Insistere sul 41 bis a Cospito può far “saltare” il carcere duro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2023 L’anarchico pronto al “sacrificio”. Ci pensino bene i “fan” del regime speciale. Il digiuno di Cospito è una cosa seria, e se avesse esiti tragici farebbe vacillare il consenso sul 41 bis. Già la Cedu ha punito l’Italia persino per gli abusi del regime speciale nei confronti del boss Provenzano. Altri ammonimenti degli organismi europei lasciano intravedere conseguenze clamorose per la legittimità dell’istituto qualora il nostro Paese perseverasse nell’utilizzarlo in modo spropositato. Sono passati oramai quasi tre mesi da quando l’anarchico Alfredo Cospito, sottoposto al 41 bis, ha intrapreso lo sciopero della fame. Si teme concretamente per la sua vita, anche perché ha raggiunto un numero di giorni abnorme di digiuno, con un conseguente notevole abbassamento degli indici di potassio, indispensabile per il battito cardiaco. Una questione serissima. E a ciò si aggiunge il fatto che tale regime nasce per uno scopo ben preciso, non giustificabile - secondo un numero importante di giuristi - nel caso specifico. Una grana non da poco per il nuovo governo, anche alla luce del fatto che il 41 bis, a causa del suo utilizzo spropositato, è stato al centro di varie sentenze che passano dalla Corte costituzionale fino ad arrivare alla Corte Europea di Strasburgo con il caso dell’ex boss Bernardo Provenzano. Ancora altre condanne, e il 41 bis potrebbe finire pesantemente compromesso nella sua legittimità a causa del suo stesso smodato utilizzo. Come ha sottolineato anche Antigone - tramite il presidente Patrizio Gonnella e la coordinatrice nazionale Susanna Marietti - la Corte Costituzionale, nella nota sentenza numero 376 del 1997, ha ben spiegato come anche nel caso del 41 bis, pensato per contrastare la criminalità organizzata, sia necessario sempre tenere in adeguata considerazione l’articolo 27 della Costituzione, con i suoi riferimenti alla dignità umana e alla rieducazione del condannato. Non solo. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, tramite un rapporto rivolto alle autorità italiane relativo a una visita effettuata nel 2019, raccomandò alle stesse di effettuare sempre “una valutazione del rischio individuale che fornisca ragioni oggettive per la continuazione della misura”. Il Comitato sollecita che vi sia sempre una valutazione estremamente rigorosa del caso individuale evitando standardizzazioni nel trattamento solo sulla base del titolo di reato. E proprio intorno a una accurata valutazione del rischio si sofferma anche la Raccomandazione del 2014 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa rivolta ai Paesi membri sul trattamento inflitto ai detenuti ritenuti pericolosi. Ricordiamo che la Corte europea dei diritti umani, nel 2018, ha condannato l’Italia per la decisione di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 fino alla morte del boss mafioso, nonostante fosse in stato vegetativo. Attenzione: la Cedu non condanna l’Italia per le condizioni di detenzione previste dal 41bis in sé, ma per la riconferma di un regime duro lì dove non ci siano più i presupposti. Le sentenze nostrane, invece, se pensiamo alla Consulta o alla Cassazione, hanno da tempo cominciato a stigmatizzare - e quindi abolire - tutte quelle misure ulteriormente afflittive che esulino dalla ratio del regime stesso: dai colloqui con gli avvocati passando per le ore d’aria fino alla possibilità di cuocere del cibo come gli altri detenuti. A questo va aggiunto l’importante lavoro svolto dalla Commissione straordinaria per i diritti umani di Palazzo Madama, presieduta dall’allora senatore Pd Luigi Manconi, che nell’aprile del 2018 ha pubblicato una relazione frutto di un’approfondita indagine fatta sul campo per verificare l’applicazione del 41 bis. Da quello studio è emersa la legittimità di tutte quelle misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno, ma non di quelle che rendono insensatamente più intollerabile la pena. Il caso dell’anarchico Cospito è serio. Le sue condizioni di salute sono ogni giorno più serie e il rischio che possa morire diventa sempre più alto. Così come, va ribadito, non si comprende come mai sia stato raggiunto da una misura nata per evitare che un boss o un terrorista invii messaggi occulti alla propria organizzazione. Quelli di Cospito, seppur farneticanti, sono pensieri inviati alla luce del sole. E non a una organizzazione criminale, ma a soggetti gravitanti nella cosiddetta galassia anarchica. Per questo, come auspica l’appello sottoscritto da numerosi giuristi e intellettuali, si spera che le autorità competenti assumano una decisione in linea con il rispetto della dignità umana. In caso contrario, la sua morte rischierebbe, secondo una logica paradossale, di dare ragione agli anarchici che vorrebbero l’abolizione dello Stato proprio perché lo considerano, per sua natura stessa, autoritario e spietato. E nel contempo il 41 bis stesso rischia di decadere proprio a causa del suo sciagurato utilizzo. Uno stop dei giudici al 41 bis di Cospito: ecco la via del governo di Errico Novi Il Dubbio, 12 gennaio 2023 Siano le toghe a modificare le loro valutazioni o a sospendere la pena per motivi di salute: la soluzione condivisa da Nordio e dai partiti. Serve una richiesta di revoca da parte del Tribunale di Sorveglianza. O meglio, una sospensione pena per ragioni di salute. È la soluzione condivisa a cui guardano il ministro e la maggioranza per scongiurare la morte dell’anarchico in sciopero della fame. Un esito tragico avrebbe conseguenze pesantissime anche politicamente. “È un fardello di dolore”. Cosi Carlo Nordio parla dei suicidi in carcere. Lo fa in aula alla Camera, dove risponde a diverse interrogazioni. Nessuna lo interpella direttamente sul caso di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto a Sassari in regime di 41 bis e da quasi tre mesi (81 giorni per la precisione) in sciopero della fame. Ma è chiaro che fra i pensieri del guardasigilli, la vicenda del recluso nel carcere sardo ha un posto non marginale. Non lo hanno lasciato indifferente le parole dell’appello promosso da giuristi e intellettuali che segnalano al governo, e a lui, il guardasigilli, innanzitutto, “l’urgenza” del momento: “Salvare una vita e non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile”. Non è sembrato insignificante, a Nordio, quello snodo del documento - che reca, tra le altre, la firme di figure del peso di Giovanni Maria Flick, Gherardo Colombo, Luigi Ferrajoli e Gian Domenico Caiazza - secondo cui la rinuncia di Cospito al cibo configura “un lento suicidio (che si aggiunge agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza”. Ecco, di aggiungerne un altro, di suicidio, il responsabile della Giustizia non ha alcuna intenzione. E così si spiega la nota con cui ieri sera, Nordio ha spiegato di seguire “con la massima attenzione” il caso dell’anarchico al 41 bis nel carcere di Bancali, di aver approntato un costante monitoraggio sulle “condizioni di salute” di Cospito, e di garantire, attraverso il Dap, “ogni eventuale assistenza sanitaria”. Nordio però nella nota di ieri chiarisce anche un’altra cosa: finora non è arrivata alcuna richiesta di revoca del 41 bis, regime a cui Cospito è sottoposto e contro il quale ha scelto lo sciopero della fame come forma non violenta di protesta. Non sono arrivate, finora, a via Arenula, istanze di revoca del “carcere duro”, né da parte del detenuto né dall’autorità giudiziaria. Non ha ritenuto finora di poter sollecitare una modifica del regime detentivo quel Tribunale di Sorveglianza di Roma che lo scorso 19 dicembre ha già respinto un ricorso giurisdizionale presentato dal legale di Cospito, e ora pendente in Cassazione. E a via Arenula si osserva come una iniziativa giudiziaria di segno diverso rispetto al diniego del mese scorso non sia impensabile, ma certo dovrebbe basarsi su “fatti nuovi”. Cioè su un venir meno delle asserite condizioni di “pericolosità” di Cospito. Finora, secondo i magistrati (non solo di Roma, ma anche della Dda di Torino e della Direzione nazionale Antimafia e antiterrorismo) resta evidentemente il rischio che l’anarchico, se sottratto al 41 bis, possa riprendere a “sobillare” con i suoi appelli frange anarchiche non solo italiane. Tutto per dire che, dal punto di vista del governo, e del ministero della Giustizia, la soluzione per sottrarre Cospito al “carcere duro”, e favorire un ripensamento dell’anarchico rispetto allo sciopero della fame, esiste ma non può che passare per una diversa valutazione della magistratura. Non necessariamente su una “cessata pericolosità” del recluso: non è un caso che nella nota di ieri Nordio abbia ricordato come al Tribunale di Sorveglianza sia possibile anche “disporre una sospensione della pena”, a fronte di un “aggravamento delle condizioni di salute”. E una cosa è certa: Cospito ha perso 35 chili e il potassio, essenziale per il funzionamento del cuore, è già sotto i livelli di guardia. Ecco, un provvedimento di “differimento pena per ragioni di salute” sembra, in questo momento, la prospettiva più realistica per scongiurare un esito tragico della vicenda. È un’ipotesi realistica e anche politicamente sostenibile. Perché certo, nel governo e nella maggioranza nessuno si entusiasma all’idea che Cospito muoia al “carcere duro”, Si rischierebbe un effetto negativo, forse inedito, rispetto al consenso per il regime speciale. Si tratta di un punto di caduta che non piace a nessuno, inclusi i partiti della maggioranza, Fratelli d’Italia e Lega, che hanno un approccio più intransigente sull’esecuzione penale. Ma appunto, sembra che tra il ministro e la maggioranza il punto di equilibrio condiviso consista in una via d’uscita che dev’essere individuata e assicurata da un atto della magistratura. Così com’erano stati i magistrati a documentare, con i loro pareri (sempre dalla Dda di Torino e dalla Dna) la necessità di 41 bis, poi effettivamente decretato, a maggio 2022, dalla precedente guardasigilli, Marta Cartabia. Uno stop al 41 bis ordinato per ragioni di salute dalle toghe: anche politicamente è la sintesi possibile. Ed è la possibile soluzione a quel “suicidio lento” che, se si consumasse davvero, produrrebbe conseguenze pesantissime. Caro Dubbio, sbagli: il ministro può revocare il “carcere duro” di Livio Pepino Il Dubbio, 12 gennaio 2023 Gentile direttore, leggo sul Suo giornale del 10 gennaio l’articolo di Damiano Aliprandi dal titolo “Dal 2009 il ministro non può revocare il 41 bis, si attende la decisione dei giudici”, relativo alla vicenda dello sciopero della fame in atto di Alfredo Cospito per protesta contro il regime di cui all’art. 41 bis ordinamento penitenziario. In esso, dopo aver citato l’appello rivolto da un nutrito gruppo di giuristi al ministro della giustizia perché “revochi nei confronti di Cospito, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, il regime del 41 bis” si afferma che “il Governo Berlusconi, in particolar modo l’allora guardasigilli Angelino Alfano, ad opera dell’art. 2, comma 2, legge n. 94 del 2009, ha abrogato il comma che dava la possibilità al ministro di revocare il 41 bis con decreto motivato. Quindi, tecnicamente, il potere politico ha le mani legate e si aspetta, infatti, la decisione della Cassazione a seguito del ricorso del legale di Cospito contro il diniego del tribunale di Sorveglianza di Roma”. Essendo tra i sottoscrittori dell’appello mi corre l’obbligo di una precisazione. I fatti non stanno così. È vero che l’art. 2, comma 25, lett. e della legge n. 94 del 2009 ha parzialmente riscritto l’art. 41 bis ordinamento penitenziario, abrogandone, tra l’altro, il comma 2 ter che dettava la disciplina della revoca, da parte del ministro, del provvedimento applicativo della misura e delle possibilità di reclamo dell’interessato. Ma ciò non ha in alcun modo intaccato il potere ministeriale di revoca, come pacificamente ritenuto da tutti i commentatori. Si veda, per esempio, F. Della Casa e G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, 5^ ed., Cedam, 2015, in cui si legge: “È evidente che, ove muti il quadro a carico del destinatario (ad esempio per una scelta di collaborazione con la giustizia o perché muti il suo status processuale) debba intervenire revoca, senza ovviamente attendere la scadenza naturale del decreto ministeriale, rientrando la facoltà di revoca nella disciplina generale degli atti amministrativi”. Del resto, se così non fosse, si perverrebbe all’assurdo che il detenuto in regime di art. 41 bis il quale recida i collegamenti con l’organizzazione di appartenenza collaborando con gli inquirenti e facendone arrestare tutti i componenti dovrebbe continuare a restare, magari per anni, in tale situazione. Il ministro della giustizia, dunque, poteva prima della legge n. 94 del 2009 e può oggi revocare, per fatti sopravvenuti, il decreto applicativo del 41 bis nei confronti di qualunque detenuto e, anche, di Alfredo Cospito. Può farlo o meno, ma per sua esclusiva scelta e non per vincoli di legge. Cospito rischia la vita, ma Nordio fa il pesce in barile di Frank Cimini Il Riformista, 12 gennaio 2023 Alfredo Cospito va dritto dritto sulla strada che ha scelto proseguendo lo sciopero della fame a rischio della sua incolumità e della vita. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel comunicato emesso l’altra sera quando afferma che il suo dicastero “segue con la massima attenzione la vicenda attraverso un controllo medico giornaliero è un rafforzamento della polizia penitenziaria” dimostra di avere tutto per una eventuale decisione. Anche se poi alla fine della nota si contraddice affermando che al ministero “non è arrivata alcuna richiesta di revoca del regime speciale 41bis né da parte del detenuto né da parte dell’autorità giudiziaria che a fronte dell’aggravamento delle condizioni di salute può disporre una sospensione della pena o chiedere al Ministro una revoca del regime speciale”. Il difensore Flavio Rossi Albertini replica che il passaggio nel comunicato sul 41bis “è eloquente”. Cioè non vi sarebbe bisogno di alcuna richiesta formale anche se nella giornata di oggi sarà valutata l’eventualità di integrare gli atti già a disposizione. “È il ministero che ha disposto accertamenti che segue e monitora”, aggiunge il legale il quale ieri ha parlato al telefono con Alfredo Cospito che gli ha confermato la volontà di proseguire nel digiuno. Nordio dal canto suo un po’ prende tempo un po’ fa finta di non capire. La situazione è chiara ma pure un po’ ingarbugliata anche se superabile. Va ricordato che nel 2009 Alfano decise di togliere al ministro della Giustizia il potere di revoca del 41bis, ma trattandosi di un provvedimento amministrativo il Guardasigilli se vuole può procedere alla revoca del trattamento. Certo c’è bisogno della volontà politica in un caso che comunque resta politico al di là degli infingimenti. Poi Nordio non appare risoluto (eufemismo) al punto da prendersi una responsabilità mentre sul caso del carcere duro per Cospito è ancora in corso una procedura giudiziaria dal momento che la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma è stata impugnata dalla difesa con un ricorso per Cassazione dove le carte sono approdate dopo bel tre solleciti. Ma la data dell’udienza non sembra destinata ad essere fissata a breve. E comunque i tempi della decisione della Suprema Corte sono incompatibili con le condizioni di chi digiuna da 84 giorni, prendendo solo un poco di sale e di zucchero. Nella giornata di oggi Cospito riceverà la visita del medico di fiducia Angela Melia che con ogni probabilità avrà a disposizione anche i risultati delle ultime analisi eseguite. Sempre oggi una delegazione di parlamentari del Partito Democratico sarà in visita nel carcere di Sassari Bancali in seguito all’appello pubblicato da un gruppo di giuristi e intellettuali sul caso Cospito. Della delegazione faranno parte la capogruppo della Camera dei Deputati Debora Serracchiani, i deputati Andrea Orlando e Silvio Lai, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando e il senatore Walter Verini. All’appello dei giuristi per la vita di Alfredo Cospito hanno aderito anche quattro ex magistrati torinesi tra i quali Livio Pepino, ex sostituto procuratore generale. Nordio: “i suicidi in carcere insopportabile fardello di dolore” italpress.it, 12 gennaio 2023 “Che i fenomeni di suicidio in carcere rappresentino un intollerabile fardello di dolore è già stato enunciato nel discorso programmatico del premier Meloni. Le cifre sono quelle che conosciamo, intendiamo agire in vari modi”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, al Question Time alla Camera, in risposta a un’interrogazione parlamentare sulle iniziative in relazione al fenomeno del sovraffollamento delle carceri e alle condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. “Vogliamo intervenire sui luoghi dell’esecuzione della pena e sugli operatori penitenziari, anche sui detenuti, per i quali lo stato assume carico di diritti della salute fisica e psichica - ha aggiunto Nordio. Il personale verrà incrementato nell’organico, nel corpo di polizia penitenziaria, nel comparto delle funzioni centrali, ma anche i mediatori culturali e tecnici con qualifiche dirigenziali che sono carenti”. Previsti altri interventi: “Vogliamo migliorare la qualità della vita del personale di Polizia Penitenziaria, puntiamo a una manutenzione straordinaria di caserme e alloggi di servizio. Per il triennio 2022-2024 c’è un milione di euro destinato al personale del corpo di Polizia giudiziaria. L’attenzione alla sanità penitenziaria sarà massima, le interferenze di competenze tra Stato e regioni complicano le cose - ha ricordato il ministro -. Trovo irrazionale che il nostro Stato spenda centinaia di milioni per intercettazioni inutili quando non abbiamo soldi per pagare il supporto a persone che vivendo in stato di disagio finiscono per compiere questo insano gesto del suicidio”. Ilaria Cucchi: “Detenzione non è risposta a disagio giovanile” adnkronos.com, 12 gennaio 2023 “Ancora tensioni in un istituto penale minorile dopo quanto accaduto pochi giorni fa al Beccaria di Milano. Gli episodi non sono altro che la punta dell’iceberg di annose storie che parlano di disagio, mancanza di futuro, risorse scarse, personale lasciato allo sbando. Se si aggiunge che gli attori di queste storie sono ragazzi giovanissimi è facile immaginare quale sia lo sconforto che tutto ciò provoca. L’episodio di Casal del Marmo insieme al quotidiano allarme che proviene dagli istituti deve essere motivo di preoccupazione per tutti”. Lo afferma Ilaria Cucchi conversando con i giornalisti davanti al carcere minorile di Casal del Marmo dove ieri sera è divampato un incendio. Due detenuti sono stati ricoverati in ospedale per intossicazione, tre agenti di polizia penitenziaria hanno dovuto far ricorso alle cure ospedaliere. “Reclusi e personale penitenziario sono vittime di un sistema che è fallito e fa fatica a garantire l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione. Il carcere deve reinserire, non disumanizzare - prosegue Cucchi - Certo questo ulteriore episodio ci mette di fronte al tema di quanto sia opportuno parlare di carcere minorile e di quanto sia necessario pensare al suo superamento. Il tema della giustizia carceraria riguarda tutte e tutti noi. Se invece rimarrà relegato all’interno dei muri di contenimento, rischia di restare sempre e solo un problema. Apriamo un’inchiesta nazionale sulla condizione carceraria e il rispetto dei diritti”, conclude Cucchi. Carceri minorili, la rivolta dei farmaci