Manconi: “Il carcere rimosso come simbolo del male. Garantismo solo a parole” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 11 gennaio 2023 “Sul tema del carcere continua ad esserci davvero pochissima attenzione - dice il sociologo Luigi Manconi -. Non è nell’agenda della politica e anche a livello sociale regna una grande rimozione”. Perché c’è così poca attenzione? “È una faccenda che richiama il nostro inconscio, individuale e collettivo. Nel senso che il carcere viene interpretato come il luogo dove si trova rinchiuso il male. E siccome avvertiamo che il male riguarda tutti, sia coloro che lo commettono sia coloro che resistono alla tentazione di commetterlo, la cosa più tranquillizzante è rimuovere quel male e il luogo che lo contiene”. Quanto il tema è ignorato dalla politica? “Le politiche carcerarie hanno incentivato questa rimozione contrastando le relazioni fra il carcere e ciò che sta fuori, hanno anche tenuto distanti le strutture penitenziarie dalle città perché non si vedessero. Adesso, si parla anche di trasferire in periferia strutture che attualmente si trovano in alcune grandi città come Milano e Roma. Insomma, una rimozione non solo psicologica, ma anche fisica del carcere”. Pure a sinistra sembra esserci poca sensibilità sulla questione. Perché? “A sinistra, siamo alle solite. Come per la questione del garantismo. Trovo più garantisti a sinistra che a destra, ma è una valutazione meramente quantitativa. Perché poi né a sinistra, né a destra, l’ispirazione garantista, che vuol dire piena fiducia nello stato di diritto, è coltivata. Né il discorso del carcere è particolarmente diffuso all’interno della sinistra”. Dalla riunione di redazione di Repubblica al Pagliarelli è riemerso con forza il tema dei detenuti con problemi psichici e dell’insufficienza del numero di Rems che operano sul territorio siciliano. Cosa accade nel resto d’Italia? “L’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari è stata una scelta sacrosanta dal punto di vista della civiltà giuridica. Ma non sono state attivate le misure conseguenti. Ovvero, non sono state messe a disposizione le risorse economiche indispensabili. Un’altra inadempienza da parte della politica. Bisognerebbe semplicemente attuare quello che è stato già previsto dalla riforma degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma, ancora una volta, il carcere non è al centro di alcun programma politico”. I detenuti di Pagliarelli dicono di frequentare ottimi corsi di formazione in carcere, ad esempio in materia di giardinaggio, ma poi fuori nessuno li chiama. E il reinserimento sociale resta una chimera…. “Sono parole importanti perché ci consentono di chiudere il cerchio della nostra riflessione: la rimozione non riguarda solo la politica e la società, ma anche i cittadini”. Quanto il reinserimento resta un’altra incompiuta? “Solo l’11 per cento trova un lavoro, una percentuale bassissima. Ma un dato è importante: il detenuto che poi lavora è persona che non tornerà a delinquere nella percentuale che invece riguarda il detenuto che non lavora. La recidiva è abbassata anche dal lavoro di formazione svolto durante il periodo di detenzione. Ma la vera questione prioritaria riguarda l’attenzione complessiva al tema, che oggi indubbiamente manca”. Cospito: “Non sono moribondo, continuerò fino alla fine del 41bis” di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 gennaio 2023 Il Garante dei detenuti Mauro Palma in visita a Sassari all’anarchico in sciopero della fame. Carcere duro, attesa l’indicazione della Cassazione al ministro. “Dicono che sono moribondo, non è così”. Alfredo Cospito vuole che lo si scriva chiaramente, malgrado ancora non abbia alcuna intenzione di interrompere lo sciopero della fame iniziato il 30 ottobre scorso. Il suo obiettivo, dice, è l’abolizione del 41 bis: “Non è una battaglia per la mia liberazione ma contro il regime del carcere duro”, che visto dall’interno dimostra tutta la sua spietatezza. “Un sistema inaccettabile”. A riferirlo è il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma e la sua vice Daniela De Robert che ieri sono andati a fargli visita nel carcere “Bancali” di Sassari dove l’anarchico è detenuto al 41 bis da circa otto mesi. Regime di carcere duro che gli fu inflitto dall’allora Guardasigilli Marta Cartabia perché l’anarchico è stato ritenuto ancora in contatto con le organizzazioni anarco-insurrezionalistiche, e in particolare la Fai-Fri in nome della quale nel 2006 partecipò agli attentati dinamitardi alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano (senza morti né feriti, ma per il quale è stato condannato all’ergastolo) e nel 2012 a Genova gambizzò Roberto Adinolfi, Ad di Ansaldo nucleare, reato per il quale dal 2014 sta scontando la pena di 10 anni e 8 mesi. Il colloquio vis-à-vis con Palma e De Robert - che sono rimasti nella casa circondariale per quasi tutto il giorno, intrattenendosi anche con i medici, gli agenti e con gli operatori - è durato più di un’ora: “Si è alzato dal letto e ci ha raggiunto, certo ha il corpo provato, è stressato, ma sa gestirsi, è a suo modo lucido - riferisce al manifesto Daniela De Robert -. Pesa 81 chili, ne pesava 116 quando ha iniziato lo sciopero della fame, assume molti liquidi ma da qualche giorno ha sospeso gli integratori che prendeva. Però ci ha spiegato che quando non si sente bene assume zuccheri o miele. È monitorato costantemente da una équipe medica e ha anche il suo medico personale”. Mauro Palma gli ha chiesto di ricominciare a mangiare, perché “per lottare bisogna essere vivi”, ma Cospito al momento non vuole saperne. “Questa situazione deve fare un passo avanti, Cospito deve capire che questa battaglia deve portarla avanti con altri mezzi, soprattutto con metodi che non siano dannosi per la sua salute - aggiunge Palma - La sua volontà di proseguire con lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze è ampiamente preoccupante. Al momento ha perso molti chili e questo potrebbe comportargli dei problemi più avanti”. Sì, perché Cospito, come spiega il suo avvocato Flavio Rossi Albertini, “è un animale politico, e un rivoluzionario, dunque è assolutamente determinato a proseguire lo sciopero della fame e ha intrapreso un’iniziativa rispetto alla quale non ci sono spazi di mediazione. È ormai evidente che, visto anche il pronunciamento del Tribunale di Sorveglianza (che ha rigettato il ricorso, ndr), la questione del 41bis è diventata centrale su qualsiasi altro argomento”. Fino a quando proseguirà la sua lotta nonviolenta, gli chiediamo, visto che la sua battaglia è contro il regime del 41bis e non a favore della propria condizione personale? “Immagino che, malgrado tutto, un provvedimento favorevole della Cassazione che deve decidere sul suo 41bis (ieri il fascicolo del ricorso presentato dai legali di Cospito è finalmente arrivato, dopo tre solleciti, alla cancelleria della Corte suprema, ndr) lo convincerebbe a interrompere lo sciopero della fame”. Secondo quanto riferito dal Garante nazionale dei detenuti, Cospito ha appreso dalle trasmissioni televisive delle manifestazioni a suo favore. Per la sua vicenda processuale è decisiva anche l’attesa pronuncia della Corte costituzionale alla quale la Corte d’Assise d’Appello di Torino ha rinviato il caso chiedendo di esprimersi sul divieto di prevalenza delle attenuanti sulle recidive. Una decisione favorevole dalla Consulta potrebbe “scongiurare l’ergastolo - spiega l’avvocato Rossi Albertini - attraverso un giudizio che, si spera, consenta la prevalenza dell’attenuante dell’articolo 311 del codice penale sulla recidiva reiterata e permetta così l’abbattimento della pena dell’ergastolo a una pena tra i 21 e i 24 anni, per un totale di 30 anni”. “Rimarrebbe in ogni caso l’ostatività”, spiega ancora l’avvocato, propria del reato contestatogli, strage contro la personalità dello Stato, malgrado l’attentato sia stato senza vittime. In ogni caso, il ministro Nordio ha assicurato ieri di seguire il caso “con la massima attenzione”. Il ministro Nordio: “Massima attenzione alle condizioni di Cospito” ansa.it, 11 gennaio 2023 I controlli medici sono quotidiani, ha spiegato il titolare della Giustizia. L’anarchico abruzzese, in regime 41bis, è in sciopero della fame da 86 giorni: è stato visitato in carcere dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Massima attenzione sulle condizioni di salute di Alfredo Cospito: lo ha sottolineato il ministro della giustizia Carlo Nordio che ha ricordato come al momento “non sia arrivata alcuna richiesta di revoca del regime speciale 41bis né da parte del detenuto, né da parte dell’autorità giudiziaria, che a fronte dell’aggravamento delle condizioni di salute può disporre una sospensione della pena o chiedere al Ministro una revoca del regime speciale”. Cospito tutti i giorni è sottoposto a un controllo medico, ha spiegato il ministro, e “il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria garantisce ogni eventuale assistenza sanitaria”. L’anarchico abruzzese, in regime 41bis e in sciopero della fame da 86 giorni, è stato visitato in carcere a Sassari dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: “Dal punto di vista strettamente sanitario ho trovato le sue condizioni rassicuranti - ha detto Palma -. Al momento è monitorato dall’assistenza sanitaria, ma questa situazione deve fare un passo avanti. Cospito deve capire che questa battaglia deve portarla avanti con altri mezzi, soprattutto con metodi che non siano dannosi per la sua salute”. 55 anni, Cospito è stato condannato per l’attentato all’amministratore di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, ferito nel 2012, e per gli ordigni esplosivi piazzati davanti all’ex caserma allievi carabinieri di Fossano nel 2006. Per quest’ultimo episodio, che non causò vittime, la Cassazione ha ordinato ai giudici di secondo grado di rimodulare la pena. La Corte d’Appello, a inizio dicembre, ha infine rinviato gli atti alla Consulta per verificare la possibilità di attenuanti che potrebbero far cadere l’ergastolo. Cospito, col rifiuto del cibo, protesta proprio contro la richiesta del carcere a vita della procura di Torino e contro il 41bis, confermato dal tribunale di sorveglianza e motivato dal timore che Cospito mantenga - nel caso di comunicazioni con l’esterno in un regime ordinario - i legami col gruppo anarchico. Una vicenda che da settimane fa molto discutere. Ed è di pochi giorni fa la notizia di una busta con un proiettile indirizzata al procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo. A firma dell’intimidazione, la “A” di anarchia ora al vaglio degli inquirenti. Intanto a favore di Cospito 38 giuristi e intellettuali, dall’ex magistrato Gherardo Colombo al filosofo Massimo Cacciari a don Luigi Ciotti, hanno firmato una lettera inviata al Ministro della Giustizia per chiedere la revoca del 41 bis. Revocare il 41 bis ad Alfredo Cospito di Gianfranco Pagliarulo* Il Manifesto, 11 gennaio 2023 Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Sassari, a causa dello sciopero della fame che ha iniziato il 19 ottobre 2022 fa ha perso 35 chilogrammi. Cospito è un anarchico insurrezionalista autore in diverse circostanze di un ferimento alle gambe e di un attentato totalmente incruento. Dal 4 maggio 2022 è in regime di Art. 41bis, ordinariamente applicato ai mafiosi, e in attesa di una probabile rideterminazione della pena con l’applicazione dell’ergastolo ostativo, cioè senza possibilità di usufruire dei benefici di legge come la liberazione condizionale, il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semilibertà, in base ad un iter processuale complesso, secondo alcuni anomalo. Va da sé il ripudio di qualsiasi atto di terrorismo e la critica senza appello a chiunque lo pratichi, a cominciare da Alfredo Cospito. Eppure appare palese una sproporzione fra i reati da lui commessi, il regime di pena che sta scontando, cioè il 41bis, il rischio della condanna all’ergastolo ostativo. La Costituzione va senz’altro interpretata, ma non si può non ricordare - in particolare nel caso di reati non di natura mafiosa e senza esiti letali per la vita umana - l’art. 27, ove recita che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Né si può negare la pesante discrepanza fra la situazione di Alfredo Cospito e le pene comminate a responsabili di reati ben più gravi. È giusta una giustizia che alterna senza criterio rigore e lassismo? È giusta una giustizia non equilibrata? Non posso non notare, per esempio, la consapevole inattuazione negli ultimi vent’anni della Legge Scelba del 1952 che prevede tra l’altro lo scioglimento delle organizzazioni fasciste in attuazione della XII Disposizione finale della Costituzione, persino a fronte di episodi di gravità inconfutabile e di cui sono accertati i responsabili, come l’assalto e la devastazione della sede nazionale della CGIL avvenuti il 9 ottobre 2021, quando la Procura non ha contestato agli imputati i reati di apologia previsti dal combinato disposto delle leggi Scelba-Mancino. Leggo inoltre che nel solo 2022 nelle carceri italiane si sono registrati 83 suicidi, ove è lo Stato l’unico responsabile della custodia e perciò della tutela del detenuto. Mi colpisce, infine, il silenzio da parte delle autorità davanti al processo di consapevole autodistruzione intrapreso da Alfredo Cospito con lo sciopero della fame. L’esistenza di quest’uomo è appesa a un filo, e ciò ci interroga sui temi delle condizioni dell’universo carcerario, della giustizia giusta, dei valori costituzionali della dignità della persona e della vita umana. Vedo in filigrana un punto di debolezza dello Stato, laddove l’umanità del trattamento penitenziario è un elemento di forza della democrazia. Per questo aderisco all’appello lanciato da diverse personalità affinché, senza nulla togliere alle responsabilità del condannato ed alle più generali esigenze di sicurezza dello Stato, sia concessa al Alfredo Cospito la revoca del regime del 41bis. *Presidente nazionale dell’Anpi Ministro Nordio, per favore, salvi la vita a Cospito di Angela Stella Il Riformista, 11 gennaio 2023 Alfredo Cospito ha superato gli ottanta giorni di digiuno. Sapete quanti sono ottanta giorni? Sono un tempo così grande da mettere a repentaglio la vita di Alfredo. Può morire da un momento all’altro. Si sono mobilitati a sua difesa molti giuristi, e in diverse città stanno manifestando gli anarchici. Cospito è un militante anarchico condannato a molti anni di prigione e con un processo ancora in corso nel quale rischia l’ergastolo. Sebbene non abbia mai ucciso nessuno. È accusato di avere realizzato un attentato dinamitardo ad una caserma dei carabinieri, che però non fece vittime né feriti. Cospito ora è al 41 bis, cioè al carcere duro. Una forma di detenzione del tutto in contrasto con i principi e gli articoli della Costituzione Repubblicana, ma che viene applicata comunque, da diversi anni, ai danni di imputati o condannati per reati di mafia o di terrorismo. Carcere duro vuol dire isolamento, colloqui rarissimi, impossibilità di entrare in contatto fisico persino coi parenti più stretti e addirittura coi figli più grandi dei dodici anni. È una cosa medievale, il 41 bis, proibito per altro da diverse convenzioni internazionali sottoscritte anche dall’Italia. Fino ad oggi, comunque, era stato utilizzato solo per i mafiosi, con l’argomento che lo scopo non sarebbe quello di inasprire la punizione, rendendola crudele e inumana (e dunque non costituzionale) ma quello di rendere impossibili i contatti tra il condannato e le organizzazioni mafiose. Una follia, certo. Nel caso di Cospito una doppia follia, perché Cospito non è mafioso e non è accusato di nessun reato di mafia. Cospito ha iniziato lo sciopero della fame e chiede di essere fatto uscire dal 41 bis. Niente di più. Chi può salvarlo? O la Cassazione o il ministro Nordio. Per favore, ministro, prenda lei l’iniziativa. Senza stare tanto a discutere sul diritto: solo per salvare una vita umana. Ne vale la pena. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, si è recato ieri a Sassari per incontrare l’anarchico al 41 bis e da oltre 80 giorni in sciopero della fame, Alfredo Cospito, rinchiuso nel carcere di Bancali. Palma è stato accompagnato da Daniela de Robert, componente del Collegio del Garante. “Alfredo Cospito ha intenzione di proseguire lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze” ha detto Palma al termine della visita. “Questa situazione - ha ammonito comunque Palma - deve fare un passo avanti. Cospito deve capire che questa battaglia deve portarla avanti con altri mezzi, soprattutto con metodi che non siano dannosi per la sua salute. La sua volontà di proseguire con lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze è ampiamente preoccupante. Al momento ha perso molti chili e questo potrebbe comportargli dei problemi più avanti”. Infine il Garante ha comunque rassicurato: “Al momento attuale è ben monitorato dall’assistenza sanitaria e ha condizioni complessivamente soddisfacenti”. L’incontro è avvenuto nel giorno in cui alla Cassazione è arrivato l’incartamento relativo alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha respinto un reclamo avanzato dal difensore di Cospito, contro il regime del carcere duro. Un passaggio procedurale in vista della fissazione dell’udienza in cui verrà affrontato il ricorso presentato dall’avvocato Albertini che ha ribadito: “Alfredo Cospito è assolutamente determinato a proseguire lo sciopero della fame e ha intrapreso un’iniziativa rispetto alla quale non ci sono spazi di mediazione. È ormai evidente che, visto anche il pronunciamento del Tribunale di Sorveglianza, la questione del 41bis è diventata centrale su qualsiasi altro argomento”. “La decisione della Corte d’assise d’appello di Torino di rinviare alla Corte Costituzionale”, la questione sulle attenuanti “fa ben sperare rispetto alla possibilità di scongiurare l’ergastolo - ha spiegato l’avvocato all’Adnkronos - attraverso un giudizio che, si spera, consenta la prevalenza dell’attenuante dell’articolo 311 del codice penale sulla recidiva reiterata e permetta così l’abbattimento della pena dell’ergastolo a una pena tra i 21 e i 24 anni”. “Cospito sta giocando con la vita perché ritiene che una vita al 41bis non sarebbe tale, non sarebbe una vita degna di essere vissuta. Questo è il senso della sua battaglia e il grande merito di Cospito è quello di aver riportato al dibattito pubblico cosa è il 41bis e se è compatibile o meno con la Costituzione”, ha continuato l’avvocato concludendo così: “Alcuni giuristi si appellano al ministro della Giustizia, in realtà la possibilità di un intervento del ministro era contenuta in un comma poi abrogato. Alcune sentenze della Cassazione ritengono ci sia per la pubblica amministrazione un principio di revoca in autotutela e quindi in questo senso il ministro potrebbe procedere a una revoca anticipata (del 41bis ndr) in autotutela, ma io lo ritengo difficile, considerato che si è espressa l’autorità giudiziaria”. Sempre ieri due persone sono riuscite a raggiungere il tetto sopra il salone dei 500 di Palazzo Vecchio a Firenze e a calare uno striscione con scritto il “41 bis uccide Stato assassino”, iniziativa a sostegno del detenuto. Mentre a Torino sulla facciata esterna di una palazzina del centro storico è apparsa la seguente scritta fatta con lo spray: “Nei quartieri dei ricchi cantano le pistole, Alfredo libero”. A proposito del capoluogo piemontese, Magistratura Indipendente ha diffuso una nota in riferimento alla busta con un proiettile inviata al pg di Torino Francesco Saluzzo che, con il pm Paolo Scafi, sostiene l’accusa al processo alla Corte d’Assise d’Appello di Torino contro Cospito di cui ha chiesto la condanna all’ergastolo e dodici mesi di isolamento diurno per l’attentato alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano (Cuneo) del 2005: “È forte lo sdegno per la viltà di chi, rimanendo anonimo, cerca di condizionare l’esercizio della funzione giurisdizionale, minacciando un servitore dello Stato per il sol fatto di svolgere con scrupolo il suo lavoro”, hanno affermato Angelo Piraino e Stefano Buccini, rispettivamente segretario e presidente di Magistratura Indipendente. “Sappiamo - hanno proseguito i due togati - che si tratta di una minaccia tanto vigliacca quanto inutile, perché conosciamo le qualità umane e professionali del Procuratore Saluzzo e ci stringiamo intorno a lui, esprimendogli piena e incondizionata solidarietà. Auspichiamo con forza che si giunga a un rapido accertamento delle responsabilità di quanto è accaduto, che è contro le regole del vivere civile, prima ancora che quelle dello Stato di diritto, e chiediamo che vengano adottate tutte le iniziative necessarie per garantire l’incolumità del collega”. Lettera aperta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di Beppe Battaglia Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2023 Presidente, giorni fa lei ebbe a dire, a proposito di ciò che accade in Iran, che uno Stato che uccide i suoi figli è uno stato indegno. Forse non serve rammentarle che prima di ucciderli li qualifica come “terroristi” (una toppa per tutti i buchi, per dittature e democrazie, senza eccezioni!). Faccio questo richiamo perché quest’anno nelle carceri dello Stato italiano sono morte, per suicidio, 84 (ottantaquattro!) persone senza che alcuna istituzione di questo Stato abbia fiatato. Mi riferisco ai gestori delle prigioni in modo specifico, dal ministro al più insignificante subalterno. Il silenzio è d’oro! 84 persone che, evidentemente, alle condizioni carcerarie date preferiscono la morte, è un dato che dovrebbe interrogare tutte le istituzioni di questo paese. E invece il silenzio impera! 84 persone sulle quali il dominio totale ed incontrollato dello Stato non sfugge a nessuno! In queste condizioni, dove cioè lo Stato non è in grado di garantire la sopravvivenza alle persone che costringe in condizioni inaccettabili, è lecito affacciare l’ipotesi che si tratti di sequestri collettivi piuttosto che detenzioni motivate e in vario modo garantendo loro quei diritti universali imprescindibili, tra i quali la sopravvivenza! Ecco, presidente, in questa disastrosa situazione carceraria sta succedendo di più: un uomo sta morendo in ragione delle sue idee. Da 80 giorni Alfredo Cospito, anarchico, sta lasciandosi morire nel carcere sardo di Bancali con uno sciopero della fame ad oltranza perché non accetta il regime di tortura del 41 bis al quale è stato sottoposto mediante artifici giuridici anch’essi altrettanto inaccettabili, tali da suscitare perplessità persino nella magistratura giudicante che ha fatto ricorso nel tentativo di riuscire a parametrare l’entità della pena al reato effettivo. Evidentemente c’è una ragione superiore per qualificare il reato di Alfredo Cospito come un reato maggiore e più pericoloso delle stragi mafiose contro i giudici Falcone e Borsellino. La “ragione superiore”, signor presidente, riposa nel fatto che Alfredo Cospito è un anarchico. Non c’è altra interpretazione possibile se viene processato per strage dove nessuno è morto e nessuno è stato ferito. Ma c’è di più. Alfredo viene condannato per “strage contro i poteri dello Stato” (la mafia che ha ucciso Falcone e Borsellino con le loro scorte evidentemente è stato un gioco per bambini!) che comporta non solo la condanna “all’ergastolo ostativo” (altra ingiuria al buonsenso) ma pure l’applicazione di quel regime vergognoso che è il 41 bis! Signor presidente, una persona ragionevole, quale è Alfredo Cospito piaccia o non piaccia, non può accettare di essere seppellito vivo mediante questi mezzucci per non dire che è anarchico; ossia, togliere la parola (e tra poco la vita) a chi ha un’idea del mondo diversa, orchestrando un iter giuridico che ha del fantascientifico senza timore del ridicolo! Il ministro della giustizia (del governo precedente) ha decretato il 41 bis per Alfredo Cospito, il tribunale speciale della sorveglianza sul 41 bis ha rigettato il ricorso che l’avvocato di Alfredo Cospito aveva avanzato nei giorni scorsi. Insomma, non c’è verso di suscitare una briciola di ragionevolezza, di buonsenso, di ravvedimento, di giustizia. L’odio verso gli anarchici, ce lo insegna la storia, è una cosa insopportabile e, malgrado il silenzio complice dei mass media, molti cittadini italiani lo hanno capito. E non solo italiani. Presidente, al di là di ogni considerazione ulteriore, lei può fermare questa morte ormai incombente. Oppure può girarsi dall’altra parte. La vita di Alfredo Cospito è nelle sue mani. L’apparato giudiziario si è già pronunciato. L’ultima parola spetta a lei. Non c’è bisogno di andare in Iran, presidente, per trovare uno Stato che uccide i suoi figli. È sufficiente un’occhiata fugace sulle nostre carceri, salvare la vita ad Alfredo Cospito o lasciarlo morire. Il silenzio istituzionale di questo paese da 80 giorni fa finta di non vedere che un uomo sta morendo, giorno dopo giorno, solo perché è un anarchico. E lei, presidente, farà lo stesso? Si girerà dall’altra parte? Io penso di sì, ma può darsi anche che io mi sbagli. Mi sorprenda, Presidente! Il 2022 anno drammatico per il carcere, ma aumenta la spesa per la repressione di Giusy Santella mardeisargassi.it, 11 gennaio 2023 Il 2022 ha rappresentato per l’universo penitenziario un anno drammatico, di cui l’espressione più tragica è stato sicuramente il più alto numero di suicidi registratosi dal 2009, quando, però, la popolazione detenuta era molto più numerosa. Negli ultimi dodici mesi, ben ottantaquattro persone si sono tolte la vita tra le sbarre, una ogni cinque giorni circa: persone le cui grida di aiuto sono rimaste inascoltate, in un’indifferenza che ci rende tutti colpevoli. Un numero così alto di suicidi dipende dalle condizioni di vita disumane degli istituti di pena: le celle sovraffollate, la violazione delle più basilari condizioni igienico-sanitarie (proprio quest’anno è stato stabilito che il wc in cella, presente ancora in moltissimi istituti, rappresenta un trattamento inumano e degradante), oltre che la carenza di assistenza medica costante e l’indifferenza nei confronti dei disagi psichici che in carcere non fanno che scoppiare. Le fragilità e le patologie di natura psicologica di chi entra in un istituto di pena, complice la pandemia, sono aumentate, mentre, secondo i dati forniti dall’Associazione Antigone, l’assistenza continua a essere insufficiente: 8,3 ore alla settimana di copertura psichiatrica ogni 100 detenuti e 17,2 ore alla settimana di servizio psicologico, a fronte di una situazione drammatica che vede una diagnosi di patologia psichiatrica grave per più dell’8% delle persone detenute. L’unica risposta sembrano essere l’indifferenza e la medicalizzazione: il 18,6% della popolazione carceraria assume regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e ben il 42,4% sedativi o ipnotici. Intanto, insufficienti sono anche le opportunità lavorative, di studio, di socializzazione. Una situazione tragica, che necessiterebbe di un serio dibattito sul senso della pena, e dunque sulla rieducazione, e di ingenti investimenti proiettati però al di fuori dell’istituzione carceraria, che risulta essere inefficace, oltre che dannosa, rappresentando, secondo voci autorevoli, una vera e propria scuola di criminalità. Quasi il 70% delle persone che hanno scontato una pena torna a delinquere perché porta con sé lo stigma di detenuto, e dunque non è in alcun modo reintegrato in società, pur essendo tra quei cittadini di cui lo Stato dovrebbe farsi carico. Basterebbe questo a descrivere l’istituzione penitenziaria come un fallimento e con essa quest’anno che ha portato con sé ulteriori sconfitte per la società civile: prima tra tutte, l’emergere di continui casi di violenze e soprusi ai danni di chi è sotto la custodia di quello stesso Stato i cui rappresentanti abusano della propria posizione. Da ultimi, i quarantacinque avvisi di garanzia notificati a parte del personale del carcere di Ivrea, tra agenti e medici, che sarebbero colpevoli di tortura. È la stessa accusa che è mossa a carico di più di cento agenti penitenziari in servizio presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, per cui il processo - il più grande d’Europa - è iniziato proprio quest’anno. Eppure, di fronte all’impellente necessità di profonde riforme, che non riguardino certamente la costruzione di nuovi istituti, le prospettive per il 2023 non sembrano essere migliori. Raccontavamo poche settimane fa dei tagli previsti dalla nuova Legge di Bilancio, attraverso la razionalizzazione del personale in servizio presso gli istituti penitenziari e del servizio mensa delle carceri minorili e di comunità. Tagli che non promettono nulla di buono e che sono espressione di una classe politica incapace di guardare a un palmo dal proprio naso per rendersi conto degli investimenti seri da mettere in atto per un mondo tanto martoriato, nutrendo quella stessa istituzione totale che porta con sé simili danni, buona solo a fare passerelle e promesse di repressione, l’unica risposta che pare possibile, fin dalla campagna elettorale della scorsa estate. Del resto, si tratta di incamminarsi su un solco già profondamente tracciato dai precedenti esecutivi: basti pensare che con una gara bandita più di un anno fa sono stati stanziati quasi 6 milioni dei fondi provenienti dal Pnrr per l’acquisto di caschi e dotazioni antisommossa destinati alla polizia penitenziaria. Armi delle quali non c’era alcuna urgenza e che dovrebbero essere usate in casi assolutamente limite secondo quanto previsto dalla legge, eppure diventate la priorità per quelle risorse che potevano essere utilizzate in ben altro modo. Il 2022 è stato anche l’anno in cui è stata formulata una nuova vergognosa legge sull’ergastolo ostativo, su cui era pendente una pronuncia della Corte Costituzionale e che non è altro che l’espressione di uno Stato irragionevole e aguzzino. Sembra scontato dire che speriamo in 2023 migliore, di fronte a simili prospettive, mentre il carcere non è altro che una discarica sociale in cui far confluire tutto ciò che non ci va di affrontare: l’emarginazione, la povertà, la solitudine, la sofferenza. La società civile ha il compito fondamentale di chiedere alla politica interventi veloci e urgenti, che ci salvino dall’abbrutimento a cui siamo giunti. Macché delitti impuniti: sui reati “a querela” ci giochiamo il Pnrr di Errico Novi Il Dubbio, 11 gennaio 2023 Anni e anni di appelli alla depenalizzazione. Poi non appena arriva una riforma come la Cartabia, che si limita a rendere perseguibile solo a querela un ristretto novero di reati, si leva il solito allarme giustizialista. Un coro a cui partecipano toghe, parlamentari e media. Ma che si infrange sugli impegni assunti per ottenere i fondi di Bruxelles. Si lamentano in molti. Magistrati, forze dell’ordine, persino alcuni esponenti dell’avvocatura. Di fronte alle norme della riforma Cartabia, appena entrata in vigore, che rendono procedibili solo a querela alcuni reati, si assiste a una sorta di attacco di panico generalizzato, che muove dai Tribunali e rifluisce fatalmente sui media. Non solo sulle pagine di un giornale come il Fatto quotidiano, sempre intransigente nel rilevare qualsiasi attenuazione della morsa nel sistema penale, ma anche sul Corriere della Sera, che stamattina ha dedicato un ampio articolo ai casi degli ultimi giorni, in cui autori di reati come il furto non sono stati fermati perché mancava, appunto, la querela della vittima. Tra gli scontenti ci sono anche i carabinieri e i loro sindacati: è di poco fa la dichiarazione con cui il segretario di Unarma, Antonio Nicolosi, si lamenta per il fatto che “numerosi delitti contro la persona e il patrimonio possono essere perseguibili ora solo se la persona offesa sporge querela”. Lo stesso sindacalista dell’Arma segnala poi anche un aspetto che nulla ha a che vedere con la selezione delle fattispecie contro cui concentrare l’azione repressiva: “Tra le novità introdotte dalla riforma c’è l’obbligo di affiancare alla trascrizione integrale degli interrogatori anche la loro registrazione audio-video, con strumenti tecnici di cui non siamo in possesso e per cui non abbiamo risorse al momento”. Ai militari non piace l’idea che le dichiarazioni di indagati e persone informate sui fatti debbano essere documentate in modo inoppugnabili. Eppure dovrebbe essere una garanzia per tutti, no? Ecco, forse l’obiezione dei carabinieri rende più nitidamente l’idea di un disagio legato anche, se non soprattutto, alla novità. C’è una crisi da adattamento alla riforma, potremmo dire. In cui in fondo ciascuno trova sgradevole una parte, e tutti si uniscono in un solo grande coro giustizialista. Scelta sempre a portata di mano e a buon mercato. Ma davvero si poteva rinunciare alla modifica con cui si riduce (di pochissimo) lo spettro degli illeciti penali perseguibili d’ufficio? Persino chi nella maggioranza è preoccupato per questa minima attenuazione della macchina repressiva, riconosce che la scelta è stata imposta dalle condizioni del sistema processuale. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, primissima linea di Fratelli d’Italia, ha dichiarato al Fatto, ad esempio, che sì, il suo partito ha intenzione di “rivedere” la riforma Cartabia, ma ha anche riconosciuto come l’intervento sul penale “ottiene il vantaggio della velocizzazione della giustizia”. E soprattutto che si dive “tenere conto degli impegni presi in Europa in vista del Pnrr”. Ridurre il carico dei fascicoli in modo da tagliare l’arretrato del 25% entro il 2026 è tra le condizioni richieste da Bruxelles per erogare i fondi del Next generatoin Eu. E l’esclusione della procedibilità d’ufficio per alcuni reati va esattamente in questa direzione. Tecnicamente, va ricordato che le nuove norme lasciano 90 giorni alle vittime per formalizzare le accuse. A integrare la riforma Cartabia propriamente detta (costituita dalla legge delega 134 del 2021 e dal decreto legislativo che l’ha attuata, il 150 del 10 ottobre 2022) ha provveduto, com’è noto, il cosiddetto decreto “Rave”: nel provvedimento convertito in extremis, a fine dicembre, dal Parlamento, compaiono norme attuative anche della nuova “improcedibilità d’ufficio” per alcuni reati. In particolare è stato previsto che per i procedimenti già in corso, le misure cautelari personali intanto emesse perdano efficacia se, entro venti giorni dall’entrata in vigore delle nuove norme (quindi entro il 18 gennaio), l’autorità giudiziaria non riesce a rintracciare la vittima e a ottenere la denuncia. Una garanzia espressamente voluta dall’attuale guardasigilli Carlo Nordio, che ha ritenuto irragionevole trattenere magari in carcere indagati per delitti la cui perseguibilità rischiava di venire meno. Come ha spiegato a Repubblica la procuratrice generale di Bologna Lucia Musti, va rispettato Il “diritto” di “non scontare una limitazione della libertà personale senza i presupposti di legge”. La pensano diversamente, ma era prevedibile, le deputate del Movimento 5 Stelle Stefania Ascari, Carla Giuliano, Valentina D’Orso e Giulia Sarti, secondo le quali quel termine di 20 giorni è “risibile”. Ma di quali reati si tratta? Oltre al furto (ma non in abitazione o quando consiste in uno scippo), ci sono violenza privata, violazione di domicilio, lesioni personali anche stradali, truffa, frode informatica, sequestro di persona semplice. Prendiamo il caso delle lesioni personali stradali, articolo 590 bis del codice penale: renderlo imperseguibile d’ufficio, come ricorda la relazione illustrativa della riforma Cartabia, risponde a una precisa sollecitazione della Consulta, contenuta nella sentenza costituzionale 248 del 2020. Ma non va bene. In tanti, non tutti, continuano a tuonare contro i rischi della riforma. Ha giustamente detto Gian Luigi Gatta, il professore che è stato consigliere di Cartabia e fra gli autori dell’intervento sul penale: “Mi chiedo come, con questo clima, si possa mettere in cantiere una depenalizzazione o addirittura eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale come sento dire dal ministro Nordio”. È esattamente così: da anni si parla di depenalizzare, e ne parla l’Anm innanzitutto. Non appena si interviene con una legge che neppure depenalizza (né quindi consente la scarcerazione dei “vecchi” condannati definitivi per quei reati) ma semplicemente limita la perseguibilità di alcuni delitti, si scatena il putiferio. L’allarmismo giustizialista vince sempre. Fa sempre la voce grossa. Ma stavolta i vincoli e gli impegni assunti con l’Europa potrebbero rivelarsi più forti persino, udite udite, dell’irriducibile pulsione a risolvere col processo penale qualsiasi cosa. “Non illudetevi, il carico di processi non diminuirà. C’è una sola via d’uscita: depenalizzare” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 gennaio 2023 Secondo il pm romano Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, la parte della riforma Cartabia relativa alla perseguibilità solo a querela per alcuni reati preoccupa per diversi aspetti, tra cui quello di non snellire paradossalmente a lungo termine la macchina giudiziaria. La soluzione avrebbe dovuto piuttosto consistere, sostiene il leader del gruppo progressista della magistratura, in una depenalizzazione, ma non si è avuto il coraggio di farla. Condivide l’allarme lanciato su qualche giornale per il fatto che, con la riforma Cartabia, alcuni reati diventino perseguibili solo a querela? Condivido una preoccupazione che riguarda tre aspetti. Il primo è quello relativo alla confusione che genera negli operatori di polizia giudiziaria questa modifica nei reati commessi quotidianamente nelle grandi città, come i furti. Proprio ieri mi raccontavano di un furto avvenuto durante le festività all’interno di una autovettura di una persona partita per le vacanze ed irreperibile. Pur avendo colto sul fatto il delinquente lo hanno dovuto lasciare a piede libero. Il secondo? Al momento ci sono numerose persone sottoposte a misura cautelare per determinati reati rispetto ai quali, se entro venti giorni non viene rintracciata la persona offesa in modo da farle presentare la querela, gli stessi provvedimenti restrittivi decadranno, incluse le misure in carcere. La polizia giudiziaria paradossalmente non dovrà andare alla ricerca degli autori dei crimini ma delle vittime. C’è un dispendio di risorse umane ed economiche del tutto sproporzionato. L’ultimo? La misura sembrerebbe preordinata ad un alleggerimento del carico di lavoro dei tribunali, ma in realtà gli effetti non saranno duraturi. Essa riguarderà i procedimenti già pendenti in quanto ovviamente per il futuro, essendo persone offese e operatori informati sulla necessità di presentare la querela, gli uffici giudiziari torneranno ad ingolfarsi con le denunce. Ma allora quale sarebbe la vostra soluzione per snellire la macchina? Sarebbe stato molto più intelligente, dal mio punto di vista, prevedere una seria depenalizzazione, come richiesto anche in un documento congiunto di Anm e Unione Camere penali di qualche anno fa. Evidentemente non si è avuto il coraggio di fare le cose per bene. Però il consigliere dell’ex ministra Cartabia, il professor Gatta, su Repubblica ha detto: “I reati che abbiamo inserito - e penso al furto in un supermercato - di certo non sono gravi, tant’è che la pena non supera mai il limite di due anni. Questo vale anche per un reato odioso come il sequestro di persona non a scopo di estorsione, punito con la pena minima di sei mesi”. Insomma tanto rumore per nulla.... I furti aggravati sono puniti da due a sei anni, più la pena pecuniaria. Si tratta di una pena che consente la custodia cautelare in carcere e anche le intercettazioni telefoniche. Quindi a cosa fa riferimento il professor Gatta, forse alla pena minima edittale? Dopo di che ci sono effettivamente dei reati bagatellari, ma perché allora non depenalizzarli? Nel 2023 è davvero ancora necessaria una sanzione penale per il padrone del cane che abbaia troppo quando le persone dormono, per il ragazzo che organizza una festa in casa e tiene la musica alta, o per il parroco che fa suonare le campane mentre le persone riposano? Come si allontana il retropensiero per cui la critica mossa verso questo provvedimento, in particolare quando avanzata da magistrati inquirenti, deriva dal fatto che la categoria dei pm vuole mantenere il totale controllo sull’esercizio dell’azione penale? Non siamo ossessionati dalla sindrome del controllo. I reati procedibili a querela esistevano e continueranno ad esistere, così come i reati procedibili d’ufficio. Il problema è mettere in campo un sistema razionale che riduca il carico della giustizia penale da un lato ma che permetta dall’altro di poter perseguire il crimine anche in contesti, come le periferie delle nostre città, in cui particolari rapporti di forza potrebbero frenare le persone dal denunciare, perché minacciate dal bullo di quartiere, ad esempio. Io mi pongo però un problema politico. Quale? Vedo apprezzabili e competenti esponenti del centrodestra che stanno annaspando nel tentativo di trovare una quadra che in qualche modo compensi la contraddittorietà di questa riforma rispetto a politiche lungamente propagandate. Da ultimo leggevo della possibilità di riaprire i tribunali di prossimità. Come se questo, a fronte di un presidio normativo inadatto, fosse di per sé elemento di sicurezza nei confronti dei cittadini. E poi c’è l’altro aspetto. Prego... Mettendo insieme la riforma Cartabia, votata pure dal centrodestra, e riforme di depenalizzazione indicate dal ministro Nordio sembra venirsi a creare un meccanismo abbastanza contraddittorio. Cambiamo completamente “soggetto”: cosa ne pensa del fatto che i partiti potranno presentare la mattina stessa del voto in Parlamento le loro candidature per i membri laici del Consiglio superiore della magistratura? Uno degli obiettivi della riforma Cartabia era quello di rendere più trasparente il meccanismo di selezione. Così facendo invece si consente ancora la vecchia prassi di tenere i nomi ritenuti più papabili nascosti fino all’ultimo momento per poi fare il colpo di scena lo stesso giorno del voto, sottraendoli ad un dibattito parlamentare e pubblico consapevole. Quei verbali riassuntivi delle conversazioni degli indagati sono una fabbrica di colpevoli di Renato Borzone Il Dubbio, 11 gennaio 2023 Chiunque si occupi di giustizia penale sa bene che la verbalizzazione riassuntiva è per sua natura manipolativa, risentendo non soltanto della sintesi di chi redige il verbale, ma del suo interesse ad approfondire un tema tralasciandone altri. Nei giorni scorsi, un interessante articolo di Valentina Stella su questo quotidiano ha riferito gli esiti di articolate ricerche (di natura legale, ma anche di psicologia giudiziaria) eseguite negli Stati Uniti e relative al tema delle “false confessioni”. Tema che si risolve, in realtà, negli escamotages o, se si vuole, eufemisticamente, nelle “tecniche” degli interroganti per conseguire risultati conformi alla loro ipotesi investigativa. La questione è assai rilevante ed impone una riflessione anche su quanto accade nel nostro sistema giudiziario nel corso delle indagini preliminari, e su quanto potrà accadere alla luce delle recenti innovazioni legislative della ormai vigente normativa “Cartabia” quanto alle verbalizzazioni di persone sottoposte ad indagine e “informate sui fatti” da parte -in particolare- della polizia giudiziaria. La premessa inevitabile è l’accantonare le ipocrisie e prendere atto come, da sempre, al di là della buona o mala fede degli interroganti, i verbali cosiddetti riassuntivi delle dichiarazioni rappresentano uno strumento assolutamente inadeguato a documentare la prova dichiarativa (e si parla di prova perché tali dichiarazioni possono essere utilizzate nel giudizio abbreviato o, comunque, per le contestazioni dibattimentali). Chiunque si occupi di giustizia penale sa bene che la verbalizzazione riassuntiva è per sua natura manipolativa, risentendo non soltanto della sintesi di chi redige il verbale, ma del suo interesse ad approfondire un tema tralasciandone altri pur affrontati, con l’umana tendenza a valorizzare nel verbale determinate risposte piuttosto che altre e, comunque, a tradurle in un “proprio” linguaggio non necessariamente corrispondente a dichiarazioni articolate o sfumate. Occorre perciò ribadire che, quando un individuo entra in una caserma o in un commissariato, si apre una “zona grigia” a volte inquietante che, se non può essere integralmente documentata dall’ingresso all’uscita, il che sarebbe pure talvolta interessante, può tuttavia esserlo quantomeno nella fase delle deposizioni che un soggetto rende. Al di là dei casi limite di cui la nostra storia giudiziaria non difetta, da Pinelli, ad Aldrovandi, a Cucchi, a Natale Hjorth, non è ignoto ad alcuno che nel corso delle audizioni, o prima delle stesse, possono essere esercitate pressioni sull’interrogato e tecniche di questo tipo lasciano il dubbio sull’operato forze dell’ordine anche quando, forse il più delle volte, non lo meriterebbero. La realtà delle prassi investigative in relazione alla prova dichiarativa è nota a tutti coloro che frequentano gli ambienti giudiziari. La più comune, nei confronti di chi è chiaramente indagabile, è quella di ascoltare costui come semplice “testimone”, senza la presenza di un legale; e si ha un bel dire che tanto renderebbe non utilizzabili queste dichiarazioni se l’esperienza giudiziaria dimostra come la giurisprudenza largheggi con assai scarso pudore nel considerare utilizzabili (ad esempio in un giudizio abbreviato) le dichiarazioni rese con siffatte modalità, negando la sussistenza di precedenti indizi viceversa palesemente individuabili. Ogni legale, poi, ha una propria casistica, che qui riporto da casi reali: interrogatori durati sei ore riassunti in quattro pagine di verbale; sospensioni delle deposizioni per ragioni non chiare o non individuate nel verbale cui seguono modifiche delle dichiarazioni rese fino a quel momento; tecniche di persuasione per convincere l’accusato che determinate sue ammissioni lo scagioneranno; verbalizzazioni incomplete che non consentono di percepire le sfumature del discorso; persone straniere interrogate con interpreti di dubbia professionalità o autonomia; modalità “aggressive” nel porgere le domande, oppure lasciando intendere di essere in possesso di elementi a carico, già raccolti, in realtà inesistenti. Detto questo, chiunque può comprendere che -a prescindere dagli intendimenti degli interroganti- gran parte delle distorsioni, o se si vuole degli ingiustificati sospetti, potrebbero essere (quasi) radicalmente eliminati dalla più elementare delle modalità, oggi alla portata anche di un qualunque ragazzino della scuola media: l’audio o videoregistrazione delle dichiarazioni di indagati e testimoni nel corso delle indagini. Appare perciò sinistra, almeno sul punto, la disciplina della cd. riforma Cartabia, laddove, nell’introdurre per la prima volta la “rivoluzionaria” possibilità di audioregistrare gli interrogatori e le informazioni testimoniali, la priva di fatto di ogni pratica applicazione introducendo, per ciascuna delle varie disposizioni che potrebbero prevederla, una serie di limitazioni, delle quali la più inquietante è la clausola secondo cui a tale registrazione si può derogare in caso di “contingente indisponibilità” di strumenti di riproduzione o di personale tecnico (?). Ora, essendo del tutto evidente il livello della tecnologia, ormai elementare, necessaria, non sembra azzardato ipotizzare che qualche “manina”, nell’iter legislativo, abbia voluto salvaguardare quella zona grigia di cui sopra si è detto. E’del tutto evidente, infatti, che la semplice attestazione degli interroganti della assenza di mezzi idonei, peraltro sprovvista di ogni sanzione e della stessa possibilità di accertamento ex post, rischia, nel bel paese così abituato alle deroghe, di far rimanere lettera morta l’apparente miglioramento introdotto. Così come, l’aver lasciato al “testimone”, privo di interesse al riguardo, la scelta della richiesta di audioregistrare (salva sempre la disponibilità degli strumenti…), appare il voler ritirare con la mano sinistra quel che apparentemente si concede con la destra. Starà all’avvocatura, sul campo di battaglia, verificare ipotesi di questioni ed eccezioni per salvaguardare la complessità e genuinità della prova dichiarativa. Resta sempre, però, l’amarezza di riforme sempre parziali e poco coraggiose. Csm, Nordio può sbloccare l’intesa di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 11 gennaio 2023 Alla destra serve uno scambio con i renzian-calendiani per chiudere la partita del Consiglio superiore della magistratura ed eleggere il vicepresidente. La relazione del ministro della giustizia in parlamento può fornire la copertura politica. Si comincia a votare martedì prossimo, 17 gennaio. Il primo appuntamento delle camere in seduta comune non è slittato, ma le probabilità che basti ad eleggere i dieci consiglieri laici del Consiglio superiore della magistratura sono molto basse. Tant’è vero che senato e camera torneranno a riunirsi, è stato già deciso, il