L’appello “Per la vita di Alfredo Cospito” firmato da magistrati, avvocati e personalità della cultura di Valentina Stella Il Dubbio, 10 gennaio 2023 Tra i firmatari Massimo Cacciari, Gian Domenico Caiazza, don Luigi Ciotti, Gherardo Colombo, Elvio Fassone, Luigi Ferrajoli, Giovanni Maria Flick, Tommaso Montanari, Moni Ovadia, Livio Pepino, Nello Rossi. Arriva oggi all’attenzione della Cassazione l’incartamento relativo alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha respinto un reclamo avanzato dal difensore di Alfredo Cospito, l’anarchico al 41 bis e da due mesi in sciopero della fame, contro il regime del carcere duro. Si tratta di un passaggio procedurale in vista della fissazione dell’udienza in cui verrà affrontato il ricorso presentato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini. Intanto anche l’ex Ministro dem della Giustizia Andrea Orlando si esprime a favore della revoca del carcere duro: “Mi auguro - ha scritto su twitter - che il ministro Nordio raccolga l’appello di giuristi ed intellettuali per la revoca del 41 bis a Cospito”. L’appello è quello “Per la vita di Alfredo Cospito” rivolto al Guardasigilli e all’Amministrazione penitenziaria da parte magistrati, avvocati, personalità della cultura tra cui Massimo Cacciari, Gian Domenico Caiazza, don Luigi Ciotti, Gherardo Colombo, Elvio Fassone, Luigi Ferrajoli, Giovanni Maria Flick, Tommaso Montanari, Moni Ovadia, Livio Pepino, Nello Rossi. Come ricordano i firmatari “Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni”. “Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti - proseguono i firmatari dell’appello (che può essere sottoscritto a questo link https://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6). È un lento suicidio (che si aggiunge, nel caso di Cospito, agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza”. A fronte di ciò, “la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano. Né vale sottolineare che tutto avviene per ‘scelta’ del detenuto. Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui - come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo - la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari”. Secondo gli ideatori dell’appello “la protesta estrema di Cospito segnala molte anomalie, specifiche e generali” tra cui “la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale)”. Ma oggi l’urgenza è altra. Cospito rischia seriamente di morire: può essere questione di settimane o, addirittura, di giorni. E l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere. Per questo facciamo appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio. Le possibilità di soluzione non mancano, a cominciare dalla revoca nei suoi confronti, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis, applicando ogni altra necessaria cautela. È un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso”. Così si conclude l’appello che mette non poco in difficoltà Carlo Nordio. A sollecitarlo sono nomi di spicco, provenienti anche dal mondo della magistratura, con motivazioni assolutamente ragionevoli. La morte di Cospito, che sembra non intenzionato a fermare la sua iniziativa nonviolenta di protesta, sarebbe un peso enorme per il responsabile di Via Arenula. A non aiutare però la mobilitazione pacifica ci pensano gli “amici” anarchici di Cospito. Il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, ha ricevuto, una decina di giorni fa, una busta con un proiettile e la “A” di anarchia tracciata su un foglio. Saluzzo, con il pm Paolo Scafi, sostiene l’accusa al processo alla Corte d’Assise d’Appello di Torino contro Cospito di cui ha chiesto la condanna all’ergastolo e dodici mesi di isolamento diurno per l’attentato alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano (Cuneo) del 2005. Tale grave episodio ha subito spronato a parlare Andrea Delmastro delle Vedove, deputato di Fratelli d’Italia e sottosegretario di Stato alla Giustizia: “Piena, assoluta e incondizionata solidarietà al procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo. Le minacce sfrontatamente rivolte ad un servitore dello Stato rafforzano sempre il più convincimento della pericolosità della galassia anarchico-terroristica e della essenzialità dello strumento del 41 bis. Lo Stato non si farà intimorire”. Se pure Nordio fosse pronto a rispondere positivamente all’appello, quanto questa dichiarazione netta del suo sottosegretario potrebbe frenarlo? Lo sciopero della fame di Cospito e il senso del carcere duro di Giulia Merlo Il Domani, 10 gennaio 2023 L’anarchico Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Sassari in regime di carcere duro dove sta scontando una pena certa non ancora determinata in via definitiva, è in sciopero della fame da 83 giorni per protestare contro il regime ostativo e il 41 bis. Ha perso 35 chili e, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma, si considera “condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni” e non intende sospendere lo sciopero. Per lui si sono mossi una quarantina di intellettuali e giuristi, padre Alex Zanotelli e l’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick, fino all’ex pm Gherardo Colombo e al presidente delle Camere penali, Giandomenico Caiazza, lanciando un appello al ministro della Giustizia, Carlo Nordio per la revoca “per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis, applicando ogni altra necessaria cautela”. A firmare da ministra il carcere duro per 4 anni per Cospito era stata Marta Cartabia e il nuovo guardasigilli, in risposta a un question time della deputata Ilaria Cucchi, ha confermato che il regime è sostenuto da “plurimi pareri dell’autorità giudiziaria e di polizia” e comunque “il ministro non ha alcun potere sulla indipendenza della giurisdizione”. La vicenda è prima di tutto giudiziaria e interroga i giudici sulla congruità delle pene irrogate e il legislatore sulla compatibilità con lo stato di diritto di una misura di emergenza come il 41 bis. Cospito è in carcere già da 10 anni per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi nel 2012 e ora sta scontando una ulteriore condanna a 20 anni alcuni attentati qualificati come strage e per aver diretto la Fai, Federazione anarchica informale, che i giudici hanno considerato come associazione per delinquere con finalità di terrorismo. La pena, però, non è ancora definitiva perchè la Cassazione ha rinviato alla corte d’appello di Torino per un ricalcolo della pena. I fatti per cui va ricalcola risalgono al 2006: Cospito e altri anarchici avevano posizionato due ordigni a basso potenziale esplosivo in due cassonetti dell’immondizia davanti all’ingresso della caserma alla scuola allievi carabinieri di Fossano, poi esplosi nella notte senza provocare nè morti nè feriti. Secondo la ricostruzione giudiziaria, il primo ordigno doveva servire ad attirare sul posto le forze dell’ordine, il secondo doveva esplodere subito dopo. Secondo la corte d’appello, il reato è di strage semplice, la Cassazione invece ha ritenuto che si tratti di strage politica, “allo scopo di attentare alla sicurezza dello stato”, che è un delitto di pericolo e non di danno ed è punito con l’ergastolo senza alcuna gradazione di pena e rientra tra i reati ostativi. Vale a dire che, per la sua gravità, non prevede alcun beneficio penitenziario se il detenuto non collabora con la giustizia. Si tratta di uno tra i reati più gravi del codice penale, che non è stato riconosciuto nemmeno nel processo per la strage di Bologna del 1980 che costò la vita a 80 persone all’ex Nar, Gilberto Cavallini. Ora la corte d’appello ha sollevato questione di costituzionalità davanti alla Consulta, che è chiamata a chiarire se sia possibile applicare l’attenuante della “tenuità del fatto” anche nel caso di strage politica. Nel frattempo, il 4 maggio 2022, Cospito è stato sottoposto al regime di carcere duro, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza e di detenere libri e scritti ma anche “le foto dei genitori defunti in quanto viene richiesto il riconoscimento formale della loro identità da parte del sindaco del paese d’origine” ha fatto sapere Cospito, diminuzione dell’aria a due ore e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Il cambio di regime detentivo è stato motivato dagli scambi di lettere con altri anarchici e la pubblicazione di scritti su riviste d’area, che tuttavia Cospito mantiene da 10 anni e prima di maggio non erano mai stati ritenuti pericolosi. Secondo i magistrati torinesi, questo epistolario farebbe riemergere l’esistenza di una vera e propria organizzazione anarchica e la rinascita della Federazione anarchica informale. Nel corso del processo, Cospito è intervenuto con dichiarazioni spontanee: “Oltre all’ergastolo ostativo, visto che dal carcere continuavo a scrivere e collaborare alla stampa anarchica, si è deciso di tapparmi la bocca per sempre con il 41 bis”, ha detto, spiegando che “continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro, per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo paese”. Le conseguenze - “La gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano” davanti all’urgenza di salvare una vita “e non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile”, scrivono i sottoscrittori dell’appello, che sottolineano anche “molte anomalie, specifiche e generali: la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte; il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo, su cui il dibattito resta aperto”. Il 41 bis, infatti, è un regime detentivo introdotto con una legislazione di emergenza negli anni delle stragi di mafia del 1992 e originariamente aveva carattere temporaneo. Il caso Cospito e il suo sciopero della fame, inoltre, interrogano anche sulla compatibilità con uno stato di diritto e la congruità della pena dell’ergastolo previsto dal reato di strage “politica” - risalente al codice Rocco del 1930 - e che non prevede alcuna gradazione in relazione agli effetti che l’azione ha provocato. Intanto, mentre si attende l’udienza davanti alla Consulta, al procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, è arrivata una busta con un proiettile e la A e la galassia anarchica è sempre più in agitazione. A Sassari, invece, Cospito è isolato nella sua cella e rischia di morire nel muro contro muro che ha ingaggiato con l’ordinamento giudiziario. Dal 2009 il ministro non può revocare il 41 bis, si attende la decisione dei giudici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2023 L’allora guardasigilli Angelino Alfano ha abrogato la norma che dava questa facoltà. La misura, nata per evitare che un boss invii pizzini al suo gruppo criminale, non si attaglia all’attività palese e non occulta dell’anarchico. L’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis nel carcere sassarese di Bancali, dal 20 ottobre è impegnato in un drammatico sciopero della fame. E ciò ricorda molto da vicino quello di Holger Meins nel 1974 o di Bobby Sands nel 1981. C’è una mobilitazione generale per chiedere una revoca del carcere duro, a partire dall’appello sottoscritto da 39 intellettuali. L’obiettivo è sensibilizzare soprattutto il ministro della Giustizia Carlo Nordio affinché intervenga. Da sottolineare che il governo Berlusconi, in particolar modo l’allora guardasigilli Angelino Alfano, ad opera dell’art. 2, comma 2, legge n. 94 del 2009, ha abrogato il comma che dava la possibilità al ministro di revocare il 41 bis con decreto motivato. Quindi, tecnicamente, il potere politico ha le mani legate e si aspetta, infatti, la decisione della Cassazione a seguito del ricorso del legale di Cospito contro il diniego del tribunale di Sorveglianza di Roma. Alfredo Cospito, assieme ad Anna Beniamino, rischia anche l’ergastolo ostativo da quando una sentenza della Cassazione ha cambiato l’imputazione di un reato per cui era già stato condannato a vent’anni. La condanna (da premettere che gli imputati si professano innocenti) era giunta per aver collocato di notte del 2 giugno 2006 due ordigni nei pressi di uno degli ingressi della scuola allievi di Fossano. Non causarono né morti né feriti. Furono condannati definitivamente per strage contro la pubblica incolumità (articolo 422 del codice penale) che prevede una pena non inferiore ai 15 anni. A luglio scorso la Cassazione ha riqualificato il reato a strage contro la sicurezza dello Stato. Parliamo dell’articolo 285 che prevede appunto l’ergastolo. Nel caso specifico ostativo. Si tratta del reato più grave del nostro ordinamento che non è stato nemmeno applicato per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. La corte d’Appello di Torino, però, ha recepito le questioni sollevate dalla difesa, sollevando il caso di illegittimità costituzionale alla Consulta. Nello specifico è la parte che prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante. Se verrà accolta la questione, i due anarchici non rischiano più l’ergastolo, ma la pena sarà tra i venti e i ventiquattro anni. Ma il problema principale, motivo per cui Cospito sta conducendo lo sciopero della fame, è un altro. Da un giorno all’altro, senza alcun nuovo episodio o elemento concreto a giustificarlo (la sua condotta in carcere non era cambiata, le azioni compiute molti anni prima restavano le stesse), è stato messo in regime del 41 bis. Ed è a quel punto che, come forma estrema di protesta e di resistenza, ha smesso di nutrirsi. Il motivo per cui è stato condotto al 41 bis è che, durante la detenzione, Cospito inviava i suoi scritti come contributo personale alle assemblee o ai giornali anarchici, e che venivano poi a sua volta - altrettanto pubblicamente - divulgati da questi ultimi attraverso i siti on line di controinformazione. In sostanza, come ha anche ribadito il tribunale di Sorveglianza di Roma nel rigetto, tali scritti vengono equiparati ai cosiddetti pizzini, ovvero ai messaggi criptici che vengono veicolati dal detenuto all’esterno. Il 41 bis nasce, appunto, per evitare che un boss invii pizzini al suo gruppo criminale di appartenenza. Ma cosa c’entra con il caso di Cospito? Come ha ben argomentato l’avvocato difensore Flavio Rossi, nonostante la difesa ha puntualmente evidenziato come lo strumento del 41 bis non si attagli all’attività comunicativa posta in essere da Cospito, nella misura in cui la stessa non è veicolata all’esterno in maniera occulta ovvero segreta, ma si sostanzia in un’attività interamente pubblica che viene dallo stesso destinata non agli associati, bensì a soggetti gravitanti nella cosiddetta galassia anarchica, “il tribunale di Sorveglianza non ha in alcun modo affrontato il profilo de quo - scrive l’avvocato Rossi nel ricorso in Cassazione -, ovvero non ha in alcun modo spiegato come si compatibilizzi lo strumento in esame con una siffatta modalità di manifestazione del pensiero, assolutamente antitetica e inconciliabile rispetto a quella che viene fisiologicamente sanzionata tramite il 41 bis”. Il problema è serio, perché il 41 bis nasce con uno scopo ben preciso. È stato esteso a Cospito con lo scopo di evitare le sue istigazioni, mentre in realtà tale regime - già al limite della costituzione - nasce per evitare collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale e verticistica (un ossimoro per il pensiero anarchico) di appartenenza. Ancora un’altra condanna da parte della Cedu, e il 41 bis cade a causa del suo stesso inappropriato utilizzo. Cospito? Attenti, al 41 bis ci sono altri 800 detenuti di Alberto Cisterna Il Dubbio, 10 gennaio 2023 Sul caso Cospito si sta scrivendo tanto e la mobilitazione di intellettuali e dei ceti meglio strutturati della pubblica opinione è possente. Tuttavia, il crollo visibile dell’egemonia culturale esercitata per decenni dalla sinistra italiana, e dai circoli radical dell’intellighenzia a lei vicina, rischia di veder assestato un altro duro colpo da una sorta di latente irritazione che pervade strati non marginali della pubblica opinione nazionale a sentire discutere della sorte dell’anarchico. Il regime di carcere duro, il cosiddetto 41 bis, riguarda circa 800 detenuti nelle carceri italiane, in massima parte si tratta di mafiosi e di appartenenti alla variegata costellazione delle associazioni malavitose meridionali. Sollevare il caso di Alfredo Cospito e sostenere - come ha fatto un paio di giorni or sono il vicesindaco di Bologna, Emily Clancy - che il lungo sciopero della fame dell’anarchico “interpella le nostre coscienze e solleva questioni di etica e di diritto fondamentali” rischia di andare a impattare contro il fastidio giustizialista che pervade profondamente ormai la società italiana. Affiora qua e là l’impressione che ci sia una sorta di difesa “a uomo” praticata ideologicamente a favore di uno e a discapito degli altri. E’ evidente che l’anno appena concluso, con i suoi 84 suicidi nelle celle, imporrebbe di volgere lo sguardo alla complessiva condizione dell’intera popolazione carceraria italiana e, tra essa, dei detenuti che vivono la più dura delle condizioni, quella appunto del 41- bis. Un problema enorme sinora messo in disparte dalle ricorrenti emergenze criminali il cui affievolirsi, come al ritirarsi della piena di un fiume tumultuoso, comincia a restituire macerie e rovine. Tre le questioni sul campo. La prima è che occorrerebbe che il legislatore e la Corte costituzionale ponessero fine a quella “truffa delle etichette” che da circa trenta anni consente, nell’ordinamento italiano, l’applicazione di misure durissime giustificandole sotto l’ombrello ad ampio raggio della cosiddetta prevenzione. Questo è l’unico paese al mondo in cui, in nome appunto della prevenzione, si mantengono sistemi carcerari eccezionalmente severi, si prevedono confische di patrimoni e imprese, si eliminano dal mercato dozzine di società con il sistema delle interdittive prefettizie, si autorizza un numero totalmente sconosciuto e imprecisato di intercettazioni (appunto) preventive da parte delle forze di polizia con la sola autorizzazione del pubblico ministero. Uno sterminato arsenale di proibizioni e di divieti che hanno una precisa valenza sanzionatoria, anzi in molti casi repressiva, e che una sorta di autoassolutorio rito collettivo esorcizza e giustifica in nome della “prevenzione”, guardandosi bene dal classificare e descrivere la sostanza delle conseguenze e la durezza degli effetti personali e patrimoniali che i cittadini (quasi sempre solo sospettati di reati) pagano al cospetto di questi apparati. Da questo punto di vista l’ergastolo ostativo, il carcere a 41- bis, le confische di prevenzione, le misure interdittive prefettizie, le certificazioni, le white list imprenditoriali, la data retention pluriennale del traffico telefonico e telematico sono nient’altro che i pilastri di un edificio repressivo che nella sostanza opprime settori non esigui della società e segna il vero gradiente delle libertà economiche e dei diritti soggettivi nel nostro paese. Il fatto che, con l’avallo della giurisdizione costituzionale, tutto questo appartenga allo sterminato e nebuloso mondo della cosiddetta prevenzione, che ogni congegno sia stato celato negli anfratti di una notte buia in cui tutto è poco chiaro grazie anche al fatto di essere descritto da norme ad ampio compasso rese da un legislatore distratto e accondiscendente - non vuol dire che non ci sia la necessità di pulire il lessico che si adopera quando, come nel caso di Cospito e non solo - si invocano ragioni di prevenzione per mantenerlo a carcere duro. Per carità, è ovvio, che chiunque sia scoperto a complottare o a dare ordini da una cella merita una più dura segregazione per tutto il tempo necessario, ma irrogare il regime duro sono perché si paventa il pericolo di questi collegamenti equivale a misconoscere la natura afflittiva, punitiva di quel regime carcerario e a costruire un regime sanzionatorio “occulto” per il quale laschi e quasi inesistenti sono i controlli della giurisdizione. La seconda questione è un diretto corollario della prima. Poiché si manipolano nozioni evanescenti, si adoperano concetti a grana grossa, si legittimano supposizioni e sospetti le pratiche di prevenzione si autoalimentano e sfuggono inevitabilmente a qualunque controllo. Se si irrorano a piene mani le informative di polizia con iperboli e congetture, con valutazioni e massime d’esperienza è evidente che non c’è scrutinio giurisdizionale che tenga e, alla fine, la potenza condizionante che la categoria concettuale del pericolo esercita sul giudice travolge la verifica degli elementi concreti celati dietro la cappa minacciosa dell’allarme sociale. Da questo punto di vista sembra sempre più difficile continuare a legittimare l’intero