La sfida di Cospito: “Pronto a morire in cella, il corpo è la mia arma” di Francesco Bei La Repubblica, 13 gennaio 2023 L’anarchico è in sciopero della fame da 86 giorni contro il 41 bis: “No al carcere duro, vado avanti anche se sarà la mia ultima battaglia”. Alfredo Cospito è un duro. La sua carriera militare (e criminale) parla per lui. Ha gambizzato un dirigente di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, attentato per cui ha già scontato dieci anni in carcere ed è stato condannato per strage per due bombe piazzate nel 2006 davanti alla Scuola carabinieri di Fossano, anche se in quell’occasione, fortunatamente, non ci furono vittime ma solo danni materiali. Da 86 giorni l’uomo, che i giudici considerano il leader della galassia anarchica italiana, è in sciopero della fame contro il regime del 41 bis. Una misura di segregazione estrema, concepita dallo Stato per combattere la mafia, per spezzare i legami tra i boss reclusi e i loro clan, che viene per la prima volta applicata a un anarchico. Cospito è un duro, dicevamo, è così si presenta subito alla delegazione del Pd che è andata a trovarlo ieri nel carcere di Bancali, a Sassari. “Non dico niente, non parlo con voi se prima non parlate anche con gli altri detenuti”, questo il benvenuto ai parlamentari dem Debora Serracchiani, Andrea Orlando, Silvio Lai e Walter Verini, volati in Sardegna per verificarne le condizioni di salute. Gli altri tre detenuti, con cui Cospito divide la sezione di massima sicurezza, sono due mafiosi e un camorrista. Carcerati che hanno alle spalle chi 30, chi 20, chi 15 anni di questa “non vita”, fatta di limitazioni severe ai rapporti con gli altri “ospiti” della struttura, regole stringenti per i colloqui, l’ora d’aria, le letture, persino divieti alla televisione. La porta della cella non si apre nemmeno per la visita di controllo dei parlamentari, che dialogano con il detenuto attraverso lo spioncino. Cospito appare smagrito, ha già perso 35 chili da quando ha iniziato la sua lotta contro l’ergastolo ostativo e il 41 bis, un regime a cui è sottoposto dal maggio dello scorso anno. È ancora un omone da un metro e 90 per 85 chili, ma i medici che lo seguono iniziano a riscontrare alterazioni nelle analisi del sangue. “Io so che se non risolvono questo problema morirò. Sarà la mia ultima battaglia - sussurra dalla cella, alzandosi dal letto con una tuta e uno zuccotto di lana in testa - ma andrò comunque fino in fondo. Ho solo questa arma, ho solo il mio corpo”. Cospito combatte dal carcere e non rinnega nulla, non si pente e non si arrende. Anzi, conferma la sua sfida alle Istituzioni: “Io sono un sovversivo, sono sempre stato un ribelle, fin da quando ho rifiutato la naja. Non ho mai accettato di servire lo Stato”. Cospito considera lo Stato italiano un nemico da abbattere, ma può lo Stato italiano considerarlo alla stessa stregua? Il tema, dunque, non è la legittimità della condanna, ma il confine di una detenzione che, scontata in questo modo, rischia di vanificare i principi costituzionali sulla pena e sul carcere. L’anarchico al momento è tagliato fuori da tutto, perché i giudici sospettano che dal carcere possa dirigere ancora la federazione anarchica che guarda a lui come a un leader. Una valutazione che il detenuto contesta radicalmente: “Io sono un anarchico, per definizione l’anarchia non ha una struttura formale, non ho reti cui impartire ordini. Noi combattiamo lo Stato ma non ci sono legami di questo tipo, per questo non merito il 41 bis”. Cospito va anche oltre, trasforma la sua richiesta in un’istanza generale di ridefinizione del sistema di sorveglianza, “perché il 41 bis è disumano, andrebbe tolto a tutti, anche ai mafiosi”. Un solo esempio, anche piccolo, fa capire l’assurdità della misura vista con gli occhi di chi la subisce: “Non mi permettono di leggere i libri che chiedo ma solo quelli acquistabili nel supermercato qui vicino. Mi vietano i quotidiani nazionali, persino certi canali della televisione. Che senso ha?”. Cospito spera che intorno al suo caso si apra una discussione più grande di quella che riguarda il suo caso singolo. E così si rivolge a quelli che considera i rappresentanti dello Stato che vorrebbe abbattere: “Questi sono problemi che voi della politica dovete risolvere. Io sono costretto a usare lo sciopero della fame per farmi sentire, perché è l’unico mezzo che mi è consentito”. Il suo caso giudiziario è ancora aperto. La Cassazione ha riqualificato il reato in “strage ai danni dello Stato” e ha rinviato gli atti alla corte d’appello di Torino, che deve rideterminare la pena: per lui l’accusa ha chiesto l’ergastolo. A sua volta, la corte d’Assise d’appello ha chiamato in causa la Corte costituzionale, che dovrò decidere sulla possibilità di concedere le attenuanti per “tenuità del fatto” a Cospito e alla sua complice Anna Beniamino. Ma sono decisioni senza una scadenza temporale, nel frattempo le condizioni di salute del detenuto potrebbero precipitare improvvisamente. A meno che il ministro Nordio, a cui è stato anche rivolto un appello firmato da decine di intellettuali e politici, da Massimo Cacciari a Gherardo Colombo, non decida autonomamente di revocare il 41 bis. “Io ancora reggo - dice Cospito prima di ributtarsi sul materasso - ma se continuo così so che tra poco non avrò più la forza per alzarmi da questo letto”. Caso Cospito, il difensore dell’anarchico chiede la revoca del 41 bis al ministro Nordio di Raphael Zanotti La Stampa, 13 gennaio 2023 Da oltre due mesi fa sciopero della fame. L’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da oltre due mesi per protesta contro la misura del carcere duro disposta nei suoi confronti per quattro anni, ha presentato questa mattina l’istanza di revoca del 41 bis al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. In base a quanto riferisce il difensore, “l’istanza è fondata su fatti nuovi, non sottoposti alla cognizione del tribunale di sorveglianza di Roma” che nelle scorse settimana ha respinto un reclamo della difesa. Nella istanza si fa riferimento a “motivazioni di una sentenza depositata dopo la decisione del tribunale capitolino”. Le condizioni di Cospito sono quelle “di una persona che ha subito un forte deperimento ma ancora lucida, molto determinata ad andare avanti anche se con un rischio per la sua salute”, ha dichiarato l’ex guardasigilli Andrea Orlando, che lo ha visitato insieme a una delegazione del Pd. Non ci sarebbe un pericolo imminente per la sua salute, “ma un rischio costante”. Al momento le strade possibili sono due: o la pronuncia della Cassazione, o la decisione immediata del ministro di Giustizia. Sulla vicenda interviene anche il procuratore di Catanzaro, evidentemente contrario alla revoca: “Il senso del 41bis è evitare che il detenuto mandi messaggi all’esterno. Se i magistrati hanno chiesto il 41bis per Alfredo Cospito vuol dire che c’è un provvedimento ben motivato”. “Non si dà a tutti il 41bis - prosegue il procuratore: ci sono numerose richieste di 41bis bloccate o rigettate. Non è un automatismo. Bisogna leggere le carte prima di potersi esprimere, non sono discorsi che si possono affrontare come se fossimo al bar”. La Camera penale di Milano aderisce invece “convintamente all’appello per la vita di Alfredo Cospito, promosso e sottoscritto da molti autorevoli giuristi, per tutte le ragioni che l’appello enuclea”. Auspica che Governo, ministro dalla Giustizia e Dap “escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta e facciano un gesto di umanità e di coraggio”. “Crediamo - proseguono ancora gli avvocati penalisti milanesi - che questa peculiare vicenda, il cui esito drammatico deve essere assolutamente evitato, abbia avuto un solo merito: quello di puntare i riflettori dell’opinione pubblica sul tema del 41bis, sinora negletto se non utilizzato esclusivamente per esaltarne la natura di necessaria e utile arma di “lotta” al fenomeno mafioso”. Per la Camera penale di Milano “si deve ripartire da una profonda revisione del regime di 41 bis che ne limiti il contenuto afflittivo alla stretta necessità e che consenta un efficace controllo sulla sua necessità, ovvero dalla sua definitiva abolizione. I numeri - concludono i penalisti - dimostrano che l’estensione dello strumento non è proporzionale rispetto ai suoi frutti”. Delegazione del Pd in visita da Cospito: “È seguito ma rischia” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 gennaio 2023 Serracchiani, Orlando, Lai e Verini incontrano l’anarchico in sciopero della fame al 41 bis di Sassari. Dopo la visita del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, ieri mattina Alfredo Cospito, l’anarchico rinchiuso a Sassari al 41 bis e da oltre 80 giorni in sciopero della fame, ha ricevuto anche quella di una delegazione del Partito Democratico composta da big come Debora Serracchiani, i deputati Andrea Orlando e Silvio Lai, il senatore Walter Verini. L’iniziativa nasce in seguito all’appello pubblicato da un folto gruppo di giuristi e intellettuali per chiedere al ministro Nordio di revocare il carcere duro a Cospito, essendo in pericolo la sua stessa vita. “Pensavamo fosse importante venire a verificare le condizioni di salute di questa persona e ascoltare le sue ragioni, come facciamo sempre visitando le carceri del Paese. C’è poi un tema legato alla pena comminata: noi sottolineiamo che esiste l’articolo 27 della Costituzione e pensiamo che vada applicato fino in fondo”: ha detto al termine della visita la Serracchiani. “Siamo venuti per verificare le condizioni di salute di Cospito, ma anche le condizioni di questo istituto, abbiamo parlato a lungo con la direttrice e con il personale, c’è sicuramente una situazione di mancanza di risorse su cui occorre intervenire velocemente”, ha aggiunto Serracchiani. “Il lavoro che dobbiamo fare noi legislatori è quello di verificare sul campo che vengano applicate le norme e prendere tutte le iniziative legislative necessarie per migliorare la vita di chi lavora in carcere e di chi è detenuto in carcere, garantendo l’attuazione completa della Costituzione”, ha concluso la parlamentare. “Le sue condizioni con il tempo non migliorano, anzi - ha dichiarato ai giornalisti l’onorevole Silvio Lai - diventa più fragile, non è una situazione di salute stabile. C’è una cura medica attentissima, è tenuto sotto controllo sia dal medico del 41 bis, dal sistema medico del carcere e dal medico personale che è stato indicato dal suo avvocato, quindi è monitorato costantemente”. “Abbiamo parlato a lungo - ha riportato Lai - lui rimarca le ragioni della protesta, ritiene irragionevole che gli venga applicato questo regime, ma serviva incontrarlo e rendersi conto delle condizioni in cui sta scontando una pena che è stata applicata e sottoposta alla Cassazione, ora attendiamo quello che succederà”. “Abbiamo parlato anche con i medici oltre che con lui - ha detto invece Verini - al momento non è apparentemente in grave pericolo, ma siccome ha rinunciato al cibo da molto tempo ci sono livelli del sangue che stanno diminuendo e che potrebbero creare in ogni momento scompensi a organi vitali. La situazione è sì sotto controllo ma non è certo rassicurante, anche se come dice lui stesso non risultano pericoli imminenti”. Il senatore ha spiegato al Dubbio che “anche il carcere di Sassari, relativamente nuovo, così come le altre carceri sarde hanno gravissimi problemi: mancanza di personale, su dieci istituti solo tre direttori, figure professionali mancanti. Per questo il ministro Nordio dovrebbe fare qualche intervista in meno e mettersi subito al lavoro sull’emergenza carceraria”. Sul 41bis “noi pensiamo che esso sia uno strumento validissimo per impedire contatti tra chi è recluso e le reti di criminalità organizzata. È però giusto riflettere su come viene applicato: non dovrebbe prevedere ulteriori misure inutilmente afflittive”. L’ex ministro dem della Giustizia Andrea Orlando si esprimeva qualche giorno fa su twitter a favore della revoca del carcere duro, così come chiesto dall’appello di Livio Pepino e molti altri. Ma questa non è la posizione ufficiale dei dem. Su questo Verini dice: “Fermo restando che il 41 bis resta strumento fondamentale, nel caso specifico di Cospito francamente qualche dubbio sulla applicabilità in questa situazione c’è. Ne discuteremo alla luce anche di questa visita”. Intanto i radicali aderiscono alla mobilitazione per Cospito: “Sabato saremo presenti alla manifestazione convocata dagli anarchici per dire no al 41bis per Cospito”. Così in una nota Andrea Turi, coordinatore dell’Associazione Radicale Adelaide Aglietta e Silvio Viale, consigliere comunale radicale della Lista Civica per Torino. “Rispettiamo il lavoro della magistratura la quale deve giudicare un caso complesso come quello dell’anarchico Alfredo Cospito. Tuttavia politicamente non possiamo che essere dalla parte di chi chiede di far cessare immediatamente il regime di 41bis. E diciamo di più: il 41bis è inumano, incostituzionale e nel caso specifico senza dubbio sproporzionato”, concludono. Infine anche la Camera Penale di Roma si è detta è “al fianco” di Cospito, “insieme agli autorevoli giuristi ed ai numerosi colleghi che hanno già avuto occasione di rilevare l’assurdità del provvedimento emesso a suo carico, invocando da ultimo un immediato intervento di buon senso da parte del ministro della Giustizia. Nessun pericolo e nessuna emergenza possono infatti legittimare una surrettizia trasformazione della funzione della pena, la quale deve restare sempre ancorata ai principi costituzionali a prescindere da ogni valutazione tecnica del Questore o del Tribunale di Sorveglianza”. Orlando visita Cospito: “Salviamogli la vita, ma il 41bis resta” di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 gennaio 2023 L’ex Guardasigilli e la capogruppo Pd Serracchiani incontrano nel carcere di Sassari l’anarchico in sciopero della fame da 75 giorni. “Va impedito che una persona muoia. E semmai verificare se vi siano altri strumenti per interdire la comunicazione dei detenuti con l’esterno. Il carcere duro rimanga per i mafiosi”. Ieri l’ex Guardasigilli Andrea Orlando (governi Renzi e Gentiloni) si è recato nel carcere Bancali di Sassari, insieme ad una delegazione del Pd, per verificare di persona le condizioni di salute dell’anarchico Alfredo Cospito, un uomo che “ha deliberatamente scelto di usare il proprio corpo come strumento di lotta” iniziando uno sciopero della fame il 30 ottobre scorso per opporsi al regime di 41 bis a cui è sottoposto da otto mesi. Onorevole Orlando, come lo avete trovato? Le sue condizioni sono di una persona che ha subito un forte deperimento ma ancora lucida, molto determinata ad andare avanti anche se con un rischio per la sua salute sempre presente a causa dei tassi di potassio registrati nel sangue che rischiano di compromettere il funzionamento degli organi involontari tra i quali il cuore. Non c’è un pericolo imminente ma un rischio costante. Come se ne esce da questa situazione? In astratto, al momento, i percorsi sono due: o la pronuncia della Cassazione, che è pendente attualmente sul reclamo avanzato contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma, o la decisione immediata del ministro di Giustizia. In ogni caso, si tratta di un atto amministrativo a firma del ministro su proposta di organi giurisdizionali. Cospito si batte però contro l’intero sistema del 41 bis, non solo per la sua propria posizione. Andrebbe rivisto questo regime dell’ordinamento penitenziario? È uno strumento che è stato pensato con specifiche finalità, originariamente solo per le organizzazioni mafiose. La mafia però è tutt’altro che sconfitta. Perciò, al netto delle modalità della sua applicazione, è uno strumento del quale ancora non possiamo fare a meno. La questione è se sia sic et simpliciter applicabile anche a fattispecie che sono parzialmente diverse, o se non si possano trovare anche altri strumenti. Anche perché in questo caso si è passati da un regime senza particolari prescrizioni legate al profilo di Cospito al 41 bis, senza prendere altri provvedimenti intermedi, pure possibili, come la censura della posta o altre forme di carattere interdittivo che si possono applicare secondo l’ordinamento dell’alta sicurezza. Quindi c’è, come sostengono in molti, una sproporzione tra le misure restrittive che gli sono state imposte e il profilo di pericolosità del detenuto? C’è sempre un margine di discrezionalità nell’apprezzamento delle situazioni. Evidentemente c’era un comportamento del quale si doveva tenere conto ma la cosa che andrebbe verificata è se le sue comunicazioni con l’esterno fossero in grado di orientare specifiche attività criminose o se avessero solo un carattere generico, molto diverso dai codici strutturati mafiosi che bypassavano i controlli dell’amministrazione penitenziaria e per fermare i quali è stato pensato il 41 bis. C’è poi da valutare anche se l’organizzazione a cui Cospito si riferisce sia comparabile per struttura gerarchica alle organizzazioni mafiose, e se si muova in conseguenza diretta alle sue indicazioni. E questo è un altro aspetto che va valutato guardando le carte, io non sono in grado di dare un giudizio. È lecito però chiedersi se c’è un margine di apprezzamento su una situazione come questa, perché non è detto che quel tipo di comunicazione tra Cospito e i movimenti anarchici abbia la stessa efficacia di quelle veicolate dalle organizzazioni mafiose. All’Aquila alcune organizzazioni che si battono contro il 41 bis hanno manifestato a favore della brigatista Nadia Lioce e anche di Cospito. Secondo lei bisognerebbe almeno tornare alla versione iniziale del 41 bis, applicabile solo ai mafiosi? Adesso il tema fondamentale è impedire che una persona muoia. E semmai verificare, a partire da questa vicenda, se non vi siano altri strumenti dell’ordinamento per interdire la comunicazione dei detenuti con l’esterno senza ricorrere al 41 bis. Certamente non dobbiamo farci dettare l’agenda dagli anarco-insurrezionalisti o da chi vuole aprire altri casi. Nel Pd c’è una sensibilità rispetto al caso Cospito e ad altri casi come questo che dovessero presentarsi? Nella delegazione che si è recata a Sassari era presente anche la capogruppo Serracchiani, e questo dice molto. Rispetto a quando ero ministro di Giustizia, nel Pd si