di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 gennaio 2023 Incendio nell’istituto Casal del Marmo di Roma durante una protesta per un ritardo sugli ansiolitici serali. La Garante Stramaccioni: “Chiedono farmaci in continuazione, i ragazzi detenuti lo chiamano il “carrello della felicità”. Nel dossier della Ong, focus sull’Italia per la povertà e il trattamento dei migranti. Ancora un segnale di sofferenza si leva dalle carceri minorili italiani. Questa volta viene dall’Istituto penale per minori di Casal del Marmo, a Roma, dove martedì sera il ritardo della distribuzione dei farmaci - per lo più ansiolitici - ha sollevato una piccola rivolta tra i giovani detenuti. Nel caos si è sviluppato un incendio - secondo gli inquirenti, di origine dolosa - che ha interessato materassi e suppellettili di almeno tre celle, dichiarate poi inagibili. Secondo le prime ricostruzioni, a capeggiare la rivolta sarebbero stati quattro giovani nordafricani, due dei quali sono stati ricoverati all’ospedale Pertini per intossicazione ma dimessi nella giornata di ieri. Anche tre poliziotti penitenziari sono stati sottoposti alle cure ospedaliere per l’inalazione dei fumi tossici. secondo i sindacati penitenziari, sarebbe il terzo incendio sviluppatosi in poche settimane nel minorile romano. Secondo loro la causa, dice ad esempio il Sappe, sarebbe dovuta “al cambiamento della popolazione detenuta minorile, che è sempre maggiormente caratterizzata da profili criminali di rilievo già dai 15-16 anni di età e contestualmente da adulti fino a 25 anni che continuano a essere ristretti” nei minorili. Ma secondo il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia queste sono solo “polemiche pretestuose”, affiancate da “proposte ingiustificate, come quella di trasferire nelle carceri per adulti gli infra-venticinquenni che, peraltro, in questo caso non c’entrano nulla”. È vero invece che “da tempo anche Casal del Marmo vive una condizione di sofferenza, dovuta all’insufficienza degli operatori di polizia penitenziaria e alla temporaneità degli incarichi dirigenziali di pur ottime direttrici, ma impegnate anche in altre sedi”. Spiega Antigone, che nelle loro visite “nel 2022 è emerso che il 43% dei detenuti adulti assume sedativi o ipnotici, mentre il 20% risulta assumere regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi”. “Chiedono farmaci in continuazione, è una costante del carcere, i ragazzi lo chiamano il “carrello della felicità” - entra nello specifico la Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni - Non si tratta di grandi terapie trattandosi di minori e sempre dietro prescrizione medica, per lo più ansiolitici e calmanti, ma spesso ne abusano, li mischiano oppure li mettono da parte”. Bisogna tenere presente, come ha spiegato su queste colonne don Gino Rigoldi, lo storico cappellano del “Beccaria” di Milano (il manifesto 29 dicembre 2022), che molti di questi giovani rinchiusi negli istituti minorili nostrani sono stranieri arrivati in Italia da minorenni non accompagnati, ragazzi che non hanno trovato posto negli alloggi comunali e sono rimasti dunque a vagabondare diventando facile preda della criminalità. Ed è su questo punto che infatti si concentra il rapporto di Human Right Watch 2023 nel capitolo dedicato all’Italia. Nelle poche pagine in cui l’Ong internazionale descrive lo stato di diritto nel nostro Paese, si legge: “Secondo le statistiche governative, tra gennaio e ottobre 2022 più di 85.000 persone hanno raggiunto l’Italia via mare, inclusi 9.930 minori non accompagnati, un aumento significativo rispetto al 2021”. I dati più completi del Viminale rilevano che, nel corso dell’intero anno scorso, complessivamente sono arrivati sul nostro territorio 105.140 stranieri tra cui minori non accompagnati 12.687. Ragazzi che spesso sono rimasti fuori dai servizi di accoglienza, non più sufficienti ai nuovi flussi, e sono entrati a far parte di quella fascia di popolazione che soffre di estrema povertà. “Il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali - si legge ancora nel rapporto di Hrw - ha espresso preoccupazione per il limitato godimento dei diritti da parte di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Il Comitato ha inoltre espresso preoccupazione per i tassi persistenti di elevata povertà, l’adeguatezza di il sistema pensionistico di vecchiaia e le indennità di disoccupazione, e i diritti di invalidità gruppi avvantaggiati ed emarginati alla sicurezza alimentare, alla casa e alla protezione dalla discriminazione”. Naturalmente, esiste anche un problema reale di devianza giovanile. La detenzione però, fa notare Ilaria Cucchi (Avs), non è la risposta al disagio giovanile: “Gli episodi non sono altro che la punta dell’iceberg di annose storie che parlano di disagio, mancanza di futuro, risorse scarse, personale lasciato allo sbando”. Il grido delle madri in carcere di Alessandra De Vita Grazia, 12 gennaio 2023 Le indagini sul suicidio di una giovane mamma in cella hanno rivelato le condizioni di vita insostenibili delle detenute italiane. A Grazia parla chi conosce quei luoghi nati per contenere la violenza maschile e del tutto inadatti a ospitare tante ragazze con i loro figli. Prima di togliersi la vita, Donatella Hodo aveva scritto alla conduttrice tv Maria De Filippi: “Aiutami a cambiare vita”, si legge nella lettera della 27enne, detenuta per spaccio, ritrovata dal padre pochi giorni fa, ad alcuni mesi dalla morte della figlia, avvenuta nella notte tra l’1 e il 2 agosto 2022. Donatella è una delle 84 persone che si sono suicidate in una cella nel 2022, un numero altissimo. Il giudice di sorveglianza che seguiva la ragazza, Vincenzo Semeraro, ha chiesto scusa alla famiglia per non essere riuscito a salvarla, per non avere capito il suo disagio attraverso i loro colloqui. Ha detto: “Io penso che il carcere, così com’è, sia pensato per gli uomini e non per le donne. Perché tende a contenere la violenza e l’aggressività, che sono caratteristiche tipiche dell’uomo. Un penitenziario su misura per le donne dovrebbe esplorare di più l’ambito emotivo. La donna in carcere è un soggetto doppiamente debole: necessiterebbe di una tutela maggiore”. Conferma questa visione Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. “Visito quasi una struttura al giorno, ci sono carceri senza neanche un educatore che possa aiutare i detenuti a risolvere il problema che li ha portati dentro”, dice l’ex deputata Radicale, che da tempo lotta contro le precarietà del sistema penitenziario. “In carcere c’è tutto il disagio sociale: stranieri, tossicodipendenti, poveri e casi psichiatrici. La maggior parte delle strutture sono fatiscenti, dovrebbero essere chiuse. Hanno solo docce esterne sporche e ammuffite. Se vivi in un ambiente di degrado non è facile alimentare buone propensioni, c’è tanta disperazione. Nessun governo ha fatto niente per adeguare queste strutture alle leggi. Il magistrato di sorveglianza dovrebbe conoscere uno a uno i detenuti e organizzare un programma individuale di trattamento per il loro reinserimento ma questa legge non viene applicata”. Secondo l’Osservatorio sulle carceri Antigone, nel 2022 le donne detenute erano 2.276, più del 4 per cento dei presenti, di cui 576 ospitate all’interno delle quattro carceri femminili in Italia. Le altre sono rinchiuse nelle 46 sezioni femminili delle carceri maschili. Michele Miravalle, responsabile dell’osservatorio delle condizioni di detenzione di Antigone, racconta: “Per quanto riguarda i servizi sanitari e igienici, dei 24 istituti con donne detenute visitati da Antigone solo poco più della metà disponeva di un servizio di ginecologia e uno su cinque un servizio di ostetricia”. Le criticità delle carceri femminili sono confermate dalla Garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni: “Il Covid”, spiega, “ha sconvolto il mondo penitenziario: ciclicamente gli istituti vengono chiusi alle visite per prevenzione. Questo acuisce l’isolamento e la lontananza delle donne dai propri figli e provoca crisi di depressione che spesso rendono la detenzione insostenibile. Molte donne fanno uso di farmaci per sopravvivere. L’ordinamento penitenziario risale al 1975 ed è stato pensato al maschile. Il fatto che il numero di detenuti maschi sia sempre molto più alto ha fatto sì che le esigenze delle donne fossero generalmente trascurate”. Racconta questo disagio chi l’ha vissuto sulla propria pelle. Anna Repichini, 72 anni, è stata negli ultimi anni a Rebibbia, il carcere femminile più grande d’Europa. “La mia prima volta in cella è stata nel 2000. Quando ci sono tornata nel 2015, ho visto che non era cambiato nulla. Stesse stanzette, in sei in una cella piccolissima con solo un lavandino, usato anche per piatti e pentole, e un gabinetto senza privacy. Non c’è un bidet né uno specchio per vedere se ti sei pettinata bene. Per le più giovani è terribile ed è anche per questo che nascono coppie, ma non tutte sono realmente omosessuali. Quando sei dentro, la mancanza di affetto viene colmata dall’approccio di una donna più mascolina. Io e mia figlia, che è stata incarcerata con me, ci siamo sostenute a vicenda. Non abbiamo nulla. E uscire dal penitenziario è anche più duro di quando ci entri”. “Ex detenuto”, un appellativo che rende difficile la vita post carcere  di Maria Rosaria Mandiello Il Denaro, 12 gennaio 2023 “Libero”, comincia così il secondo tempo della vita di un ex detenuto, che dopo aver atteso e immaginato una vita fuori dal carcere, si chiude la porta del penitenziario alle spalle, ma la vita reale è molto più dura di quello che si immagina dalla galera. Scarcerato, equivale ad ex detenuto e gli effetti dalla carcerazione seguono ovunque, rischiando di far vacillare quella gioia infinita della ritrovata libertà. La vita fuori dalle mura del carcere si è evoluta, cambiando assetto, gli affetti ed i sentimenti rischiano di avere una nuova forma, e la realtà potrebbe portare a rendersi conto che gli amori sono naufragati, gli amici si sono allontanati, la famiglia è cambiata per lutti, malattie, dissapori; scontrandosi anche con la difficoltà di un reale reinserimento all’interno della società. E il rischio di ricadere in errori del passato è dietro l’angolo, è quella che viene chiamata recidiva e in Italia il tasso di recidiva degli ex detenuti si aggira intorno al 70%, il che significa più di due persone su tre, una volta uscite dal carcere, commettono ulteriori crimini che potrebbe riportarli in carcere. Escono di prigione senza nessun percorso di reinserimento. Spesso senza casa, senza famiglia, senza lavoro e senza residenza. Nella migliore delle ipotesi hanno perso punti di riferimento affettivi e familiari che oltre ad essere una risorsa emotiva e sentimentale, potevano essere una risorsa materiale, ritrovandosi con un’abitazione in fitto o una casa che è un’eredità da contendersi. Un recluso che esce dal carcere si trova disorientato. Soli o con affetti da riconquistare, ma anche senza alcun sostentamento. Impossibile per un ex detenuto accedere al reddito di cittadinanza, infatti, da alcuni mesi la norma sulla misura di contrasto alla povertà esclude la possibilità di fruire del reddito di cittadinanza alle persone che hanno scontato la pena e che da meno di dieci anni non sono recidive. Il reddito di cittadinanza per molti potrebbe essere un aiuto ai bisogni primari, tra cui anche l’affitto di una casa. La vita post carcere non è semplice, le difficoltà maggiori si riscontrano sia a livello abitativo, molti sono privi di un alloggio, di ospitalità, oltre che di un lavoro, spesso proprio a causa del backgroud di provenienza, così come per la fedina penale compromessa: un’impresa difficilissima. I soli lavoretti saltuari non bastano per far fronte ai bisogni essenziali, e il rischio di ricadere nelle maglie di un reato è alquanto alto. Spesso l’uscita dal carcere porta nella situazione precedente se non peggiorata al cospetto dell’entrata. Per questo motivo, è fondamentale intercettare i bisogni primari delle persone detenute quando stanno ancora scontando la pena, in effetti della scarcerazione enti ed istituzioni ne sono a conoscenza sei mesi prima, tempo utile per attivare una rete di servizi in grado di preparare i reclusi all’uscita. Servono risorse in un sistema welfare che dimentica gli ex detenuti, che molto spesso non hanno neppure la residenza e quindi non possono usufruire degli aiuti; ritrovandosi spaesati e disorientati all’interno della società. Sono dunque necessari diversi interventi che vanno attuati in prossimità delle dimissioni: incrementando le misure alternative ed i permessi premio, che aiuterebbero il detenuto a reinserirsi gradualmente nella società. Ma anche fornire l’opportunità alle persone recluse di svolgere dei periodi di tirocinio in aziende convenzionate con il carcere, che consentono alla persona di acquisire conoscenze, abilità, formazione e potrebbero garantirgli un lavoro se non proprio un’assunzione. La recidiva in sostanza si può scongiurare creando tutti i supporti e le condizioni materiali e psicologiche affinché le persone detenute, una volta libere, abbiano la possibilità di effettuare scelte di vita diverse da quelle che le hanno portate in un penitenziario dove hanno scontato il loro debito con la giustizia. Pensare anche di restituire dignità agli ex detenuti ridimensionando il provvedimento sul reddito di cittadinanza, che discrimina tutte quelle persone che hanno pagato il loro debito con la giustizia e hanno diritto ad essere al pari degli altri, persone senza aggettivi.  Carabia: una riforma con meno carcere, ma l’opinione pubblica vorrebbe tutti dentro di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 12 gennaio 2023 Può funzionare una giustizia avvertita senza sanzioni? E soprattutto, può funzionare un sistema giudiziario non condiviso dai cittadini? Sono le domande che vengono spontanee dopo l’ennesima riforma, quella che porta il nome dell’ex ministra Cartabia. Una riforma di elevata civiltà giuridica, che si propone di ridurre al minimo il carcere, introducendo sanzioni alternative e percorsi di giustizia riparativa, nella convinzione che possano funzionare meglio per “riabilitare” chi sbaglia, ma che probabilmente è troppo avanzata per un Paese in cui tutti sono preoccupati per l’emergenza criminalità e troppi hanno l’abitudine a non rispettare le leggi. Una riforma che non è stata per nulla spiegata agli italiani, ai quali, al contrario, arriva costantemente il messaggio contrario: ovvero che bisogna arrestare tutti e buttare via la chiave. Messaggio ribadito in modo ossessivo da alcuni degli stessi esponenti politici che hanno votato la riforma Cartabia, i quali come nulla fosse continuano a sbandierare il tema della sicurezza per acquisire facili consensi (ovviamente da arrestare sono sempre gli altri, non gli amici e i sodali, per i quali vale la presunzione d’innocenza anche dopo la condanna definitiva). Dopo la Cartabia però è chiaro che in carcere si finirà soltanto per pochi reati: rapine a mano armata, traffico di consistenti quantitativi di droga, omicidio. Per gran parte degli altri delitti non vi è più lo spauracchio della detenzione, né a livello di custodia cautelare (cioè prima di una condanna), né in sede di esecuzione pena (cioè dopo la condanna). Per le pene fino a 4 anni, infatti, sono previsti i domiciliari per le condanne più pesanti e sanzioni alternative per quelle più leggere: pena pecuniaria per condanne fino a un anno, lavoro di pubblica utilità fino a tre anni. Giusto? Sbagliato? Il legislatore ha scelto questa strada anche perché le statistiche dimostrano che le sanzioni alternative consentono di “recuperare” un numero superiore di persone, offrendo loro una possibilità per rimettersi sulla giusta strada. Ma per chi vive di reati, per la microcriminalità, il poter delinquere senza paura di finire in cella può essere vissuto come un via libera. Le forze dell’ordine stanno vivendo questo momento con un senso crescente di sconforto per tanto lavoro che appare inutile. La riforma Cartabia ha introdotto una serie di novità per cercare di snellire la giustizia, di renderla più rapida, per ottenere i fondi del Pnrr. Il tetto di 4 anni, sotto il quale il carcere non è più previsto (o quasi) risponde, però, anche ad un’altra esigenza della politica: garantire l’impunità ai cosiddetti “colletti bianchi” per tutti i reati tipici dei pubblici amministratori, difficilmente puniti con pene superiori. Ci vorrà tempo per valutare gli effetti delle novità, ma nei primi giorni di applicazione sono già esplose le polemiche per i ladri lasciati liberi anche se fermati in flagranza, con il bottino in mano, per l’impossibilità di raccogliere la querela del derubato; oppure per gli sconti in appello garantiti grazie al “patteggiamento” (prima non consentito) anche a chi ha commesso odiosi reati di violenza sessuale nei confronti di minori. Invece di investire risorse per il personale e riempire le cancellerie rimaste senza personale, si punta tutto sul processo telematico, sull’informatizzazione delle procedure. Ma invece di semplificare, di eliminare alcuni passaggi all’insegna di garanzie solo formali, la riforma ha introdotto l’ennesimo adempimento, l’udienza pre-dibattimentale, che rischia di allungare i tempi dei processi invece di renderli più spediti. E già si parla di riaccorciare i tempi di prescrizione, modificati da pochi anni. La Giustizia non può attendere. La riforma penale Cartabia è entrata in vigore, ecco perché ci sono tante polemiche sui suoi effetti di Giulia Merlo Il Domani, 12 gennaio 2023 Le modifiche prevedono la trasformazione di alcuni reati, che prima erano procedibili d’ufficio, a querela della vittima, anche nei casi in cui c’è la finalità mafiosa. Santalucia (Anm): “Bisognava dosare meglio la selezione dei reati che sono effettivamente minori, forse il Pnrr ha messo fretta. Auspico correttivi ministeriali”. Inoltre c’è il problema dell’arresto in flagranza: se un ladro viene sorpreso a commettere un furto in gioielleria e il gioielliere non è reperibile in quel momento, il ladro non può essere arrestato. Sono passati appena 12 giorni dall’entrata in vigore della riforma penale - rinviata di qualche mese per permettere agli uffici di mettersi al pari con gli adempimenti tecnici necessari - e già da alcune procure arrivano gli allarmi. In particolare per la trasformazione di alcuni reati come a querela della vittima, mentre prima erano perseguibili d’ufficio. Con il rischio di un cortocircuito per gli arresti in flagranza e per i casi in cui si riscontra aggravante mafiosa. “Bisognava dosare meglio la selezione dei reati che sono effettivamente minori, forse il Pnrr ha messo fretta”, spiega il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, “come spesso capita le scelte astratte non hanno la fantasia che la realtà poi ci mostra. Per questo auspico un intervento del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per apporre alcuni correttivi nei due anni di tempo a disposizione”. “Una riforma piena di buone intenzioni, ma che si attaglia poco alla realtà”, è infatti la sintesi di Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore capo di Milano e attento osservatore delle dinamiche della giustizia. Il presupposto della riforma è la necessità di ridurre del 25 per cento la durata dei procedimenti penali entro il 2026, come indicato dagli obiettivi del Pnrr. Obiettivo ambizioso in un sistema come quello italiano, su cui pende una mole di 1,4 milioni di procedimenti arretrati. Per raggiungerlo, Cartabia ha introdotto - oltre a riforme procedurali - l’ufficio del processo, ovvero personale extra assunto a tempo determinato per quattro anni, e, invece di depenalizzarli, ha modificato la procedibilità dei reati a minor pericolosità sociale. In particolare, ha trasformato a querela della vittima alcuni reati: non basta più che il reato sia noto alle forze dell’ordine per procedere, ma serve che la vittima lo denunci. La riforma riguarda le lesioni personali colpose stradali gravi o gravissime, le lesioni personali il sequestro di persona e la violazione di domicilio nei casi in cui non siano aggravati; il furto, con eccezione di alcune aggravanti elencate, la violenza privata, la truffa, la frode informatica e l’appropriazione indebita. I problemi concreti sorgono con reati come il furto aggravato, magari a danno di turisti, in cui rintracciare la vittima diventa una prova impossibile. Oppure, come spiega Santalucia, “il caso di furto di autovetture, nel caso in cui non ci sia modo di rintracciare il proprietario”. Simile è la questione anche per il sequestro di persona o la violenza privata, che sono reati in cui spesso il fattore ambientale in cui sono commessi è determinante e la vittima può essere indotta a non presentare querela. Da questo punto di vista, secondo il procuratore capo di Salerno, Giuseppe Borrelli, viene al pettine uno dei nodi principali: “Si è rivoluzionato il sistema penale, ma senza renderlo comprensibile all’opinione pubblica”. Tradotto: il cittadino dovrebbe essere consapevole che ora, per alcuni reati, la querela è necessaria. Flagranza e sequestri - Il problema, secondo Borrelli, è quello della coerenza: “La procedibilità a querela per la truffa informatica è coerente con il tipo di reato, molto meno per il sequestro di persona non a scopo di estorsione. Immaginiamo il caso in cui parente viene a denunciare il sequestro, ma la querela non la può presentare un estraneo, e allora come si fa a disporre le intercettazioni per trovare il sequestrato?”