sistema di prevenzione in forza dell’esistenza di un controllo giurisdizionale di fatto invischiato nella ragnatela di gerghi e di nozioni che non gli dovrebbero appartenere e che, in effetti, non appartengono alla magistratura in alcuna democrazia costituzionale. La terza questione prende in esame il pericolo, incautamente ignorato, che la conclamata inefficacia del regime a carcere duro nel provocare pentimenti e collaborazioni con la giustizia (le cifre sono risibili in proposito) e, quindi, il volto puramente vendicativo dell’ergastolo ostativo senza prova di redenzione e della detenzione speciale crei una generazione di “irriducibili”. Una sorta di élite criminale capace di esercitare una grande fascinazione proprio negli strati sociali più marginali e più esposti ai rischi della violenza terroristica o dell’affiliazione mafiosa. Più la detenzione viene percepita come un accanimento, più i detenuti resistono e si asserragliano nella loro disperata solitudine carceraria, maggiore è il rischio che siano percepiti all’esterno come gli epigoni di un oltranzismo inflessibile, come gli esponenti di un mondo che non si piega e minaccia per ciò solo di perpetuarsi. E questo malgrado le grandi vittorie dello Stato e l’enorme sacrificio che esse sono costate. Cos’è il 41 bis e come vivono i detenuti sottoposti al carcere duro di Raphael Zanotti La Stampa, 10 gennaio 2023 Isolamento dagli altri detenuti, nessun giornale o rivista, ora d’aria limitata e solo un colloquio al mese con i familiari: storia di una norma nata per sedare le rivolte in carcere e ora applicata per tutt’altri motivi. Dal 19 ottobre scorso l’anarchico Alfredo Cospito è in sciopero della fame per protestare contro il regime del 41-bis che gli viene applicato. Ma cosa prevede esattamente questo regime carcerario? Le limitazioni * Isolamento - Il detenuto vive in una cella singola e non può avere contatti con gli altri detenuti, non ha accesso alle parti comuni del carcere. * Ora d’aria - Viene concessa solo per alcune tipologie di reato e per un massimo di due ore al giorno. Anche in questo caso è svolta da soli, senza contatti con altri detenuti. * Sorveglianza - Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria - Lo stesso reparto non può avere contatti con altri agenti di polizia penitenziaria * Familiari - Un solo colloquio con i familiari, una volta al mese, viene concesso solo per alcune tipologie di reato. Il colloquio ha una durata massima di un’ora. I detenuti possono vedere i propri familiari solo attraverso un vetro. Non è previsto alcun contatto fisico. Se non è possibile il colloquio, il direttore del carcere può autorizzare, solo motivandolo, un colloquio telefonico al mese della durata di 10 minuti * Difensore - Non ci sono limiti di numero e durata ai colloqui con il proprio avvocato * Posta controllata - Ogni lettera scritta o ricevuta dal detenuto viene aperta, letta e autorizzata * Oggetti e somme - Limiti alle somme in denaro, ai beni e agli oggetti che i detenuti possono acquistare all’interno del carcere o ricevere dall’esterno (penne, quaderni, bottiglie...) * Rappresentanti - Esclusione dalle rappresentanze dei detenuti * Libri e riviste - Il detenuto non può detenere alcun libro o rivista tranne particolari autorizzazioni Una norma nata per tutt’altro - Quando è nato il carcere duro e perché? In realtà il 41-bis è nato in un particolare contesto storico e per una specifica finalità: evitare le rivolte in carcere. La Legge Gozzini, nata nel 1986, prevedeva che in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza il ministro della Giustizia potesse sospendere le normali regole di detenzione in carcere per alcuni detenuti. La sospensione doveva essere motivata dalla necessità di riportare nelle carceri l’ordine e la sicurezza. Una volta ottenuto questo obiettivo, la sospensione andava immediatamente revocata. Si trattava dunque di una norma applicabile per situazioni interne al carcere. Nel 1992 tutto cambia. Dopo la strage di Capaci nella quale perse la vita il giudice Giovanni Falcone il 41-bis viene esteso e la ratio ora diventa regolare i rapporti tra l’interno e l’esterno del carcere. L’obiettivo è colpire i mafiosi che, pur da dietro le sbarre, sono in grado di dare ordini alla loro organizzazione. Anche in questo caso è il ministro della Giustizia che, per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, possono sospendere le garanzie ad alcuni detenuti, in particolare quelli condannati, indagati o imputati per mafia. È un cambio radicale della norma, anche perché in precedenza la stessa non è stata praticamente mai applicata. Anche in questo caso la norma ha carattere temporaneo. Inizialmente doveva durare tre anni. Ma in Italia non c’è nulla di più strutturale di ciò che è temporaneo. E infatti la norma viene prorogata per 10 anni fino a quando, nel 2002, con il governo Berlusconi II, il carcere duro diventa stabile nel regime penitenziario. A chi si applica? Il regime nato come temporaneo contro le rivolte, trasformato in un provvedimento antimafia, diventa stabile e viene via via allargato a varie categorie. Oggi può essere applicato ai detenuti che sono in carcere per i seguenti reati: * Terrorismo ed eversione * Mafia * Riduzione in schiavitù * Prostituzione minorile * Pedopornografia * Tratta di persone * Acquisto e vendita di schiavi * Violenza sessuale di gruppo * Sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione * Associazione a delinquere per contrabbando di tabacchi * Associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga Chi può revocare il carcere duro? Solo il tribunale di sorveglianza e solo in caso di reclamo e solo dopo che dovesse seguire una decisione che dichiara il provvedimento illegittimo. Oppure quando scadono i termini e non ci sono proroghe. Le critiche e la compatibilità con la Costituzione - Nel corso degli anni ci sono state critiche nei confronti del 41-bis. Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumati e degradanti ha definito il 41-bis come un trattamento inumano e degradante. La prolungata restrizione provocava effetti dannosi che alteravano facoltà sociali e mentali dei detenuti, spesso irreversibili. Nel 2000 la Corte dei Diritti dell’Uomo non ha ritenuto il 41-bis in contrasto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ma ha censurato alcuni suoi contenuti e alcuni suoi aspetti attuativi. Nel 2003 Amnesty International ha sostenuto che il 41-bis, in alcuni casi, rappresenta un trattamento crudele inumano e degradante del prigioniero: E nel 2007 un giudice degli Stati Uniti ha negato l’estradizione del boss mafioso Rosario Gambino perché a suo avviso il carcere duro italiano è assimilabile alla tortura. La Corte Costituzionale italiana si è più volte espressa sul 41-bis dichiarandolo in linea di principio conforme ai principi costituzionali, ma ha anche sottolineato come in alcuni casi vengano riservati ai detenuti trattamenti penali che sono contrari al senso di umanità, non ispirati alla funzione rieducativa del carcere e rivolti non ai singoli ma indiscriminatamente ai detenuti selezionati solo sulla base del titolo di reato. Caro ministro Nordio, accenda nelle celle la luce della Costituzione di Sandro Bonvissuto La Repubblica, 10 gennaio 2023 L’autore di “Dentro” (Einaudi): “Ecco le questioni che attendono una risposta, e ad aspettare è un ente solo che, però, è anche un mondo intero: il penitenziario”. È pensabile che l’Italia non cambierà mai, quindi anche l’instaurarsi di un nuovo governo, è un evento destinato a transitare in modo innocuo in un Paese dove comunque tutto sembra condannato a restare uguale. Anzi, adesso è più giusto e responsabile dire che le cose cambiano anche qui, però purtroppo in peggio. Per anni la magistratura ha contrastato le malversazioni della politica, finché è diventata un po’ troppo simile a quest’ultima, finendo investita da scandali e corruzione. Perché si sa, come diceva mia nonna, chi va a braccetto con lo zoppo impara a zoppicare. Ciò nonostante, il buon senso che è in noi, e che è la parte sana dell’antropologia italica, ci spinge ad attendere lo stesso le iniziative di questo governo, e di farlo con attenzione e la consueta punta di speranza. Non dico ottimismo, che mi sembra troppo, ma speranza sì. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha aperto il proprio mandato ponendo subito il problema carceri, riscaldando i cuori di più di qualcuno, me compreso. Una scelta, nei discorsi all’esordio nel dicastero, né semplice né scontata. Figlia, senz’altro, di un’iniziativa sua personale, perché in quelle circostanze istituzionali avrebbe potuto parlare di qualunque cosa, visto che come ministro si è dato un percorso a dir poco impegnativo: il taglio dei costi del comparto, cercare una nuova credibilità per il sistema legale del Paese, cosa che aiuterebbe a recuperare la fiducia dei mercati, rivedere il ruolo del pubblico ministero per evitare fin dall’inizio iter processuali costosi e soprattutto inutili, responsabilità ai pm per la tutela ed il segreto delle intercettazioni, revisionare l’abuso d’ufficio, verificare il peso delle associazioni di magistrati sul Csm, la legge Severino, che va mantenuta ma adeguata, e via dicendo. Ma l’idea del neo ministro di cominciare dal carcere non è affatto sbagliata. Perché l’unico modo di fare le cose fatte bene, è quello di farle iniziando dal basso. E più in basso del carcere non c’è niente. Quindi mi permetto di redigere una piccola lista di rilievi a questo proposito, ricordando per l’ennesima volta come il carcere non sia una discarica sociale, e nemmeno il luogo dove si consuma la vendetta dello Stato contro il detenuto, o di qualcuno contro qualcun altro (in proposito consiglio la lettura del saggio del docente americano Philip G. Zimbardo, “L’Effetto Lucifero”, Raffaello Cortina Editore), e rammentare a tutti come è proprio dentro il penitenziario che devono splendere le idee che animano la Costituzione. Perché sia chiaro a tutti che il carcere deve riuscire nel processo di rieducare i soggetti, cosa che non fa e nemmeno ha mai fatto, visto che su dieci detenuti, sette tornano a delinquere. Perché solo spezzando i circuiti violenti e illegali nei quali sono coinvolti singolarmente gli individui internati è possibile ottenere un risultato d’insieme per la società; soltanto salvandone uno alla volta si salveranno tutti. O tanti. Oltre ad essere questo l’unico modo per danneggiare seriamente la malavita, cioè togliendole mano d’opera un uomo dopo l’altro. Senza dimenticarci che un detenuto su tre ha problemi di dipendenza, e il carcere non è il luogo dove devono stare i tossicodipendenti, perché questi vanno dislocati e trattati nelle strutture della medicina penitenziaria, mentre invece adesso stanno a carico degli operatori negli istituti di pena, e non possiamo sperare che problemi del genere si affrontino con il volontariato di chi lavora in carcere. Compresa la polizia penitenziaria, che spesso risolve problemi di logistica come il ricongiungimento familiare (momentaneo, ma è meglio vedersi per un attimo solo in un cortile che per niente) con la propria iniziativa. E che le persone con disturbi psichici vanno nelle REMS, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma in Italia sono qualche decina, e ciascuna può ospitare solo qualche decina di pazienti. Che le intercettazioni, i trojan, o altri captatori informatici sono fondamentali per la giustizia, e io non li ridurrei. Per noi, e per tutte le persone come noi, non c’è problema, ci potete intercettare quando vi pare. E che poi per sapere le cose non c’è bisogno di un grande spiegamento di ritrovati tecnici, perché molti pregiudicati, condannati in via definitiva in tutti i gradi di giudizio, stanno sui social. Potete controllare da casa anche voi come faccio io. Che ogni ministro sistema una figura di sua fiducia al DAP, ma questi responsabili, per un posto economicamente molto prestigioso, non incidono mai a fondo sul destino delle cose penitenziarie. E che invece il ruolo chiave è quello del magistrato di sorveglianza, l’unico con il quale il detenuto ha il diritto di parlare da solo, in un rapporto personale e privato, fondamentale perché arrivino alle orecchie dello Stato le aporie del sistema carcere. Mi risponderete che il ministero è al corrente di tutte queste cose. Certo, me l’immaginavo, ma ripeterle aiuta. Sono solo parte una delle questioni che attendono una risposta, e ad aspettare è un ente solo, che però è anche un mondo intero: il carcere. C’è qualcosa di meglio del carcere di Matteo Favero huffingtonpost.it, 10 gennaio 2023 Formazione culturale, sostegno psicologico, riduzione delle pene per i reati meno gravi e un principio valido per tutti: chi non è pericoloso venga inserito in un percorso obbligatorio di reinserimento sociale e professionale grazie anche all’istituto della giustizia riparativa. L’evasione dello scorso dicembre 2022 di sette ragazzi dal carcere minorile “Beccaria” di Milano è l’ultima delle tante vicende che descrivono la triste parabola del sistema carcerario italiano. Un’organizzazione con caratteristiche ottocentesche che ha de facto esaurito la propria funzione sia di espiazione che di recupero del condannato. Affermarlo con forza non significa certo il “liberi tutti” anche per il rispetto che si deve alle vittime del delitto, va però detto che nella la maggior parte delle persone private della libertà oggi non sono pericolose e per esse molto si può fare per rispettare il dettato costituzionale. È questo un impegno che necessita di un cambio culturale e di cui potrebbe giovarsi tutta la società italiana. La Costituzione della Repubblica italiana stabilisce chiaramente all’articolo 27 che la pena detentiva non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debba tendere alla rieducazione del condannato. Secondo gli ultimi dati elaborati dall’Istat i detenuti maggiorenni incarcerati in Italia, al 31 marzo 2022, sono 54.609, distribuiti in 189 istituti, di cui 2.276 donne (circa il 4%). Del totale dei detenuti maggiorenni, 17.104 sono stranieri, circa il 31%. La capienza regolamentare è attualmente di 50.853 persone. Bastano pochi numeri per comprendere la gravità della questione. Sin dal lontano gennaio 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò la Repubblica italiana per lo stato delle proprie strutture carcerarie. La Corte di Strasburgo riconobbe che negli istituti di pena italiani esisteva un problema strutturale di sovraffollamento e per questo chiese alle autorità italiane di introdurre entro un anno soluzioni adeguate a invertire la tendenza e garantire che le violazioni non si ripetano. I dati parlano da soli e dimostrano che il nostro Paese è purtroppo ancora del tutto inadempiente. E In alcuni di essi lo sforamento percentuale tocca ancora il +100%. Sebbene in termini relativi sulla popolazione residente l’Italia risulti uno dei Paesi con più basso numero di detenuti, esso è tra i Paesi con più alto tasso di sovraffollamento delle carceri in Europa e quello in cui studiare, lavorare e curarsi è più difficile rispetto alle migliori esperienze di espiazione della pena all’estero. Dall’inizio dell’anno secondo il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia 82 persone si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena italiano. Mai così tante da quando si registra questo dato. Si può quindi dire che c’è qualcosa di meglio del carcere anche perché come esso è organizzato aumenta in modo esponenziale senza l’aumento della criminalità di ritorno. Formazione culturale, sostegno psicologico, riduzione delle pene per i reati meno gravi e un principio valido per tutti: colui che non è pericoloso non rimanga in un luogo di restrizione ma inserito in un percorso obbligatorio di reinserimento sociale e professionale grazie anche all’istituto della giustizia riparativa. Per fare questo c’è bisogno di politica, quella alta, e di fondi che purtroppo la prima legge di Bilancio del governo Meloni taglia di netto anche alla Polizia Penitenziaria. La vicenda del carcere minorile di Milano è uno “scossone” come ha ben detto Don Gino Rigoldi - ex cappellano di quell’istituto di pena - al ministro Nordio ma anche un buon piano di lavoro per il futuro. Così come in Italia il carcere va abolito. Riforma Cartabia: “Oggi troppi imputati costretti a trascorrere la vita nei tribunali” di Andrea Priante Corriere Veneto, 10 gennaio 2023 Il presidente della Corte d’Appello di Venezia Carlo Citterio difende la riforma: “Uffici subissati di cause in cui neppure la parte lesa ha più interesse alla sentenza”. “Una persona non deve restare sotto processo per tutta la vita. È inaccettabile. Questa riforma, una volta a regime, ridurrà i tempi della Giustizia, e garantirà sia i diritti degli imputati che quelli delle parti offese”. Il presidente della Corte d’Appello di Venezia, Carlo Citterio, ha fatto parte della Commissione Lattanzi istituita nel 2020 dall’ex ministro Marta Cartabia con l’obiettivo di elaborare delle proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale. Da lì sono scaturite alcune delle proposte poi rielaborate nella riforma che porta il nome dell’ex Guardasigilli e che - con la sua entrata in vigore il 30 dicembre - sta sollevando parecchie critiche anche nella nostra regione, specie dopo che alcuni ladri sorpresi a Jesolo (ma il giorno dopo è ricapitato con un malvivente catturato a Vicenza) sono tornati liberi perché mancava la querela della vittima. Il “capo” dei tribunali veneti, invita però ad avere pazienza: “Si tratta di un cambiamento epocale del sistema-Giustizia, è presto per giudicare la riforma” assicura Citterio. Presidente, i procuratori già lanciano l’allarme: in Veneto rischiano di saltare migliaia di processi perché manca la querela della parte offesa… “Probabilmente è vero: in questa prima fase i tribunali dovranno rintracciare le presunte vittime di alcuni tipi di reato e invitarle, nell’arco di poche settimane, a presentare querela. Non sarà facile, ma è fisiologico che, all’inizio, ci sia qualche disagio. Non dimentichiamo che una riforma della giustizia era invocata da tutti e necessaria: se invece di focalizzarci sul singolo episodio si guarda a questa legge nel suo complesso, si scoprirà che i vantaggi superano di gran lunga le criticità. Per esempio l’applicabilità da subito delle pene sostitutive, che oggi possono esserlo solo dopo tre gradi di giudizio, o la nuova disciplina del processo di appello. Semmai il problema è che ora, per non farla fallire, occorre un cambio di mentalità”. Si riferisce alle vittime di reato? “Non solo. Certo, i cittadini impareranno che, in alcuni casi, per portare avanti i processi serve una querela. Ed è giusto che sia così: attualmente i tribunali sono subissati di processi che vanno avanti nonostante perfino la parte lesa non sia affatto interessata ad arrivare alla sentenza. Questo ovviamente rallenta l’intera macchina della Giustizia, e ora speriamo non sarà più così. Ma il cambio di mentalità deve riguardare anche avvocati e magistrati, visto che con la riforma vengono valorizzati i riti alternativi e, soprattutto, le procure sanno che, in sede di udienza preliminare, il giudice dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere ogni volta che gli elementi acquisiti non consentiranno una ragionevole previsione di condanna. Inoltre viene predisposta un’udienza predibattimentale per i delitti meno gravi, sempre con la finalità di filtrare i procedimenti. Infine, nel caso di mancanza di specificità dei motivi, l’appello diventa inammissibile. Questo, e altro ancora, si spera basti a ridurre il numero dei processi di primo e secondo grado che si concludono, dopo anni, con l’assoluzione dell’imputato”. La riforma spinge molto verso forme di condanna “riparativa”… “Per le condanne più lievi si studiano alternative al carcere, come i lavori socialmente utili. E in questi casi la sentenza di condanna diventa inappellabile. Sia chiaro: non significa che il reo non “pagherà” per le proprie colpe, ma l’obiettivo principale dev’essere sempre quello di una rieducazione della persona e della riparazione del danno, anche nei confronti della società”. La riforma Cartabia si prefissa di diminuire la durata media dei processi penali del 25 per cento entro il 2026... “La situazione attuale è inaccettabile: tra processi e ricorsi ci sono persone che passano la vita nelle aule giudiziarie. Siamo arrivati al punto che molti procedimenti si concludono perché, nel frattempo, subentra la morte del reo”. Resta che arrivano molte voci critiche. C’è perfino chi chiede di cancellare l’intera