Il carcere non deve mai essere tortura di Vittorio Feltri Libero, 15 gennaio 2023 Il caso Cospito e il 41 bis. Non ne avrà per molto Alfredo Cospito che sta digiunando per protesta, in carcere, recluso da anni col regime cosiddetto 41 bis che prevede un isolamento assoluto. Egli è privato di tutto, anche della libertà di andare al cesso senza essere spiato. Vero che la persona in questione, un anarchico, ne ha combinate di brutte: gambizzò un dirigente d’azienda e fece esplodere due ordigni davanti a una caserma di Cuneo, ma non mi sembra il caso di riservargli un trattamento parificato alla tortura. Dopo anni e anni di detenzione, Cospito non ce la fa più a subire angherie di tipo medievale e ha deciso di lasciarsi morire rifiutando di nutrirsi. Da oltre due mesi non ingerisce un boccone e ormai è ridotto male: pelle e ossa, è una larva e la giustizia se ne lava le mani, dimostrando di essere priva di coscienza e di un minimo di umanità. Addirittura c’è chi in alto loco pensa di trasformare la pena che già gli è stata inflitta in ergastolo ostativo, che è notoriamente un supplemento vergognoso di crudeltà nei confronti di chi ha commesso reali gravi. Se ciò accadesse sarebbe una ulteriore prova che certe leggi nostrane sono folli e meriterebbero di essere mandate al macero. Condannare uomini che hanno sgarrato è lecito ma non bisogna andare contro la Costituzione che attribuisce alla cella e alle sbarre la funzione di rieducare e non quella della vendetta sociale verso il reo. Il 41 bis, e in genere l’isolamento diurno, sono sevizie indegne di un Paese civile di tradizione cristiana. Imploriamo il governo di porre fine alle citate efferatezze di cui tutti noi, e non solo chi le ha introdotte, dobbiamo vergognarci. La vicenda di Cospito è emblematica. Costui preferisce lasciarsi morire di fame piuttosto che sopportare determinate angherie che mi fa orrore anche solo descrivere. È inammissibile che l’Italia si comporti peggio dell’Iran che almeno prevede la condanna a morte per impiccagione, mentre qui da noi ipocriti la gente che ha sbagliato la uccidiamo lentamente, sottoponendola a sofferenze che trafiggono il cuore. Restituite subito a Cospito il diritto di essere considerato un individuo e non uno straccio. Magistrati, è scontro sul sesso in carcere “Un diritto”. “No, la cella non è un postribolo” di Grazia Longo La Stampa, 15 gennaio 2023 Sul ricorso di un detenuto di Spoleto deciderà la Corte costituzionale. Contrari i sindacati di polizia penitenziaria. C’è chi è favorevole, convinto che “la limitazione della libertà personale non debba limitare il diritto alla sessualità”. Ma c’è anche chi è contrario “perché l’istituto penitenziario non può diventare un postribolo di Stato e le reali emergenze da risolvere sono altre”. Due punti di vista agli antipodi sull’ipotesi di consentire ai detenuti di fare sesso con i partner dietro le sbarre. Un tema che fa discutere da vent’anni e che oggi si ripropone con la decisione del giudice di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale. “Il guaio è che si tratta di un problema aperto - osserva il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia - perché già nel 2012 la Consulta, pur ammettendo il diritto alla sessualità dei detenuti italiani, ha rimandato la questione al legislatore. Al momento l’unica concessione sono i permessi-premio, grazie ai quali il detenuto può vivere la propria affettività fuori dal carcere. Non credo che la Corte Costituzionale possa dire la parola fine, la palla passa alla politica”. L’allestimento di aree dedicate nelle carceri in cui i detenuti possano esercitare, nel rispetto della riservatezza, il loro diritto all’affettività e alla sessualità è una realtà acclarata in altri Stati europei come Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Croazia e Albania. Quali sono gli impedimenti nel nostro Paese? Secondo Santalucia “forse si sconta un pregiudizio culturale per cui l’affettività sessuale non rientra nei diritti, nei vantaggi di un detenuto. E poi c’è anche una questione economica per i costi che comporterebbe la creazione delle cosiddette “casette dell’amore” nelle prigioni. Peccato che invece non si consideri la vita sessuale del detenuto come un elemento importante per il suo trattamento rieducativo e la sua risocializzazione”. Diametralmente opposta è, invece, la posizione di Donato Capece, segretario generale del Sappe, primo sindacato della polizia penitenziaria: “Siamo seri, con tutte criticità delle carceri italiane, dove si trovano i soldi per le casette dell’amore? E poi le prigioni rischierebbero di diventare postriboli di Stato e gli agenti guardoni di Stato. Si pensi piuttosto ad aumentare i permessi-premio o le misure alternative per andare incontro alle esigenze sessuali dei detenuti. Il carcere ha bisogno di una riforma, ma deve riguardare l’idoneità degli ambienti, la lotta al sovraffollamento, il bisogno dei detenuti di lavorare. In Italia ci sono 9 mila persone che stanno in carcere con pene inferiori a un anno. Perché? Sforziamoci di rispondere a domande come queste invece di preoccuparci della vita sessuale dei carcerati”. Non la pensa ovviamente come lui il Garante per i detenuti Stefano Anastasia, che rilancia: “Il riconoscimento del diritto alla sessualità dei detenuti non solo favorirebbe la loro crescita personale, ma andrebbe a beneficio dell’intera istituzione carceraria perché migliorerebbe i rapporti con gli agenti di polizia penitenziaria e aiuterebbe il clima generale della vita in carcere. Già nel 1999, l’allora capo del Dap Alessandro Margara propose la revisione dell’ordinamento carcerario con la previsione di aree ad hoc per incontri non a vista: il Consiglio di Stato rispose che non si poteva cambiare il regolamento, ma si doveva emanare una legge. Dopo oltre vent’anni siamo ancora qua a discuterne”. E l’avvocato penalista Nicola Madia, professore associato a Tor Vergata, ribadisce la necessità “dell’intervento del legislatore per garantire il diritto alla sessualità in carcere. Purtroppo infuriano un populismo giudiziario e una demagogia securitaria per cui i detenuti devono essere afflitti, mentre non si tiene conto che nei Paesi dove il diritto alla vita intima viene riconosciuto diminuiscono le recidive una volta liberi e all’interno delle prigioni si respira un clima di maggiore disciplina e tranquillità. Non penso tuttavia a sesso libero in carcere, ma a una concessione a chi dimostra buona condotta e nessun rischio di essere violento con il partner”. Nordio al lavoro sulla legge Cartabia: procedimenti d’ufficio se c’è l’aggravante di mafia di Grazia Longo La Stampa, 15 gennaio 2023 L’intervento del ministro dopo la segnalazione di “criticità” emerse dall’applicazione della recente riforma. Riconsiderare alcune scelte, quali quella di rendere procedibili a querela reati contro il patrimonio in contesti mafiosi. È il lavoro che il ministero della Giustizia, guidato da Carlo Nordio, ha intrapreso per studiare ed elaborare “interventi urgenti” anche di carattere normativo, dopo la segnalazione di “criticità” emerse dall’applicazione della recente riforma Cartabia. “Sono in corso - rende noto via Arenula - le valutazioni necessarie a riconsiderare alcune scelte di rendere procedibili a querela reati contro il patrimonio in contesti mafiosi e altre ipotesi di reato che, per il contesto in cui maturano, rendono indispensabili provvedimenti cautelari di urgenza”. Un punto, questo, sul quale nelle ultime settimane si è concentrato il dibattito in materia di giustizia. In particolare, nei giorni scorsi, nell’ambito di un procedimento in corso a Palermo, la procura ha chiesto e ottenuto l’inefficacia della misura cautelare disposta per lesioni aggravate a tre mafiosi: nessuno ha lasciato il carcere, perché si tratta di detenuti per altri reati, ma la richiesta dei pm è un effetto della riforma sul penale, entrata in vigore - dopo un rinvio di 2 mesi - il 30 dicembre scorso. Per i reati come le lesioni, anche se aggravate dal metodo mafioso, la legge oggi prevede la querela di parte, in assenza della quale non si può agire per quel reato. La riforma Cartabia ha ampliato il novero dei reati procedibili solo a querela, che, per diversi profili, esistevano già. Il ministero della Giustizia valuta anche interventi per una “più scorrevole” applicazione di norme processuali, come in materia di presentazione dell’appello, per evitare dubbi interpretativo. “Non può essere dimenticato - si puntualizza da via Arenula - che le riforme processuali sono state oggetto di esame da parte della Commissione Europea, e ritenute, allo stato, idonee a garantire all’Italia le risorse indispensabili per la ripartenza, con la conseguenza che ogni loro modifica non potrà non tenere conto di tale determinante percorso”: si tratterà quindi di interventi mirati, di correttivi - già previsti entro 2 anni dallo stesso legislatore con l’approvazione della riforma - che non stravolgeranno in ogni caso l’impianto di una riforma ‘pilastro’ del Pnrr. La “scandalosa” semi depenalizzazione. Ora Nordio promette i suoi “correttivi” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 15 gennaio 2023 Il ministro annuncia modifiche sulla procedibilità a querela per “i reati contro il patrimonio in contesti mafiosi”. Che però la riforma Cartabia non aveva modificato. L’assalto allarmistico alla timida pseudo depenalizzazione introdotta dalla riforma Cartabia ha ottenuto un primo risultato. Ieri pomeriggio una nota di via Arenula ha informato che “Il ministero della giustizia è già al lavoro per studiare ed elaborare gli interventi urgenti, anche di carattere normativo, che la recentissima segnalazione di talune criticità sembra rendere senz’altro opportuni”. La vicenda è quella della modifica per la quale alcuni reati minori (come furto, frode informatica, sequestro di persona semplice, lesioni personali) sono adesso perseguibili solo a querela di parte. Vale a dire che in assenza dell’interesse della vittima, lo Stato - che ha di fronte a sé la montagna dell’arretrato penale e l’obbligo di ridurre i tempi della giustizia non solo per rispettare gli impegni del Pnrr ma anche per evitare le continue e costose condanne in sede europea - rinuncia a perseguire il reato. Che è poi quello che accadeva continuamente per via della prescrizione, istituto che nel vecchio regime falcidiava moltissimi processi per reati minori, ma dopo che era stato sopportato il costo di istruirli. Ed è quello che prevedibilmente tornerà a ripetersi anche nel nuovo regime della improcedibilità. Lo scandalo della pseudo depenalizzazione - scandalo tale da chiudere il discorso su una vera depenalizzazione, pur tanto invocata - si è ultimamente giovato di alcune uscite allarmate di procuratori e presidenti di tribunali, con prevalenza di quelli degli uffici giudiziari più gravati da ritardi e arretrati. Più rumoroso di altri è stato il caso di un presunto boss di Palermo e di altri due presunti mafiosi a processo per sequestro di persona che, non avendo le vittime confermato la querela come il regime transitorio impone di fare, non sono più processabili per questo reato. Che però, com’è naturale che accada a profili criminali simili, è uno dei reati minori per i quali i presunti mafiosi sono sotto condanna o a giudizio, tant’è che non sono stati scarcerati. Ora, sollecitato dagli allarmi, il ministro Nordio fa sapere che “sono in corso le valutazioni necessarie a riconsiderare alcune scelte di rendere procedibili a querela reati contro il patrimonio in contesti mafiosi e altre ipotesi di reato che, per il contesto in cui maturano, rendono indispensabili provvedimenti cautelari di urgenza”. Ma, come fa notare subito il professore di diritto penale Gian Luigi Gatta, ex consigliere di Cartabia, “la riforma non ha reso procedibili a querela “reati contro il patrimonio in contesti mafiosi” quali potrebbero essere l’estorsione, l’usura, il sequestro di persona a scopo di estorsione e la rapina. Peraltro, riassume Gatta, “nel codice penale originario del 1930 erano previsti 30 reati penali procedibili a querela, oggi sono circa 60, di questi solo 7 sono stati aggiunti all’elenco dalla riforma Cartabia che per altri 7 si è limitata ad ampliare i casi in cui è prevista la querela”. Oltre che all’esigenza di ridurre la pressione sulle procure, sui tribunali (e sulle carceri) nei casi in cui la vittima non è interessata a procedere, la scelta della procedibilità a querela andava incontro al tentativo della riforma Cartabia di incentivare il ricorso alla giustizia riparativa che, quando funziona, prevede proprio la rinuncia alla querela come parte del percorso virtuoso. Ora Nordio promette correttivi (in astratto già previsti dalla riforma) con decreto legge, e ha messo al lavoro il capo dell’ufficio legislativo Antonio Mura, toga della corrente di destra che ha sostituito Franca Mangano, toga progressista chiamata a via Arenula da Cartabia. Ma il ministro non può fare a meno di ricordare che “le riforme processuali sono state oggetto di esame da parte della Commissione europea e ritenute idonee a garantire all’Italia le risorse indispensabili per la ripartenza, con la conseguenza che ogni loro modifica non potrà non tenere conto di tale determinante