanto tale non dovrebbe più esistere; semmai si dovrebbe parlare di un regime probatorio rafforzato per la concessione dei benefici ai condannati per alcuni reati. Eppure, la premier Meloni - una quasi coetanea, con i suoi 45 anni - ha appena detto di essere “fiera” del governo perché ha “salvato l’ergastolo ostativo”. Le roi est mort, vive le roi direbbero i francesi... Di certo, né Meloni né il suo governo hanno letto Bianconiglio se è vero che, nelle nuove norme, “ieri” conta più di “oggi”. “Tendenzialmente, i Casalesi hanno una forte resistenza alla rieducazione perché la loro subcultura è profondamente radicata nel territorio - premette Marco -. E però, la tendenziale immutevolezza di alcune tipologie di detenuti non ci dà il diritto di sottrarre, a chi invece vuole cambiare, gli strumenti per farlo. Purtroppo la riforma dell’ergastolo ostativo non è uno strumento capace di cogliere la problematicità della condizione di chi è condannato per reati ostativi perché è tutta sbilanciata sulle informazioni provenienti dall’esterno, risalenti quasi sempre al momento del reato. Raramente i nostri interlocutori istituzionali sono in grado di fornirci dati aggiornati che ci consentano di dire che i collegamenti con il contesto mafioso sono ancora inequivocabilmente saldi. Perciò è diabolica la richiesta di elementi a sostegno di un permesso premio, e non credo che rispecchi il pensiero della Corte. La riforma sembra ignorare volutamente tutto ciò che accade dopo la condanna, tutto il percorso successivo. Insomma, guarda solo al passato”. Quel che accade in carcere, la riforma lo riassume in due parole, “regolare condotta”. Ovvero, non disturbare. “Ma la vera buona condotta è di chi mette in gioco se stesso, talvolta anche disturbando. Spesso sprono i detenuti a emanciparsi dal linguaggio deresponsabilizzante del carcere. Quando, ad esempio, sento parlare di domandina, dico loro: non usatela questa parola! Stiamo parlando della vostra libertà personale e la domanda sulla libertà è una domandona, altro che domandina!”. Marco aveva 10 anni quando furono ammazzati Falcone e Borsellino ed è cresciuto all’ombra di entrambi. “Sono certo che loro non avessero un’idea di pena come vendetta cieca ma semmai come giustizia, anche nel prendere atto dei cambiamenti dei mafiosi. La vittoria su questa criminalità non passa solo dalla punizione del reato ma anche dalla possibilità di cambiamento offerta a chi vuole tornare sui suoi passi, anche attraverso strade diverse dalla collaborazione”. Perciò il giudice deve tenere aperta la porta della speranza, e guai a parlargli di “tradimento”. Lo sguardo si indigna. Il senso della giustizia gliel’hanno inculcato i genitori. “E ccose storte nun mme fir ‘e vedè” ripeteva sempre mamma Francesca, una combattente. L’esempio del papà avvocato ha poi fatto il resto. Marco si mette a studiare diritto, ma anche teatro, che porterà fin dentro il carcere, unico caso di magistrato che partecipa alle attività trattamentali dei detenuti, in cui coinvolge i colleghi che coordina e, soprattutto, poliziotti e reclusi. Fabrizio De André cantava: “Se c’è qualcosa da spartire/tra un prigioniero e il suo piantone/che non sia l’aria di quel cortile/voglio soltanto che sia prigione” (Nella mia ora di libertà, 1973), ma Marco riesce a far respirare a tutti la stessa aria. Gli chiedo se ha mai avuto paura nel rifiutare un permesso a un boss. “No, non ho paura e non l’ho mai avuta. Non perché sia coraggioso, ma perché ho sempre provato un unico sentimento, giudicare bene. E credo che sia un sentimento condiviso da molti colleghi. Altrimenti, fai un’altra cosa...”. Perciò è importante entrare in carcere. “Parlare, ascoltare, guardarsi negli occhi serve moltissimo per capire, di più e meglio. C’è sempre qualcosa - uno sguardo, una defaillance, una verità - che sfugge all’interlocutore e che sta a noi cogliere. E accogliere. Un grande esempio ce lo ha dato la Corte costituzionale, con il Viaggio nelle carceri, rivoluzionario e spiazzante, soprattutto per quei magistrati che quando camminano in certi luoghi si alzano il vestito per non farlo sporcare... Io invece dico che la toga si deve sporcare, si deve impregnare della realtà e se un giudice o una giudice si commuove davanti ai detenuti, quello è lo sguardo umano della giustizia, che spesso dimentichiamo di avere. Io non voglio dimenticarlo, perciò amo il mio lavoro”. E mentre lo dice, il suo sguardo si fa fiero. Riforma Cartabia, Sisto: “Cautela sulle modifiche. Interverremo su mafiosità e flagranza” di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 16 gennaio 2023 Il viceministro alla Giustizia: “No a salti nel vuoto, serve un’operazione verità sulle critiche alla legge”. “Non ho mai visto una riforma immediatamente perfetta. Al ministero stiamo lavorando su due soli correttivi. Le altre ipotesi circolate sono opinioni personali”. Francesco Paolo Sisto, viceministro alla Giustizia, esponente di lungo corso di Forza Italia, già sottosegretario nel governo Draghi, difende la riforma Cartabia. O, come rivendica, “faccio un’operazione verità”. Viceministro, la riforma del processo penale recentemente approvata espone al rischio che non si possa procedere d’ufficio neppure contro reati in ambito mafioso? “Prima di tutto, bisogna chiarire: nessuno si può permettere di dire che la riforma Cartabia favorisca i criminali, e tanto meno i mafiosi. È un’illazione da respingere al mittente. Di più, è una calunnia. E il ministero, fermi gli interventi indispensabili, sostiene convintamente la riforma”. Tuttavia una revisione dell’impianto si impone per via di una serie di criticità emerse. È stato lo stesso Nordio ad annunciare interventi normativi... “Certo. È necessario intervenire con qualche correttivo puntuale per colmare alcune lacune emerse in queste prime settimane di vigenza: isolate criticità. Tutte le riforme, del resto, hanno una fase di assestamento. Nessuna nasce perfetta. Ma non va dimenticato che le riforme strutturali del processo penale e civile sono state già avallate dalla Commissione europea e legittimano l’erogazione delle risorse del Pnrr. Qualsiasi modifica dovrà essere cauta, passare attraverso questa consapevolezza”. Nel merito, interverrete escludendo dalla procedibilità solo su querela in caso di aggravante mafiosa o modificherete l’elenco dei reati? “Stiamo lavorando su due aspetti. Evitare che la procedibilità a querela possa riguardare anche ipotesi di reato in contesto mafioso. Una strada potrebbe essere quella di definire che tutte le volte che si contesta l’aggravante mafiosa, si proceda d’ufficio. Stiamo cercando la miglior quadratura perché non si lascino scoperti ulteriori aspetti della riforma. Senza stravolgimenti”. E il secondo aspetto su cui interverrete? “Il secondo problema emerso riguarda l’arresto in flagranza. Se il reato è tra quelli per cui si procede di seguito a querela, come arrestare il responsabile colto in flagranza? La soluzione potrebbe essere che la querela non sia indispensabile per l’arresto, ma per l’emissione del provvedimento cautelare da parte del giudice: si avrebbe così il tempo necessario per individuare la vittima del reato e perché possa denunciare”. Non prevede nessun intervento sull’elenco di reati, come l’appropriazione indebita o il sequestro di persona, per evitare il rischio di improcedibilità o di scarcerazione? “Allo stato, sul tavolo non ci sono ipotesi di questo tipo. Per questo parlo di operazione verità: la linea del ministero è quella di intervenire su due punti comunicati, importanti ma definiti, cioè mafiosità e arresto in flagranza. Niente salti in avanti. È utile poi far notare che nel sistema sono già molti e da moltissimo tempo, fin dal codice Rocco, i reati per i quali si procede solo a querela di parte. E nessuno se n’è mai lamentato. Chi solleva ora il problema non lo fa per ragioni tecniche ma per una evidente strumentalizzazione politica”. Sulla giustizia, però, affiorano quelle sensibilità diverse tra le forze di maggioranza, di cui spesso si parla: c’è distanza tra la linea securitaria di FdI e Lega e quella ipergarantista del suo partito? “Ma no. Forza Italia è perfettamente allineata al ministro Nordio. Nel dibattito possono emergere punti di vista differenti, è fisiologico e utile, ma non esiste tensione. Siamo tutti concordi nel perseguire una rinnovata centralità delle garanzie al cittadino. Vogliamo una giustizia amica delle persone perbene, che non devono aver paura di avvicinarsi alle aule dei tribunali. Vogliamo un processo che riacquisti il giusto equilibrio tra accusa e difesa, un equilibrio che si è perso in decenni di sistema pm-centrico. La terzietà del giudice è un bene prezioso da custodire”. Costa (Azione) difende Cartabia: “Contro la sua legge si sta saldando il fronte forcaiolo della maggioranza” di Liana Milella La Repubblica, 16 gennaio 2023 L’esponente del Terzo Polo attacca via Arenula: “Nel decreto Rave c’era già la proroga di due mesi della riforma penale di Cartabia, ma stranamente, senza l’allarme mediatico, hanno previsto solo venti giorni in più per presentare la querela, ma non sono entrati nel merito dei reati, mafia compresa”. “Contro la legge Cartabia si sta saldando il fronte forcaiolo della maggioranza, i soliti procuratori, l’Anm, giornali che campano sulle inchieste e i soliti 5stelle...”. Enrico Costa difende l’ex Guardasigilli Marta Cartabia e accusa la maggioranza di “cedere al richiamo del giustizialismo più sfrenato”. Lei è sempre stato dalla parte della ex ministra della Giustizia. Lo è anche questa volta mentre incombono i mancati arresti per via della sua norma che impedisce di perseguire d’ufficio reati come il furto e le lesioni, queste ultime anche se c’è la presenza della mafia? “Andiamo con ordine. Durante il dibattito parlamentare né l’Anm, chiamata in audizione, né i grandi magistrati che oggi tuonano, né i partiti di governo e di opposizione hanno mosso obiezioni sul tema della querela...”. Un momento, i 5S dicono di averlo fatto e pure l’attuale sottosegretario alla Giustizia, il meloniano Delmastro, dice la stessa cosa... “Non possiamo giocare sui passaggi di questa legge. I 5stelle, ad agosto 2021, hanno votato la legge delega Cartabia che già prevedeva la querela per reati puniti nel minimo fino a due anni, specificando che non si dovesse tenere conto delle circostanze aggravanti. Ad agosto 2022, quando Cartabia ha presentato il contenuto della delega attuando il mandato che le era stato dato, i 5S hanno cominciato a protestare, ben sapendo che non si poteva più tornare indietro”. Lei è proprio sicuro di questo? Il governo non poteva cambiare quel testo? “Le strade erano due, o buttava a mare la delega, e con essa anche i famosi fondi del Pnrr, oppure teneva fede al testo già votato”. Adesso tra i nemici della norma però c’è anche FdI, il partito della premier Meloni... “Dal resoconto del Senato durante il dibattito sulla legge Cartabia emerge con chiarezza la valutazione positiva di FdI sull’ampliamento del regime di procedibilità a querela”. Sarà così, ma oggi gli esponenti meloniani al governo vogliono cambiare la legge sull’onda delle lamentele che arrivano dai magistrati. Del resto lo stesso consigliere giuridico di Cartabia, il professor Gian Luigi Gatta, apre alla possibilità di escludere i reati che hanno una componente mafiosa... “Quello che faranno non è un correttivo alla Cartabia, ma a tutti i reati procedibili a querela, correttivo da prendere in considerazione, ma che risulta marginale dal punto di vista numerico”. Senta, la ministra Cartabia, ex presidente della Consulta, è stata ed è sotto attacco per via del suo garantismo. Ai giustizialisti sia di destra che di sinistra non piacciono riforme come la giustizia riparativa, il potenziamento della messa alla prova o della tenuità del fatto. Cioè tutto quello che punisce i reati senza mettere la gente in galera... “Questi signori, quando parlano di certezza della pena, la confondono con la certezza del carcere. Si tratta di due profili del tutto diversi. La pena deve essere equa e proporzionata, non va elusa, ma da qui a buttare la chiave teorizzato da alcuni filosofi della maggioranza ce ne passa. Purtroppo il difetto dei populisti è quello di risolvere le emergenze con il codice penale, e per di più manifestano un certo dilettantismo nello scrivere le norme”. Sta parlando del decreto rave? “Ovviamente sì, un vero capolavoro di manifattura giuridica che creerà l’effetto opposto rispetto a quello che si intendeva raggiungere. Ma non basta, perché adesso tre titoli di giornale per fatti di cronaca in cui manca la querela hanno scatenato nuove pulsioni interventiste. Alla fine, sulla giustizia assistiamo a una sfilza di decreti. Nel decreto Rave c’era già la proroga di due mesi della Cartabia, ma stranamente, senza l’allarme mediatico, hanno previsto venti giorni in più per presentare