. Inoltre c’è il problema dell’arresto in flagranza: “Se un ladro viene sorpreso a commettere un furto in gioielleria e il gioielliere non è reperibile in quel momento, il ladro non può essere arrestato”. Il problema, appunto, è che l’arresto contestuale alla commissione di uno dei reati procedibili a querela diventa complicato, conferma anche la magistrata Rossella Marro, giudice al tribunale di Napoli: “Manca il tempo tecnico di acquisire la querela, soprattutto nel caso di reati per i quali spesso si procede con l’arresto in flagranza”, come i casi di furto. Tuttavia, la gip di Napoli Linda D’Ancona ritiene che la scelta del legislatore abbia invece un suo senso, per assicurarsi che i processi si concludano in modo efficace: “Si tratta di ipotesi in cui, se manca la querela della parte, è praticamene impossibile giungere a sentenza perché manca la testimonianza probatoria principale. In questo modo si fa fronte alla necessità di avere una parte offesa querelante che partecipa al processo”. E, sottolinea la magistrata, non viene modificata la procedibilità per i casi più gravi, come la violenza di genere o in famiglia. L’aggravante mafiosa - Un’altra paura riguarda il pericolo che alcuni reati oggi perseguibili a querela lo siano anche in caso di aggravanti di tipo mafioso, non esplicitamente escluse dalla riforma. “Nei casi in cui i reati trasformati a querela siano aggravati dalla finalità mafiosa, pensare che la vittima debba essere chiamata a sporgere querela determina un grave vulnus nei territori più martoriati dalla presenza della criminalità organizzata. Lo Stato non può arretrare neanche di un centimetro in questi casi”, dice la giudice napoletana Marra. Tuttavia, anche su questo esistono vari livelli di allarme anche dentro la magistratura. “Aspettiamo le future applicazioni giurisprudenziali. Inoltre i reati aggravati dalla finalità mafiosa sono reati molto più gravi di quelli inseriti nell’elenco ministeriale”, è il commento di D’Ancona. Le custodie cautelari - Un altro problema concreto riguarda i reati ora non più procedibili d’ufficio, per i quali è pendente una misura cautelare: la vittima va rintracciata per farle sporgere querela, altrimenti la misura cautelare decade. “La legge prevede solo 20 giorni a disposizione degli uffici giudiziari per rintracciare le vittime. Decisamente un tempo troppo limitato e che provocherà l’uscita dal carcere di molti ormai ex imputati”, è il ragionamento di Bruti Liberati. Anche in questo caso, la situazione varia da uffici a uffici. A Napoli, dove lavora D’Ancona, “ci siamo dati da fare e abbiamo reperito le persone offese. Dove non è stato possibile, abbiamo dichiarato estinto il processo per mancanza di querela, rispettando la volontà del legislatore”. La problematica, in effetti, è limitata perché pochi tra i reati trasformati a querela che nel concreto portano a misure cautelari. Borrelli vede eventuali problemi di un termine non certo ampio solo per sequestro di persona e furto, “per gli altri reati è rarissimo che siano disposte misure cautelari”. Le notificazioni - Altra questione riguarda il nuovo regime delle notificazioni dell’atto di citazione a processo, che deve avvenire direttamente nelle mani dell’imputato, mentre gli avvisi successivi possono arrivare al domicilio del difensore e si indica come primo strumento quello della notifica digitale. Proprio questo ha comportato le maggiori difficoltà, che sono soprattutto tecniche: in particolare la carenza negli uffici di strumentazione adeguata, che riguarda l’impossibilità per ora di accedere automaticamente al registro degli indirizzi di posta elettronica certificata delle persone fisiche residenti. “Se il ministero non avesse introdotto la norma transitoria che ha prorogato l’entrata in vigore della riforma, sarebbe stata una catastrofe”, è il parere di Borrelli, che racconta anche delle difficoltà della piattaforma informatica, che a novembre non prevedeva ancora il campo per inviare il fascicolo al giudice nell’udienza pre-dibattimentale. Per gli uffici di procura, inoltre, la norma transitoria ha previsto che la riforma andrà concretamente a regime in giugno, con i tempi rigidi per durata delle indagini preliminari. Nel frattempo, ci sarà il tempo per il ministero di rivedere una parte della riforma, come del resto è già stato anticipato con la volontà di Nordio di mettere mano al regime della prescrizione. Tutti i buchi della riforma Cartabia di Francesco Grignetti La Stampa, 12 gennaio 2023 Senza denuncia non si procederà per molti reati, niente deroghe neppure per l’aggravante mafiosa. Magistrati in rivolta. FdI attacca: la riscriveremo. Topi d’auto che non si possono arrestare anche se colti in flagrante perché il proprietario non è in città e non può firmare la denuncia. Stupratori che potrebbero farla franca perché irreperibili. Borseggiatori seriali che finiranno fuori dal carcere in quanto le vittime sono turisti stranieri, tornati a casa dopo le Festività. Addirittura sequestratori che non finiranno a processo se manca la denuncia del sequestrato. Al decimo giorno di applicazione della riforma Cartabia, dai palazzi di Giustizia arrivano molte segnalazioni e proteste. L’intera macchina giudiziaria scricchiola sotto il peso delle novità. Si stanno verificando persino problemi ai sistemi informatici. In particolare, si temono contraccolpi perché la riforma ha spostato alcuni reati dalla procedibilità d’ufficio alla procedibilità a querela. E non è una novità indolore. Nel campo dei reati che si possono perseguire soltanto a seguito di querela, ci sono il furto, ma anche la rapina semplice, le lesioni stradali gravi o gravissime, le lesioni personali, la minaccia. Alcuni reati di quelli che hanno cambiato veste sono oggettivamente minori, tipo “il disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone”. Ma non è così per la “turbativa violenta del possesso di cose mobili” oppure la “violenza privata”, che in aree ad alta densità mafiosa può essere un reato spia di comportamenti molto pericolosi. E non è prevista una deroga nemmeno se c’è l’aggravante mafiosa. In pratica, se un mafioso minaccia un cittadino, o anche gli procura lesioni, o la vittima firma la denuncia oppure nemmeno si istruisce la pratica. Lo Stato lo lascia solo con la sua coscienza. A questo meccanismo, che si sta concretizzando nei primi giorni di applicazione della riforma, la maggior parte dei magistrati si ribella. Dice il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, a nome di tutti: “Non siamo contrari al principio in astratto, ma ci voleva più prudenza nello stilare l’elenco dei reati. E bisogna prevedere una deroga per l’aggravante mafiosa”. La riforma era stata approvata dal Parlamento nell’agosto scorso; subito dopo l’allora ministra Marta Cartabia emanò un decreto legislativo che stabiliva quali reati dovessero cambiare registro. Ma ora il nuovo governo vuole rovesciare tutto. “Premesso che noi di Fratelli d’Italia non abbiamo votato a favore e l’abbiamo criticata duramente in Parlamento - dice il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro - oggi scopriamo che i sequestratori non verranno nemmeno indagati se manca la querela della vittima, ed è uno scandalo, ma domani scopriremo che in appello scatterà l’improcedibilità, e cioè finiranno al macero, una massa di processi. Non subito, ma nel corso della legislatura questa riforma noi la riscriveremo di sana pianta”. Il vizio di fondo, secondo il partito di Giorgia Meloni, è dovuto all’eterogeneità della maggioranza che reggeva il governo Draghi. “Sappiamo bene - continua Delmastro - che questa era una delle riforme concordate con l’Europa, per velocizzare la giustizia, e ottenere il Pnrr. Ma tecnicamente è un disastro perché cerca di tenere insieme visioni molto diverse”. I magistrati imputano alla riforma soprattutto la fretta di abbattere l’arretrato e ridurre il numero dei processi. D’altra parte, lo stesso consulente della ministra, Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale, è esplicito sugli obiettivi. Sulle pagine della sua rivista “Diritto penale”, scrive: “Tra il 2016 e il 2020, sono stati denunciati quasi sei milioni di furti, e aperti altrettanti fascicoli. L’effetto deflattivo della riforma è potenzialmente notevole in ragione, vuoi del numero di casi in cui non sarà presentata una querela, vuoi del numero di casi in cui potrà essere rimessa a seguito di condotte risarcitorie delle quali la persona offesa potrà beneficiare in tempi brevi”. Gian Luigi Gatta: “Riforma Cartabia inevitabile: serviva una terapia d’urto” di Errico Novi Il Dubbio, 12 gennaio 2023 Parla l’ex consigliere giuridico del ministro Cartabia: “Chi avanza critiche sulla procedibilità a querela estesa ad alcuni reati non si rende conto che la vera falcidia dei processi è nei dati abnormi”. Anni di appelli a depenalizzare, poi arriva una riforma come la “Cartabia”, che interviene chirurgicamente sulla perseguibilità d’ufficio di alcuni reati, e si scatena un moto d’indignazione collettiva. Del paradosso discutiamo con Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’università di Milano. Un “pendolo” dei giudizi quanto meno paradossale, professore... Certamente c’è da registrare, quanto meno, un atteggiamento che mostra una certa ritrosia a fare seriamente i conti con ciò che è indifendibile e insostenibile: la patologica lentezza dei procedimenti penali, che rappresenta un unicum in Europa. Ricordo solo che, secondo dati del Consiglio d’Europa, la durata media dell’appello penale è, in Italia, dieci volte superiore alla media del continente. Siamo dei malati cronici e gravi: bisogna prenderne coscienza per accettare la necessità di cure. Anche di quelle che possono apparire terapie d’urto. Dati alla mano, il sistema non riesce a gestire annualmente il milione e mezzo di procedimenti penali di cui è gravato. L’estensione del regime di procedibilità a querela ad alcuni reati, statisticamente ricorrenti nei ruoli d’udienza, come nel caso di furto e lesioni lievi, anche stradali, è una sola tra le tante misure concordate dal governo Draghi con la Commissione europea, nell’ambito del Pnrr, che vanno nella direzione di decongestionare il processo penale. Quanto alle lesioni stradali, l’intervento risponde addirittura a un monito della Corte costituzionale. È una cura per un male di cui soffriamo ed è certamente un minus rispetto alla depenalizzazione: chi lamenta l’impunità per la mancata presentazione di una querela, per un reato che rimane tale, come può, coerentemente, invocare la depenalizzazione, che cancella il reato? A lamentarsi sono anche diversi pm. Possibile che dietro alcune critiche vi sia anche il timore di perdere il controllo sull’esercizio dell’azione penale? Non penso. Le critiche si sono concentrate su due soli reati, tra la dozzina di quelli oggetto della riforma: furto e sequestro di persona semplice. Sono reati comuni e, nel caso del furto, vecchi come il mondo. Probabilmente, per pur nobili ragioni di prevenzione e difesa sociale, si fatica ad accettare come possibile la rinuncia a punire quei reati, perché la vittima non si trova o non presenta una querela. Però si dimentica che gran parte dei furti, fino a ieri procedibili d’ufficio, sono bagatellari, come molti di quelli nei supermercati. E il sequestro di persona, punito nel minimo con solo sei mesi di reclusione, può riguardare limitazioni della libertà personale assai limitate nel tempo. Sa qual è il reato per il quale più si applica la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto? Il furto: 31.000 provvedimenti iscritti nel casellario giudiziale tra il 2015 e il 2021. E sa che, per lo più, quella causa di non punibilità viene riconosciuta non durante le indagini, ma in primo grado o in appello, dopo che si sono celebrati lungamente uno o due gradi di giudizio? Non è meglio, piuttosto che celebrare 31.000 processi per furti di merendine o simili, rinunciare a farlo quando manca la querela, cioè l’interesse del privato, vuoi perché risarcito, vuoi semplicemente perché disinteressato? Le procure possono così concentrarsi sui procedimenti per reati ben più gravi. Già ora lo fanno, d’altra parte: quanti cittadini dopo aver subito furti, anche in appartamento, non hanno più avuto notizia delle sorti della loro denuncia? Sarebbe necessario, almeno per una fase transitoria, vincolare gli uffici affinché segnalino alle vittime la necessità della querela? La disciplina transitoria, inserita su proposta del ministro Nordio in sede di conversione del decreto Rave, è a mio parere ragionevole. Il differimento dell’entrata in vigore della riforma, di oltre due mesi, unito al termine di tre mesi per presentare la querela, dà alle persone offese buone garanzie di conoscibilità della novità normativa. Si è scelto, modificando la riforma Cartabia, di limitare la ricerca delle persone offese, da parte degli uffici giudiziari, ai soli fini delle misure cautelari. Anche questa è una scelta ragionevole, proprio a fronte della prolungata vacatio legis, e sgrava gli uffici da dispendiosi adempimenti. Possibile che i critici ritengano così irrinunciabile il “simulacro illusorio” della giustizia onnipresente da essere disposti a vedere sacrificata l’effettiva efficienza del sistema? Pare sia effettivamente così’. La sensibilità, anche mediatica, che si ha per il momento iniziale del processo, per le indagini e le misure cautelari, mette in ombra la fase finale, cioè l’esito. La vera e preoccupante “falcidia dei processi”, evocata in questi giorni da magistrati con funzioni direttive, non è e non sarà rappresentata dalla mancata presentazione delle querele, per mancata conoscenza, dimenticanza, disinteresse o, come in molti casi avviene, per remissione dopo il risarcimento del danno: è quella determinata dalla prescrizione del reato, che a Napoli ha interessato, solo in appello, nel 2021, un procedimento ogni tre e, a Roma, uno ogni due. Per non dire poi del fatto che la maggior parte dei reati, compresi quelli procedibili a querela, si prescrive nel corso delle indagini. Questo è il vero allarme, determinato anche e proprio dal numero ingestibile dei procedimenti. Nel caso del sequestro di persona può esserci il rischio di un eccessivo alleggerimento della risposta repressiva da parte dello Stato? Si è sentito dire anche questo, ma in realtà la procedibilità a querela non implica necessariamente un alleggerimento della risposta repressiva. Basti pensare che sono procedibili a querela reati come violenza sessuale, stalking e revenge porn. Si obietta che il sequestro di persona può denotare una tale pericolosità dell’autore da richiedere una sanzione anche al di là della volontà manifestata dalla vittima, in modo da scongiurare il rischio che quello stesso autore possa commettere altri reati... È facile rispondere che il diritto penale punisce il fatto, l’offesa recata con il reato, e non la pericolosità manifestata con la sua commissione. Sul piano della percezione sociale, può pesare l’impossibilità di fermare gli autori dei furti, considerato che quelli per i quali c’è l’improcedibilità d’ufficio raramente avvengono in presenza della vittima? Ha centrato un punto importante. L’estensione della procedibilità a querela alla gran parte dei furti suggerisce forse di ripensare la regola secondo cui, nei reati procedibili a querela, l’arresto in flagranza può eseguirsi solo se la querela viene presentata, anche oralmente, all’ufficiale presente sul luogo. Non è ragionevole pretendere che sulla scena del reato sia sempre presente anche la persona offesa o che, comunque, debba essere reperita immediatamente. Questo avviene, normalmente, rispetto alla violenza sessuale, non anche al furto: se mi rubano l’auto sotto casa non è ragionevole pretendere, per arrestare il ladro, che anche io sia sotto casa o raggiungibile a qualsiasi ora. Si potrebbe allora valutare un correttivo: per non sacrificare le esigenze cautelari, e consentire l’arresto, si potrebbe richiedere la querela solo per l’eventuale applicazione di una misura cautelare, dopo la convalida. Senza mettere in discussione la procedibilità a querela, insomma, basterebbe consentire l’arresto in flagranza e richiedere che la querela venga presentata entro 48 ore. Il governo Meloni non lo ha fatto dopo il rinvio della riforma, ma potrebbe farlo senz’altro ora. La legge delega Cartabia, non a caso, prevede decreti correttivi da adottarsi entro due anni, in base di quanto emerge dall’applicazione. Ultimo caso che ha suscitato forti reazioni: la pena extracarceraria prevista per una violenza sessuale. Come ci si arriva? Facciamo chiarezza. Nel caso che lei cita è stata ridotta la pena, per una violenza sessuale, in applicazione del concordato sui motivi d’appello. La riforma Cartabia ha in effetti rimosso le irragionevoli preclusioni dell’art. 599- bis c. p. p., consentendone l’applicazione anche ai reati previsti dall’art. 4 bis. Non si tratta di un rito premiale, come il patteggiamento: presuppone un accertamento pieno del fatto e della colpevolezza. Il punto è quindi che non si fanno sconti di pena: il giudice applica la pena giusta, prevista dalla legge, e la riduzione, rispetto a quella inflitta in primo grado, dipende dal fatto che il giudice ha ritenuto fondati i motivi di appello. Così il giudizio si chiude prima nell’interesse di tutti. E non è vero che, se la pena irrogata è inferiore a 4 anni, per la violenza sessuale, si possono applicare pene sostitutive, come i domiciliari. La riforma prevede che le pene sostitutive non si possono applicare nei confronti dell’imputato per reati previsti dall’art. 4 bis. “Riforma Cartabia? Una depenalizzazione camuffata” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2023 S’allarga il fronte dei pm contro la legge: “Per i soldi Pnrr si buttano a mare i processi?”