Chiesta a Nordio la revoca del 41 bis a Cospito: elementi nuovi ne sconfessano l’utilizzo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 gennaio 2023 Sul tavolo del ministro della Giustizia Carlo Nordio è arrivata l’istanza dell’avvocato Flavio Rossi Albertini per chiedere la revoca del 41 bis all’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da quasi tre mesi. Una istanza dovuta dal fatto che sono sopraggiunti elementi di novità che rendono, di fatto, nullo il presupposto normativo che giustificano il carcere duro. Ricordiamo che il ministro stesso, tramite un comunicato ha ricordato che il tribunale di Sorveglianza di Roma ha respinto, lo scorso 19 dicembre, il ricorso del detenuto contro il decreto di applicazione del regime speciale. Non solo. Ha aggiunto che, al momento al ministero della Giustizia non è arrivata alcuna richiesta di revoca del regime speciale 41 bis né da parte del detenuto, né da parte dell’autorità giudiziaria, che a fronte dell’aggravamento delle condizioni di salute può disporre una sospensione della pena o chiedere al ministro una revoca del regime speciale. Ma ora, come ha spiegato a Il Dubbio l’avvocato Albertini, la nuova istanza presentata al ministro si basa su elementi nuovi che ovviamente non potevano essere sottoposti alla cognizione del tribunale di Sorveglianza. Quali? Sono uscite le motivazioni della sentenza di assoluzione del processo Bialystok che ha visto 6 anarchici sotto accusa per diverse tipologie di reati, dall’associazione con finalità di terrorismo (art. 270bis cp) all’attentato terroristico (art. 280 cp), dal danneggiamento all’incendio, passando per l’istigazione a delinquere fino a reati di più lieve entità, come presidi non autorizzati e imbrattamenti, il tutto aggravato dalla finalità di terrorismo. Ebbene, le motivazioni di tale sentenza, sconfessano l’argomento principale del decreto applicativo del 41 bis per Cospito emesso il 4 maggio 2022 dall’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, su richiesta concorde della Direzione distrettuale antimafia di Torino e della Direzione nazionale antimafia. “La lettura che avevamo sempre proposto per la revoca - spiega l’avvocato Albertini -, con questo nuovo elemento sopraggiunto, assume ancora maggiore forza e significatività”. Ricordiamo che l’ipotesi investigativa che dette il via all’operazione Byalistock, poi scaturito in un processo con tanto di assoluzione, parte dal presupposto dell’esistenza di gruppo criminale della federazione anarchica informale (Fai) avente come base a Roma presso il Bencivenga occupato, compagine che si muoverebbe nell’alveo delle indicazioni di Cospito. La sentenza in esame ha escluso la presunta esistenza di questa cellula ritenuta affiliata alla Fai. Ogni azione non è riconducibile alla Fai come associazione e organizzazione, ma alla Fai come metodo. In sostanza, emerge chiaramente una differenza tra Fai metodo e Fai associazione. Ogni singola azione è riferita alla “Fai metodo”, ossia a quel fenomeno di concorso di persone nel reato nelle singole vicende, ma rispetto al quale resterebbe esclusa la possibilità di ricondurlo a un’ipotesi associativa. E ora che sono state depositate le motivazioni della sentenza Byalistock, sono sopraggiunti nuovi elementi che rafforzano tale assunto. Il 41 bis ha una ratio ben precisa, “dilatare” il suo uso è ingiustificato. Ricordiamo che Alfredo Cospito - assieme ad Anna Beniamino - è stato condannato per strage contro la pubblica incolumità per due ordigni a basso potenziale esplosi di notte presso la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano senza causare né morti né feriti. Un reato che prevede la pena non inferiore ai 15 anni. Poi il colpo di scena. La Cassazione ha riqualificato il reato a strage contro la sicurezza dello Stato. Parliamo dell’articolo 285 che prevede l’ergastolo. Si tratta del reato più grave del nostro ordinamento che non è stato nemmeno applicato per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Reato introdotto dal Codice Rocco che prevedeva la pena di morte (ora l’ergastolo, nel caso dell’anarchico è ostativo). In sostanza, parliamo di un reato introdotto per evitare la guerra civile. Ergo, con quelle azioni dimostrative, Cospito avrebbe messo in pericolo l’esistenza dello Stato. Chiaro che tutto ciò appare spropositato. D’altronde lo stesso guardasigilli Carlo Nordio ha ricordato che il nostro codice penale ancora porta la firma di Mussolini e che andrebbe, in prospettiva, modificato. La corte d’Appello che avrebbe dovuto rivalutare la pena, ha accolto le questioni sollevate dalla difesa e con l’ordinanza di nove pagine, di recente depositate, la Consulta dovrà valutare se è incostituzionale l’articolo 69 comma 4 del codice penale. Nello specifico la parte che prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante. Se verrà accolta la questione, i due anarchici non rischiano più l’ergastolo, ma la pena sarà tra i venti e i ventiquattro anni. Però rimane ancora in piedi il 41 bis. Due sono i canali aperti per la revoca: quello del ministero della Giustizia e l’attesa della decisione della Cassazione. Caso Cospito: “Nuovi fatti lo scagionano”, presentata istanza a Nordio di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 gennaio 2023 Nella politica si riaccende il dibattito sul 41bis dopo la posizione presa da Orlando. I legali dell’anarchico Alfredo Cospito, rinchiuso nel carcere di Sassari in regime di 41 bis e in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso, hanno presentato ieri anche un’istanza direttamente al Guardasigilli Carlo Nordio. “Ci sono fatti nuovi - ha spiegato al manifesto l’avvocato Flavio Rossi Albertini - che non sono stati visionati né dal Tribunale di Sorveglianza né dalla Cassazione (dove i legali hanno presentato istanza contro il regime del 41bis a cui Cospito è sottoposto dal 4 maggio 2022, ndr) perché sono emersi soltanto recentemente, dalla sentenza della Corte d’Assise di Roma sulla cosiddetta operazione Bialystok emessa il 28 settembre scorso e, soprattutto, motivata il 28 dicembre”. È infatti solo il Guardasigilli ad avere il potere di revoca sulla misura di sicurezza - il carcere duro considerato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo una forma di tortura (con le sentenze Viola e Provenzano) - comminata a Cospito dall’allora ministra di Giustizia Marta Cartabia. Ma sul 41 bis, dopo l’intervista di ieri su queste colonne all’ex Guardasigilli Andrea Orlando che chiede di attenuare il regime di detenzione a cui è sottoposto Cospito ma senza eliminare il carcere duro per i mafiosi, anche altri esponenti dem hanno espresso la stessa posizione. È il caso, ad esempio, del senatore Walter Verini che giovedì si è recato insieme ad Orlando nel carcere di Sassari: “Dalla visita - ha detto - abbiamo ricavato innanzitutto la convinzione che lo strumento del 41bis, insieme ad altre leggi fondamentali, è importantissimo per le finalità per le quali nacque: impedire contatti, relazioni, possibilità di dare e ricevere ordini e indicazioni tra mafiosi - e terroristi - in carcere e l’esterno. Questo deve essere difeso e rafforzato, in un momento in cui il peso e la presenza delle mafie sono un grave e reale pericolo”. E però, malgrado questo, il Pd si è schierato per una soluzione umanitaria del caso Cospito, insieme a molte altre forze politiche - da Alleanza Verdi e Sinistra a Rifondazione comunista fino ai Radicali - e ad altre 4 mila persone, tra i quali giuristi e avvocati (ieri anche la Camera penale di Milano), che hanno sottoscritto l’appello per salvare la vita al detenuto anarchico. Nel processo relativo all’operazione Bialystok, che riguardava cinque persone accusate di aver fatto parte di una cellula eversiva anarco-insurrezionalista a Roma, con base il centro sociale Bencivenga Occupato, a Batteria Nomentana, “l’imputazione era costruita come se l’associazione anarchica avesse come ispiratore lo stesso Cospito - riferisce ancora l’avvocato Rossi Albertini - Ma la sentenza ha fatto chiarezza su questo assolvendo gli imputati e accertando che non vi è alcuna associazione anarchica di cui Cospito sarebbe l’ispiratore”. “Cosa aspetta Nordio a intervenire? - chiede il Prc - Da anni critichiamo il perdurare dell’ergastolo ostativo e del 41bis. Ma una cosa dovrebbe essere evidente anche a chi ne invoca la necessità per la lotta alla mafia. Nel caso di Cospito non vi è davvero alcuna giustificazione. A prescindere dal giudizio sulle sue opinioni o le sue azioni, non si può non riconoscere che sta conducendo col suo sciopero della fame una lotta che chi si riconosce nell’articolo 27 della Costituzione non può che condividere”. Il Fatto non nomina Cospito, il fastidio del giornale di Travaglio per l’anarchico di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 gennaio 2023 Non c’è bisogno di evocarlo esplicitamente, il nome di Alfredo Cospito aleggia ovunque si parli di carcere e in particolare di quello impermeabile previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Così l’operazione furbetta del Fatto quotidiano è facilmente smascherabile, mentre presenta tre casi di condannati per mafia che “nei mesi scorsi” si sono visti respingere la richiesta di revoca del regime del carcere più duro e più “asociale”. Che senso ha raccontare oggi qualcosa che è successo tempo fa, se non per sollecitare chi di dovere al massimo dell’intransigenza nell’applicazione di una norma che avrebbe dovuto essere provvisoria già dal 1992 e che si concretizza come vera tortura? Se l’argomento è oggi d’attualità è perché c’è un cittadino rinchiuso in una prigione di Sassari dove si sta lasciando morire di inedia, mentre non pare esserci cuore di giudice o di ministro pronto ad aprirsi al coraggio di una decisione che abbia almeno il sapore di umanità. E non importa se l’anarchico Alfredo Cospito sia un buono e pacifico cittadino o un Caino pronto a suggerire anche dal carcere ai suoi amici che “la lotta continua” contro lo Stato borghese, e deve anche continuare. È vero che l’articolo 41-bis costruisce intorno al detenuto cui è applicata una bolla di impermeabilità proprio per impedirgli di comunicare con l’esterno. Ma quando una persona arriva a mettere in gioco il proprio corpo e la propria vita, la scelta è solo tra due ipotesi, o il cinismo con cui furono lasciati morire Bobby Sands e i suoi compagni irlandesi, o la salvezza di quel corpo e di quella vita. Non ci sono passeggiate di politici al carcere, per quanto volenterose, che possano trovare una via d’uscita per Alfredo Cospito. Né è sufficiente il dolore sincero del ministro Nordio, perché è vero che l’istruttoria, voluta appositamente come lunga e delegata a diversi soggetti, appartiene per competenza alla magistratura, ma in questi casi nessuna toga strillerebbe per l’invasione di campo se fosse il governo ad assumere una decisione politica. Che non verrà presa, temiamo, se non all’ultimo, magari con una frettolosa corsa in ospedale e il trattamento sanitario obbligatorio. Ma si potrebbe fare altrimenti, come è già capitato in altri casi. C’è la possibilità di una sospensione nell’applicazione della pena per motivi di salute, per esempio, proprio come è stato fatto dal governo Conte quando c’era l’epidemia di Covid in corso. E non si guardò in faccia nessuno, in quei momenti, per vedere se a rischiare il contagio e la morte fossero gli Abele o i Caino. E quando, dopo il siluramento del capo del Dap Basentini, colui che aveva mostrato lungimiranza e senso di umanità, un secondo decreto mise fine a quel barlume di libertà, nessuno si sottrasse al rientro tra le mura del carcere. Certo, quel decreto non piaceva alla subcultura travagliesca. Come non piace oggi il fatto che un detenuto anarchico protesti con la forma più estrema di manifestazione contro un regime da lager stile Guantánamo. E allora, oplà, ecco pronti i casi di tre condannati per le stragi mafiose, quasi a dire: visto? Neppure nei loro confronti, per quanto dissociati e forse ormai lontani dal proprio passato, si deve avere pietà. In effetti fa impressione leggere dall’articolo del Fatto le parole dei giudici di sorveglianza del tribunale di Roma. Prendiamo Filippo Graviano, che, scrivono i magistrati, “ha riferito di essersi più volte dissociato da cosa nostra, ha detto di sentirsi ‘rieducato’, di essersi laureato con lode e ha sottolineato dei recenti processi che hanno coinvolto la sua famiglia e che si sono conclusi con sentenze di assoluzione”. Ma il “ma” pesa come un’intera montagna. Non c’è storia, nella mente di certi magistrati c’è una sola via d’uscita dal regime speciale, e si chiama collaborazione, “pentitismo”, con ammissione dei propri reati e delazione su quelli altrui, veri o inventati. E si infischiano perfino dei provvedimenti della Corte Costituzionale, certe toghe, quelle che piacciono all’Anm e a Marco Travaglio. Come si fa, infatti, a scrivere che il detenuto “non ha mai fornito un apporto di elementi conoscitivi riguardo la propria posizione specifica all’interno del sodalizio ovvero che potessero disvelare o aggravare la posizione degli altri sodali”? Se è qualcosa di simile che ci si aspetta anche da Alfredo Cospito per restituirgli almeno una forma di detenzione che abbia parvenza di normalità, questo vuol dire non sapere nulla e nulla aver capito della storia dell’anarchia, anche nelle sue forme più recenti e meno pacifiche. E vuol dire anche non capire nulla dell’orgoglio di una persona che sta sacrificando se stessa e anche dando una lezione a un mondo di carcerieri senz’anima e senza dignità. Il tabù del sesso in carcere: il ricorso di un detenuto di Spoleto finirà davanti alla Corte Costituzionale di Francesco Grignetti La Stampa, 14 gennaio 2023 “Quel divieto è contrario al principio della rieducazione e a quello della famiglia”. Vietare ai detenuti di fare sesso con i loro partner potrebbe colpire i diritti costituzionali. E siamo sicuri che costringerli a una vita asessuata favorisca la loro crescita personale, la maturità della persona, la rete di relazioni familiari che dovrebbe accoglierli all’uscita dal carcere? Il giudice di sorveglianza di Spoleto si è posto alcuni problemi non banali, che dovrebbero interrogare l’intera società, e intanto ha posto il quesito alla Corte costituzionale. Un passo indietro. Sono anni che si parla di concedere pause di intimità ai detenuti italiani. Qualche sperimentazione c’è stata, aggirando i regolamenti. Ma il problema è che la legge non lo consente. Anzi lo vieta, perché il regolamento carcerario impone che i colloqui del detenuto con il o la partner, anche se concesso in sale separate dalla grande sala dei parlatori, dev’essere sempre sottoposto alla vigilanza degli agenti. Il carcere non è mai considerato un luogo privato, ma pubblico per definizione. E va da sé che il sesso in un luogo pubblico non si può fare perché, a rigore, è un reato in sé. Sullo scoglio della legge si è bloccata ogni fuga in avanti. E sono finite nel nulla anche due proposte di legge, avanzate dai Consigli regionali di Toscana e Lazio. Sono ormai materiale per gli archivi. Ci riprova adesso il giudice Fabio Gianfilippi, chiamato in causa da un reclamo di un detenuto. “L’interessato - è la premessa - si duole del divieto impostogli dall’amministrazione di svolgere colloqui intimi con i propri familiari e in particolare con la compagna”. Quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, infatti, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato. E ci sarebbero pure in questo senso le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa o del Parlamento europeo che auspicano le “visite coniugali” ai detenuti. E c’è anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo, il tribunale internazionale di Strasburgo, a manifestare apprezzamento per gli Stati che prevedono i colloqui intimi e l’esercizio dell’affettività anche di tipo sessuale. C’è una recente sentenza del 2021 che ribadisce questo orientamento. In Italia, non si può. “Una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività - scrive allora il giudice Gianfilippi - finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta”. Siccome non ci sarebbero motivi di sicurezza ad impedirlo (il giudice stesso avverte che ovviamente non se ne può parlare per i detenuti sottoposti al 41 bis, il carcere duro che deve troncare i rapporti con l’esterno), la negazione della sessualità a chi sta dietro le sbarre “si volge in mera vessazione, umiliante e degradante, peraltro non soltanto per il condannato, ma per la persona con lui convivente, cui pure viene interdetto l’accesso a quella sessualità e genitorialità che potrebbe, ove lo si volesse, derivarne”. Alla suprema corte, il giudice di