la querela, ma non sono entrati nel merito dei reati, mafia compresa. Adesso ecco un nuovo decreto per correggere il precedente, mentre sui codici penale e di procedura penale dovrebbe essere quasi vietato usare la decretazione d’urgenza”. Costa, lei mi meraviglia perché stima e difende Nordio, ma le misure che lei sta citando vengono da lui... “Nordio, da gran signore, resta in silenzio, come quella parte della maggioranza che ha votato la legge Cartabia e che oggi è in evidente imbarazzo. Temo che questa reazione esagerata sia la prova generale delle resistenze che ci saranno quando Nordio farà le sue proposte garantiste”. Riforma Cartabia, Fabio Anselmo: “Impossibili i processi Aldrovandi e Cucchi” di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2023 Giorni fa l’avvocato Fabio Anselmo, a Cosenza, ha fatto ascoltare in aula la registrazione di una conversazione rubata ad alcuni testimoni del ritrovamento del cadavere del calciatore Denis Bergamini, morto in circostanze poco chiare nel lontano 1989. Solo oggi si celebra il processo all’ex fidanzata, Isabella Internò, accusata di omicidio volontario. “Ma con la riforma Cartabia - spiega Anselmo - non si sarebbe mai arrivati al dibattimento. Ora il giudice dell’udienza preliminare non deve più decidere se ci sono elementi per fare un processo, ma rinviare a giudizio solo in base a una prognosi di condanna. Peraltro in contraddizione con il principio di non colpevolezza: l’imputato, infatti, arriva al dibattimento dopo un primo giudizio di colpevolezza. E ancora, che differenza c’è tra questa previsione di condanna e il giudizio abbreviato, nel quale il gup giudica nel merito? L’unica differenza è che nel secondo caso deve stabilire anche la pena”. Anselmo è noto come avvocato di parte civile, ha ottenuto le condanne di poliziotti e carabinieri accusati di aver ucciso Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi: “Anche quei processi non si sarebbero mai fatti con la riforma Cartabia: nel primo sono state decisive le deposizioni in aula degli istruttori di polizia e l’acquisizione delle linee guida e dei manuali d’arresto, che dimostravano come l’asfissia posturale fosse un rischio da evitare consentendo all’arrestato di respirare; nel secondo c’è stata la confessione in aula del carabiniere Francesco Tedesco e solo dopo i dibattimento i medici legali hanno eliminato l’epilessia dalle cause di morte. Nei processi complessi la prova si forma nel dibattimento, chi dice il contrario non sa di cosa parla” Dicono di voler ridurre il carico sui tribunali... La riforma Cartabia fa un’aziendalizzazione della giustizia, proprio come avviene per la sanità. L’obiettivo è solo fare meno dibattimenti, ma il dibattimento è il cuore del processo, è il luogo deputato costituzionalmente a formare il convincimento del giudice. Per decenni l’obiettivo è stato garantire il giusto processo e oggi vogliamo toglierlo perché costa troppo. È come tagliare gli interventi chirurgici. Voi avvocati non avete le indagini difensive per assumere prove? Durante le indagini preliminari la persona offesa ha pochissimi poteri. Per Bergamini avrei dovuto interrogare l’allora procuratore della Repubblica e il medico legale: non sarebbero mai venuti. Ma pensi anche alle riforme delle intercettazioni: con il pretesto della privacy l’avvocato non ha più il diritto di averle tutte, sul presupposto che potrebbe passarle a voi giornalisti, ma solo quelle ritenute rilevanti, di fatto scelte dalla polizia giudiziaria. Uno squilibrio inaccettabile: dicono che comunque gli avvocati possono ascoltarle in una saletta, ma è fisicamente impossibile. Anche perché, come sa qualsiasi avvocato di provincia, abbiamo intercettazioni di bassa qualità, devi ascoltarle e riascoltarle. E poi parliamo della privacy di politici, che dovrebbero essere trasparenti: il ministro Carlo Nordio parla dei Paesi anglosassoni, ma lì i ministri si dimettono per le tesi di laurea, qui neanche per scandali gravi. Ci sono imputati inchiodati per lunghi anni a processi per accuse labili, non è meglio evitarli? Sì ma allora bisogna potenziare la giustizia, adeguare gli organici, garantire maggiori poteri alla persona offesa e un sistema efficace fin dalle indagini. Ma la verità si forma nel dibattimento, con la dialettica aperta e diretta tra le parti, non certo durante le indagini coperte dal segreto. Peraltro la riforma, introducendo criteri di valutazione dei pm incentrati sui processi vinti e persi, li spinge a privilegiare i casi più facili... Anche questi criteri statistici sono parte dell’aziendalizzazione. Lo stesso vale per il processo d’appello: quale corte disporrà una nuova perizia sapendo che alla scadenza del termine scatta l’improcedibilità? Giandomenico Caiazza, presidente delle Camere penali, ha ragione quando dice che il 70 per cento delle prescrizioni matura in fase d’indagine. Cosa c’entrano i dibattimenti? Bisognerebbe metterci dei soldi, rafforzare le Procure e gli uffici di polizia giudiziaria... E anche eliminare gli effetti devastanti della riforma Mastella, che ha messo i sostituti sotto l’autorità dei procuratori capo scelti con il sistema delle correnti, determinando una perdita di autonomia dal potere politico nell’esercizio dell’azione penale. “La riforma Cartabia crea problemi all’esercizio del diritto di difesa” di Antonio Alizzi Il Dubbio, 16 gennaio 2023 Oliviero Mazza, docente di diritto processuale penale all’Università “Milano-Bicocca”, esprime il suo punto di vista. “Si tratta di una riforma che non semplifica, complica, formalizza. Ci sono delle criticità anche sulle impugnazioni”. Il professore avvocato Oliviero Mazza, docente di diritto processuale penale all’Università “Milano-Bicocca”, esprime le sue perplessità sulla riforma Cartabia. E lo fa da Cosenza, in Calabria, partecipando a un nuovo seminario di studi della Camera Penale “Fausto Gullo”, sul tema del modello accusatorio. Dibattito, a cui hanno aderito anche altri avvocati e il presidente della Corte d’Assise di Cosenza, Paola Lucente, che ha fatto un intervento sulla presenza-assenza dell’imputato, sui “nuovi” doveri del pm e del giudice, e sul fatto che il decreto che dispone il giudizio dovrà essere formulato secondo una ragionevole previsione di condanna dell’imputato. Il professore Mazza, tra i difensori del caso Bibbiano, il cosiddetto processo “Angeli e Demoni”, ha parlato del “meno 25 per cento”. “Non vorrei si trasformasse in un meno 25% di garanzie per gli imputati, che è sostanzialmente il taglio lineare della durata dei processi. Questo dato credo che non tenga conto della necessità di celebrare comunque un giusto processo di durata ragionevole, sarebbe stato meglio, o sarebbe meglio, ipotizzare interventi mirati e selettivi piuttosto che ipotizzare un risultato finale in termini puramente quantitativi. Quello che conta è la qualità secondo me dei processi e non la quantità o la durata in valore assoluto” ha dichiarato il professore avvocato Oliviero Mazza. “Chiaramente dovremmo far fronte anche al tema del sistema giudiziario, di questa macchina che purtroppo non riesce a girare a pieno regime ma io ipotizzo soprattutto per problemi di natura strutturale e organizzativa più che normativa” ha aggiunto Mazza. Per il docente di diritto processuale penale comunque la riforma Cartabia andrebbe modificata. Un tema al centro dell’attività politica nazionale. “Questa è una riforma che andrebbe largamente corretta anche se poi l’impostazione purtroppo non può essere più rivista perché è una riforma che è appena entrata in vigore, quindi è difficile ipotizzare un’abrogazione tout court”. Mazza, però, si sente di dare un consiglio. “Delle correzioni credo che siano quanto mai opportune, abbiamo visto che ci sono delle criticità anche dal punto di vista operativo sulle impugnazioni, su alcuni passaggi della fase delle indagini preliminari. La riforma Cartabia credo che nasca con un vizio che va oltre il problema ideologico-politico, cioè di quali sono gli obiettivi che si vogliono aggiungere. Il vizio vero è che si tratta di una riforma che non semplifica, complica, formalizza e soprattutto crea non pochi problemi all’esercizio del diritto di difesa” conclude Mazza. Tra i relatori del convegno anche l’avvocato penalista Enzo Belvedere del foro di Cosenza che, parlando delle intercettazioni, altro tema caldo e tanto caro al ministro Carlo Nordio, ha dichiarato che “oggi in Italia ci sono 70mila persone intercettate, un costo altissimo per il sistema giustizia. Giusto limitarne l’uso non solo per i reati di corruzione”. L’amaro naufragare della giustizia nel mare dei processi infiniti di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 gennaio 2023 Si riaprono le indagini sul caso di Emanuela Orlandi, a 40 anni dalla sua scomparsa. Perché le inchieste eterne appassionano l’Italia ma sono un virus dello stato di diritto. Procure, media, bar sport del complottismo: la tesi, di un vecchio magistrato con uso di mondo. Un vecchio magistrato con uso di mondo, di fronte alla notizia della riapertura delle indagini sul caso di Emanuela Orlandi a quarant’anni tondi tondi dalla sua scomparsa, ha offerto al cronista una tesi cinica ma interessante per provare a inquadrare uno dei grandi misteri italiani, mistero persino più misterioso del caso di Emanuela Orlandi: le inchieste infinite. Dice il vecchio magistrato con uso di mondo che le inchieste infinite appassionano così tanto l’Italia per due ragioni diverse, che prescindono totalmente dall’idea di voler avere giustizia. La prima ragione è di carattere culturale. Attorno alle inchieste eterne si genera un indotto potenzialmente eterno e tutti i soggetti che negli anni si sono appassionati all’inchiesta eterna hanno mille ragioni per non far mai cadere l’attenzione sulla suddetta inchiesta. La seconda ragione è di carattere mediatico e le inchieste eterne restano eterne anche perché spesso vi sono magistrati che attraverso le inchieste eterne cercano un modo per avere anche loro un’eterna visibilità mediatica.  Il vecchio magistrato con uso di mondo nota poi un aspetto interessante delle inchieste eterne che riguarda alcune caratteristiche per così dire territoriali che hanno le suddette inchieste. Al sud, i magistrati eroi che sognano di legare la propria visibilità mediatica alle inchieste eterne sanno che la via più sicura per raggiungere il proprio obiettivo è aprire e riaprire un numero indefinito di volte inchieste del passato che riguardano casi irrisolti di mafia (quante volte è stata riaperta la tomba del bandito Giuliano?). Al nord, i magistrati eroi che sognano di legare la propria visibilità mediatica alle inchieste eterne sanno che la via più sicura per raggiungere il proprio obiettivo è aprire e riaprire un numero indefinito di volte inchieste del passato che riguardano presunti affari loschi (quante volte è stata aperta e riaperta un’indagine su Eni?). Al centro, i magistrati eroi che sognano di legare la propria visibilità mediatica alle inchieste eterne sanno che la via più sicura per raggiungere il proprio obiettivo è buttarsi a capofitto sul più grande mistero romano dopo il caso Simonetta Cesaroni: Emanuela Orlandi. Capire le ragioni per cui la famiglia di Emanuela Orlandi chiede giustizia non è difficile, naturalmente, così come non è difficile capire lo strazio che può provare una famiglia perbene che da quarant’anni cerca risposte sul destino di una ragazza sparita a quindici anni. Capire le ragioni per cui però il caso Orlandi, da anni, scalda il cuore dei giornalisti, e degli sceneggiatori, è altrettanto semplice, e la popolarità del caso Orlandi dipende più che dalla storia in sé, più che dalla ricerca della verità, dalla capacità di questa storia di essere diventata la sede nazionale del bar sport dei piccoli e grandi complottismi italiani. Un bar sport dove, senza curarsi di avere qualcosa che assomigli anche lontanamente a una prova, si può parlare liberamente di tutto. Dello Ior. Del Banco Ambrosiano. Del terrorismo internazionale. Di Roberto Calvi. Della banda della Magliana. Della tratta delle bianche. Del Kgb. Di Licio Gelli. Della P2. Di Marcinkus. Dell’Opus Dei. Non può stupire dunque che il caso Orlandi sia diventato una fonte inesauribile di polemiche politiche (vuoi conquistare un po’ di elettorato anticlericale a costo zero: buttati sul caso Orlandi), di sceneggiati prelibati (la serie su Netflix ha spinto il Vaticano a riaprire il caso) e di casi editoriali mancati (esistono almeno ventiquattro libri dedicati al caso della Orlandi, alcuni scritti da giornalisti curiosi, come quello di Maria Giovanna Maglie, libri che descrivono il caso Orlandi senza voler offrire verità assolute, e altri scritti da magistrati come Giancarlo Capaldo, che dopo aver indagato per anni sul caso Orlandi, non avendo trovato una prova provata capace di chiudere il mistero ha pensato bene di