percorso”. Nordio cede sulla Cartabia. No di FI: “È giustizialismo” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2023 Su pressione di FdI, il ministro annuncia modifiche urgenti: i reati di mafia e altri più gravi tornano procedibili d’ufficio. La pressione politica della sua maggioranza e delle procure di mezza Italia era troppo forte. Così il ministro della Giustizia Carlo Nordio a metà pomeriggio annuncia il dietrofront: il governo cambierà la riforma Cartabia. Se c’è l’aggravante mafiosa si procederà d’ufficio. La norma che rendeva procedibili molti reati solo a querela e non più d’ufficio, tra cui alcuni legati alla mafia, stava creando allarme in molte procure d’Italia e anche nel governo che in un report riservato, rivelato ieri dal Fatto, paventava “pericoli per l’ordine pubblico”. Un altro passo indietro del ministro che si piega a Fratelli d’Italia e a Giorgia Meloni che da giorni lo pressava per modifiche immediate: è stata la premier a chiederlo direttamente al Guardasigilli, dicono due esponenti di governo. Così ieri Nordio ha annunciato, con tanto di comunicato ufficiale, le modifiche che si sono rese necessarie per le “recentissima segnalazione di talune criticità”. Il governo si muoverà in due tempi. In primo luogo approverà un decreto ad hoc per tornare alla vecchia procedibilità d’ufficio per una serie di reati più gravi che hanno una pena minima di due anni, a partire dalla mafia: bisogna “riconsiderare alcune scelte di rendere procedibili a querela reati contro il patrimonio in contesti mafiosi e altre ipotesi di reato che, per il contesto in cui maturano, rendono indispensabili provvedimenti cautelari di urgenza” si legge nel comunicato. Quindi tutti i reati che saranno commessi con l’aggravante mafiosa torneranno a essere procedibili d’ufficio. Due giorni fa a Palermo è stata chiesta la scarcerazione di tre imputati di lesioni con metodo mafioso. Per gli altri reati invece al ministero stanno studiando una soluzione per risolvere il problema dell’improcedibilità e della scarcerazione di autori di reati contro la persona e il patrimonio, dalle lesioni al furto passando per la truffa, l’appropriazione indebita e il sequestro di persona. Un’ipotesi è che per questi reati, come anticipato ieri dal Fatto, si preveda l’esclusione dall’applicazione della legge Cartabia nei casi in cui il giudice rilevi una circostanza aggravante “a effetto speciale”. Cosa significa? Quando il giudice ipotizza un’aggravante che determina un aumento della pena superiore a un terzo, allora non si applica più la legge Cartabia e i magistrati potranno continuare a perseguire il reato d’ufficio. Un escamotage legislativo che servirà per mantenere in piedi la riforma, ma eliminare la possibilità di “liberare” gli autori dei reati più gravi, come quelli di mafia o rapina con l’uso della violenza. Inoltre si sta studiando una norma per dare 48 ore di tempo alla vittima per sporgere querela (spesso non si trova) e mantenere la custodia cautelare. Questa la soluzione annunciata, poi bisognerà leggere la norma. Il ministero aggiunge che arriverà un’altra legge - ma stavolta ordinaria - “per rendere più scorrevole l’applicazione di norme processuali, ad esempio in materia di presentazione dell’appello, sgombrandole da qualsiasi dubbio interpretativo”. Tutto questo, specifica Nordio, senza pregiudicare l’impianto della riforma che è un obiettivo del Pnrr. La decisione di modificare la norma è arrivata dopo la pressione di FdI e Lega che vogliono mostrarsi come i paladini della legalità soprattutto per i reati di mafia e micro-criminalità. A volerla è stato soprattutto il sottosegretario meloniano Andrea Del Mastro Delle Vedove, poi si è aggiunto il collega leghista Andrea Ostellari. Ma il pressing è anche dell’opposizione: ieri l’allarme lo aveva lanciato, dalle colonne del Fatto, l’ex pg di Palermo e oggi senatore del M5S Roberto Scarpinato parlando di giustizia “come questione privata”. Ma anche su questo tema il governo dovrà affrontare una nuova spaccatura nella maggioranza: Forza Italia infatti è contraria a una modifica della norma. In prima fila c’è il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che nella scorsa legislatura ha appoggiato la riforma Cartabia. Gli azzurri si oppongo anche perché non vogliono che a prevalere sia l’anima “securitaria” del governo, rappresentata da FdI e Lega. Da qui la contrarietà di Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato: “L’Europa ha detto chiaramente all’Italia che non si può più andare avanti con processi che durano decenni e carichi giudiziari patologici e ha messo quindi risorse all’interno del Pnrr per velocizzare la giustizia nel nostro paese - dice il senatore berlusconiano al Fatto - La strada intrapresa con la riforma Cartabia è quella della deflazione”. Per questo, aggiunge, non deve essere toccata: “La ratio è quella di concentrare le risorse della giustizia sui reati di maggiore allarme sociale e lasciar perdere quelli bagattellari, che intasano gli uffici e finiscono il più delle volte prescritti. Ho l’impressione che le polemiche di questi giorni siano condizionate dal solito populismo giudiziario, e per questo non mi appassionano”. Zanettin poi manda una frecciata agli alleati di Lega e FdI: “I temi della giustizia vanno affrontati senza pregiudizi ideologici e senza pensare di lucrare qualche voto solleticando la pancia della gente”. Stessa linea di Italia Viva/Azione: per Enrico Costa l’anima “giustizialista” della maggioranza sta “frenando il ministro Nordio”. Meno giustizia d’ufficio ha senso, ma la mafia non si batte a querele di Mario Chiavario Avvenire, 15 gennaio 2023 Il diavolo - dice un proverbio molto diffuso, ma nato da un equivoco - si nasconde spesso nei dettagli. Anche in quelli delle leggi? Può capitare, ma non c’è Belzebù dietro ciò che sta mettendo in allarme le Procure della Repubblica, le quali lamentano di essere costrette a impegnare la polizia giudiziaria in un’affannosa rincorsa di vittime di reati per perseguire i quali è divenuta necessaria la querela. E se la ricerca non dà tempestivamente esito si ritrovano, a quanto pare, obbligate a scarcerare anche persone di conclamata pericolosità. Più semplicemente, si tratta forse di uno di quei casi in cui, per trarre il massimo dei risultati da una riforma nel complesso coraggiosa e più che opportuna, se ne dilata con un eccesso di ottimismo l’incidenza di alcune parti, che nella gestione pratica mettono in evidenza dei contraccolpi negativi. Stiamo parlando della cosiddetta “legge Cartabia” e della sua appendice di norme transitorie, pur ritoccate in extremis da un decreto-legge del Governo attuale e ulteriormente modificate dal Parlamento con la conversione in legge, senza però tacitare le contestazioni, venute non solo dai responsabili di diversi uffici giudiziari, ma dalla stessa magistratura associata. Alla radice, va pur detto, sta un’operazione che è sicuramente positiva nelle finalità e, in via di principio, non censurabile neppure per il mezzo prescelto (pure in ciò proseguendo su una linea già avviata da precedenti riforme): nel campo della delinquenza di minore gravità e offensiva di beni individuali a carattere patrimoniale o anche personale, affidare alla volontà della vittima (vera o presunta) il concedere o il negare il “via libera” al processo penale non soltanto riflette, teoricamente, una intrinseca razionalità oggettiva, ma può portare a un risparmio di tempi e di energie da parte degli inquirenti (quanto ce n’è bisogno!) e persino a una più autentica e più rapida tutela delle vittime. Se il titolare del diritto di querela non la presenta, il procedimento non inizia ma non si corre il rischio di subire la beffa della prescrizione e, se una volta presentata la querela, la si ritira (o, come si dice nel linguaggio giuridico, la si “rimette”) si arriva a una più immediata soddisfazione del querelante. Il ragionamento non fa una grinza, purché, tuttavia, non si ecceda nel disegnare il perimetro dei reati rientranti nel “trasloco” dalla perseguibilità d’ufficio alla perseguibilità su querela. E soprattutto purché non si trascuri il rischio che la scelta così lasciata alla vittima venga condizionata da fattori estranei alla sua libera volontà: da questo punto di vista la legge ha giustamente escluso che diventassero perseguibili esclusivamente a querela reati commessi in danno di persona “incapace per età o infermità”, ma resta, specialmente insidiosa, l’eventualità che, pur fuori da queste ipotesi, la vittima sia indotta ad astenersi dal querelare a causa di autentici o temuti ricatti o ritorsioni. Quanto a ciò che maggiormente può preoccupare il cittadino comune, l’allarme è stato lanciato a proposito della perseguibilità a querela di reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso (a dire il vero, senza che sia facile capire se a torto o a ragione sul piano della realtà dei fatti e dell’effettiva incidenza della “Cartabia” e non di una situazione normativa preesistente). Ma qualche altra situazione, contemplata nella recente legge di riforma, può a sua volta non lasciare convinti della bontà della sua inserzione nel catalogo delle innovazioni: così, la minaccia grave ad opera di un recidivo oppure il sequestro di persona non avente lo scopo di estorsione; e dubbi possono sorgere persino per l’ampliamento del novero dei furti fatti rientrare in quel catalogo, giacché si tratta di condotte che saranno pur “minori” per il valore in sé del bene che ne è l’oggetto, ma che tali possono non essere per chi li subisce. Come sempre, attenzione a non trarre motivo da tali perplessità per un dietrofront totale, benché qualche ridimensionamento normativo non debba essere considerato una catastrofe nemmeno da chi abbia a cuore l’essenziale della riforma e il suo collegamento con il potenziamento della “giustizia riparativa”: a sostegno, da un lato, di una effettiva attuazione dell’art. 27 della Costituzione (che vuole la giustizia penale orientata al recupero sociale dei rei), dall’altro, di una tutela autentica delle vittime. Ma a tal proposito non promettono bene certi propositi, che si fanno più forti per il ritorno a una giustizia meramente repressiva nel senso peggiore. Nessun “input” dal Colle sulle candidature al Csm di Simona Musco Il Dubbio, 15 gennaio 2023 Il 17 gennaio primo tentativo di elezione. Ma sulle candidature dei partiti spunta il mistero di un presunto intervento del Quirinale alimentato da un retroscena del Fatto quotidiano. L’elezione dei dieci membri laici del Csm si tinge di giallo. Con l’indiscrezione, lanciata dal Fatto Quotidiano, di una presunta moral suasion del Quirinale per escludere la candidatura di parlamentari in carica e di quelli della legislatura appena conclusa. Un “suggerimento” ai partiti, attualmente impegnati a decidere i nomi da proporre, che è lo stesso Quirinale ad escludere: “Nessun input di Mattarella sulle candidature del Csm”, fanno sapere dal Colle. Anche perché una mossa del genere sarebbe avvertita come un’ingerenza da parte del Presidente della Repubblica, lontana dal suo stile e, soprattutto, dai paletti fissati dalla Costituzione. Ed è proprio alla Carta che si richiama il deputato di Azione Enrico Costa, convinto che l’indiscrezione sia priva di fondamento. “Mi pare un retroscena inventato - dice al Dubbio -, perché è la Costituzione ad indicare i requisiti, che sono molto chiari”. E nessuno, tra gli esponenti dei partiti, è pronto a confermare che vi sia stata l’interlocuzione con le “alte sfere quirinalizie” di cui parla il Fatto. Il presunto “suggerimento” del Quirinale rappresenta però lo spunto per mettere una pietra tombale sulla presunta candidatura di Marta Cartabia, ex ministra della Giustizia che si ritroverebbe a Palazzo dei Marescialli in un Csm eletto con le sue regole e 20 togati probabilmente pronti a farle la guerra. Un risentimento antico, quello delle toghe, che in passato hanno scioperato contro la riforma che porta il nome dell’ex Guardasigilli e che negli ultimi giorni si sono sbizzarriti nuovamente con feroci polemiche legate al tema della procedibilità. Ma la candidatura di Cartabia, collocata dalle indiscrezioni giornalistiche tra i possibili nomi del Partito democratico, è una “suggestione che non sta né in cielo né in terra”, fanno sapere da via del Nazareno, così come quella di Luciano Violante, ex presidente della Camera indicato tra i possibili prescelti dai dem. Che invece hanno deciso di stare a guardare, aspettando le mosse della maggioranza per poi tirare fuori dal cilindro un nome in grado di attrarre il voto della componente togata e puntare dunque alla vicepresidenza. Al momento, dunque, le bocche rimangono cucite. Quel che è certo è che il presunto “suggerimento” del Colle non riguarderebbe comunque il Pd, già sicuro di non voler andare a pescare tra parlamentari in carica o della scorsa legislatura. Il presunto veto quirinalizio sbarrerebbe la strada anche a Francesco Urraro, ex senatore della Lega tra i 202 avvocati e professori che hanno presentato la propria candidatura autonoma a Palazzo dei Marescialli. Che sul punto si limita ad auspicare “profili di alto livello, fondamentale per un organo costituzionale come questo”. A rimanere fuori anche Alfonso Bonafede, l’ex