Spoleto rivolge un quesito che è insieme giuridico e morale: a vietare i rapporti sessuali, poi, non si contravviene allo spirito della Costituzione sulla protezione della famiglia, anche quella di un condannato? Molti alzeranno il sopracciglio, su questa apertura ai diritti, anche sessuali, del detenuto. C’è però un ragionamento del magistrato che dovrebbe interessare tutti perché ne va dell’efficacia rieducativa delle pene. Dal divieto di sesso - scrive - “ne derivano conseguenze desocializzanti” e non fanno del tempo vissuto in carcere “una occasione per costruire e irrobustire relazioni socio-familiari esterne in grado di far da rete efficace alle fragilità personali”. Nel 2012 un caso analogo finì davanti alla Corte costituzionale. Quella volta il ricorso di un magistrato di Firenze fu dichiarato “inammissibile” perché la cancellazione della norma impugnata avrebbe ecceduto lo scopo perseguito. Il magistrato aveva concentrato infatti la sua ordinanza sul controllo a vista dei colloqui, ritenendolo incostituzionale, però ciò “non mira - scrisse la Consulta - ad impedire in modo specifico ed esclusivo i rapporti affettivi intimi tra il recluso e il suo partner, ma persegue finalità generali di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti”. Nell’occasione, i supremi giudici lanciarono uno dei loro moniti al Parlamento: “Si tratta di un problema - scrivevano - che merita ogni attenzione al legislatore anche alla luce degli atti sovranazionali, peraltro non immediatamente vincolanti, e dall’esperienza comparatistica, che vede un numero sempre crescente di Stati riconoscere, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti a una vita affettiva e sessuale intramuraria”. Da allora sono passati dieci anni. Molta acqua è passata sotto i ponti. La sensibilità ai diritti individuali è mutata. Nel 2012 era già “una esigenza reale e fortemente avvertita”. Chissà che ne penseranno gli attuali inquilini del palazzo della Consulta. Tutti contro la riforma Cartabia. Colpevole di sfidare il panpenalismo di Errico Novi Il Dubbio, 14 gennaio 2023 Adesso Fratelli d’Italia e Lega giocano in difesa. Di fronte al tiro al bersaglio in corso contro la riforma Cartabia, i sottosegretari che rappresentano i due partiti al ministero della Giustizia, Andrea Delmastro e Andrea Ostellari, annunciano “interventi correttivi al decreto penale, prodotto dal precedente governo su impulso della ministra Cartabia”, perché, per citare l’esponente del Carroccio, “non devono ripetersi episodi come quelli a cui abbiamo assistito in queste ore, con la messa in libertà di alcuni soggetti colti in flagranza di reato, per mancanza di querela da parte della persona offesa”. È una reazione in parte comprensibile. Di un governo, e di una maggioranza, scossi dall’uragano scatenato contro la riforma di un precedente esecutivo. Ma l’attacco concentrico è sospetto. Vi partecipano gran parte dei media, pm come Nicola Gratteri, che parla ancora una volta del testo Cartabia come di un “disastro”, partiti come i 5 Stelle, ora all’opposizione ma che votarono eccome la legge delega quand’erano in maggioranza. Da giorni la stampa cita sempre gli stessi tre o quattro casi: il furto in albergo di Jesi, il furto d’auto in Veneto e certo, il fatto più grave, il sequestro di persona attuato da tre “presunti mafiosi” (definizione di Gratteri) del rione Pagliarelli di Palermo nei confronti di due rapinatori “disobbedienti”. Proclami di abbattimento della riforma basati su vicende che si contano sulle dita di una mano, un paio bagatellari, un’altra da considerarsi come un caso limite. Ed è difficile allontanare l’impressione che il vero problema sia la piccola rivoluzione prodotta dall’intervento dell’ex ministra, che apre al superamento del panpenalismo, all’idea del processo, anzi delle iniziative inquirenti, come antidoto a qualsiasi emergenza. Non una depenalizzazione, ma almeno un tentativo di abbattere quel moloch in cui si è trasformata la repressione dei reati. Certo, il caso di Palermo fa impressione. Ieri ne ha parlato, con misura e garbo, il presidente del Tribunale del capoluogo siciliano, Antonio Balsamo: “La riforma del sistema penale, appena entrata in vigore, contiene molte innovazioni importanti, ma anche alcune disposizioni che rischiano di produrre effetti estremamente pericolosi per la sicurezza”. Si sofferma sul caso del sequestro operato dai tre boss, e si limita a chiedere l’esclusione dal novero dei sequestri di persona improcedibili quelli caratterizzati da una “circostanza aggravante ad effetto speciale”, fra le quali rientra “l’articolo 416 bis 1 del codice penale”. Strada percorribile, senz’altro. Ma intanto, come ha fatto notare due giorni fa Gian Luigi Gatta, il professore dell’Università di Milano che è stato consigliere di Cartabia, “l’aggravante del metodo mafioso è stata introdotta dopo le stragi di mafia degli anni Novanta, da più di trent’anni, quando il codice già prevedeva oltre quaranta reati procedibili a querela. Ci si preoccupa oggi, quindi, di un problema che, se esiste, esiste da trent’anni, ben prima della riforma Cartabia”. E in ogni caso si potrà pure provvedere alla modifica suggerita da Balsamo, per impedire casi come quello di Palermo, che paiono davvero al limite dell’immaginabile. Ma un singolo, specifico aspetto di un provvedimento che ne comprende tanti altri, utili a decongestionare la macchina pensale, non dovrebbe giustificare un moto che sembra puntare al macero dell’intera riforma. A meno che appunto, il vero obiettivo non sia innalzare l’ennesimo inno al panpenalismo. Totem intoccabile da almeno trent’anni, diventato più importante di una giustizia che funzioni davvero. La surreale gazzarra sui reati a querela di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 14 gennaio 2023 Esistono da sempre. E sono perseguibili a querela, da prima della riforma Cartabia, reati come la violenza sessuale e lo stalking: come mai finora non ha fiatato nessuno? Quando si potrà parlare di giustizia penale in modo serio? Quello che sta accadendo riguardo al tema dei reati che, riqualificati dalla riforma Cartabia come procedibili a querela e non più di ufficio, sarebbero da oggi impuniti, perfino se commessi da boss mafiosi, è letteralmente surreale. Facciamo un passo indietro. Sono decenni che tutti concordano sul fatto che la giustizia penale nel nostro Paese sia soffocata da un numero di procedimenti penali talmente esorbitante da risultare fisicamente ingestibile. Anni addietro il problema si risolveva con le periodiche amnistie; dopo la riforma costituzionale di quell’istituto, si è usata la prescrizione, salvifica soluzione per le Procure, che determinando a propria discrezione le priorità di trattazione, la lasciavano maturare per una grande parte dei procedimenti relativi ai reati ritenuti di gravità minore. Le sfiancanti discussioni sulle possibili soluzioni di questa anomalia, senza intaccare il sacro principio della obbligatorietà dell’azione penale, portano immancabilmente a due indicazioni: ampia depenalizzazione, ed allargamento del catalogo dei reati perseguibili a querela. La prima delle due strade viene osteggiata dal fanatismo pan- penalista che pervade la nutrita popolazione di politici e giornalisti di schietta ispirazione giustizialista e populista. A costoro viene l’orticaria solo se provi ad avviare un ragionamento sul restringimento del numero dei reati, ipotesi vissuta come una resa dello Stato alla criminalità. La seconda strada è parsa allora l’unica ragionevolmente praticabile agli architetti di una riforma cui l’Europa, in cambio di una consistente quantità di denari, ha chiesto di rendere meno pachidermica la paralizzata giustizia penale italiana. Naturalmente, i reati a querela di parte non sono stati inventati da Marta Cartabia: esistono da quando esistono i codici penali. La logica è chiarissima: è vero che l’azione penale è obbligatoria, ma per i reati di minore o media gravità l’impegno dello Stato nel perseguirli è condizionato alla esplicita richiesta della persona offesa. Dunque dovrebbe essere facilmente comprensibile che fissare l’obbligo di querela non equivale ad affermare l’impunità per quei reati, ma solo a subordinarne il perseguimento e la punizione alla espressa volontà della parte offesa. Ovviamente, se l’autore di un reato a querela viene colto in flagranza (o quasi flagranza) di reato, intanto potrà essere fatto oggetto - ad esempio di misura cautelare, in quanto sia stata attivata quella condizione di procedibilità (si chiama così). Il crimine contro l’umanità che con crescente esagitazione si addebita alla riforma Cartabia è dunque di aver implementato il catalogo -da sempre esistente- dei reati a querela. Naturalmente si può discutere, come sempre, della scelta di questo o quell’altro reato, o della mancata scelta di qualche altro. Per esempio, indigna che sia stato compreso il sequestro di persona (semplice). Opinione legittima, ma è bene ricordare che, prima della riforma Cartabia, sono perseguibili a querela - chessò la violenza sessuale, o lo stalking, reati non certo meno gravi di un sequestro di persona semplice (che è infatti punito con una pena molto contenuta). E come mai fino ad ora non ha fiatato nessuno? Ma qui la polemica è esplosa, come sempre accade, su fatti di cronaca rilanciati a casaccio, quando non in modo intellettualmente disonesto. I tifosi che hanno dato luogo alla indegna gazzarra in quell’autogrill autostradale, si sono resi responsabili di reati tutti ricadenti nella riforma: danneggiamento, lesioni personali, violenza privata: di qui, la esplosione di questa isteria collettiva. Naturalmente, costoro sono stati identificati: saranno le persone offese dai vari reati a decidere se debbano essere puniti. La discussione che si è scatenata sembra presupporre invece che la riforma abbia sancito la impunità di questi comportamenti, il che è semplicemente falso, salvo a non attribuire questo stigma a tutti i reati a querela, a cominciare dalla violenza sessuale. Addirittura surreale è poi il tema dell’aggravante mafiosa di questi reati, cui la riforma Cartabia avrebbe la sanguinosa colpa di non aver attribuito l’effetto di escludere la perseguibilità di ufficio. Si può certamente discutere della opportunità di introdurre questo nuovo meccanismo, ma si tratterebbe appunto di una assoluta novità, giusta o sbagliata, opportuna o superflua che la si voglia giudicare. Cosa c’entra la riforma Cartabia? Mai le modalità mafiose di commissione di reati a querela di parte (nemmeno per il reato di minacce!) ha trasfigurato il reato stesso in termini di perseguibilità di ufficio! Eppure leggiamo incredibili titoli che addebitano a questa riforma addirittura responsabilità di imbelle fiancheggiamento in favore dei boss mafiosi. Infine, quando si rende perseguibile d’ufficio un reato che era a querela, la nuova norma, in nome del generale principio della retroattività delle norme più favorevoli agli imputati, si applica anche ai procedimenti in corso, dandosi alle parti offese un termine per mantenere in vita il procedimento. Ancora una volta, del tutto a prescindere dalla vituperata riforma Cartabia. Quando sarà possibile parlare in modo serio e civile di giustizia penale, in questo Paese? Meglio meno processi in tempi ragionevoli che tante prescrizioni di Gian Luigi Gatta Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2023 Ladri colti con le mani nel sacco e non arrestati; un trapper, accusato del sequestro e del pestaggio di un collega, viene scarcerato; alcuni malviventi, dopo un regolamento di conti mafioso con sequestro e pestaggio, rischiano la scarcerazione (che però non c’è stata). Sono casi di cronaca di questi giorni: l’impunità, si è scritto, dipenderebbe dalla riforma della giustizia varata dal Governo Draghi, che ha reso procedibili a querela una dozzina di reati, tra i quali il furto (non in appartamento), il sequestro di persona semplice (non a scopo di estorsione) e le lesioni lievi. Simili casi fanno notizia e si prestano al dibattito strillato; meno a una meditata riflessione, che metta in rilievo le ragioni della riforma. Procediamo allora per gradi. Perché la riforma Cartabia ha esteso la procedibilità a querela ad alcuni reati? Perché per raggiungere l’obiettivo del Pnrr - la riduzione del 25% dei tempi medi del processo penale entro il 2026 - occorre ridurre il numero dei procedimenti. La correlazione tra la riduzione delle pendenze e la riduzione del cosiddetto disposition time (l’indice monitorato da Bruxelles ai fini del Pnrr), in tutti i gradi di giudizio (-13,9% rispetto al 2019), è dimostrata da un recente studio del Dipartimento per l’analisi statistica del ministero della Giustizia. Rendere procedibili a querela reati statisticamente ricorrenti come il furto o le lesioni lievi ha effetti positivi sul carico giudiziario per due ragioni: se la querela non viene presentata non si può procedere; se viene presentata, ma poi ritirata non si procede più. È una deroga al principio di obbligatorietà dell’azione penale, dipendente dalla volontà della persona offesa e relativa, di norma, a reati di medio/ bassa gravità che offendono interessi privati. È un minus rispetto alla depenalizzazione (tanto difficile da realizzare, come dimostra il dibattito sull’abuso d’ufficio), perché nessun reato viene abolito e nessun condannato definitivo viene scarcerato; solo si chiede, per perseguire quel reato, la volontà della vittima. Lo Stato rinuncia così ad accertare alcuni reati - risparmiando energie che può dedicare alla persecuzione di reati più gravi - se la vittima non è interessata, normalmente perché è stata risarcita. Si dirà: ma furti e sequestri sono reati gravi. In realtà possono esserlo come no. Si può rubare una fuoriserie come una merendina da un distributore automatico. Si può sequestrare brutalmente una persona oppure limitarsi a trattenerla chiusa su un balcone per pochi minuti. È ragionevole che lo Stato celebri tre gradi di giudizio, impegnando per anni una decina di magistrati, per il furto di una melanzana (è successo anche questo)? Non lo è, specie quando manca una querela. Richiederla, per alcuni reati, non è una novità: era così già nel codice Rocco del 1930. La riforma Cartabia si è limitata a estendere il numero dei reati procedibili a querela. E i mancati arresti dei ladri? Dipendono da una regola che esiste nel codice di procedura dal 1988 e che a ben vedere sarebbe opportuno correggere: quando il reato è procedibile a querela, si può arrestare l’autore, in flagranza, solo se la querela è presentata nell’immediatezza, anche oralmente. La legge richiede di fatto che anche la vittima sia presente sulla scena del delitto o, comunque, che sia subito rintracciata. È irragionevole, però, richiedere sempre la presenza della vittima, al momento dell’arresto. Per evitare la fuga del ladro sarebbe ragionevole richiedere la querela non per la validità dell’arresto, ma per disporre una misura cautelare dopo la sua convalida, entro 48 ore. Questo suggeriscono i casi di cronaca di questi giorni: non di rinunciare alla querela per il furto. E il rischio della scarcerazione di mafiosi? Non si è concretizzato, nel caso che occupa i giornali in questi giorni, perché, come normalmente avviene nei contesti di mafia, gli indagati erano accusati anche di reati procedibili d’ufficio (associazione a delinquere ed estorsione), ben più gravi del sequestro semplice e delle lesioni lievi. Detto ciò, si può senz’altro prevedere la procedibilità d’ufficio per tutti i reati con l’aggravante del metodo mafioso, introdotta nel 1991. Risolverebbe un problema che esisteva molto prima della riforma Cartabia. E il sequestro del trapper? In quel caso la vittima, risarcita, ha scelto di ritirare la querela. Meglio rinunciare a qualche processo, perché manca o è ritirata la querela, o celebrarli tutti in tempi irragionevoli, destinandone gran parte alla prescrizione, con buona pace del Pnrr? *Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Milano, Componente del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura “Toni allarmistici contro la riforma. Nessun boss è stato scarcerato” di Angela Stella Il Riformista, 14 gennaio 2023 Parla il professor Gatta, consigliere dell’ex ministra: le procure hanno avuto mesi per organizzarsi. Ormai da giorni molti giornali stanno creando allarme intorno a quella parte della riforma di mediazione Cartabia del processo penale relativa ai reati riqualificati come procedibili a querela e non più di ufficio. Ne parliamo con il consigliere dell’ex Guardasigilli, professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale nell’Università di Milano. Tre boss scarcerabili a causa della riforma