mettere a frutto il suo impegno civico in un ottimo libro per Chiarelettere). Quello che però stupisce è che all’interno del circo mediatico-giudiziario non vi sia nessuno interessato a far emergere un’altra verità che in uno stato di diritto meriterebbe di non essere archiviata. E la piccola verità è questa: le inchieste eterne, con la loro grancassa mediatica che trasforma queste inchieste in galline dalle uova d’oro, non sono l’emblema di una giustizia eroica che non si rassegna al tempo che passa ma sono al contrario l’emblema di una giustizia incapace di comprendere che le inchieste che non finiscono rappresentano a loro volta un’incredibile forma di ingiustizia. La malagiustizia non è rassegnarsi al fatto che alcuni delitti possono anche non essere scoperti, ma è non ricordare che scoperchiare tombe a distanza di quarant’anni e riaprire dopo quarant’anni inchieste senza avere nuove prove significa andare contro l’amata Costituzione (“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”) e significa andare contro la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 6 della Cedu: “Ogni persona ha diritto a un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”). Giancarlo Capaldo, personaggio centrale nella vicenda di Emanuela Orlandi, in quanto all’epoca dei fatti indagò da procuratore sulla sparizione della Orlandi, per sette anni, è uno dei magistrati più ascoltati e intervistati sul caso della Orlandi. Ma ogni volta che vi è una ragione buona per riparlare del caso Orlandi le parole consegnate da Capaldo ai giornalisti diventano regolarmente il manifesto di tutto quello che un buon magistrato dovrebbe evitare: essere allusivo senza prove ed evocare teorie del complotto senza avere pezze d’appoggio. Mercoledì scorso, intervistato dalla Stampa, Capaldo non si è trattenuto e ha dato il meglio di sé: “Credo che Emanuela sia entrata, con l’ingenuità dei suoi quindici anni, in un gioco troppo più grande di lei. Ritengo che sia stata sequestrata a fini di ricatto e poi riconsegnata da De Pedis a qualcuno inviato dal Vaticano. Temo che, successivamente, la povera Emanuela sia morta”. Credo. Ritengo. Temo. Le inchieste eterne, in fondo, servono anche a questo: alimentare sospetti senza prove, senza avere pezze d’appoggio, senza avere nulla da dire, anche a costo di offrire false illusioni e anche a costo di dare il proprio contributo a una forma di malagiustizia che gli adescatori del bar sport del complottismo non possono permettersi di combattere: l’oscenità del processo eterno. Un sistema giudiziario sordo alle critiche di Alessandro Barbano Il Foglio, 16 gennaio 2023 Il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, firma una “requisitoria” contro il “furore” garantista del libro di Alessandro Barbano. Che qui replica ricordando il divorzio che si è prodotto tra la giustizia e la vita delle persone. Il mio “Inganno” sarebbe un inganno. Così lo chiama senza mezzi termini il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, in una lunga recensione, ma sarebbe più giusto definirla requisitoria, pubblicata sul sito “Giustizia insieme”. Il caso vuole, com’è uso e sopruso dei tempi, che nei miei confronti non chieda una condanna, ma piuttosto esprima un giudizio di pericolosità, simile a quello che la giustizia speciale dell’Antimafia commina nel cosiddetto giudizio di prevenzione. Nessuna contestazione di merito viene mossa dall’alto magistrato alle circostanze di fatto e di diritto raccontate nel libro. Ciò che invece si censura senza attenuanti è il mio talvolta definito “furore”, talaltra “estremismo”, che intreccerebbero “le perversioni del peggior sistema inquisitorio” con “una paradossale corrente garantista del più acre populismo”. Dovrei consolarmi di non essere tacciato di collusioni con la mafia, ancorché nella sua scomunica morale il procuratore arrivi a sostenere che taluni eccessi discorsivi pure consentirebbero di dubitare della mia buona fede. Se cedessi alla tentazione di paragonarmi a uomini più illustri che, assai prima di me, hanno ammonito dal rischio di fare dell’Antimafia una nicchia di potere e di privilegio, potrei perfino compiacermi di tanta attenzione. Mi preme invece segnalare, in premessa della mia replica e con rammarico, una ben diversa questione: una velata censura, come quella espressa dalle parole del procuratore, conferma tristemente il clima non proprio favorevole al confronto che scoraggia punti di vista non convenzionali, e che induce molti lettori de “L’inganno” a dirmi che ho scritto un libro coraggioso. In realtà è coraggioso sfidare la mafia, non dovrebbe essere coraggioso criticare l’Antimafia. Se lo è, almeno nella percezione collettiva, dobbiamo interrogarci su che cosa sia diventato questo fondamentale presidio di legalità della nostra democrazia. Ed è questa la prima riflessione che mi preme rinviare al procuratore. La seconda riguarda invece il divorzio insanabile che si è prodotto tra la giustizia e la vita delle persone. Nella giustizia si può allo stesso tempo assolvere un cittadino perché il fatto non sussiste, e confiscargli tutti i beni, l’azienda, i conti correnti, la casa, le auto e perfino i regali ricevuti dai figli per la prima comunione. Si può fare e dire che le due azioni, assolvere e confiscare, sono possibili, compatibili, coerenti e, in certi casi, consequenziali. Perché la condanna è un provvedimento penale e la confisca un provvedimento sui generis, come lo definisce la Consulta. La condanna si fonda sulla colpevolezza, la confisca sulla pericolosità. La condanna si commina in base a prove accertate oltre ogni ragionevole dubbio, la confisca si dispone sulla base di indizi che possono anche non essere gravi, quindi irrilevanti, e possono anche non essere concordanti, quindi contraddetti da altri indizi. Il procuratore Melillo non dice se è giusto che ciò accada. Se è giusto confiscare patrimoni di cittadini assolti, di terzi mai indagati, di eredi ignari e, perfino, di vittime della mafia, cioè imprenditori costretti a pagare il pizzo. Si limita a sostenere che questo sistema serve a controllare l’origine della ricchezza, per evitare che essa derivi dalla commissione di delitti. Omette però di ricordare che le confische in Italia prescindono dall’accertamento di un delitto, a differenza di quanto accade nella stragrande maggioranza delle democrazie liberali d’Europa. Il doppio binario che separa l’azione penale dalla cosiddetta prevenzione è, nelle stanze della giustizia, pacifico. Nella vita no. Nella vita l’idea di un intervento violento e afflittivo dello Stato suona come la più atroce delle sopraffazioni. Se tra la logica della giustizia e quella della vita si è aperto un cratere così ampio, vuol dire che la prima non è più funzione della seconda, ma esiste per sé stessa. È questo il dubbio che il libro solleva, partendo da un dato di osservazione e di analisi: le democrazie fragili sviluppano talvolta, di fronte a un’emergenza, anticorpi fuori controllo che col tempo perdono di vista il bersaglio verso cui sono diretti e attaccano l’organismo che dovrebbero difendere. L’Antimafia è un sistema di anticorpi legislativi, giudiziari e culturali, messo in piedi tra quaranta e trenta anni fa per combattere un fenomeno gravissimo piantato nel cuore di intere regioni del paese. Quel sistema però col tempo è diventato una macchina dell’emergenza che nutre interessi di potere e di lucro cresciuti nella politica, nella magistratura, nella burocrazia ministeriale, nelle libere professioni e nel volontariato. Il rischio di una deviazione si riscontra nelle vicende che il libro racconta, e che non sono casi di denegata giustizia o errori giudiziari, ma piuttosto esempi del modo ordinario in cui questa giustizia funziona. Tanto è vero che nessuno paga e nessuno mai pagherà per questi paradossi. Nessuno ha risarcito la famiglia di Riccardo Greco, l’imprenditore di Gela che denunciò i mafiosi estortori e che per anni fu perseguitato dallo Stato quale presunto complice, fino al punto in cui decise di suicidarsi, per sottrarre la sua stessa vita e quella dei suoi familiari alla ferocia kafkiana di un processo capace di inseguirlo per ogni dove. E nessuno risponde dell’immane distruzione di valore privato e pubblico che la macchina della prevenzione realizza con le confische e le interdittive, costituendo una gigantesca manomorta e lasciandola marcire dopo averla svuotata di ogni risorsa. Allo stesso modo nessuno risponde delle retate che ciclicamente connotano l’”attenzione” dello Stato per il Mezzogiorno e dell’insostenibile sperequazione tra l’esorbitante numero di arrestati e incriminati da una parte e l’esiguo numero di condannati dall’altra. Qui il procuratore va oltre le mie intenzioni e mi attribuisce conclusioni che nel libro non ho mai tratto, “secondo le quali le indagini e i processi di mafia ordinariamente procederebbero soltanto attraverso inaffidabili delazioni o massive intercettazioni senza riscontri, nutrendosi di congetture irresponsabili o inconsistenti illazioni”. In realtà io mi chiedo, e gli chiedo, se si possa reagire con indifferenza al ripetersi di operazioni che, per la fragile architettura probatoria su cui si reggono, e per l’enorme impatto sociale che producono, denotano una sorta di colonialismo giudiziario del Sud fondato su atti autoritativi propri di uno Stato di polizia. O forse è fisiologico arrestarne cento per condannarne trenta, venti, e talvolta dieci? Il punto di osservazione da cui muove la mia analisi è civile, non giudiziario. Ma proprio perché esterno al sistema e alle sue liturgie, mostra il corto circuito di una giustizia che fa sempre più fatica a distinguere tra criminali e vittime, perché ha smarrito la linea di tassatività e di tipicità che in un diritto penale liberale separa il lecito dall’illecito. Intestandosi non più e non solo il perseguimento dell’illegalità, ma piuttosto un controllo di legalità che coincide con un esame sulla virtù della vita pubblica, l’Antimafia rischia di trasformarsi in una macchina di dolore umano non giustificato e non giustificabile. Così può accadere che una Corte d’Appello confischi i beni di un imprenditore costretto a pagare il pizzo con la motivazione che “nessuno lo obbligava a non cambiare mestiere”. O che un condannato per mafia sia liberato dal giudice di sorveglianza perché si è redento, tanto da trovare un lavoro nell’azienda della moglie, e la stessa moglie sia invece interdetta per aver dato lavoro a un ex mafioso, cioè il marito. Il fatto è che queste vicende non paiono prova di una fallace eccezionalità, peraltro in nessun foro censurata, ma piuttosto indizio di una tragica ordinarietà. Mi chiedo e chiedo allora al procuratore se il furore populista stia nella mia critica a quella che purtroppo si connota come una strategia operativa e non piuttosto nella strategia stessa. E, ancora, se sia espressione di estremismo, o piuttosto di moderatismo, chiedere che le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione tornino all’interno del processo penale, ancorandosi all’accertamento di un reato e limitandosi alla lotta alla mafia; che la legge definisca con chiarezza il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzando in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno; che il paradigma del sospetto e del disdoro sia abiurato, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese; che sia dato un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile; che sia restituita una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo; che siano considerate come sanzioni, e perciò assistite dalle garanzie del processo penale, tutte le misure amministrative che comportino un’afflittività e una limitazione della libertà per i destinatari, come le interdittive antimafia; che, da ultimo, nel paese si apra un dibattito sulla crisi e sulla difesa dello Stato di diritto, che impegni al massimo livello le Commissioni giustizia delle due Camere. E qui mi fa piacere riscontrare una convergenza con alcune concessioni che, in mezzo a tanta scomunica, il procuratore fa alle tesi del libro. Quando prende le distanze da una giustizia che si percepisce baluardo contro il crimine, o quando critica il dilagare del codice antimafia nell’ordinamento, quando sconfessa la prospettiva di una magistratura imprenditrice delle aziende confiscaste e, da ultimo, quando riconosce che la lotta alla mafia si fa con la politica e non solo con l’azione penale. I punti di condivisione potrebbero essere assai di più, se la magistratura più illuminata, a cui pure il mio libro fa appello, rinunciasse a una difesa corporativa dell’indifendibile. Perché la giustizia da cui sono scomparse le persone in nome del risultato è frutto sì di una deriva legislativa ai limiti della costituzionalità e di fughe giurisprudenziali non sempre equilibrate, ma soprattutto di una cultura che ha impresso