è affermata maggiormente un’idea delle garanzie legata anche al carcere, non come patrimonio degli specialisti ma come senso comune del partito. È un fatto positivo e questa vicenda lo conferma: al tempo della mia riforma dell’ordinamento penitenziario trovai un forte consenso, trasversale, di una parte del Pd, ma anche molte resistenze. Tanto che parte di quella riforma naufragò… Sì, fu una delle ragioni: eravamo a fine legislatura e il provvedimento venne bloccato un anno al Senato e poi da alcune prescrizioni in Commissione. Oggi la situazione è diversa, anche se molti di quelli che impedirono quel passaggio oggi sventolano il vessillo del garantismo. Il 41 bis è fondamentale per la tenuta della democrazia: attenzione agli approcci sbagliati di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2023 La ‘ndrangheta ha perso (da tempo) il mito della impenetrabilità, si moltiplicano i collaboratori di giustizia, cioè gli affiliati che decidono di affidarsi allo Stato, raccontando quello che sanno. L’ultimo caso (noto) è stato puntualmente descritto in un lungo e documentato articolo di Davide Milosa su ilfattoquotidiano.it e riguarda un personaggio appartenente alla ignobile aristocrazia mafiosa trapiantata al Nord, trattasi del “picciotto” Rosi Barbaro, strettamente imparentato con i Papalia di Buccinasco. Sono, come al solito, tanti gli spunti riflessione che l’articolo illumina, ma a me interessa sottolinearne soltanto uno, nella speranza che serva anche a quanti oggi rischiano un approccio sbagliato ad uno degli istituti giuridici fondamentali per la tenuta della democrazia (niente meno!) e cioè il 41 bis, il così detto (erroneamente) “carcere duro”. Nell’articolo ad un certo punto si riporta un brano della verbalizzazione di Barbaro relativo alla detenzione in carcere, vi si legge: “AlessandroManno appartiene alla Locale di Pioltello come Capo Locale. Ci rispettavamo in carcere e ci teneva tanto all’amicizia nostra; lui voleva che facessimo gruppo e fossimo dei referenti degli altri detenuti calabresi in carcere nella nostra sezione sulle eventuali liti, discussioni o spostamenti di detenuti nelle celle. Manno era dell’idea di mantenere lo stesso controllo in carcere, ad esempio in relazione alle introduzioni di stupefacenti da parte di altri detenuti: il Manno voleva che fosse evitato per non incorrere in alcun tipo di disordine, oppure voleva dire la sua sui legami con nuovi soggetti calabresi che vi entravano; Manno voleva affermare il potere dei detenuti calabresi sugli altri. Rivendicava la forza della sua appartenenza alla ‘ndrangheta, anche per dirimere controversie all’interno del carcere; noi la pensavamo diversamente e non volevamo fare come lui che ipotizzava di gestire il carcere in questo modo”. Da questo “spaccato” si evince bene quale sia l’obiettivo perseguito dal 41 bis e in particolare dal suo secondo comma, quello introdotto dopo le stragi del 1992: impedire ad un detenuto, condannato per gravi delitti ed appartenente ad una organizzazione criminale, sia essa mafiosa o terroristica con finalità eversive, di avere rapporti dentro e fuori dal carcere che gli consentano di continuare ad esercitare la propria illecita funzione. Una situazione che evidentemente presuppone sia l’esistenza di una organizzazione criminale stabile, pericolosa per l’ordinamento democratico e per la sicurezza pubblica e sia un rapporto altrettanto stabile, riconosciuto e riconoscibile tra il detenuto e la medesima organizzazione. È perciò improprio definire il regime carcerario di cui al 41 bis dell’ordinamento penitenziario “carcere duro”, perché così facendo si rischia di far credere che il 41 bis nasca come pena aggiuntiva alla semplice detenzione e quindi con una finalità ulteriormente afflittiva. Quasi che fosse in gioco la più arcaica delle leggi, “occhio per occhio, dente per dente”, in base alla quale tanto più sei stato cattivo, tanto più duramente sarai punito. Niente di tutto questo. Il regime carcerario del 41 bis nasce per impedire la prosecuzione dell’attività criminale, isolando il detenuto che si ritenga portatore di un sodalizio illecito, attuale e pericoloso. Il crimine organizzato, sia mafioso, sia eversivo, vive di comunicazione, vive di simboli, vive di ordini e strategie: l’isolamento è un buon antidoto. Che questo regime produca una condizione oggettivamente penosa per chi lo subisca è fuor di dubbio. Che quindi sia sempre importante valutare criticamente la ragionevolezza della sua applicazione sia relativamente alle condizioni presupposte, sia relativamente alle modalità esecutive è altrettanto fuor di dubbio. Lo Stato, democratico e repubblicano, fondato sulla Costituzione del ‘48 e cioè su una Costituzione profondamente antifascista, non può permettersi altro che il rigoroso rispetto della dignità di chiunque, anche di chi abbia commesso gravi delitti: infatti il medesimo articolo 41 bis prevede esplicitamente un ampio margine di manovra per il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, di cui recentemente abbiamo avuto una chiara applicazione con la visita fatta in carcere dal Garante a Alfredo Cospito, da oltre 85 giorni in sciopero della fame. Lo Corte Costituzionale italiana è più volte intervenuta sul testo del 41 bis, riconducendo alcune sue modalità ritenute illegittime dentro il solco dei diritti fondamentali. L’applicazione del 41 bis infine dipende direttamente dal ministro della Giustizia, che deve raccogliere diversi pareri ed è comunque sottoposta alla possibilità di fare reclamo da parte di chi se lo veda applicare. La nostra democrazia è piena di contraddizioni e limiti, ma per me resta innegabile il suo sforzo di opporsi col diritto alla violenza dispotica di chi voglia imporre la propria volontà a prescindere. Chiunque sia. Questa democrazia non è la migliore in assoluto, ma è quella che abbiamo e che vale il nostro impegno e persino, può sembrare retorico ed anacronistico affermarlo, le nostre vite. Questa è la lezione immortale che abbiamo ricevuto da Fulvio Croce e saremmo dei meschini se non la ricordassimo, tanto più oggi. L’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Torino è a lui dedicata e sono certo che il suo esempio continui ad ispirare quanti si trovino ancora in situazioni analoghe a quelle che lo videro protagonista. *Attivista antimafia ed ex deputato Abbandonati e poco seguiti: quei giovani a rischio nelle carceri destinate agli adulti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 gennaio 2023 Giovanissimi abbandonati nelle carceri, in cella con adulti che una volta fuori rischiano di ritornare a delinquere. La pena deve tendere al reinserimento del condannato nella società. Questo è il senso dell’articolo 27 della nostra Costituzione, ma il carcere non riesce a concretizzarlo nonostante il nostro ordinamento penitenziario preveda diversi percorsi trattamentali. Se il detenuto è un “giovane adulto”, ovvero in una età compresa tra i 18 e i 24 anni, la questione diventa più drammatica. Non parliamo degli istituti minorili, ma proprio delle carceri per adulti dove sembrerebbe che esista una condizione di vero e proprio abbandono. Il risultato è che i giovani rischiano di non essere più recuperati e una volta fuori, ripiombano nella frequentazione di quei contesti ambientali dannosi. Ed è ciò che emerge da una interessantissima ricerca relativa al carcere di Torino. Un caso che dovrebbe fare scuola e può essere di grande utilità per il ministero della Giustizia, in particolare il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti dei detenuti di Torino, a fine dicembre 2022 ha pubblicato con Cecilia Blengino, professoressa di Sociologia del Diritto all’Università di Torino, un’indagine dal titolo “Giovani dentro e fuori. Un’indagine per conoscere la popolazione giovanile nella Casa Circondariale di Torino”, una ricerca che ha coinvolto le studentesse e gli studenti della Clinica Legale Carcere e Diritti I del Dipartimento di Giurisprudenza di UniTo. A quest’indagine quali- quantitativa sulle condizioni sociali e detentive dei giovani reclusi, per cui poi si tenta l’elaborazione di proposte concrete di miglioramento, si affiancano preziosi contributi specialistici attorno ai temi della devianza giovanile. Come è stato ricordato in occasione della conferenza stampa di fine anno del Consiglio comunale, richiamando l’episodio dell’evasione dall’Istituto penitenziario minorile Beccaria di Milano e le reazioni dell’opinione pubblica, scontiamo un cronico ritardo nell’approccio al tema della privazione della libertà personale della fascia più giovane della popolazione e, più in generale, alle tante fragilità sociali in cui questa è immersa. Un lavoro che, non a caso, è stato dedicato alla memoria di Alessandro Gaffoglio, 24enne che la scorsa estate ha perso la vita nel carcere della città di Torino. Per comprendere la dimensione del problema, bisogna partire dai dati raccolti. Dall’indagine si apprende che il 68,5% dei giovani adulti a cui è stato sottoposto il questionario non ha avuto alcun tipo di contatto con i componenti dell’area trattamentale della Casa circondariale nel momento in cui hanno varcato la sezione dei cosiddetti “nuovi giunti”. Ed è un dato importante, perché tali sezioni - almeno sulla carta - servono per accogliere i detenuti che hanno da poco fatto ingresso all’interno dell’Istituto. La ratio dell’istituzione di questo “servizio” è quella di tutelare “soggetti giovanissimi o anziani, tossicodipendenti, soggetti in condizioni fisiche o psichiche non buone o comunque in condizioni di particolare fragilità” che entrano in carcere per la prima volta. Non solo. Nel capitolo della ricerca dove le autrici esprimo delle riflessioni in base ai dati raccolti, viene sottolineato che durante il periodo di reclusione in queste sezioni, dovrebbe essere svolto un primo colloquio con uno dei componenti del presidio psicologico (non appartenente all’Asl penitenziaria, ma affidato agli esperti ex art. 80 dell’ordinamento penitenziario), che ha l’obiettivo di valutare il rischio suicidario della persona e di accelerare i tempi di una efficace presa in carico da parte di tutti gli operatori penitenziari, la quale può compiutamente avvenire solo dopo l’assegnazione del soggetto presso una sezione ordinaria. Si osserva che il passaggio all’interno del reparto “nuovi giunti” dovrebbe quindi protrarsi per il tempo strettamente necessario allo svolgimento di tali valutazioni, al fine di garantire a pieno la tutela del diritto alla salute della persona ristretta. “Questa necessità - prosegue la riflessione - risulta ancor più urgente se si pensa che la vita penitenziaria in questi particolari luoghi si svolge esclusivamente all’interno delle camere di pernottamento (che rimangono sempre chiuse, escluse le due ore d’aria giornaliere), senza la possibilità che le persone ivi detenute possano usufruire di spazi e momenti di socialità, ovvero delle attività trattamentali proposte dagli operatori penitenziari”. Lo studio osserva che quanto fin qui descritto concorre ad acuire i disagi e le fragilità tipiche di molti giovani reclusi, che, per circa due mesi dal loro ingresso in Istituto, vengono inseriti in un ambiente che pare totalmente inidoneo alla salvaguardia della loro condizione psicofisica, molto spesso vulnerabile. Altro dato fondamentale è l’istruzione. Emerge che seppur l’87% dei giovani intervistati avrebbe il diritto di continuare il proprio percorso di studi durante la detenzione, la sua prosecuzione viene di fatto interrotta. Poi c’è il discorso, vitale, che è il mantenimento dell’affettività, del rapporto con i propri cari. Come osserva lo studio, la salvaguardia delle reti sociali esterne costituisce un fattore essenziale ai fini dell’efficace reinserimento sociale delle persone recluse che hanno la fortuna di possederle. urtroppo, quanto emerso dalla somministrazione dei questionari evidenzia una netta rescissione dei “contatti con il mondo esterno” per i giovani intervistati, dal momento che il 54% di loro ha dichiarato di non svolgere alcun tipo di colloquio all’interno dell’Istituto. Molti di questi, inoltre, non riescono a contattare tout court i familiari o le cosiddette “terze persone” (amici/ che, compagne/ i…), poiché spesso impossibilitati a reperire i loro numeri e/ o contratti telefonici, ovvero i loro documenti di identità. Risultato? Buona parte delle persone che costituiscono il campione intervistato si troverà nuovamente costretto all’interno degli stessi contesti socio- relazionali di quando ha fatto ingresso in Istituto. Non solo: tale rientro avverrà con il (e sarà in parte causato dal) possesso delle medesime risorse e delle medesime competenze di quell’ingresso o, nella peggiore delle ipotesi, con competenze delinquenziali acquisite nel corso della detenzione. “In questa cornice, l’esito è allora scontato: presto o tardi, questi soggetti finiranno per fare ritorno in carcere e, di conseguenza, il nullo (o quasi) investimento fatto su di loro durante il precedente periodo detentivo sarà ex post giustificato”, sottolinea amaramente lo studio. A ciò, come se non bastasse, si aggiunge che al carcere di Torino, quasi il 45% dei giovani intervistati divide la cella con una persona di età superiore ai 30 anni. Eppure, l’ordinamento penitenziario stabilisce la separazione dei giovani al di sotto dei 25 anni dagli adulti. Lo studio realizzato dalla garante Gallo e la professoressa Blengino pone un problema che le scelte umane (e quindi politiche) devono risolvere, perché - come ben sottolineano - “è solo attraverso queste ultime, prese ed agite in forme collettive (e quindi nuovamente politiche), che si può pensare di risolverle”. Riforma della giustizia, favore ai boss di Francesco Grignetti La Stampa, 13 gennaio 2023 “Nessuna querela per paura”. Tre mafiosi non perseguibili a Palermo per effetto della riforma Cartabia l’Anm: serve intervento d’urgenza. Maggioranza e opposizione unite: “Correzioni necessarie subito”. I magistrati l’avevano detto, da ultimo il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, ieri su questo giornale: la riforma Cartabia impone la querela di parte per molti reati anche gravi, ed è grave che non tenga in conto l’aggravante mafiosa. Così è per il sequestro di persona, le minacce, le lesioni. Puntualmente, ieri, è esploso il caso di tre mafiosi palermitani, detenuti per avere sequestrato e picchiato due rapinatori che non avevano rispettato le prescrizioni del clan. Giuseppe Calvaruso, reggente del mandamento Pagliarelli, e i suoi “soldati” Giovanni Calvaruso e Silvestre Maniscalco, oltre ai reati di associazione mafiosa ed estorsione, rispondevano di sequestro di persona e lesioni aggravate dal metodo mafioso. Siccome le due vittime non se la sentono di firmare la querela contro i mafiosi, i tre non potranno essere perseguiti per questi reati. Restano comunque in carcere per tutto il resto. A Reggio Calabria, invece, due ladri seriali in treni merci la faranno franca perché non si trovano le vittime e quindi manca la querela. La storia di Palermo ha fatto esplodere le polemiche. L’Anm chiede un intervento d’urgenza sull’aggravante mafiosa. D’altra parte la legge stessa prevede che il governo possa apportare correzioni con decreti legislativi nei prossimi 2 anni. E se due giorni fa il partito di Giorgia Meloni si era detto favorevole a modifiche, lo stesso si pensa nella Lega. “In tempi non biblici - spiega la senatrice Giulia Bongiorno - dovremo fare tutte le correzioni necessarie”. Per la Lega si dovrà cambiare la norma sul concordato in appello, anche perché si teme che questo disincentivi i patteggiamenti in primo grado. Eppure la Lega aveva votato questa riforma, anche se di malavoglia, come peraltro il M5S che ora si straccia le vesti. “Alcuni aspetti tecnici io li avevo segnalati a Marta Cartabia più volte, senza convincerla, purtroppo”, dice ancora Bongiorno. Su un intervento d’urgenza concorda anche l’opposizione. Il senatore Roberto Scarpinato, M5S, magistrato prestato alla politica, ha già depositato un disegno di legge: “Rendere perseguibili solo a seguito di querela della vittima reati come lesioni personali, violenza privata, minaccia, sequestro di persona - dice - determina il serio rischio di estendere il campo dell’impunità. Quel che più si sottovaluta, è che quei reati sono consumati non solo da esponenti della criminalità comune, ma anche da appartenenti alle mafie che si avvalgono della forza dell’intimidazione”. “È un fatto di una gravità inaudita - dice anche Angelo Bonelli, dei Verdi - e dovrebbe essere in primis l’ex ministra Cartabia, proponente della riforma, ad ammettere il proprio errore, compiendo un atto di intelligenza. Sarebbe un atto di giustizia per il Paese e di contrasto alla criminalità organizzata modificare subito questa norma perché è inammissibile”. Pure il Pd è pronto ad appoggiare una correzione in corsa. Sostiene Anna Rossomando, responsabile Giustizia: “Le parole del presidente Santalucia meritano attenzione. Ci impegniamo da subito affinché, con un intervento normativo con carattere d’urgenza, nei casi in cui viene contestata l’aggravante mafiosa, i reati siano perseguibili d’ufficio”. Lo stesso consulente della ex ministra Cartabia, il professor Gian Luigi Gatta, ammette che qualche correzione andrà fatta. “Non ho la presunzione di dire che la riforma sia perfetta”, riconosce. “Però, se vogliamo essere seri, bisogna dire che l’aggravante mafiosa, introdotta nel codice negli Anni Novanta, deve valere per tutti i reati del codice”. Altra modifica che Gatta riconosce necessaria, è sulla procedura: “Dobbiamo pensare ad un periodo congruo per presentare la querela quando ci sia la possibilità di un arresto in flagrante. Almeno 48 ore. Non si può pretendere che se ci rubano dentro l’auto di notte, il proprietario sia lì presente” “Lo Stato non può venire meno all’obbligo di tutelare le vittime, soprattutto quelle più fragili” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 13 gennaio 2023 La voce è quella di Antonio Balsamo, presidente del tribunale di Palermo, già estensore di sentenze fondamentali sulle stragi (Capaci bis e Borsellino quater) e autore del libro Mafia. Fare memoria per combatterla (Vita e pensiero): “Le parlo con la passione civile di chi vive e lavora a Palermo. Sarebbe ingenerosa una critica generalizzata sulla riforma Cartabia, ma certamente alcune norme hanno effetti estremamente pericolosi per la libertà e la sicurezza dei cittadini”. Qual è il suo giudizio sulla riforma Cartabia appena entrata in vigore? “Contiene molte innovazioni importanti, ma anche alcune norme pericolose, di cui cominciamo a vedere gli effetti applicativi”. A quali si riferisce? “A quelle che condizionano alla querela della vittima la perseguibilità di alcuni reati come il sequestro di persona”. Non la convince l’esigenza di ridurre il carico giudiziario? “In questo caso non c’è nessun significativo beneficio sull’efficienza della giustizia. A Palermo ci sono 40 processi per sequestro di persona su oltre 8mila definiti ogni anno dal tribunale. Meno dello 0,5%. Ma comprendono casi di estrema gravità, con vittime assoggettate a una condizione di paura e intimidazione”. Di quali casi si tratta? “Le rispondo citando un collaboratore di giustizia: “Ogni famiglia mafiosa si avvale di una squadra di soggetti, alcuni affiliati altri no, che svolge spedizioni punitive nei confronti di chi non rispetta le regole di cosa nostra”. Parole significative, mi pare”. In cosa consistono le spedizioni punitive? “Sequestri di persona, anche di parenti, oppure pestaggi e vessazioni con violenza brutale”. Che cosa accade, in concreto? “Magistrati e polizia giudiziaria possono venire a conoscenza di questi fatti, per esempio dalle intercettazioni, ma non perseguirli in assenza di querela delle vittime”. Perché non querelano? “Spesso perché sono in condizione di assoggettamento o paura. In quanto particolarmente vulnerabili, richiederebbero un surplus di tutela”. La protezione dello Stato non è sufficiente? “Il caso più noto è quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato e poi sciolto nell’acido. Allora il padre Santino, collaboratore di giustizia che aveva svelato i segreti della strage di Capaci, benché sotto protezione impiegò alcune settimane prima di denunciare”. Che cosa si può fare? “Includere il sequestro di persona, la violenza privata e certe lesioni personali, se ricorre un’aggravante speciale come quella di mafia, tra i reati perseguibili di ufficio. O si vuole sostenere, per esempio, che la violazione di domicilio da parte del pubblico ufficiale è più grave del sequestro di persona da parte del mafioso?”