Cartabia. È davvero così? Mi sembra che sia stato dato eccessivo risalto a una non notizia, usando per di più toni allarmistici: nessun boss è stato scarcerato. Questo perché i reati per cui si procede non sono solo quelli, meno gravi, procedibili a querela (sequestro semplice, non a scopo di estorsione, e lesioni lievi), ma anche e soprattutto quelli tipici della criminalità organizzata (associazione per delinquere ed estorsione). Ci si è accorti solo ora, trent’anni dopo l’introduzione dell’aggravante del metodo mafioso, che quell’aggravante è riferibile anche a reati procedibili a querela. Non accadrà spesso ma può accadere. E poteva ad esempio già accadere, prima della riforma Cartabia, per le lesioni guaribili entro 20 giorni. Parlamento e Governo possono intervenire con un piccolo intervento normativo, di dettaglio nell’ambito di una riforma complessa. I correttivi suggeriti dalla prassi applicativa, nelle riforme di sistema, sono fisiologici. Tanto è vero che la legge delega 134/2021 li prevede, autorizzando il Governo a realizzarli da qui a due anni. E alcuni correttivi, non questo però, sono stati già introdotti su proposta del Ministro della Giustizia in sede di conversione del decreto legge che ha rinviato di due mesi e mezzo la riforma Cartabia. Ad esempio, in quella sede ci si è preoccupati di conservare la procedibilità d’ufficio dello stalking quando concorre con un reato che la riforma ha reso procedibile a querela. Peccato che il problema dell’aggravante mafiosa sia stato segnalato solo dopo l’entrata in vigore della riforma e non prima. Ma il tempo e il modo per intervenire c’è. Si dice: è paradossale che in questi giorni bisogna andare alla ricerca delle vittime e non degli autori di reato. Perdita di tempo e di risorse... La lunga vacatio legis - di due mesi e mezzo - ha reso ampiamente conoscibile la riforma e ha suggerito di limitare queste ricerche nei soli procedimenti con misure cautelari, per confermarle o meno entro un breve periodo, di soli venti giorni. Le procure hanno avuto mesi per organizzarsi e lo avranno senz’altro fatto. Non vedo nulla di paradossale nella ricerca della vittima, che è soggetto sempre meno ai margini del processo penale, in linea con le indicazioni internazionali. Eugenio Albamonte sostiene: alla fine non si snellisce la macchina perché quando tutti avranno compreso che bisognerà sporgere querela le scrivanie degli uffici giudiziari saranno di nuovo colme... Non sono d’accordo. Intanto, se anche tutti presentassero la querela, ci sarebbe sempre la possibilità di una remissione, a seguito di condotte risarcitorie, con conseguente obbligo di archiviare il procedimento o di dichiarare il non luogo a procedere. Le scrivanie si svuoterebbero, quindi. Basta pensare alle lesioni stradali dopo l’intervento del risarcimento da parte delle compagnie di assicurazione. E poi è noto che in molti casi manca semplicemente l’interesse a presentare una querela e a sostenere il peso, anche economico, di un processo. Vogliamo fare un esempio tra mille? Siamo sicuri che il titolare di un supermercato che subisce un piccolo furto, del valore di pochi euro, magari per fame, sia sempre interessato a sporgere querela? Perché non si è pensata ad una seria depenalizzazione? Non dimentichiamoci che la riforma Cartabia si è innestata sul disegno di legge Bonafede e che, nella maggioranza che sosteneva il Governo Draghi, erano presenti forze politiche con sensibilità e visioni assai distanti in materia penale, certo non favorevoli ad abolire reati, specie prima di una campagna elettorale. La vicenda dell’abuso d’ufficio è abbastanza significativa, a questo proposito. Se si fosse realizzata una depenalizzazione sui giornali i toni allarmistici riguarderebbero le scarcerazioni dei condannati definitivi per i reati depenalizzati. E poi sa cosa penso? Che quando si parla di depenalizzazione per dare un contributo al dibattito bisognerebbe suggerire quali reati depenalizzare. Parlare di depenalizzazione in astratto serve molto a poco; è un programma politico privo di contenuti concreti. “Le riforme penali non possono scriverle professori che non hanno mai messo piede in tribunale” di Giulia Merlo Il Domani, 14 gennaio 2023 Parla Alfonso Sabella, magistrato a Roma, e analizza le norme appena entrate in vigore e che trasformano alcuni reati da perseguibili d’ufficio a perseguibili solo dopo la querela della persona offesa. Più parla, più gli vengono in mente casi in cui l’attuale riforma penale produce cortocircuiti insensati, come nel caso dei reati con l’aggravante mafiosa perseguibili a querela. E, all’opposto, casi non previsti e in cui la procedibilità a querela invece che d’ufficio sarebbe molto funzionale. Alfonso Sabella, giudice al tribunale di Roma ed ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli, analizza le norme appena entrate in vigore e che trasformano alcuni reati da perseguibili d’ufficio a perseguibili solo dopo la querela della persona offesa, tra cui anche le lesioni, il sequestro di persona semplice e il furto anche aggravato, e trae una sola conclusione: ”Riforme di questo genere andrebbero scritte dai magistrati che lavorano nel processo, non dai professori universitari che un processo non l’hanno mai fatto”.  La strada di modificare la procedibilità di alcuni reati è stato un errore di impostazione del legislatore? Io non sono contrario a prescindere a portare alcuni reati dalla procedibilità d’ufficio a quella a querela. Il punto è che la scelta di quali avrebbe dovuto essere fatta da persone con una conoscenza anche minima di quel che accade quotidianamente negli uffici di procura e in quelli di polizia giudiziaria. Chi ha scritto la riforma lo ha fatto sulla base di dati teorici, ma con poca consapevolezza della realtà. Il mancato inserimento dell’aggravante mafiosa tra quelle che fanno scattare la perseguibilità d’ufficio è l’errore più macroscopico? Non vedo dolo, ma anche questo è frutto di norme scritte da chi non ha mai messo piede in tribunale. Questa mancata previsione è un enorme problema a livello organizzativo, pratico ma soprattutto morale: abbiamo già visto il caso dei boss di Palermo, per cui la mancata querela impone allo stato di rinunciare alla potestà punitiva, senza alcuna contromisura. Reati ora a querela, come la violenza privata anche con aggravante della finalità mafiosa, spesso sono estorsioni non dimostrate, ma chi vuole che quereli un mafioso?  Basterà una correzione con i decreti correttivi? Penso che si determineranno comunque moltissimi problemi, perché si tratta di norme penali di favore. Noi giudici ci arrabatteremo a sostenere che sono norme processuali per evitare il favor rei e ridurre i danni al minimo, ma dovremo tendere al massimo i principi giuridici.  L’elenco dei reati ora perseguibili a querela è così implausibile? La vera questione sono i paradossi che si generano. Nella normalità, la stragrande maggioranza dei casi di lesioni è accompagnata da querela anche se non sarebbe necessaria. Renderla perseguibile solo a querela, quindi, esclude tutti quei casi i cui la vittima non ha il coraggio di querelare, che poi sono anche i casi in cui esiste un vero pericolo per l’ordine pubblico. Mi fa qualche esempio di cortocircuiti? Prenda il caso della violenza privata tra tifosi, in cui il reato è commesso reciprocamente. Prima era procedibile d’ufficio, ora invece bisognerà sperare che uno dei due sporga querela. Ancora: quando lavoravo a Napoli spesso bande di criminali non camorristi sfondavano con i tir i magazzini dei supermercati per svaligiarli e i carabinieri spesso li fermavano in flagranza. Ora che fanno, li lasciano andare se non si trova il proprietario del supermercato che sporga querela? Nel caso del furto, però, le statistiche parlano di 31 mila procedimenti celebrati e conclusi riconoscendo la non punibilità per particolare tenuità del fatto... Guardi, quando ero pm a Termini Imerese ho visto casi di poveri cristi che l’8 marzo venivano arrestati in flagranza per furto pluriaggravato dalla violenza sulle cose esposte a pubblica fede, perchè rubavano qualche ramo di mimosa dalle piante lungo l’autostrada. Io non sono astrattamente contrario alla perseguibilità a querela del furto, ma esistono alcune aggravanti che dimostrano la capacità criminale e rendono necessario che lo stato possa punire indipendentemente dalla querela.  Vede casi in cui la procedibilità a querela sarebbe servita? Ce ne sarebbero che produrrebbero anche effetti deflattivi, le faccio un esempio solo del settore di cui ora maggiormente mi occupo. Esistono casi di maltrattamenti in famiglia in cui per un certo tempo c’è forte conflittualità tra i coniugi, ma poi interviene una reale riappacificazione e i due tornano insieme dopo la crisi, il reato però rimane perseguibile d’ufficio. Ritengo che sarebbe di buon senso prevedere specifici e determinati casi in cui l’azione penale vada rimessa alla reale volontà della persona offesa. Quale sarebbe stata la strada giusta da seguire? In generale bisogna partire dalla revisione delle circostanze attenuanti e aggravanti, aggiornandole alle reali esigenze dell’oggi, e correggere alcuni refusi ordinamentali. Anche qui un esempio: se massacro mia moglie di botte decide un giudice monocratico, se la mando a quel paese ma lo faccio davanti a mio figlio minorenne decide il tribunale in composizione collegiale. Poi andrebbero riequilibrate le pene: la minima è l’unica che si utilizza davvero. Oggi si rischia di più per un rave party che se si gira con un’arma in un luogo pubblico. Infine, si sarebbe dovuto procedere a una seria depenalizzazione, favorendo invece le sanzioni amministrative, e sgravare i giudici da una serie di attività inutili. Invece si preferisce fare giustizia creativa, giocando con le statistiche. Perchè dice che si gioca con le statistiche? Perchè, per ridurre i numeri dei procedimenti sui ruoli, ora ci viene chiesto di emettere sentenza sugli irreperibili. Mi spiego: prima della riforma, se l’imputato è irreperibile si sospende il processo con ordinanza e la si rinvia di anno in anno, ordinando le ricerche fino a quando non viene trovato e lo si può processare. Una procedura rapida e veloce. Oggi, invece, la riforma prevede che, in caso di irreperibilità, si emetta sentenza di non luogo a procedere, così si toglie la pratica dal mucchio. Poi, se l’imputato si trova, la sentenza viene revocata e si ricomincia. In astratto si tolgono numeri dalla mole di procedimenti aperti, nei fatti non cambia niente. Secondo lei questa riforma ridurrà i tempi dei processi, come chiede il Pnrr? Lo spero, ma so dirle cosa in questa riforma non li ridurrà. Per esempio la sciatteria del rinnovamento dell’ascolto dei testi nel caso in cui cambi il giudice, a meno che non ci sia la videoregistrazione. Pretendere che le persone vadano risentite se cambia il giudice è assurdo, perché con gli organici così ridotti è automatico e scontato che succeda: io non ho processi in cui non ci siano stati almeno tre cambi di giudice. Va bene la videoregistrazione, ma andava rinviato di un anno l’ingresso in vigore per dotarci degli strumenti. Invece proprio ieri ho dovuto mandare a casa i testi che erano venuti per essere sentiti, me ne sono vergognato ma non potevo fare altrimenti, sperando la prossima volta di avere un collegio stabile, ma a Roma sono meno del 30 per cento. Lei ipotizza depenalizzazioni, ma se non è possibile modificare nemmeno la procedibilità dei reati senza fare danni, davvero si potrebbe cancellarne alcuni? Anche qui, bisognerebbe ascoltare chi fa processi tutti i giorni. Buona parte dei reati edilizi e di quelli ambientali potrebbero essere depenalizzati, a patto che si facciano funzionare le sanzioni amministrative che a ben vedere sono decisamente più efficaci. Per esperienza le dico che il 99 per cento dei sequestri preventivi in materia edilizia sono determinati dall’incapacità o dalla mancanza di coraggio dei comuni di adottare i loro provvedimenti amministrativi. Invece tutto finisce a intasare il ruolo monocratico della giustizia penale, con reati edilizi inutili, che nemmeno arrivano a dibattimento perché si prescrivono in 5 anni. Per chiudere, salva qualche aspetto della riforma penale? Ma certo, la riforma contiene tante cose positive, come le notifiche telematiche e la spinta per la digitalizzazione. Anche l’ufficio del processo ci ha dato una mano e l’idea è stata ottima. Io ho avuto con me due o tre giovani laureati che hanno certamente favorito il mio lavoro. Bisogna continuare su questa strada, alleggerendo il carico di lavoro e togliendo ai giudici mansioni che non ha senso assegnare loro, come le liquidazioni dei custodi o dei patrocini degli avvocati, per cui servirebbero ragionieri, non magistrati. Però non riesco a non pensare che, complessivamente, questa sia stata un’occasione persa per riformare la giustizia, rendendola finalmente efficiente. Scarpinato: “Col modello Cartabia la giustizia diventa una questione privata” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2023 Non c’è più una rilevanza sociale che attivi lo Stato, devi fare una richiesta come per la Asl. La riforma Cartabia, che ha ampliato il numero dei reati non più procedibili d’ufficio ma solo con la querela di parte, preoccupa Roberto Scarpinato. Il senatore M5S, ex magistrato antimafia, ritiene che questa norma faccia parte di una complessiva controriforma della Giustizia: “Siamo in una fase di restaurazione che si declina su tanti piani, compresa una strisciante normalizzazione della mafia. Vorrei ricordare che la prima versione della c.d. riforma Cartabia prevedeva l’estinzione per sopravvenuta improcedibilità di tutti i processi di mafia non definiti in appello entro due anni: lo stesso trattamento riservato ai processi per i reati ordinari, compresi quelli bagatellari. Solo a seguito della mobilitazione del mondo antimafia e della componente parlamentare M5S la norma è stata modificata, prevedendo una deroga per i processi di mafia. La neo riforma dell’ergastolo ostativo ha normalizzato la cultura dell’omertà, stabilendo che si può ritenere ‘rieducato’, quindi meritevole dei benefici penitenziari, anche il mafioso che si rifiuta di collaborare perché non vuole essere considerato un ‘infame’. La stessa legge ha disincentivato la collaborazione con la giustizia prevedendo condizioni di sfavore, come l’obbligo di dichiarare tutto il patrimonio occulto, non imposto, invece, ai non collaboranti. Il ministro Nordio ha annunciato tagli alle intercettazioni dichiarando che ‘ormai si parla di mafia anche quando due buttano dei rifiuti nel cassonetto e si parla di mafia ecologica’. Il 41-bis è da tempo nel mirino ed è prevedibile un suo forte ridimensionamento. Condannati per reati di mafia (Marcello Dell’Utri, Totò Cuffaro, ndr) sono di nuovo protagonisti della vita politica”. È in questo contesto che si inserisce il declassamento a reati perseguibili solo a querela, come il sequestro di persona, anche quando c’è l’aggravante mafiosa? È così. Il M5S da mesi segnala i pericoli di queste norme e i fatti di cronaca ci hanno purtroppo dato ragione. È notizia di giovedì la richiesta a Palermo di revoca della misura cautelare per tre uomini di Cosa Nostra accusati di sequestro di persona e lesioni, con l’aggravante del metodo mafioso. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, e la presidente della Commissione Giustizia del Senato, Giulia Bongiorno, hanno detto che questa norma va cambiata… Passino dalle parole ai fatti. Basta approvare in tempi rapidissimi il disegno di legge del M5S, a mia prima firma: nei casi in cui ricorrano le circostanze aggravanti della finalità terroristica e del metodo mafioso, il delitto è sempre procedibile d’ufficio. Se non si cambia la norma si rischia di veicolare il messaggio culturale che il contrasto alla mafia non è più un compito prioritario dello Stato, che interviene a tutela dell’intera collettività a prescindere dagli interessi e dalla volontà delle singole vittime, ma è una questione privata. Se i mafiosi violano il tuo domicilio, ti sequestrano e ti picchiano, il problema è solo tuo. Non ha una rilevanza sociale tale da attivare autonomamente lo Stato, devi sporgere querela, cioè fare una richiesta di prestazione statale, come per una visita specialistica alla Asl. Se per i reati perseguibili d’ufficio come le estorsioni è elevatissimo il numero delle vittime che, per timore di ritorsioni, non sporgono denuncia, è facile prevedere che, a maggior ragione, nella stragrande maggioranza dei casi non saranno presentate querele dalle vittime di reati commessi da mafiosi, divenuti oggi perseguibili a querela, con l’effetto di rafforzare il potere di intimidazione delle mafie. Da un lato si è inserito il sequestro di persona nei reati procedibili a querela e dall’altro questa maggioranza ha cancellato dai reati ostativi ai benefici penitenziari, se non si collabora, quelli legati alla corruzione. Un altro tassello di quella che ha definito restaurazione? È evidente. Pensi che la norma da lei citata riguarda anche i condannati per le associazioni a delinquere finalizzate alla corruzione, che potranno ottenere i benefici penitenziari senza collaborare con la giustizia. Un ulteriore premio al codice dell’omertà. Dopo avere eliminato questa fonte di prova, hanno pure deciso di ridurre i poteri di intercettazione per i reati dei colletti bianchi. È stata annunciata una riforma per “lobotomizzare” i reati di abuso di ufficio e di traffico di influenze illecite, che costituiscono la cassetta degli attrezzi della corruzione. Tappe iniziali per avvicinarsi alla meta finale della sottoposizione dei pubblici ministeri al controllo governativo tramite l’abolizione della obbligatorietà dell’azione penale e della separazione delle carriere. Il differimento dell’entrata in vigore della riforma Cartabia potrebbe essere incostituzionale di Bianca Agostini Il Domani, 14 gennaio 2023 Il tribunale di Siena ha sollevato la questione di costituzionalità sullo slittamento di due mesi dell’entrata in vigore della riforma penale voluto dal governo Meloni e che rischia di creare disparità di trattamento. Il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, attraverso la decretazione d’urgenza al fine di posticiparne l’efficacia a partire dal 30 dicembre 2022, ha fatto sorgere alcune delicate questioni giuridiche. Una delle novità più importanti della riforma consiste nell’ampliamento del catalogo dei reati procedibili a querela, che richiedono, cioè, la sussistenza di tale condizione di procedibilità ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato. La nuova disciplina determina, perciò, che in assenza di una volontà espressa della persona offesa il giudice debba emettere una sentenza di proscioglimento nell’ambito di procedimenti instaurati in precedenza, quando, cioè, la posizione del privato non incideva sulla punibilità del reo. Ciò con evidenti effetti favorevoli per la posizione dell’imputato.  A tal proposito, il legislatore aveva inserito anche una previsione relativa al regime transitorio, prevedendo che - sulla scorta del principio di retroattività della legge più favorevole “per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato” (art. 85 d.lgs. n. 150/2022). In assenza di tale dato conoscitivo, il termine per la presentazione della querela continua, invece, a decorrere dal giorno della notizia del fatto di reato. Gli effetti del rinvio - La repentina posticipazione dell’entrata in vigore del decreto ha fatto ritenere a molti interpreti che si trattasse di una soluzione iniqua e discriminatoria, in quanto il “congelamento” della riforma impediva agli imputati che si trovavano ad essere giudicati in tale periodo di poter beneficiare di tali effetti, a differenza di altri la cui udienza - per puro caso - risultava già fissata dopo il 30 dicembre. Un’ipotesi di particolare rilievo riguarda, più nel dettaglio, i casi di intervenuta remissione di querela precedentemente presentata in procedimenti nei quali tale requisito non risultava necessario ai fini della punibilità e che, invece, assume rilievo determinante nella nuova disciplina. Come ha efficacemente chiosato un penalista autorevole come Domenico Pulitanò “applicare oggi un trattamento penale più severo, rispetto a quello già prefigurato dalla riforma, sarebbe irragionevolmente lesivo di aspettative ben fondate sul principio di legalità”. Della stessa opinione, il Tribunale di Siena ha prontamente sollevato una questione di legittimità costituzionale segnalando tre distinti profili di contrasto con la Costituzione (Trib. Siena, 11 novembre 2022, Giud. Spina). I profili di incostituzionalità - Il primo, più radicale, censura la legittimità dell’utilizzo di un atto normativo di fonte governativa per incidere sull’entrata in vigore della legge. L’art. 73, comma 3, Cost. è chiaro sul punto, stabilendo che “le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso”. Doveva, quindi, essere un atto del Parlamento, interno al procedimento legislativo, ad occuparsi della questione. Il secondo affronta un classico tema inerente all’abuso della decretazione d’urgenza, ossia il fatto che il d.l. n. 162/2022 contenga al suo interno disposizioni eterogenee sotto il profilo dell’oggetto e delle finalità, tanto da diluire irrimediabilmente i presupposti della necessità ed urgenza dell’intervento governativo. Il terzo profilo riguarda invece la violazione del principio di retroattività della legge penale favorevole: il differimento dell’entrata in vigore della riforma, infatti, comporta una ultrattività del regime giuridico precedente ritenuto irragionevole dal giudice a quo, visto che il Governo avrebbe potuto operare rinvii selettivi di soltanto quelle parti della riforma che richiedevano effettivamente uno sforzo di tipo organizzativo da parte degli uffici, invece che di tutto il testo. Il Tribunale di Siena si occupa esclusivamente delle disposizioni relative alla procedibilità, ma il problema si ripropone allo stesso modo per altri istituti di diritto sostanziale toccati dalla riforma, come quello delle pene sostitutive e dell’applicazione della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. Un’altra strada per ovviare a queste ripercussioni - effettivamente irragionevoli o comunque facilmente evitabili - è stata proposta da parte della dottrina che ha ipotizzato la possibilità, in questo caso, di applicare direttamente la disciplina più favorevole, anche prima della sua definitiva entrata in vigore, in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata che era stata adottata in passato dalla Cassazione con riguardo ad istituti affini. Il professor Gian Luigi Gatta ha proposto, ad esempio, di valorizzare la ratio di garanzia della vacatio legis di cui all’art. 73, comma 3, Cost. nonché la maggiore aderenza di tale interpretazione con gli obiettivi del Pnrr, in quanto determinante un’immediata definizione dei procedimenti. Sarà forse il periodo natalizio, ma la sensazione è che la partenza del nuovo governo sia stata un po’ simile a quella della famiglia McCallister di “Mamma ho perso l’aereo”: con tanta foga e dimenticando a casa qualche pezzo. Né dibattito, né trasparenza: il voto sul Csm sarà un bluff? di Franco Corleone Il Riformista, 14 gennaio 2023 Oggi è scaduto il termine di presentazione delle autocandidature per l’elezione dei dieci componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura e il Parlamento è convocato in seduta comune martedì 17 pomeriggio. La prima e la seconda votazione richiedono un quorum di 363 voti ed è probabile che in assenza di un accordo tra maggioranza e opposizione vi sia una fumata nera e non è da escludere che vengano messe in campo operazioni spericolate e colpi di maggioranza spuria dal terzo scrutinio. Non sarebbe uno spettacolo dignitoso per la credibilità delle istituzioni, ma questo mi pare non preoccupi chi pensa solo ad occupare tutti i posti di potere. Purtroppo la decisione dei presidenti di Camera e Senato, Fontana e La Russa, di stabilire regole che hanno vanificato la timida riforma approvata con la legge 71 nel giugno 2022, per garantire procedure trasparenti e la parità di genere rischia di riprodurre la logica della spartizione partitocratica che nel 1990 Franco Russo, Franco Servello e io denunciavamo con una attenzione non scontata della Presidente Iotti. Quel precedente l’avevo raccontato sul Riformista lo scorso 16 novembre e non può essere cancellato. Per svelare i giochi sotterranei occorrerà aspettare martedì mattina quando saranno presentati i candidati da parte dei partiti, senza tempo di discussione pubblica; anche questo termine differenziato pare studiato per favorire disdicevoli blitz. Vediamo intanto che cosa ci dicono le autocandidature: sono più di duecento, di cui più di 160 avvocati e una quarantina tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati professori. Le donne presenti sono poco più di cinquanta e rappresentano circa il 25% rispetto alla previsione di almeno il 40%. Purtroppo non avere previsto la presentazione di un curriculum (solo Andrea Patroni Griffi ha ritenuto di inviare il proprio a tutti i parlamentari) impedisce una valutazione e non avere immaginato neppure un organismo di esame e selezione mostra un disinteresse da parte dei vertici del Parlamento per una elezione delicata che dovrebbe ridare prestigio all’organo di autogoverno della magistratura colpito da scandali e discredito. Le candidature sono tante ma in queste condizioni appaiono una vetrina senza prospettive e comunque merita una riflessione la numerosa partecipazione e il mettersi, magari ingenuamente, in gioco. È un segno di rispetto a una richiesta di disponibilità o una pura testimonianza di esistenza come se la candidatura desse un titolo? Scorrendo i nomi si trovano alcune persone di valore scientifico e di spessore politico e culturale con esperienze significative come Tamar Pitch, Raffaele Della Valle, Maria Elisa D’Amico, Luigi Pannarale, Stefano Passigli, Gaetano Pecorella, Giuseppe Rossodivita. C’è ancora tempo per una discussione pubblica e soprattutto che deputate e senatrici impongano un metodo di votazione che non riduca a beffa la previsione della parità di genere richiamata citando gli articoli 3 e 51 della Costituzione. La sollecitazione al Presidente della Camera per realizzare gli adempimenti necessari per applicare con rigore e lealtà la nuova legge era stata avanzata con una lettera circostanziata da Riccardo Magi, deputato impegnato sul fronte dei diritti civili e sociali, con un esito deludente. Sono sicuro che la sua voce si alzerà a Montecitorio per contestare una scelta truffaldina che mortifica la repubblica. Come tanti anni fa sarebbe bello che altre voci si unissero per difendere la democrazia. O quel che ne resta. Niente incontri con la mamma in fin di vita. Il giudice sta col padre di Daria Lucca Il Manifesto, 14 gennaio 2023 Una donna di 47 anni, chiamiamola Anna, docente di matematica, non vede il figlio ora dodicenne da un anno e mezzo perché il padre da cui è separata, nonostante il tribunale avesse stabilito incontri periodici tra lei e il bambino, ha bellamente disatteso l’ordine dei giudici. La vicenda di Anna è finita in una interpellanza urgente ai ministri Nordio (Giustizia) e Roccella (Famiglia) presentata alla Camera dall’onorevole del Pd, Maria Cecilia Guerra. Il motivo dell’interesse e, soprattutto, dell’urgenza dei chiarimenti è presto detto quanto doloroso: la signora Anna è malata da oltre un anno e ora è ricoverata in un reparto per le cure palliative ai malati terminali. Ma il caso umano è aggravato - da qui l’intervento di Guerra, sostenuta dalla capogruppo Serracchiani - dal fatto che quel padre, medico di Trani, è sotto processo per maltrattamenti. In sostanza, le interpellanti chiedevano conto della mancata applicazione della Convenzione di Istanbul a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza, anche domestica. Il governo ha mandato a rispondere il sottosegretario alla giustizia, Andrea Del Mastro Delle Vedove (Fratelli d’Italia) il quale ha precisato come il tribunale di Trani, presso il quale sono incardinati sia il procedimento di separazione tra i due coniugi sia quello penale contro l’uomo, abbia stabilito il collocamento del figlio maschio presso il padre su richiesta della madre a fine dicembre 2021. Sebbene esuli da una ricostruzione puramente giudiziaria, aggiungiamo noi che la richiesta della donna era probabilmente motivata dall’aggravarsi delle condizioni di salute, per cui Anna ha preferito tenersi accanto solo la figlia più grande, ora diciassettenne. C’è di più. Pochi mesi più tardi, ad aprile 2022, una Ctu psicologica disposta dal giudice istruttore di Trani circa l’idoneità dei genitori ha concluso che il bambino non voleva convivere con la madre. Tuttavia, anche lo psicologo proponeva incontri mensili tra i due. Incontri che non si sono mai tenuti. Ora, sul punto è opportuno sottolineare - e nella replica Guerra lo ha fatto - la diversità di trattamento riservato ai diversi genitori. Mentre un figlio che non incontra il padre viene sempre bollato come “alienato” dalla madre, la quale si vede poi etichettata come “ostativa”, a parti rovesciate emerge che il padre non solo non riceve alcuna reprimenda, ma addirittura gli si consente di non ottemperare esplicitamente - senza incorrere in alcuna sanzione - all’ordine del giudice. Ora, ci ha informato il sottosegretario, il tribunale di Trani ha ribadito, pochi giorni fa, che il dottor X, così lo chiamiamo, accompagni una volta al mese il dodicenne a visitare la mamma. Maria Cecilia Guerra è da sempre attiva sul versante delle politiche antiviolenza contro le donne. Nel 2013, come responsabile delle pari opportunità nel governo Letta 2, curò l’approvazione della legge che attivava in Italia la Convenzione di Istanbul. Come economista, nel governo Draghi si è occupata del bilancio di genere. Per la revoca della “messa alla prova”, serve una apposita udienza in contraddittorio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2023 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 1098 depositata ieri dalla V Sezione penale. Il provvedimento che revoca la messa alla prova deve essere adottato all’esito di una apposita udienza preceduta da un congruo avviso in modo da consentire un pieno svolgimento del contraddittorio come previsto dal codice. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 1098 depositata oggi dalla V Sezione penale, che ha accolto (con rinvio) il ricorso di un uomo imputato per reati di violenza privata e lesioni personali contro la decisione del Tribunale di Trento. La revoca era stata disposta “in ragione della ripetuta violazione del provvedimento da parte dell’interessato, astenutosi dal completare il programma di trattamento nonostante le numerose sollecitazioni in tal senso”. Nel ricorso l’imputato ha lamentato che la revoca era stata disposta “senza consentire alle parti di interloquire al riguardo” e la Cassazione lo ha accolto. Per la Suprema corte infatti dagli atti processuali emerge come, con l’ordinanza del 2 maggio 2022, fosse stato disposto il rinvio dell’udienza al 6 agosto 2022 “per consentire al soggetto di elaborare il programma MAP e reperire altro ente”. L’udienza, dunque, prosegue la Corte, non era stata fissata per “mettere in condizione le parti di interloquire sulla revoca della messa alla prova” che è stata, quindi, decisa dal Tribunale, all’udienza del 6 agosto 2022, “con un provvedimento a sorpresa”. In tal modo però il Tribunale di Trento non ha seguito le indicazioni dell’articolo 464-octies, comma 2, cod. proc. pen., che stabilisce che, al fine di disporre la revoca dell’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice è tenuto a fissare udienza ai sensi dell’articolo 127 cod. proc. pen. per la valutazione dei presupposti della revoca, dandone avviso alle parti e alla persona offesa almeno dieci giorni prima. E, sempre in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il provvedimento di revoca “deve assicurare il rispetto del principio del contraddittorio, sicché è affetto da nullità generale a regime intermedio ex art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. se adottato senza previa fissazione di udienza camerale partecipata, con avviso alle parti del relativo oggetto”. Nel caso di specie, conclude la decisione, “la circostanza che la revoca della sospensione del processo con messa alla prova non sia stata adottata de plano non vale ad elidere l’eccepito vulnus arrecato al contradditorio, posto che per l’udienza in cui il relativo provvedimento è stato pronunciato (fissata per consentire l’elaborazione del programma di trattamento) l’interessato aveva differentemente approntato la propria difesa”. La giustizia, le carceri e la logica della vendetta di Tommaso Guerini* Il Resto del Carlino, 14 gennaio 2023 Non dovrebbe essere necessario sottolinearlo, ma i detenuti, persino quelli sottoposti al carcere duro, sono esseri umani e anche per loro vale quel principio, scolpito nell’art. 27 della Costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Del resto, chi studia il diritto penale sa bene che sin dalla sua entrata in vigore, l’art. 41 bis è stato oggetto di innumerevoli censure di costituzionalità e anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte espresso forti perplessità sulla compatibilità di tale