martedì successivo e poi una volta alla settimana nel caso fosse necessario. D’altronde i venti consiglieri togati del nuovo Csm sono stati già eletti dai magistrati a fine settembre e da quasi quattro mesi aspettano di entrare in funzione e rinnovare l’organo di autogoverno. La finestra per le autocandidature, novità della riforma Cartabia, è stata riaperta già tre volte in conseguenza dei rinvii della seduta parlamentare, ma per quanto la lista contenga adesso nomi di prestigio i giochi sono tutt’altro che fatti. Non nei numeri: dei dieci posti in palio la destra ne terrà per sé sette, divisi in questo modo: tre a Fratelli d’Italia, due alla Lega e due a Forza Italia. Alla maggioranza di governo mancano una manciata di voti per arrivare ai 3/5 dei componenti dell’assemblea che occorrono per eleggere ogni consigliere laico. Dal terzo scrutinio bastano però i 3/5 dei partecipanti al voto, anche per questo La Russa e Fontana hanno deciso di cominciare a votare pur senza accordo. I restanti tre posti sono destinati uno per ciascuno ai gruppi di minoranza maggiori: Pd, 5S e renzian-calendiani. Quella che conta è però la maggioranza che si formerà nel plenum del Csm, quando i laici si uniranno ai venti togati già eletti. Il nuovo Consiglio infatti dovrà eleggere il vicepresidente a maggioranza assoluta. È immaginabile che ai 7 voti dei laici di destra (tra i quali si deve scegliere il fortunato) si potranno aggiungere i 7 dei togati della corrente di destra, Magistratura indipendente. Mancherebbero però altri due voti, uno dei quali la destra conta di recuperarlo dal consigliere in quota Azione-Italia viva (l’altro potrebbe essere uno dei quattro di Unicost o l’unico eletto di Altra proposta). Le posizioni sulla giustizia di destra e renzian-calendiani sono del resto assai vicine, per convenienza politica quando non per condivisione ideale. Proprio all’indomani della prima votazione (a vuoto) sul Csm, le camere avranno l’occasione di assistere a questa saldatura. Quando si tratterà di votare le risoluzioni sulla relazione che il ministro della giustizia terrà giusto mercoledì 18. Potrebbe arrivare da Nordio, allora, la copertura politica al soccorso di Azione e Italia viva alla destra, la mossa che sbloccherà il nuovo Csm. Aboliamo il reato di diffamazione a mezzo stampa per salvare il giornalismo di Stefano Feltri Il Domani, 11 gennaio 2023 I giornalisti non sono molto simpatici: molti li considerano una casta affine a quella della politica, anche se i privilegi di un tempo sono svaniti da anni. Neanche i dentisti sono particolarmente amati, però se un combinato di leggi impedisse al dottore con mascherina e trapano di prendere bene la mira forse tutti ci preoccuperemmo. In Italia fare il giornalista sta diventando impossibile. L’ultimo caso è quello di Gad Lerner, che ne ha scritto ieri sul Fatto Quotidiano: Lerner conduce, come tanti colleghi (me incluso) una settimana ogni tanto la rassegna stampa di Radio3 PrimaPagina. Gli ascoltatori telefonano e chiedono, alle 8 di mattina, risposte sui temi di attualità più disparati, dal fisco alla geopolitica alla scienza. Lerner, il 19 novembre 2021, ha fatto una sintesi delle vicende sull’Ilva che l’attuale proprietà dell’azienda ha ritenuto diffamatoria e lo ha querelato. Ci sarà un processo a marzo. Già prevengo i commenti da social: bene così, un giudice deciderà chi ha ragione e se Lerner è stato preciso non ha nulla da temere. Sbagliato. Sta diventando di moda la minaccia ai giornalisti per quello che dicono in qualunque spazio, dai social alle trasmissioni radio e tv. Ma un giornalista che si esprime fuori dall’azienda editoriale con cui lavora, non ha molta protezione legale. Un ospite di un talk show non viene certo difeso dall’avvocato della rete, invece in una testata registrata è responsabile insieme al direttore (e per i danni il direttore lo è con l’editore, insomma c’è una rete di protezione). Quindi politici e aziende hanno iniziato a denunciare giornalisti che si esprimono in pubblico - vedi Giorgia Meloni contro Roberto Saviano a PiazzaPulita - perché sanno che così devono pagarsi la difesa di tasca propria. Prevengo l’altro commento: basta dire cose vere e non si rischia niente. Purtroppo non è così, in Italia si rischia di dover pagare risarcimenti per decine di migliaia di euro anche se si dicono o scrivono cose corrette. Ci sono mille variabili che possono spingere il pm prima, e il giudice poi a concludere che anche riportare un fatto incontestabile possa essere diffamatorio. Quando questa forma di repressione dell’informazione fallisce, arrivano le richieste di oblio, cioè la discreta ma ossessiva pressione sulle redazioni per far sparire dal web articoli sgraditi, in un tentativo di riscrivere il passato, visto che sul web tutto resta per sempre o quasi. Eppure il diritto di cronaca e perfino quello di critica sarebbero garantiti dalla Costituzione. Non nell’interesse soltanto di chi lo esercita - il giornalista - ma di tutti gli altri: una democrazia sana ha bisogno di un gruppo di professionisti che si dedica a mettere ordine nelle informazioni disponibili e si sforza di far emergere quelle che il potere di ogni tipo vorrebbe tenere segrete. Diritto al pensiero libero - Corrado Bile, il giudice che a dicembre ha respinto una imponente richiesta risarcitoria nei confronti del Fatto Quotidiano da parte di Eni per una serie di articoli (alcuni dei quali a mia firma), ha scritto nella sentenza: “Il diritto di critica, nelle sue più varie articolazioni (politica, giudiziaria, scientifica, sportiva ecc…) costituisce espressione della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost. e art. 10 Cedu) e rinviene, pertanto, il carattere identitario proprio nell’espressione di un giudizio o di un’opinione personale dell’autore, che non può che essere soggettiva”. Cioè, non soltanto è un diritto costituzionalmente garantito riportare i fatti, ma anche inserirli in una cornice di senso frutto di pensiero autonomo. In Italia però non è quasi più possibile, la crisi del settore editoriale lascia i giornalisti sempre più inermi di fronti alle pressioni esterne (chi si arrende viene ben ricompensato). Per questo non basta invocare, come fa articolo21, la solita legge sulle querele temerarie che dovrebbe esporre a qualche rischio chi denuncia senza fondamento. Bisogna discutere seriamente se vogliamo una informazione libera e un dibattito pubblico aperto, rimettendo in discussione l’intero articolo 595 del Codice penale. Aboliamo la diffamazione a mezzo stampa, del tutto, non ci sono più neppure i presupposti per un simile reato: molti account social raggiungono pubblici più ampi di qualunque media senza incorrere negli stessi rischi legali, la credibilità dei giornali che comporterebbe le maggiori responsabilità è minata proprio da queste continue pressioni che impediscono di fare il giornalismo che restituirebbe prestigio agli occhi del pubblico. L’assetto normativo attuale non protegge la reputazione delle persone più deboli e neppure permette una discussione pubblica ordinata e civile, è soltanto una clava in mano a politici e imprese. L’attivista di Ultima generazione sarà “sorvegliato semplice” di Roberto Maggioni Il Manifesto, 11 gennaio 2023 Un anno di restrizioni, ma non “speciali”, per l’ambientalista Simone Ficicchia. Le proteste fuori dal tribunale: “Arrestate la crisi, non i militanti”. Il ragazzo va sì sorvegliato per un anno, ma in modo semplice, non speciale. Alla fine persino l’accusa non se l’è sentita di assecondare in toto la richiesta della Questura di Pavia di applicare le misure della sorveglianza speciale contro l’attivista ambientalista Simone Ficicchia, 20 anni e nel curriculum movimentista alcune azioni dimostrative fatte negli scorsi mesi insieme al collettivo Ultima Generazione. Misure di sorveglianza che solitamente si applicano a presunti mafiosi, terroristi e criminali di un certo livello. LA COLPA DI SIMONE è invece quella di aver imbrattato con vernice lavabile il muro d’ingresso del teatro alla Scala di Milano e di aver incollato la mano al vetro di protezione della Primavera del Botticelli agli Uffizi di Firenze. Azioni dimostrative fatte per denunciare l’inerzia dei governi verso la crisi climatica che ci sta travolgendo. Il “contesto di queste condotte è comunque di limitata offensività” ha ammesso ieri in aula al Tribunale di Milano il pm Mauro Clerici riformulando le accuse nei confronti del ventenne. Sorveglianza semplice, che significa comunque una serie di prescrizioni nei comportamenti e controlli che dovranno essere poi stabiliti dai giudici che decideranno entro 30 giorni se Simone va sorvegliato e punito oppure no. “Arrestate la crisi climatica non gli attivisti” era scritto su un cartello tenuto in mano da una ragazza fuori dal tribunale. A sostenere Simone Ficicchia ieri mattina c’erano un centinaio di attivisti e collettivi come Ultima Generazione, Fridays For Future, Extinction Rebellion, Scientist Rebellion. Cantavano “non siamo vandali non siamo terroristi chiediamo libertà per tutti gli attivisti” e “you are not alone, you are not alone”. L’udienza era aperta al pubblico e dentro l’aula di tribunale sono risuonate frasi e parole inedite per quel palazzo: crisi climatica, estinzione, sopravvivenza del pianeta, umanità a rischio. Hanno parlato sia Simone che il suo avvocato Gilberto Pagani. “L’obiettivo delle nostre azioni non violente è la salvaguardia del futuro e per questo mettiamo in gioco i nostri corpi” ha spiegato il ragazzo. “Nelle azioni che abbiamo fatto c’è sempre il rispetto per le opere d’arte, scegliamo quelle che hanno vetri protettivi e usiamo una vernice che è subito lavabile”. Uscito dal tribunale Simone ha detto di essere fiducioso per la decisione che i giudici prenderanno entro 30 giorni. “Il discorso del mio avvocato ha commosso persino me, è stato potente”. Ai tanti giornalisti presenti ha ribadito che il solo fatto di essere lì, in tribunale, con accuse da codice mafioso, “è un’enorme assurdità”. A suo carico non ci sono al momento processi in corso e mai ci sono state condanne di alcun tipo. Nonostante ciò la richiesta arrivata nelle scorse settimane dalla Questura di Pavia è stata di sorveglianza speciale per un anno con obbligo di dimora nel comune di residenza, Voghera, con tutto quello che significa per un ragazzo di 20 anni che per lavoro, studio e piacere deve potersi muovere. “Dopo la mia richiesta di sorveglianza ci sono stati i tre arresti per il blitz al Senato e alcuni avvisi orali ad altri attivisti per azioni minori” ha ricordato il ragazzo ai giornalisti, “mi sembra che la repressione si stia inasprendo soprattutto verso chi sta iniziando a mobilitarsi ora”. Se verrà condannato promette di continuare a sostenere la causa con la consapevolezza “dei limiti delle restrizioni che mi daranno”. Dalla politica l’ex ministro del lavoro e deputato Pd Andrea Orlando ha presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: “Il rischio che si configura è che si verifichi una sproporzione tra offesa effettiva e sanzione che in realtà contrasti con gli stessi principi costituzionali”. Anche Unione Popolare, presente con le sue bandiere fuori dal tribunale di Milano, ha commentato con il segretario nazionale di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo “il problema è il clima, non la protesta. Gli attivisti non sono mafiosi” e Potere al Popolo “chi distrugge il pianeta è pericoloso non chi lo difende”. Nei giorni scorsi era circolato un appello firmato da Amnesty e altre Ong: “La sorveglianza speciale è completamente ingiustificata ed è espressione della crescente criminalizzazione nei confronti dell’attivismo ambientale”. Strage di Alcamo. Torture e indagini bluff, c’è del marcio in Procura? di Nicola Biondo IL Riformista, 11 gennaio 2023 27 gennaio 1976: due carabinieri vengono uccisi nella caserma vicino Trapani. Per la strage pagano 4 innocenti, torturati dagli uomini di Russo. Ma l’inchiesta del 2008 è piena di buchi, omissioni e testi “dimenticati”. Può un’inchiesta giudiziaria rimanere aperta per 12 anni senza che venga svolta alcuna significativa indagine? La risposta è sì: è successo a Trapani e non su un reato qualsiasi ma su uno dei più misteriosi cold case italiani, il duplice omicidio di due carabinieri - Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo - avvenuto la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1976 all’interno della caserma di Alcamo Marina. Se ciò non bastasse, a rendere tutto ancora più profondo e spaventoso in questa storia si parla di depositi di materiale fissile e armi (che nessuno ha mai voluto cercare), risultano manomesse le trascrizioni delle intercettazioni ed emerge il nome di un giudice che avrebbe chiuso un’inchiesta per torture su richiesta di alti ufficiali dei Carabinieri. Questo è, per titoli, ciò che emerge da un’indagine della disciolta commissione Antimafia sull’eccidio del 1976. Per la potenza dei depistaggi, i collegamenti con altri delitti, quelli di Impastato e Rostagno ma non solo, il caso Alkamar entra di diritto nell’armadio dei segreti della Repubblica disegnando una voragine senza fondo. Un segreto funzionale che solo in parte l’Antimafia ha rimosso. I confini visibili di questa voragine sono racchiusi nella storia di uno dei più gravi errori giudiziari: per la morte dei due carabinieri sono state condannate all’ergastolo quattro persone, mentre una quinta, il loro accusatore, muore in carcere in circostanze mai spiegate dopo aver ritrattato. Tutti sono stati pesantemente torturati per ottenere una falsa confessione. Dei quattro innocenti finiti nel tritacarne uno morirà dietro le sbarre, un secondo ci rimarrà 22 anni e gli ultimi due dovranno inventarsi una vita da latitanti per sfuggire alla cattura. Ci vorranno 36 anni e ben tre sentenze di revisione perché vengano scagionati da ogni accusa: l’errore giudiziario che ha bruciato le vite di quattro persone è costato allo Stato una decina di milioni per i risarcimenti. Nel 2008, dopo l’emersione degli abusi, a Trapani si aprono due nuove inchieste: una sull’eccidio del gennaio ‘76 e una sulle torture: chi le ha commesse e con quale obiettivo? Vecchie storie si dirà. Ma in realtà non è così. Nulla è più attuale e utile di una inchiesta archiviata per raccontare lo stato della giustizia in Italia, altro che riforma Cartabia. Nel gennaio 2020 l’inchiesta sul duplice omicidio viene chiusa con queste parole: “Rilevato che nell’ultimo decennio non sono stati compiuti atti istruttori e conseguentemente non sono emerse ipotesi investigative apprezzabili e degne di ulteriori approfondimenti, né in relazione alla individuazione degli autori della strage di Alcamo, […] chiede disporsi l’archiviazione del procedimento [...]”