riforma. Cosa risponde? “La legge è frutto di un compromesso, come sempre in politica. Per la mia esperienza, posso dire che quando nessuno è contento spesso significa che si è lavorato bene, senza sposare il punto di vista di una sola componente del mondo della giustizia. È evidente che alcune di queste “voci critiche” arrivano da persone che non hanno approfondito per intero il testo della legge, dove invece tutto è collegato. Le invito a farlo; capiranno che va nella direzione di rispettare i diritti delle persone: delle potenziali vittime, ma anche degli indagati, assicurando tempi più celeri di definizione dei processi, dei risarcimenti e della riparazione dei torti, con sanzioni adeguate di tempestiva esecuzione”. Manca la firma della vittima, i ladri presi e già liberi. Ma sulla riforma bilanci a marzo di Giusi Fasano Corriere della Sera, 10 gennaio 2023 Cartabia, i primi casi e le incognite. Sui processi effetti valutabili fra 3 mesi Su una cosa sono tutti d’accordo: bisognerà aspettare il 30 marzo. Può darsi che quel giorno, come dicono i detrattori, migliaia di procedimenti penali in corso diventino improvvisamente carta straccia per effetto della riforma della giustizia penale che porta il nome dell’ex ministra Marta Cartabia. Oppure, come spera chi loda la legge, può essere che entro quella data arrivino a destinazione tutte le querele che servono per tenere in piedi quei procedimenti senza azzerare nessuna indagine. Stiamo parlando della novità più discussa (anche se altre non sono meno importanti) introdotte, appunto, dalla riforma Cartabia. E cioè del fatto che adesso servono le querele di parte per procedere penalmente per reati come il furto (non quello in appartamento), l’appropriazione indebita, le frodi fiscali, la violazione di domicilio, le lesioni personali colpose stradali gravi o gravissime, il danneggiamento, il sequestro di persona non aggravato... Fino al 30 dicembre, per dire, un ladro sorpreso con la refurtiva in mano finiva in cella in automatico. Flagranza di reato. Adesso no. Senza querela quello stesso ladro viene identificato e rilasciato. Quindi oggi può capitare quel che è successo a Jesolo l’altra notte: la polizia incappa in una coppia di scassinatori appena usciti col bottino dal Pineta Aparthotel chiuso per ferie, ma non può fermarli perché il magnate russo proprietario, Andrey Alexandrovich Toporov, non è a Jesolo e quindi non può firmare la querela. A Vicenza un ladro d’auto è stato bloccato e rilasciato perché la querela non era firmata dal proprietario ma da un’impiegata della società a cui appartenevano due delle auto che aveva tentato di portare via. E ancora. Il caso del noto rapper padovano Baby Touché sequestrato dal suo rivale Simba La Rue e da altri quattro ragazzi: arrestati e subito scarcerati perché la vittima ha deciso di non presentare querela. Caso simile a un altro sequestro lampo a Loano (Savona): tre albanesi se la prendono con un connazionale ma lui, dopo la firma, decide di ritirare la querela e così manca la condizione per procedere per quel reato. Casi, c’è da dire, che finora si contano sulle dita di una mano. Ce ne saranno sicuramente altri ma quel che più preoccupa magistratura e polizia giudiziaria sono i procedimenti penali o i processi già avviati, essendo la riforma applicabile anche retroattivamente. Per i casi già aperti e con detenuti ci sono 20 giorni di tempo (a partire dal 30 dicembre) per rintracciare le vittime e invitarle a sporgere querela. Se non lo fanno, i detenuti saranno scarcerati. Per quelli senza detenuti (migliaia in tutta Italia) i giorni diventano 90: firmare la querela entra il 30 marzo altrimenti si azzera tutto. E quella data, dunque, potrebbe essere la fine improvvisa di un numero consistente di procedimenti in corso: o perché non sono state rintracciate le parti lese alle quali chiedere di firmare la querela, o perché pur informati di questa necessità non l’hanno firmata. Francesca Zancan, giudice a Venezia e nella giunta veneta dell’Anm dice che “nel distretto avremo migliaia di procedimenti aperti che necessitano di querela. Pensi solo ai borseggiatori dei turisti a Venezia... Spesso le vittime sono straniere, non credo che tornino per firmare la querela. A fine marzo vedremo cosa accadrà. Non voglio essere distruttiva ma per non buttare via tempo e lavoro ho rinviato ad aprile tuffi i casi peri quali serve una querela che ora non ho”. Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, vede la riforma Cartabia come un bicchiere mezzo pieno. E puntualizza: “Non vorrei passasse il messaggio che il furto non è più reato se non c’è la querela perché non è così. Si evita la carcerazione, il fascicolo viene aperto lo stesso e la vittima ha tre mesi per formalizzare le accuse. La riforma Cartabia fa quello che l’avvocatura chiede da sempre: non sovraccaricare il sistema penale”. “Il nostro lavoro stravolto”: persino l’Arma dei carabinieri si ribella alla riforma Cartabia di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2023 Non solo una parte della magistratura. A sollevare critiche alla riforma Cartabia ora ci sono anche alcuni sindacati dei carabinieri, che hanno raccolto le lamentale delle questure, soprattutto quelle delle piccole città, che si ritrovano a dover applicare una disciplina da poco entrata in vigore, senza gli strumenti necessari. Le segnalazioni sono arrivate da più parti del territorio. “Questa riforma sta stravolgendo il lavoro delle forze di polizia, crea disorientamento”, spiega Alfonso Montalbano del direttivo nazionale dell’Usmia, uno dei sindacati dei militari. Qualche giorno fa è stato scritto un comunicato in cui si chiede “con urgenza un intervento al governo e alla magistratura” per ottenere chiarimenti sulle videoregistrazioni e sui corsi di aggiornamento non ancora partiti. E intanto centinaia di fermi rischiano di saltare. Perché il primo ostacolo è proprio quello dei reati da pochi giorni procedibili a querela, mentre prima lo erano d’ufficio. Dal 30 dicembre, infatti, per furti, lesioni lievi o molestie, ma anche sequestri di persona e violenza privata, è necessaria una denuncia da parte della vittima. E questo vale anche per i fascicoli aperti prima dell’entrata in vigore della Cartabia. “Ci ritroviamo nella situazione in cui dobbiamo correre ai ripari. In collaborazione con diverse Procure, anch’esse travolte dalla dirompenza della norma, stiamo cercando le vittime di quei vecchi fascicoli aperti nei mesi scorsi e a suo tempo procedibili d’ufficio, per chiedere di formalizzare la querela. Abbiamo tempo fino al 19 gennaio, dopodiché si procederà alla scarcerazione”. In diverse Procure italiane, da Reggio Calabria a Roma, i magistrati stanno facendo un punto per capire come trattare i fascicoli già aperti. E sono anche in corso riunioni per redigere circolari su come applicare la nuova riforma. La situazione che si è venuta a creare è simile a quando è entrata in vigore (nel novembre 2021) la legge sulla presunzione di innocenza, che è intervenuta per regolare i rapporti con la stampa. A questo intervento normativo sono seguite circolari di varie Procure e anche incontri organizzati dalle forze dell’ordine in diverse regioni, dalla Sardegna alla Campania. Allo stesso modo, ora i magistrati stanno cercando di capire come rendere più chiara l’applicazione della riforma Cartabia anche per dare indicazioni precise alla polizia giudiziaria. Nel frattempo si naviga a vista. Uno dei problemi sottolineati dai sindacati dei carabinieri riguarda le videoregistrazioni: “Ora sono previste per casi particolari, ma mancano gli strumenti necessari, come ci stanno segnalando. E allo stesso modo manca anche la modulistica, come i verbali multilingua da consegnare a chi formalizza una denuncia. Può sembrare una minuzia, ma così molte querele saltano”, aggiunge Montalbano. C’è poi la questione della formazione: “Non c’è stato il tempo di preparare le forze dell’ordine. Ci rendiamo conto che l’attuale governo si è ritrovato questo testo normativo, ma auspichiamo un intervento per finanziare le nostre amministrazioni al fine di formare il personale e dotarlo dei necessari strumenti tecnici”. Come ogni volta che vengono introdotte modifiche normative, il Comando generale dell’Arma prevede a favore del personale aggiornamenti anche da parte della scala gerarchica, ma la fase attuale è ancora di assestamento. Usmia però non è l’unico sindacato che sta muovendo le acque. Anche Unarma lamenta la mancanza di strumenti per le videoregistrazioni: “La riforma Cartabia - riporta una nota - è entrata in vigore da solo una settimana, ma dal provvedimento emergono già delle lacune che, generando dubbi interpretativi, paralizzano l’iter della giustizia. In questo modo anziché agevolare le forze dell’ordine, gli agenti finiscono in un’impasse burocratico con il rischio di non convalidare gli arresti”. Insomma anche i militari, su questa riforma, hanno qualcosa da dire. Nuovo Csm, poche donne e partiti in stallo: non decolla la riforma Cartabia sull’elezione dei laici di Liana Milella La Repubblica, 10 gennaio 2023 Si vota alla Camera da martedì 17, trattativa in alto mare ma FdI frena sull’ipotesi di prendersi tutti i dieci laici perché sarebbe uno sgarbo istituzionale a Mattarella. Sul sito della Camera gli autocandidati. Il “nuovo” e il “vecchio” si mescolano, fino a confondersi, in questa prossima elezione dei consiglieri laici del Csm. Si voterà a partire dal 17 gennaio. Ma di certo, per la fumata bianca, ci vorranno più giorni. I posti sono dieci. Erano otto nello scorso Consiglio. Il “nuovo” sono le candidature spontanee che si possono scorrere sul sito della Camera, erano 163 fino a ieri sera, di cui 42 donne, tutti e tutte avvocati e professori con almeno 15 anni di anzianità. Una novità frutto della legge Cartabia che ha cambiato le regole di elezione e di funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. L’organo di governo autonomo, come lo chiamano le toghe. Il “vecchio” sono le camarille della politica. Dalla quale non arriva ancora una riunione di maggioranza per decidere quanti posti si prenderanno i partiti che la compongono e quanti ne resteranno per l’opposizione. Se ne resteranno.  Ma qui bisogna subito registrare quanto afferma una fonte “meloniana”. Sì, riunioni non se ne sono fatte, ma non corrisponderebbe al vero la diceria che la maggioranza vorrebbe mettere a segno il “colpo gobbo”, pigliarsi tutti e dieci i laici, per fare la voce grossa al Csm e mettersi sotto le scarpe i magistrati. No, e per almeno un paio di buone ragioni. “Innanzitutto non sarebbe nello stile di Giorgia Meloni comportarsi così, e soprattutto farlo con il Csm che vede al suo vertice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella”. E poi: “I magistrati non sono i nostri nemici”. Che cosa può succedere allora in vista del 17 gennaio? Una riunione della maggioranza di certo entro il fine settimana, e gli indispensabili contatti con l’opposizione, visto che la formula più probabile potrebbe essere quella di un centrodestra che si assegna sette consiglieri laici - tre per FdI, due per la Lega e due per Forza Italia - e ne lascia uno ciascuno alle opposizioni, un laico per Azione-Italia viva, uno per il Pd, uno per M5S. Ancora ieri, nel Pd, correva la voce insistente di una trattativa per due posti. E più di un osservatore sostiene che, viste le posizioni sulla giustizia del Terzo polo (bastino, per tutte, quelle di Enrico Costa di Azione e dello stesso Renzi per Iv), di fatto la destra avrebbe otto laici sui dieci disponibili.  Ma se tutto questo è il “vecchio”, le “vecchie” trattative e lo spoils system, dov’è finito il “nuovo” della legge Cartabia? Di fatto rischia di finire in soffitta. Perché il “nuovo” è rappresentato proprio dalle candidature spontanee di professori e avvocati che però già si sa che verranno ignorate. A tutto vantaggio di quei “fortunati” che all’ultimo momento - forse solo martedì mattina - saranno proposti da una decina di parlamentari appartenenti ad almeno due partiti. Quelli saranno i veri nomi che rischiano di finire al Csm, perché saranno il frutto delle intese di maggioranza e, se regge la formula del “7 più 1 più 1 più 1”, anche con l’opposizione. Una vulgata attribuisce comunque a qualche esponente di Forza Italia di stretta fede berlusconiana l’idea del “sacco” dei togati del Csm. Una minaccia istituzionale che comunque, fino alla fine, resta sul tavolo. E vedremo anche perché.  Nel nulla dunque le autocandidature, salvo che qualcuna non sia stata “pilotata” a dovere. Un elenco che dovrà rispettare l’equilibrio di un 40% di presenza femminile. Che per ora non c’è. Se non dovesse esserci fino a sabato le donne potranno presentare i loro nomi fino a martedì. La legge Cartabia, ovviamente, ha potuto incidere solo sulla parità di genere nelle candidature, ma non è riuscita a imporre la medesima parità anche negli eletti.  È un fatto che nell’elenco degli autocandidati proprio ieri è spuntato un nome femminile di peso, quella di Maria Elisa D’Amico, a tutti nota come Marilisa, ordinaria di diritto costituzionale e prorettore con delega alla legalità, trasparenza e parità dei diritti all’università Statale di Milano. Nonché moglie di Nicolò Zanon, oggi vice presidente della Consulta, ed ex consigliere laico del Csm in quota Pdl. Di professori ce ne sono altri. Come Costantino Visconti che insegna diritto penale a Palermo. O Tommaso Edoardo Frosini, docente di diritto pubblico alla Suor Orsola Benincasa di Napoli. E ancora Renato Marini, figlio d’arte perché suo padre, Annibale Marini, non solo è stato consigliere laico del Csm per An, ma anche presidente della Consulta. Lui insegna diritto privato a Tor Vergata, e suo fratello Francesco Saverio diritto pubblico. Tra i professori ecco il politologo Stefano Passigli e il sociologo e avvocato barese Luigi Pannarale.  Nella lista primeggiano per numero proprio gli avvocati. Da ieri c’è anche Enrico Caratozzolo, al Csm già come consigliere dell’ex presidente Michele Vietti. E poi i milanesi Raffaele Della Valle e Gaetano Pecorella. Il romano Gianluigi Pellegrino. Il palermitano Nino Lo Presti, ex deputato di An ora meloniano. Il radicale Giuseppe Rossodivita. Ma pure ex deputati e senatori con il forzista Ciro Falanga, il vero “padre” della prescrizione berlusconiana in versione ex Cirielli, e cioè Luigi Vitali. Nella lista c’è anche Francesco Urraro, ex senatore M5S passato alla Lega che, con Fabio Pinelli, avvocato pure lui, potrebbero essere gli uomini di Salvini a palazzo dei Marescialli. Anche se Pinelli avrebbe già detto che entra solo se fa il vice presidente.  Non conferma affatto l’intenzione di lasciare il Senato per il Csm Pierantonio Zanettin che usa l’espressione famosa di Tito Livio, “Hic manebimus optime” (qui staremo benissimo). È già stato consigliere a palazzo dei Marescialli per Forza Italia, era prima ed è stato poi di nuovo deputato. Ora è capogruppo in commissione Giustizia al Senato e vuole restare lì. E qui comincia l’avventura per i futuri neo eletti. Perché sicuramente non troveranno degli “amici” tra i togati del Csm. Ricordiamo che i venti (erano 16 nel consiglio uscente) sono stati votati dai colleghi tra il 18 e il 19 settembre. Così suddivisi: 7 togati di Magistratura indipendente, 6 della sinistra di Area, 2 di Magistratura democratica, 4 Unicost, un unico indipendente, Andrea Mirenda. Nel centrodestra è invalsa l’idea di considerare scontato il voto di Mi e di Unicost. Ma non è affatto detto che andrà così. Perché la linea oltranzista del Guardasigilli Carlo Nordio sulla giustizia - separazione delle carriere, intercettazioni “porcheria”, stop all’obbligatorietà dell’azione penale - potrebbe spingere tutti i togati a scegliere un vice presidente che non sia espressione del centrodestra medesimo. E proprio questo timore, in extremis, potrebbe convincere tutta la maggioranza che tanto vale mandare al Csm dieci togati tutti di destra. Anche se il risultato del voto non cambierebbe affatto, perché venti togati “vincono” contro dieci laici...  Vicepresidenza Csm, Renzi ora parla con la maggioranza e spunta Zanettin di Valentina Stella Il Dubbio, 10 gennaio 2023 Manovre in corso per Palazzo dei Marescialli, il terzo polo punta su un profilo “garantista” e non “divisivo”. E il 17 gennaio si vota per i 10 membri laici. A pochi giorni dall’elezione dei membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura impazza il toto-nomi, soprattutto quello riguardante la vice presidenza di Palazzo dei Marescialli. Un puro esercizio di divertissement visto che i nomi, quelli sicuri, spunteranno all’ultimo momento. Camera e Senato dovranno riunirsi in seduta comune il prossimo 17 gennaio ma il termine per la candidatura scade alle ore 9 di sabato 14 gennaio. Qualora il 40 per cento delle candidature non fosse donna, la seconda scadenza sarebbe alle 10 di lunedì 16 gennaio. Ormai, nonostante gli appelli di qualche parlamentare e della stessa magistratura, la direzione è quella di operare al di là di curriculum e trasparenza. A decidere saranno quindi i partiti secondo precisi equilibri da mantenere. Hanno meno di una settimana per fare gli accordi: archiviate le vacanze natalizie, in questi giorni dovranno trovare la quadra. Ieri dalle pagine de Il Giornale era trapelato il nome di Gian Domenico Caiazza, attuale presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane e legale di Matteo Renzi, quale figura attorno alla quale centrodestra e Terzo Polo potrebbero convergere per la vice presidenza. In realtà lui non sarebbe disponibile perché impegnato a terminare il mandato da vertice dei penalisti italiani. Invece da fonti di centrodestra si rafforza il nome del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin. La scelta di un esponente del partito di Silvio Berlusconi sarebbe un modo per riparare al fatto che a Forza Italia non è stato dato il Ministero della Giustizia, consegnato invece a Carlo Nordio eletto con Fratelli d’Italia. L’alternativa sarebbe stata quella della Ministra delle Riforme istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati sempre di Fi ma qualcuno, al contrario di Zanettin, considera “divisiva” la candidatura dell’ex seconda carica dello Stato. Ma quest’ultimo che ne pensa? Interpellato, ci ha detto “Hic manebimus optime” riferito alla sua attuale presenza in Senato. Zanettin è stato già membro del Consiglio Superiore della Magistratura, conosce bene la macchina. Certo, spostarlo dal Senato al Csm significherebbe anche depotenziare un certo modo di battagliare sulla giustizia a Palazzo Madama da parte di Forza Italia. Zanettin è uno dei più attivi da questo punto di vista, basti pensare alle ultime iniziative sul trojan, che molte riflessioni stanno suscitando, e all’emendamento alla norma sull’ergastolo ostativo per espungere i reati contro la Pa da quelli che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari. Ovviamente sull’importante e delicato ruolo della vice presidenza peseranno anche le indicazioni del Quirinale da parte del Presidente dello Stato e del Csm, Sergio Mattarella. Altresì i desiderata della magistratura e la compattezza dei laici eletti. Servono almeno 16 voti per eleggere il vice presidente. Ricordiamo che con la riforma di mediazione Cartabia i consiglieri laici passano da otto a dieci. Il centrodestra dovrebbe eleggere sette membri: tre a Fratelli d’Italia, due a testa per Lega e Forza Italia, gli altri tre spetterebbero alle opposizioni (Pd, M5S, Terzo Polo). Da questo punto di vista se il centrodestra vuole assicurarsi una buona chance per condurre la partita sulla vice presidenza deve fare l’accordo col Terzo Polo di Renzi e Calenda. In realtà la partita la sta giocando Renzi su questo fronte. Fonti di Italia Viva fanno sapere che puntano minimo ad eleggere un loro candidato, ma l’obiettivo massimo è fare il bis. Se così fosse non rimarrebbero eletti in quota Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico: quest’ultimo, per esempio, ha già avuto la presidenza del Copasir e la vice presidenza del Senato. E a quel punto i laici dovrebbero trovare un accordo con Magistratura Indipendente, la corrente più conservatrice e perciò considerata più vicina alla maggioranza di governo. All’opposizione troverebbero Area e Md, meno scontata la posizione di Unicost. Violenza negli stadi. A ogni morto si fanno nuove leggi, ma nulla cambia di Giulia Merlo Il Domani, 10 gennaio 2023 Ad ogni vittima o scontro particolarmente cruento, un nuovo decreto per inasprire o introdurre nuove norme: così si è formata la legislazione italiana contro la violenza da tifo e negli stadi. Ad oggi, però, il problema