all’investigazione una torsione inquisitoria, a cui è connesso un protagonismo politico inaccettabile. Il cui dazio lo pagano i magistrati più rigorosi. Dal procuratore che pure, come primo atto del suo nuovo incarico al vertice dell’Antimafia, ha chiesto pubblicamente scusa alla famiglia Borsellino per il depistaggio e gli errori giudiziari commessi sul delitto, non mi sarei aspettato un’acritica difesa di un’azione penale che, proprio sulle stragi di mafia, ha mostrato uno sbandamento ideologico così radicale da rappresentare una turbativa democratica dai contorni quasi eversivi. Melillo dice che la politica ha rinunciato a “dare una risposta al bisogno di verità e giustizia originato da molti dei più gravi delitti che hanno insanguinato il cammino dell’Italia repubblicana”. Non è chiaro che tipo di risposta il procuratore attendesse. Mi limito a fargli notare che la politica è stata messa sotto accusa per anni da una surreale inchiesta della procura di Palermo per una trattativa inesistente. Mi chiedo altresì se la risposta che la magistratura possa dare consista nelle deliranti dichiarazioni di pentiti, come quelle portate di recente a processo dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. Secondo cui Berlusconi e Craxi nel 1978 andavano per le campagne dell’Aspromonte a cercare i voti della ‘Ndrangheta. Melillo s’indigna perché nel libro definisco queste deposizioni una “fogna di maleodoranti congetture”. Sarei curioso di sapere come le definirebbe lui. Ma nella strenua difesa sindacale del procuratore antimafia non c’è al momento una risposta alla mia curiosità. Mi chiedo e gli chiedo se non stia sprecando una grande occasione. Rivoluzione digitale? Passi in avanti, ma non cantiamo vittoria di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 gennaio 2023 L’anno appena iniziato porterà a una sempre maggiore digitalizzazione della giustizia? È la domanda che si pongono i giuristi, a partire dagli avvocati. Nel civile una piccola - ma neanche tanto, a giudicare dai numeri crescenti - rivoluzione è già avvenuta. Quasi dieci anni fa, nel 2014, primo anno in cui è stata introdotta l’obbligatorietà del deposito di alcuni atti processuali, sono stati depositati circa un milione di documenti digitali da parte degli avvocati. L’ultimo dato disponibile, relativo al 2021, evidenzia che i depositi di parte sono stati oltre 21 milioni. Anche i magistrati si sono dovuti adeguare. Per i provvedimenti dei giudici si è passati da 1,7 milioni nel 2014 ad oltre 11 milioni nel 2021. Gli studi legali e le cancellerie dei Tribunali avranno, dunque, sempre meno carta sulle scrivanie e negli armadi. Il ministero della Giustizia (si veda l’intervista a Giuseppe Fichera) parla di un fatto epocale destinato ad incidere ulteriormente sul modo con cui viene amministrata la giustizia in Italia. La Corte dei Conti pochi giorni fa ha sottolineato l’importanza del processo civile telematico anche se la ragionevole durata dei processi “appare per lo più perseguibile con adeguate procedure di risoluzione extragiudiziale delle controversie”. Attenzione, però, ad osannare la digitalizzazione e gli strumenti ad essa connessi, trascurando l’intero contesto che anima la giustizia. La presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, mette in guardia: “Il processo telematico è una funzione”. “Il limite - dice - è quello di avere una visione un po’ miope, direi anche a scompartimento. Le valutazioni devono essere d’insieme. E a tal riguardo non si può non si considerare il processo telematico una parte, uno strumento. Non è ipotizzabile immaginare o pensare che possa da solo risolvere tutti i problemi della giustizia. Il processo telematico è lo strumento, dopo c’è bisogno che qualcuno faccia le sentenze. Un aspetto, questo, non di poco conto. La valutazione nei confronti del processo telematico è comunque nel complesso positiva. Bisogna, però, evidenziare che è sempre necessaria un’attività umana: vanno inseriti gli atti, qualcuno deve fissare dei termini, qualcuno deve le sciogliere le riserve con dei provvedimenti. Se valutiamo anche i tempi medi nel civile, oggi, possiamo dire che il processo telematico è comunque a pieno regime”. Predica cautela l’avvocata Carla Secchieri, consigliera Cnf e vicepresidente della Fondazione italiana innovazione forense. “Indubbiamente - afferma -, sotto il profilo normativo si è cercato, con la legge delega, di razionalizzare gli interventi che nel corso degli anni avevano trasformato le norme in materia di processo digitale in una sorta di caccia al tesoro, al fine di trovare quanto necessario per il compimento dell’atto, mediante l’inserimento del titolo V-ter nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. E se sotto il profilo sistematico, questo è sicuramente un passo avanti, ritengo che si sia persa una grande occasione, per semplificare davvero, proprio in ottica digitale. Penso ad esempio alle attestazioni di conformità, e al tanto sospirato rito unico, che regoli in via uniforme tutti i processi telematici ad oggi esistenti. Significativa mi pare anche la circostanza che, se da un lato per gli avvocati diventa obbligatorio il deposito telematico per tutto il processo, e lo considero un bene, per i magistrati questo obbligo non è stato introdotto, con evidenti problemi per una raccolta sistematica dei provvedimenti. Per esempio, la copia per immagine non consente indicizzazioni o anonimizzazioni tramite strumenti di intelligenza artificiale, così che non sarà possibile consultare o utilizzare, anche a meri scopi didattici, una banca dati completa”. Nell’immediato, inoltre, secondo l’avvocata Secchieri non mancheranno disagi. “La recente anticipazione - aggiunge - introdotta con la L. 197/2022, subito seguita dalle proroghe di cui al D.L. 198/2022 in merito all’applicazione della normativa emergenziale, crea, anche sotto il profilo del processo telematico, non pochi problemi di coordinamento. Sotto il profilo tecnico la situazione mi pare ancora peggiore. L’anticipazione dell’entrata in vigore della riforma, che già non comporterà con ogni probabilità la riduzione di un solo giorno nella durata dei processi, ad oggi pare creare non pochi problemi. Mancano, infatti, molti schemi .xsd, i cosiddetti schemi atto per il deposito degli atti di parte e dei magistrati, che hanno un iter non proprio semplice, dovendo essere pensati, realizzati e condivisi con le software house, che dovranno implementare i loro programmi. Mancano strutture già pubblicizzate, come ad esempio l’area web dove dovrebbero essere inserite le notifiche non andate a buon fine per fatto del destinatario. Peggiore, credo, è la situazione del Tribunale per i Minorenni e del Giudice di Pace, ad oggi sforniti degli strumenti per il processo telematico. E ancora oggi dobbiamo fare i conti con improvvise interruzioni dei servizi, di installazioni di aggiornamenti che bloccano l’accesso alla consultazione dei sistemi”. L’avvocato Luigi Viola del Foro di Lecce, esperto di intelligenza artificiale applicata al diritto, si spinge oltre. La digitalizzazione è ormai un processo che non si può fermare e ci attendono ulteriori novità. “La riforma Cartabia - commenta -, sul versante processuale civile, spinge certamente verso il digitale. Ne è prova un nuovo Titolo delle disposizioni per l’attuazione del Codice di procedura civile dedicato espressamente alla Giustizia digitale. Al contempo, viene data linfa al progetto di legge recante “Introduzione dell’articolo 5-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, concernente l’istituzione di una piattaforma telematica di giustizia predittiva in materia tributaria” (n. C. 3593). Si tratta di Prodigit (progetto di digitalizzazione tributaria) che è finanziato con 8 milioni di euro (fondi Pon e Next Generation Eu) e prevede principalmente l’implementazione della Banca dati nazionale di giurisprudenza di merito, la realizzazione di un modello di cosiddetta giustizia predittiva e la creazione sperimentale del laboratorio digitale del giudice tributario denominato “Tribhub”“. Come funziona in concreto? “Si procede ad addestrare - spiega Viola - un’intelligenza artificiale tramite la somministrazione di circa un milione di sentenze tributarie. Successivamente, sarà possibile, si dice per fine 2023, interrogare Prodigit sul possibile esito di un processo tributario con tanto di percentuale di successo. Ad esempio, il cittadino potrebbe chiedere: per il fatto X, posso ottenere la tutela Y? Prodigit dovrebbe rispondere: nel numero di casi z% la giurisprudenza tributaria ha applicato Y al fatto X. Il modello di giustizia predittiva proposta è di tipo induttivo: si addestra tramite i casi”. Ma attenzione, le criticità non mancano. “La gestione - conclude Luigi Viola - è affidata principalmente al ministero dell’Economia e delle finanze, cioè quel soggetto che, spessissimo, è parte del processo. Dunque, è a rischio l’imparzialità. Inoltre, si fa entrare di fatto uno strumento che segue una logica da Common law e non Civil law. In Italia la giurisprudenza precedente non è vincolante, ancorché utile”. “L’era del faldone sta per tramontare, entro la fine dell’anno i procedimenti civili saranno digitalizzati” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 gennaio 2023 Parla Giuseppe Fichera, magistrato e vicecapo Dipartimento per la Transizione digitale della giustizia, l’Analisi statistica e le politiche di coesione. “L’Italia è un modello virtuoso per tutti gli Stati dell’Unione europea”. Giuseppe Fichera, magistrato e vicecapo Dipartimento per la Transizione digitale della giustizia, l’Analisi statistica e le Politiche di coesione, è convinto che il 2023 rafforzerà la consapevolezza degli operatori del diritto sull’importanza della digitalizzazione dei processi. “Il mondo della giustizia italiana - dice al Dubbio Giuseppe Fichera - è chiamato a prove sempre più impegnative. Occorre avere la consapevolezza che, da un lato, vi è ancora molto da lavorare sul tema dolentissimo della durata dei processi civili e penali e che, dall’altro, le riforme messe in cantiere dal precedente governo, fino ad ora accolte in maniera assai tiepida da tanti magistrati e avvocati, prestissimo saranno messe alla dura prova dell’applicazione nel lavoro giudiziario quotidiano”. Dunque, occorre farsi trovare pronti. “È compito dell’intera comunità dei giuristi - aggiunge - quale che sia il ruolo rivestito nell’amministrazione come nella giurisdizione, fare qui e ora la propria parte, rinunciando ad atteggiamenti di chiusura verso le nuove opportunità, che oggi offre l’informatica giudiziaria. Può sembrare banale, ma è meglio ricordarlo sempre: la buona amministrazione della giustizia è vitale per ogni paese democratico”. Dottor Fichera, il processo civile telematico italiano ha fatto quasi scuola in Europa. Il 2023 porterà altre novità? Io credo che il 2023 sarà un anno decisivo. Il primo atto processuale telematico, un ricorso per decreto ingiuntivo, venne depositato nel dicembre del lontano 2006. Dal 1° gennaio di quest’anno, grazie agli sforzi organizzativi messi in campo dal nostro ministero, il Pct è obbligatorio per tutti gli atti di parte, introduttivi ed endoprocedimentali, per la durata dell’intero processo, dal primo grado in Tribunale fino alla Cassazione. Inoltre, finalmente, dal prossimo 30 giugno il Pct sarà obbligatorio anche nei procedimenti innanzi al Tribunale per i minorenni, al Tribunale superiore per le acque pubbliche e al Giudice di pace. In questo modo entro la fine dell’anno tutti i procedimenti civili saranno digitalizzati e se, come auspichiamo fortemente, verrà introdotta dal Parlamento una disposizione che prevede il deposito in modalità telematica di tutti i provvedimenti dei giudici, allora davvero senza retorica potremo affermare che è tramontata l’era del “faldone”, che per secoli ha dominato, direi anche figurativamente, la procedura giudiziaria. Nel Pct non si può non tenere conto del ruolo fondamentale che svolgono tanto gli avvocati quanto i magistrati... Il Pct, a mio parere, e per smentire qualche recente errato titolo giornalistico, rappresenta la più grande riforma processuale degli ultimi trent’anni. Forse qualcuno ha dimenticato come si lavorava negli uffici giudiziari italiani non moltissimi anni fa, prima dell’avvento della telematica, con le comunicazioni del cancelliere trasmesse agli avvocati tramite ufficiale giudiziario, dopo settimane e le sentenze dei giudici pubblicate dopo mesi dal loro deposito in cancelleria. Ora, quanto fin qui realizzato è frutto di un lavoro comune di tutti i soggetti coinvolti. Senza l’apporto generoso di magistrati, cancellieri e avvocati non avremmo potuto raggiungere l’obiettivo dell’integrale digitalizzazione del processo civile. Basti pensare all’impegno davvero lodevole dei magistrati italiani nella sperimentazione continua delle frequenti modifiche