ministro della Giustizia del M5S che fu l’autore di una proposta di legge che prevedeva il divieto tassativo per i parlamentari e per i membri del governo di diventare componenti del Csm. Proposta poi non approvata e che ha consentito, nei mesi scorsi, di ipotizzare anche una sua candidatura a Palazzo dei Marescialli. Ma tecnicamente ciò non sarà possibile: l’ex Guardasigilli, infatti, non ha conseguito i 15 anni di attività effettiva da avvocato - data la sospensione nei due anni e mezzo da ministro -, così come richiesto dalla procedura definita dal presidente della Camera Lorenzo Fontana ad ottobre scorso. Il M5S, al momento, starebbe puntando su due nomi: l’ex presidente della Commissione Giustizia alla Camera Mario Perantoni e l’attuale senatore Ettore Licheri. Dalle parti di Forza Italia, invece, si punterebbe sugli ex senatori Enrico Aimi e Fiammetta Modena e l’ex deputato Roberto Cassinelli, mentre ribadisce la sua volontà di rimanere al Senato Pierantonio Zanettin. Nel frattempo la giunta nazionale dell’Aiga, Associazione giovani avvocati, ha chiesto al proprio presidente, Francesco Perchinunno, e ai suoi componenti con più di 15 anni di iscrizione all’albo di presentare l’autocandidatura per l’elezione dei membri laici del Csm, per “lanciare un appello alle istituzioni affinché nella composizione del relativo organo venga data voce all’avvocatura quale parte necessaria del processo che possa dare un contributo concreto per un’amministrazione della giustizia più efficace ed efficiente”. Il voto è previsto martedì 17 a partire dalle 16 e in caso di fumata nera, ha annunciato il presidente Fontana, il Parlamento tornerà a riunirsi in seduta comune ogni martedì fino a quando non saranno eletti i “laici” dell’organismo di governo autonomo della magistratura. Ma ciò rischierebbe di far slittare la nomina troppo in là, ammonisce il deputato Costa, secondo cui “di fronte alla prorogatio dell’attuale Csm, dovuto prima alle elezioni politiche, poi alla legge di bilancio, che si è estesa di ben quattro mesi, con evidente forzatura costituzionale, ci appelliamo ai presidenti delle Camere affinché valutino un iter a oltranza, con votazioni a cadenza quotidiana fino al raggiungimento del quorum. Altrimenti - ha evidenziato - di settimana in settimana, si correrebbe il rischio di una indeterminata dilatazione dei tempi, con riflessi di paralisi sulle decisioni che l’organo di autogoverno della magistratura ha il compito di assumere”. Politica alla prova Csm (e delle Camere riunite) di Stefano De Martis Avvenire, 15 gennaio 2023 Martedì il Parlamento si riunirà in seduta comune per eleggere dieci membri del Consiglio superiore della magistratura. Sono quelli che nel linguaggio corrente vengono definiti laici per distinguerli dai venti togati eletti direttamente dai magistrati. L’appuntamento è in sé di primaria rilevanza istituzionale per la stessa natura dell’organo, di cui agli articoli 104 e 105 della Costituzione. Al Csm, infatti, spettano, “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”, a tutela della loro autonomia e indipendenza. Non a caso a presiederlo di diritto è il Capo dello Stato. Ma nell’attuale circostanza si sommano a questo elemento di base altri fattori di particolare interesse. È la prima volta, infatti, che si riuniscono in seduta comune le due Camere a ranghi ridotti e il totale dei parlamentari sarà equivalente alle dimensioni della sola assemblea di Montecitorio prima del taglio numerico. Un motivo pratico in più per riflettere - nella prospettiva delle riforme di cui tanto si parla - sulla possibilità di incrementare i casi in cui il Parlamento delibera in questo formato unitario, magari per ovviare ad alcuni dei problemi connessi con il cosiddetto bicameralismo perfetto. Per esempio, visto che ormai sono anni che la legge di bilancio viene di fatto approvata da una sola Camera, con l’altra costretta a una mera ratifica, potrebbe essere ragionevole e più rispettoso affidare il compito direttamente al Parlamento in seduta comune. Un altro motivo di speciale interesse riguarda il comportamento dei gruppi parlamentari nei confronti della prima decisione squisitamente istituzionale della legislatura, fatta eccezione ovviamente delle nomine iniziali relative agli assetti delle Camere. La riforma Cartabia dello scorso giugno ha introdotto tra le altre novità la possibilità di presentare candidature libere. Sul sito della Camera compare un buon numero di auto-proposte di professori universitari in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio - questi i requisiti che la Costituzione prevede per i membri laici del Csm - ma appare improbabile che qualcuno di essi possa essere eletto a scapito dei candidati indicati dai gruppi. I partiti sono comunque chiamati a dare prova di serietà e di senso di responsabilità scegliendo personalità adeguate ed evitando forzature. La richiesta di un quorum di tre quinti (dei membri nei primi due scrutini, dei votanti in quelli successivi) è funzionale alla ricerca di accordi oltre i limiti esclusivi della maggioranza. Quella che sostiene l’attuale governo avrebbe bisogno dell’apporto di almeno una componente dell’opposizione, ma al di là dei calcoli aritmetici sarebbe un bel segnale per il Paese se i gruppi trovassero già al primo giro un accordo rispettoso allo stesso tempo della rappresentanza parlamentare e del pluralismo delle forze in campo. Sia pure in termini diversi, un problema di equilibrio si riproporrà più avanti con l’elezione del vicepresidente, che ha un ruolo cruciale nel Csm e che secondo la Costituzione dev’essere scelto tra i membri di nomina parlamentare ma con il voto dell’intero Consiglio in cui i togati sono in maggioranza. Un doppio passaggio destinato a incidere non poco sul futuro di uno dei comparti più delicati e nel contempo più stressati della nostra democrazia. Firenze. Muratori e idraulici. Detenuti, seconda chance La Nazione, 15 gennaio 2023 Il progetto curato dall’Ance Toscana parte dal carcere di Sollicciano: insegnare un lavoro a chi è recluso. Corsi per formare muratori e offrire ai detenuti lavoro e inserimento sociale. Il nuovo progetto è curato dall’Ance Toscana, insieme a Formedil Toscana e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, con la collaborazione dell’Associazione Seconda Chance-ETS. La partenza sarà da Sollicciano, ma l’intento è avere un respiro regionale. Scandicci, che da tempo sperimenta corsi analoghi anche per quanto riguarda la pelletteria, sarà una palestra per molti dei detenuti che frequenteranno questi corsi. È già partita infatti la ricerca di imprenditori del territorio che potranno offrire a chi frequenterà il corso un ambito di apprendimento senza troppo allontanarsi dalla casa circondariale. I percorsi di qualificazione, oltre alla “formazione di primo ingresso in cantiere, saranno rivolti soprattutto a formare figure professionali di addetto alle opere murarie, addetto alla decorazione e pittura, addetto termoidraulica ed elettricista, nonché alla formazione di maestranze addette alla manutenzione ordinaria”. “Siamo orgogliosi di aver posto le basi per questo accordo tra Ance Toscana e Provveditorato Regionale - ha detto la presidente di Seconda Chance, Flavia Filippi -. Il referente per la Toscana sarà il giornalista Stefano Fabbri, anello di congiunzione tra Ance e istituti, e rappresenterà un costante punto di riferimento per gli imprenditori da accompagnare ai colloqui e per i detenuti che saranno impegnati nei cantieri”. “L’esperienza che faremo con le imprese toscane - ha detto Vincenzo di Nardo, vicepresidente di Ance Toscana - sarà un laboratorio di buone pratiche che auspichiamo possa essere, in un futuro molto prossimo, diffuso su tutto il territorio nazionale”. Pistoia. Lectio magistralis su “Carcere e ri-educazione” valdinievoleoggi.it, 15 gennaio 2023 Il 16 gennaio ore 10, nella Sala Maggiore del palazzo comunale di Pistoia, si terrà la lectio magistralis su ”Carcere e ri-educazione”. L’obiettivo è quello di mettere in evidenza l’importanza delle attività rieducative all’interno del carcere. Dopo i saluti del sindaco di Pistoia, parteciperanno alla conferenza: Alfonso Belfiore, docente presso il Dipartimento di musica elettronica e nuove tecnologie del Conservatorio statale di musica ”L. Cherubini” di Firenze, ideatore del progetto DigitalMusic Lab all’interno della casa circondariale di Pistoia insieme a Nadia Tirino, presidente dell’associazione Artmonia di Pistoia che ha curato tutta la parte organizzativa del progetto, e Filippo Giordano, docente ordinario di Economia aziendale presso l’Università Lumsa di Roma, esperto in valutazione dell’impatto socio-culturale delle attività rieducative all’interno del carcere. Saranno presenti: Pierpaolo D’Andria, provveditore dell’amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria, AnnaMaria Celesti, vicesindaco e presidente della Società della Salute, Sandra Palandri, legale rappresentante di Far.Com S.p.a., Loredana Stefanelli, direttrice della casa circondariale di Pistoia. La lectio magistralis partirà dall’esperienza del progetto DigitalMusic Lab per poi affrontare i temi della rieducazione all’interno delle carceri italiane. Il progetto DigitalMusic Lab, primo a livello nazionale, si inserisce all’interno del Protocollo di Intesa stipulato tra Conservatorio statale di musica “L. Cherubini” di Firenze e provveditorato regionale amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria (Ministero della Giustizia). Si tratta di un progetto pilota, perchè è la prima volta in cui un Afam, cioè un Istituto di Alta Formazione Musicale Universitaria, entra in un carcere per fare lezione. Il Progetto è ideato e condotto dal prof. Alfonso Belfiore del Conservatorio di Firenze, promosso e organizzato da Nadia Tirino, Presidente dell’associazione Artmonia, con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, della Casa della Salute di Pistoia e di Far.com (Farmacie comunali di Pistoia). Tramite il progetto, si è ritenuto utile proporre, per le persone detenute nel carcere di Pistoia, un’attività formativa e di recupero sociale attraverso un approccio ai linguaggi della musica e dell’arte multimediale in generale, capace di fornire una visione dinamica, scientifica, umanistica, tecnologica e neurofisiologica, dei vari aspetti dell’espressione, della comunicazione e della forza psicologica intrinseca all’esperienza artistica. L’attività si è articolata con particolare riferimento alle nuove tecnologie informatiche e digitali, ai legami tra musica, tecnologia, psiche, percezione e scienza. Sarà possibile seguire la lectio magistralis anche sulla diretta Facebook del sito del Comune di Pistoia. Lecce. “La formazione oltre le sbarre”, il Cidi incontra la politica a Nardò leccenews24.it, 15 gennaio 2023 Scuola e carcere nella conferenza indetta dal Cidi è dedicata alla crescita culturale delle persone recluse in carcere. Ancora una volta Nardò diventa un centro di formazione e informazione, grazie alla conferenza indetta dal Cidi è dedicata alla crescita culturale delle persone recluse in carcere. Tanti gli ospiti illustri e tra questi il Senatore Roberto Marti Presidente della Commissione Cultura, istruzione pubblica, ricerca scientifica, spettacolo e sport; e ancora Maria Teresa Susca, Direttore della Casa Circondariale di Lecce; Cristian Casili, Vicepresidente del Consiglio Regionale della Puglia; Attilio De Marco- Consigliere Provinciale; Antonio Tondo, Presidente del Consiglio Comunale di Nardò; Giulia Puglia, Assessore all’Istruzione del Comune di Nardò e Laura Liuzzi, Presidente del Cidi di Lecce. Il tema trattato scaturisce dalla necessità di formazione all’interno delle carceri, e ciò è innegabile, basta analizzare i dati sulla scolarizzazione per rilevare quanto influisca lo studio sul percorso deviante. All’interno di questa realtà troviamo analfabeti, analfabeti di ritorno e sempre più stranieri, ne deriva che la popolazione carceraria di età adulta è in maggioranza connotata dal basso grado culturale e di scolarizzazione, spesso appartenente a insiemi subculturali specifici rappresentati dalle organizzazioni criminali, e non solo. Avere come obiettivo l’ “istruzione” e la “formazione” per i detenuti significa re-inventare una scuola che parta dai dati di realtà e trovi la sua efficacia nel raggiungere i suoi scopi. Scuola e carcere hanno certamente aspetti distintivi, ma entrambi sono chiamati a svolgere un’attività educativa o (ri)educativa, la difficoltà è però dirigersi insieme verso il medesimo obiettivo. Ricordiamo le relatrici, tutte di altissimo spessore: la Dott.ssa Valeria Climaco, Capo Area del Trattamento Rieducativo del Carcere di Vercelli; la Prof.ssa Marta Vignola, Delegata del Magnifico Rettore dell’Università del Salento per i Poli Penitenziari Universitari, che hanno interessato e motivato il numeroso uditorio. La presenza in questa conferenza, di esponenti delle istituzioni, insieme al mondo della cultura, della ricerca e dell’associazionismo ha portato interessanti spunti di riflessione, per dar vita ad una partecipazione corale dentro e fuori dalle mura carcerarie, al fine di rendere credibile il trattamento ri-educativo. Ivrea. Detenuti attori in teatro per un giorno di Andrea Bucci giornalelavoce.it, 15 gennaio 2023 Sabato scorso grazie ad un progetto della Compagnia “Teatro a canone” di Chivasso. La cultura e il teatro entrano nella casa circondariale di Ivrea grazie al progetto “Leggendo evado” elaborato dagli attori della Compagnia “Teatro a Canone” di Chivasso diretta da Luca Vonella. Sabato scorso, sul palco, i detenuti hanno interpretato Fahrenheit 451 un romanzo di Ray Bradbury. Ambientato in un imprecisato futuro posteriore al 2022, vi si descrive una società distopica in cui leggere o possedere libri è considerato un reato, per contrastare il quale è stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco impegnato a bruciare ogni tipo di volume. “Ci lavoriamo da settembre. Ci sono voluti mesi di lavoro prima di salire sul palco ...” hanno raccontato gli attori dell’associazione. Lo spettacolo era inserito nel calendario di “Ivrea capitale Italiana del Libro 2022” anche se, a dirla proprio tutto l’assessora Costanza Casali non s’è vista. Ad assistere c’erano il sindaco di Ivrea Stefano Sertoli, i consiglieri comunali di Ivrea Francesco Comotto e Gabriella Colosso, l’assessore chivassese Fabrizio Debernardi e i consiglieri regionali Gianluca Gavazza della Lega e Alberto Avetta del Pd.  