. A firmare la richiesta è un giovane magistrato, Maurizio Agnello procuratore aggiunto a Trapani. La stampa locale solitamente assai solerte nel beatificare ogni mollica lanciata dagli uffici delle procure questa volta tace. Nel 2022 la commissione Antimafia ha riaperto i faldoni dell’inchiesta trapanese e le sorprese non mancano: la quasi totalità dei documenti rimandano all’inchiesta precedente, quella del ‘76, terremotata come abbiamo detto da ben tre sentenze di revisione e falsata da una serie infinita di atti illegittimi, sparizioni di reperti e torture agli indagati per farli confessare. Sono solo quattro le deleghe alla polizia giudiziaria presenti nel fascicolo del Pm titolare Andrea Tarondo, il teste chiave viene interrogato solo una volta, nemmeno l’ombra di altri interrogatori o ulteriori indagini, non compaiono nemmeno le perizie autoptiche sulle vittime e l’ultimo interrogatorio è del 2009. Dodici anni di vuoto. Alkamar fa davvero storia a sé: di solito le intercettazioni vengono usate per creare un climax favorevole all’indagine anche se i fatti reali sono scarsi o inesistenti. Qui, al contrario, le intercettazioni sono dimenticate, inutilizzate e in almeno un caso manipolate. Ecco come. L’intercettazione manipolata - È il 5 settembre 2008. Uno dei carabinieri indagato per le torture, Giuseppe Scibilia, viene intercettato al telefono con un suo ex-collega, Diego Genna. Parlano proprio degli abusi: non c’è una trascrizione, solo una sintesi della polizia giudiziaria delegata alle indagini. Genna spiega “come si fosse occupato di detta pratica per incarico ricevuto dal Col. Russo e che la stessa era stata assegnata al Giudice Istruttore Leonardi. Ricordava come quest’ultimo, suo compaesano, lo avesse tranquillizzato dicendogli che “la legge per gli amici si interpreta e per gli altri si applica”. E che quindi poteva rassicurare i suoi superiori. Indagine archiviata e avocata all’epoca dei fatti dalla Procura generale”. Russo, ucciso da un commando mafioso nell’agosto del ‘77, è l’ufficiale a capo del dispositivo che si macchia delle torture, degli abusi e dei falsi verbali. I reati che il carabiniere Genna descrive sono molto gravi ma incomprensibilmente né lui né il giudice Leonardi, quello che avrebbe “interpretato la legge per gli amici e l’avrebbe applicata per tutti gli altri”, permettendo che si spalancassero le porte dell’ergastolo per quattro innocenti, vengono identificati: il militare e il giudice scompaiono dai radar dell’inchiesta. C’è di più. Dal testo fornito al Pm, e quindi anche alle parti lese, scompare un nome di un altro alto ufficiale che avrebbe agito sul giudice Leonardi per far chiudere l’inchiesta sulle torture, un nome che risulta ben chiaro nel nastro dell’intercettazione: è quello del generale, oggi in pensione, Antonio Subranni. Ecco la trascrizione dell’audio inedito perché manipolato: “Ma questa pratica - la voce è quella di Genna [n.d.r.] - io per anni inizialmente per incarico della buonanima del colonnello Russo, poi insomma di Subranni, eccetera eccetera, poi [parola poco comprensibile, sembra “andai”] dal giudice istruttore Leonardi, il quale Leonardi, quando io ogni tanto, ogni mese, quando scrivevano, volevano notizie mi diceva ogni tanto, “Genna, non ti preoccupare, io di origine marsalese sono”, avevamo un ottimo rapporto, mi dice, “Genna, stai tranquillo, gli dici ai tuoi superiori che la legge per gli amici si interpreta per gli altri si applica”. Tra migliaia di conversazioni possibile che questa sia l’unica “manipolata”, ci sono altri nomi che non finiscono agli atti? Domande senza risposte, l’Antimafia ha ottenuto i nastri ma una totale discovery non è stata compiuta, la fine della legislatura e lo scioglimento della Commissione hanno chiuso l’indagine. Ma sopratutto cosa c’entra il generale Subranni, al tempo maggiore e stretto collaboratore di Russo, posto che non c’è un solo atto di indagine a sua firma nel caso di Alcamo Marina? Uno strano incrocio: il nome dell’ufficiale l’anno dopo finirà nel registro degli indagati per episodi di depistaggio nell’omicidio di Giuseppe Impastato. A casa dell’attivista, subito dopo l’omicidio, furono illegalmente sequestrati una serie di documenti tra i quali una carpetta dal titolo “strage di Alcamo Marina”, un compendio dell’attività di contro-informazione sulla vicenda. Testimonianze e documenti puntano il dito sull’ufficiale: fu Subranni a ordinare quel “sequestro informale” ma il reato era prescritto, il fascicolo finì in archivio. La carpetta di Impastato sparisce, nessuno oggi sa dove sia finita. A 32 anni di distanza dall’eccidio si rimette, quindi, in moto un meccanismo, una catena di comando che dalla Questura di Trapani decide di manipolare e far sparire un nome (solo uno?) dal rapporto alla Procura. Dove però se ne accorge perché evidentemente le intercettazioni non vengono ascoltate. Ci sono altre due nastri “dimenticati”. Uno proviene dal cuore delle investigazioni, di quel dispositivo messo a punto per torturare e consegnare ai tribunali una falsa verità. A parlare questa volta è il figlio di Giovanni Provenzano tra gli indagati per gli abusi, anche lui carabiniere: in una lunga conversazione con la sorella del 13 settembre 2008 non solo ammette le torture e i falsi compiuti a danno degli arrestati ma afferma, “i due carabinieri furono sequestrati e poi uccisi”. Una rivelazione, un dato del tutto nuovo perché come attestano le perizie le due vittime furono uccise nel sonno. Anche qui, come in precedenza, il Pm Tarondo non chiama a testimoniare il teste. E tutto tace anche quando Scibilia e il solito Genna il 18 settembre 2008 parlano della strage. In questo contesto Scibilia chiede all’ex-collega, “…ma tu a La Colla lo conosci o no?…”. E qui si dovrebbe aprire una prima voragine. La Colla è un nome pesante nelle vicende criminali trapanesi, un file che oggi è finito sotto i riflettori della Procura di Firenze per l’ennesima tranche dell’inchiesta sulle bombe del 1993. Perché si tratta di un carabiniere che nel settembre di quello stesso anno venne arrestato (e poi condannato) con l’accusa di gestire un’arsenale di armi e munizioni da guerra in quella che è la Corleone del trapanese, vale a dire Alcamo a pochi chilometri dal luogo dell’eccidio del ‘76. Gli investigatori, Polizia e Procura, che hanno gestito quelle indagini, non possono non sapere chi è La Colla, eppure tutto tace. Pochi mesi dopo il teste principale dell’inchiesta sull’eccidio, un poliziotto di Alcamo, viene interrogato e stabilisce una correlazione tra l’arsenale del ‘93 e i fatti del ‘76. Calma piatta. La Colla non viene identificato, nessuno chiede ai due ex-carabinieri cosa c’entri nella storia di Alcamo Marina. In pochi mesi il fascicolo sulle torture viene chiuso, è passato troppo tempo. Dodici anni dopo, nel 2020, l’inchiesta rimasta al punto zero viene chiusa con le parole durissime del procuratore Agnello. Nessuna riforma Cartabia riuscirebbe a sanare la ferita di un’inchiesta tenuta aperta per 12 anni senza alcuna attività di investigativa. Il niet al Parlamento - Incredibilmente la storia si ripete nel 2022: l’indagine dell’Antimafia sbatte contro il muro di un’inchiesta vuota, altre manipolazioni e nuovi segreti. Ma questa volta c’è un unicum, qualcosa di mai successo nel corso di un’indagine parlamentare: i comandi territoriali dei carabinieri in Sicilia coinvolti nelle indagini e nei depistaggi non rispondono all’Antimafia. Il Comando Generale dell’Arma chiede più volte di far entrare i consulenti negli archivi e mettere a disposizione la documentazione ma la risposta è il silenzio: certi armadi devono rimanere chiusi, la Commissione, e quindi il Parlamento, non può entrarci. Il segreto di Stato non può essere opposto a un’indagine parlamentare ma in questo pezzo di Sicilia per l’eccidio di Alkamar non conosce limiti. Perché? Ma soprattutto è ammissibile una tale menomazione dei poteri ispettivi del Parlamento? Fine prima puntata - segue... Caporalato, restituire ai lavoratori le somme dovute non incide sul sequestro di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2023 Per lo sfruttamento del lavoro non vale quanto previsto per i reati tributari, in cui il pagamento del debito riduce la misura della confisca. Prevale l’interesse dello Stato ad un corretto mercato del lavoro. Nel reato di caporalato, il pagamento da parte del datore di lavoro, dopo il sequestro preventivo delle ore di straordinario non pagate, non incide sulla somma oggetto di sequestro preventivo ai fini della confisca. L’estinzione, anche parziale, di un debito ha effetto nei reati tributari, ai fini della determinazione del profitto confiscabile, ma il principio non può essere esteso nel caso del reato previsto dall’articolo 603-bis del Codice penale. Nei reati tributari, infatti, entra in gioco esclusivamente l’interesse dell’Amministrazione finanziaria, mentre nel caporalato sono coinvolti gli interessi dei lavoratori, degli enti previdenziali, assistenziali e assicurativi. E, in generale, l’interesse dello Stato a che il mercato del lavoro osservi correttamente le norme giuslavoristiche. Con queste motivazioni la Corte di cassazione, conferma dunque il sequestro nel caso esaminato, pur accogliendo il ricorso della società in merito alla quantificazione della cifra, per un difetto di motivazione sul numero di lavoratori coinvolti nelle violazioni. Straordinari non pagati o indicati come “premio” - Al datore di lavoro, indagato, era stato contestato il mancato pagamento di un numero elevato di ore di straordinario, retribuite in busta paga solo in parte e sotto la voce “premio”. Una violazione che aveva riguardato alcuni lavoratori, non tutti. Alla contestazione sulle paghe non corrisposte si univa quella sulle condizioni di lavoro non rispettose delle norme su sicurezza e igiene. Nell’ipotizzare il fumus del reato, avevano pesato anche le intercettazioni, dalle quali emergeva che gli indagati avevano più volte minacciato i dipendenti, imponendogli di adeguarsi al sistema che vigeva in azienda “inducendo così uno stato di soggezione e sudditanza”. Per la Suprema corte basta per considerare, in astratto, l’esistenza del reato. I giudici di legittimità chiariscono che “ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno, non deve essere inteso come una condizione tale da annientare in modo assoluto la libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose”. A questo c’è da aggiungere che, per ipotizzare il reato, non serve un quadro probatorio pregnante: basta che siano richiamati i risultati dell’indagine che rendono sostenibile l’imputazione. È quanto avvenuto nel caso esaminato. Nel profitto differenze retributive e benefici - La Cassazione, per completare il quadro, ricorda che, ai fini della confisca, nella nozione di profitto del reato non entrano solo le differenze retributive rispetto a quanto dovuto in base ai contratti di lavoro di categoria, ma anche tutti i benefici aggiunti di tipo patrimoniale, collegabili al reato in un rapporto di causa-effetto. Nello specifico l’ordinanza è annullata con rinvio, per un difetto di motivazione sull’ammontare della cifra sequestrata, rispetto all’illecito arricchimento. Tutto ciò ribadendo però che le somme date ai dipendenti dall’indagato vanno considerate una restituzione, che lascia impregiudicata la necessità del sequestro ai fini della confisca. Questo, precisa la Cassazione “risponde all’intento del legislatore di reprimere più gravemente il fenomeno criminale sotteso alla fattispecie di cui si tratta, garantendo la ragione dello Stato e lasciando impregiudicato il diritto della persona offesa dal reato ad ottenere la restituzione di quanto dovuto, da determinarsi secondo i normali criteri che attengono alla materia giuslavoristica, in aggiunta al risarcimento del danno”. Sicilia. I detenuti con problemi psichici in lista d’attesa per andare in comunità di Salvo Palazzolo La Repubblica, 11 gennaio 2023 Fino a 24 mesi per il trasferimento nelle strutture sanitarie. In Sicilia ce ne sono soltanto due, a Naso e Caltagirone. Le promesse della politica per nuove sedi rimaste lettera morta. Il dolore dei familiari dei ragazzi che si sono suicidati. Fino a poche settimana fa, c’era solo uno psichiatra ad occuparsi dei 180 detenuti con gravi disturbi mentali che si trovano reclusi nel carcere palermitano di Pagliarelli. Adesso, sono tre. Ma la situazione resta grave, come denunciato ieri dal comandante della polizia penitenziaria Giuseppe Rizzo, nel corso della riunione di redazione di Repubblica tenuta al Pagliarelli: “Ci sono liste di attesa fino a due anni per poter accedere alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. In Sicilia ci sono solo due “Rems”, a Caltagirone e Naso (Messina), che possono ospitare al massimo cinquanta persone: si tratta di strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reati affetti da disturbi mentali, ritenuti socialmente pericolosi. In molti casi sono tossicodipendenti. Le “Rems” sono residenze specializzate gestite dal Dipartimento di salute mentale delle aziende sanitarie, le uniche in grado di occuparsi di casi difficili. Da mesi, il garante siciliano dei detenuti, Giovanni Fiandaca, rilancia l’allarme: “Il tema della salute mentale e dell’assistenza psichiatrica in carcere dovrebbe costituire una priorità, anche per ragioni di difesa sociale”. Nei mesi scorsi, l’allora assessore alla Salute Ruggero Razza, aveva annunciato l’apertura di altre due strutture in Sicilia: “Una a Caltanissetta, una nella Sicilia occidentale”. Ma ancora si attende. Promesse erano arrivate anche dall’ex presidente dell’Assemblea regionale Gianfranco Micciché: “Sarei disponibile a portare avanti un disegno di legge che normi le Rems qui in Sicilia”. Un’altra promessa rimasta lettera morta. Mentre le strutture penitenziarie continuano a farsi carico di situazioni complesse, quasi al limite. “In tutta Italia, la Sicilia è la seconda regione per numero di detenuti che si tolgono la vita”, ha denunciato il garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma. Drammatica la denuncia fatta sulle pagine di Repubblica da Ino Vitale, ex poliziotto delle Volanti, uno dei primi ad arrivare in via D’Amelio: “L’inferno pensavo di averlo già visto quel pomeriggio del 19 luglio 1992. Invece, l’inferno dovevo ancora attraversarlo: mio figlio Roberto me lo raccontava ogni volta che andavo a trovarlo al Pagliarelli. Era in cura psichiatrica, anche il giudice aveva detto che doveva essere trasferito in una comunità nonostante fosse stato arrestato per una tentata rapina in una parafarmacia”. Ma dal maggio 2022 una comunità non si è trovata per Roberto. E lui è crollato: il 28 agosto, era solo in cella, ha fatto un cappio con le lenzuola e si è lasciato cadere giù. Roberto Vitale è morto il 15 settembre all’ospedale Civico, dopo una terribile agonia. “Aveva 29 anni - ci ha raccontato il padre - e una grande gioia di vivere”. Continua a chiedere giustizia anche Lucia Bua, è la mamma di Samuele, un altro giovane trovato impiccato al Pagliarelli, in una cella d’isolamento. Era il maggio 2018. Pure Samuele aveva 29 anni ed era in cura per una patologia psichiatrica, gli era stata diagnosticata una schizofrenia, era finito dentro dopo una violenta lite in casa. In carcere ha resistito sei mesi. “Il disagio non è solo per chi soffre e per gli operatori - è un’altra delle riflessioni emerse dall’incontro di redazione del nostro giornale in carcere - ma anche per i compagni di cella, che in molti casi si trovano ad assistere chi sta davvero male, tutto il giorno”. Sicilia. Diritto all’informazione negato dietro le sbarre: internet resta un tabù di Marta Occhipinti La Repubblica, 11 gennaio 2023 L’informazione online per i detenuti è un diritto teorico, non attuato finora negli istituti penitenziari. E la Sicilia si uniforma all’Italia, dove a eccezione di qualche caso più all’avanguardia, il gap tecnologico con Paesi come, ad esempio, la Francia - dove quattro anni fa in tre carceri è stato testato un sistema intranet di terminali digitali per migliorare la vita dei detenuti - resta ancora marcato. Nonostante la possibilità di accesso a internet da parte dei detenuti sia stata oggetto negli ultimi anni di diverse sollecitazioni da parte del Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in linea con le Regole penitenziarie europee del 2006, che avvicinano il più possibile il trattamento dei detenuti alle condizioni di vita, studio e lavoro delle persone libere, l’attuazione logistica di un diritto all’informazione online resta ancora difficile. I motivi sono la mancanza di dotazioni di strumenti informatici, come pc o tablet, e di interventi tecnici per controlli su hardware, software e navigazione, come previsto dalle linee guida Dap. A ciò si aggiunge la mancata realizzazione di reti intranet con standard di sicurezza avanzati nelle stesse case circondariali. In questa direzione si è già mosso il Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria che sta provvedendo all’aumento di cablaggi nelle carceri. “Ho provato a sollevare diversi anni fa il problema dell’accesso all’informazione, anche sui siti dei quotidiani, negli istituti penitenziari siciliani - dice Giovanni Fiandaca, Garante regionale dei diritti dei detenuti. Purtroppo le condizioni strutturali dei 23 istituti dell’Isola non consentono interventi tecnici appropriati per impianti internet. E dinanzi alle difficoltà organizzative, la più facile e immediata delle strategie per superare il gap informativo è il ritorno alla carta: la dotazione di quotidiani cartacei o settimanali negli istituti penitenziari. La consultazione delle copie negli spazi comuni o per una fruibilità individuale è così molto più semplice. Come Garante verificherò di persona le disponibilità economiche in essere per attivare abbonamenti con i quotidiani”. La richiesta di acquisto di giornali corrisponde tuttavia a una piccola fetta della popolazione dei detenuti. “Un basso livello culturale tra i reclusi di Media Sicurezza spesso concorre al deficit di informazione. Ma è nostro compito garantire a tutti un diritto”, continua Fiandaca. E l’accesso totalmente inibito alla rete penalizza soprattutto i 70 studenti detenuti iscritti ai quattro poli penitenziari universitari di Sicilia. L’Università di Palermo ha dotato di cinque computer ai fini di studio Pagliarelli e Ucciardone, ma la fruizione resta solo offline. “Secondo la Corte europea il diritto di connessione a internet integra un diritto umano e l’accesso alla rete in forma intranet, ovvero con portali web controllati, è la direzione verso cui l’Italia si sta muovendo, su modelli come il Polo universitario di Sassari che ha sperimentato le lezioni online per gli studenti - dice Paola Maggio, delegata del Rettorato per i Poli penitenziari universitari. In Sicilia, le strutture hanno problemi oggettivi di sicurezza e di personale di assistenza per questo tipo di attività”. Intanto internet e computer per i detenuti siciliani restano preclusi. Nonostante la possibilità di tenere e utilizzare in cella e nelle sale comuni un pc, per studio o lavoro, sia previsto dal Dpr 230/2000, l’acquisto di strumenti informatici non rientra tra le priorità verso cui far convergere i pochi fondi a disposizione per gli istituti, dove al contrario occorrono manutenzioni, impianti di riscaldamento e ampliamento di spazi per la socialità. “Ogni istituto è un caso a sé e necessita di organizzazioni diverse - conclude il Fiandaca - ma qualsiasi diritto, anche se di una minoranza, va tutelato”. Lombardia. Lab For Change, il progetto per aiutare i giovani detenuti di Stefania Lobosco cosedicasa.com, 11 gennaio 2023 Enaip Lombardia, con la collaborazione di Leroy Merlin, lancia una campagna volta ad assegnare borse lavoro a giovani detenuti per svolgere laboratori di falegnameria e acquisire competenze, al fine di raggiungere autonomia e indipendenza ed essere reinseriti nella società. Corsi di formazione per aiutare i giovani detenuti ad imparare e acquisire una professione, al fine di essere reinseriti in società ed essere autonomi nella costruzione del proprio futuro; questo è il nobile obiettivo alla base del progetto di Enaip Lombardia, realizzato con il coinvolgimento di Leroy Merlin, azienda specializzata in bricolage e fai-da-te, edilizia, giardinaggio, decorazione e arredo bagno. Lab For Change è l’idea alla base della campagna realizzata da Publicis Italy / Le Pub per lanciare l’iniziativa.  