regime carcerario con l’art. 3 della Cedu, che proibisce la tortura, la pena o i trattamenti inumani o degradanti. Insomma, a prescindere dalla gravità dei reati contestati a Cospito, la cui vicenda giudiziaria seguirà il suo corso, non è possibile liquidare in maniera semplicistica - riproponendo schemi ormai triti, come quello che contrappone sedicenti garantisti ad altrettanto sedicenti giustizialisti, come se fosse possibile una giustizia senza garanzie e viceversa - un tema fondamentale per lo Stato di diritto, ovvero come e perché si punisce. Affermava Voltaire che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” e chiunque abbia la ventura di varcare le soglie di una prigione sa bene quali luoghi terribili essi siano per chi vi è detenuto, anche solo in regime ordinario. Luoghi di dolore, di disperazione, nei quali la risocializzazione del reo è pura utopia. Il tempo è maturo per avviare una seria riflessione su come si scontano le pene in Italia e a Bologna, facendo tesoro di un prezioso monito del Cardinale Zuppi, che di recente ha osservato come “se la giustizia si limita alla logica della vendetta, diventa fine a sé stessa e rischia di generare un movimento senza fine che, non estinguendo mai la rabbia e la violenza, permette che il male continui ad agire e a produrre le sue conseguenze”. *Professore Associato di Diritto penale, Avvocato “Ora salviamo la signora Lina”, l’appello di amiche e amici osservatoriorepressione.info, 14 gennaio 2023 Siamo amici ed amiche di Lina, una donna di 76 anni, rinchiusa da oltre un mese nel Carcere Femminile di Trani. Ci abbiamo messo un po’ per affrontare collettivamente ed insieme al figlio, incredulità, rabbia e dolore nel pensarla rinchiusa, alla sua età e con i sui acciacchi, nel carcere, lontana dalla sua casa, dai suoi affetti e dalle sue abitudini di donna libera e determinata nel vivere la vita in maniera semplice e genuina. Lina è una proletaria che vive insieme al figlio in uno dei tanti palazzi del quartiere Libertà di Bari Spesso a Bari le discussioni sono animate e non si sa mai come possono andare a finire; a causa di una di queste discussioni Lina finisce ai domiciliari a seguito di un provvedimento dell’autorità giudiziaria causato da una presunta lite condominiale e dopo alcuni giorni viene portata nel carcere di Trani in quanto considerata “evasa” dai domiciliari che le avevano imposto. L’avvocato non viene avvisato ed il figlio scopre che la madre è stata portata via dai carabinieri dagli abitanti del quartiere. Lina è stata portata nella discarica sociale del paese Italia; è stata rinchiusa nel carcere femminile di Trani perché lo stato, i servizi sociali, il welfare, la cura e il sostegno che tutti gli anziani di questo paese dovrebbero avere è loro negato, soprattutto se si è poveri, se si vive in un quartiere proletario e se non si dispone del denaro per poter affrontare al meglio i guai della vita. Lina è una donna anziana, con diverse patologie e con i segni di un’intera vita passata ad affrontare problemi e difficoltà e sappiamo con certezza che saprà ed avrà la forza di affrontare la vita, costretta tra le mura del carcere femminile di Trani (un carcere ‘ospitato’ in una struttura costruita nel 1800, sovraffollato e con carenza di personale, come riportato dall’ultimo report dell’Associazione Antigone) così come noi, i suoi amici e le sue amiche, avremo la forza e la determinazione nel pretendere, per ovvie motivazioni, la sua immediata liberazione dalla costrizione carceraria. Lina va liberata dal carcere immediatamente e va individuata una soluzione alternativa alla detenzione perché è indegno per un paese che si considera moderno e democratico che una donna della sua età e con i sui problemi sia costretta a vivere in carcere. Sicilia. Detenuti e universitari, la sofferenza di studiare senza computer e internet di Tullio Filippone e Marta Occhipinti La Repubblica, 14 gennaio 2023 L’utilizzo di spazi adeguati, lezioni in presenza, connessioni alla rete. Sono i problemi che affliggono i cento studenti delle carceri siciliane. Dopo una prima laurea in Ingegneria, Mario (questo e altri nomi sono di fantasia), ha deciso di iscriversi in Architettura per continuare un percorso di studi e lasciarsi alle spalle gli anni bui di un passato nella criminalità organizzata. A Catania, il cinquantenne Luigi, dopo trent’anni, ha deciso di tornare a studiare sui libri del dipartimento di Agraria, ed è subito entrato nel cuore dei docenti. A Messina, Filippo è stato uno dei pochi a potere sostenere un esame orale di diritto privato sulla piattaforma Teams, sotto lo sguardo vigile degli agenti della polizia penitenziaria, mentre altri suoi colleghi incontravano il regista del laboratorio teatrale dell’ateneo. Sono le storie dei detenuti che in Sicilia trovano una seconda occasione nei poli universitari penitenziari, che oggi contano oltre cento immatricolati che scontano una pena nei 23 istituti penitenziari dell’Isola: il grosso, 73, sono a Catania e 20 a Palermo, segue Messina, con appena 7 studenti. I problemi che affliggono i detenuti-universitari: laurearsi, in queste condizioni, è una scommessa. Vediamo perché. “La maggior parte dei nostri iscritti frequenta i corsi di Agraria, ma tra i più frequentati ci sono Giurisprudenza, Scienze Politiche e abbiamo anche un iscritto detenuto a fine pena, che frequenta tecniche di laboratorio grazie a permessi studio - dice Paola Maggio, delegata del Polo universitario penitenziario di Palermo, inaugurato a ottobre 2021 - l’Ateneo di Palermo ha investito nella formazione donando cinque pc ai due istituti Pagliarelli e Ucciardone”. In un solo anno accademico le immatricolazioni al polo di Catania, che garantisce il diritto allo studio al 70 per cento dei detenuti siciliani sono passate da 46 a 73. Ma oggi la grande scommessa riguarda le lezioni in presenza, l’utilizzo dei pc e della connessione internet. “Secondo le linee guida i docenti dovrebbero incontrare per almeno tre volte, di cui una in presenza i detenuti, ma questo non avviene per problemi logistici, come la mancanza di spazi - dice Teresa Consoli, delegata del polo penitenziario di Catania - una mancanza a cui suppliscono i tutor, alcuni dei quali studenti dello stesso ateneo con una laurea triennale, che li guidano nel piano formativo”. Una novità promossa dal rettore Midiri arriverà dal polo di Palermo, dove nel secondo semestre si terrà un corso in presenza, aperto a detenuti studenti del Pagliarelli e dell’Ucciardone e a tutti gli altri universitari, coordinato dalla delegata dell’ateneo Paola Maggio e dalla docente Alessandra Sciurba. Il tema sarà l’identità e parteciperanno tutti i docenti dei corsi di laurea degli iscritti. Non è ancora stato attivato il quarto polo previsto dall’accordo nell’università Kore di Enna, che coprirebbe gli istituti carcerari del centro Sicilia, oltre a Enna anche Caltanissetta, San Cataldo e Piazza Armerina. “Abbiamo ricevuto richieste di detenuti dirottati in altri atenei”, dice Agata Ciavola delegata della Kore. Così, ad esempio, un giovane detenuto di Enna si è potuto iscrivere a Catania, dopo una mobilitazione partita dai genitori, con tutte le difficoltà per garantire per lui le lezioni. La sfida resta il reinserimento sociale di una popolazione carceraria, che parte spesso da livelli di istruzione non elevata, che non li abilita ad accedere ai corsi di laurea: “I dati nazionali confermano che solo il 2 per cento dei 60mila detenuti possiede una laurea, il 57 per cento ha una licenza di scuola media e il 19 solo la licenza elementare - dice il professore Giovanni Fiandaca, garante regionale dei diritti dei detenuti - In Sicilia il livello medio di istruzione è ancora più basso”. L’altro nodo riguarda i fondi: l’ultima finanziaria regionale ha previsto uno stanziamento di 150mila euro per i poli universitari siciliani. Un tesoretto, ma che non basta per migliorare i servizi. Sardegna. Colonie Penali Agricole, Sdr: “Indispensabili tavoli tecnici per rilancio e futuro”   Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2023 Le tre Colonie Penali della Sardegna hanno necessità di una “ristrutturazione” non solo architettonico-logistica ma anche giuridico-gestionale-regolamentare solo così possono svolgere appieno il ruolo di recupero sociale per i detenuti offrendo formazione e lavoro di qualità nell’ambito di produzioni agro-alimentari e turistiche. È in sintesi quanto emerso nel corso dell’incontro-dibattito “Colonie Penali in Sardegna: quale futuro?”, svoltosi a Oristano per iniziativa della Camera Penale della città di Eleonora e l’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. L’obiettivo di un rilancio non può prescindere dall’avvio di tavoli tecnici interistituzionali con diverse figure professionali, magistrati, amministratori locali e regionali per delineare un percorso da presentare al Ministero della Giustizia e al Parlamento. Dopo l’introduzione della Presidente della Camera Penale Rosaria Manconi è stato avviato il dibattito coordinato da Maria Grazia Caligaris, fondatrice di SDR, con l’impegno di un nuovo approfondimento. A sottolineare gli aspetti problematici e quelli del rilancio è stato il Direttore della Casa di Reclusione di Isili e Vice Provveditore Marco Porcu. È necessario - ha detto - creare un sistema che sia appetibile per il detenuto, con regole di vita diverse, garantite con un apposito regolamento. Salvaguardare la sicurezza e la qualità della vita di chi sconta la pena ma promuovere società a gestione pubblico-privata per gestire in maniera imprenditoriale nuove opportunità per sviluppare le eventuali aziende agricole, agro-turistiche e turistico-ambientali-archeologiche. Una struttura efficiente non può essere condizionata da un regolamento la cui adozione risale al 1920 né possiamo dimenticare che nelle colonie agricole il lavoro penitenziario deve essere finalizzato al trattamento come strumento riabilitativo. Occorre quindi trovare un punto di sintesi. Sugli aspetti legati al territorio sono intervenuti i Sindaci. In particolare il primo cittadino di Isili Luca Pilia ha ricordato che per la cittadina del Sarcidano la Colonia Penale ha avuto, soprattutto nel passato, un positivo ruolo, con esperienze e collaborazioni significative con la Direzione della Casa di Reclusione. Diversa la situazione per Is Arenas che come ha ricordato il Vice Sindaco Simone Murtas, dista 30 chilometri dal Comune di Arbus, ricordando la necessità di una maggiore collaborazione tra le amministrazioni. Più difficile la situazione per Mamone-Onanì che la Sindaca Clara Michelangeli ha definito “drammatica”. Il Comune, che tra l’altro rivendica la restituzione di 700 ettari abbandonati dal Ministero, è chiamato a intervenire quando ci sono problemi di carattere sanitario o di gestione di emergenze ambientali. Il degrado di un’ampia parte di territorio preoccupa l’amministrazione locale, soprattutto per il rischio incendi che comprometterebbe la vita delle aziende agricole limitrofe, e la mancanza di continuità nella direzione della Colonia che impedisce una fattiva collaborazione. Totale disponibilità per una collaborazione interistituzionale per trovare le migliori soluzioni da parte dei Presidenti dell’ANCI Emiliano Deiana e del Consiglio Autonomie Locali Paola Secci, pur sottolineando la necessità di una chiara scelta da parte del Ministero e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per garantire l’esercizio di una pena alternativa al carcere. Proposte e problematiche attuali e necessità di soluzioni sono state evidenziate dai rappresentanti della Polizia Penitenziaria. In particolare Edoardo Leonardo, segretario generale aggiunto della Cisl FS Penitenziaria ha posto l’accento sulla necessità di promuovere un rilancio delle Colonie Penali attivando diversi canali a partire dal personale, dai mezzi e con l’attivazione di produzioni aziendali per renderle un luogo ideale per il recupero dei detenuti, soprattutto a quelli con problemi di tossicodipendenza. Fabrizio Piu segretario del Sinappe di Oristano ha messo l’accento invece sulla permanenza nella Colonia Penale di Isili di 25 internati e sull’assenza di un presidio sanitario psichiatrico. Ha quindi sollecitato un intervento da parte dell’assessorato della Sanità. Per Paolo Mocci, Garante dei Detenuti del Comune di Oristano, le Colonie Penali, come sono attualmente, non avranno un futuro perché la Sardegna è destinata a ospitare quasi esclusivamente detenuti in Alta Sicurezza, quindi nelle carceri chiuse. Economicamente - ha osservato - non è vantaggioso ristrutturare le Colonie Penali sarebbe invece opportuno dare vita alle Case Lavoro che sembrano rispondere meglio ai bisogni locali. Il Direttore della Confagricoltura di Oristano Roberto Serra ha ricordato che il tema delle Colonie Penali è stato affrontato alcuni anni fa. Tuttavia abbiamo incontrato difficoltà per i limiti organizzativi e regolamentari. Occorre quindi aumentare le collaborazioni con i Comuni e le aziende. La consigliera regionale Laura Caddeo ha messo l’accento sulla necessità di affrontare le problematiche detentive come questioni che riguardano tutti, sottolineando gli aspetti culturali che sottendono al concetto di libertà. Dobbiamo cambiare - ha sottolineato - il modo di considerare lo stato detentivo e utilizzare figure professionale capaci di sostenere chi si trova in difficoltà. Penso che sia necessario però anche creare un rapporto stretto con le comunità e con la società. Da qualche ora non più Capo del Dipartimento, Carlo Renoldi ha sottolineato che il carcere è parte del territorio. Sanità, lavoro formazione professionale, scuola sono di competenza delle Regioni. È importante ricordare che il lavoro penitenziario è un elemento fondamentale del trattamento rieducativo teso alla risocializzazione. Oggi negli Istituti su 56mila detenuti, 15/16 mila lavorano per l’amministrazione, e svolgono attività domestiche scarsamente professionalizzanti pagante in maniera modesta. Solo 2.500 persone lavorano alle dipendenze di privati che fruiscono di una detassazione grazie alla legge Smuraglia, di qui l’importanza di creare reti con le aziende e coinvolgere la Magistratura di Sorveglianza. La Colonia Agricola come momento produttivo - ha ricordato - spetta al privato, l’amministrazione mette a disposizione luoghi e professionalità educativa e sicurezza fa entrare in carcere l’impresa privata. C’è un problema di personale e di detenuti a cui abbiamo pensato di porre rimedio con interventi mirati. Nel 2023 avremo i Direttori, i Funzionari Giuridico Pedagogici, funzionari contabili, assistenti tecnici e ovviamente il personale penitenziario, senza queste figure non è possibile fare alcunché. Milano. Il silenzio dopo l’evasione dal carcere minorile: “Rotto il dialogo con i detenuti” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 14 gennaio 2023 A 20 giorni dalla fuga dei 7 ragazzi, trasferito il 50 per cento dei detenuti. Il tamtam mediatico seguito alla clamorosa evasione di sette minori dall’Istituto penale per minorenni Beccaria si è già spento in un assordante silenzio. Eppure dentro le mura delle carceri in ogni parte d’Italia i ragazzi dimostrano continuamente un forte disagio per le condizioni detentive: nel giro di poche settimane ci sono stati il ferimento degli agenti di polizia penitenziaria a Bologna, le aggressioni e gli incendi a Nisida, Catania, Palermo e Treviso, l’evasione di un diciassettenne egiziano a Torino e i disordini a Casal di Marmo scoppiati per il ritardo nella somministrazione di ansiolitici di cui in molti casi, pur sotto prescrizione medica, si fa un uso ormai abituale. Al Beccaria, come risposta alle fughe e alle rappresaglie che sono seguite, ci sono stati trasferimenti in istituti lontani o in carceri per adulti. Da quaranta, gli ospiti sono diventati una ventina. “Almeno metà di loro potrebbe essere trattata a livello comunitario. Ma sul territorio non c’è una rete di strutture forte e flessibile al punto da sostenere il dovere di rieducare senza sbarre quei ragazzi difficili” - riflette il cappellano don Claudio Burgio che anche venerdì mattina era all’istituto Galilei di via Paravia, a San Siro, a parlare con centinaia di studenti. È il vaso di Pandora, un gatto che si morde la coda. Sempre più spesso il carcere, soluzione che dovrebbe essere riservata solo a chi è giudicato ancora responsabile di pericolosità sociale, diventa deriva quasi scontata per adolescenti che non trovano posto altrove e restano a vagabondare consolidando i rapporti con la criminalità sul territorio. “Ma il carcere non è la soluzione. Stigmatizza, fa sentire i ragazzi dei delinquenti senza appello, e il risultato non arriva: si danno poche possibilità di sperimentare identità diverse”. Al Beccaria le tensioni erano molto alte, nei giorni precedenti alla breve fuga dei sette e ai disordini che sono seguiti. I giovani provocano spesso le autorità con strafottenza, stretti in un istituto chiuso alle osmosi con adolescenti esterni e ostile alla pratica regolare degli sport di gruppo in spazi come la palestra e il campo da calcio. D’altro canto gli agenti, pochi e inesperti perché in continuo turn over, cercano di mantenere il controllo ma talvolta utilizzano maniere forti che possono alimentare altre rappresaglie, com’è successo di recente. “Questo tipo di carcere non riesce ad essere comunità, luogo di rinascita e benessere con cui i ragazzi interagiscono e si confrontano. È come una famiglia in cui si è rotto il patto di fiducia, la relazione educativa tra adulti e figli” aggiunge don Burgio. In questo meccanismo la criminalità di ritorno e il tasso di recidiva aumentano. I dati della Procura del Tribunale per i minorenni di Milano parlano chiaro: nell’ambito del Civile le segnalazioni arrivate dai servizi sociali, dalle scuole, dalle forze di polizia e dagli enti sanitari - su situazioni di grave disagio che non erano mai emerse - sono cresciute del 37 per cento. Sotto il profilo penale, gli autori di reato sono aumentati del 24 per cento rispetto all’anno scorso. Sette reati su dieci sono compiuti in gruppo, soprattutto da baby gang composte a loro volta da ragazzi di origine straniera per il 70 per cento. Il 14 per cento di loro risultano senza fissa dimora: minori stranieri non accompagnati di cui ci si accorge solo nel momento in cui delinquono e vengono intercettati dalle forze dell’ordine. Evidenze da considerare, a maggior ragione se si pensa al flusso record di minori non accompagnati che arriva a Milano, talvolta in fuga da comunità dove erano stati inseriti in altre zone d’Italia. Enorme lo sforzo messo in campo per collocarli nelle strutture di un sistema che è già saturo: nel 2022 ci sono stati 1.174 ricorsi, con una crescita rispetto all’anno scorso del 28 per cento.  