. Rimettere in discussione una riforma dopo dieci giorni dall’entrata in vigore sarebbe una sconfessione. “Non mi sembra. Si tratta, anzi, di un modo per assicurare la piena funzionalità delle nuove norme. Verificare gli effetti di una riforma è prova di saggezza. Basta una piccola modifica dell’articolo 623 ter del codice”. C’è il problema degli impegni con l’Europa... “Guardi che l’Europa ci chiede esattamente il contrario. Ci sono sentenze della Corte dei diritti dell’uomo che sono pietre miliari. Affermano che la garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini - libertà e sicurezza - fa sorgere in capo allo Stato un obbligo di tutela penale”. L’Italia le rispetta? “Lo Stato verrebbe meno a quell’obbligo, e per di più nei confronti delle vittime più fragili, se le abbandonasse nella paura invece di proteggerle”. Riforma Cartabia, panico per i reati mafiosi a querela di parte. Gatta: “È così da 30 anni” di Davide Varì Il Dubbio, 13 gennaio 2023 La riforma Cartabia che prevede, in caso contestata di aggravante del metodo mafioso o dell’agevolazione mafiosa che i reati diventino procedibili a querela di parte sta facendo discutere giuristi e politici. Per il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia “le recenti notizie di stampa in ordine alla probabile revoca di misure cautelari per reati diventati procedibili a querela, pur quando sia contestata l’aggravante del metodo mafioso o dell’agevolazione mafiosa, impongono un ripensamento, in tempi rapidi, delle scelte del legislatore”. Santalucia aggiunge: “In presenza di tal tipo di aggravanti anche il reato che, in astratto, può sembrare di non particolare gravità, assume una fisionomia incompatibile con l’affidamento alle singole persone offese della possibilità di perseguirlo in concreto, secondo logiche di deflazione del carico giudiziario che sono accettabili soltanto in riferimento a reati autenticamente bagatellari”. Da via Arenula si precisa che “ci sono due anni di tempo per tutti gli eventuali necessari correttivi alla riforma Cartabia. Per la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del Pd, Anna Rossomando, però “le parole del presidente dell’Anm Santalucia meritano attenzione. Ci impegniamo da subito affinché, con un intervento normativo con carattere d’urgenza, nei casi in cui viene contestata l’aggravante mafiosa, i reati siano perseguibili d’ufficio”. Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale e consigliere giuridico della ex ministra Cartabia, invece chiarisce: “L’aggravante del metodo mafioso è stata introdotta dopo le stragi di mafia degli anni novanta, da più di trent’anni, quando il codice già prevedeva oltre quaranta reati procedibili a querela. Ci si preoccupa oggi, quindi, di un problema che, se esiste, esiste da trent’anni, ben prima della riforma Cartabia”. In una nota il senatore dei Cinque Stelle, Roberto Scarpinato, fa sapere che il Movimento ha presentato un disegno di legge “a mia prima firma”, per modificare la riforma Cartabia. “La nostra proposta - si legge nella nota del senatore Scarpinato stabilisce che nei casi in cui ricorrano le circostanze aggravanti della finalità terroristica e del metodo mafioso, il delitto sia sempre procedibile d’ufficio. Ci siamo mossi appena sono entrate in vigore le nuove norme e nei giorni successivi i fatti di cronaca ci hanno purtroppo dato ragione. È notizia di oggi la richiesta di revoca della misura cautelare per tre uomini di Cosa nostra accusati di sequestro di persona e lesioni, con l’aggravante del metodo mafioso. Ma proprio su quest’ultimo episodio il professor Gatta fa notare che E sempre a proposito del caso “le lesioni guaribili in venti giorni, se aggravate dal metodo mafioso, erano già procedibili a querela prima della riforma Cartabia”. Riforma penale, il Pd sta con l’Anm e chiede di correggere sull’aggravante mafiosa di Marco Alpozzi Il Domani, 13 gennaio 2023 Dopo il caso di tre boss per cui è caduto un processo per mancanza di querela delle vittime, la responsabile Giustizia dem, Anna Rossomando, chiede un intervento ”perchè, nei casi in cui viene contestata l’aggravante mafiosa, i reati rimangano perseguibili d’ufficio”. Lo stesso ha chiesto su Domani il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. La riforma penale da poco entrata in vigore ha previsto che alcuni reati considerati di lieve entità ora siano perseguibili a querela della vittima e non più d’ufficio. Questa modifica ha subito sollevato perplessità da parte della magistratura in particolare per tre reati: il furto aggravato, lesioni e il sequestro di persona semplice. Si tratta infatti di reati potenzialmente poco lesivi, ma la riforma non prevede che la procedibilità rimanga d’ufficio nei casi dell’aggravante mafiosa, che ne aumenta la pericolosità sociale. Proprio oggi, infatti, è stata resa nota la notizia del caso di tre boss, imputati di lesioni aggravate dal metodo mafioso e sotto processo a Palermo, per cui non è stato possibile chiedere la conferma della misura cautelare in carcere. Il giudice, come da previsioni della riforma, ha contattato le vittime per sporgere querela e permettere la continuazione della misura, ma si sono rifiutate. Per questo, il pm non ha potuto far altro che chiedere la revoca della misura per mancanza della condizione di procedibilità.  I tre, in realtà, sono sotto processo anche per altri reati più gravi - associazione mafiosa ed estorsione - quindi rimarranno comunque in carcere. Tuttavia, il rischio della riforma così scritta è risultato evidente. Le richieste del Pd e Anm - “Bisognava dosare meglio la selezione dei reati che sono effettivamente minori, forse il Pnrr ha messo fretta”, ha spiegato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, al nostro giornale. “Come spesso capita le scelte astratte non hanno la fantasia che la realtà poi ci mostra. Per questo auspico un intervento del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per apporre alcuni correttivi nei due anni di tempo a disposizione”. La stessa richiesta è stata avanzata anche dal Pd, con la responsabile Giustizia, Anna Rossomando, che ha detto che “le parole di Santalucia meritano attenzione. Ci impegniamo subito affinché, con un intervento normativo con carattere d’urgenza, nei casi in cui viene contestata l’aggravante mafiosa, i reati siano perseguibili d’ufficio”. Fonti di via Arenula hanno confermato che anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sta seguendo con attenzione la vicenda e che valuterà, nei due anni di tempo a disposizione, i necessari correttivi alla riforma. Procedibilità e querela: il passo indietro della riforma Cartabia di Astolfo Di Amato Il Riformista, 13 gennaio 2023 Vi è un aspetto della Riforma Cartabia della giustizia penale che avrebbe, probabilmente, meritato un maggiore approfondimento. Soverchiato dall’acceso dibattito sulla nuova disciplina della prescrizione, sulla ricerca di nuovi equilibri strutturali del processo, sulla riforma del sistema sanzionatorio e sull’introduzione di un istituto nuovo e promettente quale quello della giustizia riparativa, il tema della estensione delle ipotesi di procedibilità a querela di parte è restato lontano dai riflettori e, conseguentemente, dall’attenzione dell’opinione pubblica, anche quella più avvertita. Di cosa si tratti è presto detto. A seguito della entrata in vigore della Riforma, sono divenuti punibili a querela di parte, salvo alcune eccezioni, numerosi reati: le lesioni volontarie con esiti di durata sino a quaranta giorni, le lesioni personali stradali anche gravissime, il sequestro di persona non aggravato, la violenza privata, la violazione di domicilio anche se commessa con violenza sulle cose, il furto, la turbativa violenta del possesso di cose immobili, il danneggiamento, la truffa e la frode informatica anche quando il danno patrimoniale sia di rilevante entità. Si legge, nei lavori parlamentari, che obiettivo di tale amplissima estensione delle ipotesi di procedibilità a querela è stata quella di conseguire “effetti deflattivi sul contenzioso giudiziario ed effetti positivi sulla durata complessiva dei procedimenti, nell’ottica di una maggiore efficienza del processo penale”. Di fatto, mediante la previsione della necessità della proposizione di una querela per la punizione di tali reati, è stato introdotto un filtro assai significativo, che ridurrà fortemente l’intervento del giudice penale rispetto ad essi. Il legislatore ordinario, vincolato dal principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale e nella necessità di trovare comunque un modo per abbattere il numero dei processi penali, ha soddisfatto tale esigenza estendendo le ipotesi di procedibilità a querela, nella consapevolezza che si tratta di uno strumento idoneo allo scopo. In buona sostanza, il legislatore, non potendo attribuire discrezionalità al pubblico ministero nella scelta dei reati da perseguire, ha trasferito tale discrezionalità alle parti offese, rendendo la loro scelta vincolante per il pubblico ministero. Si tratta di una soluzione molto poco soddisfacente per più di un aspetto. Il primo concerne la funzione stessa del diritto penale. È certamente vero che la querela non tocca, sul piano astratto, la rilevanza penale dell’accaduto. Il fatto continua ad essere un reato anche se, di fatto, non viene perseguito per l’assenza della querela. Nel momento, tuttavia, in cui essa è proposta, la titolarità dell’azione penale resta in capo al pubblico ministero, senza che possa parlarsi, sempre su di un piano astratto, di una privatizzazione del controllo penale. Peraltro, è comunque egualmente innegabile che evidentemente diverse sono le conclusioni sul piano concreto. La procedibilità di un reato a querela di parte significa che la reale punibilità di quel fatto dipende dalla volontà, per giunta insindacabile, della vittima del reato. Quest’ultima, nel decidere se proporre o no querela sarà condizionata non solo dal desiderio di punizione del colpevole, ma anche dalla considerazione dei costi, morali e materiali, che dovrà sopportare, dalla sua vulnerabilità a ritorsioni, dalle sue condizioni sociali, economiche, anagrafiche, di salute, etc. E si tratta, appunto, degli aspetti su cui il legislatore fa affidamento per ottenere un effetto deflattivo. Ma, allora, ci si potrebbe chiedere, perché la procedibilità a querela non è prevista per tutti i reati che colpiscano beni di privati? L’effetto deflattivo sarebbe evidentemente enorme. La risposta è semplice: molti degli interessi protetti dalle norme penali, pur riguardando gli individui, hanno un rilievo pubblico, in quanto attengono proprio alle condizioni elementari per la esistenza di una ordinata convivenza civile. Questo implica che la punibilità delle condotte che violino quegli interessi corrisponde all’esigenza della intera collettività che quegli interessi siano garantiti al di là del volere dei titolari degli interessi concretamente lesi. Diventa, allora, decisivo considerare quali interessi siano protetti dai reati, la cui procedibilità è stata condizionata, dalla Riforma Cartabia, alla proposizione della querela. È del tutto agevole constatare che si tratta dei beni, la cui tutela è posta a fondamento di qualsiasi, anche la più elementare, convivenza civile. Sono tutti beni che, assai significativamente, hanno un diretto e preciso riscontro non solo nella Costituzione italiana, ma anche nelle più rilevanti Convenzioni internazionali per la tutela dei diritti fondamentali. Si tratta, in particolare, dei diritti alla libertà personale, alla libertà di autodeterminazione, alla inviolabilità del domicilio, alla integrità fisica, alla proprietà. Degradare, in concreto, la tutela di questi beni non significa, di fatto, cambiare volto alla società? Non sarebbe stato, allora, necessario aprire un dibattito su questo specifico aspetto, invece che derubricarlo a mero strumento di efficientamento della macchina della giustizia? Se si pensa alle inutili e clamorose polemiche di questi mesi su temi inesistenti (si pensi al paventato pericolo di ritorno del fascismo incarnato da Giorgia Meloni), diventa davvero incomprensibile il fatto che un argomento di questa rilevanza è stato mantenuto sottotraccia. Per chi volesse ricercare connessioni di tipo sistematico, potrebbe essere addirittura individuata una comune ratio con quella parte della disciplina della legittima difesa, che presume sempre proporzionata la reazione quando avviene nel proprio domicilio. Una sorta, perciò, di espansione, non dichiarata ma terribilmente concreta(!), di privatizzazione della tutela dei propri diritti anche di rilevanza penale! Vi è, peraltro, anche un ulteriore elemento che fa guardare con perplessità e diffidenza alla nuova disciplina. Affidare alla decisione delle vittime il potere di dare corso o no al procedimento penale, significa accentuare le disparità e rendere meno protetti proprio i più fragili. Questi ultimi, difatti, sono innegabilmente quelli che appaiono culturalmente meno attrezzati per reagire, maggiormente esposti alla paura di ritorsioni, più pronti a una definizione domestica della vicenda, più preoccupati dei costi morali e materiali di un processo penale. È pur vero che, nella riforma, è stabilito un limite generale di operatività costituito dalla previsione che si proceda di ufficio quando si sia in presenza di persone offese, che, in quanto incapaci per infermità o per età, non siano in grado di presidiare autonomamente i propri interessi. Da un lato, la norma è insufficiente in quanto lascia senza tutela coloro che sono socialmente più deboli; dall’altro, tale incapacità come va misurata e chi è legittimato a misurarla? L’ufficiale di polizia giudiziaria che ha notizia del fatto? Come si è già detto, il legislatore ordinario, non potendo violare il principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale per ottenere un effetto di deflazione, ha aggirato il problema, attribuendo alle vittime quella discrezionalità nel procedere, che non avrebbe potuto attribuire al pubblico ministero. Ma, così facendo, da un lato ha in concreto sminuito la rilevanza di alcuni beni, che viceversa appaiono fondamentali per la esistenza di un qualsiasi consorzio civile, e, dall’altro, ha accentuato le diseguaglianze, già profonde, esistenti nella società. È un evidente passo indietro, e non è di poco conto. La riforma di Nordio su derive mediatiche del processo e potere dei pm di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 13 gennaio 2023 C’è chi - del tutto condivisibilmente - ha parlato di una “rivoluzione” a proposito dell’agenda politica promessa dal ministro Nordio. Altri che, invece, ridono sornioni poiché non conoscono appieno la determinazione di taluni Magistrati, quali per l’appunto il neo Guardasigilli. E, in effetti, come lo scrivente ha già avuto modo di sottolineare sin dal principio, questi ha inteso improntare la propria azione di governo, a capo del Ministero di via Arenula, proponendosi di intervenire radicalmente sui mali (rectius su derive) della Giustizia italiana. Una rivoluzione sicuramente “culturale” e valoriale: combattere il dilagante strapotere inquirente e il fenomeno della mass- mediatizzazione del processo penale che porta a una sentenza mediatica anticipatoria di ogni effetto. Potere delle Procure - sostiene Nordio - ai limiti della Costituzione, atteso che non è di fatto sottoposto a limiti o controlli sulla persona dei singoli magistrati che nel disporre (o anche solo richiedere) provvedimenti restrittivi delle libertà continuano indifferentemente, senza alcun tipo di responsabilità “in caso di mala gestione”. Si badi, nessuno, men che meno il ministro Nordio, che nella sua lunga ed encomiabile carriera ha svolto, a più livelli, proprio la funzione di procuratore della Repubblica, intende politicizzare il ruolo. Il titolare della Pubblica accusa deve, necessariamente, rimanere terzo e imparziale al pari dell’Organo giudicante. E, tuttavia, proprio