Ogni anno Leroy Merlin organizza corsi di formazione per i propri collaboratori, l’intento è quello di sviluppare competenze volte ad aiutare al meglio i clienti per progettare il loro futuro. Quest’anno l’azienda insieme ad Enaip Lombardia si è impegnata nel creare borse lavoro, volte a dare un futuro anche a chi non ne immagina uno: i detenuti dell’Istituto Penale Minorile Beccaria. All’interno dell’istituto sono stati organizzati laboratori di falegnameria e negli ultimi mesi nove ragazzi hanno ottenuto certificazioni di conoscenze e abilità. A questo link è possibile visualizzare il video del progetto. Lab For Change ha mosso i primi passi in uno degli istituti penali minorili più importanti d’Italia, attraverso borse lavoro finanziate da una raccolta fondi congiunta di Leroy Merlin con i suoi partner. Uno dei ragazzi che ha seguito il laboratorio inizierà una collaborazione professionale in Leroy Merlin. Grazie anche alla collaborazione con le associazioni Rò La Formichina, Semi Di Libertà, Bricolage del Cuore e Altromodo, l’iniziativa proseguirà nel 2023 in altri istituti penali minorili per formare più giovani detenuti nella speranza e l’augurio di poter progettare una nuova vita. Palermo. Antonio Balsamo: “Uno sportello nel penitenziario per trovare lavoro fuori” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 11 gennaio 2023 Intervista al presidente del tribunale. “Entro qualche mese negli istituti penitenziari di Palermo ci sarà uno sportello per fare incontrare domanda e offerta di lavoro. È un’iniziativa senza precedenti”, spiega il presidente del tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, che di recente ha ripreso una legge del 1975 e ha convocato il Consiglio di aiuto sociale, un istituto che sembrava ormai dimenticato. “Il reinserimento dei detenuti nella società è possibile, ma è necessario che tutta la comunità se ne faccia carico”, dice al termine di una giornata di lavoro frenetica: “Stamattina, ho presieduto 40 cause di separazione - spiega - riusciamo ormai a fissare le udienze a 21 giorni”. Nel pomeriggio, fra vari incontri, anche un momento di studio sul nuovo codice di procedura penale: “Una riforma che prevede alcune importanti innovazioni, come l’udienza filtro e il calendario del processo - dice - ma è prevista anche una cosa che mi preoccupa molto: d’ora in poi, per procedere su un sequestro di persona sarà necessaria una querela di parte”. Cosa la preoccupa in particolare? “Per i sequestri attuati dalle mafie, le vittime e i loro familiari potrebbero risultare parecchio intimiditi o comunque condizionati. E, dunque, potrebbero non denunciare. È quello che accadde nella prima fase del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del collaboratore di giustizia che ha svelato i segreti della strage di Capaci. Se oggi venisse rapito un familiare maggiorenne per indurre al silenzio un collaboratore, il processo contro i responsabili del sequestro non si potrebbe celebrare senza una querela della vittima”. Con la querela di parte il legislatore ha provato a sfoltire il carico dei processi… “Per questo tipo di reati serve a poco. A Palermo, abbiamo solo 40 fascicoli per sequestro di persona”. Parliamo di carcere. Chi fa parte del Consiglio di giustizia sociale? “Attorno a un tavolo si sono ritrovati i rappresentanti dei datori di lavoro, sindacati, associazioni, l’università, il Comune, la Regione, la Curia, insieme con il tribunale di sorveglianza, il tribunale per i minorenni, l’amministrazione penitenziaria, la prefettura. Un ruolo importante lo sta svolgendo la Camera di commercio per l’istituzione dello sportello”. Quanto è importante parlare di carcere? “È fondamentale, per questo ho letto con grande interesse dell’iniziativa di Repubblica. Ho anche aderito all’iniziativa della Camera penale e dell’Università che porterà a Pagliarelli un gruppo di studenti: ascolteranno i detenuti e poi entreranno in dialogo con loro. Un modo per sensibilizzare al tema della risocializzazione, prospettiva che mi sembra più importante rispetto al solo concetto di rieducazione”. Per quale ragione? “A livello internazionale si parla di risocializzazione, una dimensione che coinvolge tutta la comunità. E pone anche la questione di ripagare la società del danno compiuto”. Nel dibattito pubblico si alternano spesso posizioni estreme sul carcere, che vanno dal disinteresse per il tema al senso di sfiducia per il cambiamento… “Nel corso della mia attività di giudice ha avuto modo di sentire i racconti di chi è cambiato per davvero, penso a Gaspare Spatuzza, uno dei responsabili delle stragi. In questa prospettiva, il Consiglio di aiuto sociale è uno strumento straordinario per ridare speranza”. Come si costruisce il cambiamento? “Il futuro va programmato quando i detenuti sono in carcere. Come dire: “Ti diamo un’opportunità, ma devi impegnarti per questo cambiamento”. Trent’anni dopo le stragi, quanto le mafie sono ancora un’ipoteca per il cambiamento? “Come diceva Paolo Borsellino, Cosa nostra tende sempre a porsi come istituzione parallela e alternativa allo Stato. I mafiosi continuano a fare spedizioni punitive, per gestire il territorio. In questa prospettiva, la minaccia di sequestri di persona organizzati dai mafiosi non è peregrina e la necessità di querela per perseguire questi reati potrebbe rappresentare davvero un ostacolo per il cammino della giustizia”. Torino. Ipm: carenze strutturali, rivolte notturne e una speranza grazie a 25 milioni di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 11 gennaio 2023 Durante la notte di Halloween al Ferrante Aporti è scoppiata una rivolta, capeggiata da un baby rapinatore milanese, e le tensioni sono proseguite per diversi giorni. Diverse celle sono state distrutte e la capienza dell’ipm è stata ridotta da 46 a 35 posti. Che la situazione all’interno del Ferrante Aporti fosse critica era noto e l’evasione del sedicenne egiziano non ha sorpreso più di tanto i sindacati di polizia penitenziaria che avevano ripetutamente segnalato le carenze strutturali dell’istituto e quelle di organico del personale in servizio nel complesso di via Berruti e Ferrero. Da tempo, inoltre, al carcere minorile di Torino, già competente per Piemonte, Liguria, Valle d’aosta e la provincia di Massa Carrara, vengono inviati anche ragazzi da Liguria e Veneto a causa delle chiusure (parziali o totali) di centri come Milano e Treviso. Infine, come se non bastasse, la rivolta scoppiata lo scorso 31 ottobre ha avuto conseguenze pesantissime. Durante la notte di Halloween, i giovani detenuti, capeggiati da un 14enne milanese, hanno incendiato e distrutto diverse celle e i disordini si sono conclusi con un bilancio di 4 agenti feriti e 11 letti inutilizzabili. La capienza massima è stata quindi portata da 46 a 35 posti e molto spesso i “nuovi arrivati” restano per diversi giorni nel centro di prima accoglienza Radaelli (all’interno dello stesso complesso) in attesa di una sistemazione. “Da anni denunciamo senza essere ascoltati, le criticità che si ripercuotono quotidianamente sull’esiguo personale che opera al Ferrante Aporti”, attaccano i vertici del sindacato Osapp. Secondo Vicente Santilli e Donato Capece, segretario regionale e generale del Sappe è necessario che “le politiche di gestione e di trattamento siano adeguate al cambiamento della popolazione detenuta minorile”. Nell’ambito del Pnrr oltre 25 milioni di euro sono stati stanziati per la ristrutturazione del Ferrante Aporti: “Una grande opportunità che deve essere sfruttata nell’ottica di una progettualità di ampio respiro - afferma il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano -. Ne ho parlato con il sindaco Lo Russo e ho scritto al ministero chiedendo che la Città e il territorio siano coinvolti. L’intervento deve essere pensato su tutto il complesso che occupa una vasta area accanto alla Procura e al Tribunale per i Minori”. Anche per Mellano il Ferrante Aporti deve essere adeguato alle nuove caratteristiche della popolazione carceraria: “Parliamo soprattutto di minori non accompagnati che spesso si aggregano in bande o gruppi territoriali. La mia speranza, da garante, è che il carcere sia sempre l’ultima scelta, ma dovendo ristrutturarlo non si può non intervenire sulla qualità degli spazi. Come la saletta per le visite o le stanze del Cpa. E ragionare in un’ottica di inserimento nel contesto urbano e cittadino”. L’evasione di un 16enne egiziano Said è arrivato a Torino a dicembre con un ordine di custodia cautelare disposto dal gip presso la Procura di Genova per rapina aggravata. Compirà 17 anni fra pochi mesi, è nato in Egitto ed è entrato in Italia come “minore non accompagnato”. È un ragazzo “vivace e carismatico” e la sua destinazione sarebbe dovuta essere l’istituto penale minorile del Ferrante Aporti, ma a causa del cronico sovraffollamento e dell’indisponibilità di posti letto, è rimasto sempre nel vicino centro di prima accoglienza Umberto Radaelli. Said non si è lasciato sfuggire l’occasione e ha approfittato delle misure di sicurezza attenuate all’interno del Cpa per progettare un’evasione da film. Per almeno tre settimane ha scavato un buco nella parete coperta dal cassone dell’avvolgibile, proprio sopra finestra della sua stanza. Con ogni probabilità ha utilizzato uno scalpello artigianale, forse realizzato modificando una posata sottratta in mensa e nessuno si è mai accorto del suo meticoloso lavoro di muratura. È riuscito persino a nascondere i detriti e nella notte tra lunedì e martedì, quando ha capito che il suo trasferimento nel carcere minorile era ormai imminente, ha deciso di entrare in azione. Sfoggiando un’abilità da contorsionista si è infilato nel cassone, lo ha richiuso senza fare troppo rumore e attraverso il foro nel muro si è calato nel cortile e ha raggiunto indisturbata la zona dei parcheggi il parcheggio. A questo punto fra lui e la libertà non restava che il muro di cinta, ma non è ancora chiaro se sia riuscito a scavalcarlo o se si sia nascosto dietro qualche auto aspettando l’apertura del cancello per l’entrata o l’uscita di qualche veicolo di servizio. Per scoprirlo e ricostruire tutti i momenti dell’evasione, gli agenti della polizia penitenziaria stanno visionando i filmati delle telecamere di videosorveglianza, ma ormai Said potrebbe essere già lontano. La sua assenza è stata infatti scoperta molte ore dopo quando il personale è entrato nella stanza. Roma. Incendio nel carcere minorile: cinque intossicati romatoday.it, 11 gennaio 2023 A prendere fuoco, probabilmente dopo una protesta, materassi e coperte. Gli intossicati portati dal 118 al Pertini. Momenti di paura nel carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma, dove un incendio è scoppiato al primo piano dell’edificio di via Giuseppe Barellai, in due celle dichiarate poi inagibili. Intossicate cinque persone. Ad essere trasportati dal 118 all’ospedale Pertini, due giovani detenuti e tre agenti. Non sarebbero in gravi condizioni. Secondo quanto appreso, due detenuti avrebbero dato fuoco ad alcune suppellettili all’interno della cella. Da capire se il gesto rientrerebbe in una forma di protesta. In fiamme anche alcuni materassi. Sul posto la polizia penitenziaria e i vigili del fuoco che hanno spento immediatamente l’incendio.  Il giorno dopo il grave incendio provocato da alcuni detenuti ospiti del carcere minorile di Casal del Marmo, l’ira del sindacato autonomo polizia penitenziaria è rivolta a tutti coloro che non hanno raccolto, in questi mesi, i reiterati allarmi dei rappresentanti sindacali dei baschi azzurri: “Le fiamme ed il denso fumo propagato potevano essere letali”, ricostruisce e denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe, esprime vicinanza e solidarietà ai poliziotti di Casal del Marmo. “I poliziotti sono stati tempestivi ad intervenire, provvedendo alla provvidenziale uscita di tutti i detenuti dalle celle per condurli in luoghi più sicuri della struttura. Tanto più che ieri, a Casal del Marmo, era responsabile della sorveglianza generale un agente bravissimo ma comunque chiamato ad un compito ben oltre le sue competenze. Sono poi intervenuti i vigili del fuoco, che hanno domato le fiamme, anche se alcuni poliziotti e detenuti sono dovuti ricorrere alle cure del Pronto Soccorso. Abbiamo apprezzato che sul posto era presente anche il Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari”.  