Benevento. Solidarietà al carcere di Capodimonte: detenuti incontrano i propri cari di Diego De Lucia anteprima24.it, 14 gennaio 2023 La solidarietà per i più fragili arriva dalla Casa Circondariale di Capodimonte. Questa mattina si è svolta una breve ma intensa cerimonia presso la struttura carceraria di Benevento che si è caratterizzata per la dimostrazione tangibile di vicinanza di una parte almeno di quel mondo ristretto ai bisogni più forti della società civile. La manifestazione, è consistita in un momento di condivisione con le persone care e i detenuti, con una tombolata e momenti di gioia. Presenti le associazioni della Consulta delle Donne presieduta da Angela De Nisco, e hanno aderito all’iniziativa odierna anche La Voce delle Donne della presidente Rita Velardi, la Consulta delle Donne di Pietrelcina presieduta da Stefania Gliemo, il Lions Club Benevento Host, il Lions Club Arco di Traiano, i volontari del Fai, l’Unicef e il Telefono Azzurro. Il direttore della Casa Circondariale Gianfranco Marcello ha sottolineato: “Pur nella scarsità delle risorse a nostra disposizione ci tenevamo particolarmente a far vivere un momento di gioia ai nostri detenuti e ai loro figli e un ringraziamento particolare va a tutte le associazioni che hanno voluto aderire a questa iniziativa”. L’occasione ha anche consentito di fare ancora una volta il punto sulla carenza ed inadeguatezza degli organici a presidio della Casa Circondariale: ”Purtroppo anche questa struttura, seppur in maniera più lieve rispetto agli altri istituti penitenziari della Regione, è afflitta dal problema del sovraffollamento e il personale non è mai abbastanza per far fronte alle varie esigenze. Molti, infatti, negli ultimi tempi stanno andando in pensione e non si riesce a tamponare con le nuove assunzioni, essendo di un numero inferiore rispetto a coloro che si avviano al pensionamento. Nonostante ciò puntiamo ad organizzare tante altre iniziative e prossimamente cercheremo di sistemare il campo sportivo presente qui accanto alla palestra”. La presidente della Consulta delle Donne Benevento, Angela De Nisco ha precisato: “Volevamo regalare una giornata diversa ai detenuti e ci auguriamo che quello di oggi sia anche un momento culturale per provare a donargli un futuro migliore un domani che saranno fuori di qui”. Albanese: “Porto al cinema una storia di detenuti e il potere liberatorio del teatro” di Fabio Canessa La Nuova Sardegna, 14 gennaio 2023 Nel film “Grazie ragazzi” Antonio Albanese è un attore che di fronte alla mancanza di offerte di lavoro accetta un posto come insegnante di un laboratorio teatrale all’interno di un istituto penitenziario. All’inizio titubante, scopre del talento nell’improbabile compagnia di detenuti al punto di impegnarsi a convincere la severa direttrice del carcere a valicare le mura della prigione per mettere in scena “Aspettando Godot” di Samuel Beckett su un vero palcoscenico. Albanese, ormai con Milani ha un rapporto stretto. Come si trova a lavorare con lui? “Mi ha sempre proposto temi che mi interessano particolarmente e lavoriamo molto bene insieme. Riccardo è un regista garbato che ha una grande passione per gli attori e questo fa diventare tutto più semplice. Siamo contenti del risultato di questo film e orgogliosi di accompagnare l’uscita qua in Sardegna. Io poi per un mese mi fermerò a Cagliari”. Per quale motivo? “Per lavoro. Curo la regia dell’opera “Gloria” di Francesco Cilea che aprirà la stagione 2023 del Teatro Lirico. Lo scorso maggio sono venuto con la messa in scena di un “Don Pasquale” che avevo fatto a Verona, ci siamo trovati bene e mi hanno dato questa possibilità. Siamo in Sardegna da un paio di giorni con la mia costumista, la mia scenografa, la mia assistente. Debutteremo il 10 febbraio”. Tornando a “Grazie ragazzi”, come si è preparato per un film che affronta una realtà particolare come quella carceraria? “Mi è capitato più volte di incontrare dei detenuti. Sono per esempio stato più volte in quello femminile della Giudecca. E Nicola Rignanese, uno degli attori del film che è un mio grande amico e lavora spesso con me, è stato per anni assistente alla regia di Armando Punzo della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra. Per il resto abbiamo cercato di rispettare la storia vera sulla quale il film è basato per proporre un racconto pieno di umanità che ha un messaggio onesto e puro, di due estremi che si incontrano. Inoltre è un’ode al teatro, a quello che la cultura in genere può fare”. Dal punto di vista attoriale qual è stato l’aspetto più stimolante del progetto? “Ritrovarmi in una combinazione che conosco, quella che mette insieme il teatro e il cinema. E di cercare di creare umanità con il teatro, seguendo il regista e con l’idea di rispettare sempre il pubblico per poter dare un’emozione agli spettatori. Far stare bene le persone è sempre l’obiettivo che mi pongo, quando riesci a far questo anche solo minimamente è una grande soddisfazione”. L’attore-insegnante del laboratorio teatrale di “Grazie ragazzi” propone di mettere in scena “Aspettando Godot”. Cosa dà al film un testo difficile come quello di Samuel Beckett? “Anche questo aspetto è stato ripreso dalla storia originale svedese, degli anni Ottanta. Ritrovandosi con questi detenuti il protagonista aveva fatto una considerazione semplice quanto significativa: loro sanno aspettare. E ha quindi preso questo testo, potente e anche molto difficile da capire e mettere in scena. Rileggendolo mi sono accorto che è di una contemporaneità incredibile”. La Carta stracciata dallo Stato di Michele Ainis La Repubblica, 14 gennaio 2023 Dalla sorte dei migranti al caso di Cospito, la Costituzione viene maltrattata. La vita pubblica è intessuta di dubbi e di domande, che interrogano il nostro senso di giustizia. La sorte dei migranti o quella d’un detenuto in sciopero della fame contro i rigori del 41 bis, o ancora i raid degli ambientalisti - sono soltanto alcuni dei problemi sollevati quotidianamente dalla cronaca. Ma le risposte si trovano - a volerle leggere - nella Carta del 1947, un testo i cui artefici sono ormai morti e sepolti. Curioso, non è vero? Però succede lo stesso, per i credenti, con il Corano o con la Bibbia. E d’altronde la Costituzione è una “Bibbia laica”, diceva il presidente Ciampi Sicché proviamo a consultarla, benché quel testo abbia ben pochi lettori. A proposito dei salvataggi in mare, innanzitutto. Il primo decreto legge del 2023 li rende impervi, se non proprio vietati. Giacché le navi delle Ong devono dirigersi verso un “porto sicuro”, individuato dall’autorità governativa. Ancona, nel caso della Ocean Viking; e pazienza se il viaggio si prolunga per giorni, affrontando onde alte sei metri. Pazienza pure per gli altri naufraghi incontrati durante la navigazione, dato che c’è il divieto d’imbarcarli. Per sovrapprezzo si contemplano sanzioni decise dai prefetti, oltre al fermo della nave. Così i costi per le Ong salgono, la loro presenza in mare si riduce. Con quale giustificazione? Perché non possiamo consentire alle navi private di sostituirsi allo Stato, ha detto il ministro Piantedosi. Errore: è la Costituzione a consentirlo. Attraverso il principio di sussidiarietà orizzontale (articolo 118), che favorisce “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. Dunque o sbaglia il governo, o è sbagliata la Costituzione. Parrebbe più plausibile la prima alternativa. E c’è poi il caso di Alfredo Cospito, militante anarchico in regime di carcere duro, sebbene non abbia mai ucciso nessuno. Lui è in sciopero della fame da tre mesi, ha già perso 35 chili, però non smette, non desiste. Non per se stesso, dice; bensì per gli altri 800 detenuti sottoposti al 41 bis. E che cos’è questa misura? Una forma di carcerazione medievale che vieta ogni contatto persino con i figli che abbiano più di 12 anni, e che lascia il recluso in isolamento totale, senza libri né giornali. Misura necessaria - affermano i suoi difensori - per i criminali più pericolosi. Ma ad accusarla è la Costituzione, oltre a una macabra statistica (l’anno scorso 84 suicidi nelle carceri italiane, un record). Dice l’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tuttavia non c’è clemenza nel carcere duro, come d’altronde non c’è speranza di recupero sociale per chi subisca l’ergastolo ostativo, il “fine pena mai”. Da qui le censure di vari organismi internazionali; quelli nazionali, viceversa, finora hanno chiuso un occhio, o meglio tutt’e due. Accecando in ultimo la Costituzione, povera donna. Terzo caso: i giovani ambientalisti di Ultima Generazione. Anche qui una storia di carceri e manette, anche qui la mano dura dello Stato contro chi viola le leggi dello Stato, sia pure in nome della legge più alta, la Costituzione dello Stato italiano. L’episodio più recente (2 gennaio) chiama in causa dei ragazzi colpevoli d’avere imbrattato la facciata del Senato, spruzzando vernice lavabile su quegli austeri muri. Epilogo: due denunce, tre arresti, un processo per direttissima. Perché la loro azione è riprovevole, come no. Ma se ogni iniziativa pacifica contro l’uso dei combustibili fossili cade in un vuoto d’attenzione, se l’emergenza climatica mette a repentaglio la sopravvivenza stessa del pianeta, allora il meno che possa capitarti è una crisi di disperazione. Anche perché i politici che fanno orecchie da mercante sono i medesimi che l’anno scorso riscrissero l’articolo 9 della Costituzione, imponendo al nostro Stato di tutelare “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. Ecco infatti il vero nemico dello Stato: se stesso, quando sconfessa i propri principi fondativi. Salute mentale. I malati dimenticati di Massimo Ammaniti La Repubblica, 14 gennaio 2023 Dopo ripetute lettere ed esposti dei familiari dei malati psichiatrici anche i Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale si rivolgono con una lettera appello al Ministro della Sanità denunciando lo stato di agonia in cui versa l’assistenza psichiatrica. Ma non si tratta dell’agonia concettuale della psichiatria di cui ha scritto recentemente Eugenio Borgna in un libro con questo titolo, riguarda soprattutto l’assistenza che viene data alle persone affette da disturbi psichiatrici e agli stessi familiari che ne sono inevitabilmente coinvolti. Le sofferenze psichiche infatti contagiano gli stessi familiari dato il legame inestricabile che si crea, dovendo fronteggiare quotidianamente le difficoltà del paziente. Va anche aggiunto che la legge 180 del 1978, col progressivo superamento degli ospedali psichiatrici, era un primo passo per realizzare una rete di servizi in grado di rispondere alle esigenze differenziate dei pazienti, processo questo avviato, ma che poi si è sempre più arenato. Durante le fasi acute del disturbo si possono richiedere periodi di ricovero con possibili forme di contenimento più continuative delle tre settimane previste oggi, anche per salvaguardare l’incolumità del paziente e dei suoi familiari. Nelle fasi successive si richiedono interventi psicoterapici e farmacologici per favorire la reintegrazione della personalità dei pazienti e l’inserimento sociale più attivo. Qualora si instauri una cronicizzazione del disturbo occorre realizzare soluzioni residenziali, ancora più necessarie quando non ci sia più la famiglia ad occuparsi del proprio familiare in difficoltà. Naturalmente per realizzare questi progetti occorrono psichiatri e psicologi qualificati data l’usura mentale per il contatto prolungato con la malattia mentale che richiede costanti aggiornamenti e supervisioni. Purtroppo il numero degli operatori si è sempre più ridotto, ne mancano più di 10.000 e quelli in servizio sono costretti a lavorare con ritmi massacranti senza potersi dedicare adeguatamente ad ogni singolo paziente. E poi durante la recente pandemia le condizioni della salute mentale della popolazione si sono fortemente deteriorate soprattutto fra i giovani ed anche fra le persone anziane. Come viene riportato in numerose indagini i disturbi alimentari degli adolescenti sono addirittura raddoppiati, come anche i disturbi di ansia e di depressione che colpiscono più del 20% della popolazione giovanile. Anche i tentativi di suicidio fra gli adolescenti sono aumentati addirittura del 75%, una vera pandemia che suscita dolori e sofferenze nelle famiglie. E come ha recentemente scritto in un giornale un padre che ha dei figli adolescenti con gravi difficoltà psichiche si sente solo e disperato nel dover affrontare i loro comportamenti provocatori e autolesivi, che richiederebbero ricoveri più prolungati. Purtroppo i vincoli giuridici non lo consentono, a meno che non li denunci alla giustizia penale e il giudice possa disporre il prolungamento delle restrizioni terapeutiche. Sarebbe una soluzione estrema e poco accettabile anche perché creerebbe in famiglia un clima familiare incandescente che peserebbe sullo stesso percorso terapeutico. Purtroppo nel Pnrr non è stato previsto il potenziamento dei servizi psichiatrici, per cui giovani e anziani rischiano di essere abbandonati a se stessi e ad una emarginazione sociale. È vero che si è approvato il bonus psicologico, ma rappresenta una goccia nell’oceano e riguarda perlopiù persone con difficoltà psicologiche non gravi. L’investimento nei servizi psichiatrici, ricordiamolo, non solo risponde a legittime esigenze umane e sociali, determina anche ricadute economiche positive dal momento che promuove un ruolo più attivo nella società gravando meno sull’assistenza pubblica. Migranti. La storia di Enukidze, vittima dell’inferno dei Cpr di Marika Ikonomu, Alessandro Leone e Simone Manda Il Domani, 14 gennaio 2023 Il 18 gennaio del 2020 il 37enne georgiano è morto nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo Ieri è iniziata il dibattimento del processo a carico del direttore e di un operatore, accusati di omicidio colposo. È l’una di notte del 18 gennaio 2020. Il 37enne georgiano Vakhtang Enukidze si trova all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo quando comincia ad avvertire difficoltà respiratorie. I compagni di stanza chiedono ripetutamente l’assistenza di un operatore attraverso il citofono della struttura, ma non ottengono risposta. Enukidze viene soccorso solo 9 ore dopo, alle 10. Trasferito all’ospedale di Gorizia, muore alle 15:37. Per questa vicenda la procura di Gorizia ha chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di Simone Borile, direttore del Cpr, e dell’operatore di turno al centralino della struttura, Roberto Maria La Rosa, con l’accusa di omicidio colposo. Ieri il processo è entrato nella fase dibattimentale, ma