evolutive sulla “consolle”, l’applicativo usato per accedere ai registri informatici, come pure alla grande prova di capacità di adattarsi all’innovazione tecnologica, cui è stata chiamata l’intera classe forense. Negli studi legali e nelle cancellerie dei Tribunali ci saranno, dunque, sempre meno carte e faldoni. Stiamo voltando pagina? Credo che per rispondere a questa domanda sia utile citare alcuni dati. Nel 2014, primo anno in cui è stata introdotta l’obbligatorietà del deposito di taluni atti processuali, vennero depositati circa un milione di atti digitali da parte degli avvocati. Nel 2021, ultimo dato disponibile, i depositi di parte sono stati oltre 21 milioni. Stesso discorso per i provvedimenti dei giudici: si è passati da 1,7 milioni nel 2014 ad oltre 11 milioni nel 2021 e non c’è ancora l’obbligatorietà del deposito telematico di tali atti, se non per i decreti ingiuntivi. Come ho detto prima, la carta è destinata ad uscire dal processo e questo fatto epocale sempre più influenzerà il modo in cui viene amministrata la giustizia nel nostro Paese. Mi riferisco, solo per fare qualche esempio, ai nuovi “format” per gli atti nativi digitali, che non possono essere pensati come una mera riproduzione in pdf di atti analogici, alla creazione di banche dati capaci di raccogliere tutti i provvedimenti giudiziari di merito, nonché ai primi esperimenti di intelligenza artificiale. Penso già oggi alla selezione dei fascicoli, finalizzata a una formazione efficiente dei ruoli d’udienza. Il processo telematico è utile anche ai fini di un monitoraggio complessivo dell’andamento della giustizia non solo in merito alla durata dei processi? Nell’anno che si è da poco concluso all’interno del ministero della Giustizia è stato istituto un nuovo Dipartimento, quello per la transazione digitale, l’analisi statistica e le politiche di coesione, dove attualmente lavoro. L’obiettivo della nuova organizzazione, come si evince dalla legge istitutiva, è chiaramente quello di assicurare il coordinamento unitario delle due direzioni generali che si occupano, l’una, la Dgsia, della gestione di tutte le risorse informatiche della giustizia e, l’altra, la Dgstat, della raccolta ed analisi di tutti i dati giudiziari. Ciò allo scopo preciso da assicurare, anche al di là dei contingenti impegni assunti dal nostro paese in base al Pnrr, un monitoraggio costante e attendibile del grado di efficienza del servizio giustizia. Risultato questo che oggi, penso di poterlo affermare con certezza, non può prescindere da una massiccia digitalizzazione dei procedimenti giudiziari, come è testimoniato dal livello sempre più raffinato raggiunto dalle statistiche giudiziarie civili proprio dopo l’avvento del Pct. Anche in Francia si sta lavorando e investendo molto sulla digitalizzazione nella giustizia. L’Italia in un certo modo ha rappresentato un esempio? Ho letto l’interessante analisi che ha fatto il vostro giornale sui progetti di digitalizzazione avviati oltralpe. Credo che la Francia, sul piano delle riforme, sia sostanziali che processuali, spesso abbia costituito un esempio per il nostro Paese, ma forse stavolta, con una punta di orgoglio nazionale, possiamo dire che l’Italia sul Pct è stato un modello virtuoso per tutti gli stati dell’Ue, solo considerato che altre esperienze di procedimenti telematici sono state contrassegnate da una diffusione solo settoriale e che la Corte di Cassazione italiana è stata la prima Corte suprema europea ad avere introdotto il deposito generalizzato di tutti gli atti processuali di parte. È altrettanto certo che il ministero della Giustizia e, in particolare, il Dipartimento di cui faccio parte, sono chiamati oggi ad un impegno speciale per garantire che la telematica sia posta sempre al servizio di chi lavora nel settore giustizia e non viceversa. I reati contro le donne vanno riconosciuti come tali: solo così si possono prevenire di Irma Conti* Il Domani, 16 gennaio 2023 L’omicidio dell’avvocata romana Martina Scialdone ci interroga sugli strumenti della giustizia. Le leggi per punire ex post ci sono, va rafforzata la prevenzione con un approccio che tenga conto della componente psicologica e sociale di questi reati. La violenza contro le donne è un crimine e come tale va affrontato. Senza scuse o inaccettabili moventi giustificatori, quotidianamente e non solo ogni volta che c’è una disgrazia della dimensione di quella che oggi vede una giovane e meravigliosa collega avvocata non più con noi. Purtroppo non possiamo riscrivere il passato per le vittime ma, come faceva anche Martina Scialdone - la giovane collega vittima del suo ex compagno nella notte di venerdì a Roma - dobbiamo combattere questo fenomeno definendolo nel modo giusto. Solo in questo modo lo affronteremo di conseguenza. Affinché vi sia una effettiva prevenzione, l’approccio a questo tipo di crimine deve essere sistemico. Con ciò intendo dire che va isolato e studiato sin dall’università come materia specifica, perché le implicazioni che coinvolge vanno dalla componente psicologica alla sociologia fino poi al diritto, sia sotto il profilo civile che penale che minorile. Il profilo operativo - Sotto il profilo operativo, la normativa italiana è all’avanguardia ma in concreto occorre fare un passo in più: è necessario anticipare i costi della violenza, elevatissimi, dalla fase repressiva a quella preventiva. Il danno derivante dai crimini contro le donne è incalcolabile perché tocca il bene più prezioso della vita, ma generano anche danni indiretti, altrettanto ingenti: quelli sanitari, psicologici, per i minori, per la società tutta. Le leggi sono migliorate anche di recente, con l’introduzione di nuovi reati ed l’aumento significativo delle pene. Il cosiddetto “Codice Rosso” introdotto nel 2019 costituisce, senza dubbio alcuno, un concreto passo in avanti nella lotta contro la violenza di genere ed è stato un significativo intervento per imporre una tempestiva valutazione delle denunce querele. L’approvazione di una normativa specifica con riferimento ad alcuni reati che affliggono, in particolare, una dimensione domestica e comunque connessi al genere si è resa necessaria per l’intensificarsi di casi sempre più frequenti e con vari livelli di danno: dalla violenza domestica ai maltrattamenti, fino ad arrivare ai femminicidi. Prioritario, tuttavia, è che le vittime (o chi può) presentino una denuncia, circostanza tutt’altro che scontata se pensiamo che solo il 12 per cento delle donne uccise tra il 2018 ed il 2020 aveva denunciato una violenza. In quest’ottica il ruolo dell’avvocato assume fondamentale importanza, nel farsi da mediatore per esporre in modo organico i fatti rappresentati dalla vittima e a metterli in correlazione tra loro, ordinati a livello temporale. A differenza di quanto avveniva in passato, infatti, la nuova normativa prevede che, una volta presentata la querela, ci sia immediatamente un’informativa trasmessa al pubblico ministero da parte della polizia giudiziaria che la riceve e la precisione nell’esposizione dei fatti diventa determinante nel facilitare l’agire in tutela della vittima. Per questo le norme penali hanno bisogno di un sistema efficiente di prevenzione, che assicuri un intervento tempestivo, un allineamento tra il diritto civile ed il penale, risorse che consentano e garantiscano provvedimenti in materia di diritto di famiglia ad horas, perché le evoluzioni e le involuzioni dei rapporti sono repentine e la cadenza temporale della vita non può attendere mesi e mesi, per la carenza di organico e la mole di lavoro che ad oggi gli uffici giudiziari hanno. La prevenzione - Per farlo, il primo salto di chi amministra la giustizia e legifera deve essere logico, invertendo i termini: dal risarcimento del danno ex post alla prevenzione ex ante, con salvezza di vite e notevole riduzione dei danni. La repressione è questione che rileva come effetto deterrente ed è già massima, come ha dimostrato anche in questo caso l’immediato arresto dell’autore dell’omicidio da parte della procura di Roma e delle forze dell’ordine. Tuttavia è evidentemente una risposta insufficiente, perché non risolve la perdita della vita della donna. Bisogna quindi agire ex ante, mettendo a fuoco il punto nodale: il femminicidio è un crimine che nasce nelle falle di un rapporto personale tra due persone. Ogni caso è una storia a sé, ma tutti hanno un unico comune denominatore: non importano le circostanze che lo hanno cagionato, si tratta di un reato e tra i più aberranti. L’autore dei reati contro le donne non è un folle, non è un pazzo, il suo atto non è conseguenza del raptus o di gelosia ma la sua è una condotta criminosa, caratterizzata dalla volontà di uccidere la donna per il sol fatto di essere donna. Se è vero che nessun reato e soprattutto nessun omicidio ha un movente accettabile, il movente dei femminicidi, ma anche delle violenze sessuali, fisiche e psicologiche, dei maltrattamenti, delle lesioni contro una donna, della violenza assistita nei confronti dei minori è ancora meno accettabile. Il femminicidio avviene in contesti in cui, nell’evolversi del rapporto, la vittima è portata ad affidarsi naturalmente a quello che diventa poi il suo omicida e non ha mai, e dico mai, alcuna causa scatenante da parte della donna. L’esperienza italiana della Commissione d’inchiesta del Senato sui Femminicidi, presieduta dalla senatrice Valeria Valente è stata proficua nella sua mappatura del fenomeno, perché ha aiutato a comprenderlo ed è uno studio da portare avanti, avvalendosi dell’esperienza qualificata di esperti, che la materia richiede necessariamente. È per questo che, nell’ambito della formazione continua dell’Associazione donne giuriste Italia, oggi avrà luogo un convegno su questo tema. Alla luce del recente dramma, dedicheremo la giornata di studio alla collega Martina Scialdone, nel cui nome uniremo impegno e determinazione per raggiungere l’obiettivo zero femmincidi. *Avvocata Per il detenuto al 41-bis una sola foto all’anno con la figlia  di Giustino Parisse Il Centro, 16 gennaio 2023 La Cassazione stabilisce la limitazione in relazione al caso di un 35enne detenuto al 41-bis a Preturo. Un boss mafioso di 35 anni, detenuto in regime di 41 bis nel carcere Le Costarelle di Preturo, può farsi fare non più di una foto all’anno insieme alla figlia minore. Lo ha deciso la Cassazione accogliendo il ricorso del ministero della Giustizia, ricorso presentato contro una decisione del tribunale di Sorveglianza che invece ne autorizzava 4 ogni anno. Il tribunale aveva “ritenuto che il Magistrato di sorveglianza avesse correttamente reputato illegittima la limitazione di potere fare eseguire al boss, nel corso dell’anno, una sola fotografia con la propria figlia minore, in quanto, da un lato, le pose di colui che intendeva farsi ritrarre in foto dovevano essere composte e, dall’altro, si trattava di soggetto con cui il ristretto aveva, comunque, il diritto di colloquio visivo che, in astratto, era uno strumento che si prestava molto più facilmente alla veicolazione di messaggi all’esterno; aggiungeva che il rischio legato alla possibilità di attribuire alle immagini cadenzate nel tempo un significato ogni volta diverso poteva essere neutralizzato dall’Amministrazione penitenziaria prevedendo specifiche modalità, quali ad esempio, l’inoltro in un unico momento di tutte le fotografie scattate durante l’anno”. Secondo il ministero della Giustizia invece “il Tribunale non ha correttamente applicato le disposizioni di cui all’articolo 41-bis e avrebbe trascurato la circostanza che le limitazioni imposte in nessun modo avrebbero pregiudicato il diritto al mantenimento delle relazioni familiari del detenuto; la giurisprudenza di legittimità, infatti, sarebbe stata sempre molto attenta a garantire un equo contemperamento tra la tutela del diritto all’affettività del detenuto e le specifiche e peculiari esigenze di sicurezza che governano esclusivamente il regime differenziato. La previsione della possibilità di scattare una sola foto nel corso dell’anno è, infatti, una equilibrata forma di bilanciamento tra le predette esigenze; inoltre il rischio concreto che il detenuto possa veicolare messaggi rivolti alla sua organizzazione di riferimento non sembrerebbe neutralizzato dagli accorgimenti suggeriti dal Tribunale di sorveglianza”. Così conclude la Cassazione accogliendo il ricorso del ministero: “Si ritiene che, contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza del Tribunale, la limitazione nei confronti dei detenuti in regime differenziato all’effettuazione di una sola fotografia, nel corso dell’anno, con i propri congiunti non incide sul diritto soggettivo del detenuto all’affettività, bensì soltanto sulle modalità del suo esercizio, che restano affidate alla discrezionalità amministrativa”. Milano. Progetto “Studenti senza sbarre”: i detenuti diventano tutor