. Dal sostituto procuratore di Roma Albamonte al pg di Napoli Riello, piovono critiche da parte dei magistrati al provvedimento dell’ex ministra. Il magistrato campano: “Così si rompe il patto sociale e vengono lasciate sole le vittime alla mercé degli autori dei reati che - nelle zone infestate dalle mafie - avranno terreno fertile nel dissuadere le vittime a querelare”. Intanto in settimana il primo vertice per riformare l’abuso d’ufficio. “Mi pare che siamo di fronte a una sorta di depenalizzazione camuffata, che mette in un angolo le persone offese: nessuno tocchi Caino, certo, ma nessuno tocchi Abele”. Così Luigi Riello, procuratore generale di Napoli, commenta una della novità più contestate della riforma penale dell’ex ministra Marta Cartabia, entrata completamente in vigore il 30 dicembre scorso: la trasformazione retroattiva di una serie di reati da “perseguibili d’ufficio” a “perseguibili a querela”, cioè solo su richiesta formale della vittima. E non si tratta di fattispecie di poco conto: ci sono i furti aggravati, le lesioni personali stradali gravi o gravissime, le truffe, le violenze private e i sequestri di persona non aggravati. Una norma pensata per abbattere il carico di processi, che però sta già mostrando i primi effetti distorti, perché in molti casi non è facile rintracciare le vittime che dovrebbero sporgere querela: Riello fa l’esempio dei “furti ai danni di turisti, purtroppo molto frequenti nel territorio napoletano”. “Non vorrei che si diffondesse la convinzione che l’unico modo per fare i processi sia quello di non farli, farli abortire, eliminarli fisicamente”. E avverte: “Se per vedere staccati gli assegni del Pnrr dobbiamo buttare a mare i processi, io non ci sto”. “Rendere perseguibile a querela di parte addirittura il sequestro di persona, e varie figure di furto aggravato, mi sembra concretizzare un disinteresse dello Stato per gravi rotture del patto sociale, lasciando le vittime alla mercé degli autori dei reati che - nelle zone infestate dalle mafie - avranno terreno fertile nel dissuadere le vittime a querelare”, afferma Riello. E sottolinea che “ciò crea problemi, per esempio, per i processi direttissimi, come recenti vicende, assurte alla ribalta della cronaca, dimostrano”. Il procuratore ammette “i tempi biblici della nostra Giustizia sono certamente inaccettabili e non degni di un Paese civile e moderno”. Ma, ricorda, “le raccomandazioni della Commissione europea riguardavano la scarsa efficienza del sistema giudiziario italiano, le lentezze procedurali, i mancati filtri agli appelli, la necessità di abbattere fortemente l’arretrato”, e non certo l’impunità indiscriminata. Pertanto, a suo giudizio “era necessaria - quanto al processo penale - una riforma strutturale da tempo reclamata che coinvolgesse soprattutto i tempi, il sistema delle impugnazioni, e anche le complicazioni relative ai tanti adempimenti formalistici, etc. La strada scelta è stata quella positiva (che apprezzo) di modernizzare, di digitalizzare il processo, di realizzare nuove assunzioni di personale. Non mancano altri profili decisamente apprezzabili. Ma quanto alla perseguibilità a querela di molti reati, se per taluni posso concordare, francamente per altri, di particolare gravità e allarme sociale, no”. Sulla stessa linea l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma, che ribadisce all’Ansa le critiche già espresse in un’intervista al fattoquotidiano.it: “La riforma Cartabia, entrata in vigore da pochi giorni, sta già avendo effetti nel lavoro delle Procure lasciando esposte le vittime, anche quelle che hanno subìto un semplice borseggio. A mio modo di vedere la modifica per alcune fattispecie, prima erano perseguibili d’ufficio e ora solo previa querela come ad esempio il furto aggravato, può avere un impatto anche dal punto di vista sociale”, dice. “Prendiamo, ad esempio una città come Roma in cui lavoro da anni, dove ogni giorno si consumano tantissimi furti ai danni di turisti che trascorrono in città solo alcuni giorni. Per chi indaga diventa un lavoro improbo rintracciare le vittime una volta che sono ripartite per acquisirne la denuncia. In questo modo rischiano di restare impuniti una galassia di reati ai danni di semplici cittadini e si assisterà, tra qualche settimana, a scarcerazioni di delinquenti che abitualmente mettono in atto condotte illecite di questo tipo”, aggiunge Albamonte. Altro discorso per i reati come il sequestro di persona o la violenza privata. “In questo ambito il fattore ambientale è determinante. Si tratta di reati che avvengono in contesti criminali in cui la vittima è spesso totalmente assoggettata e denunciare diventa una scelta di coraggio perché deve vincere le paure e le intimidazioni a cui è sottoposta”. Intanto in settimana, forse già mercoledì, ci sarà una riunione di governo per fare il punto sulla riforma dell’abuso d’ufficio, una delle priorità nel programma del Guardasigilli Carlo Nordio. Il ministro si confronterà con il suo vice Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) e con i sottosegretari Andrea Ostellari (Lega) e Andrea Delmastro delle Vedove (Fratelli d’Italia): il nodo da sciogliere è se cancellare del tutto il reato, all’origine della “paura della firma” da parte degli amministratori locali o se modificarlo parzialmente. Il ministro, che vorrebbe licenziare la riforma entro fine mese, si è espresso per l’abolizione, prevista tra l’altro da un disegno di legge presentato alla Camera da Enrico Costa di Azione. Sempre a Montecitorio è depositato anche un ddl di Forza Italia che riscrive il reato rendendo punibile il pubblico ufficiale solo se omette “consapevolmente” di astenersi quando è in conflitto d’interesse o provoca “direttamente” ad altri un danno ingiusto, restringendo ancora la condotta punibile, già ridimensionata da una riforma entrata in vigore nel 2020, in seguito alla quale sono punibili solo violazioni di regole “espressamente previste dalla legge (…) e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Tiritera anti Cartabia, Gratteri non si arrende di Tiziana Maiolo Il Riformista, 12 gennaio 2023 “Così non si faranno più i processi”. Ha ragione a vantare la propria coerenza, il procuratore Nicola Gratteri. Lui la riforma Cartabia l’ha buttata nel cestino da subito: pollice verso in toto, punto. E ora che i suoi colleghi, dopo aver ottenuto dal governo un rinvio di due mesi perché le procure “soffoccavano” per il surplus di lavoro, lamentano di nuovo di non farcela ad applicarla, lui può sedersi placidamente nell’arena di Floris e lanciare il proprio “ve l’avevo detto, io”. Addirittura irride: quando tutti avevano paura persino a pronunciare il nome di Draghi, io avevo avvertito il pericolo di quelle norme. È il classico magistrato contro-riformatore, il procuratore Gratteri, uno di quelli che non vorrebbero mai cambiare niente, forse in altri tempi, prima di innamorarsi dei blitz con centinaia di arrestati, avrebbe apprezzato una carriera con progressioni per anzianità. Infatti non gli è piaciuto il fatto che una legge voluta dall’ex premier Matteo Renzi lo obblighi a abbandonare la toga a 70 anni. E propone che su base volontaria si possa abbandonare i palazzi di giustizia a 75 anni. Si porta avanti con il lavoro, visto che lui è un giovincello di 64. A lui della riforma Cartabia, ma anche del precedente e attuale governo, sulla giustizia non piace proprio niente. Si era un po’ illuso sulla figura di Giorgia Meloni, sperava che in lei sarebbe emersa la parte più forcaiola, con l’avvento al governo. Ma già la scelta del guardasigilli Carlo Nordio pare intollerabile. Uno che proprio ieri al question time ha definito un “intollerabile fardello di dolore” il numero di suicidi nelle carceri raggiunto quest’anno. Uno che vuole investire sulla salute dei detenuti. E che aggiunge, quasi fosse un contraltare, “trovo irrazionale che lo Stato spenda centinaia di milioni all’anno per intercettazioni inutili quando non troviamo i soldi per pagare il supporto psicologico ai detenuti”. Uno così non può proprio piacergli. Infatti il suo punto di vista su ogni tipo di intrusione nella vita altrui è all’opposto. Le intercettazioni costano cinque euro al giorno, ha detto martedì sera nell’arena di Floris. E poi sarà anche vero, come ha detto il ministro, che il mafioso non parla al telefono, ma se uno chiama un altro e gli dà un appuntamento, a noi questo basta per avviare l’indagine. Semplice, no? Attenti a non darsi mai appuntamenti per telefono, meglio usare un piccione viaggiatore, in fondo le intercettazioni costano solo cinque euro al giorno, no? Certo, sommando e moltiplicando tanti biglietti da cinque euro si arriva a quei 170 milioni all’anno di cui ha parlato il ministro Nordio al question time, per definire certe intercettazioni come “fallaci e ingannevoli”. Forse il procuratore Gratteri e tanti suoi colleghi dovrebbero leggere le sentenze in cui i giudici irridono chi ha ascoltato e interpretato certe conversazioni. Per esempio attribuendo serietà a battute scherzose. E se Carlo Nordio lamenta come nei giorni scorsi in Veneto sino state rese pubbliche conversazioni tra persone non indagate, in spregio a qualunque norma anche rispetto a quelle emanate dal governo Draghi, nelle ore precedenti Nicola Gratteri aveva rilanciato il suo sberleffo di quando, dopo il solito blitz, aveva ingaggiato un corpo a corpo con i giornalisti, prima convocando poi annullando poi riconvocando la conferenza stampa e aveva detto sghignazzando: “oggi sono stati arrestati 200 innocenti”. Innocenti secondo la Costituzione, certo. C’è poco da ironizzare. Ma lui rinnova la tiritera, anti-Cartabia, contro la norma sulla presunzione d’innocenza che tutela il diritto alla non colpevolezza prima della sentenza definitiva. Non si sottrae, l’alto magistrato, neppure sull’attualità, che vede di nuovo i procuratori all’assalto dell’entrata in vigore, all’interno del pacchetto Cartabia, di quella norma che estende le previsioni di reato attivabili a querela della parte offesa. Il lamento va dal procuratore generale di Napoli Luigi Riello, fino al segretario di Area, la corrente di sinistra del sindacato magistrati, Eugenio Albamonte. I quali non si turbano del fatto che l’indubbia riduzione del carico di lavoro che la scelta comporta sia richiesta dal Pnrr e dall’impegno di ridurre l’arretrato dei fascicoli penali del 25% entro il 2026. Bastano gli slogan, per quelli non occorre affaticarsi. L’Europa, afferma con sicurezza il procuratore di Catanzaro, ci ha chiesto di accelerare i processi, non di non farli. Come se non esistessero già una serie di reati procedibili a querela di parte. Come se questa procedura non fosse già prevista nel codice. Ma c’è il solito equivoco, per cui pare che non ci sia la possibilità di fare giustizia se non con lo strumento del carcere. Immaginiamo che cosa succederebbe se il governo pensasse anche aa un piano di depenalizzazioni, cosa che, con grande contraddizione, chiede anche il sindacato delle toghe. Sarebbero le prime a scendere in piazza contro. Intercettazioni selvagge: Nordio non molla e Bongiorno s’impunta sull’abuso d’ufficio di Simona Musco Il Dubbio, 12 gennaio 2023 Il guardasigilli continua la sua battaglia e parla di “spese fuori controllo”, ma scoppia la grana con l’ex ministra leghista sulla legge più odiata dai sindaci. Limitare le intercettazioni, ma senza intaccare la lotta alla criminalità organizzata. E poi: più attenzione verso la salute psicologica dei detenuti e degli agenti penitenziari, nonché una tipizzazione del reato di tortura, che però non si tocca. Nel giorno in cui incontra i suoi sottosegretari e il viceministro Francesco Paolo Sisto per risolvere il rebus dell’abuso d’ufficio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde alle interrogazioni dei deputati, ribadendo le sue intenzioni. A partire dalla volontà di mettere mano alle intercettazioni, che costano ogni anno almeno tra i 160 e i 180 milioni di euro. La disciplina, dunque, sarà cambiata. Ma ciò, ha assicurato Nordio, non vuol dire “voler favorire la mafia, attraverso un depotenziamento di queste indagini”: in questo ambito “la disciplina resterà inalterata”. Ma i costi sono attualmente disomogenei in tutto il territorio nazionale e i pagamenti sfuggono “a ogni forma di controllo”: non essendoci un budget per ogni procura, “ogni pubblico ministero ed ogni gip possono disporne quante ne vogliono e alla fine vengono pagate secondo criteri sui quali stiamo costituendo dei tavoli di lavoro, quantomeno per rendere omogenee le liquidazioni di queste costosissime parcelle”. Ma il problema va oltre i costi. Le intercettazioni, ha infatti evidenziato Nordio, “sono risultate molto spesso fallaci e ingannevoli” e la pubblicazione arbitraria di contenuti non rilevanti si è verificata anche dopo la riforma Orlando, ha spiegato rispondendo alle polemiche di stampa, come dimostrato “in questi giorni in Veneto”, dove “sono state diffuse ampiamente intercettazioni di conversazioni di persone non indagate, non imputate, che sono state esposte al pubblico ludibrio senza nessuna necessità”. L’intenzione è quella di limitare i costi “attraverso l’omogeneizzazione delle parcelle” e fissare un budget per ogni ufficio giudiziario “che non possa essere superato annualmente, per evitare che l’utilizzo di tale strumento sfugga “economicamente a ogni forma di controllo”. Nordio ha parlato anche dei suicidi in carcere, “un intollerabile fardello di dolore”. Ma il discorso del ministro si è concentrato principalmente sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria - altro tema dell’interrogazione del deputato di Noi moderati Pino Bicchielli -, sulle quali il Guardasigilli ha assicurato interventi nella direzione di una maggiore formazione del personale, di un incremento della dotazione organica e di un miglioramento della qualità della vita in termini di idoneità e vivibilità degli ambienti lavorativi. Altro aspetto importante quello relativo al supporto psicologico, per il quale è stato stanziato un milione di euro per il triennio del 2022-2024. Interventi rivolti alla tutela della salute sia dei soggetti fragili quali i tossicodipendenti sia delle persone che hanno un certo disagio fisico. “Trovo abbastanza irrazionale - ha evidenziato Nordio - che il nostro Stato spenda centinaia di milioni l’anno per le intercettazioni molto spesso inutili quando non troviamo i soldi per pagare il supporto psicologico a queste persone che, vivendo in questo stato di disagio, purtroppo tante volte compiono questo gesto finale”. Mentre sul fronte del sovraffollamento la situazione italiana, secondo il ministro, non sarebbe tragica: “Il dato - ha affermato - è in linea con quello richiestoci dalla Comunità europea e dagli organismi internazionali. Il nostro indice di affollamento è del 117,71 per cento, cioè abbiamo 56mila persone, di cui 55mila esattamente presenti in istituto, a fronte di una capienza regolamentare di 51.295 posti”. Insomma, tutto sarebbe a posto, nonostante il record di suicidi in carcere - 84 nel 2022 - e nonostante solo a dicembre l’Unione europea abbia piazzato il nostro Paese tra i peggiori in termini di sovraffollamento: l’Italia è infatti al quinto posto dopo Romania (119,3), Grecia (111,4), Cipro (110,5) e Belgio (108,4). Numeri intollerabili, a 10 anni esatti dalla sentenza Torreggiani, con la quale la Cedu ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. E la situazione delle carceri è stata anche sullo sfondo dell’interrogazione di Devis Dori (Avs) sul reato di tortura, a partire dalla mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e dalle dichiarazioni del sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, che nel 2020 chiedeva l’encomio per la “spiccata professionalità” degli agenti ritenuti responsabili del terribile pestaggio. Questione sulla quale Nordio ha inteso tranquillizzare Dori, sottolineando come molti di quegli agenti risultino tuttora sospesi dal servizio. Nessun cedimento, dunque, “nessuna indulgenza da parte di questa amministrazione, assolutamente ferma a sanzionare secondo la legge i dipendenti infedeli che pongono in essere condotte illecite e antitetiche al dovere di giuramento”. E il reato di tortura rimarrà, ha assicurato, ma “vi sono delle questioni tecniche per quanto riguarda molte norme che difettano di tipicità e specificità”. La norma penale, ha infatti spiegato, “deve essere strutturata in un modo tale che sia assolutamente di facile applicazione proprio perché individua tutti gli elementi psicologici e oggettivi della struttura del reato. Secondo noi, questo reato di tortura difetta in alcune parti di queste condizioni - ha aggiunto -, ma questo non significa affatto che debba essere abolito o che debba essere attenuata quella che è l’attenzione nei confronti dello Stato nella repressione di condotte illecite che possono essere riferite sotto l’ambito della citata Convenzione di New York”. Parole che non hanno rassicurato Dori: “È una prospettiva pericolosa - ha commentato -. Un depotenziamento significherebbe, nei fatti, un’abrogazione implicita del reato di tortura nel nostro Paese, perché risulterebbe inapplicabile in concreto”. Il caso Cospito fa litigare anche le correnti della magistratura di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 gennaio 2023 Un proiettile è stato spedito al pg di Torino che si occupa del processo contro l’anarchico al 41-bis. L’Associazione nazionale magistrati e le correnti di sinistra non intervengono in difesa del collega: appartiene al gruppo conservatore di Mi. Il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame per protestare contro il regime di carcere duro a cui è sottoposto, sta provocando - lontano dai riflettori - forti tensioni nella magistratura, in particolare tra la corrente più conservatrice, Magistratura indipendente, e quelle di “sinistra”, Area e Magistratura democratica. Le tensioni sono emerse con chiarezza attorno alle minacce ricevute dal procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, che rappresenta la pubblica accusa nel processo che si sta svolgendo in corte d’assise d’appello nei confronti di Cospito per una serie di attentati aventi finalità terroristica e per strage politica (l’anarchico è già stato condannato in via definitiva per una serie di altri attentati, tra cui la gambizzazione dell’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi). Nelle scorse settimane a Saluzzo è stata indirizzata una busta contenente un proiettile e marchiata con la lettera “A” di anarchia. Il macabro episodio è andato ad aggiungersi agli attacchi che la magistratura torinese sta subendo da tempo proprio per il processo in corso a carico di Cospito, ritenuto capo e organizzatore della Federazione anarchica informale (Fai). All’ultima udienza un gruppo di anarchici è entrato in aula e ha rivolto frasi contro i magistrati: “Fascisti”, “assassini”, “vergognatevi”. Gli attivisti hanno gridato anche altri slogan, come “chi va col nucleare impari a zoppicare”, con chiaro riferimento all’attentato ad Adinolfi compiuto da Cospito, e “Susy Schlein impara a parcheggiare”, con riferimento all’attentato subito a dicembre dal primo consigliere dell’ambasciata ad Atene, rivendicato da un gruppo anarchico greco. Nel giugno 2017 alcune buste esplosive erano state recapitate ai pm Antonio Rinaudo e Roberto Sparagna, quest’ultimo titolare dell’inchiesta su Cospito. Di fronte a questi attacchi, l’Associazione nazionale magistrati, guidata da Giuseppe Santalucia (Area), sempre pronta a intervenire nel dibattito pubblico e politico in nome