Il pubblico - E ancora il Vescovo di Ivrea, Monsignor Edoardo Cerrato i garanti del Comune di Ivrea Raffaele Orso Giacone, della Regione Piemonte Bruno Mellano, la direttrice del Cpia Elena Gobbi, il comandante delle guardie Leonardo Colangelo e la nuova direttrice del penitenziario, Antonella Giordano. Inevitabilmente, il discorso si è spostato sui recenti fatti di violenze e sulla cronaca giudiziaria con le inchieste recentemente aperte dalla Procura di Ivrea. Mellano, rivolgendosi ai consiglieri regionali ha ricordato come sia importante che il Piemonte faccia la propria parte e giochi in ruolo da protagonista all’interno di questa e altre strutture. “Ho contribuito - ha sottolineato - a far approvare la mozione per una commissione d’inchiesta sulla sanità penitenziaria”. E poi ancora: “È interesse che si chiariscano gli angoli grigi e da quando occupo il ruolo di garante dei detenuti, qualche cosa l’avevo segnalata”. Particolarmente loquace il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Rita Monica Russo. “Il teatro - ha sottolineato - porta bellezza nel carcere dove tutto è grigio e monocolore. Spero in una nuova rinascita per l’istituto penitenziario di Ivrea, che da qualche tempo sta dando prova di coraggio. Anche nel silenzio”.Che nel carcere eporediese si respiri un’aria diversa lo si intuisce anche dalle parole di Fortunato La Scala uno dei detenuti protagonisti dello spettacolo. ”Può anche essere che qui sia accaduto qualcosa. Ma non posso accettare che questo carcere venga descritto come un inferno. Io qui mi sono diplomato”. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). Teatro-carcere con “Alterazioni-il mondo sottosopra” Il Roma, 15 gennaio 2023 L’indifferenza è il tema conduttore dello spettacolo che si terrà il 25 gennaio 2023 presso la Casa di reclusione “Bartolo-Famiglietti-Forgetta” di Sant’Angelo dei Lombardi (Av), diretta dalla dott.ssa Marianna Adanti. L’atto unico “Alterazioni-il mondo sottosopra”, scritto e diretto da Gaetano Battista dell’Associazione Polluce e messo in scena dalla compagnia di attori del penitenziario, costituita da detenuti, ex detenuti e professionisti, tenta di rispondere al quesito interiore sul mondo in cui vogliamo vivere, partendo dai testi del commediografo tedesco Karl Valentin per arrivare ad Antonio Gramsci, passando attraverso le suggestioni suggerite da Matilde Serao, Schopenhauer, Martin Luther King, Albert Einstein, mescolando il cabaret dell’assurdo con le clownerie, citazioni colte con riflessioni personali dei detenuti sulla condizione umana contemporanea. Lo spettatore è accompagnato da due personaggi traghettatori attraverso le stanze della casa di reclusione, dove gli attori-detenuti lo accoglieranno nel proprio mondo sottosopra.  Il lavoro - che gode del sostegno del Fondo di Beneficenza di Intesa Sanpaolo, della Direzione delle Politiche Sociali e Socio-sanitarie della Regione Campania e del Garante dei Detenuti della Regione Campania - è una filiazione del Progetto Teatro Inclusivo dell’Associazione Polluce, un laboratorio teatrale stabile dedicato alla formazione delle arti sceniche (teatro, scenografia e creazione di costumi) iniziato dalla Casa circondariale “Gennaro De Angelis” di Arienzo (CE), rivolto a detenuti (anche ai domiciliari) e ad ex detenuti. Il penitenziario De Angelis è divenuto polo e centro culturale della città di Arienzo, fungendo da esempio: infatti il progetto è stato poi allargato ad altri penitenziari, tra cui la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (AV) e la Casa circondariale femminile di Pozzuoli (NA). Grazie al progetto, inoltre, nel penitenziario De Angelis è nata la compagnia teatrale stabile “La Flotta”. Le attività sono tenute da operatori esterni per quattro volte a settimana con lo scopo di rendere gli istituti coinvolti centri culturali per le comunità del territorio e di formazione per i detenuti che possono lavorare come professionisti del teatro. “Il teatro è un mezzo terapeutico per aiutare il detenuto a migliorare la percezione sociale ed integrativa nella comunità - afferma il regista Gaetano Battista - Le statistiche riportano che frequentare laboratori artistici nei penitenziari abbassa del 6% la tendenza a delinquere dopo aver scontato la pena. Durante il percorso teatrale il detenuto è considerato prima di tutto uomo, attore di se stesso e del suo progressivo processo di crescita umana”. Monfalcone (Go). Le opere dei detenuti in mostra imagazine.it, 15 gennaio 2023 Realizzate nell’ambito dei laboratori permanenti di pittura e bricolage presso la Casa Circondariale di Tolmezzo. Inaugurata venerdì 13 gennaio, presso l’atrio del Palazzo Municipale del Comune di Monfalcone (Piazza della Repubblica, 8), la mostra (p)Arte da dentro: una rassegna di opere inedite, realizzate nell’ambito dei laboratori permanenti di pittura e bricolage nati dalla proposta di un gruppo di detenuti in regime di Alta Sicurezza presso la Casa Circondariale di Tolmezzo. Il laboratorio, nato inizialmente dall’esigenza di creare uno spazio-tempo in cui esprimere le emozioni attraverso l’arte, ha ben presto motivato i partecipanti a portare le loro opere all’esterno, spinti dal desiderio di costruire un ponte - immaginario e virtuoso - tra dentro e fuori la struttura di detenzione, con l’obiettivo di contribuire a un importante momento di crescita che renda i partecipanti persone ancor prima che detenuti, portandoli a riflettere sulle loro esistenze, sulle loro paure e sui loro desideri. Il progetto si compone di una trentina di opere che saranno esposte nell’atrio del Palazzo Municipale di Piazza della Repubblica dal 13 gennaio al 2 febbraio 2023. I quadri si aprono al pubblico con un linguaggio visivo che punta dritto al cuore dell’osservatore: ogni opera vuole trasmettere un potente messaggio simbolico, toccando temi quali la solitudine, l’incomunicabilità tra gli individui e la precarietà dell’esistenza umana e diventa lo strumento attraverso cui, con le immagini, trasmettere la personale visione di ciascun autore, offrendo all’osservatore un punto di vista inconsueto che nasce proprio da quella privazione delle libertà che amplifica il bisogno di comunicare e di esprimere all’esterno i propri sentimenti. L’opera pittorica è il tentativo di fuggire ai fantasmi dell’apatia e della rassegnazione per sentirsi nuovamente parte della comunità anche attraverso il linguaggio dell’arte. Ed è proprio l’arte che sottrae la persona al processo di identificazione con il carcere, facendosi veicolo per comunicare con il mondo esterno, attivando meccanismi di risocializzazione: le opere colorano gli spazi pubblici e li trasformano in muri parlanti attraverso cui si rivelano le anime degli autori, creando affinità emotive tra gli interlocutori e generando comprensione, calore umano, comune sentire. È l’umanità che prevale anche nelle situazioni di grande difficoltà. Questa mostra diventa così espressione del desiderio di costruire un ponte tra il “dentro” e il “fuori”, anche attraverso il libro firme a disposizione del pubblico, sul quale i visitatori saranno invitati a lasciare la propria firma e un pensiero o una riflessione e che diventerà il vero ponte e punto di contatto fra queste due realtà. La mostra, promossa dalla Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia FVG, in collaborazione con l’associazione Icaro Volontariato Giustizia o.d.v. e il Comune di Monfalcone, si inserisce nel progetto regionale “Sono Stato (anche) io. Percorsi di cittadinanza e consapevolezza fuori e dentro dal carcere” e rimarrà aperta a Monfalcone dal 13 gennaio al 2 febbraio, con ingresso libero negli orari di apertura del palazzo comunale: Lunedì 09:00-13:00 | 15:30-17:30; Martedì 09:00-13:00; Mercoledì 09:00-13:00 e 15:30-17:30; Giovedì 09:00-13:00; Venerdì 09:00-13:00. “Una giornata per ricordare i morti di alternanza scuola-lavoro”. Ma la questura vieta il corteo di Chiara Sgreccia L’Espresso, 15 gennaio 2023 Il prossimo 21 gennaio l’anniversario della scomparsa di Lorenzo Parelli, schiacciato da una trave durante uno stage. Gli studenti chiedono di poter fare una manifestazione a Roma per ricordarlo, ma gli viene rifiutata: “Saremo in piazza lo stesso, anche senza autorizzazione”. “Abbiamo chiesto l’autorizzazione per organizzare un corteo il prossimo 21 gennaio, a un anno dalla morte di Lorenzo Parelli”. Lo studente schiacciato da una trave durante l’ultimo giorno di stage in un’azienda vicino Udine. “Un nostro coetaneo che vogliamo ricordare. Insieme a Giuseppe Lenoci e Giuliano De Seta, vittime dello stesso sistema. Ma ci hanno detto di no. Senza dare spiegazioni”. È il racconto di Daniele Agostini del Fronte della gioventù comunista che, con un rappresentante del liceo Socrate di Roma, lunedì scorso è andato in Questura per la richiesta. “Vogliamo creare un appuntamento annuale per ricordare gli studenti che sono morti durante l’ex alternanza scuola-lavoro. Sia per commemorarli, sia per tenere acceso il dibattito. Perché l’anno scorso siamo scesi in piazza quasi ogni settimana per denunciare il sistema malsano che collega istruzione e il settore dell’occupazione, per chiedere giustizia. Ma non è successo niente. Anzi, altri due ragazzi sono morti dopo Lorenzo. E il Governo e le istituzioni hanno risposto reprimendo le manifestazioni che ci sono state in tutta Italia”, spiega Agostini che si fa portavoce di un’esigenza condivisa da molte scuole nell’area di Roma, come gli istituti superiori Socrate, Enriques, Labriola, Montale, Faraday, Avogadro, Archimede, Rosseau. Un elenco che cresce man mano che gli istituti aderiscono all’appello lanciato dalla Rete degli studenti romani. Gli stessi che il 22 gennaio 2022, all’indomani della morte di Lorenzo, avevano organizzato il corteo che dal Pantheon, nel centro storico della Capitale, puntava verso il Ministero dell’Istruzione, durante il quale studenti e forze dell’ordine erano arrivati agli scontri. “Non abbiamo capito il perché la Questura abbia detto no all’organizzazione della manifestazione quest’anno. Se è perché abbiamo riproposto lo stesso percorso del 2022, se per ragioni di sicurezza o per altro. Ma ci auguriamo che ci vengano date delle spiegazioni. Anzi speriamo di essere riconvocati e di ricevere l’autorizzazione”, conclude Agostini. Anche perché molti studenti, docenti, lavoratori della scuola il prossimo 21 gennaio scenderanno in piazza in ogni caso. Ma non vorrebbero che la giornata diventasse un’occasione di repressione. Piuttosto un momento per ricordare i ragazzi che sono morti. E di confrontarsi sui limiti di un sistema che non tutela né garantisce sicurezza ai ragazzi. Serve uno sguardo diverso sulla tossicodipendenza di Luigi Mastrodonato L’Essenziale, 15 gennaio 2023 I servizi italiani di riduzione del danno per il consumo di droghe sono stati per anni tra i migliori al mondo, ma ora sono in difficoltà. La mancanza di un piano nazionale crea disuguaglianze e isolamento sociale. Ogni volta che torna a Taranto, Fabio Rizzi si ritaglia del tempo per girare tra i vicoli del centro storico. Un tempo in quelle strade si faceva di eroina, ora sono trent’anni che ha smesso e prova ad aiutare i tossicodipendenti. Con la sua bicicletta raggiunge una ventina di persone al giorno, cerca di entrarci in confidenza, fa discorsi sulla prevenzione, distribuisce siringhe nuove e il naloxone, un farmaco antagonista che blocca gli effetti degli oppiacei e salva dall’overdose. Rizzi, che ha cinquant’anni, offre un servizio informale di riduzione del danno in una città dove qualcosa di simile non è mai esistito, a dispetto delle direttive nazionali. “Un tempo la strada la vivevo come tossicodipendente, oggi come operatore informale. Prima mi fermavano per arrestarmi, adesso per chiedermi aiuto”. Senza strategia nazionale - La riduzione del danno è un insieme di politiche e servizi volti a ridurre le conseguenze negative del consumo di droghe. In Italia i primi progetti sul tema sono partiti negli anni novanta, con screening delle malattie, distribuzione