del tifo violento non è ancora stato risolto, né negli stadi né fuori, come dimostra l’ora di follia che ha bloccato l’autostrada A1 nel pomeriggio di domenica 8 gennaio. In questo caso, a scontrarsi sull’autostrada del Sole sono stati circa 250 romanisti e napoletani, entrambi diretti a nord per la trasferta delle loro squadre. I tifosi che si sono dati appuntamento per una resa dei conti nello stesso autogrill dove nel 2007 ha perso la vita l’ultras laziale Gabriele Sandri, colpito da un colpo di pistola sparato da un poliziotto della stradale durante un tafferuglio tra tifosi. Sula carta le leggi ci sono e sono anche state aggiornate e nella maggior parte dei casi indurite nel corso degli ultimi anni. Il problema però è radicato in un sistema fatto di rapporti opachi tra società sportive e gruppi ultras, ma soprattutto la carenza di personale di polizia per la gestione dell’ordine pubblico e il contenimento di un fenomeno che deve essere sempre monitorato in ottica di prevenzione. La legge del 1989 - La legge che ancora oggi fissa i contorni penali della violenza negli stadi è la 401 del 1989, introducendo alcune fattispecie di reato tipiche, commesse in occasione di manifestazioni sportive. Le principali sono il lacio di materiale pericoloso (punito da 1 a 4 anni), lo scavalcamento e l’invasione di campo; il possesso di razzi, fuochi d’artificio o bengala, bastoni o materiale imbrattanti, punito con il carcere da 6 mesi a 3 anni; le lesioni, la violenza o minaccia nei confronti degli addetti ai controlli. Inoltre, è con questa legge che viene introdotto nell’ordinamento italiano la misura del Daspo, ovvero il divieto di accedere allo stadio per coloro hanno messo in pericolo l’incolumità fisica delle persone o che hanno comunque compiuto atti di violenza. La norma poi è stata modificata e inasprita molte volte, in particolare dal decreto legge del 2014. Il decreto Pisanu - La legislazione spartiacque in materia di contrasto alla violenza negli stadi è il decreto voluto nel 2005 dall’allora ministro dell’Interno, Beppe Pisanu. Il pacchetto ha inasprito le pene per chi invade o lancia oggetti in campo con un conseguente danno alle persone, con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Inoltre viene introdotto il biglietto nominativo, la videosorveglianza nello stadio che consente l’applicazione dell’arresto in caso di violenze secondo la cosiddetta “flagranza differita”, ovvero dopo aver visionato le riprese. Poi l’obbligo di tornelli per l’ingresso sugli spalti, l’equiparazione degli steward a incaricati di pubblico servizio e presenti sugli spalti e sanzioni fino a 15 mila euro per il bagarinaggio. Il decreto, però, è rimasto in buona parte sulla carta a causa della difficoltà di adeguare le infrastrutture alle nuove norme. All’epoca, infatti, i proprietari degli stadi erano sempre i comuni, senza disponibilità economica per mettere in regola le strutture salvo pochi casi (Torino, Palermo, Genova, Siena, Messina e Roma). Raciti e la legge Amato Il pacchetto del 2005 viene rivisto nel 2007, all’indomani della morte dell’ispettore di polizia Filippo Raciti durante gli scontri tra forze dell’ordine e ultras fuori dallo stadio di Catania, durante il derby con il Palermo. Dopo la tragedia è stato approvato a larghissima maggioranza un decreto che ha irrigidito i controlli all’ingresso, prevedendo l’obbligo di documento di identità e la possibilità di comprare al massimo 4 biglietti a testa, con multe da 5 mila a 20 mila euro per il personale che non effettua i controlli e anche per le società sportive; ha vietato l’esposizione di striscioni che incitano alla violenza, con pena da uno a cinque anni, aumentato a 48 ore il tempo per l’arresto in flagranza differita. Inoltre, ha previsto che gli stadi non a norma dovessero far giocare le partite senza pubblico. Infine, ha inasprito tutte le sanzioni: condanna da 4 a 10 anni per chi provoca lesioni gravi a pubblici ufficiali in servizio di ordine pubblico, e per le lesioni gravissime una pena dagli 8 ai 10 anni. La legge ha inoltre inasprito il Daspo, con la diffida ad assistere agli eventi sportivi da uno a cinque anni per i provvedimenti firmati dal questore, e da due a otto anni per quelli emessi dal giudice. Esposito e il dl Stadi - Il pacchetto normativo più importante degli ultimi anni risale al 2014, approvato dal governo Renzi all’indomani della morte dopo due mesi di agonia di un giovane tifoso napoletano, Ciro Esposito, ucciso con un colpo di pistola da ultras della Roma durante i disordini che hanno preceduto la finale di coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Il decreto legge, che ha modificato la legge cardine del 1989, ha avuto lo scopo di sanzionare in modo più stringente la violenza causata dal tifo, in particolare introducendo il Daspo di gruppo, con il divieto di accesso allo stadio per almeno 3 anni nei confronti dei responsabili di violenze di gruppo e da 5 a 8 anni nel caso di recidivi. Il decreto ha ampliato i destinatari: il Daspo comprende anche chi è stato denunciato o condannato per l’esposizione di striscioni offensivi o violenti o razzisti, per reati contro l’ordine pubblico e altri delitti gravi come la rapina e lo spaccio. Inoltre è stato previsto anche il divieto di trasferta della tifoseria per uno o due campionati nel caso di gravi episodi di violenza, con la chiusura del settore ospiti e il divieto di vendita dei biglietti. Infine, con il decreto legge è stato inasprito il regime sanzionatorio in materia di frode in competizioni sportive, con pene da due a sei anni e la multa da 1000 a 4000 euro. Le multe alle società sportive - Anche la giustizia sportiva ha approvato un pacchetto di norme che hanno lo scopo di fermare la violenza negli stadi, facendo leva sulle società sportive. La Lega Calcio, infatti, irroga multe alle società sia per violazione delle regole di condotta da parte di calciatori e dirigenti che per responsabilità oggettiva, a causa dei comportamenti dei suoi tifosi dentro lo stadio. Ogni anno raccoglie più di mezzo milione di euro: il motivo principale delle sanzioni è il lancio di fumogeni, petardi e bengala in campo, seguito dai cori razzisti. Secondo un calcolo di Sport Mediaset relativo al campionato 2017-2018, degli 807.500 euro totali incassati dalla Lega, il 65 per cento è derivato dalle sanzioni ai club per il comportamento dei tifosi. Questo meccanismo rischia tuttavia di generare un pesante cortocircuito, con le società tenute sotto scacco dagli ultras, pronti a minacciare violenze la cui responsabilità sotto forma di multa ricade sul club. Proprio questo rapporto problematico tra ultras e dirigenza è stato più volte oggetto di procedimenti federali della corte di giustizia sportiva e anche di inchieste penali. Il più recente è il caso dell’inchiesta “Alto Piemonte” nel 2017 che si è conclusa nel 2019 con 14 condanne. L’accusa metteva a fuoco il rapporto tra i dirigenti della Juventus e alcuni capi ultras bianconeri, che per mantenere l’ordine nello stadio ottenevano in cambio “biglietti e abbonamenti, anche a credito e senza previa presentazione dei documenti di identità dei presunti titolari”. Ovvero: biglietti gratis usati per bagarinaggio da associazioni per delinquere legate alla ‘ndrangheta in cambio della pace nella curva dello Juventus Stadium. La giustizia sportiva ha condannato anche l’allora presidente della Juventus, Andrea Agnelli, a una multa di 100mila euro e all’inibizione per tre mesi e il club a 600 mila euro di ammenda. Bari. “La giustizia riparativa è fondamentale per cambiare strada” di Christian Cabello interris.it, 10 gennaio 2023 Intervista ad Angelo Santoro, presidente della cooperativa sociale “Semi di Vita” che, in Puglia, opera nell’ambito della giustizia riparativa minorile. Nel corso degli ultimi anni sul piano internazionale e dell’Unione Europea si è incentivato molto l’introduzione in ambito penale della giustizia riparativa. Nel dettaglio, l’ambito minorile è stato interessato da questo nuovo paradigma di giustizia, come è stato definito nel Tavolo 13 degli Stati Generali dell’Esecuzione penale nel 2016. In particolare, lo scopo principale della giustizia riparativa, è quello di riparare il danno causato dal proprio comportamento; le pratiche riparative sostengono una concezione partecipativa della giustizia, che favorisce il reinserimento piuttosto che la punizione e il castigo. Interris.it, in merito a questo argomento e alla sua declinazione concreta, ha intervistato Angelo Santoro, presidente di Semi di Vita, protagonista di un’esperienza di giustizia riparativa che coinvolge ragazzi minorenni in provincia di Bari. Che valore riveste per voi il concetto di giustizia riparativa in riguardo ai più giovani? “A mio parere, quello della giustizia riparativa, è il primo concetto che bisogna sposare nel momento in cui si mette piede in un carcere minorile. Le strade, in questo senso, sono lunghe e tortuose ma, il risultato, per quanto riguarda i giovani, è sempre più dietro l’angolo. È molto più complicato lavorare con gli adulti rispetto che ai giovani. In particolare, per questi ultimi, la giustizia riparativa è fondamentale perché essi sono ancora in tempo a cambiare strada.” Quali sono le attività e i progetti più rappresentativi che svolgete su questo fronte? “In primis abbiamo una serra all’interno del carcere minorile di Bari dove, con l’ausilio dei ragazzi detenuti, coltiviamo funghi. Inoltre, da qualche mese, grazie a un bando del Ministero della Giustizia, abbiamo inserito un essiccatore professionale, con cui appunto essicchiamo diversi prodotti, in questo periodo, ad esempio, la frutta. Inoltre, a Valenzano, in provincia di Bari, abbiamo un grande progetto che si sviluppa su 26 ettari di terreno confiscati alla mafia dove, una volta formati i ragazzi che hanno dimostrato di volersi reintegrare, hanno il desiderio di lavorare e mettersi in gioco, cerchiamo in tutti i modi di farli uscire dal circuito del carcere, portandoli all’esterno e facendoli lavorare sui terreni. L’obiettivo è quello di preparare loro la strada per fargli prendere il volo, con l’augurio che, in futuro, possano andare a lavorare in maniera stabile da qualche altra parte.” Quali sono i vostri desideri per il futuro in riguardo all’inclusione e alla reintegrazione nella società di questi ragazzi? “Lavorare con i giovani è molto complicato perché non si parla di rieducazione al lavoro ma di educazione al lavoro, ossia del primo passaggio rispetto all’attività lavorativa. Spesso, molti di loro, non hanno mai lavorato in termini legali, a nero o nei circuiti che li hanno portati in carcere. Quindi, è complicato far passare il messaggio per cui, forse si guadagnano meno soldi, ma c’è una migliore prospettiva di libertà rispetto a quanto ricevuto fino a quel momento. Il nostro augurio in merito è di riuscire a dare loro maggiori possibilità affinché, una volta usciti dal carcere, possano avere la possibilità di lavorare e non reiterare il reato.” Palermo. Le voci dei detenuti: “Dateci un’occasione di riscatto” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 10 gennaio 2023 Repubblica Palermo ha svolto la riunione di redazione nel penitenziario di Pagliarelli, raccogliendo le istanze dei detenuti: più contatti con le famiglie, accesso all’informazione e lavoro per il “dopo”. Nel grande teatro del carcere di Pagliarelli ha inizio un incontro del tutto inedito: la riunione della redazione palermitana di Repubblica. Da una parte i giornalisti, dall’altra 150 tra detenute e detenuti. In prima fila ci sono anche gli educatori, i funzionari della polizia penitenziaria. “Un’esperienza assolutamente nuova - dice la direttrice Maria Luisa Malato - in un istituto che pure è aperto a tante iniziative”. Il capo redattore Marco Patucchi inizia a scorrere gli articoli sul sito di Repubblica Palermo, poi racconta come si costruisce un giornale. E subito irrompono le “notizie” che arrivano dal carcere. “Ogni giorno facciamo tanti corsi di formazione, ad esempio uno è in tema di giardinaggio - spiega un giovane detenuto - ma poi usciti da qui nessuno ci offre un lavoro, per mettere a servizio della comunità quanto abbiamo imparato”. Il reinserimento nella società è la principale preoccupazione per chi vive recluso, lo sottolinea l’accorato applauso al termine dell’intervento. L’altra preoccupazione è per le famiglie che rimangono oltre le sbarre. A sorpresa, un altro giovane chiede alla direttrice di poter consegnare una lettera ai giornalisti, “a nome di tutti”. Ma Repubblica è solo il tramite, i destinatari di queste parole sono “i carissimi figli al di là del muro”: “Chi vi scrive è il vostro papà, non c’è cosa al mondo che sia più bella e importante di voi. Siete piccoli e non potete sapere che aiuto ci date per superare questi momenti oscuri”. Nel grande teatro cala un silenzio profondo. “Voi, con il vostro bene innocente - prosegue la lettera scritta in stampatello - riaccendete la luce e la speranza dentro di noi. Siamo in un posto che non ci aiuta, ma ci fate capire quanto siete importanti, non c’è attimo della giornata in cui il nostro pensiero non sia rivolto a voi figli”. La vita difficile dietro le sbarre è negli occhi degli uomini e delle donne che oggi sono parte di questa riunione di redazione “in trasferta”, che per due ore non può comunicare con l’esterno. Telefonini e computer dei giornalisti sono sotto chiave all’ingresso. Al tempo di Internet e delle notizie che corrono veloci, oggi ci sentiamo quasi la redazione di un giornale impossibile da fare. E, invece, in due ore, le notizie continuano ad arrivare. Notizie dal mondo degli invisibili. E oggi sono in prima pagina. Storie di disagio - “Noi siamo gli ultimi”, una voce arriva dal fondo della platea. E nelle celle di Pagliarelli, fuori da questo teatro, ci sono gli ultimi tra gli ultimi: 180 detenuti con disturbi mentali, alcuni tossicodipendenti. “Dovrebbero essere ospitati nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma non c’è spazio per tutti - spiega Giuseppe Rizzo, il comandante della polizia penitenziaria di Pagliarelli - e il carcere non è attrezzato ad affrontare situazioni del genere”. Un impegno gravoso, anche per i compagni di cella. “Una problematica molto complessa - spiega la direttrice - ma qui a Pagliarelli abbiamo le statistiche più basse d’Italia per quanto riguarda i suicidi dei detenuti”. L’emergenza è ormai esplosa in tutta Italia: nel 2022 sono stati 84 i decessi, un suicidio ogni cinque giorni. Una strage senza precedenti. “Le tante attività che realizziamo, dalla scuola al teatro, ai corsi più svariati - racconta la dottoressa Rosaria Puleo, responsabile dell’area giuridico-pedagogica, mentre entriamo in teatro - non sono solo un modo per proporre ai detenuti cose mai fatte, ma anche per mantenere l’umore ed azzerare il rischio di suicidi”. Qui dentro il tempo si ferma, i pesi della vita sembrano diventare ancora più insopportabili. Spiega un detenuto: “Un grande conforto, durante la stagione della pandemia, ci è arrivato dai colloqui telefonici giornalieri con le famiglie, anche attraverso video-chiamate. Con la fine dell’emergenza tutto questo è svanito”. Da Pagliarelli arriva la richiesta dei detenuti di “non tagliare il ponte fondamentale con i propri cari”. C’è chi reclama invece “il diritto ad essere sempre informati su quanto accade nel mondo esterno: non solo attraverso la televisione, i giornali, ma anche l’informazione via web”, che però al momento la legge esclude. Vita quotidiana - Due ore scorrono velocemente, le domande e le osservazioni sono tante. Mentre la vita del penitenziario scorre: i detenuti sono oltre 1200, i poliziotti penitenziari 625, ma 120 sono destinati alle traduzioni e in pianta organica mancano 100 unità. È davvero difficile la frontiera quotidiana di Pagliarelli, fra percorsi di possibile cambiamento e severi controlli: l’ultimo dell’anno i poliziotti hanno trovato l’ennesimo telefonino che un detenuto aveva nascosto dentro l’ano. I controlli si fanno ancora più stringenti nel reparto dell’Alta sicurezza, dove sono reclusi boss e trafficanti di droga, loro non hanno partecipato alla riunione di redazione di Repubblica. Il giornale di oggi è impostato, sul grande schermo del teatro scorrono le pagine del menabò, le indicazioni per gli articoli assegnati, la home page del sito. “Continuate a scrivere di noi”, sussurra un giovane mentre torna in cella. “Occupatevi della situazione di alcune carceri siciliane, io ho avuto un’esperienza traumatica ad Agrigento - dice una donna - sono una madre a cui hanno tolto sette figli”. La riunione di redazione è terminata, le notizie invece non si fermano. E dal carcere raggiungono la città. Palermo. La direttrice del Pagliarelli: “Servono più psichiatri, da soli non ce la facciamo” di Marta Occhipinti La Repubblica, 10 gennaio 2023 Intervista a Maria Luisa Malato: “È necessario per tutti che la comunità esterna conosca le dinamiche e quello che si svolge all’interno del contesto penitenziario”. Sale e scende tra i piani dell’istituto penitenziario che dirige da due anni, firmando documenti urgenti. Nella più grande casa circondariale palermitana, con una popolazione di oltre 1.200 detenuti, la quotidianità è frenetica. E Maria Luisa Malato gli tiene testa ogni giorno. Direttrice, quanto è importante per l’istituzione carcere aprirsi alla città? “È importantissimo. È necessario per noi che la comunità esterna conosca le dinamiche e quello che si svolge all’interno del contesto penitenziario. Come è ugualmente importante che i detenuti sappiano che dall’altra parte c’è un mondo che si preoccupa e si occupa di loro”. Spesso ci sono pregiudizi verso la popolazione detenuta. E questi si perpetuano nel post pena all’interno della società... “Per questo è nostro compito favorire la conoscenza dell’istituto da parte della comunità esterna e viceversa. Il Pagliarelli ha una grossa tradizione in questo senso con attività che si svolgono in collaborazione con enti e comunità esterne per fare conoscere la vita del nostro carcere. Qui i detenuti studiano, lavorano e costruiscono giorno dopo giorno il loro riscatto. O almeno, noi gli diamo gli strumenti per farlo”. Quali sono le principali attività che si svolgono in carcere e che coinvolgono i detenuti? “C’è il lavoro retribuito, dalle pulizie dei locali all’aiuto cuoco, che oltre a costituire attività trattamentali, consentono anche di fare acquisti dentro l’istituto e soprattutto di inviare i soldi alle famiglie. Ci sono ancora i pacchetti formativi finanziati dalla Regione e i corsi scolastici fondamentali che comprendiamo a tutti i livelli, compresa l’università”. Il Pagliarelli è noto anche per i corsi teatrali, i laboratori artistici e musicali... “Noi cerchiamo di prediligere dei pacchetti formativi che diano una qualifica professionale spendibile ai nostri detenuti, una volta usciti dal carcere. Il reinserimento nei luoghi di lavoro è sentito come un problema dalla maggior parte. Se poi tutte queste attività contribuiscano a un vero riscatto, questo non so dirlo: a ogni detenuto spetta fare del proprio per impiegare al meglio il tempo qui dentro e uscire in condizioni migliori”. Eppure un anno fa denunciava il problema dei funzionari pedagogici sotto organico... “Dinanzi a una popolazione di detenuti così numerosa come quella del Pagliarelli, non sono mai abbastanza. A ciò si aggiunge la necessità di psichiatri dinanzi a problemi che da soli non possiamo affrontare”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il Garante chiede di sentire Draghi nel processo sulle violenze Il Mattino, 10 gennaio 2023 Nella lista dei testimoni presentata dall’avvocato Michele Passione anche gli ex Guardasigilli Marta Cartabia e Alfonso Bonafede. Ci sono anche l’ex premier Mario Draghi e gli ex ministri della Giustizia Marta Cartabia e Alfonso Bonafede tra i possibili testimoni del processo per i pestaggi al carcere di Santa Maria Capua Vetere avvenuti il 6 aprile 2020. Nel processo sono imputati in 105 tra poliziotti penitenziari, medici e funzionari del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le parti civili sono 126, di cui 117 detenuti, cinque associazioni, i garanti nazionale e regionale dei detenuti e due istituzioni (Ministero Grazia e Giustizia e Asl di Caserta).  