della tutela dell’indipendenza delle toghe, ha deciso di non prendere alcuna iniziativa. A intervenire è stata solo la sezione piemontese dell’Anm, guidata da Cesare Parodi, storico esponente di Magistratura indipendente. La giunta distrettuale, preso atto delle “gravi minacce” subite dal pg Saluzzo, ha condannato “fermamente il vile gesto” ed espresso “assoluta e incondizionata solidarietà a Saluzzo”, auspicando “un celere ed efficace accertamento delle responsabilità”. La giunta nazionale dell’Anm, invece, ha taciuto. Tra le correnti della magistratura, soltanto Mi ha deciso di esprimere solidarietà nei confronti di Saluzzo. “È forte lo sdegno per la viltà di chi, rimanendo anonimo, cerca di condizionare l’esercizio della funzione giurisdizionale, minacciando un servitore dello stato per il sol fatto di svolgere con scrupolo il suo lavoro”, hanno affermato in una nota Angelo Piraino e Stefano Buccini, rispettivamente segretario e presidente di Magistratura indipendente. “Sappiamo che si tratta di una minaccia tanto vigliacca quanto inutile, perché conosciamo le qualità umane e professionali del procuratore Saluzzo e ci stringiamo intorno a lui, esprimendogli piena e incondizionata solidarietà”, hanno aggiunto i vertici di Mi, chiedendo che “vengano adottate tutte le iniziative necessarie per garantire l’incolumità del collega”. Le altre correnti, dalla centrista Unicost a quelle di sinistra Area e Md, non sono intervenute. D’altronde, il distretto di Torino è da sempre ritenuto un feudo della corrente più conservatrice della magistratura. Eppure, viene da chiedersi cosa sarebbe avvenuto se simili attacchi a magistrati si fossero registrati a Milano, roccaforte delle “toghe rosse”. Sulla vicenda Cospito (posto al 41-bis in quanto risultato “in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”), in fondo, Md sembra pensarla diversamente. Basta leggere con attenzione l’appello rivolto da una ventina di giuristi e intellettuali al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per chiedere la revoca del regime di carcere duro nei confronti di Cospito. Tra i firmatari del testo, infatti, risultano numerosi ex magistrati simboli, se non addirittura fondatori, di Md: Giovanni Palombarini, Franco Ippolito, Nello Rossi, Livio Pepino, Gherardo Colombo, Beniamino Deidda, Elvio Fassone, Luigi Ferrajoli, Domenico Gallo. Così, l’espressione di solidarietà nei confronti di Saluzzo, cioè di un magistrato minacciato di morte, per le correnti di sinistra (e per l’Anm) è diventata incredibilmente una questione di parte. Corruzione, il rischio dell’indifferenza di Anna Corrado Corriere della Sera, 12 gennaio 2023 Nel 2020 una Commissione ministeriale ha terminato la revisione della materia e ha elaborato una possibile riforma. Dopo i clamori della cronaca e l’interesse mediatico per fatti e persone, gli episodi di corruzione lasciano sullo sfondo sempre un interrogativo: si potevano prevenire? Ogni episodio corruttivo produce macerie difficili da rimuovere in tempi brevi: danneggia l’immagine delle amministrazioni e delle istituzioni coinvolte, demotiva i dipendenti che vi lavorano, incide direttamente sulla fiducia dei cittadini creando diffidenza, trasforma la percezione delle attività, come per il lobbying, da lecite a illecite, incide sull’economia come costo diretto e anche come impedimento, che rallenta i processi di trasformazione e di investimento. Ci si chiede allora se non sia giunto il momento per la politica italiana di tornare a interessarsi del tema della prevenzione della corruzione, anche per dare un messaggio di “presidio del territorio” ora che siamo ancora in tempo e che gli investimenti Pnrr sono ancora nella fase iniziale di realizzazione. Il Paese sta facendo abbastanza sul fronte anticorruzione per scoraggiare gli appetiti illeciti che i finanziamenti europei potranno scatenare visto che l’esperienza insegna che dove ci sono i soldi cerca di inserirsi il malaffare? La legge di prevenzione della corruzione (190/2012) è stata introdotta dieci anni fa sulla spinta anche di convenzioni internazionali ed europee che imponevano all’Italia di fare di più su questo fronte. Dopo una fase di idillio, dal 2018 in poi l’interesse per la prevenzione della corruzione è via via scemato nel sistema Paese, consegnandola a una fase di purgatorio e relegandola spesso a “inutile” orpello burocratico, lasciando in piedi un sistema che lentamente si va avvitando su se stesso. E la cosa più incredibile è che a fronte di questa generalizzata indifferenza, alle pubbliche amministrazioni è rimasto un gran da fare per provare a rispettare una mole di adempimenti per i quali non ricevono alcun riconoscimento né dalla politica né dall’opinione pubblica. Eppure la battaglia per la prevenzione della corruzione dovrebbero intestarsela tutti, perché non è né di destra, né di sinistra, non può avere colore politico; dovrebbe costituire la base per assicurare ai cittadini benessere economico e sociale, sviluppo sostenibile, conseguimento di interessi pubblici. Numerosi studi economici dimostrano che istituzioni integre e ben “presidiate” da norme efficaci raggiungono maggiori traguardi economici e più velocemente. Che questi temi, sulla carta così popolari e ambiti, non ricevano nel nostro Paese lo spazio e l’interesse che meritano rimane un vero mistero. La normativa anticorruzione è nata da una commissione costituita presso il Dipartimento della Funzione pubblica nel 2012 che ha guidato la mano del legislatore introducendo misure e strategie, anche attingendo all’esperienza di Paesi d’oltreoceano. Alcuni di questi istituti hanno negli anni evidenziato criticità e in attesa che il legislatore vi ritorni, si va avanti grazie alle pronunce dei Tar e del Consiglio di Stato. Nel 2019 la materia della prevenzione della corruzione ha ricevuto un nuovo impulso e una nuova commissione ministeriale presso il Dipartimento della Funzione pubblica è stata costituita ricevendo il mandato di rivedere la materia e proporre una possibile riforma. La commissione ha lavorato alacremente, in piena pandemia, per assolvere al suo compito: a dicembre 2020 la proposta di riforma è stata consegnata, ha assunto un numero di protocollo e lì è rimasta, sepolta in qualche scrivania di Palazzo Vidoni. I redattori del Pnrr, infine, ben consapevoli dell’importanza del lavoro di riforma fatto nel 2019, per ottimizzare gli sforzi e con lo scopo di predisporre, all’arrivo dei finanziamenti europei, un presidio efficace, hanno proposto ad aprile 2021 di procedere a una revisione e a una semplificazione della disciplina in tema di anticorruzione e trasparenza, utilizzando proprio la proposta di riforma elaborata dalla commissione ministeriale. Peccato, però, che le buone intenzioni non si siano trasformate in obiettivi vincolanti e negoziati con l’Europa, per cui da luglio 2021 l’anticorruzione è stata nuovamente abbandonata a se stessa. Gli unici rigurgiti di interesse sono giunti in questi ultimi mesi con l’adozione della disciplina del Piano integrato di attività e organizzazione (Piao) per le pubbliche amministrazioni e dal prossimo recepimento della direttiva sul whistleblowing. Per il resto, misure come l’inconferibilità e l’incompatibilità degli incarichi pubblici, la trasparenza amministrativa, il conflitto di interessi, il pantouflage, che da anni aspettano di essere riviste e messe in condizione di essere meglio applicate, languono speranzose che qualche decisore si accorga della loro esistenza. Sarebbe addirittura preferibile, per l’efficienza delle amministrazioni, che la politica prendesse la decisione di eliminare gli istituti che ritiene inadeguati o inutili, liberandole da queste moderne fatiche di Sisifo fatte anche di relazioni, rapporti e piani fini a se stessi, piuttosto che prenderne semplicemente le distanze. Una scelta in sé non auspicabile, ma l’indifferenza può fare più danni di una cattiva riforma. Il Far West di pseudo tifosi sull’A1 è incivile, ma il rigurgito manettaro è peggio di Francesco Stocchi Il Foglio, 12 gennaio 2023 Alla notizia di non convalida dei primi arresti, numerosi giornali hanno definito la notizia scandalosa, parlando di “manica larga” del giudice, di “cavilli che salvano gli ultras”. Un malcostume che porta a invocare punizioni esemplari per responsabilità penali ancora tutte da chiarire e che non ha mai prodotto grandi soluzioni Domenica scorsa circa 300 facinorosi riconducenti alle tifoserie di Roma e Napoli se le sono date di santa ragione in mezzo a una corsia dell’A1, nei pressi dell’area di servizio di Badia al Pino (Arezzo). La presenza di coltelli, bastoni, bengala, picconi addirittura, fa pensare a un atto premeditato, se non addirittura concordato, tra due fazioni antagoniste che si fronteggiano regolarmente da oltre vent’anni. Chi governa, ricuce oppure esaspera questi dissapori? Chi è al comando di simpatie o rivalità tra due popoli di tifosi? Gli ultras, la minoranza loquace del tifo, che stanno alla tifoseria come i black bloc stanno ai manifestanti No global, o come i raver ai frequentatori di discoteche. Gruppi di persone che si portano al di fuori dei confini circoscritti fondendo i propri interessi con uno stile di vita che ne determina i comportamenti, le frequentazioni quotidiane, l’abbigliamento, i codici di linguaggio. Ciò che accomuna questi gruppi così disparati fra loro che fanno di atteggiamenti estremi, spesso delinquenziali, la cifra identitaria di un’aderenza totalizzante alla “causa”, è una rivendicazione di sfogo contro le evoluzioni (qui viste come involuzioni) moderne della società. Dei nostalgici arrabbiati la cui dinamica di gruppo conferisce status di tribù organizzate. Sottoculture, difficilmente penetrabili se non si viveva l’esperienza in presa diretta, che con l’avvento della comunicazione digitale, dei social media si trovano in una nuova fase identitaria. I fatti criminali di domenica scorsa non solo sono stati teatro di un regolamento di conti interno ma hanno anche messo a repentaglio la sicurezza dei viaggiatori, bloccando una delle principali arterie del paese. Fatti sicuramente inaccettabili ma la gestione dell’episodio e le relative reazioni sulla stampa aprono a due considerazioni. Alla notizia di non convalida dei primi arresti, numerosi giornali hanno definito la notizia scandalosa, parlando di “manica larga” del giudice, di “cavilli che salvano gli ultras”. La tendenza giustizialista di “sbattere il mostro in prima pagina” come si suol dire, così cara agli organi di stampa nostrani, ha forse fatto vendere qualche copia in più ma di rado ha prodotto buoni risultati. Successe con Tortora, con Amanda Knox e con numerosi altri imputati che hanno dovuto difendersi prima dall’opinione pubblica che dalla magistratura. Un malcostume che porta a invocare punizioni esemplari per responsabilità penali ancora tutte da chiarire. Lorenzo Contucci, avvocato di difesa, ci dice che “si confondono i cavilli con la Costituzione, in realtà mancavano i criteri di urgenza e impossibilità di effettuare l’arresto sul posto. Non è la polizia ma solo il giudice che può limitare la libertà di una persona”. Le indagini andranno avanti, i responsabili, la maggior parte dei quali già noti alle forze dell’ordine, verranno indagati e perseguiti come è doveroso che avvenga in un stato di diritto. Quello che si dovrebbe evitare in caso di disastro ricorrente è la consueta ricerca del capro espiatorio. La seconda riflessione riguarda una non adeguata gestione dell’ordine pubblico che avrebbe invece impedito un evento prevedibile. La presenza di 6-8 agenti della Stradale e la decisione sbagliata di bloccare le uscite dell’autostrada, fermando i napoletani alla stazione di servizio in attesa del passaggio dei romanisti si è dimostrata scellerata. Oggi si riunisce l’Osservatorio per le manifestazioni sportive del Viminale. Si prevedono misure restrittive esemplari, anche repressive ma sono misure che denotano una tale difficoltà di gestione delle manifestazioni pubbliche fino a impedirle. Come nel caso della tragica morte in piazza a Torino in occasione di una finale trasmessa sui megaschermi. La soluzione fu impedire i raduni in piazza, piuttosto che ammettere delle falle organizzative e prendersi carico delle responsabilità organizzative di gestione di flussi di persone. Sarebbe semplice gestire l’ordine pubblico con un pizzico di pragmatismo, invece si preferisce abdicare, o almeno così sembra. Il pedinamento del vicino di casa non costituisce un fatto di lieve entità di Giulio Benedetti e Camilla Curcio Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2023 Rivolgere occhiatacce e scattare foto di nascosto sono vere e proprie molestie che costituiscono gravi episodi di stalking condominiale. Pedinare il vicino di casa, rivolgergli occhiatacce e scattargli fotografie di nascosto. Non si tratta di dispetti ma di vere e proprie molestie alla base di gravi episodi di stalking condominiale. Una condotta molesta su cui non è possibile applicare la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Così ha stabilito la Cassazione nella sentenza 49269/2022, rigettando il ricorso di un ottantenne siciliano, accusato di aver ripetutamente importunato uno degli inquilini del palazzo in cui abitava. La sanzione di 200 euro - A ottobre 2021, l’uomo era stato condannato dal Tribunale di Enna al pagamento di una sanzione di 200 euro per il reato di disturbo o molestia alle persone. Secondo il giudice, le testimonianze confermavano che l’imputato fosse solito infastidire il vicino, inseguendolo o intralciandone la marcia. Comportamenti che l’ottantenne giustificava con la scusante di un rapporto teso nato da presunti soprusi del dirimpettaio. Impugnata la sentenza in Cassazione, l’uomo ha notificato al Tribunale scarsa attenzione nel verificare l’attendibilità dell’accusa e delle prove. Non solo: a suo dire, il giudice non aveva considerato la reciprocità delle molestie e l’assenza di soggettività nella condotta incriminata. Infine, insisteva sulla mancata concessione della causa di non punibilità (ex articolo 131 bis del Codice penale). Le motivazioni della Cassazione - La Suprema corte ha sottolineato come le prime due motivazioni fossero basate su congetture. Inammissibili anche l’argomentazione della soggettività, visto che gli atteggiamenti contestati erano più numerosi e meno neutri di quelli riportati dal ricorrente, e della reciprocità perché riguardava il rapporto tra le parti, più che i singoli episodi denunciati. In ultimo, i giudici di legittimità hanno sciolto il nodo della causa di non punibilità. Specificando come non fosse stata concessa per la natura reiterata della condotta dell’ottantenne. Condannato, a ricorso respinto, al pagamento delle spese legali. L’articolo 612 bis del Codice penale punisce comportamenti persecutori che causano nella vittima “un perdurante stato di ansia, un fondato timore per la propria incolumità e la costrizione ad alterare le proprie abitudini”. Nel caso in cui un condòmino denunci episodi del genere all’amministratore, quest’ultimo è tenuto a invitarlo a rivolgersi alla questura. L’articolo 8 della legge 38/2009 prevede una procedura per cui la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza e chiedere un ammonimento ai danni dell’autore della condotta vietata. Qualora l’istanza sia fondata, il questore ammonisce il soggetto e lo invita a tenere un comportamento conforme alla legge. Napoli. Morto l’ex boss Montescuro: fino ad un anno fa il detenuto più anziano della Campania di Ciro Cuozzo Il Riformista, 12 gennaio 2023 Era una larva umana, aveva piaghe su tutto il corpo. Era semicieco, diabetico e non sentiva bene. Aveva ben 17 patologie ma nonostante questo è rimasto in carcere fino a dieci mesi fa. Poi il passaggio ai domiciliari e gli acciacchi di salute che, giorno dopo giorno, sono degenerati fino all’epilogo della scorsa notte quando Carmine Montescuro, 88 anni compiuti lo scorso 5 luglio, è morto nella sua abitazione nella zona di Sant’Erasmo a Napoli. Per la procura era considerato un pericoloso boss di camorra, capace, nonostante l’età e le numerose patologie, di far valere ancora la propria influenza e soprattutto il ruolo da paciere tra gli altri clan della città. Montescuro, detto Zi Minuzzo, i suoi ultimi mesi di vita li ha trascorsi invece tra casa e ospedale, assistito dai medici e dai suoi familiari. Lo scorso febbraio 2022 era stato scarcerato, grazie anche a una campagna mediatica portata avanti dal Riformista, con i giudici del Tribunale di Sorveglianza che accolsero finalmente l’istanza presentata dai suoi legali. Era detenuto nel carcere di Secondigliano, dove era stato rinchiuso in piena emergenza Covid, nell’autunno del 2020 quando aveva poco più di 86 anni. Nemmeno la scomparsa della moglie, avvenuta poche settimane prima della scarcerazione, gli aveva fatto ottenere un permesso speciale per l’ultimo saluto. Arrestato insieme ad altre 22 persone il 24 ottobre del 2019, nell’ambito di un blitz della Squadra Mobile di Napoli nella zona di Sant’Erasmo, Zi Minuzzo era stato traferito ai domiciliari dopo tre settimane di carcere a causa delle condizioni di salute precarie. Era considerato dagli investigatori personaggio di notevole carisma criminale che oltre a svolgere, da decenni, il ruolo di mediatore nelle controversie insorte tra le diverse organizzazioni di camorra (clan Mazzarella, clan Rinaldi, clan Cuccaro-Aprea), dirigeva anche un proprio gruppo autonomo che agisce seguendo gli schemi comuni delle organizzazioni mafiose, imponendosi sul territorio e controllandone tutte le attività illecite. In tal modo “Zi Minuzzo” era riuscito a mantenere gli equilibri tra le varie associazioni, evitando il sorgere di conflitti, e garantendo, al contempo, il regolare svolgimento delle attività estorsive e la partecipazione di tutti ai profitti illeciti, tanto che alcuni collaboratori di giustizia, in virtù della posizione neutrale assunta, hanno indicato Sant’Erasmo -luogo di operatività del clan Montescuro - come una “piccola Svizzera”. Nei mesi scorsi il processo di primo grado si era concluso con una condanna a 19 anni di reclusione per Montescuro. “Se si riconosce a Montescuro Carmine il ruolo di sindaco della Camorra, si ammette implicitamente la difficoltà concreta che negli anni hanno avuto gli inquirenti ad incastrarlo, fino ad inventarsi che fosse a capo di un clan autonomo che portasse il suo cognome” hanno spiegato dopo la sentenza i suoi avvocati Giuseppe Milazzo e Immacolata Romano davanti alla 3 sezione collegio C del Tribunale di Napoli. In questi giorni infatti avrebbero dovuto depositare l’atto di appello avverso la sentenza che ha sancito l’esistenza del gruppo di Sant’Erasmo e ha condannato il defunto Montescuro a 19 anni. Un boss che ha ispirato pure un personaggio della serie di Gomorra e che era solito frequentare l’isola d’Ischia durante l’estate. Amico del re della sceneggiata Mario Merola, con cui condivideva, nei decenni passati, la ‘passione’ per il gioco d’azzardo, Montescuro ha sempre tenuto a distanza, negli anni della malavita (caratterizzata soprattutto usura ed estorsioni), l’attenzione delle forze dell’ordine. Amava mantenere un profilo basso, ritagliandosi nel tempo il ruolo da mediatore riconosciuto da diverse cosche partenopee, dai Sarno ai Mazzarella, passando per alcuni clan satelliti dell’Alleanza di Secondigliano. Il ‘pericoloso’ boss della camorra napoletana era affetto, così come riscontrato dalla direzione sanitaria del carcere di Secondigliano, da cardiopatia ischemica cronica, pregresso impianto di Pacemaker, versamenti pericardico in follow-up, sindrome metabolica (diabete