la difesa degli imputati ha chiesto preliminarmente di revocare la costituzione di parte civile della famiglia e del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Il giudice ha rinviato la decisione all’udienza di marzo. La causa della morte - La causa ufficiale della morte è edema polmonare e cerebrale per un cocktail di farmaci e stupefacenti, come accertato dall’autopsia eseguita su richiesta della procura. Gli esami tossicologici hanno evidenziato la presenza di colorfenamina, un antistaminico, fenacetina, un antipiretico analgesico, e lidocaina, un anestetico e antiaritmico, ma nessuno di questi risulta somministrato dagli operatori sanitari che, secondo il perito, hanno agito correttamente. Il 22 dicembre 2019, durante una visita medica, Enukidze avrebbe riferito di essere allergico ad alcuni farmaci, senza sapere quali, di essere fumatore di tabacco, bevitore di alcol, tossicodipendente di hashish, cocaina, eroina, metadone e di soffrire di insonnia. Non è chiaro quando e come Enukidze sia riuscito a procurarsi questi farmaci. Nella loro ultima chiamata, la sorella Asmat aveva trovato la sua voce diversa: “Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, di cercare di farlo uscire dal Cpr”. La sua morte ha poi spinto l’ambasciatore georgiano in Italia, Konstantine Surguladze, a interessarsi all’accaduto. La tesi del pestaggio - Ma questa non è l’unica versione della storia. Alcune associazioni sostengono che il georgiano sia stato picchiato dalla polizia, come sembrerebbe confermare Bibudi Anthony Nzuzi, testimone indiretto all’epoca trattenuto nel Cpr: “Lui è caduto ed è stato pestato, poi gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti, l’hanno tirato via e li hanno rinchiusi dentro la stanza. La sera lui lamentava dolori e non si sentiva bene. È andato a dormire e non si è più risvegliato”. Per Yasmine Accardo, referente della campagna LasciateCIEntrare, l’accusa è difficile da provare, ma “non siamo mai stati convinti di quello che è stato scritto al riguardo. Troppe volte, quando qualcuno è stato picchiato, la colpa non è mai stata data, in particolare quando era stato picchiato dalle forze dell’ordine”. La tesi del pestaggio non ha mai trovato spazio nelle indagini. Sulla questione, Borile, raggiunto al telefono, risponde: “Non ero presente a nessun pestaggio e non ho francamente idea che possa essere avvenuto senza che qualcuno avesse ripreso. Tutti i nostri ospiti sono forniti di cellulare e con quello possono fare quello che vogliono”. Una cosa però è certa: Enukidze avrebbe potuto salvarsi se fosse stato soccorso in tempo. “Per me Vakhtang non è deceduto per overdose da stupefacenti o da cocktail di farmaci e stupefacenti, ma è morto perché non è stato prontamente soccorso da parte degli operanti di turno all’interno della struttura”, dice Pietro Romeo, avvocato della famiglia Enukidze. La perizia sul citofono non ha infatti evidenziato alcun malfunzionamento. Sull’assistenza avrebbe influito l’altra mansione dell’addetto, quella di pulizia degli ambienti della struttura. Prima di essere intercettato con documenti non in regola e finire nel Cpr, Enukidze ha svolto diversi lavori, tra cui quello di imbianchino. “Vakhtang era una persona sincera sempre in cerca della verità e penso che sia stato anche vittima del suo carattere. Aveva tanti progetti, per questo è partito”, dice la sorella Asmat. Che aggiunge: “La mia speranza era mio fratello, purtroppo non c’è più. L’unica cosa che desidero è che la verità venga a galla e che questo caso sia da esempio perché queste cose non avvengano più”. Le criticità del Cpr - La morte di Enukidze non ha portato grandi cambiamenti nella struttura. “Avevano dimostrato di darci fiducia, ci hanno ridato gli accendini e potevamo comprarci le sigarette”, racconta Bibudi Anthony Nzuzi che vive in Italia da quasi trent’anni. “Ma in verità non è cambiato niente, perché alla fine di merda stavamo prima e di merda siamo stati dopo”, dice, descrivendo “la gabbia” in cui erano rinchiusi, “senza motivo”, senza aver commesso un reato: nove metri quadrati, con le reti sopra e sotto, in sei persone. Nzuzi, come Enukidze, faceva parte del gruppo che dal Cpr di Bari è stato trasferito a Gradisca a causa degli incendi scatenati da una rivolta. Una settantina di persone sono state caricate sui pullman e trasferite in Friuli “di punto in bianco”. La struttura di Gradisca nel dicembre del 2019 aveva appena riaperto, dopo sei anni di chiusura, e le persone provenienti da Bari erano le prime a entrare. “Siamo arrivati di notte”, continua Nzuzi, “pioveva, faceva freddo. L’accoglienza non è stata delle più calde, ci siamo ritrovati i militari in tenuta antisommossa”. Sono stati trasferiti senza che ci fossero le condizioni: non c’erano i materassi, le coperte, il riscaldamento, “non avevamo niente per poterci vestire e non potevamo nemmeno tenere i nostri telefoni”, dice l’ex trattenuto. Nel Cpr di Gradisca dopo Enukidze sono morte altre tre persone: Orgest Turia, un cittadino albanese, per overdose di metadone, Anani Ezzeddine, cittadino tunisino che si è tolto la vita, così come un ragazzo di origine pachistana. Per molti trattenuti le condizioni vissute nei Cpr sono molto peggio del carcere, anche per la mancanza di una legislazione. Senza legge - I Cpr si basano infatti su un regolamento ministeriale che non offre le garanzie e le tutele assicurate dal sistema penitenziario. Questo si ripercuote sui diritti dei trattenuti, come la salute, l’assistenza legale e la corrispondenza. L’avvocata Eva Vigato ha lavorato come consulente legale per il gestore della struttura friulana, Ekene, e dopo aver segnalato alla prefettura e al ministero dell’Interno le violazioni riscontrate è stata rimossa dall’incarico. Le avvocate spesso non riuscivano a parlare con tutti i trattenuti, che in alcuni casi passavano dalla struttura senza che venissero informati del diritto di chiedere asilo. “Ci siamo accorte che un gruppo di tunisini era transitato dal Cpr per uno due giorni, e poi non sapevamo dove fossero finiti. Non avevamo fatto in tempo a incontrarli”, spiega Vigato. Anche Andrea Guadagnini, avvocato d’ufficio che spesso assiste i trattenuti, denuncia di non essere messo nelle condizioni di fare il proprio lavoro. “Molte volte non ho possibilità di accedere al fascicolo né di parlare con il mio assistito se non due o tre minuti prima dell’udienza”, spiega. Guadagnini era l’avvocato di Turia e ha scoperto della sua morte per overdose proprio in sede di convalida al trattenimento. La somministrazione di psicofarmaci è una costante nei Cpr, usati anche per calmare e sedare le proteste. Ma in alcuni casi manca un serio controllo, come rileva anche la procura di Gorizia. Non sempre per le avvocate infatti era possibile accedere alle informazioni sanitarie e “il resoconto delle visite, soprattutto psicologiche, spesso non veniva caricato”, dice Vigato. Chi è il gestore - Dopo la morte di Enukidze, Vigato ha avuto uno scambio con il direttore del Cpr Borile, che le ha detto di “non preoccuparsi”. “Ci ha praticamente esautorato dal nostro incarico”, riporta l’avvocata. Lei e i suoi colleghi avevano accettato il lavoro al Cpr con l’unica condizione che lo potessero svolgere nella totale libertà. La cooperativa Ekene, che gestisce anche il Cpr sardo di Macomer, è diretta emanazione di Edeco, nata nell’agosto 2011 con il nome di Ecofficina. All’inizio, gestiva servizi educativi e sociali nel padovano, fino alla svolta nel settore dell’accoglienza nel 2014. Edeco si è aggiudicata in poco tempo strutture importanti in Veneto come quella di Cona, il più grande centro di accoglienza straordinaria della regione, e di Bagnoli di Sopra. Simone Borile - indicato nei processi a suo carico come “amministratore di fatto” della cooperativa - non compare mai nelle visure camerali. Il suo nome è legato al crack di Padova Tre, azienda che si occupava di raccolta dei rifiuti, in bancarotta con un buco di 30 milioni che non è mai stato sanato. I vertici dell’azienda sono stati indagati e processati con l’accusa di peculato, frode nelle pubbliche forniture e fatture false. Ma non è l’unico processo in cui è coinvolto Borile: a Padova e Venezia ce ne sono altri due in corso che riguardano proprio Edeco, per la gestione degli hub di Bagnoli e Cona. Tra le accuse: turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico nel primo, truffa ai danni dello stato e frode nel secondo. In entrambi sono imputati anche funzionari della prefettura ed ex prefetti, accusati di aver avvertito la cooperativa prima delle ispezioni e concordato orario e giorno delle visite. “Quindi l’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dal Cpr è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione”, sostiene Vigato. E la mancanza di controllo da parte delle istituzioni finisce per avere conseguenze sulle vite umane, come nel caso di Vakhtang Enukidze: per Accardo “la cosa incredibile è che una persona possa morire in questo modo nelle mani dello stato. Se è nelle mani dello stato, quindi, lo stato ha una responsabilità”. Migranti. Morì al Cpr di Gradisca, l’istanza delle difese: parti civili da escludere di Laura Borsani Il Piccolo, 14 gennaio 2023 Il decesso al Centro per i rimpatri avvenne nel gennaio 2020. Opposizione su Garante nazionale e congiunti della vittima. Hanno richiesto l’esclusione dal processo di entrambe le parti civili. Quella del Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, e quella dei congiunti del 38enne georgiano Vakhtang Enukidze, che era deceduto il 18 gennaio 2020 al Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo, a causa di un edema polmonare e cerebrale, dopo aver assunto una serie di sostanze. Chiamati a rispondere dell’ipotesi di omicidio colposo, legato a comportamenti omissivi, sono Simone Borile, 53 anni, padovano, all’epoca direttore del Cpr, e Roberto Maria La Rosa, 58, che quella notte era operatore all’interno della struttura,il quale avrebbe dovuto, secondo l’accusa, raccogliere le chiamate di emergenza provenienti dalle stanze degli ospiti. Venerdì si è aperto il processo davanti al giudice monocratico Francesca De Mitri. Con i difensori, avvocati Giorgio Gargiulo e Mattia Basso, a sollevare subito le eccezioni circa l’inammissibilità delle parti civili, nel mettere in discussione il “regolare incardinamento del rapporto processuale di tali soggetti”. Hanno fatto riferimento alla normativa che ha istituito l’Autorità di garanzia per concentrare l’attenzione sull’attribuzione dei compiti, argomentando i motivi dell’esclusione. “Ai fini della legittimazione in qualità di parte civile il fatto dev’essere fonte di danno diretto per la lesione di un interesse soggettivo specificatamente attribuito al Garante dalla legge”, ha affermato l’avvocato Basso. E “l’imputazione contestata in questo processo è quella di omicidio colposo, un fatto di reato non collegabile alla ventilata condizione di estremo degrado del Cpr. Non vi è una fonte di ancoraggio tra la morte del georgiano e un’asserita lesione delle prerogative del Garante”. Sulla stessa linea l’avvocato Gargiulo, che ha rimarcato la distinzione tra la contestazione di un reato penale e i diritti in ordine alla libertà personale: “Il Garante è preposto a vigilare, visitare i luoghi di restrizione e verificare il rispetto dei diritti personali, diversamente dagli adempimenti circa il diritto alla salute di fronte ad un atto autolesionistico che si è ipotizzato non evitato e pure evitabile”. In sostanza, “esiste un profilo di non connessione del fatto contestato e i compiti di vigilanza del Garante. Manca il nesso di conseguenza immediata e diretta del suo controllo”. I difensori hanno quindi rilevato che l’atto di costituzione di parte civile dei congiunti non è valido, in quanto le sottoscrizioni sulla procura speciale sono state autenticate da un notaio di nazionalità georgiana, anziché da un professionista italiano o dall’ambasciata. Netta la posizione espressa dal pubblico ministero, che, assieme agli avvocati di parte civile, ha richiesto il rigetto dell’esclusione del Garante. Il pm infatti ha parlato del precipuo compito dell’Autorità di garanzia ai fini della tutela dei diritti alla salute, alla vita e in ordine ai luoghi di restrizione della libertà personale, nel quale rientra anche la violazione penale contestata nell’atto di imputazione. Dunque, “il danno è diretto a quegli interessi di cui l’Autorità di garanzia è titolare”, ha affermato il pm. Quanto alla costituzione dei congiunti, s’è rimessa alla decisione del giudice. L’avvocato Jennifer Schiff (titolare è l’avvocato Riccardo Cattarini) ha sottolineato che “il Garante nazionale è portatore di interessi propri e diretti anche in ragione del tipo di reato contestato, la sua stessa funzione legittima la costituzione di parte civile. Ha tutto il diritto ad essere presente nel processo nel momento in cui ha perso la vita una persona “ristretta” in un Centro”, ritenendo peraltro tardiva l’eccezione sollevata in questa sede piuttosto che in fase di udienza preliminare, e infondata nel merito. L’avvocato Rossana De Agostini (ha sostituito il collega Pietro Romeo, del Foro di Reggio Calabria) a sua volta ha chiesto di insistere per l’ammissione dei congiunti, “cittadini stranieri extracomunitari”: le loro firme sono state autenticate comunque da un pubblico ufficiale. Migranti. Rotta balcanica, i corpi doloranti e la cura del “carrettino verde” di Lorena Fornasir Il Manifesto, 14 gennaio 2023 A Trieste, da tre anni e ogni giorno, un carrello colorato, pieno di bende e pomate, si fa testimone di queste vite offese nel fisico che i confini ci restituiscono a pezzi. Un “non luogo” di frettoloso passaggio verso la stazione dei treni o degli autobus, che sorgono affiancate, è diventato il Luogo della Cura. Sono quasi tre anni di presenza quotidiana per dare corpo a questa pratica: la Cura è incontro di corpi, “un corpo chiama, un corpo risponde”. Evento assai raro nelle nostre società, dove non siamo il nostro corpo ma abbiamo un corpo che riceviamo dallo Stato con la carta d’identità, configurato dall’industria della moda, dello sport, dall’apparato sanitario, dal turismo, dalle innumerevoli abitudini che hanno tutte uno sfondo commerciale. Ogni giorno nella piazza del mondo a Trieste curiamo le persone migranti che giungono dalla terribile rotta balcanica. Incontriamo “corpi di dolore”, corpi offesi, denutriti, assetati, affamati, ricoperti di terra, fango, sudore, ferite, vesciche. Chi arriva è un sopravvissuto. Di tanti altri non conosciamo il destino cui sono andati incontro attraversando le ripide montagne della Croazia, della Slovenia, del Carso, i suoi fiumi vorticosi, i boschi selvaggi. Sappiamo che molti sono morti cadendo in una buca di dolina, o annegando in un corso d’acqua mentre cercavano di scappare dalla polizia che li inseguiva, o impallinati come cervi, oppure semplicemente scomparsi senza lasciare traccia se non nel disperato appello di madri, figli, fratelli, sorelle che li cercano invano. Ogni giorno il carrettino verde della cura, pieno di bende e pomate, si fa testimone di questi corpi offesi che i confini ci restituiscono a pezzi. La Cura è un mandato tacito che raccogliamo da padri o madri, comunità di terre straniere, periferie urbane lontane, sconosciute, che hanno affidato i loro figli, padri, mariti, amici, compaesani, alle mani di persone che hanno a cuore la cura della vita, affinché ne ricevano l’invocazione muta a non abbandonarli. La “cura” è l’arte di esistere formando comunità, ma è anche una pratica di resistenza e di lotta. Queste tre dimensioni vanno insieme: non c’è resistenza senza lotta ma non ci sono resistenza e lotta senza cura, cioè senza costruzione di collettività basata sulla cura reciproca. Se resistenza e lotta sono i modi necessari della contrapposizione al potere, all’ingiustizia, Cura è il modo della costruzione di relazioni, comunità, società. C’è sempre stata, almeno in occidente e in particolare nella modernità, separazione fra l’attività di cura, delegata alle donne e gli altri tipi di attività, soprattutto il lavoro salariato, affidato principalmente agli uomini. La nostra pratica di strada ci insegna, oggi, che la cura per l’altro è l’attività essenziale per produrre alternative al modo di vita dominante. La Cura è anche una sorta di laboratorio simbolico che svolge una funzione di contenimento, trasformazione e riparazione del danno subito lungo il viaggio infernale dai lontani Paesi d’origine. Nella piazza del mondo, attorno al carrettino verde, donne e uomini, giovani e anziani sanno prendersi cura dell’altro, lo straniero, lo sconosciuto, chiunque sia. Si tratta in particolare