per i compagni di studi di Sara Bernacchia La Repubblica, 16 gennaio 2023 Realizzato dalla Statale con il contributo di una università americana: “Vogliamo essere d’aiuto alla comunità”. I tutor iniziano ad arrivare dopo le 18, alla fine di una giornata di lavoro, e si muovono sicuri verso la biblioteca centrale di via Festa del Perdono. È lì e in altri spazi dell’ateneo che tengono le loro lezioni a studenti universitari e delle superiori, che hanno bisogno di aiuto e sostegno nello studio. Ivan, che ad aprile si laurea in Scienze della Comunicazione, segue una ‘collega’ di Lettere, mentre Claudio, a due esami dalla fine di Lingue e letterature straniere, aiuta un ragazzo a preparare Glottologia. Tutto si chiude per le 22,30. Non oltre, perché entro le 23,45 Ivan, Claudio ed Emmanuel devono rientrare nel carcere di Bollate, mentre Filippo, che sta finendo di scontare la sua condanna in affidamento, deve essere a casa. Sono loro, insieme ad altri due detenuti, i protagonisti del Bard Prison Project - Studenti senza sbarre, realizzato dalla Statale grazie al finanziamento dell’americana Bard Prison Initiative, che vede ristretti iscritti all’università svolgere attività di tutoraggio gratuito fuori dal carcere. Possono partecipare i detenuti in articolo 21, cioè che - scontato un terzo della pena - escono di prigione durante il giorno per lavorare. Il progetto della Statale è stato ideato da Elena Landone, docente di Lingua spagnola e Didattica della Lingua spagnola che lo coordina, insieme a Ivan e Claudio, tra i primi ad aderire al ‘progetto carcere’ della Statale, che oggi vede 127 detenuti studiare con il supporto di 123 tutor. “L’idea è di invertire le parti: gli studenti ristretti possono restituire quanto ricevuto dai loro tutor, diventando loro stessi di supporto per altri” spiega Landone, sottolineando come i partecipanti siano stati formati per avvicinarsi all’insegnamento in modo consapevole. Al centro c’è la volontà di andare oltre i pregiudizi, senza però nascondersi dietro illusioni. “Le nostre azioni non si possono cancellare, ma ci impegniamo per donare la migliore versione di noi stessi alla comunità” racconta Emmanuel, 31 anni, che studia Economia e Management e ha scontato quasi metà della sua condanna a 20 anni: “Mi sono iscritto all’università per la mia famiglia, la laurea sarà un riscatto personale. Se studi in carcere sai benissimo che il pregiudizio resterà sempre: io mi laureo con la consapevolezza che non potrò mai iscrivermi a un albo. Chi ha alle spalle un’esperienza di costante difficoltà come la nostra, però, è capace di rendere più semplici le cose agli altri, sa trovare gli strumenti”. E la soddisfazione di sentirsi utili è la ricompensa. “Se fai lezione e lo studente ti dice ha capito vuol dire che l’obiettivo è stato raggiunto” racconta Claudio, che una laurea ce l’aveva già, ma davanti a una condanna a 30 anni ha deciso di prendere la seconda per “realizzare il desiderio di imparare il russo”. Per tutti lo studio è un appiglio, un’ancora a cui aggrapparsi davanti alla consapevolezza di dover passare dietro le sbarre più anni di quelli già vissuti fuori. “In carcere incontri i tuoi familiari e i compagni, quando dopo 5 o 6 anni ti trovi a parlare con una persona esterna sei in difficoltà” aggiunge, raccontando il suo primo impatto con un tutor, figura fondamentale: “Sono loro che vanno in biblioteca al posto tuo, che ti procurano i libri, parlano con gli insegnati e ti organizzano gli esami”. Così il passaggio dall’altra parte non si fa a cuor leggero. “Sento un bel carico di responsabilità, ma anche una forte emozione” spiega Ivan, 48 anni e una figlia “orgogliosa che mi stia per laureare”. Lui, che è detenuto da circa 10 anni e tornerà in libertà nel 2041, in carcere ha preso anche il diploma e sa di avere un’opportunità: “Fare tutto questo non è scontato, dobbiamo ringraziare le persone che lo rendono possibile”. Comprese le studentesse della magistrale di Lingue e letterature straniere che assistono come supervisori a tutte le loro lezioni. “La vedo come una grande opportunità per la mia formazione personale e professionale - racconta Airin Coccoda Reggio, 23 anni - Saper superare il pregiudizio è essenziale per diventare un buon insegnante. Imparare a farlo ora che ci stiamo ancora formando è fondamentale”. Bolzano. Morto di freddo a 19 anni sotto un cavalcavia, raccolti 1.350 euro di Chiara Currò Dossi Corriere della Sera, 16 gennaio 2023 “Li porteremo comunque in Egitto alla famiglia”. Mostafa ha perso la vita mentre la temperatura era scesa a -9: il viaggio di Hany per aiutare la famiglia. Da Bolzano a Bergamo, da lì a Il Cairo, poi a Mansura e infine a Gharbeya, la provincia d’origine di Mostafa Abdelaziz Mostafa Aboulela, il 19enne morto di freddo ai piedi di un cavalcavia ferroviario di Bolzano, la notte tra l’8 e il 9 dicembre. In linea d’aria sono più di 2 mila chilometri, via terra (come via terra era arrivato in Europa Mostafa, nel 2017, lungo la rotta Balcanica) quasi 5. Ed è la distanza che percorrerà Hany, commerciante egiziano d’origine ma bolzanino d’adozione, che lunedì mattina si metterà in viaggio per portare alla famiglia di Mostafa i 1.350 euro di donazioni raccolti dopo la tragedia. Nessun aiuto dalle istituzioni - Non un centesimo arriva dalle istituzioni. Un triste corollario del rimpallo di responsabilità su chi avrebbe dovuto accogliere Mostafa e l’amico Shabaan Alaa, 32 anni. Arrivati a Bolzano il 6 dicembre, dopo aver lavorato come imbianchini per alcuni mesi in Francia, avevano bussato alle porte dei centri di accoglienza, chiedendo un posto caldo dove poter passare la notte, e vedendoselo negare. Appena quarantott’ore dopo, con temperature scese a 9 gradi sotto zero, Mostafa era morto in un giaciglio improvvisato di via di Vittorio. “Nessuno si è fatto avanti” - “Dispiace che nessuno si sia fatto avanti- afferma Hany Abdelkarem, ex presidente della Consulta immigrati (e omonimo del commerciante). Né per chiedere informazioni, né per una parola di conforto da portare alla famiglia”. Di contro, si è attivata la comunità, con Bozen solidale che ha lanciato una raccolta fondi per realizzare una piccola parte del sogno di Mostafa: aiutare la sorella a sposarsi. “Abbiamo raccolto 1.350 euro - aggiunge Abdelkarem. Un piccolo contributo che ora consegneremo alla sua famiglia, grata per la generosità e la vicinanza della comunità bolzanina”. Il conto corrente rimane attivo: chi volesse dare un contributo, può farlo con un bonifico al Centro culturale Iqraa di Merano. Con causale “aiuto per Mostafa Abouelela”, e Iban IT87M0813358592000303001032. Così la politica ha fatto a pezzi lo Stato sociale di Massimo Cacciari La Stampa, 16 gennaio 2023 Tra le molte vittime che il salto d’epoca che viviamo sta mietendo possiamo ormai forse contare anche lo Stato sociale, quel Welfare vanto delle politiche europee del secondo Dopoguerra. La crisi, anche in questo caso, viene da lontano e gli economisti più avveduti l’avevano prevista già tra anni ‘70 e ‘80: senza una profonda riforma dell’apparato amministrativo, senza “Stato leggero” dal punto di vista burocratico, senza costante e rigorosa spending review e, soprattutto, senza la precisa volontà politica di porre ai primi posti nella “gerarchia dei valori” formazione, innovazione, sanità, non sarebbe stato possibile sostenere politiche fiscali aggressive (anche a prescindere dallo scandalo tutto nostrano del livello dell’evasione) e l’aumento irresistibile del debito pubblico. Un Welfare tutto in deficit esiste soltanto nel libro dei sogni delle promesse elettorali che hanno nutrito la politica italiana dell’ultimo trentennio. Nessuna forza politica, nessun governo hanno saputo affrontare il nodo, che ha finito col soffocarci. I fondi del Pnrr sono stati a ragione presentati come l’ultima spiaggia. Nessuno sa, però, che cosa sia stato davvero finanziato, che cosa progettato, che cosa cantierato; soltanto voci, spot, qui un’università, là dei ricercatori, oltre ancora una strada o uno stadio. Sotto il mantra dell’eco-sostenibilità e dell’informatizzazione di ogni buco di vita sta passando di tutto. Magari il Ponte sullo Stretto, così si potranno spendere di un botto, come col Mose di Venezia, diversi miliardi, con un bel Commissario Unico controllato da sé stesso (e, se va bene, dalla Magistratura, ma naturalmente post festum). È evidente che oggi in Italia non potremmo pensare neppure per ipotesi anche soltanto al mantenimento di certi livelli di Welfare in presenza di un debito che rende quasi un esercizio di retorica parlare di “sovranità” e con un’entrata per l’Irpef che viene per l’85% da lavoratori dipendenti e pensionati. Ma non si tratta, temo, ormai più soltanto delle note patologie della madre Patria. La questione va compresa nel contesto delle grandi trasformazioni sociali, da un lato, e geo-politiche dall’altro. È in questo contesto che lo Stato sociale sta divenendo una possibilità spettrale, e che si spiegano, di conseguenza, sia la débâcle delle socialdemocrazie che la relativa ascesa di movimenti di destra. Lo Stato sociale era anche lo Stato di un certo capitalismo, non solo ancora fortemente collegato alla dimensione nazionale, ma soprattutto interessato a politiche redistributive e all’aumento del potere di acquisto di larghe masse di cittadini. La globalizzazione guidata dai grandi gruppi multinazionali dei settori strategici sfugge quasi interamente alla “presa” dei poteri politici tradizionali. O questi ultimi si adeguano alle loro finalità, che in nessun modo coincidono con quelle del vecchio Stato sociale, o finiscono col balbettare slogan per mascherare palese impotenza. La ricchezza prodotta cessa di rispondere a una domanda collettiva. È saltata ogni mediazione tra i due livelli. Il “terribile diritto”di proprietà rivela, per così dire, la propria essenza: risponde soltanto a sé stesso, non ha doveri nei confronti di altri. Lo stato di emergenza (Stato, appunto, e non più emergenza) tende a compiere la “operazione”. L’accentramento del processo decisionale negli esecutivi è anche l’accentramento delle decisioni di spesa in alcuni settori, al di là di ogni effettivo confronto e di ogni discussione reale all’interno delle vecchie aule parlamentari. Anche le modalità in cui verranno usati i fondi del Pnrr esalterà comunque questa universale tendenza. Si tratta sempre di emergenze globali, e dunque la risposta dovrà essere a tutti comune. Dove viene decisa? Esiste forse una Repubblica della Terra, col suo Parlamento e il suo Governo? E tuttavia la decisione va presa. Come? La prenderanno i tecnici, gli “scienziati”. E dove stanno costoro? All’interno dei grandi apparati economici, dei sistemi tecnico-scientifici. Lì soltanto si elaborano veramente i big data, da lì si prospettano, non è vero?, le soluzioni più razionali da comunicare ai vari governi locali, dai quali, se non desiderano la venuta di Commissari ad acta, verranno adottate. Questo “grande schema” si è visto all’opera con l’epidemia. Ma quella fase minaccia di rappresentare un prologo da nulla rispetto a ciò che già stiamo vivendo. Lo stato di guerra è lo Stato di eccezione per eccellenza. E proprio lo stato di guerra si sta profilando, ben oltre la stessa tragedia dell’Ucraina. La globalizzazione rivela oggi il suo volto intrinsecamente conflittuale: essa rende inevitabile il confronto tra grandi potenze. Questo confronto esige sforzi massicci di potenziamento del blocco economico-militare, da cui dipende anche in grande misura il ritmo dell’innovazione tecnologica. A oltre duemila miliardi ammontano quest’anno le spese per armamenti nel mondo. A 800 quelle americane, dodici volte più di quelle russe. Noi spendiamo per armi 32 miliardi, oltre l’1,5% del Pil e il conto è destinato a crescere. Nel biennio 2022-23 l’Organizzazione mondiale della sanità ha un budget di poco superiore ai 6 miliardi. La distribuzione delle risorse è sempre più esclusivamente in funzione di “emergenze” geo-politiche, il cui andamento e il cui esito si decideranno in base al confronto tra i sistemi politico-economici imperiali. Agli altri è dato solo assistere? Ci è dato soltanto averne coscienza? Di “resilienza” parla anche il nostro famoso Piano. Sapranno tentare almeno questa i nostri sedicenti eredi dell’età del Welfare? Il mondo è difficile e quindi lo semplifichiamo (un po’ troppo) di Gabriele Segre Il Domani, 16 gennaio 2023 Forse sarà capitato anche a voi queste settimane: guardando un Tg, o scrollando i tweet vi sono passate davanti, senza soluzione di continuità, immagini simili di proteste di piazza, cariche della polizia, slogan, striscioni e palazzi imbrattati di vernice. Occorre prestare un po’ di attenzione supplementare per comprendere che, da un filmato all’altro, manifestanti e contesti sono molto diversi. Di certo le persone con la maglia verde-oro non vogliono