Busto Arsizio. Ascolto, arte, lavoro. Tris di iniziative educative per i detenuti di Riccardo Canetta varesenoi.it, 11 gennaio 2023 Presentati tre progetti promossi Telefono Amico, cooperativa sociale Intrecci e associazione l’Oblò e patrocinati dall’amministrazione comunale. “La città è presente”, ha osservato l’assessore Reguzzoni, rivolgendo però un richiamo “alla responsabilità” ai Comuni limitrofi. Tre iniziative educative dedicate ai detenuti della casa circondariale di Busto Arsizio realizzate da alcune realtà del territorio e patrocinate dall’amministrazione comunale. A promuoverle sono l’associazione Telefono Amico odv, la cooperativa sociale onlus Intrecci e l’associazione l’Oblò ets. “Tre attività che coinvolgono i detenuti in modi diversi, dal punto di vista sociale, psicologico, artistico e anche sotto il profilo del lavoro e della “restituzione” alla società”, ha spiegato l’assessore all’Inclusione sociale Paola Reguzzoni durante la presentazione dei progetti questa mattina in municipio. “Purtroppo la recidiva riguarda la maggioranza ragazzi, spesso molto giovani, presenti oggi in carcere - ha aggiunto l’esponente di giunta -. Chi viene incarcerato più volte, oltre a non valorizzare la propria esistenza, rappresenta un danno per la collettività”. Questo tris di iniziative mira proprio a scardinare questo meccanismo. Il direttore della casa circondariale Orazio Sorrentini ha ringraziato il Comune: “Nei dodici anni in cui ho svolto questo incarico, le amministrazioni che si sono susseguite non ci hanno mai fatto mancare la loro attenzione”. “La città è presente”, ha confermato l’assessore, facendo però notare che “non tutti i detenuti sono di Busto”. Ecco quindi il richiamo “alla responsabilità” dei Comuni limitrofi, affinché aderiscano al tavolo ad hoc che verrà istituzionalizzato dopo l’individuazione del nuovo garante dei detenuti. Con l’auspicio di “un impegno economico anche da parte loro”. Ascolto telefonico rivolto a chi è solo - Entrando nel merito dei progetti, l’associazione Telefono Amico di Busto presenta “Una voce amica in ascolto”. “Un servizio in favore dei non pochi detenuti privi di riferimenti familiari e affettivi - ha precisato Sorrentini -. Si tratta di soggetti che non effettuano colloqui visivi e telefonate: si può immaginare il loro sconforto e la loro solitudine”. Il progetto prenderà il via nei prossimi giorni e verrà attuati ogni lunedì mattina. I colloqui telefonici - in forma anonima e riservata - avranno la durata di circa mezzora. “Cercheremo di creare fiducia nostri confronti, permettendo ai detenuti di aprirsi e di condividere le loro sensazioni - ha spiegato Maria Antonietta Ferrario, presidente dell’associazione. Col nostro intervento cercheremo di ordinare pensieri, tendando di smussare gli aspetti che creano più disagio, individuando spunti per ripartire. Inizieremo con pochi volontari a disposizione specificamente per questo servizio che ci auguriamo possa essere un progetto pilota”. “Sarà una fase di rodaggio e sperimentale di un progetto che potrà anche essere ampliato”, ha aggiunto Valentina Settineri, capo area trattamentale. Un intervento di pubblica utilità - La cooperativa Intrecci promuove invece, nell’ambito del progetto Pixel in collaborazione con Enaip, un intervento di pubblica utilità: a fine mese, cinque detenuti si dedicheranno alla pulizia e all’imbiancatura del piano terra di Palazzo Cicogna. “Questa azione ha un’importante valenza sociale in termini di restituzione alla collettività”, ha evidenziato Giovanni Formigoni. Palazzo Cicogna, sede delle mostre cittadine, “è la destinazione ideale - ha fatto notare l’assessore Reguzzoni -. Il fil rouge di queste iniziative è la cultura. Quella del rispetto ma anche quella del perdono e dell’offerta di una seconda opportunità”. “Questi lavori di pubblica utilità, da inquadrare nell’ambito del trattamento rieducativo, potranno essere compiuti eccezionalmente senza essere ammessi al cosiddetto lavoro esterno - ha puntualizzato Sorrentini -. Dal 2018 è possibile coinvolgere i detenuti, mentre solitamente si tratta di una sanzione sostitutiva al carcere. C’è una sorta di resistenza, poiché il detenuto lavora gratis. E infatti questa attività non deve mai essere pregiudizievole rispetto a esigenze di studio, lavoro e familiari del detenuto stesso”. Il teatro come terapia - L’associazione L’Oblò lavora da circa 15 all’interno della casa circondariale con teatro e drammaterapia. Il 20 gennaio tornano le cene con delitto dopo uno stop di tre anni imposto dalla pandemia. “In occasione della Giornata nazionale del teatro in carcere che ricorre il 27 marzo, vogliamo creare alcuni eventi - ha anticipato la vicepresidente Sara Terlizzi -. Il 24 marzo ci sarà una nuova cena con delitto in carcere con gli attori detenuti. Sarà un’occasione di incontro, scambio e conoscenza. Il giorno successivo realizzeremo un convegno, laboratori e lo spettacolo teatrale Pinocchio, scritto dalla nostra presidente Elisa Carnelli con gli attori della casa circondariale di Busto e portato in scena dalla compagnia del carcere di Bollate”. L’obiettivo è far conoscere questo tipo di esperienze che promuovono la ricostruzione dei legami fra persone recluse e società civile. “Questi interventi delle associazioni sono una panacea e rappresentano un aiuto sostanziale anche per noi”, ha osservato il commissario Giuseppe Di Girolamo, vicecomandante della Polizia penitenziaria. Il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere diventa un libro-inchiesta firmato da Nello Trocchia di Lucio Luca La Repubblica, 11 gennaio 2023 Il libro, pubblicato da Laterza, ripercorre il pomeriggio di follia del 2020 nella struttura penitenziaria. La prefazione è di Ilaria Cucchi. “La storia è pesante, ti aiuto a trovare testimoni e riscontri. Vieni a Napoli. Nun perd tiemp…”. Era estate, un paio di giorni e tutta l’Italia avrebbe festeggiato il Ferragosto. Faceva tanto caldo a Santa Severa dove Nello Trocchia, giornalista de “Il domani” stava trascorrendo le vacanze con la famiglia. “È lì, in spiaggia, mentre tenevo per mano mia figlia in una mattina d’estate, che è iniziata la mia inchiesta giornalistica sul pestaggio di Stato compiuto il 6 aprile 2020 da 283 poliziotti nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere”. Pestaggio di Stato è proprio il titolo del libro inchiesta di Trocchia pubblicato da Leterza, un resoconto dettagliato e agghiacciante di un pomeriggio di follia in un pezzo di territorio italiano da parte di un pezzo delle istituzioni italiane. Un’ignobile mattanza, come è stata definita dagli inquirenti. “Avevo solo una certezza - spiega il giornalista - che quella storia sarebbe diventata una storia italiana, grave, imponente e che avrebbe potuto segnare per anni il racconto delle carceri nel nostro paese”. La fonte di Trocchia lo prega di raggiungerlo a Napoli, “avevo intuito che c’era molto di più da raccontare, che non c’erano solo rivolte e caos, ma anche altro, nodi che non riuscivo a sciogliere. Dovevo solo scoprire come, mettere insieme i pezzi”. Ma che cosa è successo realmente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020? Quel pomeriggio 283 agenti della polizia penitenziaria muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, entrano nel reparto Nilo del carcere Francesco Uccella. Irrompono nelle celle e prendono a calci, pugni, schiaffi i detenuti. Alcuni vengono rasati a forza. Il pestaggio dura ore, prosegue nei corridoi, lungo le scale. È, appunto, una mattanza. Nei giorni successivi i fatti vengono denunciati, ma il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria respinge le accuse. Con ritmo serrato, Nello Trocchia ricostruisce l’inchiesta che ha reso pubblici i video delle violenze riprese dalle telecamere di sicurezza, la testimonianza e le storie delle vittime e dei carnefici, il depistaggio operato dalla catena di comando, la noncuranza della politica. “Santa Maria Capua Vetere è il fallimento della struttura sociale ed istituzionale del nostro Paese - scrive nella prefazione Ilaria Cucchi - E’ l’abdicazione del sistema Giustizia. Questa inchiesta di Nello Trocchia avrebbe dovuto, in uno Stato civile e democratico, far cadere il governo ed azzerare l’intera legislatura. Suscitare uno tsunami di sdegno intelligente e riflessivo: autocritico. Niente di tutto questo”. Ma perché tutto questo è potuto accadere? E perché si può ripetere ancora? “Colpa della nostra indifferenza - conclude Ilari Cucchi - del cinismo e del pregiudizio che hanno addormentato le nostre coscienze. I fatti narrati da una cronaca asciutta e spietata si verificano nel ventennale dal G8 di Genova. Leggere questo libro è doveroso, ma anche doloroso”. Il libro - Pestaggio di Stato, Nello Trocchia, Laterza, pagg. 128, euro 15 Migranti. Cpr, nelle “prigioni” senza diritti altri morti e proteste di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 gennaio 2023 Sei giorni fa, al centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Torino già noto per le cronache come il suicidio di Moussa Balde avvenuta a maggio del 2021, si sono verificate nuove proteste da parte di alcuni migranti che hanno dato alle fiamme i materassi. Fortunatamente la protesta è rientrata subito, ma rimane ancora il dramma di questi luoghi di contenimento dove i migranti trattenuti hanno meno diritti dei detenuti stessi. Il 19 dicembre scorso è morto un migrante nel Cpr di Restinco, a Brindisi. Secondo quanto si è appreso, l’uomo è morto intossicato durante una protesta - sempre materassi bruciati - scoppiata all’interno del centro nel cuore della notte. Da febbraio 2020 questa è l’ottava morte di detenzione. I Cpr non trovano pace senza una riforma radicale del sistema di detenzione amministrativa. Otto morti in tre anni. Aymen Mekni, morto nel Cpr di Caltanissetta con il sospetto di cure non adeguate; Vakhtang Enukidze e Orgest Turia, morti nel Cpr di Gradisca d’Isonzo dopo episodi poco chiari il primo e a seguito di una overdose da farmaci il secondo; Wissem Ben Abdel Latif, morto in contenzione all’ospedale San Camillo di Roma, dove era stato portato dal Cpr di Ponte Galeria; Moussa Balde, come già detto morto suicida nel Cpr di Torino, dove era finito dopo essere stato vittima di un brutale pestaggio a Ventimiglia; Ezzedine Anani e Arshad Jahangir, suicidati sempre a Gradisca. Poche settimane fa si aggiunge la morte al Cpr di Brindisi. Per quest’ultima morte due migranti sono stati arrestati (dal Cpr alla galera) e tre denunciate per aver provato a ribellarsi. Il sistema punitivo non manca, ma quello preventivo, ovvero il rispetto dei diritti, latita ancora. Come già denunciato da varie associazioni come Antigone, Asgi e Unione delle camere penali italiane, i Cpr sono strutture in cui le persone trattenute vengono private della loro umanità, parcheggiate e abbandonate, in condizioni peggiori rispetto a quelle esistenti in carcere, proprio per la carenza di regole e di garanzie. Tra le numerose violazioni rilevate, queste le più gravi: la verifica dell’idoneità sanitaria al trattenimento viene fatta da medici interni del Cpr, e non, come previsto dall’art. 3 del Regolamento Cie emanato dal ministero dell’Interno il 2.10.2014 prot. n. 12700, da medici esterni afferenti alla Asl o alle strutture ospedaliere, prima dell’ingresso. E - come il caso di Moussa Balde dimostra con brutale evidenza- nessuna verifica di compatibilità psichica viene effettuata; il sostegno psichiatrico non è stato garantito dal marzo 2020 al febbraio 2021 e rimane comunque insufficiente e discontinuo; vengono trattenute persone presunte minorenni, in aperto contrasto con la normativa vigente; sebbene la legge non consenta l’isolamento dei trattenuti, la misura viene abitualmente e arbitrariamente utilizzata, senza obbligo di motivazione né possibilità di impugnazione o riesame. Non solo. Durante l’isolamento, i trattenuti vengono ristretti in celle pollaio che ricevono luce solare per poche ore al giorno solo nel cortile (con visuale oltretutto limitata da una tettoia), senza diritto di uscire né di usare un telefono; vengono utilizzati luoghi di trattenimento non ufficiali (le celle di sicurezza nel seminterrato), nemmeno dichiarati al Garante nazionale e scoperti casualmente da quest’ultimo in occasione della visita del 2018; in spregio al diritto alla libertà di comunicazione con l’esterno sancita dall’art. 14, comma 2 del Testo Unico sull’Immigrazione e dall’art. 20, comma 3, del Regolamento di attuazione, i trattenuti vengono privati del telefono cellulare, così perdendo anche l’accesso ad internet, principale strumento di comunicazione e di informazione. Le telefonate possono essere effettuate solo verso l’esterno, a pagamento e con linea fissa, con la conseguenza che, in considerazione dei costi, è estremamente difficile mantenere contatti con i parenti all’estero; i trattenuti non possono ricevere, privati del proprio apparecchio cellulare, chiamate dall’esterno, avendo sempre l’amministrazione rifiutato di fornire le utenze dei telefoni installati nel centro; i trattenuti vengono costretti in moduli abitativi sovraffollati, con servizi igienici non separati dai luoghi di pernottamento e privi di porte; non sono presenti mediatori culturali di lingue e Paesi rappresentati nel Cpr. I Cpr sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione. Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, il questore dispone che il migrante sia trattenuto per il tempo strettamente necessario (massimo 90 giorni con una proroga di altri 30) presso il Cpr. In tali strutture il migrante deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità. Ed è ciò che manca, con le conseguenze tragiche che riempiono le pagine di cronaca della stampa locale. Migranti. Piantedosi: I salvataggi li fa lo Stato. Le Ong? Con loro crescono gli arrivi di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 11 gennaio 2023 Le navi Ocean Viking e Geo Barents ad Ancona: “Costretti a un viaggio più lungo”. arrivata ieri sera al porto di Ancona, dopo 85o miglia e cinque giorni di navigazione, sfidando “onde alte anche sei metri”, la nave Ocean Viking della ong Sos Mediterranee, con a bordo i 37 migranti soccorsi al largo della Libia la scorsa settimana. La Geo Barents di Medici senza frontiere, 73 naufraghi salvati, dovrebbe approdare invece stasera o al massimo domattina. Il mare in tempesta ha rallentato il lungo viaggio dal canale di Sicilia, ma il governo lo stesso non ha fatto sconti. Ancona è rimasto comunque il porto di destinazione e il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ospite di Myrta Merlino ieri a L’aria che tira su La7, ha fatto capire che l’esecutivo non cambierà strada sulle Ong: “Non possiamo consentire a navi private che battono bandiere di Stati esteri di sostituirsi al governo italiano. I salvataggi in mare e l’azione di controllo sul Mediterraneo li fa lo Stato con le sue strutture che stanno dimostrando grande efficienza, Guardia di finanza e Guardia costiera”. I numeri allarmanti del 2023 (3.709 i migranti sbarcati in Italia nei primi 10 giorni dell’anno contro i 378 del 2022) non tolgono il sonno al ministro dell’Interno: “Il dato è molto parziale e condizionato dal bel tempo che incide. Segnalo comunque che nei primi due mesi di governo è stata fatta segnare una flessione della curva di crescita rispetto al 2022. E poi abbiamo riportato la discussione sull’immigrazione al centro dell’agenda dell’Europa, anche se l’Europa è un po’ lenta nei suoi meccanismi...”. Sulle Ong Piantedosi mostra di avere molte riserve: “C’è il problema del pull factor”, spiega, cioè il fattore di attrazione costituito dalla loro presenza nel Mediterraneo, che moltiplicherebbe le partenze da Libia e Tunisia. “Una cosa falsa”, “una fake news”, ribattono all’unisono Matteo Orfini del Pd e Riccardo Magi di +Europa. Eppure Piantedosi insiste: “Abbiamo riscontrato anche un abbassamento nella qualità di produzione delle barche su cui partono i migranti. Perché tanto - pensano - poi ci vengono a prendere e questo favorisce le tragedie”. Anche sui presunti rapporti tra Ong e trafficanti, il ministro è netto: “In alcuni casi ci sono state delle evidenze di indagini: a Trapani, a Ragusa”. Il titolare del Viminale, così, respinge al mittente le accuse di disumanità: “Con le regole che abbiamo dato, le navi Ong rimangono in mare per un periodo più breve, in precedenza spesso si aspettava un porto di sbarco anche per tre settimane. Noi non neghiamo la possibilità di salvare, cerchiamo di dare un quadro di regole”. Tutti i porti assegnati alle Ong sono di città amministrate dal centrosinistra, gli ha fatto notare Myrta Merlino. E lui: “L’ho scoperto solo dopo, non assoggetterei mai certe scelte a valutazioni di questo tipo”. Le Ong però non ci stanno: “L’assegnazione di porti di sbarco ingiustificatamente lontani va contro il diritto marittimo internazionale e il miglior interesse dei sopravvissuti”, segnala Msf. E ancora: “L’esigenza di distribuzione sul territorio nazionale è applicata solo alle navi delle Ong, alle quali è attribuibile appena il 10% degli sbarchi, mentre tutte le altre navi e in particolare quelle della Guardia costiera muovono sempre verso i porti siciliani più vicini”. Migranti. La conta dei morti e la “disciplina” Meloni-Piantedosi di Marco Omizzolo Il Manifesto, 11 gennaio 2023 Il nuovo decreto Meloni-Piantedosi è la chiusura del cerchio. Esso impone alle navi delle Ong di portare immediatamente a terra i naufraghi e dunque, di fatto, vieta di fare ulteriori salvataggi dopo il primo. Sintetizzare il numero di donne, uomini e bambini morti nel 2022 nel tentativo di giungere in Europa mette in evidenza le responsabilità di vari governi italiani in quella che può essere definita una delle più gravi tragedie dell’umanità degli ultimi decenni. Secondo ad esempio Emilio Drudi, collaboratore di Tempi Moderni, nel corso del 2022 sarebbero morti più di 10 profughi al giorno nel tentativo di arrivare in Europa. In tutto, 3.724 persone, quasi il 3% in più delle 3.619 vittime del 