mellito tipo II in trattamento con ipoglicemizzanti orali, ipertensione arteriosa, dislipidemia, iperuricemia, aneurisma dell’aorta toraco-addominale in follow up; aneurisma dell’aorta addominale in follow up; aterosclerosi carotidea e polidistrettuale; Broncopneumopatia cronica ostruttiva; ipertrofia prostatica benigna; insufficienza Renale Cronica; cisti renali, incontinenza urinaria, diverticolosi del colon, ipovedente, ipostenia arti inferiori con deambulazione di sedia a rotelle, psoriasi diffusa, ipoacusia bilaterale. Aveva bisogno di un piantone, ovvero un altro detenuto che veniva pagato per assisterlo. Ma nonostante questo, per oltre due anni è rimasto rinchiuso in carcere raggiungendo il triste primato di detenuto più anziano, e probabilmente malato, d’Italia. Padova. Si getta nel Brenta per sfuggire a un controllo di polizia: ripescato morto di Rashad Jaber Corriere della Sera, 12 gennaio 2023 Ossama Benrbeha, tunisino di 23 anni, si è divincolato dagli agenti e si è tuffato nelle acque gelide del fiume. Dopo una notte di ricerche il cadavere è stato recuperato in mattinata. La vittima, in Italia da un anno, lavorava “in nero” nei campi. È stato ritrovato poco dopo le 11 di oggi, mercoledì 11 gennaio, il corpo senza vita dell’uomo che ieri si era tuffato nel Brenta a Padova per sfuggire a un controllo di polizia, all’altezza dei campi sportivi di Pontevigodarzere. Si tratta del 23enne Ossama Benrbeha, tunisino: aveva due precedenti per droga e inoltre gli era stato notificato un ordine di espulsione in quanto irregolare, stando a quanto chiarisce la Questura di Padova. Le ricerche sono proseguite fino a quando la salma non è stata vista galleggiare a nemmeno duecento metri da dove Benrbeha si è gettato nel fiume: con tutta probabilità, l’acqua gelida del fiume ha causato una rapida ipotermia, rendendo sempre più difficile il mantenersi a galla e finendo col far annegare il fuggitivo. Vigili del fuoco, agenti di polizia, il motoscafo per perlustrare il fiume e persino l’elicottero dei pompieri si erano attivati immediatamente dopo che era stato dato l’allarme. Durante la notte, le ricerche erano proseguite senza esito con l’aiuto di droni e unità cinofile, fino a questa mattina. Cosa è successo - La dinamica è stata ricostruita dagli agenti della polizia: poco dopo le 15 un gruppo di quattro giovani è stato raggiunto da una pattuglia. Due sono immediatamente fuggiti alla vista della volante, mentre gli altri sono stati sottoposti a controlli. All’improvviso Ossama Benrbeha ha iniziato a divincolandosi, ferendo anche un agente. In un attimo, il 23enne si è sfilato il giaccone e si è tuffato nel fiume. Della sorpresa degli agenti ha approfittato l’altro giovane, che si è dato alla fuga, facendo perdere le tracce. L’altro in fuga - Stando a quanto riferito da amici e da una cognata, Ossama Benrbeha - sposato, un figlio di un anno - era in Italia da circa un anno e lavorava in nero come bracciante. Parlava arabo e francese, non l’italiano. Uno del gruppo che ci fa da traduttore, ci passa al telefono il giovane fuggito mentre i poliziotti cercavano di bloccare Benrbeha. Dice di essere irregolare in Italia. Gli chiediamo il nome: “Non lo dico, ho paura di rintracciato ed espulso”. La persona al telefono sostiene di essere stata colpita con spray al peperoncino e di non aver visto l’esatto momento in cui Ossama Benrbeha si è lanciato nel Brenta. In relazione alle dichiarazioni qui riportate, la questura di Padova sostiene che “al momento le stesse non trovano alcun riscontro. Ad ogni buon conto ogni approfondimento investigativo sulla vicenda sarà valutato dall’autorità giudiziaria”. Quanto accaduto a Pontevigodarzere ha un precedente, proprio nel Padovano. Il 4 giugno 2021, un giovane di origini africane, inseguito dalla polizia dopo un furto all’Eurospar di Via Altichiero, si era tuffato nel Brenta. Anche in quel caso il fuggitivo era annegato nel fiume. Palermo. Addio a Biagio Conte, il missionario laico che ha speso la vita per aiutare gli emarginati di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 12 gennaio 2023 È morto a Palermo, a 59 anni, il frate laico che aveva fondato la “Missione di Speranza e Carità” con cui aveva assistito decine di migliaia di persone. Papa Francesco, dopo la messa al Foro Italico, lo raggiunse per il pranzo. Ha speso gran parte della sua vita per dare voce agli ultimi. Lui, nato ricco, si era spogliato di tutto per aiutare poveri, ex tossici, emarginati di Palermo, ridando loro dignità e speranza. Un cancro al colon, scoperto due anni fa, si è portato via a 59 anni “fratel” Biagio Conte che, neanche negli ultimi mesi, aveva rinunciato ad assistere migliaia di persone in città senza un tetto sulla testa, prostitute, clochard, migranti, ex detenuti nelle sedi della sua “Missione di speranza e Carità”. Negli ultimi mesi non solo migliaia di palermitani ma centinaia di persone da tutta la Sicilia ultimi giorni hanno reso omaggio a Conte le cui condizioni di salute si aggravavano di giorno in giorno. Anche l’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice si è recato al suo capezzale per dare sostegno a uno dei suoi simboli di riscatto del capoluogo siciliano. “Restiamo uniti per un mondo migliore perché insieme possiamo farcela”, sono alcune delle sue ultime parole dal letto di agonia dove era accudito dai suoi “fratelli”. Chi era - Conte proveniva da una ricca famiglia di costruttori edili, dopo essere stato educato prima in un collegio privato in Svizzera e poi in uno di Palermo aveva deciso di abbandonare la scuola, a 16 anni, per seguire le orme del padre. Ben presto, però, la vista delle disuguaglianze sociali e i guasti provocati dalla mafia decise di spogliarsi di tutti i suoi averi per abbracciare la vita da eremita. Poi si recò, dopo un lungo pellegrinaggio a piedi, fino al convento di Assisi dove sposò gli insegnamenti di San Francesco. I familiari, in pena, per non avere sue notizie da tempo si rivolsero a “Chi l’ha visto?”. Sarà lo stesso Biagio Conte a tranquillizzarli in diretta tv del suo cammino. Nel 1991 ritornò dalla sua famiglia convinto di partire per l’Africa ma, camminando per le vie di Palermo, rimase colpito del profondo disagio sociale e dello stato di povertà di migliaia di suoi concittadini. Così decise di rimanere in Sicilia, indossare il saio e portare il bastone. Giorno dopo giorno mise “letteralmente” in piedi la Missione Speranza e Carità, con l’obiettivo di dare conforto e un futuro agli emarginati della città. Un progetto che è passato attraverso l’ambiziosa costruzione delle tre “Città della gioia”: la “Missione di Speranza e Carità”, “La Cittadella del povero e della speranza”, “La Casa di Accoglienza femminile”. La missione - Nel giro di alcuni anni ha costruito diverse sedi della sua missione che oggi accoglie oltre mille persone che vengono sfamati, hanno assistenza medica e ricevono, all’occorrenza, vestiti. Chiunque bussa alla porta riceve assistenza da una rete di volontari che hanno accompagnato il percorso di “fratel” Biagio. Un uomo che è stato capace di farsi sentire dalle Istituzioni anche a costo di prolungati scioperi della fame e proteste eclatanti per ottenere risorse dedicate alle proprie attività di carità, in modo tale da offrire maggiori servizi ai bisognosi e ristrutturare le sedi delle comunità. Le reazioni - “La scomparsa di Biagio Conte lascia un vuoto incolmabile a Palermo - ha commentato il sindaco Roberto Lagalla - e anche nelle ultime ore più drammatiche tutta la città si è stretta attorno a fratel Biagio, a testimonianza del valore dell’eredità umana che oggi ci lascia e che non dobbiamo disperdere. Resterà per me indimenticabile l’ultimo incontro di pochi giorni fa con Biagio Conte, durante il quale mi ha raccomandato di non dimenticare mai i poveri”. Di fatto, un’eredità lasciata alla città. “È con questo spirito che l’amministrazione e la nostra comunità devono a stare vicini alla Missione speranza e carità - ha concluso il primo cittadino - che continuerà a essere un punto di riferimento per Palermo anche se da oggi dovrà fare a meno del suo fondatore, della sua guida che resterà comunque fonte di ispirazione per tutti noi”. Roma. Rogo a Casal del Marmo, i due baby reclusi in carcere con gli stati d’ansia di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 12 gennaio 2023 Sono stati i poliziotti della Penitenziaria a far scendere in cortile i 42 detenuti molti dei quali maggiorenni (28 su 42) nell’istituto per minori. La rivolta per una punizione e un ansiolitico somministrato in ritardo. Inchiesta della procura dei minorenni. Uno ha protestato sostenendo che c’era un ritardo nella somministrazione di un ansiolitico, un altro invece perché gli era stato appena notificato un provvedimento disciplinare con limitazioni negli spostamenti nel carcere per 15 giorni, proprio a causa del suo comportamento dietro le sbarre. E così nella serata di martedì due detenuti 16enni, un tunisino e un marocchino, hanno scatenato il panico nel carcere minorile di Casal del Marmo. Hanno bruciato materassi e suppellettili, innescando un incendio che ha reso inagibile un intero padiglione dell’istituto di detenzione, il terzo rogo doloso negli ultimi tempi, che segue peraltro di pochi giorni l’evasione di massa al Beccaria di Milano e il ferimento di quattro agenti della polizia penitenziaria a Bologna.  Una tragedia sfiorata al Trionfale dove i vigili del fuoco hanno lavorato a lungo per avere ragione delle fiamme, mentre i poliziotti hanno salvato tutti i ragazzi portandoli dapprima nel refettorio, distrutto anch’esso dalla coppia di rivoltosi, e poi nel cortile interno. Tre agenti sono finiti in ospedale perché intossicati, insieme con un detenuto. I due responsabili dell’incendio sono stati ricoverati al Pertini con un trattamento sanitario obbligatorio. Su quanto accaduto la Procura dei minori ha aperto un’inchiesta. Distrutte tre celle su nove del reparto al primo piano di Casal del Marmo, dove la tensione è alta da mesi, secondo i sindacati della polizia penitenziaria.  Inoltre uno dei due 16enni avrebbe creato già problemi nel carcere minorile di Torino mentre l’altro, trasferito da Bari, due giorni fa avrebbe impedito agli agenti di imbarcarlo su un aereo per la Sardegna, dove era stato collocato, e dopo essere stato condotto in via Barellai potrebbe aver agito in quel modo per evitare di partire. Vista la gravità di quanto accaduto, nella notte di martedì a Casal del Marmo sono giunti il capo di gabinetto del ministro della Giustizia Carlo Nordio, Alberto Rizzo, con il sottosegretario, Andrea Ostellari. Nessuna conseguenza per gli altri 40 reclusi, fra cui tre ragazze, solo 14 dei quali minorenni, visto che il regolamento carcerario consente in certi casi, a scopo riabilitativo, la detenzione in un carcere minorile di giovani fino a 25 anni.  Preoccupati i sindacati della penitenziaria. Per Massimo Costantino, segretario generale della Fns Cisl, “serve la nomina di un direttore titolare, non si può andare avanti con reggenti, anche fra i comandanti degli agenti. Poi mancano circuiti differenziati, per separare reclusi accusati di gravi reati o problematici, come questi due, dagli altri”. Di “insufficienza di personale di polizia a Casal del Marmo”, parla invece Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà del Lazio, e per Donato Capece, segretario generale del Sappe, “le fiamme e il denso fumo avrebbero potuto essere letali. Nell’ultimo periodo - rivela - diversi detenuti delle carceri minorili provocano con strafottenza, modi inurbani e arroganza i poliziotti penitenziari, creando sempre situazioni di grande tensione”. Bergamo. Detenuti al lavoro: così uno dei sogni di don Fausto è diventato realtà di Francesco Ferrari santalessandro.org, 12 gennaio 2023 Da ormai un anno e mezzo uno dei sogni che coltivava don Fausto Resmini è diventato realtà e sta crescendo sempre più: dare lavoro ai detenuti della Casa circondariale di Bergamo. La fondazione che ora ricorda don Fausto anche nel nome, con il supporto operativo della cooperativa Il Mosaico, sta portando avanti questo progetto, che ha già dato tanti frutti. “Don Fausto aveva sempre avuto in mente di far lavorare i detenuti all’interno del carcere ma per diversi motivi non era riuscito a iniziare - spiega Salvatore Oliveto, collaboratore della prima ora di don Resmini, ora responsabile del laboratorio aperto in carcere -. A giugno 2021 abbiamo iniziato, smantellando un magazzino e aprendo un laboratorio: lì abbiamo iniziato a portare del lavoro della nostra cooperativa”. Il laboratorio allestito dentro il carcere può accogliere otto persone contemporaneamente: qui nel tempo si sono alternati diversi detenuti. “Lavorano per tre ore al mattino, dalle 8.30 alle 11.30 - continua Oliveto -. Grazie ad un finanziamento siamo riusciti ad organizzare anche due corsi di saldatura e ci sono due persone che, una volta uscite dal carcere, sono riuscite subito a trovare lavoro”. La costruzione di percorsi lavorativi intra murari si è rivelata una modalità preziosa per valorizzare il tempo della detenzione come occasione di scelte diverse nel momento della dimissione dall’istituto di pena.  La cooperativa, attraverso il lavoro, mira a insegnare le regole base di un luogo di lavoro, a fornire o consolidare competenze professionali e a garantire opportunità di guadagno economico. “Al personale del carcere chiediamo di far venire a lavorare soprattutto le persone più sole, che hanno meno contatti con l’esterno - spiega ancora Salvatore -. Anche in carcere chi è povero soffre di più e il lavoro può dar loro l’opportunità di guadagnare qualcosa”. I lavori svolti sono per lo più attività di assemblaggio, che si inseriscono nell’opera delle tante sedi in cui la cooperativa Il Mosaico dà lavoro a persone in condizioni di difficoltà, con borse lavoro (per il primo anno) o con regolari assunzioni (dal secondo anno). “Abbiamo i laboratori della comunità di Sorisole, quelli di Lurano, la nuova casa all’Agro di Sopra e anche un nuovo laboratorio al Patronato di Bergamo. Per il carcere, ci piacerebbe che qualche ditta esterna ci assegni delle commesse lavorative che possiamo far svolgere ai detenuti nel laboratorio”. Dopo il primo anno e mezzo, il progetto del lavoro in carcere vuole infatti crescere ancor di più. “Sta funzionando molto bene e abbiamo costruito un rapporto positivo anche con la direttrice e l’area educativa del carcere. Ci piacerebbe sistemare un’altra ala del carcere per avere a disposizione un nuovo spazio da allestire come laboratorio e creare opportunità lavorative per altri otto detenuti”. Proprio per questo la cooperativa ha avviato una raccolta fondi (26.600 euro è la cifra che si propone di raccogliere per realizzare questo laboratorio): per sostenere il progetto è possibile anche mettere a disposizione attrezzature oppure collaborare attraverso commesse lavorative. Carcerati in tournée di Piera Detassis Elle, 12 gennaio 2023 C’è modo e modo di far ridere, per il regista Riccardo Milani fare commedia non è mai pura consuetudine ma la ricerca del sorriso aspro, attento agli esclusi e che, nelle punte migliori, sa unire ironia sfrontata e critica sociale a una certa preveggenza. Aveva già indovinato tutto con il proverbiale Come un gatto in tangenziale e quello scontro cruciale Capalbio-coccia di Morto che prefigurava il declino di una certa sinistra da salotto e il riscatto della parmigiana in spiaggia libera, fenomeni oggi da prima pagina. Nel suo nuovo film Grazie ragazzi (nelle sale), remake del francese Un triomphe, Milani ritrova per la quarta volta Albanese, nel ruolo di un attore disoccupato, Antonio, che sopravvive doppiando porno e controvoglia accetta di tenere un laboratorio di teatro ai detenuti in carcere. Poiché la loro condizione è quella della perenne attesa, li convince a mettere in scena il siderale Aspettando Godot, esattamente come successe nella realtà all’ispiratore della storia, lo svedese Jan Jonson che lo stesso Samuel Beckett volle incontrare. Con lenta determinazione, tra mille resistenze e paranoie, l’imprevedibile succede, Antonio cattura un filo di speranza nella schizofrenia dei suoi improvvisati attori e il gruppo parte per un tour trionfale nei teatri italiani, i secondini come scorta, perché non è detto che il successo basti a lenire l’idea di un’evasione in massa. Sfoderano gran talento Vinicio Marchioni, Giacomo Ferrara, Giorgio Montanini e Andrea Lattanzi nel ruolo dei detenuti, convincendoci che la forza del cuore e della rabbia possano vincere in contropiede sulla pura tecnica, abbattendo i muri culturali e anche le resistenze della direttrice del carcere, la brava Sonia Bergamasco. A dare corpo e peso a quest’utopia di riscatto ci pensa Albanese, che cesella con rabbiosa perfezione il passaggio da sconfitto a protagonista della propria vita e chiude con un monologo che è una prova di commovente bravura. Lasciati per un attimo da parte Epifanio e Cetto La Qualunque, i suoi straordinari personaggi, la loro brusca poesia riluce comunque sullo sfondo. Grazie ragazzi è una commedia gentile eppur spietata nelle pieghe, ironica autobiografia d’autore che ci porta dietro le quinte survoltate di un set o di un teatro, dentro i parossismi degli attori tromboni come lo smaliziato capocomico Michele (un impeccabile Fabrizio Bentivoglio) e dove appare chiaro che la ritrovata passione di Antonio nel film è la stessa di Albanese, per il quale calcare un palcoscenico è ancora una forma civile e politica di sfidare la realtà. Aumentano entrate e progetti: ecco le Ong più virtuose di Giulio Sensi Corriere della Sera, 12 gennaio 2023 In continuo aumento il volume di entrate e interventi delle organizzazioni italiane. E il numero più alto di progetti è nel nostro Paese (841), seguito dal Mozambico. Il report di Open Cooperazione. Non si arresta la crescita delle organizzazioni non governative (Ong) italiane: secondo i numeri di Open Cooperazione, la piattaforma opendata che aggrega i dati di trasparenza delle organizzazioni attive nella cooperazione internazionale e nell’aiuto umanitario, nemmeno il 2021 ha bloccato l’aumento del loro volume di entrate, complice il perdurare di crisi irrisolte a livello globale e al netto dello sforzo messo in campo in Ucraina che si riferisce invece all’anno 2022. Il fronte di intervento più rilevante è divenuto quello di casa nostra: è l’Italia il Paese dove c’è il numero più alto di progetti, 841, a fronte dei 214 del Mozambico e i 188 dell’Etiopia. “È una crescita importante - spiega il fondatore e curatore di Open Cooperazione, Elias Gerovasi - che si spiega anche con l’aumento dell’aiuto umanitario dovuto sia al Covid sia al perdurare di crisi, come quella legata al prezzo delle materie prime, e guerre in vari contesti. Una parte di queste risorse del sistema arrivano anche alle ong che sono in prima linea sul fronte delle emergenze in tutto il mondo. Siamo sempre lontani dagli obiettivi globali di cooperazione internazionale, ma le cifre aumentano di anno in anno”. Una crescita che riguarda in modo particolare le grandi organizzazioni le quali riescono ad aumentare i loro bilanci di decine di milioni di euro un anno dopo l’altro mentre quelle medio piccole soffrono di più e registrano cali rilevanti di entrate. “Il dato più significativo delle perdite - spiega Gerovasi - è nella fascia di quelle che hanno volumi fra i 4 e i 10 milioni di euro, mentre quelle sopra i 30 milioni vivono dei veri e propri boom. Il primo fattore che spinge al rialzo è l’intensificazione delle erogazioni soprattutto dei fondi Echo (quelli specializzati in aiuto umanitario dell’Unione europea) delle