l’incisività dei poteri d’indagine di cui sono funzionalmente, si direbbe dotati i Pubblici ministeri, che conduce allo sbilanciamento di quel principio di parità delle armi tra accusa e difesa di cui la Costituzione si fa portatrice e che nei fatti si traduce in un fantasma esangue. Si assiste, oggi, ad una sempre maggior inversione di tendenza, della quale sicuramente le Procure, o alcune di esse, si giovano: gli esiti delle indagini preliminari, che per loro natura dovrebbero rimanere segreti, vengono resi sempre più “fruibili” - per così dire - al pubblico, con una diffusione mediatica su vasta scala, a danno delle persone sottoposte alle indagini o di altre completamente estranee (si pensi alla diffusione di stralci di intercettazioni ove si menzionino persone non sottoposte alle indagini) ma finanche delle indagini stesse; al contrario, la fase dibattimentale, pubblica e di formazione della prova nel contraddittorio delle parti secondo la regola d’oro di corderiana memoria diventa, paradossalmente, sempre più segreta, lontana dall’interesse mediatico o della stampa, salvo i casi di spiccata rilevanza nazionale. È quindi contro queste derive mediatizzazione del processo penale e potere delle Procure sia come Uffici che come singoli Pubblici Ministeri, sistematica violazione della presunzione di non colpevolezza, distorsione del sistema accusatorio di formazione a dibattimento della prova, cultura del “sospetto”, lo stralcio della regola di giudizio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio - che il ministro Nordio ha proposto una radicale inversione di marcia. Il governo è fresco di nomina ed è quindi ancora presto per pronunciarsi sulle azioni del Guardasigilli. Al di là di ciò che effettivamente farà il Ministro, e la maggioranza di governo tutta, come è stato detto e scritto è il messaggio politico che ora conta: una riforma seria e convincente della Giustizia non può non iniziare dal contrasto a un certo “sonnambulismo” della politica, che un giorno incoraggia e il giorno dopo demonizza l’eccessiva discrezionalità e totale impunità di tali eccessi. Imprescindibile riequilibrare i rapporti tra potere giudiziario e potere politico. Una riforma, dunque, nel segno della Costituzione, del sistema accusatorio di cui al Codice di rito, della figura del Magistrato indipendente, vetta più alta del sistema giudiziario e che porta il cittadino a fidarsi e riaffidarsi nelle mani delle Istituzioni repubblicane, restituendo all’Italia ed al suo sistema- giustizia quella tradizione giuridica di garanzia che l’ha sempre contraddistinta nel mondo. *Avvocato, Direttore Ispeg I trojan sono un buco nero su cui mancano dati e controlli di Giulia Merlo Il Domani, 13 gennaio 2023 Al Senato sono in corso le audizioni sulle intercettazioni e l’ingegner Paolo Reale, che si è occupato anche del caso Palamara, ha spiegato il funzionamento dei captatori informatici e messo in luce la mancanza di regole. Giulia Bongiorno: “Serve una nuova disciplina specifica”. I captatori informatici, i cosiddetti Trojan, sono uno strumento d’indagine essenziale per il contrasto alla criminalità ma anche estremamente invasivi nella privacy dei cittadini e manca un vero controllo sul loro funzionamento. A farlo emergere è stata l’audizione di Paolo Reale, ingegnere e consulente informatico in molti procedimenti penali, che ha curato anche il caso delle intercettazioni via trojan dal cellulare dell’ex magistrato, Luca Palamara. Reale è stato ascoltato dalla commissione Giustizia del Senato, che sta approfondendo il tema, in attesa della riforma delle intercettazioni che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha più volte annunciato. Cosa è e come funziona - Reale ha spiegato che il trojan è un applicativo che viene installato con l’inganno nel cellulare degli intercettati, nella maggior parte dei casi attraverso un link che gli viene inviato dalla sua compagnia telefonica e apparentemente innocuo. Ne esistono di diversi tipi e, a seconda di quale viene installato, cambia l’invasività dello strumento. “Alcuni registrano, accedendo solo al microfono del cellulare che possono accendere o spegnere a comando degli inquirenti. Altri possono accedere anche alla fotocamera, scattando foto e creando video, poi si può accedere anche agli sms o alla messaggistica istantanea, infine al gps e poi anche ispezionare il contenuto del cellulare e i documenti e le immagini che contiene”, ha spiegato Reale. A seconda del tipo di trojan scelto dalla procura, dunque, il prodotto multimediale ottenuto è diverso. Addirittura, ha aggiunto Reale, esiste anche l’ipotesi di strumenti - mai usati in Italia - che possono acquisire i privilegi di amministratore e quindi sono in grado di creare o alterare il contenuto del cellulare. Alla fine della captazione, il trojan viene rimosso da chi lo ha installato e diventa di fatto irrintracciabile sul cellulare intercettato, perché l’applicazione non lascia tracce. Questo crea dei problemi, ”perché questo rende decisamente difficile ricostruire ex post cosa il captatore ha fatto”, ha spiegato Reale. Quanto al funzionamento: il trojan registra sul cellulare, crea dei file con le informazioni raccolte e poi le trasmette al server in cui confluiscono. Per questo, ”per un tecnico informatico non è importante dove sta il server, che oggi deve fisicamente essere dentro una procura della repubblica, ma come si accede, così che solo chi ha diritto possa farlo”. Intercettazioni, ecco i rischi del trojan: “Può fabbricare le prove” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 13 gennaio 2023 Intervista al consulente informatico Paolo Reale, ascoltato ieri dalla commissione del Senato, sul captatore informatico che trasforma i telefoni in microfoni ambientali: “I primi a non sapere come funziona sono i legislatori e i secondi i magistrati”. Chiamato in commissione giustizia dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin per spiegare come funzionano nella pratica i captatori informatici, i famosi trojan horse, il presidente dell’”Osservatorio sull’informatica forense” Paolo Reale ha finito con lo spaventare i commissari che con le audizioni di ieri hanno cominciato l’indagine parlamentare sull’uso delle intercettazioni. Reale è stato consulente della difesa di Luca Palamara, la più celebre vittima del “cavallo di Troia”, il virus informatico che può trasformare uno smartphone in un microfono ambientale e molto di più. “Il primo a non conoscere questo strumento è il legislatore”, spiega Reale raggiunto al termine dell’audizione, “e il secondo è il pubblico ministero”. “Nell’ottica del magistrato inquirente - dice il consulente informatico - il trojan è uno strumento ideale, il punto è che senza conoscerne bene i meccanismi di funzionamento e dunque le problematiche, privilegiando il fine senza pensare ai mezzi, c’è il serio rischio di violare i diritti delle persone intercettate”. Oggi siamo al punto, racconta Reale, che una sentenza della Cassazione ha ritenuto legittimo l’utilizzo come prova di uno screenshot catturato dal trojan mentre il proprietario del telefono stava visionando un foglio Excel, prova che essendo costituita da un documento andava ottenuta magari con un sequestro e non con un’intercettazione che può avere come oggetto solo le comunicazioni. Ma per la Cassazione, se non si trattava di comunicazione “in senso stretto” si è trattato comunque di “un comportamento comunicativo”. La intercettazione-perquisizione fatta dal trojan è potenzialmente senza limiti, perché il virus informatico può attivare non solo il microfono del telefono (che diventa microfono ambientale), ma anche scattare foto e registrare video, accedere alla rubrica, alle foto, al contenuto dei messaggi, delle mail e alla cronologia del browser. Il tutto senza lasciare traccia. Addirittura, ha spiegato Reale ai senatori, trojan di più recente generazione possono cancellare le prove, o produrle quando sono dotati dei privilegi di scrittura. Possono, per esempio, navigare autonomamente in rete e scaricare video o foto. E possono farlo anche senza lasciare alcuna traccia, perché una volta rimosso il trojan il suo passaggio può essere reso invisibile anche ai tecnici informatici. “Ha presente la classica scena del film americano in cui un agente provocatore mette una bustina di droga nella tasca di chi vuole incastrare? Con il trojan si può fare l’equivalente digitale, ma assai più facilmente e senza lasciare impronte”. Ecco perché secondo Reale i trojan avrebbero bisogno di essere regolamentati in maniera diversa e più rigorosa rispetto alle comuni intercettazioni telefoniche e ambientali, ed ecco perché la prima cosa da prevedere sarebbe la tracciabilità di tutto quello che è stato estratto e registrato. “Se un cittadino, magari per difendersi, vuole saper a quali dati e quando la polizia giudiziaria ha potuto aver accesso tramite il suo telefono adesso può non avere risposta”. Altrettanto importante sarebbe avere una certificazione delle aziende, molto spesso estere, che effettuano il servizio di intercettazione su mandato delle procure. Al momento non c’è chiarezza sui requisiti base (un tavolo tecnico tra ministero e aziende del settore previsto da cinque anni non è stato istituito) e quindi neanche sulle procedure di chi in concreto intercetta. Per esempio, racconta Reale, “è capitato di scoprire che un’azienda conservasse il materiale estratto dai telefoni in un server di Amazon in Oregon”. In teoria tutto dovrebbe invece restare sui server della procura che indaga. “Sono errori che derivano dal fatto che nessuno controlla, quindi le aziende anche in perfetta buona fede cercano i sistemi per risparmiare o per rispondere più rapidamente alle richieste della polizia giudiziaria”. Polizia che, sempre in teoria, dovrebbe essere l’unica a poter gestire i trojan, per esempio accendendo e spegnendo il microfono, una volta che il virus, con la complicità del gestore telefonico, è stato inoculato. Ma non sempre accade. Così come non c’è certezza che i tecnici della ditta che effettua il servizio (a pagamento, 150 euro al giorno) non possano accedere ai contenuti intercettati. “La possibilità tecnica c’è”, ha detto reale rispondendo alle domande dei senatori, “e in campo informatico se una cosa è possibile poi succede”. Carlo Nordio fermato sull’abuso d’ufficio: un caso al governo di Paolo Ferrari Libero, 13 gennaio 2023 Nulla da fare: l’abuso d’ufficio, il reato “prezzemolo” che da anni ormai non si nega a nessun sindaco o assessore, non verrà abolito ma sarà modificato per l’ennesima volta. È quanto emerso ieri al termine di un vertice a via Arenula con il ministro della Giustizia Carlo Nordio e i suoi collaboratori. Per eliminare questa spada di Damocle sulla testa dei pubblici amministratori, Nordio, aveva invece avanzato nelle scorse settimane la proposta di abolirlo per scongiurare così il rischio dell’amministrazione “difensiva”, la cosiddetta paura della firma. Immediata era stata la reazione dei pm secondo cui una simile riforma avrebbe dato il via ad una giustizia “forte con i deboli e debole con i forti”, di fatto un ritorno a “pre Mani pulite”. L’abolizione dell’abuso d’ufficio era da sempre uno dei cavalli di battaglia del centrodestra. Il leader della Lega Matteo Salvini aveva sempre affermato che tanti operatori del pubblico gli chiedevano il superamento dell’abuso d’ufficio che sta “ingessando” il Paese. “Ci sono 8mila sindaci bloccati che non firmano nulla per paura di essere indagati”, le parole di Salvini. Di modifiche, come detto, l’abuso d’ufficio ne ha avute tante. La norma è stata modifica nel 1990, nel 1997 e nel 2020. Nel 2012 la legge Severino ne ha inasprito di un anno trattamento sanzionatorio, inizialmente “da sei mesi a tre anni”. L’ultima modifica, in particolare, ha limitato il reato alle sole regole che non implicano l’esercizio di un potere discrezionale, escludendo che la violazione di una specifica ed espressa regola di condotta, caratterizzata da margini di discrezionalità, possa integrare un abuso d’ufficio penalmente rilevante. Modifiche che non hanno però mai soddisfatto gli amministratori pubblici. Per il presidente dell’Anci Antonio De Caro (Pd) “non cerchiamo l’impunità ma sono troppi i rischi penali e civili”. “L’Italia è un Paese che ha 200mila leggi, decine di migliaia di regolamenti di attuazione, decine di migliaia di altre regole applicative delle leggi approvate. Ha un tasso di cambiamento vertiginoso che si aggiunge all’inflazione legislativa”, aveva affermato il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca (Pd), più volte indagato per abuso d’ufficio. “Bisogna mettersi nei panni- aveva aggiunto De Luca - di un dirigente di un ufficio appalti di un Ente pubblico e cercate di capire come sia possibile muoversi in questo ginepraio, nel quale il reato di abuso d’ufficio diventa uno di quelli che io chiamo inevitabili”. Lo “spauracchio” è determinato dalla legge Severino che consente di sospendere dall’incarico gli amministratori che vengono condannati anche solo in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione. Senza considerare le conseguenze “obbligatorie” per il funzionario condannato, sempre solo in primo grado: decurtazione dello stipendio e trasferimento d’incarico. Per il deputato dem Alfredo Bazoli, favorevole ad una riflessione sulla legge Severino, l’ultima formulazione del reato era un buon compromesso. “Il referendum dello scorso giugno che voleva abrogare del tutto la legge Severino ha complicato la discussione fra i partiti. Il Pd è favorevole ad una riscrittura di alcune parti della norma, differenziando meglio le responsabilità del politico, sindaco o l’assessore, da quelle del dirigente”, aveva dichiarato il deputato dem.  La Consulta: soltanto il giudice può disporre il divieto del cellulare alle persone già condannate Italia Oggi, 13 gennaio 2023 I giudici della Corte costituzionale: “La misura di prevenzione non può essere disposta dal questore, che può soltanto farne proposta”. Nei confronti di persone già condannate per delitti non colposi, e abitualmente dedite, per la loro condotta, alla commissione di reati, il questore non può autonomamente disporre la misura di prevenzione consistente nel divieto di possedere o utilizzare telefoni cellulari. Trattandosi di un provvedimento che incide sulla libertà di comunicazione, l’autorità di pubblica sicurezza può farne proposta, ma la decisione spetta all’autorità giudiziaria, come prevede l’art. 15 della Costituzione. È quindi costituzionalmente illegittima la disposizione del codice delle leggi antimafia nella parte in cui, secondo l’interpretazione della Corte di cassazione, include i telefoni cellulari nella nozione di “apparato di comunicazione radiotrasmittente” di cui il questore può vietare – con l’avviso orale “rafforzato” – il possesso o l’utilizzo. Lo stabilisce la Corte costituzionale con la sentenza n. 2 del 2023 (redattore Nicolò Zanon), in risposta alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Sassari. La sentenza afferma che le limitazioni relative all’uso di un determinato mezzo non necessariamente si convertono in restrizioni al diritto fondamentale che l’impiego di quel mezzo consenta di soddisfare. Riconosce, tuttavia, che nello specifico caso in esame la disciplina restrittiva relativa al telefono cellulare – considerata l’universale diffusione attuale di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – “finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione”. Per questa ragione, come appunto richiede l’articolo 15 della Costituzione, la decisione non può che spettare all’autorità giudiziaria. Toscana. Un accordo per formare “detenuti muratori” di Antonella Barone gnewsonline.it, 13 gennaio 2023 Impareranno a edificare opere in muratura ma, soprattutto, potranno iniziare, già dal carcere, a costruire il proprio futuro una volta terminata la pena. Un’opportunità offerta a detenuti dei penitenziari toscani dall’accordo siglato l’11 gennaio fra il ministero della Giustizia - Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, l’Ance - Associazione Nazionale Costruttori Edili della Toscana e il Formedil Toscana. La convenzione prevede percorsi rivolti soprattutto a formare figure professionali di addetti alle opere murarie, decoratori, pittori, termoidraulici, elettricisti e maestranze addette alla manutenzione ordinaria. I corsi, organizzati dai costruttori toscani con la collaborazione dell’associazione Seconda Chance, si svolgeranno all’interno degli Istituti penitenziari e le figure formate potranno essere inserite o reinserite nel mondo del lavoro, qualora la misura detentiva lo consenta o comunque sia conclusa. “Con questo protocollo abbiamo voluto offrire ai reclusi un chiaro segnale di ripresa delle attività trattamentali dopo il difficile periodo della pandemia” afferma Pierpaolo D’Andria, provveditore regionale. “Oltre a fornire, a quanti coinvolti, un cospicuo portfolio di conoscenze e competenze spendibili sul mercato del lavoro, può favorire un positivo percorso di rieducazione e di reinserimento sociale, che dia un senso al ‘tempo della pena’ come momento di riflessione, crescita e cambiamento”. Rossano Massai, presidente di Ance Toscana, ha sottolineato come l’esperienza possa costituire anche una prima risposta alla grave mancanza di manodopera lamentata da molte nostre imprese, grazie alla “possibilità di avere maestranze adeguatamente formate e pronte a essere inserite subito in cantiere”. Un modello di inserimento lavorativo che, come si augura Vincenzo di Nardo, vicepresidente di Ance Toscana “potrà essere diffuso sul tutto il territorio nazionale e applicato anche ai cittadini stranieri arrivati in cerca di lavoro”. La strategia di andare incontro ai fabbisogni delle imprese è stata apprezzata anche da Daniele Battistini, vicepresidente di Formedil mentre il presidente Giannetto Marchettini ha evidenziato come l’esperienza del sistema paritetico delle scuole edili, maturata nell’organizzare corsi negli istituti penitenziari, potrà essere valorizzata dal nuovo protocollo. La firma dell’accordo è stata promossa da Seconda Chance, organizzazione no profit che vuole favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti attraverso la costruzione di una rete di imprenditori e istituzioni, che