I tre ex componenti del governo compaiono nella lista dei testimoni presentata dall’avvocato Michele Passione, che assiste il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. I tre sono stati citati per spiegare quali furono le misure e i provvedimenti presi dal Governo dopo che si seppe della vicenda. Sarà ora il giudice a decidere, presumibilmente nell’udienza del primo febbraio. Draghi e la Cartabia andarono in visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere il 14 luglio 2021, cioè pochi giorni dopo che scattarono le manette, il 28 giugno, per i pubblici ufficiali coinvolti negli episodi di pestaggi, definiti dal Gip che firmò le ordinanze cautelari “un’orribile mattanza”. Anche Bonafede è stato citato per il periodo in cui è stato Guardasigilli, prima della Cartabia, quando era già nota l’indagine per presunte torture. Nel giugno 2020, due mesi dopo i pestaggi e un anno prima dell’emissione dei provvedimenti cautelari, si seppe dell’indagine in quanto i carabinieri notificarono fuori dal carcere di Santa Maria Capua Vetere degli avvisi di garanzia ad alcuni poliziotti penitenziari indagati, provocando la protesta degli agenti. Oltre ai tre componenti del Governo, il legale di Palma ha citato anche il giornalista di “Domani” Nello Trocchia. I difensori di molti imputati hanno chiesto l’esclusione dei tre ex membri del Governo e del cronista per “evitare spettacolarizzazioni del processo” e per “irrilevanza della loro testimonianza”. Oggi inoltre, alla quarta udienza dibattimentale (il processo è partito il 7 novembre scorso), la Corte d’Assiste di Santa Maria Capua Vetere presieduta da Roberto Donatiello ha ufficialmente dichiarato aperto il dibattimento, ovvero l’attività istruttoria, superando quasi tutte le questioni preliminari sollevate e lasciando in sospeso la più importante, concernente le due istanze di nullità del decreto che dispone il giudizio presentate dagli avvocati di alcuni imputati (tra cui i difensori dell’ex capo dei poliziotti del carcere Gaetano Manganelli e dell’ex provveditore campano Antonio Fullone), in cui si sollevano eccezioni di costituzionalità per violazione del diritto di difesa per presunte omissioni da parte della Procura circa il mancato o incompleto deposito di atti di indagine, in particolare di tutte le immagini delle telecamere di visorsorveglianza del carcere prima e dopo i fatti. Il procuratore aggiunto Alessandro Milita - a coadiuvarlo i sostituti Daniela Pannone e Alessandra Pinto - ha sottolineato come presso la Procura siano stati depositati i file video delle telecamere interne da un periodo di gran lunga precedente al 6 aprile, e anche successivo alla data in cui sono avvenuti i pestaggi. “Difficile vedere la rilevanza di immagini relative ai giorni precedenti e successivi ai fatti - ha sottolineato Milita - ma comunque sono nel nostro ufficio e saranno messe a disposizione della Corte e delle parti”. Nella prossima udienza del primo febbraio, la Corte scioglierà la riserva sulla questione di costituzionalità, e in caso di rigetto delle relative eccezioni, deciderà anche sulla ammissibilità delle prove richieste dalla parti civili e dagli imputati. Parma. Veronica Valenti è la nuova Garante dei diritti dei detenuti La Repubblica, 10 gennaio 2023 Docente universitaria, è stata eletta a scrutinio segreto in Consiglio comunale. Valenti ha avuto il maggior numero di voti (21 voti su 33) al termine del voto a scrutinio segreto in Consiglio comunale. Ettore Manno 6 voti, Raffaele Crispo 5 e una scheda bianca. All’avviso comunale per la presentazione delle candidature, pubblicato a fine ottobre 2022, avevano aderito in nove. Valenti prende il posto di Roberto Cavalieri, passato quasi un anno fa all’incarico di garante regionale dei detenuti. Il Garante - figura introdotta a Parma dalla Giunta Pizzarotti nell’aprile 2018 - opera gratuitamente, rimane in carica cinque anni e può essere rieletto per una sola volta. Si tratta di una figura importante - come hanno ricordato tutti i gruppi consiliari intervenuti in aula - per lo sguardo che dedica in particolare alle condizioni detentive, affinché non venga mai meno la dignità della persona né il rispetto del dettato costituzionale. Opera in piena libertà e indipendenza, senza essere sottoposto a alcuna forma di controllo gerarchico e funzionale. Veronica Valenti è Professoressa associata in Diritto costituzionale. Insegna Istituzioni di Diritto Pubblico e Diritto delle Pari Opportunità presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Studi Politici e Internazionali dell’Università di Parma, e Diritto costituzionale presso la Scuola di Specializzazione delle Professioni Legali di Parma. Vicepresidente del Comitato Unico per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG) dell’Ateneo di Parma.  Ha al suo attivo la partecipazione, in qualità di relatrice, a diversi convegni nazionali e internazionali ed ha diretto e promosso diverse iniziative scientifiche e seminariali, oltre che essere autrice di diverse pubblicazioni. Laureata in Giurisprudenza con lode all’Università di Parma, è risultata vincitrice del Premio di laurea bandito dalla Regione Emilia Romagna “Renè Cassin” (2005). Nell’estate del 2005, ha frequentato il corso di perfezionamento in Tutela internazionale dei diritti umani presso l’Institut International des Droîts de l’Homme ”Renè Cassin” di Strasburgo. Nel 2009, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Diritto costituzionale all’Università di Bologna. Ha insegnato alla Scuola di Polizia penitenziaria di Parma: “Principi fondamentali di diritto costituzionale, di diritto amministrativo e tutela dei diritti umani dei detenuti” nel 2007. Sempre nel 2007 ha conseguito l’Abilitazione all’esercizio della professione di Avvocato ed è iscritta, dal 2013, all’Albo dell’Ordine degli Avvocati di Parma. Piacenza. Maria Rosa Ponginebbi è la nuova Garante dei diritti dei detenuti Libertà, 10 gennaio 2023 Nei giorni scorsi, con apposito provvedimento del sindaco Katia Tarasconi, è stato nominato il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale: si tratta di Maria Rosa Ponginebbi, coordinatore infermieristico, counselor nonché tutor didattico e docente presso il Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università di Parma (sede di Piacenza). È la prima volta che il Comune di Piacenza nomina una donna a ricoprire l’incarico di Garante dei detenuti. La durata dell’incarico corrisponde a quella del mandato del sindaco e comunque prosegue sino alla conclusione della procedura di nomina e insediamento del nuovo Garante. Secondo quanto stabilito dall’articolo 3 della disciplina adottata dal Consiglio comunale nell’ottobre 2018, il Garante avrà la possibilità di visitare periodicamente la Casa circondariale di Piacenza per fare colloqui con i detenuti e prendere visione della situazione strutturale e di funzionamento dell’istituto al fine di collaborare con i Servizi sociali comunali nel sostenere iniziative tese al miglioramento delle condizioni di detenzione. “Il Garante - rendono noto dal Comune di Piacenza - esercita funzione di tutela delle persone private della liberta personale mediante osservazione, vigilanza e segnalazione delle eventuali violazioni di diritti, di qualsiasi genere, alle autorità competenti; riceve dalle persone detenute e da chiunque ne venga a conoscenza segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria e o su presunte violazioni dei diritti dei detenuti; riceve, nei suoi uffici esterni, i parenti delle persone detenute, i conviventi e le persone ammesse alle misure alternative anche sulla base di richieste dagli stessi formulate; promuove una cultura della umanizzazione della pena (anche mediante iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani fondamentali); opera d’intesa con le altre istituzioni pubbliche e del private sociale per la fruizione di tutti i diritti da parte delle persone detenute e limitate nella libertà personale; definisce iniziative volte a facilitare ai soggetti in carcere o limitati nella libertà personale la garanzia di prestazioni inerenti ii diritto alla salute, all’affettività, alla libertà religiosa, alla qualità della vita, all’istruzione scolastica, alla formazione professionale e al lavoro, nell’ottica del principio del reinserimento sociale; si raccorda con le amministrazioni pubbliche coinvolte affinché garantiscano le prestazioni di servizio di cui sono responsabili nel campo del diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro”. L’incarico assunto dal Garante è a titolo gratuito, fatto salvo il rimborso per le spese sostenute e documentate. Siracusa. Manca l’acqua calda, protesta dei detenuti al carcere di Noto nuovosud.it, 10 gennaio 2023 Protesta dei detenuti del carcere di Noto per la mancanza di acqua calda. Per il Sappe, un sindacato di polizia penitenziaria, la situazione rischia di degenerare se il problema non sarà risolto anche per via dei precedenti nella stessa struttura dove, nel luglio scorso, si è verificata una brutale aggressione ai danni di 4 agenti costretti a fare ricorso alle cure dei medici dell’ospedale di Avola. I detenuti, che hanno prima esposto il problema al servizio di turno della Polizia penitenziaria, hanno battuto i piatti in ferro contro le sbarre. “Abbiamo vissuto momenti di preoccupazione - dice Salvatore Gagliani, segretario del Sappe Siracusa - poiché i reclusi hanno chiesto un colloquio a metà giornata. Nessuno ha potuto dare rassicurazioni, se non quelle dell’impegno volto a sollecitare un intervento nelle caldaie”. Il sindacato denuncia anche la carenza di organico nella Polizia penitenziaria, uno dei veri limiti per la sicurezza nella struttura. “Come si può pretendere che pochi agenti penitenziari possano gestire circa 160 utenti, spalmati su diversi reparti dislocati in vari punti del carcere?” si chiede il segretario provinciale del Sappe, Salvatore Gagliani che presenta una richiesta. “Chiediamo l’assegnazione, con carattere di urgenza, di almeno 20 unità”, conclude il sindacalista. Il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere diventa un libro-inchiesta firmato da Nello Trocchia di Lucio Luca La Repubblica, 10 gennaio 2023 Il libro, pubblicato da Laterza, ripercorre il pomeriggio di follia del 2020 nella struttura penitenziaria. La prefazione è di Ilaria Cucchi. “La storia è pesante, ti aiuto a trovare testimoni e riscontri. Vieni a Napoli. Nun perd tiemp…”. Era estate, un paio di giorni e tutta l’Italia avrebbe festeggiato il Ferragosto. Faceva tanto caldo a Santa Severa dove Nello Trocchia, giornalista de “Il domani” stava trascorrendo le vacanze con la famiglia. “È lì, in spiaggia, mentre tenevo per mano mia figlia in una mattina d’estate, che è iniziata la mia inchiesta giornalistica sul pestaggio di Stato compiuto il 6 aprile 2020 da 283 poliziotti nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere”. Il pestaggio è proprio il titolo del libro inchiesta di Trocchia pubblicato da Leterza, un resoconto dettagliato e agghiacciante di un pomeriggio di follia in un pezzo di territorio italiano da parte di un pezzo delle istituzioni italiane. Un’ignobile mattanza, come è stata definita dagli inquirenti. “Avevo solo una certezza - spiega il giornalista - che quella storia sarebbe diventata una storia italiana, grave, imponente e che avrebbe potuto segnare per anni il racconto delle carceri nel nostro paese”. La fonte di Trocchia lo prega di raggiungerlo a Napoli, “avevo intuito che c’era molto di più da raccontare, che non c’erano solo rivolte e caos, ma anche altro, nodi che non riuscivo a sciogliere. Dovevo solo scoprire come, mettere insieme i pezzi”. Ma che cosa è successo realmente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020? Quel pomeriggio 283 agenti della polizia penitenziaria muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, entrano nel reparto Nilo del carcere Francesco Uccella. Irrompono nelle celle e prendono a calci, pugni, schiaffi i detenuti. Alcuni vengono rasati a forza. Il pestaggio dura ore, prosegue nei corridoi, lungo le scale. È, appunto, una mattanza. Nei giorni successivi i fatti vengono denunciati, ma il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria respinge le accuse. Con ritmo serrato, Nello Trocchia ricostruisce l’inchiesta che ha reso pubblici i video delle violenze riprese dalle telecamere di sicurezza, la testimonianza e le storie delle vittime e dei carnefici, il depistaggio operato dalla catena di comando, la noncuranza della politica. “Santa Maria Capua Vetere è il fallimento della struttura sociale ed istituzionale del nostro Paese - scrive nella prefazione Ilaria Cucchi - E’ l’abdicazione del sistema Giustizia. Questa inchiesta di Nello Trocchia avrebbe dovuto, in uno Stato civile e democratico, far cadere il governo ed azzerare l’intera legislatura. Suscitare uno tsunami di sdegno intelligente e riflessivo: autocritico. Niente di tutto questo”. Ma perché tutto questo è potuto accadere? E perché si può ripetere ancora? “Colpa della nostra indifferenza - conclude Ilari Cucchi - del cinismo e del pregiudizio che hanno addormentato le nostre coscienze. I fatti narrati da una cronaca asciutta e spietata si verificano nel ventennale dal G8 di Genova. Leggere questo libro è doveroso, ma anche doloroso”. “Pestaggio di Stato”, di Nello Trocchia, Laterza, pagg. 128, euro 15. “Grazie ragazzi”: Albanese e cinque detenuti aspettano Godot di Andrea Cauti agi.it, 10 gennaio 2023 Il teatro come strumento di riscoperta dell’umanità. Questo il senso profondo del nuovo film di Riccardo Milani, che vede un gruppo di carcerati mettere in scena Beckett. La cultura, il teatro in particolare, come strumento di crescita umana e, se non proprio di redenzione, almeno di riscoperta dell’umanità. Questo il senso profondo di ‘Grazie ragazzi’, il film di Riccardo Milani con Antonio Albanese, Sonia Bergamasco, Fabrizio Bentivoglio, Vinicio Marchioni, Giacomo Ferrara, Giorgio Montanini e Andrea Lattanzi in sala dal 12 gennaio in 450 copie con Vision Distribution, prodotto da Palomar e Wildside. Tratto dal fortunato film francese ‘Un Triomphe’ scritto da Emmanuel Courcol e Thierry de Carbonniéres e diretto da Emmanuel Courcol, a sua volta liberamente ispirato alla vera storia di Jan Jonson in un penitenziario svedese, ‘Grazie ragazzi’ racconta la storia di cinque detenuti nel carcere di Velletri che mettono in scena ‘Aspettando Godot’ di Samuel Beckett. Un lavoro fatto per dare ai detenuti un’occasione di scoprire valori importanti quali la cultura e aiutarli a crescere spiritualmente e umanamente sotto la guida di un maestro, Antonio, un attore fallito costretto per vivere da lustri a doppiare film porno. Un incontro che permetterà ai ragazzi di scoprire un mondo nuovo e meraviglioso e ad Antonio di ritrovare l’antica passione. Questi, infatti, interpretato da Antonio Albanese, coinvolto da un collega e amico di successo (Fabrizio Bentivoglio), all’inizio titubante, scopre del talento nell’ improbabile compagnia di detenuti e questo riaccende in lui la passione e la voglia di fare teatro, al punto da convincere la severa direttrice del carcere (Sonia Bergamasco) a valicare le mura della prigione e mettere in scena la famosa commedia di Samuel Beckett su un vero palcoscenico teatrale. Giorno dopo giorno i detenuti si arrendono alla risolutezza di Antonio e si lasciano andare scoprendo il potere liberatorio dell’arte e la sua capacità di dare uno scopo e una speranza oltre l’attesa. Così quando arriva il definitivo via libera, inizia un tour trionfale. “Il tema della cultura un’emergenza nel Paese” - “Io voglio raccontare in modo semplice e fruibile temi anche complicati e il tentativo anche stavolta è questo - spiega Riccardo Milani, regista e sceneggiatore del film con Michele Astori - non saprei se il film è una commedia: è un film che ha al centro l’umanità, con detenuti, agenti di custodia e attori. Il personaggio di Albanese cerca di trovare l’umanità dove questa è un po’ schiacciata”, aggiunge. La pellicola, spiega ancora il regista, nasce da “un elemento di riflessione anche in fase di scrittura, il tema del carcere. Cerco di fare film su cose che conosco - aggiunge - e penso di aver conosciuto quell’umanità lì. Un film che mette al centro la cultura: l’opportunità che cinema, teatro, musica, televisione possano dare alle persone. Raccontare un luogo dove entra la cultura, a persone che non hanno mai avuto a che fare. Il tema della cultura - aggiunge - è un’emergenza del paese”. Nella pellicola i detenuti non evitano le pene a cui sono stati condannati, né c’è intenzione di assolverli, pero’ “e’ importante che avessero un’opportunità”. “Io ho sete di giustizia - spiega ancora Milani - da cittadino di questo Paese soffro nel vedere l’impunità, anche di reati importanti. Parliamo di un senso della giustizia un po’ sbriciolato e diffuso per cui la giustizia è stata quasi delegittimata. Questo senso di mancanza di regole è un tema del Paese, un tema importante. Penso che la certezza della pena sia una necessità - aggiunge - come penso che sia una necessità intervenire su quello che c’è a monte, sui disagi sociali, sulle lacerazioni che vivono le persone che poi in carcere rischiano di finirci. È un’umanità su cui evidentemente bisogna intervenire ma non riguarda il carcere bensì l’aspetto sociale”. Illuminare il carcere con il teatro di Dario E. Viganò L’Osservatore Romano, 10 gennaio 2023 A colloquio con Antonio Albanese, protagonista di “Grazie ragazzi” al cinema dal 12 gennaio. “Tutti sbagliamo nella vita, ma l’importante è non rimanere sbagliati”. Lo ha detto Papa Francesco nell’ottobre del 2021 incontrando un gruppo di detenuti ed ex detenuti di Comunità di don Oreste Benzi, intitolate a Papa Giovanni xxiiii. In quell’occasione Francesco ricordava che occorre “sempre camminare”, e se si fa fatica a farlo da soli è bene chiedere la mano di qualcuno. Una riflessione che sembra trovare nuovamente eco in questi giorni nel film di Riccardo Milani Grazie ragazzi, una commedia sociale che mette a tema il mondo delle carceri italiane, dove tra le giornate che si ripetono grigie e immobili irrompe il teatro a scompaginare le esistenze e ad avviare un possibile percorso di riscatto. Protagonista è un trascinante Antonio Albanese, che interpreta un attore finito in bolletta e costretto a tirare avanti facendo il doppiaggio di film erotici. Quando gli viene proposta l’opportunità di condurre un laboratorio teatrale in un carcere, un po’ tentennante decide di rimettersi in gioco, ritrovando così l’amore per il proprio lavoro, la sua vocazione, grazie all’incontro con alcuni detenuti. Insieme mettono in scena il teatro dell’assurdo, il testo Aspettando Godot di Samuel Beckett, metafora di vite bloccate in attesa di cambiamento. Nel solco dell’opera di Milani “Grazie ragazzi”, in sala dal 12 gennaio con Vision Distribution, ritrovo Antonio Albanese, apprezzato e conosciuto nel 2007 per il film Giorni e nuvole di Silvio Soldini, che ho potuto premiare quando ero presidente dell’Ente dello Spettacolo e direttore della “Rivista del Cinematografo”. Antonio Albanese è un fine interprete di tali spartiti narrativi, che si giocano tra commedia e dramma, particolarmente abile nell’usare la cifra comica, persino lo sberleffo, per far risuonare cortocircuiti dell’umano o dolori sottotraccia nel quotidiano. Oltre a Giorni e nuvole, ripercorrendo la sua trentennale carriera sullo schermo, il pensiero va a La lingua del santo (2000) di Carlo Mazzacurati, a L’intrepido (2013) di Gianni Amelio, così come ai due episodi di Come un gatto in tangenziale (2017, 2021) sempre di Milani e con Paola Cortellesi, un’istantanea sociale potente ed esilarante che ha frantumato barriere e stereotipi tra centro e periferia. Con “Grazie ragazzi” l’anno cinematografico si apre nel segno di una commedia che mette a tema il mondo delle carceri e una scommessa artistica. Antonio, come è nato il progetto? Mi ha chiamato il produttore Carlo Degli Esposti, della Palomar, e mi ha proposto questa storia. È una storia vera, risalente a circa 40 anni fa in Svezia. La vicenda è quella di un regista in crisi non solo professionale ma anche esistenziale che deve affrontare, con quattro detenuti in un carcere di massima sicurezza, questo incontro di grande umanità. Come per il protagonista della storia, anch’io non avevo grandi esperienze all’interno delle carceri. Certo, ho visitato alcune strutture come, ad esempio, il carcere femminile della Giudecca o altre nelle quali sono stato invitato come ospite. Il film nasce, dunque, dall’invito di Carlo Degli Esposti a cui ho dato seguito leggendo e, come faccio per deformazione professionale, immedesimandomi nel personaggio. E mi sentivo pieno di gioia. Mi sentivo felice nell’interpretare questo personaggio, perché è molto vicino a me in un certo senso. Un personaggio, cioè, che cerca la verità e così mi sono innamorato subito della storia. Una commedia dal finale