Nazioni Unite e di altri grandi donatori internazionali. Nel complesso i fondi istituzionali pesano più di quelli privati, il 60 per cento contro il 40. Il secondo fattore di spinta è spiegabile invece con il marketing perché molte ong stanno aumentando la raccolta fondi da privati in maniera assai significativa: in particolare quelle che puntano sul brand marketing che riesce ad intercettare ancora molti nuovi donatori”. E sono campagne che funzionano, nonostante una costante rappresentazione negativa delle ong, in particolare di quelle attive sul fronte immigrazione, una forte minoranza rispetto al totale. Un esempio significativo è quello della Fondazione Avsi, che nel 2021 ha raggiunto il secondo posto dietro alla più grande ong italiana, che rimane Save The Children, con un bilancio totale che supera i 90 milioni di euro e cresce a tassi del 40 per cento annuo. “Non è una crescita legata alle contingenze e alle emergenze - spiega il segretario generale Giampaolo Silvestri - ma è costante nel tempo e causata da un forte investimento sulle risorse umane, sulle persone e quindi sulle loro capacità relazionali, progettuali e di raccolta fondi. Rimaniamo presenti in contesti da cui molti se ne vanno, come per esempio Haiti, e in altri in cui le crisi si sono cronicizzate come in Siria, Congo, Sud Sudan, Mozambico, Myanmar. Benché molte di tali crisi siano ancora sotto-finanziate, è necessaria la presenza di organizzazioni che, anche in emergenza, lavorino per uno sviluppo sostenibile in costante rapporto con la società civile locale”. Avsi è attiva anche in Italia dove investe circa il 10 per cento dell’operatività in particolare sull’inserimento lavorativo dei migranti, ma non solo. A dispetto dei luoghi comuni sulle ong, il Paese in cui le organizzazioni non governative mettono in campo il più alto numero di progetti è proprio l’Italia: la percentuale è di quasi uno su quattro con tanti fronti aperti e una spinta, in particolare al sud, che proviene dalle progettualità messe in campo dal Pnrr. “Minori e povertà educativa prima di tutto - spiega ancora Elias Gerovasi - quindi le nuove povertà, l’aiuto alimentare, l’integrazione dei migranti, il sostegno all’assistenza sanitaria. Fanno cose in buona parte diverse rispetto a quelle del Terzo settore classico, ma la tendenza a intervenire in Italia è una prassi ormai presente e consolidata da molti anni”. Resilienza - “Stupisce il fatto che ci sia sempre più progettualità in Italia - commenta il segretario generale di Action Aid, Marco De Ponte - ma è una tendenza ormai consolidata. Action Aid è stata fra le prime a muoversi su questo fronte perché crediamo che una ong debba essere il più possibile radicata nel suo Paese, partecipando allo sviluppo della società civile locale. Noi ci occupiamo di diritti delle donne, in particolare di recupero e reinserimento delle vittime di violenza, cittadinanza inclusiva, percorsi di resilienza a seguito di disastri naturali. Povertà ed esclusione sociale tagliano in modo sempre più verticale i Paesi, non esistono più un sud e un nord geografico, ma aree di forte diseguaglianza in ogni angolo del Pianeta. E stare sulle questioni nazionali e locali ci permette di avere un ruolo politico e fare raccomandazioni di policy che vanno oltre l’aiuto allo sviluppo”. Migranti, missione italiana in Nordafrica di Ilario Lombardo e Francesco Olivo La Stampa, 12 gennaio 2023 Tajani andrà in Turchia e Tunisia per provare a fermare le partenze dalla sponda sud del Mediterraneo. Chiusa la legge di Bilancio, per Giorgia Meloni è tempo di affrontare i grandi nodi della politica estera. Ucraina e Mediterraneo. Il vertice di ieri a Palazzo Chigi è stato dedicato a questi due fronti, alla presenza della premier, del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della direttrice del Dis, il dipartimento che coordina i servizi segreti, Elisabetta Belloni. Visto che si parlava del suo primo amore, migranti e sicurezza, per tre minuti si è affacciato anche l’altro vicepremier, Matteo Salvini. Il tempo di un saluto, prima di tornare al ministero dei Trasporti. La presenza di Belloni viene spiegata come necessaria per discutere di Libia, un Paese che è ancora lacerato dalla guerra interna e incapace di controllare le partenze dei profughi. Ma la funzionaria era lì per parlare anche di Ucraina. Non ci sono notizie certe, perché il livello di riservatezza è massimo, ma l’intelligence e la Farnesina stanno lavorando ai preparativi del viaggio di Meloni per Kiev, e secondo fonti di maggioranza potrebbe essere già nei prossimi giorni. Uno dei tasselli fondamentali della politica estera del governo è la sponda sud del Mediterraneo. L’obiettivo è siglare accordi con quanti più Paesi possibile, nella speranza di fermare le partenze dei migranti. Non è certo una novità, ma un’urgenza sì. Gli sbarchi sono aumentati e per un governo che punta molto sul contrasto all’immigrazione questi dati (forniti dal Viminale) sono motivo di imbarazzo e rischiano di smentire la narrazione della difesa dei confini. Così, deve partire quello che, con una certa enfasi, Meloni chiama il Piano Mattei per l’Africa. I contorni sono ancora piuttosto vaghi. Il primo atto concreto sono i viaggi di Tajani. Già domani il ministro degli Esteri sarà in Turchia, per un incontro con il suo omologo Mevlut Çavusoglu. Il bilaterale in Asia Minore ha una valenza duplice: Ankara è un attore centrale sullo scacchiere libico, ma gioca un ruolo in tutte le possibili e finora frustrate trattative di pace tra Ucraina e Russia. Lunedì, poi, in Turchia arriverà Piantedosi. Le altre tappe sono in Nord Africa. Tajani sarà presto in Tunisia e, quando le condizioni politiche lo renderanno possibile, anche in Libia. Viaggi che, oltre a fornire una cornice diplomatica a eventuali accordi bilaterali, potrebbero servire da premessa per future missioni di Meloni. La premier, intanto, sta preparando una trasferta in Algeria, Paese strategico non solo per la questione migratoria, ma soprattutto per quella energetica. Oltre alla Libia, la cui stabilità è un miraggio, a preoccupare il governo è la situazione in Tunisia. La crisi istituzionale e quella economica stanno provocando un aumento esponenziale delle partenze. “Sta diventando una piccola Libia”, ragionava ieri Tajani. Ieri il vicepremier ha avuto un colloquio con il ministro degli Esteri Othman Jerandi: “Ho chiesto assicurazioni al governo tunisino - ha spiegato - servono maggiori controlli sulle partenze”. Il vertice di Palazzo Chigi è servito anche per trattare anche gli altri capitoli del dossier ucraino, al di là del viaggio della premier a Kiev. L’Italia deve dare ancora una risposta sull’invio dello scudo di difesa aerea Samp-T. Due giorni fa il sottosegretario Matteo Perego di Cremnago non ha escluso la fornitura del sistema di produzione italo-francese, come chiesto da Washington con una certa urgenza. In dotazione alle Forze armate ci sono cinque batterie funzionanti e una di addestramento, e si sta ragionando sulla possibilità di inviare una di quelle operative. Resta, però, un problema da risolvere. I francesi hanno modificato il software e bisogna riconciliarlo con la parte italiana. Migranti. La vergogna dei “porti sicuri” di Vladimiro Zagrebelski La Stampa, 12 gennaio 2023 Una legge può indirizzare la condotta di coloro cui si rivolge e chiaramente indicare la volontà del legislatore. È la sua funzione. Oppure può coprire di parole, da cui magari non si può dissentire, una volontà non detta, fatta filtrare come un messaggio per chi deve intendere. Una volontà che emerge poi dalla condotta concreta delle autorità dello Stato. Fa così il primo decreto legge di quest’anno, che detta nuove norme di condotta per le navi che “effettuano in via sistematica attività di ricerca e di soccorso in mare”: le navi delle Organizzazioni non governative che incrociano nel Mediterraneo, alla ricerca dei gommoni che si avventurano verso le coste italiane. Sotto l’edificante elenco delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare, sui diritti fondamentali delle persone e sulla lotta al traffico di essere umani, cui si dichiara che le autorità italiane si atterranno, si svolge il lungo elenco degli adempimenti a cui quei salvatori tra le onde si dovranno attenere. Non sempre il comportamento dei comandanti delle navi è strettamente descritto, così che non vi siano margini discrezionali per una autorità che voglia contestare violazioni. Ciò è tanto più preoccupante perché il decreto contiene sanzioni amministrative che stabiliranno i prefetti - organi del ministero dell’Interno - e saranno accompagnate dall’immediato fermo amministrativo della nave, che ne fa cessare la navigazione. Il fermo è stabilito, non quando la violazione sarà accertata e la sanzione diviene definitiva, ma già al momento della contestazione della violazione. Inutili o quasi i ricorsi. Le regole imposte ai comandanti delle navi sembrano tendere a scopi diversi, e prese una per una possono anche manifestare esigenze positive, che però paiono di ben dubbia ragionevolezza nel loro complesso. È il loro insieme che rivela lo scopo della nuova legislazione: disciplinare per restringere l’attività di salvataggio di vite in mare, renderla più costosa per chi la svolge, imporre lunghi periodi di fermo delle navi o distoglierle dall’opera di soccorso. Che questo sia lo scopo delle norme, è detto chiaramente, non nel testo che si legge sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica, ma nelle dichiarazioni rivolte al pubblico, ove si dicono cose sconcertanti, come quella del ministro dell’interno, secondo il quale si tratterebbe di impedire a privati di sostituirsi agli organi dello Stato. Impedire, appunto. Ma il lavoro di soccorso che fanno le Ong si aggiunge e non sostituisce quello di servizio svolto in mare dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza. Un servizio notevole, ma evidentemente insufficiente poiché dove sono le Ong non ci sono le navi dello Stato. E d’altra parte la vera novità si trova nelle decisioni governative di assegnazione del Porto Sicuro che, secondo le Convenzioni internazionali, la nave richiede per sbarcare le persone soccorse: non più porti di Sicilia, Calabria o Puglia, ma - lo vediamo in questi giorni - Ancona. E poi forse vedremo Genova o Trieste: il più lontano possibile, in modo da impegnare le navi in lunghi viaggi e costringere le persone imbarcate ad attendere ancora la conclusione del soccorso. Così i costi affrontati dalle navi crescono e la loro presenza sui luoghi in cui i salvataggi si compiono si riduce. Per raggiungere un tale scopo il decreto legge impone a ciascuna nave, dopo aver imbarcato i naufraghi, di recarsi subito al Porto Sicuro indicatole dalle autorità, senza imbarcare altre persone bisognose di soccorso e senza trasferire ad altre navi quelle già prese a bordo. Lo scopo è evidente: fare viaggiare inutilmente e lungamente le navi. Della salute delle persone imbarcate non ci si preoccupa, anche se spesso sono in condizioni precarie. D’altra parte, questo governo, fin dai suoi primi giorni, ha provato ad adottare una soluzione meno sofisticata di quella attuale, come è stata quella di negare puramente e semplicemente lo sbarco in Italia, lasciando le navi con la gente a bordo ad attendere in mare. L’operazione - che non potrà essere dimenticata - si è conclusa con l’isolamento dell’Italia in Europa (con la lezione data dalla Francia) e una completa ritirata, tanto evidente e addirittura ostentata era la violazione delle norme europee e internazionali in materia. È anche possibile che questa o quella disposizione contenuta ora nel decreto legge, in sé e in astratto, non sia illegale (anche le leggi possono essere illegali, quando sono contro la Costituzione o contro le Convenzioni internazionali di cui l’Italia è parte) e ricada in una zona in cui prevale la discrezionalità degli Stati. Tuttavia la valutazione puramente giuridica non è l’unica che si impone. Vi è anche quella che porta a una critica sul piano politico e morale. Il governo ha manifestato l’intenzione di usare i migranti salvati dalle Ong come strumento di un messaggio cinico e crudele: non provate ad attraversare il mare poiché vi renderemo la vita difficile, a voi e alle organizzazioni che operano per salvarvi. L’uso delle persone e dei loro corpi per perseguire uno scopo politico, quale che esso sia, è vergognoso, inumano e degradante. Vi racconto il mio “taxi del mare”… tra bastonate, torture e schiavitù di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 12 gennaio 2023 La testimonianza di un profugo in arrivo ad Ancona: “La tortura ha molte forme in Libia. Vedi donne stuprate davanti a te e non puoi fare nulla. Se provi ad aiutarle ti minacciano con la pistola. Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro”. Ochek è uno dei 73 sopravvissuti ora sono a bordo della Geo Barents, la nave di soccorso di Medici Senza Frontiere, in rotta verso il porto di Ancona. Sentite il suo racconto. “Ho 21 anni e sono originario dell’Eritrea. Quando avevo 4 anni mia madre ha deciso di andare in Sudan per salvarmi dal servizio militare. In Eritrea i bambini di 8 o 9 anni vengono arruolati nell’esercito. Un giorno il governo ha portato via mio padre, e allora mia madre ha avuto paura che succedesse lo stesso a me”. “Ho vissuto in Sudan per circa 13 anni, ma da quando avevo 14 anni avrei voluto andarmene, non pensavo che sarebbe stato così tanto pericoloso. Pensavo sarebbe stato semplice arrivare in Libia e poi in Europa. In Sudan ho fatto diversi lavori, ho lavorato in un ristorante e in una miniera d’oro nelle montagne. Per andare in Libia ho pagato un intermediario. Lui mi aveva detto che avrebbe pagato il trafficante, ma il trafficante mi disse che non aveva ricevuto niente e così avrei dovuto pagare di nuovo o avrei dovuto lavorare per lui. Non avevo nessun parente in grado di mandarmi del denaro e sono stato costretto a lavorare per lui in una fattoria, con il bestiame. Non sempre mi trattava bene, così dopo 3 mesi sono fuggito”. “In Libia gli eritrei sono costretti a vivere nascosti. Dobbiamo rimanere in casa, raramente usciamo perché se ci vedono ci rapiscono per chiedere il riscatto. Ci chiedono di pagare in dollari perché credono che abbiamo parenti in Europa. Sono stato rapito due volte ma entrambe le volte sono riuscito a fuggire. Sono stato rinchiuso in una piccola stanza sovraffollata, con una finestra piccola. La mattina ci davano un pezzo di pane e c’era una tanica d’acqua desalinizzata, era amara. Dentro la stanza c’era un bagno e dormivamo su un fianco, uno attaccato all’altro, per terra. Eravamo 70/100 persone ma non c’era un limite di persone, i trafficanti continuavano a portare gente. Un giorno siamo riusciti a fuggire. Le guardie bevevano e fumavano fino all’alba, così alle 2 di notte loro erano distratte e noi siamo riusciti a scappare. Io sono andato in un posto dove vivevano altri sudanesi e ho trovato lavoro. Devi essere fortunato: qualcuno ti paga, altri no. Io sono riuscito a guadagnare abbastanza per pagare un trafficante. Mentre ci stavano trasferendo verso Tripoli, però, siamo stati arrestati e ci hanno imprigionato di nuovo in una stanza sovraffollata. Maltrattamenti, abusi, umiliazioni erano all’ordine del giorno. Era una milizia. Siamo rimasti lì per 15/20 giorni. “Fino al giorno in cui non ho lasciato la Libia ho subito torture e maltrattamenti e ho visto con i miei occhi persone picchiate e maltrattate. Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici. Ci colpivano con il fucile o ci bruciavano il petto con metalli infuocati. Ci costringevano a chiamare la famiglia per chiedere aiuto, per mandare i soldi del riscatto. Dopo 15 giorni di torture, uno di questi trafficanti, un uomo anziano di circa 80 anni, vedendomi in quello stato ha detto agli altri che sarei morto se avessero continuato a torturarmi. Altre persone che avevano già pagato il proprio riscatto hanno raccolto altri soldi e hanno pagato anche per me. Mi hanno messo in macchina e mi hanno lasciato a Tripoli dove ho trovato un gruppo di sudanesi con cui sono rimasto. “In Libia la tortura ti segue dentro e fuori dal carcere o nelle stanze dove ti rinchiudono. Di notte, ti puntavano una pistola alla testa, ti prendevano tutti i soldi e ti picchiavano. Sei costretto ad entrare in queste stanze dove ti fanno morire di fame. Se parli dei maltrattamenti ti picchiano ancora di più o sei costretto a rimanere lì per più tempo. Ci facevano mangiare pasta mischiata ai sonniferi e al mattino ti trovavi un morto accanto mentre quello dietro di te era stato torturato. In bagno trovavi chi si puliva le ferite mentre bevevi acqua amara vicino a lui. Quando mangiavi c’era chi ti vomitava accanto. Un mio amico aveva sognato ad occhi aperti di andare in Europa. Sognato: al mattino l’ho trovato morto e ho coperto il suo corpo”. “La tortura ha molte forme in Libia. Vedi donne stuprate davanti a te e non puoi fare nulla anche se arrivano dal Sudan come te. Se provi ad aiutarle ti minacciano con la pistola o ti picchiano con un bastone”. “In mare il gommone si muoveva su e giù. Un uomo ha visto una barca di pescatori in lontananza e ha cominciato ad urlare che era la guardia costiera libica. Tutti sono stati presi dal panico, le persone vomitavano, avrebbero preferito morire in mare”. “Prima di prendere il mare, ci hanno rinchiuso tutti e 70 in una piccola stanza lontano dalla riva. Non puoi parlare, aprire la bocca o muoverti. Eravamo seduti uno accanto all’altro, molto stretti, poi uno per uno ci hanno portato in macchina, dove eravamo accatastati uno sopra l’altro. Ci hanno portato in un altro posto più vicino alla riva, a pochi passi dalla spiaggia. La notte ci portavano fuori in gruppi di 10 persone. Ci hanno fatto portare il gommone e ce lo hanno fatto mettere in mare. Siamo saltati su e abbiamo pregato. Ci siamo affidati a Dio e siamo partiti. Le onde ci portavano su e giù ma, nonostante ciò, non avevamo paura fino a che quell’uomo non ha gridato che c’era la guardia costiera libica. Le persone in Libia non sono al sicuro, ci hanno picchiato con tutta la forza e la rabbia, senza pietà, come se avessimo commesso un omicidio contro di loro”. “Ora sulla nave di Medici Senza Frontiere mi sento al sicuro ma, allo stesso tempo, non sono ancora completamente sollevato perché sono ancora in mare e ho paura di tornare indietro. Non vedo l’ora di raggiungere l’Italia e toccare terra per iniziare a dimenticare tutto quello che ho vissuto in Libia e in Africa”. L’arrivo di Geo Barents ad Ancona è previsto per oggi, 12 gennaio, alle 8 del mattino. “Stiamo affrontando onde alte fino a due metri e mezzo”, dichiara Fulvia Conte, responsabile dei soccorsi di Msf. “In base alle leggi internazionali marittime, l’Italia dovrebbe assegnare il luogo sicuro più vicino alla Geo Barents, mentre per raggiungere Ancona ci vorranno almeno 3,5 giorni e le condizioni meteo sono pessime. Assegnare un porto più vicino avrebbe soprattutto un impatto positivo sulla salute fisica e mentale dei sopravvissuti a bordo. Chiediamo pertanto al Ministero dell’Interno l’assegnazione di un luogo sicuro più vicino che tenga in considerazione la posizione attuale della Geo Barents”. La richiesta di Juan Matias Gil, capomissione Medici Senza Frontiere era di sabato scorso. “Ochek” e i suoi compagni di sventura sono ancora in mare, con onde alte come case. L’umanità è morta nel Mediterraneo. Continente cocaina. Così la droga uccide in Europa e la guerra cambia le rotte di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 12 gennaio 2023 Disponibilità ai massimi storici. Il direttore