possa semplificare l’incontro tra domanda e offerta. Referente dell’organizzazione per la Toscana il giornalista Stefano Fabbri che, spiega la presidente di Seconda Chance Flavia Filippi, “sarà l’anello di congiunzione tra Ance e Istituti, e rappresenterà un costante punto di riferimento per gli imprenditori da accompagnare ai colloqui e per i detenuti che saranno impegnati nei cantieri”. Torino. Evade dal “Ferrante”, giovani senza futuro nel limbo delle carceri di Marina Lomunno vocetempo.it, 13 gennaio 2023 Intervista - Con l’evasione, martedì 10 gennaio, di un minorenne dal Centro di Prima accoglienza del “Ferrante Aporti”, torna in primo piano l’emergenza carcere. Sulla situazione dei giovani detenuti nei penitenziari torinesi parliamo con Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino. Con l’evasione, martedì 10 gennaio, di un minorenne dal Centro di Prima accoglienza del “Ferrante Aporti”, torna in primo piano l’emergenza carcere. Sulla situazione dei giovani detenuti nei penitenziari torinesi parliamo con Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino, a partire dalla recente ricerca “Giovani dentro e fuori”. Voluto dalla Garante e realizzata in collaborazione con la Clinica legale “Carcere e Diritti I” diretta da Cecilia Blengino del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, lo studio, grazie alle visite di Monica Cristina Gallo a partire dalla fine del 2021 nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno di Torino”, evidenzia un aumento dei giovani detenuti tra i 18 e i 25 anni. “In Italia il Tribunale per i Minorenni giudica coloro che hanno commesso reati prima di compiere la maggiore età, tra 14 ed i 18 anni, dal momento che i minori di 14 anni non sono imputabili per legge, mentre per gli adulti l’intervento è prerogativa del Tribunale Ordinario” spiega la Garante. “Ad esempio, se due giovani nati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, vengono arrestati per aver insieme commesso lo stesso reato avranno percorsi penali molto differenti: il giovane maggiorenne, anche se lo è solo da pochi giorni, sarà prerogativa della Giustizia Ordinaria, che riserva trattamenti e percorsi in totale assenza di opportunità trattamentali adeguate e che non tiene conto delle esigenze evolutive individuali. L’altro “quasi” diciottenne verrà recluso al “Ferrante Aporti”. La nostra ricerca analizza i maggiorenni che a mio avviso sono i più penalizzati ed invisibili”. La ricerca promossa dal suo Ufficio in collaborazione con l’Università, pubblicata a ridosso dell’evasione di alcuni detenuti dall’Istituto penale minorile Beccaria di Milano, evidenzia lo “stato cronico stato di sofferenza” in cui versano le carceri della Penisola soprattutto per la fascia più giovane della popolazione detenuta. Da più parti si dice che questo non è un Paese per i giovani… Possiamo dire lo stesso per gli Istituti di pena? “La privazione della libertà personale è una condizione devastante per tutti ma per i giovani lo è ancora di più. La ricerca, come evidenziato si sviluppa all’interno di un contesto, la Casa Circondariale di Torino che come è noto è un Istituto che da anni soffre di gravi carenze strutturali e di personale ed è quindi facilmente comprensibile come non possa essere un luogo adatto a soddisfare le esigenze evolutive ed il percorso di crescita in atto nei giovani reclusi. L’analisi dei risultati qualitativi evidenzia una condizione di abbandono e un trattamento senza alcuna particolare attenzione verso i ragazzi. Un carcere che non era pronto ad affrontare la pandemia ma neppure a gestire gli esiti della stessa, che inevitabilmente sul territorio hanno creato maggiori disagi ed isolamento proprio nei giovani con il conseguente aumento di reati e carcerazione”. Dalle colonne di questo giornale il giudice Ennio Tomaselli, già procuratore del Tribunale dei minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, richiamando la vicenda del Beccaria ma anche le tensioni dello scorso autunno all’Istituto penale per i minorenni (Ipm) “Ferrante Aporti”, che sembrano non sopite, sottolineava come “i ragazzi ristretti negli Ipm non sono di ciascuno di essi, ma di tutti noi”. Come commenta queste parole e cosa deve cambiare nel nostro sistema carcerario perché - soprattutto per i reclusi più giovani - il tempo della pena sia, coerentemente al dettato costituzionale, volto alla rieducazione? “Il giudice Tomaselli ha perfettamente ragione. Non limiterei però tale affermazione ai giovani ristretti negli Istituti minorili bensì a tutti i giovani: gli invisibili nelle carceri per adulti da noi intercettati, i giovani sul territorio che vivono una condizione caratterizzata da isolamento, ritiro sociale e abbandono scolastico, caratteristiche che devono interrogare ognuno di noi ed in particolare i decisori politici. Il carcere non è mai la soluzione. Il sistema carcerario attuale non è adeguato per il recupero dei giovani ma tende ad isolarli ancora di più. Agire con un sistema efficace di politiche di prevenzione sul territorio e incidere maggiormente l’applicabilità della Probation (messa alla prova) anche per i maggiorenni (opportunità possibile per legge dal 2014) potrebbe risultare più efficace e sicuramente meno costosa”. Il Questore di Torino Vincenzo Ciarambino, commentando la vostra ricerca - che evidenzia come il 43,14% dei giovani detenuti prima di varcare i cancelli del “Lorusso e Cutugno” viveva in Barriera di Milano - ha affermato che quando un giovane finisce in carcere siamo tutti sconfitti. Cosa si può fare perché nella città dei Santi sociali le periferie ritornino al centro delle cure della collettività? “In questi ultimi anni gli investimenti nelle periferie della nostra Città sono stati molti ma i risultati che emergono dalla ricerca mostrano chiaramente che alcuni luoghi sono in profonda sofferenza e i giovani con ogni probabilità non trovano un contesto accogliente ma di esclusione. Sperimentare nuove forme di educazione non formali ma specializzate, di azione educativa in ambiente aperto con professionisti in grado di far circolare l’amicizia come finalità e metodologia educativa potrebbe essere una delle tante formule da incentivare. Del resto anche noi durante il nostro lavoro di indagine abbiamo privilegiato la formula del peer to peer, coinvolgendo nella somministrazione dei questionari dei giovani, in particolare universitari della Clinica Legale e solo così è stato possibile incoraggiare i giovani detenuti non solo a rispondere ma a riflettere sul loro futuro e sulle loro responsabilità”. Lo scorso dicembre il vicepresidente del Consiglio regionale Daniele Valle, dopo una visita con Igor Boni presidente dei Radicali italiani al “Ferrante Aporti” denunciava l’assenza in tutto il Piemonte di posti nelle comunità terapeutiche ed educative per garantire percorsi in uscita ai giovani ristretti che rischiano di dover essere trasferiti per la riabilitazione e la formazione in comunità anche nel sud Italia. Dal suo osservatorio qual è lo stato di salute dell’Ipm di Torino? Quali le urgenze? “Siamo tornati a sentir parlare di Istituti minorili solo dopo il triste evento del Beccaria ma i riflettori sugli Ipm ben poco si sono accesi negli ultimi anni. Entrando in carcere spesso ci si accorge come la giovane popolazione detenuta sia cambiata, pensiamo ai minori non accompagnati che compongono la maggior parte della comunità penitenziaria minorile anche al “Ferrante” ma non pensiamo sufficientemente ai loro viaggi migratori sempre più rischiosi, violenti e traumatici, non conosciamo i loro percorsi di inclusione, i programmi delle comunità di accoglienza e le loro fughe da esse. Non dobbiamo guardare lo stato di salute dell’Istituto di pena minorile di Torino ma dei ragazzi che dentro sono reclusi e lavorare tutti insieme per la costruzione di collaborazioni più forti tra enti pubblici e privati e potenziare a tutti i livelli, équipe multidisciplinari per superare la categoria specifica cosi contemplata dalla legge italiana: 1) minori, 2) non hanno cittadinanza italiana, 3) si trovano sul territorio senza la presenza di un adulto che ne abbia la tutela. Consiglio di vedere il film “Le nuotatrici”: ci può aiutare a riflettere ancor di più su questi temi”. Castelfranco Emilia (Mo). Anche il carcere ha il suo open day. E dietro le sbarre c’è il lavoro di Lara Mariani informazionesenzafiltro.it, 13 gennaio 2023 Molti ne parlano, ma pochissimi scelgono di entrarci: siamo andati nel carcere di Castelfranco Emilia per testimoniare le attività quotidiane dei detenuti tramite la loro voce viva. La direttrice Maria Martone: “Qui occorre il lavoro: da noi ci sono spazi gratis e sgravi fiscali”. È stata la mia prima volta. Ormai sono due anni che scrivo di carcere, cercando di capire cosa c’è di buono dentro le mura ed evitando le solite notizie di suicidi e sovraffollamento. Ho intervistato detenuti, direttori degli istituti penitenziari e persone che lavorano e fanno volontariato, ma sempre al telefono. Non ero mai riuscita a metterci un piede dentro, al carcere. La pandemia ha reso impossibile per un lungo periodo ogni visita, e in questi due anni l’ho sempre visto e raccontato con gli occhi degli altri. Questa volta no. Questa volta gli occhi sono i miei. L’occasione mi è stata offerta da Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, che mi ha invitato a un open day nella casa di reclusione di Castelfranco Emilia (in provincia di Modena). Lo so, in questo caso l’espressione “open day” ha un suono davvero strano. Arrivata a Castelfranco, ho parcheggiato nel posto sbagliato e ho fatto parecchia strada prima di capire dove fosse l’ingresso del carcere. Ero in anticipo, poco male. Ho attraversato un parco pieno, anzi strapieno di conigli che sicuramente avrebbero trovato la strada prima di me. Una volta entrata ho trovato un albero di Natale, un presepe e un’atmosfera quasi accogliente. Poi a ricordarmi che ero in galera ci hanno pensato gli agenti della polizia penitenziaria che mi hanno avvicinato per richiedere il documento. Mi hanno anche fatto lasciare il telefono in una cassetta di sicurezza. Poco male, mi sono detta; invece di registrare prenderò appunti. Invece male, perché mi è mancato molto il fatto di non poter fare fotografie. Fotografare mi aiuta a mettere a fuoco particolari inaspettati, a ricordare sensazioni ed esperienze. Invece ho dovuto fare affidamento sui ricordi, scritti e non, dei miei incontri. Tra gli incontri, per prima citerei Maria Martone. Più che la direttrice di un istituto penitenziario a me è sembrata una manager, nelle idee, nelle parole, nei fatti. Per la prima volta in Italia ha voluto sperimentare l’open day in carcere, e non per far vedere quanto sia gestita bene la “sua azienda”, ma per cercare investitori. “Qui occorre il lavoro” sono state le sue prime parole. “Il carcere è una realtà praticamente sconosciuta, ma le cose possibili sono tante. C’è del buono da far conoscere, e il nostro scopo è trovare realtà produttive disposte a investire usufruendo di tutti vantaggi logistici e fiscali che possiamo offrire, senza contare l’importantissimo investimento in sicurezza sociale. Ci sono innumerevoli studi che dimostrano che uscire dal carcere con un mestiere in mano abbatte i rischi di recidiva, e sappiamo altrettanto bene che, se questa possibilità non viene offerta, una volta usciti il reato è dietro l’angolo”. La visita era infatti dedicata alle associazioni di volontariato, con l’obiettivo di mostrare loro le attività della casa di reclusione e cercare cooperative e imprese che abbiano voglia di investire sul lavoro dei detenuti. Grazie alla legge Smuraglia - che prevede sgravi contributivi e fiscali per le imprese o cooperative che assumono detenuti - e alla possibilità di usufruire gratis di spazi e capannoni, per l’imprenditore gli incentivi sono notevoli. E non solo a Castelfranco Emilia: i detenuti vogliono lavorare in tutta Italia. Non solo per avere un reddito con cui aiutare le proprie famiglie, ma anche per dare un senso alla reclusione e al tempo trascorso in carcere. Per questo Maria Martone nella sua casa di reclusione ha dedicato 22 ettari di terreno a serre, vigneti e colture biologiche. Qui gli spazi sono molto ampi sia all’aperto che al chiuso, c’è anche un allevamento di galline ovaiole, e i detenuti frequentano periodicamente corsi di formazione che gli permettono di avere l’abilitazione per la guida dei trattori e altre certificazioni. Le attività che si possono svolgere in questa struttura sono tante e diverse. La direttrice ci ha mostrato laboratori per la produzione di miele, di ostie e di presepi. Tra le attività lavorative c’è anche un call center e una lavanderia, attualmente l’unica esperienza fallimentare del carcere. Infatti, tutti i prodotti agricoli vengono venduti al mercato settimanale del paese e sono anche molto apprezzati dai cittadini. Le ostie, la cui produzione è seguita dalla cooperativa Giorni Nuovi, hanno una distribuzione nazionale e sono arrivate persino al congresso eucaristico. Anche il call center funziona molto bene. La lavanderia, invece, non ha retto il colpo della pandemia. Lavorava soprattutto con gli alberghi e il crollo di commesse è stato inevitabile. Non ha smesso di funzionare, però: è rimasta attiva per le esigenze del carcere. “Stiamo cercando un collegamento stabile con l’imprenditoria locale - mi spiega la direttrice Martone - perché qui ci sono capannoni e spazi liberi che possono essere utilizzati gratis da chi vuole portare il lavoro dentro il carcere e usufruire di tutte le agevolazioni logistiche e fiscali che possiamo offrire.” La sua è un’operazione di marketing a tutti gli effetti, e per dimostrare il valore del lavoro dentro le mura ci offre anche la possibilità di chiacchierare con i detenuti. Lei fa da capofila e prima di entrare nei laboratori si pulisce a lungo le scarpe sullo stuoino davanti all’ingresso. Noi seguiamo il suo esempio con una sorta di automatismo, e solo dopo capisco l’importanza di un gesto così accurato: stiamo entrando in un ambiente pulito e ordinato, che tale deve rimanere. Un gesto che dimostra il rispetto e la dignità di chi vive quegli ambienti. Il primo detenuto con cui parlo è Arbi, un giovane che lavora nell’apiario biologico. È timido e noi lo abbiamo assalito con i nostri sguardi curiosi. Però quando gli ho chiesto del suo lavoro ha vinto la timidezza e mi ha parlato del processo di smielatura e della produzione di candele: “Lavoro sei ore al giorno e amo molto stare con le api. Quando uscirò da qui spero di tornare in Tunisia con un mestiere in mano”. Non è di molte parole, mi racconta ciò che per lui è essenziale. I detenuti che incrociamo sono tutti disponibili e impazienti di mostrare al mondo esterno ciò che fanno. Ci sono ragazzi che studiano e le aule sono piene di cartelloni e disegni appesi alle pareti. Nei corridoi scorrono murales coloratissimi e l’ambiente è caldo e pulito. Incontro sorrisi e tanta disponibilità, ma anche le lacrime di chi ha moglie e figli lontani e sente un grande vuoto che non riesce a riempire con il lavoro o con lo studio. Lacrime che hanno fatto diventare lucidi anche i miei occhi e quelli dell’amico detenuto che è lì, accanto a quel padre triste. Ripeto, era la mia prima volta in carcere e non sapevo cosa aspettarmi da quella giornata, ma di sicuro non questo. E non lo scrivo spinta da un buonismo ingenuo, ma semplicemente con la consapevolezza che lì dentro ci sono vite che non conosciamo e che spesso meritano la nostra attenzione. Dopo i luoghi di lavoro abbiamo visitato le celle. Uso la parola visitato non a caso, perché ci era inaspettatamente concesso di entrare nelle loro stanze. Io però non me la sono sentita. Ho intravisto da fuori le coperte colorate, i panni stesi, le scarpe riposte ordinatamente sotto i letti e le foto delle donne e dei bambini appese alle pareti. Era evidente che si erano preparati per l’occasione, che avevano riordinato gli ambienti come meglio potevano, ma non me la sono sentita di entrare. Mi sono tornate in mente le lacrime di poco prima e mi sembrava di invadere troppo la loro tristezza. Uscendo dalla zona delle celle ho ascoltato i commenti delle persone accanto a me. Ero l’unica giornalista, gli altri erano delegati di associazioni di volontariato e di cooperative che si dedicano ai detenuti, quindi tutti abituati a lavorare dentro le mura. Qualcuno diceva che “questa di Castelfranco Emilia è davvero una realtà unica, ma la gestione è piuttosto semplice perché è una casa di reclusione a custodia attenuata che ospita solo 78 detenuti”. Secondo loro organizzare le attività qui è meno complesso rispetto, ad esempio, al carcere di Parma dove i detenuti sono 700 e si dividono tra alta e media sicurezza. Non è sempre vero. Certo, il carcere di Castelfranco ha enormi spazi e molti terreni (anche qui scorrazzavano un sacco di conigli), ma il garante Roberto Cavalieri mi ha spiegato che organizzare il lavoro dove ci sono pochi detenuti non è semplice, perché tra chi è anziano o malato, o chi già lavora per l’amministrazione penitenziaria (svolgendo attività utili alla gestione quotidiana del carcere), non sempre si riescono a trovare i numeri giusti. Invece la direttrice Maria Martone non solo li ha trovati, ma ha individuato anche le giuste attività e ha dichiarato che in futuro vuole garantire sempre più lavoro e formazione. “Vorrei che il carcere si contaminasse con le attività del territorio, rispettando la vocazione del territorio”. Lei ha scelto con forza di investire nell’uomo e nel marketing del carcere. Riuscite a darle torto? Io no. Livorno. Il carcere a cielo aperto sull’isola di Gorgona di Federica Tourn Internazionale, 13 gennaio 2023 Il futuro di un progetto avviato trent’anni fa per rendere più umana la detenzione è incerto, dice l’ideatore Carlo Mazzerbo, ora in pensione dopo aver diretto a lungo la Casa di reclusione. Se il tempo lo permette, il traghetto da Livorno attracca due volte alla settimana sull’isola di Gorgona. La traversata dura un’ora. Sono pochi i turisti che visitano una delle ultime isole usate come carcere in Europa. È dal 1869 che quest’isola di due chilometri quadrati nel mar Tirreno è popolata da detenuti. Oggi ne ospita fino a ottanta, tutti uomini, in quello che è un esperimento innovativo di