le stesse cose delle donne che stanno bruciando il velo e tantomeno sembrano interessate all’ecologia. Eppure, la giustapposizione delle immagini, in una sorta di parallelismo dinamico, rischia di creare un legame tra cose completamente distinte, quasi a conferire un senso unitario al flusso di informazioni. Alla fine degli anni Trenta, Walter Benjamin aveva compiuto un ragionamento profetico su questo processo che possiamo definire il nostro “spettro di assorbimento” della realtà attraverso il filtro dei media. Il suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica segue l’evolversi di questa esperienza nel tempo e nella complessità della comunicazione. Al grado zero c’è la conoscenza personale, che è la ragione per cui noi andiamo al Louvre, anziché accontentarci di un poster delle Monna Lisa. Il passo successivo è la narrazione orale che ha impegnato l’umanità per millenni: un’azione collettiva dove si ascolta, si partecipa, si elabora e ogni volta in modo differente. Con l’invenzione del libro stampato e della fotografia, la possibilità di accesso e decodificazione dell’informazione diventa un’esperienza molto diversa: testo e immagini arrivano a tutti richiedendoci un’immersione totalmente “assorbente” in termini di attenzione e tempo per essere compresi. Inoltre, l’informazione persiste: continua a essere rielaborata e contribuisce a costruire il nostro rapporto di esperienza con la complessità del reale. Benjamin ci fa notare che già nel cinema la fruizione dei dati cambia. La natura dinamica delle immagini toglie profondità ai contenuti, costringendoci a un’esperienza più “distraente” e immediata. La cosa di per sé non è negativa, anzi è perfetta per raccontare la complessità articolata della modernità attraverso i suoi ritmi accelerati. Oggi sappiamo, però, che il processo funziona, se quei filmati sono il risultato di un percorso definito, se c’è una sceneggiatura o una regia che elaborano consapevolmente il messaggio per uno specifico canale e un pubblico coerente. Benjamin non poteva immaginare che nei media contemporanei la necessità di andare incontro al desiderio di immediatezza diventasse così pressante, tanto da far passare l’elaborazione in secondo piano, facendoci arrivare le informazioni quasi in forma di frammenti nudi e crudi. Nel contempo il mondo è diventato talmente complesso che invece necessiterebbe di molti più approfondimenti per essere decriptato. Più che di immediatezza avremmo bisogno di “immersività”, ma anche se abbiamo accesso a ogni informazione possibile, scavare a fondo sta diventando sempre più un lusso in termini di tempo e della nostra limitata capacità di assorbimento. Ma il problema è più sottile e non riguarda solo la capacità di comprendere a fondo ciò a cui stiamo assistendo. Il rischio è che, per soddisfare il nostro bisogno personale di organizzare in un significato coerente anche informazioni così frammentarie, finiamo per creare un nostro personale livello di complessità, attribuendo a ciò che vediamo un senso unitario anche quando non c’è. Non potendo rielaborare le notizie riusciamo al massimo a raggrupparle per categorie: così Brasilia, Teheran e Roma si confondono in un unico mormorio di rivolta, ogni omicidio è inglobato in un “ondata di violenza”, ogni soldato sullo schermo diventa il protagonista di una sola guerra. La prossima tappa di una modernità ancora più frenetica e complessa potrebbe portarci a media ancora più distraenti. A quel punto siamo sicuri che riusciremo a distinguere le informazioni di una news da quelle di una fiction? Il dilemma dell’attivismo climatico: il pane o le rose? di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 16 gennaio 2023 Nella mattina di domenica, gli attivisti di Ultima generazione hanno versato vernice gialla su una scultura di Cattelan, a piazza Affari a Milano. Per molti, Ultima generazione è mossa dalle giuste ragioni: è innegabile la gravità e l’urgenza della crisi climatica. Per altri, le azioni di Ultima generazione hanno anche meriti strategici: sono atti di disobbedienza civile che serviranno a scuotere le coscienze e a stimolare azioni politiche più incisive. Nella mattina di domenica, gli attivisti di Ultima generazione hanno versato vernice gialla su una scultura di Cattelan, a piazza Affari a Milano. E questa settimana altri attivisti hanno protestato contro la riapertura di centrali a carbone a Luzerath, in Germania, una decisione favorita anche dal partito dei Verdi tedeschi, attualmente al governo. Su questo e altri giornali si è discusso a lungo sulla legittimità e l’opportunità di queste azioni. Per molti, Ultima generazione è mossa dalle giuste ragioni: è innegabile la gravità e l’urgenza della crisi climatica. Su questo non ci sono dubbi. Per altri, le azioni di Ultima generazione hanno anche meriti strategici: sono atti di disobbedienza civile che serviranno a scuotere le coscienze e a stimolare azioni politiche più incisive, sono condotte che hanno portato la crisi climatica nei tribunali, il che potrebbe produrre cambiamenti della legislazione o precedenti giudiziali preziosi per le battaglie successive. Su questo aspetto strategico molti dubbi. Innanzitutto, la ripetizione: siamo sicuri che l’ennesimo imbrattamento avrà l’effetto (anche di indignazione) del primo? La logica di queste azioni è quella dell’escalation. Bisogna puntare sempre più in alto, non ripetere sempre lo stesso atto. E, peraltro, puntare sempre più in alto è difficile, specialmente se si vuole evitare la violenza sulle persone. Prima o poi, rimane solo la violenza, quando tutto il resto si è fatto. In secondo luogo, quest’ossessione per l’arte. Ovviamente, Ultima generazione ha perfettamente ragione a puntare il dito su cose come l’arte di lusso, sensazionalistica, che frutta e richiede molto denaro. Ma, di nuovo, questo ragionamento scandalizza e non smuove. Pensate al seguente esperimento mentale: immaginate di entrare al Louvre, nella sala dove è esposta la Gioconda, e trovare un incendio che divampa. E, di fronte al quadro, terrorizzato, un piccolo bambino. Potete salvare o il bambino o il quadro. Che fate? Penso che tutti salveremmo il bambino. Sappiamo che molti dei finanziamenti che servono a gestire, proteggere, vendere e comprare gran parte della migliore arte mondiale potrebbero essere utilmente devoluti a migliorare la condizione di molti bambini nel mondo. Eppure, nessuno di noi protesta contro l’uso che delle nostre tasse fanno gli stati, quando mantengono musei o finanziano l’arte. Tutti (o almeno la maggior parte di noi) direbbe che si dovrebbe avere tutto (il pane e le rose), la vita decente e la bellezza. Temo che questa sia la reazione che ingenerano le azioni di Ultima generazione. La risorsa preziosa dell’attivismo ambientale - L’attivismo ambientale è una risorsa preziosa, come prezioso è l’attivismo delle cittadinanze democratiche. Ma deve contribuire a mobilitare le energie esistenti e ad aiutare il progresso morale. Gli attivisti tedeschi, che sono anche elettori, forse avrebbero dei mezzi forti per minacciare i membri del partito verde, facendo loro intravvedere che cosa potrebbe succedere alle prossime elezioni. E tutti i consumatori avrebbero mezzi per dire che non abbiamo poi tutto questo bisogno del carbone, perché siamo disposti a mutare il nostro stile di vita (a sentire più freddo, a muoverci diversamente), per il bene delle generazioni future. Dai membri di Ultima generazione ci si aspetta un salto di qualità, una maturazione delle strategie, non l’eterna ripetizione dello scandalo. La “normalità” di Clarissa Ward di Elvira Serra Corriere della Sera, 16 gennaio 2023 Corrispondente di guerra della Cnn, 43 anni e due figli piccoli in Inghilterra, ha mostrato il profilo del suo pancione di cinque mesi da Kharkiv, dov’è andata per servizio. Nash Wilder Poynter è nato a Chicago l’8 giugno di tre anni fa alle 9.33. Pesava tre chili e ottocento, era lungo 53,34 centimetri ed era bellissimo e sano. Cinque settimane prima sua madre aveva postato su Instagram l’ultima foto dal posto di lavoro, un Pronto soccorso, bardata dalla testa ai piedi, con una mascherina N95 e la visiera, perché eravamo in piena emergenza Covid. Sotto l’immagine scrisse: “Noi mamme incinte non pubblichiamo foto di noi stesse per vantarci di lavorare durante la gravidanza o perché siamo orgogliose. Le pubblichiamo per ricordarci la nostra gravidanza, la nostra esperienza, il tempo trascorso con i nostri piccoli. Pubblichiamo queste immagini per trovare risate nel caos, per festeggiare in mezzo all’ansia e alla paura”. Non so se stia provando le stesse cose Clarissa Ward, corrispondente di guerra della Cnn, 43 anni a fine gennaio e due figli piccoli in Inghilterra. Il profilo del suo pancione di cinque mesi da Kharkiv, in mezzo alle macerie e ai palazzi distrutti, trasmette intanto la semplice deduzione che è incinta. Ma ha anche acceso il dibattito sull’opportunità di trovarsi lì in quelle condizioni. Dove l’equivoco, forse, sta nel definire quali siano le sue “condizioni”: quelle, cioè, di una professionista esperta, che ha coperto servizi in Afghanistan, in Siria, in Iraq, nello Yemen, e che adesso, alla vigilia del primo anno dall’invasione russa in Ucraina, è ritornata dove già era stata per testimoniare cosa è cambiato. Si è presa dei rischi, calcolati, che ha valutato con la sua famiglia. E ha scelto di partire - immagino - perché si sentiva bene, perché avrebbe potuto affrontare una questa trasferta come centinaia in passato. La maternità semmai, ha spiegato, le ha dato una sensibilità in più nell’osservare e raccontare quello che vede, perché si immedesima nelle vite degli altri, nella loro sofferenza, in quello che hanno perduto in questi mesi. E con questo nuovo sguardo lo racconta. Questo non fa di lei un’eroina e nemmeno Wonder Woman. Ci sono donne che vivono la gravidanza in stato di grazia, altre che hanno la nausea per nove mesi; c’è chi vuole lavorare fino all’ultimo giorno e chi vorrebbe non farlo, ma non può. Il punto è che la gravidanza non definisce la loro identità: non smettono all’improvviso di essere intelligenti, curiose e appassionate. Lo erano già (o anche no). Israele. Esther Hayut e Gali Baharav-Miara, le due magistrate che sfidano Netanyahu di Davide Frattini Corriere della Sera, 16 gennaio 2023 Le due alte esponenti della magistratura si oppongono al progetto di riforma della giustizia del nuovo governo: democrazia a rischio. L’acqua che scroscia su teste, cappucci e ombrelli non è quella degli idranti minacciati da Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza Nazionale. Qualcuno scherza che ci vuole più coraggio per uscire sotto la tempesta in un sabato sera che per affrontare le cariche della polizia invocate dal leader dell’estrema destra per ragioni di “parità”: i getti gelati sono stati usati in passato per disperdere gli ultranazionalisti che lo sostengono. Almeno in centomila si presentano a Tel Aviv, migliaia a Gerusalemme e Haifa, le strade delle tre città più grandi del Paese intasate di manifestanti come non succedeva dalle proteste contro il costo della vita di dodici anni fa. Adesso gli organizzatori e i partecipanti dicono che a rischiare di pagare un prezzo troppo alto sia la democrazia israeliana: il progetto portato avanti dal nuovo governo di Benjamin Netanyahu per “riformare” - “smantellare” secondo gli oppositori - il sistema della giustizia. A partire dalla Corte Suprema, da quello che può decidere, da quanto possa influire, da come ne vengono scelti i giudici. Il piano vuole sottoporre l’Alta Corte - accusata di iperattivismo e di aver oltrepassato il mandato - al controllo della politica, del parlamento e soprattutto della maggioranza che esprime in quel momento. Della maggioranza di destra-destra estrema in questo momento. Durante la riunione settimanale con i ministri, Netanyahu evoca la “volontà del popolo” e ripete: “Milioni di persone ci hanno votato proprio perché vogliono questo cambiamento. Anche la sinistra ha parlato di correzioni necessarie in campagna elettorale”. Contro questa visione si rivoltano i magistrati, gli ex giudici dell’Alta Corte - “finiremmo in un regime autoritario come la Polonia, l’Ungheria o la Turchia” - e soprattutto la donna che la presiede dal 2017. “Le norme rappresenterebbero un colpo mortale all’identità democratica della nazione”, ha commentato Esther Hayut. “La clausola annunciata toglierebbe alla Corte la possibilità di respingere leggi che violano i diritti umani, incluso quello alla vita, alla proprietà, alla libertà di movimento e di parola”. Salita sul palco dopo di lei alla stessa conferenza, Gali Baharav-Miara ha smontato le spiegazioni fornite dai gruppi al potere, un attacco dall’interno visto che è la procuratrice generale dello Stato e agisce anche da consigliere legale del governo: nominata prima delle elezioni di novembre, rischia