di siringhe, drug checking (analisi delle droghe) e drop-in (strutture di accoglienza a bassa soglia). L’Italia è stata tra i primi paesi al mondo a rendere il naloxone un farmaco obbligatorio da banco. Nel 2017 la riduzione del danno è entrata tra i Livelli essenziali di assistenza (Lea) nazionali. Eppure oggi le cose non vanno troppo bene. “C’è un paradosso italiano sui servizi di riduzione del danno. Per anni sono stati tra i migliori del mondo ma con il tempo sono emerse problematicità perché non sono mai stati inclusi nei piani d’azione nazionali sulle droghe. Se si lavora bene nei territori, ma manca una politica nazionale, si fa un centesimo di quello che si potrebbe fare”, spiega Susanna Ronconi di Forum droghe. I decessi per overdose in Italia sono crollati da più di mille nel 1999 a 293 nel 2021, ma non basta. Lo scorso ottobre l’Onu ha bacchettato l’Italia per insufficiente disponibilità di programmi di riduzione del danno, a novembre Harm reduction international ha evidenziato criticità in termini di copertura territoriale, assenza di stanze del consumo, chiusura dei drop-in e scarsa reperibilità del naloxone. Per quanto riguarda il farmaco, è bastato fare un test a Milano per averne conferma: su una dozzina di farmacie visitate, solo due ce l’avevano. Territori scoperti - Secondo una ricerca realizzata da Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), Rete italiana della riduzione del danno (Itardd), Coordinamento italiano case alloggio hiv/aids e Arcigay, in Italia i servizi di riduzione del danno e limitazione dei rischi sono 152. Sono concentrati perlopiù al centronord, mentre il sud è quasi o completamente scoperto. Capitano poi servizi etichettati come riduzione del danno, ma che nel concreto rifiutano di offrire prestazioni essenziali come la distribuzione di siringhe. In Puglia il problema è di lunga data. “La riduzione del danno a Taranto non è mai arrivata. Ci si è sempre aiutati tra tossicodipendenti”, spiega Fabio Rizzi. I consumatori locali erano riusciti a far installare un distributore di siringhe, poi il prefetto lo ha fatto togliere. Oggi l’unico accenno di riduzione del danno lo offre Rizzi, che vive a Roma e compare in Puglia saltuariamente. “Me ne vado in bicicletta dove so che la gente si fa”, spiega. “Faccio due chiacchiere, li faccio ridere”. Rizzi raccomanda di non gettare le siringhe a terra, distribuisce opuscoli che si stampa da sé e offre materiale sanitario raccolto da associazioni che operano altrove. “Dopo un po’ i consumatori mi danno ascolto. Serve però un vero servizio di riduzione del danno in città”. Anche la Sicilia ha lo stesso problema. A Palermo c’erano un drop-in e un’unità mobile, poi hanno chiuso per scarsità di fondi. “La regione non ha recepito le prescrizioni nazionali”, spiega Massimo Castiglia di Sos Ballarò. Oggi in città resiste un gruppo di autoaiuto, tutto il resto è sulle spalle dei sei dipendenti dei Servizi per le dipendenze patologiche (Serd) che di fronte a un’utenza di duemila persone riescono a malapena a distribuire il metadone. Le persone che usano droga sono abbandonate a se stesse, prive di punti di riferimento. Castiglia racconta di una donna che cercava crack per la figlia nel quartiere dell’Albergheria, l’aveva convinta a stare a casa in cambio della droga invece che dormire in strada. “Questi vuoti istituzionali causano situazioni devastanti”, conclude. A novembre si è tenuto un corteo di protesta dopo la morte per overdose di due ragazzi. Il modello Torino - A Torino le cose vanno storicamente bene sul tema della riduzione del danno. Qui nel 2019 è stata firmata la prima delibera regionale italiana che recepisce le prescrizioni nazionali sui Lea. Nel 1997 è nato il primo drop-in italiano. Nella vicina Collegno è sorta la prima e finora unica cosa che più somiglia a una stanza del consumo in Italia, uno spazio autogestito dalle persone che usano droga di fianco al drop-in Punto Fermo. Torino è stata anche la prima città italiana a offrire un servizio stabile di drug checking, che già avveniva informalmente al Lab57 di Bologna. Lo sportello torinese, dove è disponibile anche il materiale di Chemical sisters, un collettivo che fa riduzione del danno con focus su donne e persone non binarie, è gestito dal Progetto Neutravel, una partnership tra settore pubblico e privato sociale. Lo spazio apre al pubblico ogni venerdì sera ed è pieno di materiale informativo sulle droghe e i rischi delle miscelazioni. Su una scrivania è posato uno spettrometro Raman, uno strumento da quasi 40mila euro che identifica in pochi secondi la composizione delle sostanze. A maneggiarlo c’è un chimico. Il consumatore pone la sua bustina davanti all’obiettivo del macchinario, che in pochi secondi dà il risultato. “Chi scopre di avere in mano qualcosa che non si aspettava decide di non assumerla nel 60-70 per cento dei casi”, spiega Elisa Fornero, coordinatrice di Neutravel per la cooperativa sociale Alice onlus. “Quando invece il test conferma le aspettative c’è comunque fino a un 15 per cento dei casi che sceglie di non assumere la sostanza in seguito all’attività di counseling”. Torino è anche la città dove si è affermato il peer support. “Negli anni novanta è successa una cosa clamorosa in città: le Asl hanno assunto persone con un trascorso di tossicodipendenza così da mettere a frutto la loro esperienza diretta con il mondo del consumo e la loro conoscenza delle reti territoriali”, spiega Alessio Guidotti di Itanpud - Network italiano delle persone che usano droghe. Si è innescato così un processo di empowerment e inclusione di consumatori e consumatrici. “Queste persone hanno cambiato la loro storia di consumo diventando figure educative professionali”. Eppure anche il modello Torino scricchiola. Il drop-in Punto Fermo ha chiuso temporaneamente alla fine del 2020 per assenza di fondi. Il servizio di pronta assistenza per tossicodipendenti dell’Asl ha subìto la stessa sorte. Anche Neutravel non ha garanzie economiche di poter continuare il suo lavoro, dal momento che i finanziamenti regionali hanno scadenza biennale e questa incognita perenne limita la progettualità. Al boschetto di Rogoredo - Pure Milano vive alti e bassi. Al drop-in di Fondazione Somaschi un operatore, un’educatrice sociale e diversi tirocinanti devono affrontare un massiccio via vai di persone. Tra queste c’è Laura, 40 anni, che vive in un edificio occupato e si muove nella struttura con una ritualità casalinga. Entra e scarica in un contenitore apposito le sue siringhe usate. Poi si palesa all’accettazione, prenota la doccia per il giorno dopo, ritira un pacco nuovo di aghi, lacci e disinfettanti, prende qualche biscotto e sparisce in strada. Altre persone chiacchierano nell’area chill out, qualcuno sonnecchia sul divano con la televisione in sottofondo. “La gente all’inizio passa furtivamente, giusto per le siringhe. Con il tempo si crea fiducia e chiedono anche il resto, così da poter assumere le sostanze in modo più sicuro”, spiega Edoardo D’Alfonso, responsabile del centro. “Noi chiediamo di raccontarci come si fanno, per capire se c’è qualcosa che non va, cosa c’è di rischioso. Serve per diffondere le buone pratiche”. Fino a qualche tempo fa il drop-in era aperto sei giorni su sette, ora hanno stretto le maglie perché gli stanziamenti della regione Lombardia non coprono le spese. Il centro ha dovuto chiudere durante tutto il periodo natalizio, privando gli utenti dell’unico drop-in cittadino. Quella non che chiude mai è l’unità mobile di Rogoredo, gestita da Croce Rossa, Agenzie di tutela della salute (Ats) Milano e organizzazioni del territorio. Il boschetto limitrofo non è più il tempio dello spaccio come un tempo, ma il movimento di consumatori è ancora importante. “Oggi l’utente medio è un uomo tra i 25 e 45 anni ma la quota di donne è in crescita. Quanto alle droghe, si fa sempre più uso di cocaina”, spiega un operatore, mentre un uomo sull’uscio del camper reclama due boccette di acqua per il naso. Gli operatori offrono anche screening per l’hiv, naloxone, siringhe e carta stagnola. Il supporto arriva fino all’accompagnamento fisico nei Serd o nei dormitori. Il progetto va avanti da anni ma ha subìto un calo nel personale. Come spiegano gli operatori, le risorse stanziate al livello regionale sono state indirizzate su altri servizi legati alle tossicodipendenze e questo ha ridotto la disponibilità economica. L’unità mobile di Rogoredo resta comunque un modello, capace di superare i due principali ostacoli sulla strada dei servizi di riduzione del danno: la creazione di percorsi integrati tra le varie realtà associative, che spesso hanno visioni differenti, e il costante scontro politico locale sul tema. Nelle carceri - Le carceri sono i luoghi dove, al di là della terapia di metadone, i servizi di riduzione del danno in Italia non riescono ad arrivare. “In paesi come la Germania le siringhe sono distribuite anche in cella”, spiega Susanna Ronconi di Forum droghe. “Servirebbe una rivoluzione culturale per una cosa simile in Italia, significa essere pragmatici. In carcere ci si droga, con decine di persone che si passano la stessa siringa o si creano siringhe di fortuna. Distribuire nuovi presidi non significa ignorare l’ingresso della droga in carcere ma mettere la salute come priorità”. Un primo cambiamento sta avvenendo nel carcere di Bergamo, dove dopo un periodo di sperimentazione partirà all’inizio del 2023 il progetto Esci in sicurezza, nato dalla collaborazione con l’azienda sociosanitaria territoriale Papa Giovanni XXIII e la cooperativa di Bessimo. I detenuti fragili dal punto di vista delle tossicodipendenze ricevono un kit alla scarcerazione, che varia in base alla loro storia di consumo: oppiacei, cocaina, alcol e cannabinoidi. All’interno materiale informativo, il piano terapeutico personale, siringhe, presidi per lo sniffo, profilattici e naloxone. “La ricaduta nell’abuso di sostanze per chi esce da strutture protette, in particolare quelle penitenziarie, è uno dei maggiori fattori di rischio per le overdose”, sottolinea Elisabetta Bussi Roncalini, responsabile del Serd del carcere. I tossicodipendenti durante la carcerazione vedono ridursi la loro tolleranza agli oppiacei, inoltre il trattamento a base di metadone costituisce uno scudo dall’overdose. Una volta fuori si trovano più scoperti e fragili in caso di nuovi consumi. “L’obiettivo è fare prevenzione dall’overdose da oppiacei, dalle patologie infettive correlate all’uso in vena o inalazione di sostanze psicotrope e dalla trasmissione delle malattie sessuali, oltre che accompagnare ai servizi sanitari”, continua Bussi Roncalini. “Noi effettuiamo uno screening che ci permette di identificare i soggetti a rischio e preparare kit personalizzati da consegnare all’uscita. Le cose si complicano quando la scarcerazione è improvvisa”. Nella fase pilota del progetto è stato raggiunto circa il 10 per cento dei bisognosi, ora si punta ad ampliare la platea. La stretta del governo Meloni - Nell’estate del 2021 vicino Viterbo si è tenuto un free party con migliaia di persone. In loco c’erano anche équipe professionali per la riduzione del danno, che hanno stilato un bilancio finale di 116 emergenze affrontate. Lo stesso avviene nella maggior parte di eventi simili in Italia e questi interventi, oltre che garantire i diritti di assistenza sanciti dalla legge del 2017, permettono di abbassare i rischi per i servizi di sanità pubblica e per la collettività. Fare riduzione del danno ai free party potrebbe però diventare sempre più difficile. Gli operatori sociosanitari solitamente li raggiungono grazie al passaparola, ma la nuova stretta del governo Meloni dopo il “rave di Modena” rischia di produrre ulteriore isolamento. Il testo del decreto legge prevede per questi raduni la reclusione da tre a sei anni e pene pecuniarie, colpendo esplicitamente “l’inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti”. Questo ha fatto alzare la voce a diverse associazioni della società civile. “Il decreto rischia di incentivare l’organizzazione di eventi sempre più nascosti e irraggiungibili, e quindi molto più difficili da gestire attraverso gli interventi di riduzione del danno e tutela della salute pubblica”, scrivono in una lettera. A dicembre in varie città italiane sono state organizzate street parade di protesta contro il decreto. A Torino a chiudere la fila di carri di Ivreatronic e altri collettivi c’era il furgone di Neutravel riconvertito in area chill out mobile, mentre diversi operatori distribuivano materiale sanitario e di prevenzione. Questo ha facilitato la gestione di alcune emergenze legate all’uso delle sostanze. Il futuro però è grigio. La deputata Maria Teresa Bellucci, responsabile del dipartimento dipendenze di Fratelli d’Italia, ha detto che “la riduzione del danno è fine a se stessa: io ti aiuto a drogarti in maniera tale che tu non muoia”. E ha criticato il nuovo Piano di azione nazionale dipendenze (Pand), frutto della Conferenza nazionale di Genova del 2021 che ha riunito dopo 12 anni centinaia di addetti al settore: “Il piano si basa su un concetto di normalizzazione dell’uso delle droghe”. Il governo ha maldigerito proprio le linee guida sulla riduzione del danno, come la sperimentazione