amaro... Anzitutto la commedia, mi permetto di dire, è un genere molto difficile; ogni volta è una bella sfida, perché si attraversa un filo molto sottile. E poi è un genere assolutamente interessante a livello recitativo. Il finale è amaro: è la conclusione che rispetta il progetto originario, un finale che appartiene alla storia vera. Infatti, un’ora prima della magnifica rappresentazione, i detenuti coinvolti in questo progetto scappano perché a loro non viene data la possibilità di un leggero sconto di pena, non si lascia intravvedere il segno, anche piccolo, di un percorso premiante. Scappano perché si sentono liberi grazie al teatro e si ritrovano liberi anche di poter scappare. Questa è la storia originaria. Lo spettacolo nasce perché il regista svedese, quando esce sul palco e confessa al pubblico che i ragazzi sono andati via, esegue un monologo finale sull’esperienza che lui ha avuto con questi detenuti. Da quel monologo realizza uno spettacolo teatrale che poi trova consensi in molti Paesi europei. Il film, targato Palomar, Wildside in collaborazione con Sky, Prime Video e Teodora Film, sembra un passaggio di testimone con i fratelli Paolo e Vittorio Taviani e il loro film “Cesare deve morire” (2012) sembra un esempio di teatro come terapia dell’anima, come via di riscatto. Che ne pensi Antonio? Io sono un caso più unico che raro, come dice mia figlia. Io ho un’estrazione sociale operaia meravigliosa. Mio padre ha lavorato tutta la vita come operaio e mia madre è sempre stata casalinga. Non c’erano possibilità economiche e così mi sono ritrovato a 15 anni a entrare in una fabbrica. L’occasione per crescere e aprirmi alle cose belle della vita mi è arrivata dopo sette anni, proprio grazie al teatro che per me è stato salvifico. Io non solo sono stato educato dal teatro, ma credo anche di essere stato salvato. Per me la cultura, che sia un libro o dieci libri, che sia uno sguardo o la capacità di osservare, è fondamentale per ogni persona, per ogni essere umano. La cultura è un aiuto verso gli altri. È come un abbraccio: una persona che riesce a trasmettere cultura è una persona che riesce ad abbracciare gli altri, a donare e a offrire benessere agli altri, non solo intellettuale ma anche fisico. La cultura, e per me in particolare il teatro, ma anche la pittura e le altre forme d’arte, mi hanno proprio migliorato, mi hanno aiutato in tutto e per tutto. E io lo posso dire perché ero un po’ lontano da tutto questo. Anche se in ogni paesello di questa nostra meravigliosa Italia noi siamo circondati da cultura, quindi da bontà perché c’è gente che ha lavorato per rendere il nostro quotidiano migliore. Per me questa è bontà. Un essere umano che trasmette cultura è un essere buono. Il teatro ha proprio a che fare con il corpo… Assolutamente sì. E questo ci fa entrare anche nella crudeltà del nostro mondo teatrale. Il teatro è corpo, perché ogni corpo è uno strumento. Io poi sono un attore che lavora prima di tutto e quasi sempre con il corpo. I miei autori dicono: per Antonio non dobbiamo scrivere, dobbiamo tatuarlo. A me piace molto questa definizione. E mi piace quando un autore dice: quando scrivo per Antonio non uso fogli ma tatuo il suo corpo. In “Grazie ragazzi” i detenuti del carcere di Velletri sono chiamati a mettere in scena il teatro dell’assurdo, il testo “Aspettando Godot” (1952) di Samuel Beckett. Perché avete scelto questo testo? Aspettando Godot appartiene alla vicenda da cui trae origine il film. Il regista della storia accaduta in Svezia, infatti, decide il testo dopo aver ascoltato più detenuti. A un certo punto capisce che può contare solo su quattro o cinque detenuti, pertanto, individua in Aspettando Godot il miglior copione possibile. È anche uno dei motivi che mi ha spinto ad accettare questo lavoro, perché Aspettando Godot è un testo senza tempo, è sempre di una attualità impetuosa. Non l’ho mai fatto a teatro, ma chissà un giorno. Non ho premura. Questo copione che riverbero ha avuto nelle biografie dei detenuti con cui avete lavorato? Essendo un testo molto difficile è teatro dell’assurdo, è stato accettato all’inizio in maniera un po’ scherzosa, poi con estrema profondità. In fondo è un modo per comprendere che la vita è un gioco, è una sfida. Un testo illogico a tratti, anche se ha una sua logicità impetuosa. Il teatro come ancora di salvezza da una realtà immobile, spesso respingente, come quella delle carceri. Come ti sei preparato per il ruolo? Non ho avuto grandi esperienze di condivisione della vita carceraria, anche perché non è così semplice. Ho fatto ciò che faccio un po’ sempre, e che Eugène Ionesco icasticamente descrive con una battuta: “Come faccio a dire a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. Ho pensato molto al personaggio e ho cercato di immedesimarmi il più possibile, immaginando la solitudine e la disperazione di determinate figure che in un modo o nell’altro ero chiamato ad affrontare. Ho letto delle storie che grosso modo accostano a questa realtà e ho cercato, come faccio solitamente nella costruzione di personaggi, di avvicinarmi fase per fase, momento per momento, incontro per incontro, dosando le emozioni e provando a essere il più possibile aderente a quel personaggio. Nel film il personaggio è spesso ritratto in treno, un pendolare con la grande città. La condizione esistenziale del protagonista Antonio sembra ugualmente altalenante, aiutando però gli altri, di fatto aiuta anche se stesso. È un po’ quello che succede a Giovanni in “Come un gatto in tangenziale”? Anzitutto la scelta periferica è dettata dal fatto, molto concreto e reale, che un uomo, un attore, disoccupato, non si può più permettere di vivere in una città. Pensiamo ad alcune realtà come Milano e Roma: è difficile oggi, soprattutto se una persona vive una precarietà lavorativa, mantenersi e vivere lì. Pertanto, si cerca una situazione periferica, più abbordabile. Ma sia chiaro che non si tratta di un viaggio verso un luogo desolato ma verso un luogo più accessibile economicamente. Per il personaggio Giovanni in Come un gatto in tangenziale c’è qualcosa di diverso, all’incontrario. In Grazie ragazzi infatti troviamo un uomo che ha cercato di vivere il mondo della cultura di quella città e di quel Paese. In Come un gatto in tangenziale c’è invece un uomo che si avvicina con la politica; un uomo che si accosta a un suo opposto quasi per caso. Effettivamente c’è qualcosa di simile, ma qui in Grazie ragazzi mi sono calato con più fisicità, più presenza e meno come ascoltatore. Ormai solido è il tuo sodalizio con Riccardo Milani. Insieme - senza dimenticare la bravissima Paola Cortellesi - avete realizzato quattro film: “Mamma o papà?”, “Come un gatto in tangenziale” (1, 2) e “Grazie ragazzi”. Ci puoi descrivere la vostra intesa? Anzitutto noi continueremo ancora a lavorare insieme. C’è già un progetto che a me interessa. Riccardo Milani è un uomo profondamente onesto, è un uomo che nel suo lavoro ha una profonda onestà: non è condizionato da lobby e da un certo modo di concepire la rappresentazione che sembra debba dominare. Lui è profondamente sincero e quello che lui racconta a me interessa molto: gli estremi, i mondi che si incontrano, un certo tipo di umanità. Riccardo Milani soprattutto ama il cinema popolare. Popolare è una parola bella. Abbiamo passioni che condividiamo. A ben vedere sa essere anche molto duro, non molla un crostino, ma ormai tra noi due basta uno sguardo. Si è impossessato un po’ della mia anima, ama suonare i suoi lavori con il mio strumento o io mi sono innamorato della sua onestà e della sua voglia di raccontare il buonsenso alla gente, il cercare di aiutarsi. Lui, se posso osare, è un uomo evangelico. Tu hai alle spalle 40 anni di carriera e circa 30 anni di attività davanti alla macchina da presa. Un bilancio sul tuo percorso? E quali sfide interpretative o di regia ancora ti mancano? Per come sono partito, nel mio mondo, dallo zero più trasparente, sono particolarmente orgoglioso di quello che ho fatto. Di una cosa vado molto fiero: che in questi anni ho abbracciato il mio lavoro a 360 gradi, cioè ho fatto l’Accademia d’arte drammatica e poi ho scoperto la comicità, che per me è una delle forme d’arte più elevata, perché è come la lirica che comprende mille sfumature. E di un’altra cosa sono molto orgoglioso, di aver creato dei corpi e delle maschere che sono rimaste e oggi appartengono alla commedia dell’arte italiana come Cetto La Qualunque, Epifanio Gilardi, Ivo Perego. Ho raccontato in questi 30 anni il Paese, i suoi cambiamenti, come il Ministro della paura. Per esempio, ho sempre una voglia incredibile di lavorare [Antonio Albanese si esibirà al Teatro degli Arcimboldi di Milano dal 23 al 26 aprile 2023 con il suo nuovo spettacolo Personaggi n.d.r.]. Stiamo preparando un nuovo spettacolo su un tema delicatissimo, il tema delle religioni. Si intitola L’uomo che prega. Abbiamo fatto una sorta di prova alla Scala, dove figura un uomo che è confuso. All’inizio quest’uomo si muove, fa dei gesti, crea delle posizioni, ma a un certo punto si ferma e dice: ho una gran voglia di pregare ma non trovo la posizione giusta. Una provocazione! Una curiosità. Ritroveremo Giovanni e Monica di “Come un gatto in tangenziale” per un terzo capitolo? Lì la comicità è frizzante e acuta, i due protagonisti hanno polverizzato barriere sociali ingombranti. Non c’è centro o periferia, c’è una comunità aperta e includente... Abbiamo parlato con Paola Cortellesi e con Riccardo Milani. Certo, a noi piacerebbe continuare questa che potremmo forse definire una saga. È chiaro però che i figli sono cresciuti e quindi probabilmente potrebbe essere più interessante per gli spettatori e per le giovani generazioni, ascoltare, vedere e raccontare lo sviluppo delle nuove generazioni, dei ragazzi che sono cresciuti. Siamo partiti con il primo Come un gatto in tangenziale che avevano 12 anni, adesso ne hanno 20, sono maggiorenni. Può diventare molto interessante, perché la nostra storia ormai è quella di un incontro, di un innamoramento e si è abbastanza consolidato nel secondo film. Qui potrebbe continuare raccontando quella che può essere la storia di una nuova generazione, lo sviluppo di un incontro tra due giovani. Quella del generale Dalla Chiesa era una Italia in guerra perenne di Lucio Pellegrini Il Domani, 10 gennaio 2023 Da ieri sera, in onda su Rai 1, le quattro puntate della serie tv che racconta la vita di Carlo Alberto Dalla Chiesa Dieci anni di guerra combattuta da ragazzi: ventenni i brigatisti, ventenni i carabinieri guidati dal generale. Nell’ultima puntata de “Il nostro generale”, serie in onda in quattro puntate da ieri su Rai 1, c’è una scena in cui Dalla Chiesa-Sergio Castellitto, va a trovare in carcere Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Brigate rosse. Da quando il terrorista è stato arrestato, i due hanno stabilito un rapporto quasi intimo, di rispetto e fiducia, una relazione che sarà la base della sconfitta definitiva delle Brigate rosse. Seduto su una sedia metallica, nella penombra di una cella, Dalla Chiesa confessa a Peci che nella sua vita non ha conosciuto che guerra, dalla Resistenza alla mafia, fino al terrorismo. Si sentiva un uomo di pace, senza averla mai conosciuta davvero. Oggi, passati quarant’anni dall’attentato in cui Dalla Chiesa ha perso la vita (3 settembre 1982 ndr), sembra che questo destino non lo voglia abbandonare. Il suo nome è una ferita aperta per le istituzioni, un dolore difficile da elaborare per i famigliari, una storia ancora molto opaca nel suo epilogo. Ce ne siamo resi conto in tutte le fasi della lavorazione di questa serie, che è durata un paio d’anni e ha coinvolto un centinaio di attori, molti set, svariate città, un’enorme mole di lavoro. Non abbiamo raccontato la morte di Dalla Chiesa, ma la sua vita, o meglio, gli ultimi dieci anni della sua vita; da quando, nel 1973, viene promosso a generale e trasferito a Torino per occuparsi dei primi fenomeni insurrezionali, alla nascita dei nuclei antiterrorismo, fino allo smantellamento delle più importanti cellule brigatiste dei primi anni Ottanta. La parte palermitana, l’attentato di via Carini in cui il generale morì insieme alla sua giovane sposa Emanuela Setti Carraro, sono la coda di una storia che vede un eroe nazionale abbandonato da tutti, andare incontro a un destino segnato. Una vita in trincea - Il protagonista è un investigatore intuitivo, brillante, coraggioso nel rivoluzionare gli inconcludenti metodi di indagine dell’epoca, che diventa rapidamente l’emblema dello stato italiano, eroe nazionale per alcuni, nemico numero uno per altri, amato e odiato dall’opinione pubblica e dalla politica. Una vita in trincea, blindata con la sua famiglia dentro una caserma, cercando di ricreare un’impossibile normalità, tra il matrimonio di una figlia celebrato a forza in un garage e lo stato di allerta permanente in tutta la città. Abbiamo chiuso la postproduzione a inizio agosto, sicuri di essere riusciti a realizzare quello che avevamo in mente: non un biopic, non un’agiografia in stile vecchia Rai, ma il racconto di dieci anni di una guerra combattuta da ragazzi, ventenni i brigatisti, ventenni i carabinieri in borghese guidati da Dalla Chiesa. Non c’è traccia di tutto questo nei libri di testo, non c’è memoria di quell’Italia violenta e insanguinata, di quelle città vuote alle prime ombre della sera, di quell’aria pesante che la mia generazione ha respirato nei primi anni di scuola, di quella paura che avevamo da bambini, quando si partiva da Asti per andare a trovare le zie a Torino. Poter restituire quelle sensazioni e la memoria di un paese irriconoscibile, più sudamericano che europeo, è la principale ragione che mi ha convinto ad affrontare questa impresa. Ma anche il desiderio di raccontare una storia che ha toccato da vicino tutti quelli che, come me, sono cresciuti nel triangolo industriale negli anni Settanta, una storia in parte rimossa, che fino a oggi nessuno ha mai affrontato per intero. Le tante narrazioni sul terrorismo di questi anni si sono focalizzate su specifici momenti, assumendo sempre il punto di vista di chi ha scelto di entrare in clandestinità, armarsi e provare a fare la rivoluzione. Il nostro generale, invece, parla degli altri, di chi si è trovato di fronte un fenomeno inaudito, ha provato a comprenderlo cogliendone le possibili evoluzioni e lo ha combattuto giocandoci contro una violenta partita a scacchi. Raccontando un gruppo di ragazzi che decidono di privarsi della loro identità e della possibilità di vivere una vita normale, esattamente come i loro rivali, abbiamo costruito una storia quasi poliziesca, almeno nella prima parte. Almeno fino al rapimento Moro. Lì il paese si squassa, si frantuma completamente. Lì cambia tutto. Ritorno in prima linea - Dalla Chiesa in quel momento non è in prima linea. I suoi nuclei antiterrorismo sono stati sciolti, aveva conquistato troppo potere, ottenuto grandi risultati con molto clamore, si era creato molti nemici all’interno dell’Arma. Dopo la debacle politica e istituzionale del rapimento del presidente della Dc, il governo richiama il generale in prima linea, facendogli formare nuovi nuclei. I risultati sono immediati. Pochi mesi dopo, i suoi uomini scoprono il covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, dove trovano il memoriale di Aldo Moro. Sono pagine dolorose, piene di accuse alla Democrazia cristiana. Ne seguiranno anni terribili, una enorme frattura negli equilibri politici e istituzionali e una lunga scia di sangue. Dalla Chiesa vince la sua guerra con le Brigate rosse, ma perde quella con la politica, che lo abbandona nel momento in cui diventa troppo importante, troppo ingombrante, forse depositario di segreti troppo pericolosi. Esterno notte - Per un’imprevedibile concatenazione di eventi, fatta di Covid, lockdown, elezioni anticipate e slittamenti per la par condicio, la nostra serie va in onda sui Rai 1 poco tempo dopo Esterno notte, il racconto di Marco Bellocchio dei cinquantacinque giorni del rapimento Moro. Non sono felice. C’è un’analogia di temi, è un confronto inevitabile e piuttosto scomodo per noi. Penso che avrei preferito andare in onda prima, oppure molto dopo. Poi però vedo il lavoro di Bellocchio, mi piace molto e mi viene da pensare che le due serie possano essere complementari. Il nostro generale in sette ore complessive racconta dieci anni di guerra, partendo da una sceneggiatura costruita da Monica Zapelli e Peppe Fiore con rigoroso approccio storico, basato su fatti provati, atti dei processi e delle commissioni di inchiesta parlamentari. È una messa in scena ricca di ricostruzioni maniacali, spesso ambientata nei luoghi reali dove sono accaduti i fatti tanti anni prima e sperimenta un linguaggio che lavora sulla memoria emozionale dello spettatore, mescolando stili contemporanei e formati televisivi anni Settanta e Ottanta. Quella di Bellocchio è la psicanalisi di un paese che, a seguito del rapimento Moro, si trova improvvisamente debolissimo in ogni sua manifestazione. Il nostro generale, quel momento, quasi non lo racconta. C’è però una scena molto semplice, che si svolge in quei giorni. Dalla Chiesa, come un italiano qualsiasi, assiste davanti alla tv alle scene terribili del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Nel suo volto perso, svuotato, c’è lo stesso enorme smarrimento, dei personaggi di Esterno notte. Negli occhi di quegli uomini si legge il fallimento dell’esperienza della Resistenza, che ha generato un paese che non cambia mai, in parte eterodiretto, con centri di potere immutabili, tenuto sotto scacco da un gruppo di giovani rivoluzionari che agiscono in modo insensato e autodistruttivo. Il nostro Dalla Chiesa, in quella breve scena, è attraversato dagli stessi sentimenti. Mi viene da pensare che forse nella serie di Bellocchio manca proprio l’apparato dello stato, il potere nascosto delle forze dell’ordine, e che la storia di quei cinquantacinque giorni sia stata soprattutto un grande fallimento investigativo. Ho rivisto la nostra serie dopo qualche mese al Torino film festival, a fine novembre, dove è stata presentata in anteprima. Era una bella serata, il cinema era esaurito, c’erano anche Rita e Dora Dalla Chiesa, che quando si sono accese le luci mi hanno abbracciato commosse. Uscendo dalla sala, mi sono venute incontro tante persone, ognuno aveva una storia da raccontare, una memoria famigliare relativa a quel periodo così doloroso per la città e per il paese intero. Non chiamatela fiction - Un carabiniere in pensione mi ha raccontato che c’era anche lui quando è stato arrestato Peci, una signora mi ha detto che il padre era nei servizi segreti e che lei sapeva cose che nessuno può immaginare, un amico che la sa più lunga di me mi ha preannunciato una pioggia di polemiche e manipolazioni. “Se ne parlerà e verrà usata per attaccare qualcuno, la Rai, la controparte politica, anche Bellocchio. E altri attaccheranno voi. Senza che nessuno l’abbia vista, ovviamente. Viviamo in un tempo stupido e ogni cosa diventa oggetto di tifo da stadio. Vedrai”. Gli ho risposto che mi basta che non venga chiamata fiction. È una parola che contiene un’idea di qualità scadente e contenuti idioti. Mi basta questo. Più tardi, seduti a un tavolino in un bar di piazza Vittorio dove andavamo tanti anni fa, mi ha detto che la cosa che l’ha colpito di più è stata l’atmosfera di guerra che vivevamo quasi senza accorgercene. Ogni giorno si aspettava la notizia di un omicidio come se fosse una cosa normale. E ci siamo messi a parlare del nostro tempo, e ci siamo detti che in fondo anche oggi tutto potrebbe andare in frantumi in un attimo, che forse sta già succedendo ma non ce ne stiamo rendendo conto. Potremmo risvegliarci una mattina e ritrovarci in una guerra. Le guerre scoppiano in un attimo e poi ci mettono un’eternità a concludersi. E a volte, come la guerra di Dalla Chiesa, non si concludono mai del tutto. E allora penso che questi due anni di lavoro abbiano un senso che va al di là di quello che immaginavo, che questa serie parla anche di oggi, di quello che siamo diventati, della strada che abbiamo fatto per arrivarci. E che la memoria e gli insegnamenti del passato sono l’unica cosa che, forse, ci può ancora salvare. Perché la giustizia? Le tappe di un percorso di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2023 Un percorso, in più puntate, di esplorazione dei termini, dei concetti e dei paradigmi implicati nella discussione che negli ultimi secoli si è articolata intorno al tema della giustizia. Immaginate di dover dividere una torta con un’altra persona. Quale