di essere licenziata. “Le modifiche si basano sull’idea che il dominio della maggioranza sia il fondamento della democrazia. Non è l’unica condizione: servono la separazione dei poteri, la protezione degli individui e la prevenzione di atti arbitrali contro le minoranze”. La “riforma” è spinta dal Likud di Netanyahu, sotto processo per corruzione, e dalle frange ultranazionaliste dei coloni che hanno sempre considerato la Corte Suprema un bastione della sinistra e l’ultima barriera verso il loro obiettivo di annettere la Cisgiordania, i territori che dovrebbero formare un futuro Stato palestinese. Il premier, tornato in carica dopo 563 giorni e il capo del governo che ha accumulato il maggior numero di anni al vertice nella Storia del Paese, cerca solo in parte di calmare le spinte più incendiarie degli alleati. Come l’uscita del deputato Zvika Fogel che ha chiesto l’arresto per “alto tradimento” di Yair Lapid, premier fino a poche settimane fa, e degli altri capi dell’opposizione come Benny Gantz, ex capo di Stato Maggiore, perché hanno avvertito che “Netanyahu sta portandoci al conflitto civile” e incitato i sostenitori “a scendere in strada in una guerra per la nostra casa”. Il buio sulle donne afghane di Francesca Mannocchi La Stampa, 16 gennaio 2023 Vietare lo sport è solo l’ultimo atto del regime talebano che le ha recluse definitivamente in casa. Niente scuola, lavoro e parchi. È la prova che gli intransigenti del movimento hanno trionfato. Noura ha cominciato a giocare a pallone a nove anni. Trascorreva i pomeriggi tirando calci a una palla coi ragazzini che vivevano vicino a lei e alla sua famiglia in un quartiere a Nord di Kabul. È andata avanti così finché non l’ha notata un allenatore che le ha chiesto di provare a far parte di una squadra di calcio femminile. Sua madre, timorosa del giudizio della gente, ha tentato di fare resistenza. Nella società conservatrice afghana, anche dopo il 2001 e la caduta del primo emirato islamico, la passione sportiva in una donna era considerata una violazione della modestia, un mancato rispetto del ruolo imposto alle donne nella società. Per questo sua madre l’ha punita e picchiata, ha provato a convincerla ad abbandonare lo sport, gli allenamenti, ma la passione di Noura era talmente viva e tenace che alla fine la famiglia ha ceduto e a tredici anni la ragazza è stata nominata migliore giovane calciatrice della sua età, e celebrata in televisione e sui giornali. Da allora sono passati otto anni, Noura è diventata una donna e il Paese in cui a una bambina era permesso, sebbene con fatica, di sognare una forma di libertà come tirare un calcio al pallone, non esiste più, perché in meno di due anni l’Afghanistan è tornato indietro di secoli. Dal 2021 del Paese dei programmi che incoraggiavano lo sport, delle scuole per le bambine e per le donne, del percorso di emancipazione femminile non resta niente. Un percorso raso al suolo da una guerra di vent’anni conclusa con la sconfitta di Stati Uniti e dei loro alleati, da una fuga caotica e frettolosa dei contingenti occidentali e dalla conseguente presa del potere dei talebani. Ad agosto 2021, quando è stato chiaro come sarebbero finite le cose, il suo allenatore ha avvertito la famiglia di farla fuggire. Noura dice che sua madre non l’ha avvertita e, spinta dalla disperazione, la ragazza ha tentato di togliersi la vita. Si è ripresa, ma la sua vita è diventata un buio vicolo cieco. La sua è solo una delle tante storie raccolte da Ebrahim Noroozi, fotografo dell’Associated Press, che ha speso giorni a Kabul ritraendo i corpi delle sportive afghane costretti sotto il punitivo burqa. Nella foto che ritrae Noura, la donna tiene un pallone nella mano destra, alle sue spalle ci sono altre dieci donne, anche loro con un pallone in mano. È una squadra, undici donne cui il regime talebano sta impedendo di vivere il presente e pensare il futuro, undici donne unite dalla determinazione di riavere indietro quello che è stato loro sottratto. Il dilemma degli aiuti - Il divieto di praticare sport fa parte della crescente campagna di restrizioni dei talebani che ha interrotto la vita di milioni di donne. Dopo aver preso il potere sedici mesi fa, i talebani hanno dichiarato che avrebbero riorganizzato l’istruzione femminile rispettando il diritto delle giovani di frequentare le scuole. Garanzia disattesa. Non solo le giovani non sono mai tornate a scuola, ma è stato loro imposto un guardiano per uscire di casa, non possono entrare nei parchi, nelle palestre, le loro possibilità di lavorare fuori casa sono state progressivamente compromesse fino al divieto, il mese scorso, di essere assunte nelle ong che ancora, con fatica, operano nel Paese, un passo che sta paralizzando l’accesso agli aiuti umanitari da cui il Paese dipende. Molte organizzazioni, infatti, dopo l’ennesima restrizione dei talebani che le riguardava, hanno deciso di interrompere le attività. Medici senza Frontiere ha espresso grande preoccupazione sulla capacità di riuscire ancora a curare le donne. “La partecipazione delle donne che lavorano nelle ong alla fornitura di servizi sanitari è assolutamente essenziale - hanno scritto. Le donne costituiscono oltre il 50% del personale medico di Msf in Afghanistan”. Parliamo di quasi mille tra personale medico e infermieristico, cruciale non solo perché garantisce alle donne di ricevere cure, ma anche perché è sul loro lavoro e sul loro stipendio che da anni si sostengono interi nuclei familiari. La salute di una donna è, insomma, la salute di una intera comunità e la domanda, ora, è cosa ne sarà di donne malate se sarà preclusa loro la possibilità di essere curate da medici uomini, come faranno le donne a partorire se le cliniche delle organizzazioni umanitarie dovessero tutte interrompere le loro attività, quanto aumenterà la mortalità materna, quella infantile, e ancora, cosa ne sarà di tutte le giovani e giovanissime che non possono studiare, né lavorare e vivono in una delle milioni di famiglie sull’orlo della fame. Uno degli effetti già visibili dopo un anno e mezzo è l’aumento dei matrimoni precoci, bambine di fatto vendute, costrette a sposarsi per garantire un’entrata economica al nucleo familiare. La scorsa settimana il segretario generale dell’organizzazione Nrc, il Consiglio norvegese per i rifugiati, è volato a Kabul per incontrare i vertici talebani, l’ha fatto spinto dal precipizio dei numeri che raccontano la crisi del Paese ma anche da un principio per molti non negoziabile: se i diritti delle donne non vengono rispettati, non possiamo continuare: “Non stiamo dando aiuti alle centinaia di migliaia di persone che serviamo qui in Afghanistan - ha detto Egeland in un video diffuso da Kabul -. Sta piovendo, sta nevicando, la vita qui è miserabile, e non dare loro aiuto è estremamente doloroso per noi, ma riprenderemo a lavorare solo se ci saranno anche le donne, secondo tutti i valori tradizionali afghani”. Poi ha descritto gli scenari futuri se questo non dovesse avvenire: senza organizzazioni umanitarie nel Paese 6 milioni di persone saranno a un passo dalla carestia, 13 milioni di persone rischiano di vivere senza acqua e 600 mila bambini resteranno senza istruzione. La scuola negata - È la scuola, una volta ancora, a essere il metro dell’evoluzione del movimento talebano. A settembre i talebani avevano consentito lo svolgimento degli esami di ammissione all’università anche per le ragazze, tre mesi dopo l’improvvisa virata. Niente più università per le donne. La decisione non è solo figlia di un cieco conservatorismo, è anche lo specchio delle dispute interne al gruppo perché la scolarizzazione delle ragazze è stata a lungo un punto di contesa tra le fazioni conservatrici e quelle più moderate dei talebani e i divieti di questi mesi aiutano a definire chi stia avendo la meglio. Da quando sono tornati al potere hanno reso la trasformazione del sistema educativo del Paese uno dei cardini del cambiamento che avrebbero messo in atto nella società. Le decisioni di dicembre hanno un nome, un volto e una storia. Da ottobre a guidare il Ministero per l’Istruzione superiore è Nida Mohammad Nadim, un comandante militare che ha trascorso gran parte della sua vita nascosto nel Paese devastato dalla guerra. È stato un oppositore veemente delle riforme al sistema educativo introdotte dai Paesi occidentali in Afghanistan dopo l’invasione del 2001 e ha fatto della rimozione dell’educazione laica “importata dagli invasori americani” il principio trainante delle sue decisioni politiche. Istruire le donne è per lui, come per tutti i talebani intransigenti, un’azione non islamica e contraria ai valori culturali afghani. Dopo la rimozione del primo emirato islamico nel 2001, Nadim ha tenuto per anni un seminario islamico a Kandhahr, e da lì, dalla città culla del movimento, ha iniziato la sua ascesa al vertice. A lui si deve il progetto di costruire una vasta rete di nuove madrase (scuole islamiche) nelle 34 province del Paese. Nadim, che porta il titolo di Sheikh al-Hadith, che viene riservato ai più eminenti studiosi dei detti del profeta Maometto, è membro del consiglio di religiosi che sostiene il leader supremo Mullah Haibatullah Akhundzada, ed è stato da lui direttamente nominato. La decisione ha indotto gli analisti a prevedere da subito che alla nomina sarebbe seguita un’ondata di nuovi divieti. E così è stato, in un tentativo, pare, di placare gli umori degli ultraconservatori talebani che si oppongono da sempre all’educazione femminile. Dopo la presa del potere nell’estate del 2021 è stato nominato governatore della provincia di Nangarhar, e lì, in qualità di capo dell’intelligence provinciale, ha ordinato ai combattenti talebani di uccidere chiunque avesse lavorato con il governo o avesse manifestato contro i talebani, poi ha ottenuto un ruolo nel governatorato di Kabul, fino ad approdare al ministero dell’Istruzione Secondaria. Da quando è stato nominato, due mesi fa, ha imposto una rete di controllori nelle università pubbliche, nominato ex combattenti talebani a ruoli dirigenziali nel ministero e reclutato altri ex combattenti come insegnanti nelle facoltà sebbene, naturalmente, non ne avessero le competenze. In qualità di ministro dell’Istruzione, Nadeem ritiene che l’abilità di un combattente talebano dovrebbe essere determinata dal numero di bombe che ha fatto esplodere piuttosto che dalla sua qualifica accademica. Lo ha detto a inizio dicembre, parlando nella provincia di Herat, dove di fronte ai sostenitori del gruppo ha spiegato che i talebani non hanno bisogno di essere giudicati da una commissione d’esame universitaria ma il metro per valutarne le vere qualità è solo “il numero di bombe esplose contro il nemico”. Poi il divieto per le donne di entrare in facoltà. “Era necessario - ha detto Nadeem - perché alcune materie violano i principi dell’Islam”. Tesi senza alcuna base, naturalmente. La verità è che gli intransigenti, i più severi pashtun dei villaggi, hanno trionfato sui pragmatici, ministri e funzionari talebani contrari ai divieti che fanno studiare le figlie in Qatar, negli Emirati e sanno che dal rispetto dei diritti delle donne dipende lo stato di salute delle casse dello stato. Dipende, in sintesi, la sopravvivenza di milioni di persone che patiscono la fame. L’impassibilità del potere - Trattare o non trattare coi talebani, per aiutare la gente. Questo, da due anni, è il dilemma. Prima i fondi congelati come effetto delle sanzioni, poi la sospensione delle attività delle organizzazioni umanitarie, in mezzo una crisi umanitaria senza precedenti che segna il punto di non ritorno di un dilemma morale che l’Occidente che per vent’anni ha combattuto in Afghanistan per evitare all’oscurantismo di avvolgere di nuovo il Paese e che, però, ha tragicamente fallito. Le proteste interne, sedate con violenza, e quelle della comunità internazionale hanno lasciato impassibili i talebani. Obaidullah Baheer, docente universitario afghano e noto attivista per i diritti umani, ha affermato di recente che la vittoria dei talebani sulla coalizione guidata dagli Stati Uniti abbia reso il gruppo più ostinato, testardo, “sono stati temprati da vent’anni di guerriglia contro l’esercito più potente del mondo e i sacrifici che ritengono di aver fatto per il prezzo della loro vittoria nell’attrito li hanno resi impermeabili al dubbio”. Nonostante la tracotanza del potere, la ferocia delle scelte, la disgrazia dei divieti, di fronte alla gravità della situazione, al ricatto sul corpo delle donne, la domanda, urgente, che si impone non dovrebbe essere se negoziare coi talebani ma come. Prima alleviare la miseria della gente, poi pensare all’inclusività del governo talebano. È sull’inevitabilità di una scelta che si decide, oggi, la vita e la morte di milioni di persone, al centro del secondo inverno del secondo emirato islamico in Afghanistan.