delle stanze del consumo (l’Italia è l’unico paese europeo dove non esistono). “Quelli a cui stiamo assistendo sono segnali preoccupanti”, chiosa Pino Di Pino di Itardd. “Se l’approccio del governo al fenomeno dell’uso delle droghe è quello della devianza e della criminalizzazione e della droga zero come unico obiettivo, è chiaro che lo spazio per le innovazioni nel campo della riduzione del danno è poco”. L’iter di adozione del Pand è stato bloccato, intanto il governo ha affidato le deleghe sulla droga al sottosegretario Alfredo Mantovano, proibizionista convinto. “La vita di una persona che usa droga nei territori in cui non c’è riduzione del danno è fatta di isolamento perché la riduzione del danno ha come primo obiettivo quello di istituire connessioni tra un sistema che si prende cura delle persone e le persone che usano droghe in quanto soggetti fortemente stigmatizzati e marginalizzati”. L’assenza di questi servizi crea una spirale di conflitto sociale. “Al contrario, una realtà che offre spazi dove iniettarsi, materiale pulito, infermieri, persone con cui parlare, è una realtà che permette di esercitare appieno il diritto di cittadinanza. E questo può essere lo stimolo migliore per cambiare”, continua Di Pino. “La riduzione del danno è certamente un insieme di prestazioni, ma è anche e soprattutto una prospettiva diversa, pragmatica e rispettosa dei diritti umani, con cui guardare le persone che usano droghe”. Baby Gang, la lettera del trapper in carcere: “Alcol e droghe. Solo scrivere canzoni mi salva” di Andrea Galli Corriere della Sera, 15 gennaio 2023 L’ultima accusa a Zaccaria Mouhib, 21 anni, è stata la gambizzazione di due senegalesi in corso Como: “Ero completamente ubriaco”. E poi, “Ho iniziato a bere da ragazzino. Oltretutto fumo hashish tutti i giorni”. Ma chi è davvero “Baby Gang”? Da mesi, sul trapper, idolo di decine di migliaia di coetanei e all’anagrafe Zaccaria Mouhib, di anni 21, si sviluppa una densa narrazione: indagini dei carabinieri e della polizia coordinati dal pm Francesca Crupi, arresti, richieste dell’avvocato Nicolò Vecchioni, repliche del gip Guido Salvini, documenti su documenti su documenti. Tre di questi ultimi — la lettera scritta dal ragazzo in cella con destinatari proprio Crupi e Salvini, la valutazione psicodiagnostica di uno specialista, e l’esame di una psicologa e psicoterapeuta — aiutano a meglio comprendere. Forse. L’ultima accusa a Zaccaria, insieme ad amici e secondo l’impianto investigativo compagni della gang, riguarda la gambizzazione di due senegalesi in corso Como.  L’episodio è l’innesco della sua lettera. “Sono detenuto da tre mesi e ho riflettuto parecchio sulla follia di quella notte. Ho avuto una reazione davvero esagerata perché ero completamente ubriaco”. Lo stato di alterazione causata dagli alcolici è visibile in uno dei video delle telecamere che avevano inquadrato la rissa in corso Como; s’aggiunga che, nelle successive intercettazioni, gli amici/compagni più volte avevano parlato di come, quando beve, Zaccaria vada particolarmente fuori controllo. Ma proseguiamo con la lettera, scritta in stampatello: “Quando sono stato arrestato, ho letto nelle carte del processo cose non vere sul fatto che avrei programmato di aggredire quei ragazzi e che avrei voluto rapinarli… Dalle immagini si vede chiaramente che hanno iniziato loro”. In ogni modo, Zaccaria era armato. Al proposito, scrive che “sebbene non sia stato io a sparare ho portato con me quell’arma e mi sento in colpa per quello che è successo… Non ci sono giustificazioni per girare armato…”. Dopodiché eccoci all’alcol, e non soltanto a quello: “Ho iniziato a bere da ragazzino… Oltretutto fumo hashish tutti i giorni”. Ebbene, forte della consulenza tecnica di un chimico forense, e previa la domanda (accolta) a due comunità, tra le migliori del settore, per ospitare il ragazzo, l’avvocato Vecchioni ha di recente esplorato in Procura la possibilità di sostituire la detenzione con il trasferimento, appunto, nelle strutture. Nell’analizzare i risultati di quella consulenza sul consumo di stupefacenti, il gip Salvini ha deciso per la permanenza in cella in quanto “l’imputato fuma per moda”.  Una scelta che innescherà, nel legale, il ricorso al Riesame, anche ricordando le parole di Zaccaria: “Sono disponibile e motivato a iniziare un percorso in comunità e con il Sert. Ho conosciuto gli operatori e le regole di quelle strutture, e so bene che non sono come quelle che ho frequentato da minorenne”. Questa parola ci porta alla valutazione psicodiagnostica dello specialista, per il quale il carcere non è idoneo al percorso necessario per Zaccaria: “Il soggetto è figlio unico ma i genitori hanno avuto altri figli da altre relazioni… Relativamente al periodo pre-adolescenziale e adolescenziale emergono, dal racconto del signor Mouhib, condotte devianti, difficoltà scolastiche, e il non avere orari prestabiliti con conseguente insufficienza di controllo genitoriale... Si ipotizza un’educazione “permissiva e/o indulgente” contrapposta ad un rispetto delle regole come conseguenza di errori e sbagli e quindi “punitiva” e non “evolutiva”. Il paziente necessita di un percorso trattamentale profondo e introspettivo”. Quale ultimo documento da leggere, rimane l’esame della psicologa e psicoterapeuta, che descrive gli esordi esistenziali del trapper. “Nasce e cresce in Italia da una famiglia marocchina, i genitori si lasciano subito dopo e si ricostruiscono nuove famiglie dalle quali nasceranno 6 figli. Resta a vivere fino ai 12 anni con la madre e il nuovo compagno; descrive una realtà povera, dove la differenza con gli altri si evidenziava anche nelle cose più semplici: nella merendina, nel vestiario, nello zaino; la situazione lo faceva sentire escluso… Nel 2011 avviene il primo arresto… La madre decide di provare a mandarlo dal padre naturale in Marocco nel goffo tentativo di rieducarlo... In quei mesi le cose peggiorano, il vivere in un quartiere popolare di Casablanca lo porta a frequentare persone più adulte che lo portano a delinquere e usare sostanze in modo ancora più importante… La madre torna in Marocco per riportarlo a casa, ma al rientro in Italia le cose peggiorano… Lo portano in una comunità in Toscana… Viene trasferito nel carcere minorile Beccaria… Da lì in comunità a Boario Terme dove scrive la sua prima canzone e nasce così “Baby Gang”“.  Il giudice Salvini ha ricordato a Zaccaria il grande, enorme talento indirizzato però verso fini delinquenziali. In Procura insistono nel ripetere gli atteggiamenti di mancata collaborazione esibiti dal ragazzo negli interrogatori. Lui, nella lettera inviata a pm e gip, scrive: “La musica è la mia ancora di salvezza e oggi io ho davvero paura di perdere l’unica fortuna che ho avuto nella vita”. Migranti. Piantedosi: “Le riammissioni sono da rafforzare” di Marinella Salvi Il Manifesto, 15 gennaio 2023 Rotta balcanica. Il ministro dell’Interno da Trieste guarda al confine italo-sloveno. Sulle problematiche dell’accoglienza neanche una parola. “Con sicura umanità ma con altrettanto rigore e fermezza”. Ha introdotto così il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi la conferenza stampa in Prefettura ieri mattina a Trieste. Appena due parole per dire che sì, si è parlato di migranti e rotta balcanica. In effetti era reduce dalla riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica convocato in particolare su quelle tematiche. Il ministro non ha aggiunto altro nel suo scarno intervento, limitandosi a sottolineare la piena sintonia con le istituzioni locali che “riceveranno quanto prima segnali di alleggerimento” dal Governo e l’avvenuto proficuo confronto con i rappresentanti delle forze dell’ordine “che ben conoscono le problematiche quotidiane di cui qualcuno magari ha un’immagine romantica”. È servita una domanda diretta per fargli dire qualcosa di più. La pratica delle riammissioni informali dei migranti dall’Italia alla Slovenia sarà ripristinata nonostante le accuse di illegittimità sostenute da varie associazioni e avvalorate anche in sede giudiziaria? Il sì del ministro è stato senza tentennamenti: “Non mi risulta che siano mai state dichiarate illegali; questa è una affermazione che viene fatta da qualcuno a livello giornalistico. Ci sono due ricorsi pendenti e una sentenza di primo grado che è stata completamente ribaltata. È uno strumento non solo pienamente legittimo ma che riteniamo doveroso riattivare e rafforzare”. Di più: “È uno strumento perfettamente in linea con quelle che sono le normative europee e internazionali”. Quindi riammissioni con animo leggero e convinta determinazione. E un controllo ai confini foriero, si direbbe, di qualche novità perché se “ne abbiamo parlato sapendo che vanno rafforzati i controlli e le attività di pattugliamento” ecco comparire anche un “magari con il supporto di alcune tecnologie che possano mitigare l’impegno di risorse umane”. affermazioni perentorie e di peso dunque. Non passa un’ora che già un comunicato del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) annuncia battaglia: le dichiarazioni del ministro sulla presunta legittimità delle riammissioni al confine italo-sloveno sono definite “di inaudita gravità per chi svolge una funzione istituzionale che dovrebbe essere a presidio della legalità” ricordando che “nessuna riammissione, anche di quei cittadini stranieri che non chiedono asilo, può essere informale perché in uno stato di diritto ogni decisione della pubblica amministrazione deve sempre consistere in un provvedimento scritto, motivato e notificato alla persona affinché la decisione possa eventualmente essere impugnata in giudizio”. Neanche una parola per quello che riguarda più direttamente Trieste e il suo essere porta di ingresso in Italia dalla rotta balcanica: gli obblighi posti in capo alle istituzioni locali di garantire misure di accoglienza a chi è potenzialmente in condizioni di ottenere protezione internazionale. Non se ne è parlato, evidentemente. Eppure il comunicato di Amnesty International Italia, e non è il solo, aveva già evidenziato non poche criticità legate ai tempi e ai modi con cui vengono accolti i migranti costretti a bivacchi di fortuna in attesa di poter formalizzare le richieste di protezione: “Se tale situazione interessa l’intero territorio nazionale, in Friuli-Venezia Giulia è stata finora affrontata con un grave silenzio e distacco politico. Questa situazione si è tradotta nell’abbandono delle persone, costrette a vivere per strada, in particolare intorno alla zona della stazione di Trieste, senza alcun sostegno se non quello delle associazioni. Uomini, tra cui molti minori, passano settimane, o anche mesi, all’addiaccio, senza un tetto, senza possibilità di lavarsi. Solo le associazioni forniscono coperte, indumenti, cibo e assistenza legale”. CI SI può stupire ma non tanto se si pensa che il sindaco di Trieste ha ripetuto più volte e in diverse sedi che le competenze sui migranti non sono sue e, quindi, di non sentirsi obbligato. Brambilla (Asgi): “L’accordo con la Slovenia sulle riammissioni dei migranti ha profili di illegittimità” di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 gennaio 2023 Rotta balcanica. L’avvocata ha seguito i ricorsi dei richiedenti asilo rimandati indietro dal confine orientale: “Manca la ratifica del parlamento in violazione dell’articolo 80 della Costituzione e comunque le riammissioni non possono avvenire a livello informale”. Anna Brambilla è avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e ha seguito i ricorsi di richiedenti asilo contro le riammissioni in Slovenia. Per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi le riammissioni “sono uno strumento pienamente legittimo”. In ogni caso? No, non possono essere riammessi richiedenti asilo o minori. Più in generale riteniamo che non possano essere effettuate riammissioni informali, cioè quelle che avvengono solo tramite scambio di informazioni tra le autorità di polizia di due Stati membri senza che alla persona riammessa sia notificato il provvedimento, impedendole di difendersi. Succede qualcosa di simile nei porti dell’Adriatico dove le persone sono riconsegnate senza alcuna notifica ai comandanti della nave su cui si erano nascoste per riammetterle in Grecia. Nell’accordo bilaterale italo-sloveno del 1996, però, le “riammissioni informali” sono esplicitamente previste... Sì, l’accordo permette le riammissioni informali di chi è entrato prima di 26 ore o è trovato entro 10 chilometri dalla frontiera. Ma l’accordo non può essere letto senza considerare le disposizioni di diritto interno e quelle Ue. Perciò le riammissioni informali, numericamente prevalenti, sono illegittime: violano il diritto di difesa che si concretizza attraverso i ricorsi. Quindi contestate l’accordo con la Slovenia... Ha dei profili di illegittimità perché non è stato sottoposto al controllo del parlamento, ma concluso in forma semplificata senza la ratifica ai sensi dell’articolo 80 della Costituzione. Tecnicamente cosa cambia tra riammissioni ed espulsioni... La riammissione può avvenire tra due Stati membri, in questo caso Italia e Slovenia, oppure ci possono essere accordi tra un paese membro o la Ue con uno Stato terzo. Tra due paesi membri la riammissione