dei transitanti: quelli che cercano di non lasciare qui le loro impronte per non essere un giorno respinti in base alla legge di Dublino mentre tentano di proseguire verso il mitico Nord Europa. Appaiono come ombre nella città indifferente, fino a che nell’ombra scompaiono. La pratica della Cura in strada ci insegna che sono il loro corpo, mentre noi abbiamo un corpo. Sono il loro corpo proprio mentre devono nascondersi alle polizie di dozzine di Stati che vogliono impadronirsi del loro corpo per punirlo d’aver osato di essere un corpo al di fuori del loro potere sui corpi. Il lungo cammino dal Medio Oriente e anche da più lontano, che chiamano game, nel significato di mettere in gioco tutto, dà loro un corpo. Nell’incontro, restituiscono anche a noi un corpo quando curiamo i loro piedi feriti, quando diamo loro da mangiare dopo giorni di digiuno, quando diamo loro scarpe, vestiti e sacchi a pelo noi riceviamo da loro il nostro corpo. Noi abbiamo cura di loro, ma anche loro hanno cura di noi. La cura è reciproca o non è. Ci portano le loro esistenze dimidiate, le loro speranze di vita ma anche la tragedia delle morti. Se il Mediterraneo è diventato un mare di cadaveri, una grande tomba subacquea, anche nei fiumi lungo il tragitto dei Balcani o nelle fosse di dolina del Carso, o nei dirupi dei monti, i morti non si contano. Il 5 agosto del 2022, accanto al carrettino verde della cura, è volutamente nato il “Lenzuolo delle madri di frontiera”, sulla scia delle madri dei desaparecidos, per dare un nome a chi non è sopravvissuto. Sulla sua bianca trama viene raccontata la storia della migrazione di questi ultimi anni e il filo rosso prende il posto del sangue con cui questi figli si sono ricongiunti con la madre terra. Nel ricamo di mani che curano la vita, cesellando un nome o riparando una ferita, si concretizza la valenza simbolica del carrettino verde e della sua presenza costante sulla scena della piazza. Lui è storia e memoria, è testimonianza viva, simbolo di resistenza quotidiana; pur nella sua fragilità nutre quella sorgente inesauribile da cui sgorga, inesauribile, la domanda di vita e speranza del migrante. Nella sua semplicità, è lì fedele alla propria origine per essere sempre “dove bisogna stare” cercando di mettere al mondo ciò che ancora non c’è. Il capo di una multinazionale del petrolio presiederà Cop28. La rabbia degli ambientalisti di Giacomo Talignani La Repubblica, 14 gennaio 2023 Il sultano bin Ahmed Al Jaber, Ceo della Abu Dhabi National Oil Compan, dirigerà la prossima conferenza dell’Onu che si terrà negli Emirati Arabi Uniti. Il Climate Action Network International: “Non può esserci posto per gli inquinatori in una conferenza sul clima, men che meno presiedere una COP”. Tutto vero: a presiedere la prossima COP28, la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite che ospiterà i negoziati necessari per capire come salvarci dalla crisi climatica, sarà il Ceo di una delle più grandi multinazionali di petrolio al mondo. Una scelta che fa infuriare gli ambientalisti e lascia basiti gli stessi scienziati che da anni ricordano come per invertire la rotta del surriscaldamento sia necessario porre un freno alle emissioni derivate dai combustibili fossili come petrolio, carbone o gas. Il sultano bin Ahmed Al Jaber nelle ultime ore è stato infatti ufficialmente nominato come presidente della COP28 che si terrà a fine anno a Dubai: contemporaneamente - ruolo che non ha abbandonato - è anche Ceo della Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), società degli Emirati che pompa circa 4 milioni di barili di greggio al giorno e che punta prossimamente ad arrivare a quota 5 milioni entro il 2027. Al Jaber, 49 anni, è anche ministro dell’Industria e della Tecnologia negli Emirati Arabi, oltre che manager di società legate al mondo delle energie rinnovabili e inviato speciale per il clima del suo Paese. Lo scorso anno la COP27 in Egitto era stata sommersa di critiche per diversi risultati inconcludenti e per incongruenze che hanno aperto nel tempo a più polemiche sull’utilità, la credibilità e il ruolo stesso della Conferenza delle parti sul clima. Fra queste veniva segnalata per esempio la presenza, tra i padiglioni di Sharm El-Sheikh, del 25% in più rispetto alla COP precedente di lobbisti dell’industria fossile. Non solo: forti critiche sono arrivate anche dal fatto che non si è riusciti a specificare o sottolineare, nei testi finali, i danni causati dalle emissioni dei combustibili fossili. Prima ancora, Greta Thunberg si era rifiutata di partecipare definendo la COP come ormai una “operazione di greenwashing”. Polemiche che ora vengono ulteriormente alimentate dalla scelta di porre un Ceo di una multinazionale del greggio a presiedere i futuri negoziati. A giustificare la scelta di porre Al Jaber a capo della futura COP avrebbe prevalso però l’altro suo lato pubblico, quello dell’impegno verso le energie pulite. Il sultano è presidente di Masdar, società di energie rinnovabili che ora opera in più di 40 paesi e ha guidato diverse iniziative “verdi” tra cui la progettazione di una città “carbon neutral” da 22 miliardi di dollari alla periferia di Abu Dhabi, progetto poi interrotto. Fra le prospettive indicate da Al Jaber nella lotta alle emissioni non c’è chiaramente l’abbandono immediato all’uso di combustibili fossili, come richiede la scienza, ma ha parlato più volte dell’impegno e l’importanza delle nuove tecnologie per catturare CO2 o stoccarla. Le agenzie stampa degli Emirati, nel dare la notizia della sua nomina, parlano dell’intenzione di “apportare un approccio pragmatico, realistico e orientato alle soluzioni che porti a progressi trasformativi per il clima e per una crescita economica a basse emissioni di carbonio” e hanno ricordato la volontà del Paese di investire “nelle energie rinnovabili”.  Ma è in un intervento di Al Jaber pubblicato su Project Syndicate lo scorso agosto che si comprende meglio la visione della lotta alla crisi climatica del neo presidente COP. In quell’occasione ha ricordato ad esempio l’importanza delle rinnovabili sottolineando però la necessità di continuare con un “mix energetico” che comprende anche il petrolio o il carbone. “Eventi recenti hanno dimostrato che scollegare l’attuale sistema energetico prima di aver costruito un’alternativa sufficientemente solida mette a rischio il progresso sia economico che climatico e mette in discussione la possibilità di garantire una transizione giusta che sia equa per tutti” scrivevail sultano sottolineando che “le politiche volte a disinvestire dagli idrocarburi troppo presto, senza adeguate alternative praticabili, sono controproducenti. Mineranno la sicurezza energetica, eroderanno la stabilità economica e lasceranno meno entrate disponibili da investire nella transizione energetica”. Nella sua lettera si legge il riconoscimento dell’impatto che possono avere petrolio e gas sul clima, ma per ridurlo non viene specificato l’abbandono delle fonti fossili bensì l’incremento delle tecnologie per avere minori emissioni di carbonio. In tutto questo, gli Emirati Arabi Uniti si sono comunque impegnati a raggiungere zero emissioni nette entro il 2050. Mentre il capo della politica climatica dell’Unione Europea Frans Timmermans ha spiegato che incontrerà presto Al Jaber, da parte degli ambientalisti è arrivata una raffica di critiche alla nuova nomina. Harjeet Singh per esempio, che è a capo della strategia politica globale presso il Climate Action Network International, sostiene che la posizione del sultano rappresenta “un conflitto di interessi senza precedenti e allarmante. Non può esserci posto per gli inquinatori in una conferenza sul clima, men che meno presiedere una COP”. Stessa posizione per Alice Harrison di Global Witness: “Non inviteresti trafficanti d’armi a condurre colloqui di pace. Allora perché lasciare che i dirigenti petroliferi conducano i colloqui sul clima?” ha dichiarato. Anche Vanessa Nakate, giovane attivista di Fridays For Future e simbolo delle proteste verdi insieme a Greta, si è detta preoccupata: “La COP28 deve accelerare la graduale eliminazione globale dei combustibili fossili, non possiamo avere un’altra COP dove gli interessi sui combustibili fossili sacrificano il nostro futuro per guadagnare qualche altro anno di profitto”. Molto probabilmente la questione Al Jaber sarà ora oggetto di dibattito anche al World Economic Forum che inizia fra pochi giorni, il 16 gennaio a Davos. Quest’anno il tema centrale sarà quello della crisi climatica: si discuterà per esempio se l’attuale economia permetterà, come chiedono gli scienziati, che l’emissioni di anidride carbonica vengano dimezzate entro i prossimi sette anni se vogliamo avere la possibilità di restare entro la soglia dei +1,5 gradi. Il punto è, si riuscirà a discuterne con coerenza? Un rapporto appena uscito di Greenpeace, sottolinea infatti come questa coerenza anno dopo anno continui a mancare: nella scorsa edizione, per ritrovarsi in Svizzera, politici, leader ed economisti avrebbero usato talmente tanti jet privati da quadruplicare le emissioni, in sostanza erano quattro volte superiori a quelle che in media sono attribuite a questo tipo di velivoli nelle altre settimane dell’anno. Stati Uniti. Il sacrificio di Floyd non è servito: la polizia batte il record di omicidi di Giacomo Puletti Il Dubbio, 14 gennaio 2023 I dati del 2022 raccolti dall’associazione “Mapping Police Violence”: 1.176 i morti. Due terzi delle vittime non stava commettendo reati. Boom di episodi nelle zone rurali. Tre morti al giorno, 1176 in dodici mesi: è bollettino rosso-sangue delle persone uccise per mano della polizia negli Stati Uniti. E il 2022 ha segnato un nuovo record come illustra il rapporto annuale di “Mapping Police Violence” (Mpv), un’associazione che dal 2013 fotografa gli atti di violenza commessi dalle forze dell’ordine in tutto il territorio federale. “Le cifre indicano in modo inequivocabile che nell’ultimo decennio la brutalità della polizia è stata la più elevata dagli anni 80 del secolo scorso”, tuona Samuel Sinyangwe, fondatore di Mpv. Dunque il “sacrificio” di George Floyd, l’afroamericano strangolato dall’agente Derek Chauvin nel maggio del 2020 a Minneapolis, non è servito a nulla. Come non sono servite le centinaia di manifestazioni del movimento black lives matter che hanno denunciato le discriminazioni e gli abusi commessi quotidianamente dalla polizia statunitense portandole in cima all’agenda politica nazionale. Uno degli aspetti più inquietanti del rapporto riguarda infatti la dinamica degli omicidi: oltre due terzi delle persone uccise non stava commettendo crimini violenti o non stava commettendo crimini in assoluto mentre un terzo di questi ultimi è stato colpito alle spalle mentre stava fuggendo. “La gran parte degli interventi che hanno causato delle vittime erano controlli stradali o blitz a domicilio per sedare liti domestiche”, spiega Sinyangwe, sottolineando la gratuità della violenza e il suo carattere aleatorio dal punto di vista geografico. Non esiste in tal senso nessuna correlazione tra i tassi di violenza urbana in generale e i reati di polizia: “Io vivo a Orlando in Florida che è al cinquantesimo posto per crimini violenti ma sale al 12esimo per quelli commessi dalle forze dell’ordine”. In realtà un miglioramento c’è stato e riguarda il calo significativo di episodi nei grandi agglomerati metropolitani. Non si tratta dunque di un dato sociologico ma piuttosto di un elemento “politico”, ossia legato alle scelte compiute dalle diverse amministrazioni municipali nei confronti dei rispettivi dipartimenti di polizia. In particolare i sindaci e i governatori democratici hanno riscritto molti regolamenti e protocolli di intervento, limitando i poteri degli agenti e aumentando la sorveglianza da parte delle autorità. E in effetti il rapporto di “Mapping violence police” indica che nelle città governate da sindaci progressisti i reati di polizia sono in calo da oltre due anni. Purtroppo la media nazionale vola in alto per l’escalation avvenuta nelle zone rurali dove la sicurezza è affidata a sceriffi di contea dal grilletto facile e dalla scarsa preparazione professionale: circa il 40% delle vittime proviene da lì, dieci anni fa era soltanto il 25%. Senza sorprese invece la composizione etnica dei morti, per lo più cittadini di origine afroamericana o ispanica i quali rischiano di venire freddati da un agente tre volte di più di una persona di pelle bianca. Secondo Mpv il problema è a monte del sistema penale d’oltreoceano noto per l’ipertrofia carceraria: “Occorre ridurre drasticamente gli arresti per reati non violenti, che rappresentano l’80% del totale: se qualcuno è un senza tetto non deve andare in prigione ma in un centro di accoglienza, se qualcuno è un tossico dipendente non deve andare in prigione ma in una comunità di recupero, se qualcuno ha dei problemi mentali non deve andare in prigione ma da uno psicologo per farsi curare” prosegue Sinyangwe, evidenziando come gli Stati Uniti abbiano la popolazione carceraria più grande del pianeta con oltre due milioni di detenuti smistati in 4500 penitenziari secondo i dati del 2019. Iran. Adolescenti condannati a morte. Pugno duro con i giornalisti di Michele Giorgio Il Manifesto, 14 gennaio 2023 Pena capitale per Arshia Takdastan, 18 anni, e Mehdi Mohammadi Fard, 19 anni. Arrestata all’aeroporto di Teheran la giornalista Nasim Soltanbeigi. La notte dello scorso 21 settembre la città Nowshahr, nella provincia settentrionale di Mazandaran, fu teatro di scontri tra forze di sicurezza e dozzine di giovani che protestavano per la morte di Mahsa Amini avvenuta mentre era detenuta dalla polizia morale. Almeno quattro manifestanti vennero uccisi, molti altri feriti e centinaia furono arrestati. Arshia Takdastan, 18 anni, fu uno dei tanti che finirono in cella dopo interrogatori durati ore. Mai avrebbe potuto immaginare che mesi dopo, il 4 gennaio 2023, sarebbe stato descritto dai giudici come il leader delle rivolte di Nowshahr e condannato a morte per aver lanciato una bottiglia e un sasso contro un’auto della polizia. La sua famiglia invano ha presentato al tribunale filmati di telecamere di sorveglianza che mostrano Arshia in un centro educativo fino alle 19:30. La pena capitale attende anche un altro ragazzo, il 19enne Mehdi Mohammadi Fard, picchiato duramente dopo l’arresto e tenuto in isolamento. Almeno 20 persone sono state condannate a morte fino ad oggi per aver partecipato alle proteste cominciate alla fine dell’estate. Quattro sono già state giustiziate e si aggiungono alle circa 500 uccise in strada. Il pugno di ferro delle autorità non risparmia il mondo dell’informazione. La giornalista Nasim Soltanbeigi è stata arrestata all’aeroporto internazionale di Teheran e trasferita nella prigione di Evin. Non si conoscono le accuse. La mamma ha saputo soltanto che si trova in isolamento. Soltanbeigi, ex attivista del movimento studentesco, lavora per varie testate. Fu fermata già nel 2006, per aver partecipato a una manifestazione di Women for Change, e condannata a una pena sospesa di cinque anni. Almeno 70 giornalisti iraniani sono stati arrestati dall’inizio delle proteste, 30 sono ancora in carcere. Siria. Risoluzione sugli aiuti umanitari rinnovata, altri sei mesi di vita per milioni di civili di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 gennaio 2023 Il 9 gennaio, con un voto unanime, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato per un altro semestre il meccanismo transfrontaliero che consentirà l’arrivo di aiuti umanitari indispensabili nel nordovest della Siria attraverso il confine con la Turchia. Poiché il governo di Damasco continua a ostacolare la consegna degli aiuti nelle zone della Siria che non sono sotto il suo controllo, la sopravvivenza di almeno quattro milioni di persone che risiedono nella parte ancora controllata dall’opposizione dipende da quel meccanismo, istituito nel 2014 con la risoluzione 2165. Negli ultimi tre anni Russia e Cina hanno costretto le Nazioni Unite a chiudere tre corridoi. Ne rimarrà, per i prossimi sei mesi, uno solo: quello di Bab-al Hawa. Da lì passeranno cibo, acqua, prodotti igienico-sanitari, forniture per l’inverno e materiali per gli alloggi, che sono per lo più piccole tende che devono essere isolate dalle temperature, spesso sotto lo zero, e impermeabilizzate dalla pioggia. Lo stesso riguarda i gabinetti, all’aperto, che devono essere protetti e accessibili. In un rapporto pubblicato lo scorso luglio, Amnesty International aveva descritto le condizioni di vita di quei quattro milioni di persone, per lo più profughi interni provenienti da altre zone di conflitto della Siria.