divisione riterreste giusta? Probabilmente la risposta più frequente sarebbe “metà e metà”. Ma se la torta fosse stata fatta con gli ingredienti portati dal vostro amico la risposta cambierebbe? E se fosse stata fatta con i suoi ingredienti ma con il vostro lavoro? E se il vostro amico fosse molto più robusto e goloso di voi la divisione migliore rimarrebbe ancora “metà e metà”? Se la torta poi contenesse del burro e il vostro amico fosse vegano sarebbe meglio naturalmente che andasse interamente a voi ma, a questo punto, sarebbe corretto fornire al vostro amico una qualche forma di compensazione? Passando dall’astratto al concreto prendiamo il caso dei pescatori del villaggio di Lamalera, sull’isola di Lembata, in Indonesia; una piccola società tradizionale che trae la propria sussistenza dalla caccia alle balene. Dimenticate le baleniere industriali giapponesi, questi pescatori vanno caccia dei giganti del mare per poter sopravvivere, e lo fanno sui peledang o téna, piccole imbarcazioni di legno dipinto, non esattamente il mezzo più sicuro per ingaggiare una lotta con un avversario che pesa decine di tonnellate e che potrebbe sbriciolare quelle assi di legno e il carico umano che trasportano con un semplice movimento della coda. Quando la caccia ha inizio ogni peledang imbarca tra i 7 e i 14 marinai a ciascuno dei quali vengono assegnati compiti molto specifici. Il più agile della squadra sta a prua pronto con un rampone uncinato. Quando viene avvistata una balena il ramponiere ingaggia un drammatico duello lanciando il suo arpione e gettandosi in mare assieme ad esso in modo da imprimere, con il peso del suo corpo, una forza ancora maggiore. Solo quando il primo colpo, il più rischioso, va a segno, dalle altre barche partono gli altri arpioni che finiscono l’animale e consentono di legare la preda per portarla a riva. I pescatori di Lamalera preservano con attenzione la loro principale risorsa di sopravvivenza, per questo la tradizione vieta la pesca di balene giovani, gravide o impegnate nel lungo rituale di corteggiamento durante il periodo riproduttivo. Nel corso di una stagione, gli isolani possono catturare tra le 15 e le 20 balene e garantirsi, così, la sopravvivenza per un nuovo anno. Il problema della giusta divisione del “bottino” - Ma dopo aver portato a terra una preda, i pescatori hanno risolto solo una parte della questione della loro sopravvivenza. Un secondo problema, non meno complicato, è quello che si pone davanti alla divisione della preda tra i pescatori e le loro famiglie. Andare a pesca in gruppo è certamente più efficiente che andarci in solitaria. Si è calcolato che in questo secondo caso ogni pescatore riesce a catturare in media per ogni ora di lavoro solo 0,37 kg di pescato contro i 0,66 kg che si riescono ad ottenere pescando in gruppo. Ma la pesca in gruppo, pur essendo più efficiente, genera il problema della giusta divisione del “bottino”. Nella storia dell’evoluzione culturale dei pescatori di Lamalera, dunque, si è posta la necessità di elaborare delle regole di condivisione delle risorse “giuste”, delle regole, cioè, che ogni pescatore, indipendentemente dal suo ruolo specifico, timoniere, rematore, ramponiere, carpentiere, fabbricante di vele, fabbro o costruttore di arpioni, potesse ritenere corrette e accettabili, per sé e per la propria famiglia. Il codice di condivisione sistematica delle prede che gli antropologi hanno individuato a Lamalera non è raro tra le società arcaiche basate sulla caccia. Le regole della “distribuzione primaria” - Nel caso di Lamalera esiste una distribuzione primaria che avviene immediatamente dopo la macellazione della preda. La distribuzione primaria procede secondo norme complesse: la preda viene suddivisa in parti intere con nomi che corrispondono alle parti anatomiche; queste parti sono poi assegnate sulla base della natura dei destinatari. Innanzitutto, i membri dell’equipaggio che erano in azione quando la preda è stata catturata. In secondo luogo, alcuni membri del gruppo ricevono una quota in virtù di diritti ereditari. In terzo luogo, le quote vanno agli artigiani che presiedono alla manutenzione della barca. In quarto luogo, ci sono quote che vanno a due clan i cui membri sono discendenti degli abitanti originari di questa parte dell’isola di Lambata, come forma di remunerazione per l’uso del territorio. Infine, ci sono piccole quote che vengono solitamente distribuite su base discrezionale come doni. Ma il problema non finisce qui. All’interno di un equipaggio, infatti, ci sono cinque ruoli differenti, l’abbiamo visto: ramponiere, aiutante del ramponiere, due scaricatori, un timoniere e la ciurma, che possono ricevere quote differenti a seconda della posizione. Le regole di condivisione, per questo, diventano ancora più specifiche e dettagliate. Essere immersi in una cultura altamente cooperativa ha reso i pescatori di Lamalera particolarmente sensibili alla questione dell’equità. Il “gioco dell’ultimatum” - Quando gli antropologi hanno studiato il loro comportamento attraverso giochi sperimentali, come per esempio, il “gioco dell’ultimatum”, hanno potuto misurare con precisione questo tratto culturale. In un “gioco dell’ultimatum” due soggetti interagiscono tra loro in maniera anonima. Il primo giocatore riceve una certa dotazione, immaginiamo, per semplicità, pari a $10. Questi deve decidere se e come condividere questa somma con il secondo giocatore che, a sua volta, potrà accettare o rifiutare l’offerta del primo. Quando accetta, la divisione proposta viene implementata e ogni giocatore guadagna il pattuito. In caso di rifiuto, invece, nessuno guadagnerà niente. La scelta migliore per il primo giocatore, assumendo che voglia guadagnare il più possibile, sarà, dunque, quella di offrire la cifra minima accettabile. Ogni somma positiva, per quanto piccola, è sempre meglio di zero; per cui il primo giocatore dovrebbe offrire al massimo $1. Ma non è quello che avviene in realtà. In genere, infatti, si offre molto di più perché le offerte troppo basse vengono sistematicamente rifiutate. Nella stragrande maggioranza dei casi le persone preferiscono niente ad un’offerta ritenuta iniqua. Tra tutte le popolazioni studiate, i pescatori di Lamalera sono risultati essere i più generosi in questo gioco, con una offerta media pari al 58% della loro dotazione (Henrich, J., Foundations of Human Sociality: Economic Experiments and Ethnographic Evidence from Fifteen Small-Scale Societies. Oxford University Press, 2004). La struttura sociale ed economica del gruppo ha influenzato l’emersione e l’adozione di norme di comportamento iper-eque anche in altri ambiti della vita differenti dalla pesca. In questo modo gli whalehunters del Pacifico hanno risolto il loro problema della divisione della torta. Le domande della giustizia - E noi? Come divideremmo la torta? Equamente? Quali caratteristiche avrebbe una divisione giusta? E quali utilizzeremmo per trovare una risposta e perché? Quali sono i problemi che queste regole pongono e quanto largamente sarebbero condivise? Rispondere a queste domande, solo apparentemente semplici, equivale a porsi davanti al tema della giustizia, alla sua definizione, al suo sviluppo, alle sue varietà, alla sua generalizzabilità. Un’impresa che ha occupato da sempre, implicitamente o esplicitamente le società umane. Nel momento in cui Robinson Crusoe incontra Venerdì, immediatamente sorge la questione della giustizia. Non appena un altro mi si pone davanti formando un embrionale gruppo sociale la questione della giustizia inizia a interpellarmi. E non si tratta solamente di scegliere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è - ciascuno di noi, al fondo, nessuno escluso, preferisce la giustizia all’ingiustizia - ma, piuttosto, di capire cosa intendiamo quando diciamo “giustizia”. La questione diventa, allora, relativa alla naturale eterogeneità dei significati che possono essere riferiti al termine; fatto in virtù del quale, gran parte di coloro che si sono occupati del tema, in realtà, si sono occupati di temi differenti e solo parzialmente sovrapponibili tra loro. Al concetto di “giustizia”, infatti, va riconosciuta una natura intrinsecamente plurale che rende la discussione necessariamente complessa, sfumata e, spesso, scivolosa. Un percorso nella storia - Nonostante questo, o forse proprio per questo, vorrei avventurarmi, assieme a chi vorrà seguire le prossime puntate di “Mind the Economy”, in un’esplorazione dei termini, dei concetti e dei paradigmi implicati nella discussione che negli ultimi secoli si è articolata intorno al tema della giustizia. Platone e Aristotele hanno costruito le fondamenta su cui Hobbes, Locke, Rousseau, Hume, Kant, Mill hanno poi costruito edifici mirabili, abbelliti e in parte ristrutturati dai contemporanei, John Rawls su tutti, e poi Robert Nozick, Ronald Dworking, Amartya Sen, Martha Nussbaum, Alasdair MacIntyre fino a Michal Sandel. Se quello della giustizia può sembrare un ambito astratto e lontano dalle preoccupazioni quotidiane di ciascuno di noi è solo perché non se ne colgono le implicazioni necessarie rispetto a temi, al contrario, centrali per la nostra vita: la politica economica e fiscale, pensiamo al dibattito attuale su reddito di cittadinanza e tassa piatta, ai problemi ambientali e del conflitto intergenerazionale, ai diritti civili, alle migrazioni, ai diritti delle minoranze, alle discriminazioni di ogni genere, alla povertà materiale ed educativa, al potere, al profitto, ai monopoli dell’informazione e a tutti i conflitti manifesti e occulti che ogni giorno influenzano direttamente e indirettamente le nostre esistenze. Ognuno di questi temi così come moltissimi altri che riguardano in misura maggiore o minore ciascuno di noi, potrebbero essere compresi meglio, interpretati più correttamente e, magari, anche affrontati più efficacemente se inquadrati in una corretta prospettiva di giustizia. Ecco perché il tema appare essere troppo importante per non occuparsene direttamente, per delegare la riflessione ai filosofi e agli economisti di professione. Il loro lavoro è certamente indispensabile, ma poi una società giusta lo sarà compiutamente solo come frutto di vite giuste, delle nostre vite, nella pluralità delle nostre scelte. Prendiamo le misure al razzismo, il nuovo libro di Thomas Piketty di Anais Ginori La Repubblica, 10 gennaio 2023 L’economista francese spiega perché non avere statistiche sul fenomeno non ci permette né di conoscerne l’evoluzione, né di combatterlo. E di reagire alle diseguaglianze economiche che produce. Il razzismo non è un’opinione ma una realtà. Dobbiamo essere in grado di misurarlo per poter ragionare insieme su soluzioni”. Thomas Piketty torna con un piccolo libro di rovente attualità. A metà tra il saggio e il pamphlet, Misurare il razzismo. Vincere le discriminazioni punta al cuore dei temi che agitano il dibattito politico europeo. L’economista francese noto per il bestseller mondiale Il capitale nel XXI secolo offre un prezioso contributo di riflessione e una risposta ai “seminatori di odio”, come li definisce l’autore, che agitano paure sul tema dell’immigrazione. “Questo piccolo libro - spiega Piketty - ha una sola ambizione: mostrare che è possibile discutere concretamente sul modo migliore di combattere le discriminazioni e permettere la convivenza civile”. La conoscenza statistica sulla diffusione del razzismo nelle nostre società è insufficiente? “Esistono molti studi che ne parlano. Sappiamo che il razzismo pesa nell’accesso all’occupazione, all’alloggio e le varie forme di discriminazione rappresentano un problema. Quello che non sappiamo, invece, è la tendenza. Non abbiamo strumenti per misurare l’evoluzione, osservarla a un livello più approfondito, settore per settore, anno dopo anno. È come se volessimo sconfiggere la disoccupazione senza avere un tasso ufficiale di senza lavoro. Si parla molto di razzismo, l’immigrazione è un tema strumentalizzato dalle destre nazionaliste e anti-migranti, che conoscete bene in Italia. Il dibattito è molto emotivo, quasi isterico. Sono convinto che avere cifre e dati, permetterebbe di organizzare meglio la discussione”. Propone un osservatorio nazionale sulla discriminazione. Non esiste già qualcosa di simile? “Le indagini sulla discriminazione nel lavoro, per esempio, sono condotte con l’invio di migliaia di curriculum e sono molto costose. Se si volesse davvero avere dati comparabili da un anno all’altro servirebbe uno stanziamento di diversi milioni di euro. Per il momento, nessun organismo pubblico dispone delle risorse sufficienti. Inoltre credo sia necessario un osservatorio ufficiale per oggettivare i dati. Il tasso di disoccupazione in Francia è comunicato dall’Insee, l’istituto statistico nazionale. Non sarebbe la stessa cosa se ogni partito politico, sindacato o qualsiasi ricercatore si mettesse a dare il proprio tasso di disoccupazione”. Vuole inventare un “nuovo modello europeo” per vincere le discriminazioni. Diverso da quello americano? “Le soluzioni in Europa non possono essere quelle concepite negli Stati Uniti dove esiste un inquadramento delle differenze etno-razziali molto rigido, concepito inizialmente per creare il sistema di discriminazione. La realtà in Europa è diversa. C’è una statistica eloquente: se si prendono tutte le persone che oggi in Francia hanno almeno un nonno nato in Nord Africa, l’85 per cento ha almeno un altro nonno con altre origini. Sulle persone di ascendenza italiana o spagnola questa diversità è ancora più pronunciata. In confronto, negli Stati Uniti per le popolazioni di colore questo dato non è nemmeno al dieci per cento e fino agli anni Sessanta era al due per cento”. Cosa significa? “Intanto che, rispetto a tanti pregiudizi, c’è un buon livello di accettazione delle differenze in Europa, con un’integrazione già in corso. Non è però un motivo per ignorare le discriminazioni legate a queste origini. Ci sono ancora settori o zone in cui un cognome arabo o di origine africana impedisce di trovare lavoro, ottenere una promozione professionale. Dobbiamo darci i mezzi per misurare questa discriminazione senza ingabbiare le identità di ogni persona. Nei censimenti e sondaggi propongo di non si chiedere alle persone “Sei bianco o nero?” ma piuttosto: “Tra i vostri genitori o nonni, ci sono persone nate in Nord Africa, nell’Africa sub-sahariana?”. Attraverso domande come questa capiremo che le origini miste sono una larga maggioranza nella popolazione. Io ho origini italiane, mia moglie ha origini spagnole”. Perché finora non ci sono queste statistiche? “In Francia, ricercatori e cittadini che dovrebbero lavorare insieme per combattere tutte le forme di disuguaglianza sono divisi. Questo libro è in parte la risposta a una controversia che ha avuto luogo l’anno scorso in Francia a proposito del saggio di due ricercatori di scienze sociali che mi piacciono molto, Stéphane Beaud e Gérard Noiriel (Race et sciences sociales, ndr). Secondo loro parliamo troppo di discriminazioni razziali e non abbastanza di diseguaglianze sociali. Sono in parte d’accordo e inizio dicendo che è necessario ridurre le diseguaglianze sociali in generale. A volte ci sono discorsi antidiscriminatori che in realtà sono solo un modo per mettersi la coscienza a posto facendo promuovere alcune persone di origine straniera, mantenendo intanto enormi diseguaglianze sociali tra ricchi e poveri”. Quindi giusto rimanere prudenti? “Sì ma nel libro cerco di mostrare che è possibile conciliare i punti di vista. Vale a dire proporre un programma molto ambizioso sulla riduzione delle diseguaglianze tra le classi sociali in generale, indipendentemente dalle loro origini, e allo stesso tempo prendere sul serio la questione delle ulteriori diseguaglianze legate alla discriminazione, senza cadere nelle categorie schematiche del modello anglosassone. Vengo da una visione più classista, basata sulle diseguaglianze tra le classi sociali. Quando parlo di ridistribuire la ricchezza, di creare una donazione di eredità minima per tutti all’età di 25 anni, faccio una politica di tipo universalistico. Non mi soffermo sulle origini di ogni persona. Ma, al stesso tempo, penso che dobbiamo essere molto ambiziosi sulla dimensione antidiscriminatoria. Troppo spesso il dibattito anche a sinistra rimane generico. Ci si divide per sapere se le diseguaglianze razziali sono più importanti di quelle sociali o viceversa. Non c’è bisogno di fare una gerarchia, possiamo lottare contro entrambe in modo altrettanto forte e proattivo”. “Misurare il razzismo. Vincere le discriminazioni”, di Thomas Piketty (La nave di Teseo, trad. di L. Matteoli e A. Terranova, pagg. 96, euro 10). Migranti e valori, la premier scelga di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 10 gennaio 2023 Non è forse un bivio immediato, ma è un bivio. Che a Giorgia Meloni è stato posto davanti prima dal leader del Ppe Manfred Weber e poi, ieri, dalla presidente della commissione europea Ursula von der Leyen. Con chi vuole stare davvero in Europa la presidente del Consiglio di uno dei Paesi fondatori dell’Ue? Da chi pensa di poter ricevere più aiuto? Dal blocco di Visegrad che ha perso - si stanno autoincenerendo - i suoi punti di riferimento mondiali: Putin, Trump, Bolsonaro, o dal blocco dei popolari il cui aiuto, dal gas ai migranti, è sicuramente più spendibile ora che è al governo? Finora Meloni non ha voluto in alcun modo rinnegare la sua vicinanza ai polacchi di Mateusz Morawiecki o agli ungheresi di Viktor Orban, tanto da far votare il suo gruppo - al Parlamento europeo - contro le sanzioni al governo di Budapest per le sue riforme illiberali e antidemocratiche. Ma è un fatto che gli amici della premier italiana siano, in questo momento, inservibili per il nostro Paese. Sulla questione del price cap al prezzo del gas, l’unico strumento che - ammesso che funzioni - può salvare l’Italia dalla morsa dei prezzi energetici unita a quella dell’inflazione, certo non ha aiutato Orban che resta il leader europeo più vicino a Vladimir Putin. E l’ungherese non aiuterà, così come non lo faranno Polonia, Repubblica Ceca o Slovacchia, neanche sulla questione migranti che il governo italiano sventola come fosse un’emergenza tutte le volte che ce ne sono da affrontare di reali. Tra i punti fondamentali dell’incontro con la presidente della Commissione europea ieri ci sono stati gli avanzamenti del Migration pact, il nuovo patto europeo per le migrazioni e l’asilo che promette di superare i meccanismi del regolamento di Dublino e di sancire una volta per tutte il principio della solidarietà con i Paesi di primo approdo. Quel patto però è stato bloccato fin dalla sua nascita, nel 2020, proprio dagli Stati di Visegrad e da coloro che la leader di Fratelli d’Italia considera alleati. Un giorno dopo l’annuncio di von der Leyen, che aveva detto “abbiamo bisogno di procedure eque e rapide e di un meccanismo permanente e giuridicamente vincolante che garantisca la solidarietà”, il premier ungherese Orbán, il ceco Andrej Babis e il polacco Mateusz Morawiecki (lo slovacco Igor Matovi? si era fatto rappresentare dalla Repubblica Ceca) sono volati a Bruxelles per dire: non se ne parla nemmeno. Quel che serve è chiudere i confini dell’Europa. Chiudere il mare. Fermare le partenze. La stessa ricetta che la destra ha portato in campagna elettorale ben sapendo quanto fosse inattuabile. L’ostruzionismo dei sovranisti è continuato in questi anni e c’è da scommettere che continuerà, anche se le istituzioni europee hanno sottoscritto una road map che dovrebbe portare a un accordo prima delle prossime elezioni europee, nella primavera del 2024. Ed anche se del patto sulle migrazioni è già previsto che si parli al Consiglio europeo straordinario del 9-10 febbraio. Del resto, che le altre soluzioni - il blocco navale e gli hotspot per dividere i migranti economici dai profughi nei paesi di partenza - siano inattuabili, lo dimostra quel che è riuscito a fare finora il governo italiano che, secondo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è “sulla strada giusta”: un decreto anti Ong il cui unico effetto reale è lasciare sguarnito per più tempo il tratto di mare che separa le coste africane dalle nostre, assegnando di volta in volta alle navi che salvano i naufraghi porti sempre più lontani in condizioni meteo sempre più difficili. “I nostri tecnici hanno valutato che si poteva fare”, ha risposto ieri Piantedosi a chi gli ha sottoposto le difficoltà della Geo Barents - con a bordo 73 persone di cui 16 minori non accompagnati - a raggiungere il porto di Ancona. Quattro giorni di navigazione