è da considerarsi funzionale all’espulsione. In pratica l’Italia trova un cittadino irregolarmente soggiornante e invece di adottare direttamente un provvedimento di espulsione lo riammette in Slovenia che poi dovrà espellerlo. Piantedosi si è confrontato con le riammissioni in Slovenia anche quando era capo di gabinetto di Salvini. Cosa è emerso, rispetto a quel periodo, dai procedimenti giudiziari che avete avviato? Nonostante il Viminale affermasse che le riammissioni potevano essere legittimamente effettuate anche per chi aveva manifestato intenzione di chiedere protezione internazionale il tribunale di Roma, nel caso presentato con un ricorso di urgenza, ha riconosciuto l’illegittimità della riammissione. Perché l’accordo non è stato sottoposto a legge di ratifica e, nel caso specifico, perché la persona aveva manifestato intenzione di fare domanda di asilo. A livello Ue qual è l’approccio? La Commissione ha sempre cercato di spingere gli Stati membri a rafforzare la cooperazione di polizia, necessaria per le riammissioni, invece di reintrodurre controlli ai confini interni. Come fa la Francia al confine con l’Italia o l’Austria alla frontiera con la Slovenia. Adesso nella proposta di riforma del codice frontiere Schengen si parla di trasferimento tra Stati membri, cioè una procedura simile a quella prevista dagli accordi bilaterali di riammissione. Per quanto noi siamo contrari a questa procedura, essa è comunque di tipo formale e prevede la possibilità di fare ricorso. Il problema è che se l’informativa sulla protezione internazionale non è realizzata correttamente le persone non sono in condizione di fare domanda e vengono considerate migranti irregolari. Le procedure sono formalmente corrette ma nella sostanza violano il diritto d’asilo. In Ucraina è tempo dei carri armati di Domenico Quirico La Stampa, 15 gennaio 2023 Rassegniamoci. Forse non c’è più nulla da fare. Pacifisti, uomini di buona volontà, aspiranti mediatori, nostalgici immarcescibili dei miracoli della diplomazia: la polvere della guerra vi avvolge. Ora siamo giunti al tempo dei carri armati: T55, 70, 80, 90, Leopard uno due e tre, Challenger, forse toccherà anche alla fuoriserie americana, l’Abrams... siamo solo all’inizio. Sfogliate sveltamente il catalogo dei corazzati, gli ammazzasette della comunicazione guerrafondaia, i piazzisti di cannoni non stanno più nella pelle, già pregustano scenari apocalittici e redditizi popolati di mostri di ferro. Nel frattempo in Donbass, a Soledar, a Bakhmut, si massacra con la baionetta, quasi a mani nude. Ma la guerra sta per cambiare, mette i cingoli, fa stantuffare i cilindri. Sui seni delle colline ucraine dove l’erba ora è nitida e fredda, indurita dall’inverno, scocca il tempo del cigolio delle blindature, dello stridore dei cingoli, dell’alto ronzio dei motori. Una battaglia di carri è un feroce scontro meccanico e industriale, inumato perché l’uomo, invano, si occulta nel mobile luccicare di acciaio e nel bagliore di corazze. Stanno arrivando i tank. Zelensky li vuole per completare la vittoria che crede possibile e ricacciare l’aggressore russo nelle steppe da cui è uscito un anno fa ruggendo. Kursk in fondo non è lontana, vi avvampò nella seconda guerra mondiale la più grande battaglia di carri armati della storia, ancora la studiano nelle accademie militari per decifrarne i segreti. Vinsero i russi. I Leopard allora avevano sulle fiancate le croci del Terzo Reich. L’industria della morte è inesauribile nell’inventare congegni per uccidere, sui nomi la fantasia fa difetto, come si vede. La penosa radiografia di questa catastrofe che con meticolosa premeditazione Putin ha messo in atto, il progredire della metastasi della guerra, la leggiamo nell’elenco cronologico delle armi impiegate, e in quelle fornite dall’Occidente. Dieci mesi fa qualche ingenuo si attardava a discutere se la mitragliatrice fosse un’arma difensiva e quale calibro di cannone fosse sufficiente per aiutare l’Ucraina solo a difendersi. Modeste ipocrisie, grotteschi distinguo. Quando il meccanismo si avvia non c’è più limite, si alimenta e si giustifica da solo. Munizioni, contraerea, obici campali che sparano a trecento chilometri, missili antinave e antitutto, blindati... l’utilitaria dei mezzi corazzati, la loro premessa. Intanto i furbi, i bellicisti hanno svuotato gli arsenali di tutti i rimasugli ereditati dai vecchi soci dell’Unione Sovietica arruolati nell’alleanza del Nord. Ora è venuto il momento di passare a mezzi made in Nato, le catene di montaggio belliche sono pronte a girare per produrre nuovi e più preziosi modelli. Innovazione e produzione, profitto: funziona così anche nell’industria dell’uccidere, anzi della sicurezza. Ciò che atterrisce è il prevalere ormai automatico, indiscusso del nudo cinismo della forza. Chi crede nella pace, nonostante tutto, ricorda quelle famiglie contadine che un tempo conservavano a tavola un posto di un morto. La pace è come quel defunto, fissata nella sospensione del ritorno, eterna assente, miracolo sempre in ritardo. Non si cerca più di nascondere i passaggi più brutali e pericolosi, le forniture di strumenti bellici più sofisticati e in grado di alimentare e allargare il massacro non si preparano più nelle segrete degli omissis come nei primi tempi, ma alla luce del sole. Si sbandierano come medaglie politiche, cannoni e carri armati sono eccellenze produttive. Zelensky non chiede più, esige. Come rimproverare all’aggredito di chiedere armi? Ma gli alleati? Anche questa volta inglesi e polacchi precedono tutti: gli inglesi forniranno i loro Challenge, i polacchi vogliono imbottire Zelensky dei loro Leopard, ma come al solito la Germania che deve dare la licenza alla esportazione nicchia, consente poi smentisce. Perfino i minuscoli danesi che di Leopard ne hanno un bruscolo sono disposti a restare, momentaneamente, senza corazza. E poi ci sono i finlandesi, fornitori entusiasti: non hanno perso tempo a passare dalla neutralità alla prima linea dei guerrafondai. Alle forniture ormai mancano solo i cacciabombardieri. Estremo perizoma del pudore bellicista. Pazienza. Sta per venire il loro turno. Tunisia, il grande ricatto di Francesca Mannocchi La Stampa, 15 gennaio 2023 I Paesi del Nordafrica giocano con l’apertura e la chiusura delle frontiere per far pressione sull’Europa. Vincolare gli aiuti ai rimpatri ha solo reso la rotta del Mediterraneo la più pericolosa al mondo. Il 6 gennaio una barca partita dalla costa di Sfax trasportando circa quaranta persone è naufragata all’altezza di Louata, a Nord della Tunisia. Cinque persone sono morte, venti sono state riportate a terra dalla guardia costiera e sono almeno dieci quelle ancora disperse. È l’ennesimo naufragio di un barchino sovraffollato partito dalle coste nordafricane e diretto verso le coste italiane, l’ennesima lista di nomi che va ad aggiungersi ai 25 mila morti e dispersi dal 2014. Numeri raccolti dal Missing Migrants Project dell’Oim, Organizzazione Internazionale per le migrazioni, dati solo parziali che hanno reso il Mediterraneo Centrale la rotta migratoria più pericolosa al mondo. I dati sull’incremento costante degli arrivi dalle coste tunisine si uniscono al bilancio 2022 sui morti proprio alla vigilia dell’annunciato tour del Ministro degli Esteri Tajani in Turchia, Tunisia e Libia. Sui tavoli il dossier che da anni definisce i rapporti tra Europa, coste sud e Nordafrica, il controllo delle frontiere. La politica estera italiana ha fatto della militarizzazione dei confini e dei processi di rimpatrio i cardini su cui si reggono le relazioni diplomatiche, è stato così con Minniti, con Di Maio, con Lamorgese e oggi con Tajani e Piantedosi, ma se a fronte di politiche sempre più restrittive i numeri delle partenze, degli sbarchi e soprattutto il numero dei morti hanno continuato ad aumentare, vuol dire che l’ossessione dell’esternalizzazione dei confini ha mostrato la sua inefficacia e l’incapacità della politica di leggere un fenomeno in costante mutamento e adattamento. Il caso tunisino fa scuola: se fino a pochi anni fa, secondo i dati di State Watch Eu, un ente di ricerca di base a Londra che analizza gli standard democratici e i movimenti civili nel mondo, il 75% dei migranti che lasciano la Tunisia aveva tra i 20 e i 30 anni, da tempo il fenomeno si sta trasformando, non sono solo uomini adulti a partire, ma moltissimi minori e intere famiglie pessimiste sul futuro del Paese e rassegnate all’impossibilità di cambiare la condizione politica, una presidenza - quella di Kais Saied, eletto a furor di popolo nel 2019 - che si è trasformata in tre anni in un regime di fatto riportando l’orologio del Paese indietro di dieci anni. E qui c’è il nodo della questione, cioè quanto le politiche securitarie dell’Europa abbiano peggiorato le condizioni sociali dei Paesi che avrebbero invece dovuto contribuire a stabilizzare. Il fallimento del caso libico avrebbe già dovuto fare scuola: dal 2017, Minniti ministro dell’Interno del governo Gentiloni, l’Italia supportata dall’Ue ha cercato di rendere la Libia l’argine delle partenze, sostenendo la Guardia Costiera, supportando il Paese nell’istituzione di una zona SAR e tentando di stabilire i perimetri di un accordo tra le tribù in conflitto. Il Memorandum d’Intesa, tuttavia, ha dimostrato la sua incapacità di rispondere al problema, le partenze dalla Libia sono aumentate, l’utilizzo dei soldi nel Paese non riesce a essere monitorato e parte del traffico anziché interrompersi si è spostato a ovest, in Tunisia e i trafficanti hanno aumentato i movimenti da Sfax, Zarzis e Mahdia. Questo perché le strategie europee si basavano su un principio che ha dimostrato la sua fallacia, cioè che le partenze potessero essere interrotte, invece le reti del traffico da anni hanno mostrato che quando una rotta si chiude, se ne apre un’altra. Tendenzialmente più pericolosa. Un fenomeno in continuo adattamento - “Di fronte ai cambiamenti del fenomeno migratorio e all’inefficacia delle politiche messe in atto finora, l’Europa, invece di mettere in piedi una reale politica di supporto alla democrazia tunisina, è rimasta autocentrata e ha continuato a rafforzare la gestione delle frontiere con militarizzazione e rimpatri”, dice Sara Prestianni, esperta di migrazione che studia i processi di esternalizzazione dei confini nel Mediterraneo da vent’anni, e oggi è responsabile migrazione e asilo di EuroMedRights. Prestianni ha analizzato gli strumenti che hanno definito le strategie europee negli ultimi anni ed è nettissima nel giudizio: le politiche italiane ed europee non solo non hanno funzionato, ma hanno reso la rotta del Mediterraneo centrale più pericolosa di prima. “La politica italiana ha considerato l’aumento dei rimpatri un successo al punto da aver istituito un fondo di premialità di cui la Tunisia resta primo beneficiario - spiega Prestianni -. Significa dire a uno Stato: più persone riporti indietro coi rimpatri, più otterrai denaro, senza valutare gli effetti sociali dei rimpatri. Non ci si chiede mai quale sia il costo di queste politiche, che fine facciano le centinaia di tunisini che partono dall’Italia dopo essere stati arrestati nei Cpr, spesso ostacolati nei processi delle domande d’asilo, e destinati ai voli che li riportano in Tunisia: si ritrovano ancora più poveri nelle già depresse regioni di origine, spesso nel Sud del Paese”. Per ridurre il numero degli sbarchi l’Italia e l’Europa hanno stanziato milioni di euro, nel recente piano d’azione per il Mediterraneo Centrale annunciato nel novembre del 2022 dalla Commissione Europea, il primo punto è il rafforzamento della cooperazione con i Paesi della sponda Sud, vengono chiaramente citati Tunisia, Egitto e Libia, e si parla di una somma pari a 580 milioni di euro del fondo Ndici per il Nordafrica tra il 2021 e il 2023, ma “vale la pena ricordare che questo fondo nasce come appoggio alla cooperazione internazionale alle politiche di sviluppo ma poi, tra i fondi cuscinetto e lo spostamento del 10% del fondo al piano migrazione, si è tradotto nell’applicazione di una visione securitaria di gestione delle frontiere”, continua Prestianni. Significa che anche parte dei fondi di sviluppo sono stati drenati alle strategie securitarie e che anche quando si parla di politiche del lavoro e piani di investimento, i fondi vengono stanziati solo ed esclusivamente in funzione della diminuzione delle partenze e dell’aumento dei rimpatri, una logica che risponde cioè agli interessi dell’Europa e non della Tunisia o degli altri Paesi del Nordafrica. È per questo che centinaia di persone anche dopo uno, due rimpatri provano di nuovo a partire, e questo fa della Tunisia lo specchio del fallimento di politiche che non hanno interessa a migliorare il contesto politico ed economico del Nordafrica, ma solo a rimandare indietro le persone senza curarsi degli effetti di medio e lungo termine della politica dei rimpatri. A marzo 2022 è stata rinnovata la lista dei paesi sicuri prevista nel decreto Migrazione e Sicurezza nel 2019 e la lista comprende oltre a Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, anche la Tunisia. Numeri alla mano, con almeno 1.922 tunisini rimpatriati nel 2020 e 1.872 nel 2021, la Tunisia rimane la principale