reinserimento per un sistema penitenziario cronicamente sovraffollato e con pochi fondi come quello italiano. È un carcere aperto: i detenuti sono chiusi nelle loro celle dalle otto di sera alle sei del mattino. All’alba le porte di ferro sono aperte e sono liberi di uscire. Vanno a lavorare nei frutteti, nelle vigne o ad accudire gli animali. Alcuni sono impiegati in cucina, altri puliscono o si occupano della manutenzione dei fatiscenti edifici del carcere. Nel pomeriggio possono fare volontariato, sport o partecipare ad attività culturali. Oppure incontrare dei visitatori o pranzare con le loro famiglie. Tutti i detenuti, spesso criminali che stanno per finire di scontare condanne per reati gravi, sono pagati per il loro lavoro. Una parte dello stipendio è usata per il loro mantenimento, una va alle loro famiglie e una è messa da parte per quando saranno rilasciati. Quindici detenuti lavorano per l’azienda vinicola Frescobaldi e coltivano un premiato vino bianco, il Gorgona, che può costare anche novanta euro a bottiglia. Se ne producono solo quattromila all’anno. I reclusi non possono assaggiare il frutto del loro lavoro, ma sono pagati come gli altri dipendenti dell’azienda, che ha sei tenute sulla terraferma. Intorno al vigneto ci sono gli orti con pomodori, melanzane, zucchine e basilico. Sull’isola si producono anche formaggio, pane e miele. Unico candidato - Un esperimento avviato trent’anni fa da Carlo Mazzerbo, un ambizioso e giovane agente penitenziario stufo di lavorare in un carcere di massima sicurezza. “Quando seppi che c’era l’opportunità di andare a Gorgona la colsi al volo”, ricorda. “Ero l’unico candidato. Pensavo che sarei rimasto solo due o tre anni, ma poi mi sono innamorato del posto. Così ho potuto realizzare un sistema penitenziario più umano, in cui ci si può guardare negli occhi”. È diventato il progetto di una vita e Mazzerbo ha lottato per mantenere aperto il carcere, guadagnandosi anche il sostegno della famiglia Frescobaldi e di alcuni artisti italiani. Nel 2022 è andato in pensione e ora teme per il futuro dell’istituto, anche se il tasso di recidiva è del 20 per cento, contro una media in Italia di circa il 70 per cento. Mazzerbo ha convinto il regista Gianfranco Pedullà a lavorare con i detenuti, portando sull’isola la sua compagnia Teatro popolare d’arte. La scorsa estate hanno messo in scena uno spettacolo all’aperto, le Metamorfosi di Ovidio. “C’è il rischio che la struttura sia chiusa”, dice l’ex direttore. “Per questo ho investito molto sulle relazioni pubbliche, sul coinvolgimento delle aziende e dell’amministrazione comunale, che finora si sono impegnate a tenerla aperta”. Eravamo solo numeri - Alcuni detenuti chiacchierano appoggiati a un muro, tengono le sigarette nel palmo della mano per ripararle dal vento. “Qui nessuno mi ha mai chiesto cosa ho fatto”, dice Vito, che per quattordici anni è stato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, vicino a Napoli. “Qui c’è umanità. Quando hai dei problemi ti ascoltano e gli agenti cercano di aiutarti”. A Santa Maria Capua Vetere le rivolte erano all’ordine del giorno e nel 2022 sono stati rinviati a giudizio 105 agenti e funzionari per violenze contro i detenuti avvenute nel 2020. Più tardi, nelle cucine, Luigi, un ex detenuto dello stesso carcere, racconta: “Lì eravamo solo numeri. Ho visto molti suicidarsi per sfuggire ai continui maltrattamenti”. Gli altri detenuti con cui parlo hanno ricordi amari delle altre carceri. Tutti ora stanno meglio. Uno di loro ha appena pubblicato il suo primo romanzo. Un altro, condannato per aver ucciso il socio in affari, racconta che quando sua moglie gli fece visita per la prima volta non riusciva a guardarlo negli occhi. Ora quando sarà rilasciato celebreranno di nuovo la loro unione. Pierangelo Campolattano, agente penitenziario, che ha trascorso gran parte della sua carriera sull’isola, racconta: “Viviamo in una sorta di comunità in cui ognuno ha il suo ruolo. È un modello con un grande potenziale, da replicare”. Dalla Chiesa e le Brigate rosse, l’ultima vittoria dell’antipolitica di Stefano Cappellini La Repubblica, 13 gennaio 2023 La serie interpretata da Castellitto offre una sintesi storica corretta ma in alcuni passaggi cede alla vulgata complottista anti partiti. Eppure il terrorismo fu sconfitto anche perché a Roma c’era una politica degna di questo nome. Era l’inizio degli anni Novanta quando il settimanale ‘Cuore’ pubblicò l’esito di un sondaggio tra i giovani dell’epoca da cui emergeva un dato inquietante: una percentuale significativa era convinta che la strage di Piazza Fontana del 1969 fosse opera delle Brigate rosse. Seguì accorato e giustificato dibattito, reso più amaro dal fatto che dalla bomba di Milano erano passati appena vent’anni, ancora meno dalle azioni brigatiste più efferate e, ciò nonostante, la confusione e l’ignoranza guidavano già le convinzioni di un pezzo ampio di opinione pubblica, specie la più acerba.  Il trascorrere del tempo non deve aver migliorato la situazione né ha aiutato la pubblicistica su quegli anni, via via dominata da ricostruzioni ispirate a un complottismo sempre più simile alla narrativa di Dan Brown che a una storiografia politica. Cosicché i giovani delle generazioni successive a quella del sondaggio di ‘Cuore’, che erano i nati nei Settanta, hanno potuto dividersi tra una parte, i più, che ha continuato a ignorare cosa fossero le Br e un’altra che ha cominciato a considerarle una costola della Cia o del Mossad o del Kgb o della Democrazia cristiana, persino. Un delirio esoterico condito di massoneria, culti pagani, codici cifrati, aristocrazia mezzo deviata e mezzo satanica, fantasiosa ricerca di capi occulti delle Br che però non erano Ugo Tognazzi, come nella geniale copertina del ‘Male’, il giornale satirico che precedette e un po’ ispirò ‘Cuore’.  Se un merito va riconosciuto a ‘Il nostro generale’, la serie in otto episodi dedicata a Carlo Alberto Dalla Chiesa, interpretato da Sergio Castellitto, che la Rai sta mandando in onda con ottimi ascolti, è di offrire una sintesi storica corretta e depurata dalle più viete dietrologie. Un diciottenne può uscire dalla visione della serie, diretta da Lucio Pellegrini e prodotta da Stand by me e Rai, con un’idea di cosa erano le Br e cosa hanno combinato, di come Dalla Chiesa le affrontò rivoluzionando i metodi di indagine e fondando i nuclei antiterrorismo dell’Arma dei carabinieri. Non ci troverà invece, sempre il diciottenne, le idealizzazioni e i romanticismi che spesso hanno accompagnato il racconto cinematografico della lotta armata, e potrebbe persino convincersi che siano stati effettivamente i brigatisti a uccidere Aldo Moro. Mica poco, considerando in quale notte di vacche nere deve essersi sentito un giovane che si sia messo alla visione di Esterno notte di Marco Bellocchio, serie anch’essa trasmessa di recente dalla Rai, acclamata da buona parte della critica e apprezzata da molti reduci dell’epoca, forse perché loro, a differenza di chi è nato a ridosso dei Duemila, sono in grado di apprezzare le divagazioni artistiche di Bellocchio senza ritrovarsi a pensare che Moro, in fondo, sia stato ucciso da Francesco Cossiga o da Benigno Zaccagnini.  Due serie, insomma, molto diverse e che in un certo senso sembrano ancora figlie delle fratture che si crearono a sinistra proprio in quella temperie: da una parte l’extraparlamentarismo di Bellocchio, in gioventù militante maoista di Servire il popolo, in cui talvolta i brigatisti paiono meno colpevoli di certi politici, dall’altra un’ispirazione vicina alla linea del vecchio Pci, il cui ministro ombra dell’Interno, Ugo Pecchioli, passò sottobanco a Dalla Chiesa i nomi dei brigatisti emiliani usciti dal partito per passare in clandestinità. Nel Nostro Generale compare spesso, fedele alleato di Dalla Chiesa, Giancarlo Caselli, giudice istruttore a Torino ed esponente di Magistratura democratica, che inquisisce i terroristi e li sfida al rispetto della democrazia. Eppure, nonostante le diverse impostazioni culturali, c’è un tratto che accomuna ed è la cifra antipolitica. In Bellocchio è l’ispirazione principale. Nella serie su Dalla Chiesa è uno spiffero più leggero ma costante. Roma è citata sempre come sinonimo di palude, tranello, doppio gioco. Dalla Chiesa parla dei politici con un velo di disprezzo e ai giovani carabinieri dei nuclei antiterrorismo vengono messe in bocca frasi altrettanto sprezzanti. Quando Dalla Chiesa viene silurato e i suoi nuclei sciolti, un carabiniere la spiega così: “Forse pensano che un po’ di terrorismo fa bene, la paura tiene a bada la gente”. Il passaggio più significativo è quello sull’arresto nel 1974 a Pinerolo dei capi brigatisti Renato Curcio e Alberto Franceschini, il primo e più clamoroso successo dei carabinieri di Dalla Chiesa. Nella fiction il generale si rammarica che Mario Moretti, destinato dopo l’arresto di Curcio a diventare il capo delle Br, sia scampato all’arresto giovandosi di una soffiata e a uno dei suoi giovani collaboratori dice: “O la soffiata è partita da qui”, e Dalla Chiesa intende i carabinieri, “o dalla Procura, oppure...”. E qui il generale tace, ha alzato una palla che un suo giovane collaboratore schiaccia così: “Dalla politica!”. Sorriso compiaciuto di Dalla Chiesa. In realtà Moretti non scampò a quell’arresto, semplicemente perché non era previsto che accompagnasse Curcio e Franceschini all’appuntamento con Silvano Girotto, alias frate Mitra, l’infiltrato che Dalla Chiesa aveva gettato come un osso dentro le Br. Successe invece che la sera prima dell’arresto qualcuno, probabilmente interessato a far fallire l’operazione di Dalla Chiesa, fece avere a Moretti la notizia che l’indomani Curcio e Franceschini sarebbero caduti nell’agguato dei carabinieri. Moretti non riuscì a contattarli per avvertirli del pericolo, o almeno così sostenne nel libro intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca. Molti citano proprio questo episodio a sostegno della tesi - mai dimostrata - che Moretti fosse una pedina di forze estranee alle Br e che il piano di questi poteri occulti fosse fin dall’inizio quello di metterlo a capo dell’organizzazione affinché alzasse il tiro degli omicidi fino a colpire Moro, vero obiettivo da abbattere. Anche Il nostro generale sembra suggerirlo implicitamente quando fa dire a Dalla Chiesa che “la politica” ha salvato Moretti. Curiosamente, ma non troppo, la serie è molto più sbrigativa su una delle vicende senz’altro più inquinate dalla politica, cioè il ritrovamento di una parte del memoriale di Aldo Moro nel covo milanese di via Montenevoso, pochi mesi dopo l’uccisione dello statista dc. L’altra parte, fotocopia dei manoscritti originali di Moro, comunque mancante di alcuni fogli, restò incredibilmente nascosta in un’intercapedine e fu scoperta solo nel 1990 durante lavori di ristrutturazione dell’appartamento. A guerra fredda finita, guarda caso. Una vicenda che verosimilmente, passò sulla testa dello stesso Dalla Chiesa, come ha raccontato lo storico Miguel Gotor in un bellissimo libro uscito per Einaudi qualche anno fa, ‘Il memoriale della Repubblica’.  Il fatto è che è lì, nella tragedia del caso Moro, che nasce l’antipolitica, quella dal basso e quella dall’alto, specialità quest’ultima tutta italiana, che ha ormai egemonizzato da decenni il dibattito pubblico e favorito, tra le altre cose, il dilagare del complottismo. Resta, però, che in quell’Italia disgraziata furono spesso i partiti, più delle forze dell’ordine e dei giornali infestati dalla P2 (in cui inciampò anche Dalla Chiesa, la serie su questo segue la linea dell’autobiografia del generale curata dal figlio Nando sulla base dei diari: fu un momento di debolezza e curiosità), furono i partiti, dicevamo, a garantire il miglior argine democratico, e a fornire allo stesso generale le risorse e le leggi che chiedeva. La linea della fermezza nei giorni del sequestro, che una pubblicistica superficiale e volgare presenta ormai solo come l’alibi di chi voleva Moro morto, fu decisiva per porre le basi della controffensiva democratica. Certo, nei partiti c’erano anche collusioni e opacità (e la serie punta il dito soprattutto su Giulio Andreotti). Ma la tenuta davanti alla sfida del terrorismo fu esemplare e, se Dalla Chiesa sconfisse il terrorismo, fu anche perché a Roma c’era ancora una politica degna di questa nome. ‘Il nostro generale’, in fondo, lo racconta meglio di quanto dice. Terzo settore: qualcosa è cambiato? di Giorgio Vittadini ilsussidiario.net, 13 gennaio 2023 L’articolo 6 del nuovo Codice dei contratti pubblici recepisce una storia sentenza della Corte Costituzionale all’insegna della sussidiarietà. È ormai convinzione diffusa che gli enti non lucrativi e del Terzo settore svolgano importanti attività di pubblica utilità soprattutto in ambiti quali l’educazione, l’assistenza e in certi casi la sanità, la difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico, la promozione di attività culturali e per il tempo libero, la gestione di luoghi di aggregazione e tanti altri. Tuttavia, la rigida normativa sugli appalti ha impedito che l’attività di questi enti fosse adeguatamente valorizzata dalla Pubblica amministrazione per l’interesse generale. Il principio dell’uguaglianza tra realtà che concorrono all’appalto, in un regime di libera concorrenza, ha fatto sì che enti non lucrativi soccombessero nella competizione rispetto alle molto più attrezzate imprese profit. Oppure che vincessero appalti al massimo ribasso compromettendo la qualità del servizio o la possibilità di offrire contratti a dipendenti e collaboratori non precari e minimamente retribuiti. L’articolo 6 del nuovo Codice dei contratti pubblici (in attesa del parere della Conferenza Unificata, prima dell’invio al Parlamento) prevede invece che le realtà non lucrative non siano solo entità a cui appaltare servizi in regime di concorrenza, ma partner della Pubblica amministrazione nel perseguimento del bene comune. Si legge: “In attuazione dei principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà orizzontale, la pubblica amministrazione può apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, modelli organizzativi di co-amministrazione […], fondati sulla condivisione della funzione amministrativa con i privati, sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano al perseguimento delle finalità sociali in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente e in base al principio del risultato. Gli affidamenti di tali attività agli enti non lucrativi avvengono nel rispetto delle disposizioni previste dal decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, e non rientrano nel campo di applicazione del codice”. L’articolo recepisce la sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, che ha sancito la coesistenza di due modelli organizzativi alternativi per l’affidamento dei servizi sociali, l’uno fondato sulla concorrenza, l’altro sulla solidarietà e sulla sussidiarietà orizzontale. Il secondo tipo di affidamenti (diretti) riguarda in particolare i servizi sociali di interesse generale erogati dagli enti del Terzo settore (ETS) e non rappresenta una deroga, da interpretare restrittivamente, al modello generale basato sulla concorrenza, bensì uno schema a sua volta generale da coordinare con il primo. Il fondamento costituzionale di un tale modello si ritrova nell’art. 118, comma 4 Cost., in quanto costituisce attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale coinvolgendo la società civile nello svolgimento di funzioni amministrative, e nell’art. 2 Cost., configurando uno strumento di attuazione dei doveri di solidarietà sociale necessari a realizzare il principio personalista su cui si fonda la nostra Costituzione. Ciò che è importante sottolineare è che la nuova norma, recepisce e fa propri i contenuti degli articoli 55 e 57 del codice del Terzo settore (d.lgs. n. 117 del 2017), individuando uno spazio distinto dal mercato e basato sulla sussidiarietà. Più precisamente, viene introdotto un bilanciamento tra concorrenza e sussidiarietà orizzontale, superando la tendenza a far prevalere la prima sugli altri valori ugualmente protetti dalla Costituzione. Il modello proposto intende quindi apportare benefici alla collettività in termini di efficacia, efficienza e qualità dei servizi, promuovendo la capacità di intervento di quei soggetti che meglio esprimono queste caratteristiche. La co-amministrazione pubblico-privato proposta non si basa infatti sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico. Molto innovativo è anche il criterio suggerito per la scelta degli enti affidatari dei servizi. Si prevede che debbano essere scelti nel rispetto dei principi di non discriminazione, trasparenza ed effettività e sempre in base al principio del risultato. In altre parole, si esce da una logica puramente burocratica, ma spesso solo falsamente imparziale, per accettare il principio che si debba osservare la realtà e scegliere con motivazioni esplicite, chiare e trasparenti, quegli enti che hanno dimostrato e dimostrano di essere più capaci di svolgere i servizi. Qualche preoccupazione si è levata sull’indicazione di “attività a spiccata valenza sociale” che potrebbe essere interpretata limitando l’applicazione alla sola tipologia dei servizi sociali. L’espressione in questione deve riferirsi alle finalità perseguite dall’attività (quello che l’art. 5 del CTS rende con “una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”), non all’oggetto dell’attività. Mentre l’enfasi dell’aggettivo “spiccata” va collegata alla scelta della Pubblica amministrazione di avviare le forme di co-programmazione, di co-progettazione e di accreditamento nel cui ambito poi si realizza il coinvolgimento degli enti di Terzo settore. Questo perché l’interpretazione della norma sia coerente con il suo spirito. È chiaro inoltre che l’applicazione della norma dipenderà dalla effettiva volontà dell’ente pubblico di investire energie nell’amministrazione condivisa (la sentenza 131/2020 infatti parla di un “procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico”, ovvero di obbligo reciproco). E dipenderà molto anche dal fatto che gli enti non lucrativi sappiano dimostrare sul campo la loro particolare utilità al bene delle persone e al bene collettivo. Amato