dell’Osservatorio Ue: “Come funziona? Dovunque. Qualunque cosa. Chiunque”. “Dovunque. Qualunque cosa. Chiunque” sintetizza il direttore dell’Osservatorio europeo su droghe e tossicodipendenze, Alexis Goosdeel. Come raccontano le storie dell’avvocato olandese Derk Wiersum e del giornalista Peter de Vries o la maxi operazione antidroga Desert Light tra Paesi Bassi, Spagna, America Latina, Francia, Belgio, Emirati Arabi, l’attività del narcotraffico nel Vecchio Continente è ormai a livelli di ramificazione e radicamento senza precedenti. Il criptomercato - In Europa occidentale e meridionale la droga più richiesta è la cocaina (polvere e crack): le ultime rilevazioni dell’agenzia Ue registrano un aumento costante dal 2017 e stimano che oggi la disponibilità sia al massimo storico, spinta da nuovi metodi di acquisto e consegna che viaggiano sempre più sul criptomercato delle darknet. Ucraina e Mar Nero - Conflitti, instabilità e corruzione nutrono l’economia della droga dal Sud-Est europeo al Nord Africa al Medio Oriente. La guerra spinge le rotte verso sud conferendo nuova centralità al Mar Nero. E cambia anche la piazza europea, attrezzata per produrre in casa sia cocaina che metamfetamine. Il 2022 secondo Hrw: diritti universali, abusi globali Il Manifesto, 12 gennaio 2023 Il rapporto. Un filo lega governi democratici e regimi autoritari: la delegittimazione strutturale del diritto internazionale. Una luce: le società civili e i movimenti nazionali e internazionali di protesta. Il focus del manifesto su diritti dei minori nei paesi occidentali. L’anno dell’invasione russa dell’Ucraina, del consolidamento della leadership talebana a Kabul con il suo bagaglio di guerra alle donne, della rivolta - senza precedenti - in Iran. Un 2022 di poche luci e molte ombre che, per il 33esimo anno, l’associazione Human Rights Watch riassume in 700 pagine di rapporto. Cento paesi sviscerati secondo un’ottica precisa: il mancato rispetto dei diritti umani, che si tratti di libertà di movimento e libertà d’espressione, eguaglianza di genere, tutela dei minori, giustizia sociale e climatica. A emergere è una tendenza, tanto pericolosa quanto strutturale, che accomuna regimi autoritari e governi democratici: la delegittimazione del diritto internazionale. Strumentalizzato a fini politici, relativizzato secondo doppi standard, spesso ridotto a orpello, il diritto internazionale nato dopo la seconda guerra mondiale non sembra godere più di un riconoscimento collettivo e dunque di una difesa globale. Lo sottolinea nella sua introduzione al rapporto la direttrice esecutiva di Hrw Tirana Hassan: “Le leader mondiali cinicamente svendono i diritti umani e la responsabilizzazione di chi ne abusa per calcoli politici di breve termine. (…) Senza alcun controllo, le gravi azioni di governi abusanti montano, cementando l’idea che corruzione, censura, impunità e violenza siano i mezzi più efficaci per raggiungere i propri obiettivi”. Se l’ingresso dell’estrema destra nazionalista nelle istituzioni dei paesi occidentali sta conducendo a un rapido smantellamento di sistemi di diritti ritenuti ormai consolidati, dall’altra parte si sta assistendo alla reazione delle società civili globali. Da sud a nord, il ruolo dei movimenti di protesta nazionali e globali (quello femminista e quello ambientalista in primis) appare il solo argine all’autoritarismo. Il rapporto è disponibile da oggi sul sito di Hrw. In questa pagina abbiamo deciso di trattare un aspetto e una geografia specifici: diritti dei minori e violazioni compiute dalle istituzioni dei paesi occidentali. Usa, ogni tre minuti un bimbo senza genitori - Soltanto nel 2019 negli Stati uniti sono stati incarcerati almeno 240mila minori, con un aumento del 9 percento rispetto al 2010 nella probabilità che all’aresta segua l’emissione di sentenza di colpevolezza e una pena carceraria. I numeri più significativi si registrano all’interno delle comunità tradizionalmente più marginalizzate dal punto di vista sociale ed economico: l’ispanica, l’afroamericana e l’asiatica. Una discriminazione strutturale che si accompagna in tutto il paese a una più generale diseguaglianza interna al sistema di welfare diretto ai minori: ogni tre minuti un bambino viene sottratto dalle istituzioni governative a una famiglia disagiata e povera. In moltissimi Stati, l’orfanotrofio sostituisce di fatto un più efficace sostegno finanziario e sociale alle famiglie con difficoltà economiche. Barriere francesi per i piccoli migranti - Se a luglio il Défenseur des Droits (l’autorità francese garante dei diritti) ha accusato il governo di non investire abbastanza nell’educazione nei territori oltremare, in Francia a destare le maggiori preoccupazioni è il trattamento riservato ai minori migranti non accompagnati (mancata accoglienza e diniego della protezione internazionale) e ai figli di cittadini francesi membri dello Stato islamico a cui è spesso negato il rimpatrio. Sono ancora 150 detenuti nei campi in Siria (77 i rimpatriati). Spagna, il caso di Cañada Real - Per il terzo anno consecutivo, 4mila persone tra cui 1.800 bambini non hanno alcun accesso all’energia elettrica. Vivono a Cañada Real, slum di Madrid, a cui alla fine del 2020 il comune ha tagliato l’elettricità a fini di sgombero. Nonostante lo scorso ottobre il Comitato europeo per i diritti umani abbia chiesto al governo spagnolo di intervenire a causa dei gravi abusi in termini di igiene, accesso all’educazione e diritto alla casa a Cañada Real, Madrid non ha ancora offerto soluzioni abitative alternative. Ungheria, rom sottratti alle famiglie - Sul posto di lavoro, ma anche a scuola e negli orfanotrofi: la comunità rom resta tra le più discriminate d’Ungheria. Lo scorso febbraio è stato un tribunale di Budapest ad accusare il governo di ricorrere alla sottrazione di bambini rom dalle proprie famiglie in misura sproporzionata e sulla base delle mancate capacità economiche familiari. Dall’altra parte i bambini sono utilizzati a fini di discriminazione delle persone Lgbtqi+: un’apposita legge ne riduce i diritti a fronte di una presunta tutela dei minori. Australia, indigeni in cella 20 volte di più - I bambini indigeni vengono arrestati e detenuti in un numero venti volte maggiore a quello dei bambini non indigeni, in un paese - l’Australia - in cui l’età minima di responsabilità penale è di soli 10 anni, contro i 14 previsti a livello internazionale. Nel 2022 444 bambini australiani con meno di 14 anni sono stati incarcerati. A ciò si aggiungono condizioni carcerarie considerate non rispettose degli standard internazionali in molti penitenziari minorili, secondo rapporto interni delle stesse autorità nazionali. Clarissa Ward: “Il prezzo da pagare nel nostro lavoro è quello di testimoniare il dolore degli altri” di Francesca Mannocchi La Stampa, 12 gennaio 2023 Volto della CNN ha raccontato Iraq, Libano, Yemen, Siria: “Il messaggio è che, allo stesso tempo, puoi essere una donna, una madre e una corrispondente di una guerra. Puoi vivere la maternità e i sentimenti che ne conseguono ma anche raccontare conflitti”. Clarissa Ward, volto della CNN, corrispondente di guerra di lungo corso, è diventata familiare al pubblico internazionale per le sue cronache dalla Kabul appena conquistata dai talebani, ma sulle spalle ha oltre dieci anni spesi a raccontare i conflitti in ogni angolo del mondo, prima per Fox, Abc e Cbs, poi l’arrivo alla CNN dove attualmente è la principale corrispondente internazionale. Ha raccontato Iraq, Libano, Yemen, Siria, ha vissuto a Mosca e Pechino. Era a Kabul durante la presa dei talebani nel 2021 e in Ucraina a lungo a seguire la guerra, esperienze descritte nel suo recente libro ‘On all fronts’. A casa, a Londra, ad aspettarla al rientro da ogni fronte, un marito e due figli piccoli. Clarissa Ward è tornata in Ucraina da pochi giorni. Una delle prime immagini la ritrae sul campo, di profilo. Il volto è quello della giornalista concentrata nel suo lavoro, il corpo è quello di una donna incinta, al quinto mese di gravidanza. Tante le manifestazioni di stima, tante, ingenerose, le critiche. Clarissa, sei una testimone di eventi storici, una giornalista con credibilità internazionale. Se c’è un messaggio nella foto che ti ritrae incinta di cinque mesi sul campo di guerra, qual è? “Il messaggio è che, allo stesso tempo, puoi essere una donna, una madre e una corrispondente di una guerra. Puoi vivere la maternità e i sentimenti che ne conseguono ma anche raccontare conflitti. E’ come nel racconto di guerra, qualcuno pensa che se il focus è sui civili, sulle loro emozioni, si trascurano le tattiche militari, la previsione della mossa successiva degli eserciti in campo, è come se tutti gli ambiti dovessero essere sempre distinti, impariamo ad accettare che le cose diverse possano convivere, invece. Con fatica, ma convivere”. In una delle due gravidanze precedenti, incinta di sei mesi ero in Yemen, a raccontare la guerra civile. Si può fare, cercando un accordo con le persone che ci amano... “Quando ero incinta di cinque mesi ero a Sirte, in Libia, l’automobile su cui viaggiavamo fu colpita da un mortaio vicino al fronte che pareva fermo da giorni, e invece non lo era. In questi anni, ho trovato un mio punto di equilibrio tra l’amore per il mio lavoro e la protezione che ho bisogno di dare a mio figlio e alla mia famiglia”. Qual è il tuo punto di equilibrio? “Trovare un punto di convivenza tra l’amore per il mio lavoro e le mie responsabilità. Qualche volta ci sono dei rischi; l’anno scorso eravamo a Kharkiv e siamo usciti con dei paramedici e siamo finiti sotto un attacco vicino a dove eravamo. Quello era un rischio, calcolato, ma pur sempre un rischio e qualche volta è necessario prenderli per far capire alle persone cosa sta succedendo in ucraina ogni giorno. Ora, ovviamente, è diverso. Questa volta in Ucraina c’è stato l’accordo con la mia famiglia di evitare il fronte e raccontare solo le grandi città, in un posto da cui posso uscire se qualcosa va storto. Prendo dei rischi qualche volta ma sono molto calcolati e cerco di prenderne pochi... Cerco di spiegare alle persone perché vista da fuori sembra sempre molto più pericolosa di quello che è, che non significa che non sia rischioso, ma tu ed io sappiamo che ci sono modi di muoversi in cui devi essere veramente sfortunato perché qualcosa di veramente brutto accada. Questo è il modo in cui tendo a comportarmi e proteggermi quando mi trovo vicino alla linea del fronte”. Clarissa, nel tuo libro scrivi che “essere una corrispondente di guerra è per te il privilegio di essere testimone della storia”, ma che il nostro lavoro ha un prezzo. Qual è il prezzo? “C’è il prezzo che paghi per testimoniare il trauma degli altri, vedere la parte più oscura dell’umanità, e questo ha un impatto e questo non ti abbandona, sta con te ovunque, e poi c’è il prezzo da pagare perché quando sei al fronte vivi una quotidianità fatta di tanta adrenalina, le cose si mostrano così come sono, crude e la vita sembra più chiara e qualche volta addirittura più illuminata, e il prezzo è che può essere difficile, a volte, tornare ad una vita normale, e cercare di rallentare e abituarsi al fatto che vai a comprare il dentifricio al supermercato, vedere diverse marche di shampoo e chiedersi “perché ne ho bisogno?”. E questo può essere impegnativo, e penso tu possa dire lo stesso, di navigare, di orientarsi, avanti e indietro su strade diverse, con ritmi diversi. Le tue relazioni sociali, umane hanno subito conseguenze? “Sì, l’altro prezzo che paghi è che puoi sentirti molto sola, per quanto ami le persone, la tua famiglia, i tuoi amici c’è un dato. Loro non sono mai andati in zone di guerra e non ci andranno mai e c’è una grande parte di te che non potranno mai comprendere completamente”. Puoi provare a spiegarla, a raccontarla, ma poi, spesso, mi chiedo: parlare di guerra può diventare argomento di conversazione, intendo dire che non possiamo parlarne in modo casuale, mai. Soprattutto noi che le abbiamo viste da vicino... “Ecco perché le persone che fanno il nostro lavoro diventano amiche, sono parte della stessa prova, vivono gli stessi ostacoli”. Come affronti la solitudine che le guerre ti consegnano? “Una volta sono tornata dalla Siria e un paio di giorni dopo sono andata ad una cena e ho quasi lanciato un piatto contro un ospite, e non è per niente nella mia natura, ma ero talmente triste e indignata da quello che quest’uomo stava dicendo, qualcosa che non era basato sull’ esperienza ma su informazioni tossiche. Per questo penso il tempo da sola sia fondamentale al rientro, e può essere difficile spiegare alle persone perché sono preoccupate per te, sei tornata da qualcosa di così intenso, e l’unica cosa che vuoi è stare da sola”. Essere madre ha cambiato il tuo modo di lavorare, cosa ti ha dato, cosa ti ha tolto? “Da quando sono madre, sono emotivamente più esposta e più sensibile alle sofferenze degli altri, tendo ad essere più fisica, ad abbracciare di più le persone, ad essere più coinvolta dalle storie di sofferenza delle persone normali, e sento la responsabilità di raccontare queste storie in maniera più accurata di prima. Per molto tempo la prospettiva dominante sulla guerra era maschile e questo è dannoso, lo sguardo delle donne e delle madri hanno portato una prospettiva differente, penso che questo abbia cambiato molto il modo di raccontare i grandi eventi del nostro tempo. Raccontare i conflitti con due, ora quasi tre bambini, mi ha fatto chiedere spesso cosa significhi essere una buona madre. È una domanda comune alle donne che lavorano ma per noi è un interrogativo doppio. Perché siamo madri che lavorano, esposte al pericolo e al dolore di altre madri che lottano ogni giorno per mettere in salvo i propri figli. Mi chiedo spesso se essere lontana mi faccia essere meno madre, se stia fallendo con i miei figli? Cerco di essere attivamente coinvolta nella vita dei miei figli anche quando sono sul campo, di organizzare tutte le loro attività extra-curricolari, ma capita che capisca male le cose, che mi dimentichi un appuntamento, e questo mi pesa. Perché anche se so che non è niente di grave, è un peso che dentro di me diventa l’eco di un giudizio che recita così: che razza di madre va in giro per il mondo e non aiuta i suoi figli? Soprattutto quando capita di trovarti in situazioni non prevedibili, come l’inizio della guerra in Ucraina. Pensavo di star via qualche giorno, sono rimasta un mese e mezzo”. Come convivi con il senso di colpa indotto dal giudizio degli altri? “Alla fine ho fatto pace con tutto questo, ho capito che per essere la migliore madre possibile, la madre più presente possibile, devo essere chi sono. E essere chi sono significa sapere che ci sono dei momenti di sconforti. Fa schifo stare lontano dai propri figli per un periodo lungo di tempo, è doloroso. E’ dura e sai cosa? Penso anche per i nostri colleghi che sono padri vivano lo stesso dolore, non abbiamo il monopolio sul fatto di sentire la mancanza dei nostri figli. Penso che noi donne affrontiamo molti più giudizi rispetto al fatto di stare lontano dai nostri figli, ma che almeno ne parliamo. E questo ci salva”. Algeria. “Liberate il repoter Ihsane El Kadi” messo in cella dal regime di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 gennaio 2023 L’appello originale di Rsf è stato rilanciato da decine di media. Il giornalista punito per le sue inchieste critiche nei confronti del governo. Il Dubbio ha sottoscritto l’appello di Reporters sans frontières per la liberazione immediata di Ihsane El Kadi. Il giornalista algerino di Radio M e Maghreb Émergent da tempo è sottoposto ad una vera e propria persecuzione giudiziaria. Il motivo risiede in alcune inchieste giornalistiche svolte dalle due emittenti radiofoniche. Le autorità algerine hanno accusato El Kadi di aver utilizzato fondi anche dall’estero “per compiere atti suscettibili di minare la sicurezza dello Stato, l’unità nazionale, l’integrità territoriale, gli interessi dell’Algeria e l’ordine pubblico”. El Kadi è stato fermato la sera del 24 dicembre scorso e il giudice istruttore del distretto di Sidi M’Hamed di Algeri ha disposto il trasferimento nel carcere di El Harrach il 29 dicembre. Sono sedici i direttori di testata di 14 paesi ad aver sottoscritto l’appello di Rsf. Oltre al direttore del Dubbio, Davide Varì, il premio Nobel per la Pace 2021 Dmitry Muratov di Novaya Gazeta (Russia), il direttore esecutivo di Inkyfada, Malek Khadhraoui (Tunisia), il direttore di Le Monde, Jérôme Fenoglio (Francia), il vicedirettore di Gazeta Wyborcza, Jaroslaw Kurski (Polonia), il direttore del Financial Times, Roula Khalaf (Regno Unito), Kjersti Loken Stavrum, ceo di Tinius Trust, uno dei principali azionisti di Schibsted Media Group (Norvegia). L’Algeria è al 134° posto - su 180 paesi - nel World Press Freedom Index 2022 di Rsf. “L’incarcerazione del direttore di Radio M e Maghreb Émergent, Ihsane El Kadi - si legge nell’appello -, per motivi chiaramente pretestuosi, è un intollerabile attacco alla libertà di stampa in Algeria; rappresenta una grave minaccia per il diritto all’informazione, riconosciuto a tutti i cittadini e considerato un requisito per la libertà di opinione e di espressione, e per la democrazia. È inaccettabile che le autorità algerine abbiano arrestato Ihsane El Kadi la notte del 24 dicembre, lo abbiano fatto sfilare in manette, per simboleggiare la criminalizzazione dei media, e abbiano chiuso Radio M e Maghreb Émergent. Come è possibile che ai giornalisti di questi media venga impedito di svolgere il proprio lavoro? Insieme a Reporters sans frontières, sollecitiamo le autorità algerine a liberare immediatamente Ihsane El Kadi, a ritirare tutte le accuse contro di lui e a restituire le attrezzature confiscate a Radio M e Maghreb Émergent in modo che i giornalisti e i conduttori possano tornare al lavoro. Libertà per Ihsane El Kadi, libertà per Radio M e Maghreb Emergent, libertà per i giornalisti algerini”. È molto preoccupato per i continui attacchi all’informazione libera Cristophe Deloire, segretario generale di Rsf. “Il livello di indignazione internazionale - commenta - è commisurato alla gravità dell’attacco alla libertà di stampa realizzato con la detenzione di Ihsane El Kadi. La repressione dei giornalisti algerini, di cui El Kadi è l’ultima vittima, mostra la volontà delle autorità di mettere a tacere i media indipendenti. Le autorità algerine devono ascoltare l’appello di coloro che dirigono i principali media internazionali”. L’ex ambasciatore di Francia in Algeria, Xavier Driencourt, attualmente docente della Sorbona, pochi giorni fa su Le Figaro ha espresso preoccupazione per la repressione messa in campo nel paese nordafricano. Una svolta autoritaria, gentilmente poliziesca, ma senza mai proclamarsi come una vera e propria dittatura. Driencourt si è soffermato sulla vicenda di El Kadi. “Non abbiamo idea in Francia - scrive il diplomatico su Le Figaro - di come fosse la stampa algerina, resistente durante la guerra civile, martirizzata dagli islamisti, ironica, critica e sardonica sotto Bouteflika, spesso audace nel giudizio. Oggi è imbavagliata, i giornalisti vengono arrestati o privati del passaporto, giornali come Liberté vengono chiusi, El Watan è posto sotto tutela. A fine dicembre, quando le cancellerie occidentali erano pronte a festeggiare il capodanno, Radio M e il nascente sito del Maghreb sono stati messi al bando, mentre il loro direttore, Ihsane El Kadi, è stato arrestato. Sabato 7 gennaio è toccato al sito Algériepart, accusato di aver ricevuto fondi dall’estero per diffondere fake news al fine di destabilizzare il Paese”.