destinazione dei rimpatri dall’Italia (73,5%), ma la domanda è: che Paese è la Tunisia in cui vengono rimandati i migranti, è davvero un porto sicuro? Un Paese sicuro? Nel 2022 tre associazioni - Avvocati Senza Frontiere, il Forum Tunisino dei diritti economici e sociali e l’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione (Asgi) - hanno pubblicato un’indagine per denunciare le condizioni di detenzione e il trattamento discriminatorio subito dalle persone tunisine, dall’intercettazione in mare, alla detenzione fino al rimpatrio in Tunisia. Secondo l’Asgi la Tunisia è indicata come Paese sicuro solo da quattro Stati membri dell’Ue nonostante negli ultimi anni le organizzazioni per i diritti umani di entrambe le sponde del Mediterraneo denuncino il deterioramento delle condizioni economiche e sociali nel Paese. Nei supermercati tunisini da qualche giorno sono apparsi cartelli con le condizioni di razionamento dei beni di prima necessità. Mancano pasta e riso, manca il semolino, comincia a mancare il couscous. C’è poco latte, poco zucchero, la gente teme che comincerà presto a mancare anche il pane. In alcune aree del Paese gli scaffali dei supermercati sono vuoti, i cittadini si precipitano nei negozi di alimentari per dividersi le bustine di zucchero, e un cartone di latte, con l’inflazione che ha raggiunto il record del 9,8%. La crisi economica procede a un passo molto più veloce delle manovre di Saied che non stanno funzionando, aumenta il debito pubblico, le catene di approvvigionamento non riescono a rispondere alle necessità della gente e Saied, dopo mesi di negoziato, non è ancora riuscito a ottenere il prestito di quasi 2 miliardi del Fondo Monetario Internazionale. Il segretario generale del potente sindacato generale del lavoro tunisino (Ugtt), che già in passato ha fatto muro contro le condizioni poste del Fondo monetario internazionale, di fronte alla richiesta di tagliare i salari pubblici, ha annunciato un’ondata di scioperi che rischiano di paralizzare ancora di più l’economia. In piena crisi economica, il presidente Saied ha tenuto un referendum costituzionale e elezioni legislative. La nuova Costituzione, approvata il 26 luglio, concede poteri quasi illimitati al presidente senza forti tutele per i diritti umani. Un mese fa, il Paese è stato chiamato alle urne e ha disertato il voto. Sfiduciati dall’implosione della democrazia, i tunisini hanno boicottato le elezioni, ha votato solo un tunisino su dieci, ultimo passo del percorso restrittivo di un presidente che ha in un parlamento multipartitico un mero orpello cerimoniale sottomesso ai voleri, agli umori e agli uomini di un uomo solo al comando. Diritti civili sempre più a rischio - A rischio non è solo l’economia, ma anche la libertà d’espressione e i diritti civili: una settimana fa Ayachi Hammami, avvocato, difensore dei diritti umani, noto per l’attivismo contro il regime di Ben Ali e già ministro del primo governo del presidente Kais Siaed, è finito sotto processo per aver criticato il sistema giudiziario. L’avvocato Hammami, che è stato al vertice del Ministero dei diritti Umani e dei Rapporti con gli Organi Costituzionali e la Società Civile, è stato citato in giudizio ai sensi della legge 54 emanata pochi mesi fa che sanziona l’uso dei social network e di altri mezzi di comunicazione che diffondano false informazioni, uno strumento teso cioè a dissuadere i dissidenti dal denunciare la condizione dell’economia e del mancato rispetto dei diritti nel Paese. Non sorprende, alla luce del caso Hammami, il rapporto pubblicato il 12 gennaio da Human Rights Watch (Hrw). Nel 2022, scrive l’organizzazione nell’annuale rapporto: “sono continuate le gravi violazioni dei diritti umani, comprese le restrizioni alla libertà di parola, la violenza contro le donne e le restrizioni arbitrarie dovute allo stato di emergenza del Paese”. Il quadro disegnato da Human Rights Watch è quello di un Paese in cui le autorità adottano misure sempre più restrittive contro oppositori critici, personalità politiche, imponendo loro divieti di viaggio e obbligo di residenza con vincoli agli spostamenti. “La presa di potere del presidente Kais Saied nel luglio 2021 - sostiene ancora l’organizzazione per i diritti umani - ha indebolito le istituzioni governative progettate per controllare i poteri presidenziali e ha bloccato la transizione democratica del Paese”. C’è da chiedersi allora cosa significhi, davvero, la parola “porto sicuro” per le famiglie che lasciano la Tunisia. Sicurezza non è, infatti, solo non vivere in una zona attraversata da un conflitto armato, o dal rischio di essere torturati e rapiti. Sicurezza per una famiglia che decide dove vuole veder crescere i propri figli, significa anche aspirare a un luogo dove ci sia libertà d’espressione, lo sviluppo di una vita democratica e un’economia non vincolata dagli interessi securitari dell’Europa. La logica del doppio ricatto - La strumentalizzazione politica europea del tema migratorio ha portato di fatto i Paesi della sponda Sud a usare la stessa logica ricattatoria dei Paesi di arrivo. “Negli ultimi anni, dal 2014 in poi - spiega Sara Prestianni - in funzione delle trattative con il governo italiano e con l’Europa, molti Paesi del Nordafrica, tra cui la Tunisia ma anche il Marocco, hanno giocato con l’apertura e la chiusura delle frontiere, rafforzando il controllo per aver soldi e aprendo le frontiere per fare pressione con i Paesi partner. L’esempio più evidente è il Marocco che negli ultimi tre anni ha fatto pressione sulla Spagna prima riaprendo la rotta delle Canarie e poi al passaggio di 20 mila persone dalla frontiera di Ceuta in pochi giorni”. Esempi che delineano quanto vincolare le scelte securitarie a flussi di denaro in Paesi instabili finisca con il condannare le politiche migratorie a essere gestite dalla logica del ricatto, pericolosa perché a esserne pedine sono migranti e rifugiati che continuano a morire e perché, insegnano Tunisia, Marocco, Libia e Egitto, finiscono per rafforzare come interlocutori dei regimi autoritari considerati comunque più stabili. Secondo un recente report dell’Ispi la direzione che prenderà l’Europa sarà: dazi più alti per chi non accetta rimpatri, e trattamenti di favore ai Paesi che favoriranno il rientro dei loro cittadini. Nel suo prossimo tour nordafricano Tajani stringerà mani per aumentare i rimpatri, probabilmente promettendo altri soldi affinché questo si verifichi. Eppure, da anni, è evidente che prima di stringere mani bisogna porre delle condizioni ma invertite, non più: vi diamo soldi se evitate le partenze, ma vi diamo soldi se dimostrerete di saper rispettare i diritti, sviluppare la vostra economia, rendere il vostro Paese un luogo vivibile, davvero sicuro, desiderabile per i cittadini che ora, invece, fuggono. Turchia. La dottoressa che denuncia i crimini turchi in Kurdistan di Murat Cinar Il Domani, 15 gennaio 2023 Sebnem Korur Fincanci è stata scarcerata dopo 76 giorni (e subito condannata a due anni) con l’accusa di “propaganda terroristica”. Ha mostrato prove di attacchi chimici ad ottobre. Fincanci, nel suo intervento, da medico legale, utilizzò queste parole: “Per giungere alla diagnosi sono necessarie un’indagine e una documentazione efficaci e indipendenti. Tuttavia, a oggi, sembra che non sia possibile”. La sua organizzazione, Ttb, è conosciuta con le sue sistematiche denunce fatte per difendere i diritti dei lavoratori del campo della sanità e per difendere la salute della società. Sebnem Korur Fincanci, la presidente del Consiglio centrale dell’unione dei medici di Turchia (Ttb), è stata scarcerata 76 giorni dopo la detenzione e contemporaneamente è stata condannata a 2 anni, 8 mesi e 15 giorni di carcere. Fincanci è accusata di fare “propaganda terroristica” e “umiliare e offendere il popolo turco, lo stato della repubblica di Turchia e le istituzioni e gli organi dello stato” a causa di un suo intervento televisivo rilasciato al canale Medya Tv, nel mese di ottobre, che trasmette dall’estero e anche questo accusato di propaganda terroristica. Le dichiarazioni di Fincanci riguardano il presunto utilizzo delle armi chimiche da parte delle Forze armate turche (Tsk) sul territorio del Kurdistan iracheno, nel mese di ottobre, durante un intervento militare condotto contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Questa formazione armata, in conflitto con lo stato turco da quarant’anni, viene definita dallo stesso come un “organizzazione terroristica”. Fincanci, nel suo intervento, da medico legale, utilizzò queste parole: “Per giungere alla diagnosi sono necessarie un’indagine e una documentazione efficaci e indipendenti. Tuttavia, a oggi, sembra che non sia possibile e questo fatto non è accettabile tenendo in considerazione che numerose convenzioni internazionali lo prevedono. Come diagnosi provvisoria posso dire che le persone riprese in questi materiali audiovisivi sembra che abbiano subito l’uso delle armi che hanno degli effetti tossici”. La dottoressa si riferiva a una serie di video diffusi precedentemente da alcuni organi di stampa vicini al Pkk. Gli altri rischi - Ovviamente l’accusa è stata immediatamente rifiutata dal ministero della Difesa e poi da tutti i vertici del governo. Infine il presidente della Repubblica di Turchia in un suo intervento pubblico aveva anche promesso che avrebbe portato avanti una battaglia legale contro coloro che avanzavano quest’accusa. Pochi giorni dopo, il 26 di ottobre, Fincanci è stata arrestata. In un processo avviato immediatamente la dottoressa è stata condannata a 2 anni, 8 mesi e 15 giorni di reclusione ed è stata scarcerata, visti i giorni trascorsi in carcere. Ovviamente la strada dei ricorsi è ancora aperta ma nel mentre sono stati aperti altri processi che potrebbero togliere a Fincanci i suoi incarichi. Fincanci, ha una lunga carriera di ricerche e denunce sui casi di tortura registrati in Turchia. Ha avuto vari incarichi in numerosi progetti delle Nazioni unite e dell’Organizzazione mondiale della sanità. È stata anche una dei firmatari dell’Appello per la pace del 2016, è stata processata e condannata a 2 anni e 6 mesi di reclusione, ma nel 2020 è stata assolta. La sua organizzazione, Ttb, è conosciuta con le sue sistematiche denunce fatte per difendere i diritti dei lavoratori del campo della sanità e per difendere la salute della società. Infatti nel 2018 la Ttb rilasciò un breve comunicato definendo la guerra come una “minaccia contro la salute delle persone”. Ttb è stata denunciata con l’accusa di propaganda terroristica e il mondo politico non ha esitato a definire i suoi membri come dei “traditori della patria”. Gli attacchi e la solidarietà - “L’unione dei medici di Turchia esiste da quasi cento anni e ha il dovere di difendere la salute della società, non solo i diritti delle persone impiegate nel campo della sanità. Nel fare questo ovviamente analizziamo e a volte mettiamo in discussione l’operato dei governi. Le critiche che avanziamo non piacciono a chi governa questo paese. Per esempio, durante la pandemia c’è stata una cattiva gestione da parte del governo e una parziale trasparenza nella comunicazione dei numeri. Abbiamo lavorato per denunciare tutto. Questo ha dato fastidio al ministro della Sanità ma anche al presidente della Repubblica”, spiega Fincanci. Il regime al potere in Turchia rappresenta una cultura decisamente maschilista e arrogante per cui le persone che “mettono i bastoni tra le ruote” subiscono forti campagne di calunnie e criminalizzazione da parte dei rappresentanti del governo e dai media che lavorano come i mezzi di propaganda del regime. “In Turchia spesso si utilizza l’accusa di “terrorismo” nei nostri confronti nel momento in cui il governo vuole criminalizzarci. I media e i politici vogliono manipolare la società con l’obiettivo di creare un’opinione pubblica negativa nei nostri confronti”. “Ma tutto questo è un’operazione senza successo. La mia scarcerazione è il frutto della solidarietà e ciò dimostra che a livello locale e internazionale la Ttb riceve riconoscimento e rispetto. Oggi le persone che non conoscono mi fermano per strada e si congratulano con me. Sanno che abbiamo sempre difeso i diritti di tutte le persone, anche quelle che potrebbero odiarci. Abbiamo difeso il loro diritto alla salute”. Infatti, oltre agli attacchi del governo e sui giornali, c’è stata anche una reazione di solidarietà in Turchia e all’estero. “In qualità d’intellettuale, la mia richiesta di porre domande e riferire la verità al pubblico non è solo mia responsabilità da scienziata, ma anche responsabilità da cittadina. La medicina riguarda gli esseri umani. Essere medico vuol dire opporsi a tutti i tipi di fattori che danneggiano la salute pubblica, dalla resistenza contro i crimini contro l’umanità alla protezione delle nostre olive e api, dalle guerre al cambiamento climatico”, sono le parole di Fincanci pronunciate in una delle udienze del suo processo qualche settimana fa. Questo sentimento di responsabilità si conclude con un augurio: “In Turchia regnerà di nuovo la democrazia, la giustizia, la libertà e la pace. Altrimenti, senza questi elementi, vivere in questo Paese non sarebbe possibile. So di certo che vivremo tutti insieme e in pace”.