e le origini del populismo: “Il sistema politico si è spappolato” di Federico Capurso La Stampa, 13 gennaio 2023 La crisi dei partiti spiegata dall’ex presidente della Consulta: “Senza i corpi intermedi emergono leadership deboli”. Questi ultimi dieci anni di sconvolgimenti nei palazzi del potere si spiegano in un punto, per l’ex presidente del Consiglio e della Consulta, Giuliano Amato: “Il sistema politico si è spappolato”. Ha perso le sue radici, la sua struttura, come sostiene nel corso della presentazione del libro di Lucia Annunziata “L’inquilino”, discutendone con l’autrice e con Massimo Giannini, direttore di questo giornale. Non è un caso - fa notare Amato - che questi dieci anni di storia “finiscano proprio con le ultime elezioni, vinte dall’unico partito che era rimasto tale, rimanendo sempre all’opposizione”. Fratelli d’Italia, nell’analisi dell’ex presidente della Corte costituzionale, ha anch’esso goduto dell’ultimo di una lunga serie di “scossoni del consenso”: quello della Lega di Matteo Salvini. Ma una volta vinte le elezioni, dice Amato, ha potuto “esprimere una presidente del Consiglio che non ha l’aria dell’inquilina”, ma che vive palazzo Chigi con una chiara legittimazione politica ottenuta dal voto. Eppure, le debolezze del sistema partitico sono lontane dall’essere risolte: “Non ci sono più quei corpi intermedi che partono da anguste, predefinite e solide basi su cui poi costruire politiche e figure politiche”, sottolinea Amato. Ed essendosi dispersa l’organizzazione sul territorio dei partiti, “finiscono per emergere queste leadership che galleggiano a livello nazionale” e che, per sapere cosa pensa la gente, “pagano dei comunicatori che raccolgono umori e malumori, affinché la leadership riproduca e amplifichi i malumori”. Su questo, sostiene, “si fonda il populismo”. Una dinamica che “rende tutto molto più friabile e mobile. In questi dieci anni, le leadership sono state come le chiome di alberi che non hanno sotto un tronco solido: crescono rapidamente, poi crollano”. È un sistema vorace, che sbrana partiti, capi e consenso. “Così genera movimenti tecnicamente populisti, che si avvalgono dell’anti-elitismo”, spiega l’ex presidente della Consulta, “ma questo non li rende estranei alle evoluzioni rapide e agli scossoni frequenti di questa stagione, perché di questa stagione anche loro sono figli”. E in una tale situazione di debolezza, di destrutturazione dei corpi intermedi andata avanti per dieci anni - sottolinea Amato - si spiegano le stagioni di maggiore protagonismo politico del Presidente della Repubblica. “Nessuno sgomitamento del Capo dello Stato”, avverte però Amato, quanto piuttosto una questione di naturale riequilibrio dei poteri, che l’ex presidente della Consulta spiega con la sua “dottrina della fisarmonica”, che ha anche una versione barcaiola: “Se si spegne il motore principale, si accende il motorino di riserva per far arrivare la barca dove deve. E temporaneamente, quindi, il Capo dello Stato è costretto a supplire”. Una volta raggiunto l’obiettivo, “spegne il motorino di riserva, la fisarmonica si chiude”, conclude, abbozzando un ultimo sorriso quando gli viene ricordato che anche il suo nome venne fatto nell’ultima corsa al Colle: “Mi è capitato di essere candidato al Quirinale da quando avevo i calzoni corti” Cari giornalisti, ora che avete sgominato Soumahoro e Kaili vi occuperete di deboli e oppressi? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 13 gennaio 2023 Ora che hanno sgominato il clan Soumahoro, ora che Antonio Panzeri ed Eva Kaili e le loro famiglie, bambini compresi, sono stati messi in condizione di non nuocere, quelli che hanno dedicato ettari di editoriali e maratone televisive ai misfatti di quei lestofanti potranno con l’antica passione, e nella certezza di aver fatto piazza pulita di coloro che li oltraggiavano, dedicarsi ai diritti dei migranti e delle vittime dei regimi dittatoriali. La militanza civile delle pubbliche accuse giornalistiche, tradizionalmente rivolta alla difesa dell’umanità sprovveduta di protezione, dei derelitti, degli emarginati, degli oppressi dall’ingiustizia, e sempre solerte nel non lasciar correre nemmeno la più piccola violazione delle guarentigie dovute a quei bisognosi, potrà assistere con soddisfazione ai risultati del proprio lavoro e rivendicare con forza di aver contribuito a riaffermare le ragioni dei deboli e degli oppressi vilipese dal talentuoso ivoriano, dall’ex sindacalista mariuolo e dalla parlamentare greca con il compagno parvenu - viene da Abbiategrasso, spiega la stampa coi fiocchi - che si mette a piagnucolare davanti ai giudici che gli chiedono conto di quelle valigie piene di soldi. Dopotutto è un bene. Senza le malversazioni di questo gruppo criminale i diritti civili saranno tutelati ovunque con la pregressa energia, e qui da noi i migranti potranno godere con pienezza delle cure tradizionalmente loro assicurate, buoni ricoveri e sistemazioni impeccabili, lavori ben remunerati e un generale clima di fraterna accoglienza: e a guardia del loro benessere, appunto, staranno una stampa, una comunità politica e una società attentissime a reprimere sul nascere anche i più tenui, e invero isolatissimi, fenomeni di discriminazione razzista, anche i più piccoli, e in realtà rarissimi, episodi di intolleranza xenofoba. E ovviamente una tale opera di ripristino della legalità sul fronte della cooperazione umanitaria e delle libertà civili val bene qualche fisiologica compressione dei diritti degli indagati, perché dopotutto si tratta di gente che faceva impunemente carriera e denaro sulla pelle dei poveracci che menava vanto di difendere. E anche quella bambina di meno di due anni, accompagnata dal nonno nella prigione in cui sta la madre, per colpa di questa semmai soffre, per colpa della madre che non si troverebbe lì dentro se non si fosse messa a prendere mazzette. Crescerà e imparerà a leggere: e se la madre sarà riconosciuta innocente faticherà a trovare la notizia; se invece la madre sarà condannata le spiegheranno in prima pagina che la giustizia faceva bene a tenerle separate, perché era la figlia di una poco di buono. Un po’ come i figli dei clandestini, che se sapessero leggere sarebbero costretti a imparare che i loro genitori a dir poco mettono a rischio la sicurezza del Paese, e a dirla tutta portano le malattie e rubano il lavoro agli italiani. E che poi queste cose non le scrivano Soumahoro e Panzeri, ma molti di quelli che li processano sui giornali, è solo un altro dettaglio di questo spettacolo insopportabile. La Sanità svenduta in nome del mercato, ma l’Italia rimane un piccolo miracolo di Rosy Bindi e Nerina Dirindin* La Stampa, 13 gennaio 2023 Il Servizio sanitario nazionale, un presidio fondamentale per la salute delle persone e per la solidarietà nazionale, è oggi malato. Unanimemente riconosciuto punta avanzata della pubblica amministrazione e all’avanguardia nel panorama internazionale, il Ssn appare sempre più “non autosufficiente”, ovvero incapace di svolgere autonomamente le funzioni che gli sono proprie. Conosciamo le cause della malattia; per troppi anni è stato sottoposto a interventi contrari al rispetto dei principi costituzionali e dei diritti umani fondamentali, assecondando l’idea che il mercato avrebbe comunque potuto sostituire buona parte della sanità pubblica, quella più in grado di generare profitti. Condividiamo le tante grida di allarme che (solo) ora si levano forte, ma non accettiamo la diagnosi di incurabilità espressa da molte voci, spesso non disinteressate. Riteniamo al contrario che il Ssn possa ancora essere salvato, e si debba combattere per ridargli ruolo e dignità. Perché in assenza di sostanziali interventi straordinari e di un grande lavoro trasformativo sul piano culturale e politico, la sua “non autosufficienza” è destinata ad aggravarsi e gli italiani sono destinati a vedere la propria salute sempre più condizionata dalla loro situazione socio-economica. Eppure, nonostante le sue tante pecche, il Ssn è un piccolo capolavoro: è l’espressione della capacità del nostro Paese di raggiungere grandi risultati con poche risorse. A dispetto della storica penuria di risorse, il Ssn ha infatti sempre saputo produrre buoni risultati in termini di salute. Valga per tutti un dato poco noto: il numero di decessi (per 1000 abitanti) ritenuti potenzialmente evitabili attraverso il ricorso a interventi sanitari tempestivi e appropriati è in Italia del 30% inferiore alla media Ue (24% in meno della Germania). Anche il tasso di sopravvivenza ai tumori è superiore alla media Ue. Un capolavoro, se si pensa che l’Italia destina complessivamente alla sanità un ammontare di risorse del 25% inferiore alla media Ue, mentre Francia e Germania spendono rispettivamente il 45% e l’85% in più (calcolate per abitante e a parità di potere d’acquisto - dati Oecd riferiti al 2019). Ma come si spiega l’apparente paradosso della bassa spesa e dei buoni risultati? Innanzitutto, un sistema universale come il nostro evita la spirale dei costi propria dei modelli basati sulle assicurazioni sociali o sulle polizze malattia (come dimostra la letteratura specialistica sui sistemi sanitari comparati). Conta la competenza acquisita nel tempo dai professionisti della sanità pubblica: il Ssn è l’unico settore della pubblica amministrazione che negli ultimi decenni si è dotato di un apparato tecnico e di un sistema di governance che - per quanto imperfetti - non hanno eguali negli altri comparti pubblici. C’è poi la preparazione dei professionisti e la loro dedizione alla sanità pubblica, magistralmente svelate in occasione della pandemia ma ancora poco riconosciute - se non a parole - dai decisori e dalla politica. Conta il ruolo svolto dalle famiglie (e dalle donne) nella cura di molte persone fragili, senza gravare eccessivamente sulla spesa pubblica. E, per ironia della sorte, contano le politiche di risanamento della finanza pubblica che hanno costretto la sanità pubblica a puntare sull’appropriatezza e sull’essenziale. E così il Ssn ha via via imparato a operare sempre con meno risorse, mentre i governi hanno imparato a imporre sempre maggiori sacrifici, confidando sul fatto che nessun ospedaliero avrebbe abbandonato un paziente alla fine del proprio turno di lavoro o si sarebbe sottratto ai doveri cui deve adempiere “quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera” (come afferma il codice di deontologia medica). Un modo di procedere, quello dei governi, poco responsabile e al contempo poco rispettoso della dignità del lavoro di cura, che invece andrebbe protetto e valorizzato. Ma ormai il vaso è colmo, gli operatori si sentono traditi e le persone si stanno abituando a rivolgersi al privato. Come procedere allora? È innanzitutto necessaria una seria riflessione sulla pandemia ideologica che da un paio di decenni ha colpito il nostro Paese e ha spinto i governi a ridurre progressivamente il ruolo dello Stato, in particolare nel welfare. Eppure, in nessun altro settore come in quello della salute, i fallimenti del mercato sono noti, rilevanti e causa di disuguaglianze. Il Ssn è un patrimonio di civiltà proprio perché garantisce a tutti un trattamento uguale a quello riservato ai più fortunati e perché libera ognuno di noi dalla paura di non avere i soldi per curare un figlio o un familiare. Al contrario, le assicurazioni evitano le persone più esposte al rischio di ammalarsi e impongono tetti massimi di rimborso che penalizzano proprio chi ha più bisogno. Non si tratta di demonizzare il mercato ma di riconoscerne i vizi, e non solo le virtù, a maggior ragione quando producono ingiustizie. E si tratta di non dimenticare che la salute non è solo un diritto individuale ma è anche interesse della collettività, come ci ha ricordato la pandemia. È necessario poi accantonare ogni ipotesi di autonomia differenziata: i problemi sollevati dalle Regioni sono comuni a tutta l’Italia e vanno affrontati a livello nazionale. In un Paese attraversato da profonde disuguaglianze territoriali va evitato di attribuire maggiore autonomia a chi presume di essere in grado di risolverli meglio e più rapidamente degli altri, ma sicuramente a danno delle Regioni storicamente meno attrezzate. Fondamentale è avviare una seria politica del personale, capace di riconoscere il valore del lavoro di cura, a maggior ragione in un settore ad alta intensità di lavoro. Il trattamento che riserviamo ai nostri professionisti rivela il tipo di assistenza che vogliamo dare alla popolazione: un’amministrazione che non rispetta le norme sugli orari di lavoro, non rinnova i contratti di lavoro, ricorre all’intermediazione di manodopera, incoraggia l’impiego dei “gettonisti”, sottovaluta la programmazione della formazione delle diverse figure specialistiche, non può che essere un’amministrazione che non ha a cuore l’affidabilità del servizio offerto. Il giudizio avvilente coinvolge sia i governi centrali sia quelli regionali, i quali con la scusa della carenza di risorse hanno rinunciato a svolgere la loro principale funzione, la tutela della salute, mentre adesso devono dimostrare di saper utilizzare al meglio i fondi del Pnrr. Tutto ciò richiederebbe più impegno (a partire dal livello centrale), più risorse (in armonia con quanto succede negli altri paesi sviluppati) e più indipendenza dagli interessi dell’industria della salute. Ne trarrebbe giovamento persino l’economia, grazie alla riduzione dell’incertezza e della precarietà. Ma viviamo tempi difficili. La storia della sanità pubblica italiana ci induce ad essere ottimisti mentre le tante incrostazioni ci portano a temere che le cose possano volgere al peggio. Nessuno comunque pensi di cavarsela da solo, né i professionisti che scappano nel privato né chi ritiene sufficiente dotarsi di una copertura assicurativa. *Associazione Salute Diritto Fondamentale Scuola, la follia di FdI: “Via i bimbi irregolari” di Karima Moual La Stampa, 13 gennaio 2023 A quanto pare, neanche davanti a bambini o minori i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni riescono a resistere alla smania di dividere tra italiani e tutti gli altri. Tra chi deve essere riconosciuto e tutelato e chi no. C’è, ossessivamente, il tentativo di distinguere e indicare il più debole come la causa di tutti i mali, soprattutto su questioni sociali e quotidiane. Massima attenzione dunque all’immigrato, lo straniero, l’”irregolare”, fosse anche un bambino. La “discriminazione” diventa la cifra di appartenenza e di orgoglio in nome di un’italianità da difendere da pericoli immaginari. Succede così che a Roma, senza alcun pudore, l’opposizione rappresentata da Fratelli d’Italia si sia messa contro la scelta della giunta del sindaco Roberto Gualtieri di consentire l’iscrizione alla scuola dell’Infanzia anche a chi ha residenza fittizia, a chi è privo di codice fiscale e a chi è compreso nella categoria dei “soggetti meritevoli di tutela”. In sintesi, ai bambini con genitori che non hanno i documenti in regola si aprono comunque le porte della scuola. Non è una cosa da poco, perché significa aprire per quel bambino una finestra di legalità, integrazione e normalità, nella prospettiva di una sua emancipazione futura da una condizione di irregolarità che, ai genitori, è più difficile sfuggire. Anche a causa dei limiti del legislatore che in Italia tiene ancora nel limbo almeno 500 mila irregolari senza possibilità di emersione. In uno Stato civile che tutela i diritti dell’infanzia, quanto fatto dal sindaco Gualtieri dovrebbe essere la conferma di un’ovvietà, tanto più che la nostra stessa Costituzione all’art. 34 parla di “scuola aperta a tutti”. E volendo essere ancora più precisi, secondo il D.P.R. 394/1999, “I minori stranieri presenti sul territorio nazionale hanno diritto all’istruzione indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani”. Eppure per Fratelli d’Italia quei diritti conquistati con tanti sforzi e che oggi ci permettono di stare dalla parte del mondo civile, sono a quanto pare uno scandalo. Tant’è che con sopracciglio alzato e immagino anche sdegno, la consigliera di Fdi in Campidoglio, Maria Cristina Masi insieme a Laura Marsilio, capo dipartimento Scuola Fdi Roma, e Gianni Ottaviano, dirigente Federazione Fdi Roma, hanno presentato un’interrogazione a risposta scritta: “Chiediamo al sindaco - scrivono in una nota congiunta - se non ritiene che questa disposizione possa svantaggiare famiglie che fanno sacrifici notevoli per pagare un’abitazione, hanno regolare residenza anagrafica e rispettano le leggi”. E ancora: “Ferma restando la dovuta tutela che l’amministrazione deve a tutti i minori, senza distinzione di sorta, cosa che era già garantita da sempre dal criterio delle segnalazioni dei Servizi sociali, domandiamo in base a quale criterio ritiene di dover fornire servizi a chi rispetta le leggi e a chi le viola. Dal Campidoglio dovrebbero inoltre spiegare come intendono garantire la tutela della salute delle persone prive di codice fiscale. Su questo punto ci riserviamo di presentare un esposto alle autorità competenti per verificare i potenziali rischi per i bambini e le famiglie”. Eccola qua l’ultima battaglia. Il pugno duro contro i bambini, colpevoli di essere figli di immigrati irregolari e che diventano l’arma di una nuova propaganda nel momento in cui vengono utilizzati come strumento di rischio e pericolo contro gli italiani. E se non bastasse, vengono macchiati anche di un’altra colpa - e qui davvero ci vuole fantasia - e cioè quella di svantaggiare i bambini e le famiglie italiane con la loro presenza nelle classi per il solo motivo di trovarsi sprovvisti di documenti regolari. Puntando sempre sui sacrifici della famiglia italiana e sottintendendo come invece quelli dei bambini irregolari siano inesistenti o peggio parassitarie. Ci vuole davvero coraggio e un certo pelo sullo stomaco per arrivare a indire una lotta contro qualche decina di bambini sparsi nella capitale che tra le tante privazioni hanno anche la sfortuna di avere genitori in posizione irregolare, per motivi che a quanto pare interessano poco ai nuovi difensori della “nazione”. Però è vero anche che non c’è molto da aspettarsi da chi in questi due mesi, non potendo fare alcun blocco navale, ha indetto la guerra alle Ong. E non riuscendo a fermare la