2021. Morti di cui ha responsabilità un’intera classe politica che ha deciso di annientare vite per garantirsi voti e potere. Delle 3.619 vittime, 3.403 sono state inghiottite dal mare e 321 invece sulle vie di terra africane, del Medio Oriente o della rotta balcanica. Ancora secondo Drudi la rotta via mare più pericolosa è quella spagnola (l’Atlantico verso le Canarie e il Mediterraneo occidentale), con 1.607 vittime, una ogni 17,9 migranti arrivati, in aumento rispetto a 1 ogni 27 nel 2021. In forte crescita anche il tasso registrato nel Mediterraneo orientale: 1 ogni 23,4 arrivi per un totale di 391 morti rispetto a quello di 1 ogni 72,3 precedente, con un totale di 104 vittime. Quanto al Mediterraneo centrale, il dato assoluto delle vittime è tra i più alti mai registrati. Una tragedia che deriva dai muri eretti dall’Ue per tenere fuori i profughi a qualsiasi costo. Ne sono vittime, oltre ai 3.719 morti del 2022, anche i circa 200 mila bloccati e respinti dalle polizie degli Stati che si sono accordati con l’Ue per svolgere il lavoro sporco di sorvegliare i confini dell’Unione: Turchia, Egitto, Sudan, Libia, Niger, Tunisia, Algeria, Marocco… Paesi a cui abbiamo dato denaro, armi, copertura istituzionale, per respingere, perseguitare, torturare, a volte uccidere donne, bambini, uomini in fuga dalle dittature e dai cambiamenti climatici. Un ulteriore giro di vite si è avuto proprio sul finire del 2022 con il prolungamento dei valli fortificati eretti a difesa delle frontiere europee, arrivati a 1.500 chilometri. O con i nuovi decreti contro le Ong. La premier Meloni le ha accusate, in sostanza, di non svolgere operazioni di salvataggio ma di “fare da traghetto” attraverso il Mediterraneo centrale per i migranti imbarcati dai trafficanti. Un’accusa in piena continuità con quanto già affermava nel 2017 il ministro dell’Interno Minniti del governo Gentiloni e poi i governi Conte 1 (al Viminale Salvini e alla Farnesina Di Maio, che parlò di “taxi del mare”), Conte 2 e Draghi, in entrambi con agli interni la ministra Lamorgese la quale riuscì a bloccare le unità delle Ong più dei famigerati “decreti sicurezza” precedenti, sempre con l’accusa mai provata di una sostanziale “complicità” con le organizzazioni criminali dei trafficanti. Il nuovo decreto Meloni-Piantedosi è la chiusura del cerchio. Esso impone alle navi delle Ong di portare immediatamente a terra i naufraghi e dunque, di fatto, vieta di fare ulteriori salvataggi dopo il primo o di intervenire tempestivamente in caso di altre segnalazioni di pericolo. Infatti, come dimostrano gli ultimi casi, per lo sbarco non si sceglie “il posto sicuro più vicino” e raggiungibile nel minor tempo possibile, ma una località che richiede giorni di navigazione. Secondo poi impone l’obbligo, per il comandante della nave, di verificare chi tra i naufraghi tratti in salvo abbia intenzione di chiedere la protezione internazionale, imponendo, di fatto, la presentazione della domanda direttamente sulla nave, in modo che l’incombenza di esaminarla sia dello “stato di bandiera” dell’unità di soccorso. Una procedura più volte rigettata perché l’accesso alla protezione internazionale nell’Unione europea prevede che “quando la nave si trova in acque internazionali non si possono presentare richieste di asilo perché esse vanno formalizzate dalle autorità nazionali preposte, alla frontiera e nel territorio dello Stato inteso in senso stretto comprese le acque territoriali”. I due punti della “disciplina” Meloni-Piantedosi sono in aperto contrasto con il diritto internazionale e con le Convenzioni a cui l’Italia ha aderito, a cominciare da quella di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati e da quella europea sui diritti umani. Le Ong denunciano queste politiche in modo netto: “Dal 2014 - si legge nel loro documento - le navi del soccorso civile stanno colmando il vuoto che gli Stati europei hanno deliberatamente lasciato, interrompendo le loro operazioni Sar. Adesso il governo italiano ha introdotto un insieme di regole che ostacolano gli interventi di soccorso, esponendo le persone in difficoltà in mare a rischi ulteriori gravissimi…”. Un primo risultato intanto è stato ottenuto. La Commissione europea ha ammonito che tutti i Paesi membri “devono rispettare la legge internazionale e la legge del mare”. Un piccolo passo in avanti. Insomma, se il 2022 è stato una tragedia, il 2023 si apre con la netta opposizione del governo Meloni a chi salva vite nel Mediterraneo in piena continuità coi suoi complici predecessori. Morti sulle strade, droga e propaganda di Hassan Bassi Il Manifesto, 11 gennaio 2023 Durante il tradizionale discorso di fine anno il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è rivolto, per alcuni secondi, direttamente ai giovani, sul tema delle morti sulle strade a causa degli incidenti. Il Presidente ha richiamato i giovani conducenti a guidare con prudenza, facendo riferimento all’eccesso di velocità, alla guida disattenta ed alla guida in stato di alterazione da consumo di alcol e sostanze stupefacenti. Questo passaggio del discorso è stato subito strumentalizzato con dichiarazioni proibizioniste e criminalizzanti dai soliti noti protagonisti della demagogia sul tema delle droghe, stravolgendo l’appello alla responsabilità individuale e a non sottovalutare i rischi del traffico veicolare espresso dalla prima carica dello Stato. Sappiamo che nel 2021 gli incidenti stradali hanno provocato in Italia 2.875 morti, vittime di tutte le età tra conducenti, passeggeri, pedoni; sappiamo anche che i giovani fra i 15 e 24 anni che hanno perso la vita sono stati 365 tra i quali 245 conducenti, 97 passeggeri, 23 pedoni (fonte Istat); ma è anche certificato dai dati ufficiali, che gli incidenti in cui sono si sono rilevate sostanze stupefacenti rappresentano una percentuale molto bassa rispetto agli oltre 151.000 sinistri annui. Come già ricordato in queste pagine (il manifesto, 25 ottobre 2022) i dati disponibili del 2021 parlano di percentuali che vanno dall’1,4 al 3,4% di conducenti coinvolti in incidenti stradali positivi ai test “antidroga” (che non coincide automaticamente con la guida in stato alterato); l’1,44% negli incidenti con lesioni per la Polizia Stradale, e l’1,7% negli incidenti mortali rilevati dai Carabinieri. La tragedia delle morti nelle strade è quindi non risolvibile a partire da questo fenomeno, ed ogni strumentalizzazione sembra un modo per evitare di affrontare in maniera seria ed efficace la questione. Nella ridda di dichiarazioni che si appellano come un noioso ritornello a pene più severe per chi fa uso di droghe e controlli più serrati ed invasivi a carico dei “giovani” (mai categoria fu più bistrattata negli ultimi due anni: prima untori, poi fannulloni, e poi ancora eroi incaricati di salvare il mondo malato, ed infine vandali e criminali - basti anche solo pensare al dibattito sui rave), colpisce per volgarità intellettuale il nuovo spot prodotto dal Dipartimento Politiche Antidroga. Pubblicato nella settimana natalizia lo spot si intitola “Non farlo” e fa parte della campagna “Chiediti perché”; slogan e ambientazione sembrano riportarci indietro di oltre 30 anni al periodo d’oro dei fallimentari spot “antidroga”. Ma il sospetto che si tratti di un prodotto di populistica mistificazione del tema pare confermato dall’uso del testo in sovraimpressione che infila in una successione illogica dati fra loro eterogenei, fino a far sospettare all’ignaro spettatore che oltre il 90% degli incidenti siano causati da uso di alcol e droghe, e che questo sia la causa primaria delle morti sulle strade, in primis quelle dei giovani. Anzi con una iperbole linguistica ad effetto, nello spot sono le “droghe” stesse che guidano i veicoli verso lo schianto sicuro, personificazione delle sostanze che ancora di più segna la continuità con il famoso terrificante spot della Pubblicità Progresso “Chi ti droga, ti spegne” del 1989. Viene da chiedersi se questa scelta di comunicazione del Dpa con una nuova direzione allineata alla visione del governo, sia la cifra di quello che ci aspetta nei prossimi anni; un salto nel passato remoto a discapito del faticoso tentativo di aprire un confronto franco su alcuni aspetti del tema a partire dai risultati della Conferenza Nazionale sulle dipendenze del 2021. Un segnale di modernità sarebbe piuttosto quello di trasformare il dipartimento in una agorà sulle politiche in materia di sostanze stupefacenti, promuovendo un confronto a partire da quello che si muove nel mondo. Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente di Tonino Perna Il Manifesto, 11 gennaio 2023 Da quando è scoppiata questa maledetta guerra in Ucraina si è percepita subito una nuova dimensione del conflitto giocato oggi su più piani, che sempre più spesso troviamo sulla stampa con la qualificazione di “guerra ibrida”. Significa una guerra che si conduce non solo sul piano militare, ma anche su quello della propaganda, diventata un’arma ugualmente letale, ed anche sull’uso degli hackers e della cyberwar che mettono fuori gioco interi sistemi logistici e possono mettere in ginocchio un paese più delle armi. Nella letteratura scientifica sono stati pubblicati alcuni testi su questa nuova categoria della guerra ibrida. Ne è nato un dibattito a livello accademico, partito da alcuni studiosi di Oxford, sulla definizione di Hybrid warfare dove sono analizzate tutte le possibili strategie di guerra che non appartengono ai sistemi tradizionali caratteristici de i conflitti nel secolo scorso. C’è da dire che la propaganda è stata un’arma ampiamente usata anche in passato, da quando sono nati e si sono diffusi i moderni mezzi di comunicazione di massa. Certamente non lo era al tempo dei Romani o nel Medio Evo, ma già con la nascita dei quotidiani il potere politico ha messo tutte e due le mani sull’informazione in tempo di guerra. Oggi i social network sono uno strumento potente di diffusione delle notizie che è diventato prevalente nell’ultimo decennio. La novità consiste nel fatto che mentre prima ogni governo in guerra tempestava la propria popolazione con informazioni manipolate, sui danni al nemico e sulle proprie perdite, così come sulle ragioni del conflitto, oggi grazie alla tecnologia digitale un governo può usare i social dell’avversario per diffondere fake news a volontà. In altri termini, riesce a fare la sua propaganda sul terreno dell’avversario. Anche le immagini catturate durante il conflitto non costituiscono più una prova al cento per cento, possono essere manipolate a piacere e seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere. In sostanza, la guerra ibrida fa emergere un fatto di cui dobbiamo prendere atto: la prevalenza della costruzione politica della realtà. Nell’era della scienza e della tecnica in cui l’umanità sembrava essersi liberata da magie e superstizioni, una sfida ben più grande si pone per chi vuole conoscere la Verità, non in astratto ma rispetto ad un conflitto come quello in Ucraina in cui muoiono migliaia di persone e non se ne vede la fine. In un tempo in cui siamo bombardati letteralmente da un’infinita di informazioni non sappiamo, per esempio, quanti sono stati i militari ucraini morti in guerra, mentre sappiamo, forse, che quelli russi sono centomila. Come mai, ci domandiamo, non esiste un dissenso rispetto a continuare questa guerra suicida da parte del popolo ucraino? Una parte del popolo russo ha protestato i primi mesi contro questa guerra e l’ha pagata duramente, ma non sappiamo quanti sono fuggiti per non essere reclutati e, dall’altra parte, quanti giovani ucraini sono scappati per non finire al fronte. O sono tutti eroi? E che fine hanno fatto ministri e generali rimossi da Putin o le migliaia di dissidenti incarcerati? Si può dire con un grande filosofo che “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, ma così si cade in un relativismo assoluto che impedisce qualunque pensiero critico o iniziativa politica. Ed invece abbiamo bisogno per agire di capire, di farci un’idea più chiara delle partite che si stanno giocando in questa tremenda guerra ibrida. Come la sordida guerra tra le valute, che non si può lasciare agli analisti finanziari, ma che ha ricadute politiche importanti come l’uscita del dollaro dagli scambi commerciali e finanziari tra Russia, Cina e India. Una informazione indipendente è fondamentale in questa fase storica. Per questo sostenere questo giornale e gli altri pochi spazi di informazione libera costituisce un atto politico di primaria importanza. Certo, sappiamo che è una lotta impari contro gli oligopoli/piattaforme dell’informazione ma non abbiamo alternative se non vogliamo rinunciare a pensare con la nostra testa. La campagna abbonamenti per sostenere il manifesto, con la bella foto di Luciana Castellina, non poteva cadere in un momento storico più cruciale. Turchia. Processo contro Sebnem Korur Fincanci, presidente dell’Associazione dei medici La Repubblica, 11 gennaio 2023 Amnesty International: la professoressa rischia più di sette anni di carcere. La sua colpa è aver chiesto un’indagine indipendente sull’uso delle armi chimiche nella regione del Kurdistan iracheno. La storia. Il 26 ottobre 2022, nell’ambito di una repressione sempre più violenta dei diritti umani e della professione medica in particolare, il governo turco ha arrestato Sebnen Korur Fincanci, medico legale e professore di fama mondiale, presidente dell’Associazione dei medici turchi (Tma), un’organizzazione medica indipendente che rappresenta quasi il 90 per cento dei professionisti della sanità in Turchia. Dopo aver esaminato un video diffuso dall’agenzia Firat, che ritrae due persone nel Kurdistan iracheno esposte a gas tossici e che mostrano segni di comportamento delirante, Fincanci ha chiesto un’indagine indipendente sull’uso di armi chimiche. Dopo la richiesta, la polizia, facendo irruzione in casa, l’ha arrestata con l’accusa di fare propaganda per una organizzazione terroristica. La carriera di Fincanci. L’esperto forense negli ultimi trenta anni ha lavorato nel campo dell’identificazione delle vittime di torture e maltrattamenti. Ha contribuito a stilare il Protocollo di Istanbul, la guida approvata dalle Nazioni Unite per le indagini legali e cliniche e la documentazione sulla tortura e i maltrattamenti. Ha partecipato a numerose indagini forensi internazionali, anche per il tribunale dell’Aja. Per il suo servizio sempre attento alla causa dei diritti, nel 2017 è stata insignita del Premio “Medici per i Diritti Umani”, (MEDU). La repressione dei diritti in Turchia. La detenzione di Fincanci, per accuse che sono chiaramente di matrice politica, è una delle tappe della campagna messa in atto dal governo turco per intimidire e zittire i professionisti medici che denunciano possibili danni alla salute come conseguenza delle violazioni dei diritti umani. Nel maggio 2019, per esempio, un tribunale di Ankara ha condannato al carcere undici membri del Consiglio centrale dell’Associazione dei medici turchi, inclusa Fincanci, con l’accusa di aver parlato dei pericoli della guerra per la salute pubblica e aver sottolineato la responsabilità che i medici hanno di difendere la vita e contribuire a mantenere la pace. Il tribunale li ha condannati perché “facevano propaganda terroristica provocando il pubblico all’odio e all’inimicizia”. A Fincanci in quella occasione fu inflitta una pena di più di due anni di carcere. È stata poi assolta nel 2020, ma ciò non ha impedito alle autorità turche di arrestarla nuovamente. La sua detenzione fa parte di un giro di vite che Erdogan sta portando avanti contro la Tma nel suo complesso. La denuncia di Amnesty International. “Perseguire un esperto forense per avere chiesto una indagine autonoma sul presunto uso di armi chimiche vietate è un abuso palese del sistema di giustizia penale. Invece che lanciare accuse infondate contro uno dei medici forensi più importanti della Turchia, le autorità dovrebbero permetterle di continuare a fare il suo lavoro liberamente e senza timore di rappresaglie”, scrive Amnesty International in un comunicato. A dicembre l’organizzazione in difesa dei diritti umani insieme con Dignity, Human Rights Watch, International Rehabilitation Council for Torture Victims, Physicians for Human Rights, Redress e World Medical Association hanno lanciato un appello per chiedere alle autorità turche di rilasciare la professoressa Fincanci.