solidarietà dei volontari, si è ingegnato nel macabro gioco di inviarli nei porti più lontani, infliggendo ulteriore sofferenza ai naufraghi. La battaglia per i diritti degli ultimi non è mai finita. C’è chi prima di noi ha tirato su i pilastri che la sostengono e la nostra Costituzione è uno di questi, ma guai ad abbassare la guardia. Perché c’è sempre chi proverà a portarci indietro, fingendo di tutelare un bene superiore. Un’idea di pace: Europa e Africa possono costruire un progetto comune di Matteo Maria Zuppi La Stampa, 13 gennaio 2023 Ci sono le basi umanistiche di un sogno che deve diventare realtà. Racconta Ryszard Kapuscinski in Ancora un giorno, cronaca degli ultimi momenti della colonizzazione portoghese in Angola, che, per capire cosa stava davvero succedendo sul fronte attorno a Luanda, bastava dare uno sguardo alla rada del porto dalle finestre dell’albergo Tivoli in cui erano rintanati i giornalisti, privi di telefoni o telex. All’àncora erano ormeggiate in permanenza varie navi battenti bandiere europee. I loro capitani, in contatto radio continuo con l’Europa, avevano una visione migliore di ciò che stava accadendo sul campo di battaglia rispetto a chi si trovava in trappola nella città assediata e accerchiata dalle truppe dell’Mpla (Movimento popolare di liberazione dell’Angola) e dell’Fnla (Fronte nazionale di liberazione dell’Angola). Quando le notizie davano la battaglia finale per Luanda ormai vicina, le navi salpavano e si allontanavano verso il mare aperto per fermarsi a qualche miglio dalla costa, sempre in vista. Quando le notizie erano migliori, ritornavano nella baia per attraccare e caricare, “come sempre”, caffè e cotone. Questo movimento era durato settimane e bastava guardare fuori della finestra per sapere come stava andando la guerra. Per molto tempo tale ritmo altalenante è stato il modello nelle relazioni tra Europa e Africa, così strette nel passato, poi così allentate da far sparire tutto un continente dal nostro orizzonte quotidiano. Certo il commercio continua, “come sempre”, ma non basta ad avvicinare l’Africa all’Europa, se non a tratti e per motivi ben precisi e contingenti. Cos’è oggi l’Africa per l’Europa? Nel discorso pubblico il continente nero rimane sfuggente. Lo si dipinge alternativamente come terra delle opportunità economiche o come mostro demografico pronto a schiacciarci; giacimento a cielo aperto o antro di malattie e pandemie; buco nero che inghiotte gli aiuti internazionali o socio nel commercio internazionale; “lions on the move” (McKinsey) o “bottom billion” (come scrive Paul Collier) cioè l’ultimo miliardo. La globalizzazione ha fatto arretrare la povertà estrema nel mondo; in Asia la partita è stata in parte vinta e oltre la metà dei poveri ancora esistenti si concentra ora in Africa. D’altra parte, se osserviamo come sono aumentate le diseguaglianze in Europa possiamo immaginare l’effetto dall’altra parte del Mediterraneo. C’è una lunga storia di rapporti tra Africa subsahariana ed Europa, al centro della quale si colloca la colonizzazione (ma anche la vecchia storia dello schiavismo), che provoca sentimenti controversi. Dopo aver perduto valore geopolitico dalla fine della Guerra fredda, con l’avvento della globalizzazione l’Africa ha riacquistato centralità sugli scenari mondiali. Malgrado i conflitti (soprattutto la violenza diffusa), le malattie e l’instabilità politica - che comunicano una percezione del continente come “spazio diffi cile” - oggi l’Africa conta di più. Gli anni Novanta - il decennio d’oro dell’Europa - sono stati per l’Africa anni di crisi economica ma anche di democratizzazione: si sono dissolte alcune dittature come quella di Menghistu in Etiopia o la cleptocrazia di Mobutu in Zaire; è finito l’apartheid in Sud Africa. C’è stata la pace in Mozambico nel 1992 dopo un milione di morti, grazie alla mediazione svolta dalla Comunità di Sant’Egidio. Poi sono venuti gli anni Duemila che paradossalmente hanno visto l’inizio della crisi occidentale ed europea ma in parallelo lo sviluppo del continente africano, almeno fino alla pandemia. Dalla svolta del Millennio si è parlato di “Africa Rising”: un continente nuovo con più democrazia e una classe media in espansione. Gli investimenti esteri hanno portato nuove opportunità e la crescita è rimasta sostenuta per vent’anni. Le. società civili africane sono diventate protagoniste di molte battaglie per i diritti umani e civili. Numerosi Paesi si sono incamminati verso la democrazia, i colpi di stato sembravano quasi finiti e l’Unione africana non accettava più cambi di regime violenti. Insomma circa vent’anni di buone notizie, mentre l’Europa iniziava una lenta (anche se molto confortata) discesa nel sentimento di declino, ad esempio nei confronti di un’Asia alla conquista dei mercati. Il momento più difficile per l’Europa è stato la crisi fi nanziaria del 2008 che invece non ha avuto effetti in Africa. In quegli anni si è detto che “la Cina ha conquistato l’Africa”. Stati Uniti. “Mi ammazzano come Floyd”. Ucciso dai taser della polizia di Luca Celada Il Manifesto, 13 gennaio 2023 Los Angeles, gli agenti fermano il cuore di un insegnante 31enne dopo un incidente stradale. Il cugino di Patrisse Cullors, artista, autrice e a cofondatrice del movimento Black Lives Matter è morto dopo essere stato fatto oggetto di dieci scariche elettriche da parte di agenti della polizia di Los Angeles. I fatti risalgono al 3 gennaio quando Keenan Anderson, 31 anni, padre ed insegnante di Washington in visita a Los Angeles è stato coinvolto in un incidente stradale di modeste entità nel quartiere di Venice. È stato già il terzo uomo a venire ucciso dalla polizia quest’anno. Nel video registrato dalle telecamere di controllo, un agente in motocicletta insegue Anderson mentre corre nel traffico in stato confusionale. Anderson inizialmente esegue l’ordine di sedersi sul marciapiede mentre l’agente chiede rinforzi. Dopo aver atteso per alcuni minuti in stato di fermo Anderson però riprende la fuga di corsa prima di venire bloccato da altri agenti sopraggiunti. A questo punto gli eventi hanno preso a seguire un copione fin troppo familiare. La tentata fuga di un sospettato afroamericano in stato di forte agitazione si trasforma in colluttazione con gli agenti che entrano in modalità tolleranza zero, intimano all’uomo immobilizzato da quattro poliziotti di “ubbidire” e “cessare le resistenze”. Placcato a terra, Anderson implora più volte aiuto, chiede di “essere visto”, e perfino di “non farmi fare la fine di George Floyd” agli agenti che lo immobilizzano sull’asfalto - uno di questi tenendogli un gomito sul collo. “Stai fermo o ti fulmino”, ripete uno dei poliziotti prima di somministrare una dopo l’altra le scariche di taser da 50.000 volt. L’uomo viene infine ammanettato e portato da un’ambulanza in ospedale dove quattro ore dopo decede per sopraggiunto arresto cardiaco. “Quando chiediamo che la vite nere contino”, ha affermato Melina Abdullah, fondatrice di Black Lives Matter Los Angeles, “a volte parliamo letteralmente delle nostre vite e quelle dei nostri famigliari. La polizia parla di ‘morte di detenuto’ ma è chiaro che questo ragazzo è stato ucciso dai loro taser”. Il capo della polizia, Michel Moore, ha detto che Anderson si trovava in uno “stato mentale alterato” ma che le indagini - che potranno durare diversi mesi - si concentreranno sul legittimo impiego dei taser. La morte di Anderson è già la terza quest’anno legata ad operazioni della polizia di Los Angeles. Nei primi quattro giorni dell’anno altri due uomini sono caduti sotto i colpi di pistola degli agenti. In entrambi i casi hanno sparato ad individui con sintomi di squilibrio mentale per aver “impugnato armi”. In uno di questi, la polizia era stata chiamata da una donna minacciata dal marito, anche lui afroamericano e diagnosticato schizofrenico, che aveva smesso di assumere i farmaci prescritti. Gli agenti lo avevano trovato nell’abitazione in stato confusionale, aprendo il fuoco sette volte da distanza ravvicinata quando inginocchiato in cucina avrebbe impugnato un coltello. In questo caso il capo della polizia ha ammesso che la situazione avrebbe forse potuto essere disinnescata in maniera pacifica. La neoeletta sindaca Afroamericana Karen Bass, già medica ed operatrice sociale, si è detta “profondamente disturbata” dagli episodi. “Dobbiamo assolutamente riuscire a ridurre l’utilizzo di forza letale da parte della polizia”, ha aggiunto, “se non vi è un rischio immediato per terzi, i poliziotti non dovrebbero essere chiamati ad intervenire in crisi di carattere psicologico”. In assenza di reti sociali ed assistenziali, come in molte altre città americane, è invece proprio la polizia a gestire situazioni critiche di salute mentale, legate anche alla dilagante popolazione senza casa. A Los Angeles sono molte migliaia le persone psicolabili abbandonate a se stesse sulle strade cittadine. Una riforma ha previsto che speciali unità di personale specializzato debbano accompagnare la polizia in questo tipo di interventi, questo non è però avvenuto in nessuno dei tre casi registrati la scorsa settimana. L’anno scorso agenti del distretto di polizia di Los Angeles hanno ucciso 31 persone, nel 2021 le vittime erano state 37. In tutti gli Stati uniti i “morti per polizia” ogni anno sono circa mille. Stati Uniti. Il boia del Missouri fa la storia: giustiziata la prima detenuta trans di Valerio Fioravanti Il Riformista, 13 gennaio 2023 Quando ha commesso il reato si chiamava Scott e aveva 30 anni. Ma il suo nome al momento dell’esecuzione era Amber e di anni ne aveva 49. La giuria aveva votato per l’ergastolo. Nessuna considerazione del cambiamento avvenuto in carcere. Il 3 gennaio gli Stati Uniti hanno avuto fretta di chiudere la tradizionale “tregua natalizia”, e hanno giustiziato Scott/Amber McLaughlin. Non credo ci tenesse, ma passerà alla storia per essere stato il primo detenuto transessuale giustiziato negli Usa. Gli americani sono molto politicamente corretti, e in quasi tutti gli articoli hanno chiamato McLaughlin “una donna transessuale”. Non ho un’opinione precisa, ma la cosa mi sembra comunque più complicata di così. Scott McLaughlin, bianco, 19 anni fa, all’età di 30 anni, commise un reato molto “maschile”: violentò e uccise la fidanzata che lo aveva lasciato. Al processo la giuria popolare era rimasta impressionata dalla difficile infanzia dell’imputato: figlio di una prostituta alcolizzata e di un tossicodipendente, portatore di chiari postumi di sindrome feto-alcolica, spostato, assieme a due fratelli, tra varie famiglie affidatarie fino a quando, all’età di 5 anni, è stato adottato dai coniugi McLaughlin. Sembra che il padre, un poliziotto, usasse il manganello e addirittura il taser per punire i tre fratellini. I genitori adottivi avrebbero anche chiuso a chiave la cucina in modo che i bambini non potessero accedere al cibo e, secondo la richiesta di grazia presentata lo scorso dicembre, avrebbero strofinato feci sul viso dei bambini quando sporcavano. I problemi di salute mentale di McLaughlin iniziarono a manifestarsi presto. Alle elementari gli avevano calcolato un quoziente intellettivo molto basso, 82 punti, e diagnosticato l’ADHD (Disturbo da deficit di attenzione/iperattività). A 8 anni un consulente scolastico aveva scritto che “la sua situazione psicologica era estremamente grave”. Cartelle cliniche successive ci dicono che McLaughlin è stato “coerentemente diagnosticato con disabilità intellettiva borderline” e “universalmente diagnosticato con danno cerebrale e sindrome alcolica fetale”, e ha combattuto la depressione che ha portato a “molteplici tentativi di suicidio”. Pur essendo certo che aveva ucciso la donna, la giuria votò perché non fosse condannato a morte, ma all’ergastolo. Il giudice aveva “scavalcato” la giuria e aveva emesso la condanna a morte. Un giudice federale nel 2016 aveva annullato la condanna a morte perché non erano state adeguatamente valutate le condizioni mentali dell’imputato, ma nel 2021 la Corte d’Appello aveva revocato l’annullamento per motivi procedurali. Dal fatto che sia stato giustiziato capiamo che il governatore del suo Stato, il Missouri, non lo ha ritenuto meritevole di clemenza. Ma hanno ucciso l’uomo che aveva stuprato una donna, oppure una donna? Sappiamo che al sistema penale statunitense il “cambiamento”, la “risocializzazione” o la “rieducazione” del reo non interessa, ma nel caso McLaughlin eravamo davanti a un cambiamento piuttosto radicale, forse meritevole almeno di una pausa di riflessione. Certo, si può sempre sospettare che quello di McLaughlin sia stato soprattutto un espediente, un tentativo di prendere tempo. Ma possiamo anche pensare che sia stata una cosa reale, e allora davvero, mai come in questo caso, hanno ucciso una persona radicalmente diversa da quella che aveva commesso il reato. Ma come fa un criminale chiuso in un braccio della morte a “diventare donna”? Intanto precisiamo, McLaughlin aveva fatto la transizione ormonale, non quella chirurgica. Ma anche così, non è che uno si alza la mattina, va nell’infermeria del carcere e chiede estrogeni, e glieli danno. Il caso che fece scuola in Missouri è quello di James/Jessica Hicklin, oggi 43 anni, bianca. Hicklin venne arrestato nel 1995, a 16 anni, per un omicidio legato alla droga. Condannato all’ergastolo senza condizionale più 100 anni, nel 2016 ha citato in giudizio l’Amministrazione Penitenziaria, contestando una politica che proibiva la terapia ormonale per i detenuti che non la ricevevano prima dell’arresto. Ha vinto la causa nel 2018, e da allora è diventata mentore di altri detenuti transgender, tra cui McLaughlin. Nel frattempo Hicklin, dopo 26 anni di detenzione, è stata scarcerata nel gennaio 2022 grazie a una rimodulazione della pena scaturita dal fatto che all’epoca del reato fosse minorenne. Quando McLaughlin aveva iniziato la transizione circa tre anni fa, aveva scritto a Hicklin per farsi consigliare su questioni come la consulenza psicologica e la sua sicurezza all’interno di una prigione di massima sicurezza. Requiescat in pace Amber, che ho dovuto segnare con un asterisco nel data-base di Nessuno tocchi Caino nella colonna “sesso del giustiziato”. Afghanistan. Le nostre democrazie non hanno perso. Per questo non possiamo dimenticare Kabul di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 13 gennaio 2023 Non lasciamo che le organizzazioni umanitarie chiudano. L’isolamento dell’Afghanistan è l’obiettivo dei talebani. Il 2022, è stato scritto, si è rivelato l’anno della riscossa della democrazia. L’anno del cigno bianco, colore geneticamente prevedibile e in teoria scontato, eppure quasi inatteso dopo il nero della pandemia e della guerra. Era annunciato un altro inverno nella “lenta recessione” democratico-liberale e invece, a sorpresa, le democrazie - forti delle loro dinamiche interne di scambio e confronto, più che espressione di un sistema uniforme con la D maiuscola - hanno dimostrato di saper combattere. Da Kiev al Brasile di Lula, dal voto novembrino di metà mandato negli Stati Uniti fino al movimento della gioventù iraniana contro la teocrazia degli ayatollah. Se questo è vero (siamo andati meglio del previsto, siamo più efficaci delle autocrazie, i nostri valori non sono sacchi vuoti), come reagire di fronte a quanto sta accadendo in Afghanistan? L’inquadratura torna al Ferragosto 2021: al ritiro di americani ed europei, all’avanzata fulminea delle milizie talebane nelle strade svuotate dall’esercito “regolare” d’improvviso inerte, smaterializzato dopo 20 anni di addestramenti militari ed esercizi di controllo del territorio. Nei giorni successivi, ecco i cortei delle donne nelle città principali: senza velo, con i pugni chiusi e i cartelli scritti a mano, incredule davanti al muro ricomposto degli uomini barbuti, armati di kalashnikov, sordi dietro gli occhiali da sole. Una rapida sequenza di stagioni più tardi, trascorse come un soffio da questa parte del mondo, il regime - che aveva promesso moderazione durante i negoziati chiusi nel 2020 con l’accordo di Doha - ha vietato alle ragazze gli studi superiori. E ora ha negato al personale femminile la possibilità di lavorare nelle organizzazioni umanitarie. Che vuol dire: posti di lavoro perduti a decine di migliaia e nessuna chance - per operatori esclusivamente maschi - di raggiungere le donne in difficoltà in un Paese spezzato dall’apartheid. L’interrogativo è sempre lo stesso: che fare? La prima tentazione è quella di guardare altrove: c’è un conflitto in Europa e non si attenua la crisi economica che piega le nostre famiglie più esposte. La seconda è quella di imbracciare la mozione dello sdegno con parole così altisonanti da non percepire più nulla, neppure l’eco dei dubbi di chi sta sul campo e vorrebbe restare. Perché il punto è: se rispondiamo agli editti dei Talebani con la sospensione dei programmi di aiuti, chi finiremo per favorire? Le bambine alle quali vorremmo guardare come avanguardia di cambiamento? O il regime che da sempre aspira all’isolamento, in una condizione di pacificazione tribale? Le ex scolare, costrette a rientrare in casa a tessere tappeti, con il filo incandescente della nostra indignazione non riusciranno a cucire neppure mezza frangia al disegno del loro destino. Se le democrazie davvero stanno tenendo testa alla rete dei sovranisti, dei fanatici, degli illiberali, è il momento di mettere giù un piano comune a più Paesi per sostenere dal basso la popolazione, scavalcando i rami del potere sparsi tra le ville e i palazzi di Kabul. Vanno sostenuti gli sforzi delle Nazioni Unite che cercano di far leva sui ministri meno estremisti e quelli delle Ong che affrontano i signori locali per aver accesso ai bisognosi. Avrà ancora più senso finanziare i programmi che tengono aperte scuole private per le studentesse. E dovremo riflettere su come non cancellare una rete diplomatica minima affinché resti acceso uno sguardo dentro i confini. Tutto questo non significa riconoscere i talebani e la loro ingiusta legge ispirata alla sharia, bensì provare a non rassegnarsi a un’altra ritirata da un Afghanistan tornato lontanissimo. Abbandonare tra i rovi della storia le cause che abbiamo sposato con impeto e ragione, sacrificando uomini e donne, renderà anche noi più vulnerabili.