per persone ferite, torturate, alcune vive per miracolo. Non si può chiudere il mare, non si possono chiudere nemmeno i porti (il processo a Matteo Salvini è lì a dimostrarlo), allora si inventano regolamenti sempre più tortuosi per rendere i salvataggi più difficili. Di fatto, per fare in modo che d’ora in poi ce ne siano di meno. E’ questo il patto per le migrazioni in salsa italiana, ma nonostante il cinismo che lo sottende non soddisferebbe gli alleati sovranisti di Meloni ancora fermi a: non devono partire. Così Meloni ha ora la forza elettorale per scegliere da che parte stare. Von der Leyen è considerata in campagna elettorale, sebbene non l’abbia lanciata ufficialmente, per una sua rielezione a Bruxelles. Il progetto di Weber invece - che tra i popolari è uno dei rivali della presidente della Commissione - è quello di staccare i partiti conservatori più “moderati” o presunti tali dai falchi polacchi. Che possa davvero riuscirci con Fratelli d’Italia, è tutto da dimostrare. Che ci stia provando, e che in qualche modo lo stia facendo anche Ursula von der Leyen, è invece lampante. C’è poi una questione più larga che riguarda il destino dell’Europa. Al convegno che ieri, a Roma, ha ricordato la figura di David Sassoli, morto prematuramente un anno fa, l’11 gennaio del 2022, Romano Prodi ha ripetuto quella che è da anni la sua idea: perché l’Europa progredisca sul piano della politica estera, e quindi anche su quello della crisi migratoria, c’è bisogno che vada a due velocità. Che un blocco di Paesi si faccia avanguardia del cambiamento, e quei Paesi non possono che essere Francia, Germania, Italia e Spagna. Se fosse questa la strada da seguire anche per il governo più di destra che l’Italia abbia conosciuto dalla nascita della Repubblica, incidenti come quelli con la Francia - proprio sui migranti - non dovranno più ripetersi. A quel convegno ha parlato fuori programma il ministro degli Esteri Antonio Tajani, mentre quello delle Politiche europee Raffaele Fitto, cui Meloni ha affidato praticamente tutto in Ue, era seduto in prima fila. E’ stato uno scrittore, Paolo Rumiz, a rivelare ieri uno degli aspetti più profondi dell’europeismo di Sassoli. L’ex presidente del Parlamento di Strasburgo ricordava spesso la radice mitologica femminile di Europa: il solo continente, la sola “potenza” a poter “vantare come eroina una donna, fragile, che aveva attraversato il mare con paura”. Ricordava quindi quanto la storia delle migrazioni coincidesse con la stessa identità europea. Qualche anno fa di fronte allo scandalo di Lesbo, dove migliaia e migliaia di rifugiati aspettavano il disco verde per entrare in Europa, Sassoli parlò dell’assurdità di un’Unione europea “nata da esiliati, su un’isola, Ventotene, che rischia di morire in un’altra isola, nel cuore di altri esiliati”. Valeva allora per Lesbo, così come vale ancora per tutto il Mediterraneo. Non basterà un patto per le migrazioni a far sì che l’Europa prenda un’altra strada, ma sarebbe davvero il momento di cominciare a cercarne una realistica. Possibilmente, anche più umana. Migranti. Le madri di Tunisi che ora piangono quei figli perduti nel Mediterraneo di Francesca Mannocchi La Stampa, 10 gennaio 2023 Walida, Malek, Yessine e gli altri giovani figli della Tunisia annegati sognando l’Europa: nel cimitero degli ignoti i cadaveri restituiti dal mare. Nel 2011, ai tempi della rivoluzione, Walid Zreidat aveva cinque anni, suo padre Salem ne aveva venti di più, è sceso in piazza insieme a migliaia di giovani come lui chiedendo al suo Paese il cambiamento che una generazione intera aspettava da tempo: via Ben Ali, avanti il prossimo, cioè la democrazia. Quando ricorda quei giorni Salem dice che sorrideva e sorridevano tutti, che il futuro era confuso ma vicinissimo, e aveva un tratto in comune per ogni persona che protestava cioè la certezza che sarebbe stato illuminato da dignità e diritti. Poi, però, qualcosa è andato storto. Oggi, dodici anni dopo, il volto di Salem, che non ha nemmeno quarant’anni, è segnato da un tempo accelerato che lo fa sembrare vecchio di secoli, cammina in casa, avanti e indietro dal divano alla stanza del figlio, Walid, non è vivo e non è morto, Walid che è l’altra faccia delle partenze del Mediterraneo, un ragazzo di quindici anni che ha provato a raggiungere l’Europa attraversando il mare e non è mai arrivato a destinazione. Il suo corpo, ora, come centinaia, migliaia di altri, è disperso a largo di Zarzis, nel Sud della Tunisia. Il 21 settembre, giorno della partenza, il tempo era buono e la barca che lo trasportava ha lasciato la costa con altre diciassette persone a bordo dirette a Lampedusa. A terra, ad aspettare notizie dell’arrivo, restavano madri e padri, sorelle e fratelli. Il giorno dopo però nessuno di loro riceveva notizie dai ragazzi, e così il giorno successivo, i parenti sono andati alla polizia e dalle autorità portuali a denunciare l’accaduto, chiedendo alla guardia costiera di far uscire in mare le pattuglie di soccorso, ma nessuno ha fatto niente, tranne i pescatori locali che hanno cominciato a cercare i dispersi. Pescatori in mare e madri a terra, perché - dicono tutti qui - il mare ruba ma a volte dà qualcosa indietro. Il primo corpo che il mare ha restituito è stato quello di una giovane ragazza di ventitré anni, Malek, l’hanno riconosciuta i genitori dal braccialetto che indossava. La corrente l’aveva spinta a Djerba. Insieme a lei è stato ritrovato il telefono, stretto in vita, avvolto nella plastica, le ultime telefonate erano al trafficante che aveva organizzato la partenza, qui lo chiamano “el barizi”, il parigino, tutti lo conoscono, è lui a organizzare la maggior parte dei viaggi, tutti in fretta, spesso gente dello stesso quartiere. Così è accaduto per il loro viaggio, quello della “barca degli adolescenti”, erano tutti giovanissimi e tutti vicini di casa. Tre settimane dopo il primo ritrovamento, una donna ha visto l’immagine di un cadavere riportato a riva da un pescatore, ha riconosciuto la maglietta di suo figlio e ha scoperto che una volta a terra le autorità avevano decretato che il corpo appartenesse a un ragazzo di origine subsahariana e senza esame del Dna l’hanno fatto seppellire dove di solito vengono portati i migranti riportati indietro dalla corrente, nel “cimitero degli ignoti”, un lembo di terra nato dieci anni fa su un terreno che prima era discarica e ora ospita i cadaveri di chi non ce l’ha fatta. Uomini, donne e bambini che arrivavano da lontano, spesso partiti dalle coste libiche e spinti in Tunisia dalle onde. Corpi senza nome, vite senza identità, sepolte con una lettera scritta su un sasso che indica se lì c’è un uomo o una donna, e una data, l’anno di ritrovamento del corpo. In mezzo ai sassi dei senza nome, poi, ci sono i sassi con un fiore, o una piccola statua di ceramica bianca. Sono i cadaveri dei bambini e delle bambine. È lì, nel cimitero degli ignoti, dei morti che arrivavano da lontano, hanno vissuto e sono morti come esseri umani di serie B, che le autorità tunisine hanno spedito anche i corpi dei loro giovani riportati a riva dopo essere annegati. Quando la donna ha riconosciuto la maglia di suo figlio e ha chiesto che il corpo del ragazzo fosse riesumato, e così tra le grida delle madri e la protesta della società civile, sono state riaperte le fosse, estratti altri corpi di recente sepoltura e tutti appartenevano ai giovani del barchino. Da allora insieme alla ricerca dei corpi dei dieci ancora dispersi, le famiglie cercano la verità e col passare delle settimane si alimenta il sospetto che quella notte di settembre ci sia stata una collisione con una nave o un incidente finito male con la guardia costiera che però, continua a non dare né dettagli né spiegazioni. Le madri restano in piazza a piangere, coi veli a stringere il volto, e le stanze dei giovani restano vuote, quella di Omar, come quella del giovane Walid. Restano i quaderni di scuola, un poster di Sponge Bon, lo zaino e la finestra aperta. Il padre dice che i ragazzi si vedevano ogni giorno nell’unico posto di ritrovo, un’ex centrale elettrica che avevano trasformato in un campo da bocce. Da lì, su un muretto, passavano le sere a parlare e guardare il mare in direzione dell’Europa. Avevano scritto i loro nomi: Yessine, Omar, Rayen, Loay, Mouna, Sajda e sotto: non rinunceremo ai nostri diritti. Quando parla delle responsabilità dei morti, Salem, non si tira indietro, Suo figlio aveva venduto il suo motorino, e poi gli aveva chiesto dei soldi, lui aveva provato a fare resistenza, ma - dice - quando Walid gli ha chiesto, guardando l’Europa, “perché io non posso andare? Perché io non posso essere come gli altri?”, Salem ha ceduto. Oggi vive il presente del dolore più difficile, quello di chi cerca un figlio scomparso e spera di trovarlo, anche da morto. Quando il peso del lutto lascia spazio alla razionalità, Salem dice che se i cittadini tunisini avessero diritto di partire come gli altri, se potessero ottenere un visto, le famiglie smetterebbero di contare i cadaveri, perché “se chiudi una porta a un giovane, ne devi aprire un’altra. Per i nostri figli, invece, i confini legali sono chiusi e quelli illegali sono mortali”. La storia della scomparsa di Walid e dei suoi amici è tragicamente ordinaria: un’imbarcazione che parte con 15, 20 persone e in dieci ore raggiunge le coste italiane. Dall’altra parte del mare, da noi, sono i barchini fantasma con a bordo i “minori non accompagnati”, qui in Tunisia è la via di fuga sempre più comune tra i giovani e giovanissimi da un Paese che sente di aver perso fiducia e speranza. A parlare ancora una volta sono i numeri, secondi i dati dell’Iom, l’organizzazione internazionale per le migrazioni, il numero di cittadini tunisini arrivati in Italia è aumentato in maniera esponenziale in questi anni. Erano 1600 nel 2014, circa 6000 nel 2017, 12 mila nel 2020 e sono stati 17 mila lo scorso anno. Solo lo scorso anno trentamila persone sono stati respinte dalle guardie costiere e centinaia sono scomparsi, come Walid e i suoi amici. Numeri troppo alti per essere sistemati nel magazzino degli slogan. Per capirli bisogna leggere, incrociandole, la realtà economica e quella politica del Paese. L’economia tunisina è in grande sofferenza, vive una crisi sistemica aggravata dall’invasione russa in Ucraina. Negli ultimi mesi hanno cominciato a scarseggiare beni di base come zucchero e latte, la disoccupazione si attesta intorno al 20% fino a raggiungere picchi del 30-35% tra i giovani delle aree più remote. Il Paese spera in un prestito del Fondo Monetario da quasi due miliardi di dollari, prestito che però è vincolato a cambiamenti significativi nella gestione delle risorse pubbliche che incontrano la resistenza di chi, già povero, rischia di vedere precipitare il proprio potere d’acquisto. Della democrazia multipartitica emersa dopo la rivoluzione resta poco e niente. L’attuale presidente Kais Saied da più di un anno ha preso pieni poteri, fatto approvare una nuova costituzione che di fatto svuota il Parlamento di tutte le sue funzioni e indetto elezioni lo scorso dicembre. Ma nove tunisini su dieci hanno disertato le urne. La maggioranza dei partiti ha invitato Saied a dimettersi, il potente sindacato tunisino Ugtt ha rotto con il presidente minacciandolo di bloccare il Paese, e anche nelle zone che avevano dimostrato un grande sostegno alle promesse di Saied, eletto con netta maggioranza nel 2019, cominciano a vedersi le prime crepe. Una restaurazione morbida, dunque, in cui le vecchie generazioni si lasciano andare alla rassegnazione o alla nostalgia di quello che fu, e le giovani provano a scendere in piazza quando le proteste non vengono vietate o represse, o a partire in preda a uno stato d’animo che somiglia sempre di più a una disperazione collettiva. In una crisi così profonda e allargata, la migrazione sta assumendo molte forme diverse. A partire non sono più solo ragazzi che non vedono prospettive di lavoro o sviluppo, partono intere famiglie, giovani donne. E se ne va anche chi può viaggiare legalmente ottenendo un visto, il Forum per i Diritti Sociali Tunisino stima che negli ultimi sei anni trentamila ingegneri e quattromila medici hanno lasciato il Paese in maniera permanente. Per chi resta le possibilità sono sempre meno, a Zarzis sono le olive, la pesca, il turismo che arriva l’estate e l’inverno spegne tutto, come ora. A restare sempre meno giovani, qualche anziano nei caffè, i bambini e le madri senza più figli, le sorelle a chiedersi chi sarà il prossimo a partire e non arrivare. Da tre mesi di fronte alla sede distaccata del governatorato ci sono tre tende, sopra, appese, ci sono le fotografie dei morti e quelle dei dispersi. Venerdì i cittadini di Zarzis sono di nuovo scesi in strada a chiedere alle istituzioni di sapere cosa è successo ai loro figli, dove siano i loro corpi. L’hanno fatto sostenuti da tutta la comunità, che ha attraversato con loro le vie della città. I più giovani tenevano sulle spalle delle bare vuote, sono quelle che aspettano i dispersi. C’era anche la bara vuota di una bambina, è Salima, anche il suo corpo è ancora in mare. Quello di sua madre Nour è stato ritrovato. Avevano provato a chiedere il ricongiungimento familiare con Karim, il capofamiglia in Italia dal 2010. Vive nelle Marche, lavora regolarmente in una ditta che monta pannelli solari, ma attesa dopo attesa anche per loro la rabbia e la rassegnazione hanno vinto sull’impossibilità di avere un visto, così la donna e la bambina sono partite, anche loro fidandosi del “parigino”, del bel tempo e della statistica. Tutti qui hanno un parente che ce l’ha fatta ad attraversare il mare, ora in Francia, Germania, in Italia, perché - hanno pensato tutti - non dovrei farcela io? Salem dice che resta legato al suo Paese, che le sue radici sono qui e lui, a differenza dei ragazzi, non ha mai pensato di andare via. Ma dice anche che c’era sempre un motivo buono per restare, o almeno c’è stato finché non si sono vanificate le speranze della rivoluzione. Quello che l’Europa non capisce, dice, è che questi ragazzi non sentono radici perché nessuno li rappresenta, non hanno niente cui attaccarsi, niente che sperano possa cambiare “attraversano i confini con un coraggio senza pari, se potessimo usare quel coraggio, quella forza, per migliorare il Paese saremmo uno dei paesi più ricchi del mondo, ricchi dei nostri giovani, ma li stiamo perdendo tutti”. Il Presidente Kais Saied ha detto che aprirà un’indagine che la verità arriverà, ma ha anche detto che i migranti sono responsabili della loro scelta e se chiamato a dare spiegazioni, cambia aria e discorso. D’altronde è complicato per le istituzioni ammettere che sono sempre di più i tunisini che se ne vogliono andare, ed è complicato anche perché sulla dissuasione delle partenze si gioca una buona parte degli aiuti che arrivano dall’Europa per controllare (leggasi militarizzare) le frontiere a Sud del Mediterraneo. La storia dei dispersi di Zarzis, dei giovani morti in mare, è il simbolo - uno dei tanti - della totale assenza di politiche migratorie di lungo termine, della manifesta inefficacia di tutte le misure di esternalizzazione del controllo delle frontiere prese negli ultimi anni. Soldi in cambio della protezione dei confini. Importa sempre meno, o non importa affatto, quale sia il prezzo. E il prezzo non sono solo i morti, è anche una mancata progettualità sugli investimenti economici in Tunisia, che sono da anni solo condizionati al contenimento e riassorbimento dei migranti, con l’Europa che dice: ti aiuto solo se porti indietro i tuoi cittadini e impedisci loro di partire. Significa che gli investimenti europei anziché contribuire allo sviluppo, continuano a vincolarlo al controllo delle frontiere, bloccando le politiche di redistribuzione delle risorse. Tanti soldi a pochi individui. Tanti fondi a poche istituzioni. Fattori che continuano a promuovere il disagio sociale e dunque le proteste e dunque il tentativo di migliaia di giovani di cercare fortuna in altri Paesi, stanchi di sperare che arrivi lavoro in un Paese in cui il controllo dei rimpatri vincola lo sviluppo economico. È così, di accordo in accordo, di fondi in fondi, di rimpatrio in rimpatrio, che questa rotta è diventata la più pericolosa al mondo. È difficile spiegare alle madri che venerdì sono di nuovo scese in piazza a manifestare e chiedere giustizia per i propri figli, che i volti che tengono in mano, reliquie non di un passato ma di un futuro che non esiste più, rappresentino per l’Europa una minaccia alla sicurezza. Quando torna a casa dopo la marcia, Salem guarda la foto del figlio Walid. Vuole solo un osso, una maglia, una prova che sia morto. Finché non lo troveranno, dice, ogni si siederà nella sua stanza, si affaccerà alla sua finestra, e lo aspetterà tornare. Dall’assedio di Capitol Hill a Brasilia: perché la gente “odia” la democrazia di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 10 gennaio 2023 Saccheggi, distruzioni e selfie: i seguaci di Bolsonaro e Trump incarnano la crisi di un sistema fragile che può finire in balia del complottismo populista. Come un’orda selvaggia e con violenza inaudita hanno invaso e saccheggiato, distrutto e sventrato, colpendo i simboli della democrazia brasiliana, le cupole di cemento del Congresso, il cubo di vetro del Tribunale supremo federale e il rettangolo di marmo del Planalto, il palazzo dove lavora il presidente, tutte opere ideate dal genio di Oscar Niemeyer, l’architetto modernista che disegnò la “futuristica” capitale Brasilia. All’interno degli edifici i mobili e le scrivanie vengono buttati giù dalle rampe di scale, i cassetti rovesciati per terra, se la prendono con i mosaici e i quadri alle pareti che sono vandalizzati, ce n’è anche per il busto di Joaquim Nabuco, giurista liberale e abolizionista che viene fatto a pezzi. Tutti o quasi con il proprio smartphone a inondarsi di selfie, a immortalare con grandi sorrisi la prodezza in uno stridente contrasto tra la gravità dei fatti commessi e la cialtroneria di una foto ricordo. “In nome di Gesù la guerra e cominciata!”, urlano i più esagitati. Tutto senza precedenti nella storia del Paese, ma con un filo rosso (o forse nero) che unisce Brasilia e Washington. L’assalto alla piazza dei Tre poteri da parte dei seguaci dell’ex presidente Jair Bolsonaro non può infatti non ricordare nei minimi dettagli l’attacco di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 a parte dei sostenitori di Donald Trump di cui sembra un inquietante remake. Stesse modalità di adunata (il tam tam via internet), stessa furia devastatrice, stessa negligenza, per non dire di più, da parte degli apparati di sicurezza che permettono ai manifestanti di penetrare in tranquillità dentro i palazzi del potere, E stessa improbabile armata Brancaleone di maschi sovrappeso che mette in scena un tentativo di Colpo di Stato con la leggerezza di una scampagnata unita a punte di autentico folklore, come i cappelli di alce da capo indiano dei Trump boys ritratti mentre depredano l’ufficio della speaker Nancy Pelosi. A Brasilia in molti indossavano la maglietta della nazionale verde-oro o di altre squadre di calcio, berretti, tute da ginnastica, alcuni brandivano simboli religiosi. Se il blocco di potere ostile al presidente socialista Lula è rappresentato da ampi settori dell’esercito e della magistratura, dai grandi imprenditori dell’agrobusiness, dall’articolata galassia dei predicatori evangelici che si ispira alla destra religiosa statunitense, in piazza si è visto soprattutto molto popolo, o piuttosto “gente” comune, ceti sociali medio bassi che vivono in primo piano la crisi economica, le forti disuguaglianze tra le classi e l’insicurezza cronica delle città, interpretando un sentimento diffuso di odio verso la sinistra, alimentato dal complottismo e dalle fake news che i media vicini a Bolsonaro veicolano con grande efficacia in una nazione politicamente spaccata a metà. E che non vogliono accettare la sconfitta elettorale come se le regole democratiche non fossero più valide, perché l’obiettivo non è più il rispetto delle norme di convivenza civile, ma l’annientamento dell’avversario. Viene da chiedersi, tralasciando le enormi differenze tra i due Paesi, quali siano gli elementi che accomunino gli Stati Uniti e il Brasile, dal punto di vista sociale e politico. Non può essere casuale che entrambi adottino il presidenzialismo, un sistema in cui la figura del Capo di Stato produce un effetto polarizzante nell’elettorato, con le campagne elettorali mirate alla minuziosa demolizione del nemico e con il potere concentrato in larga parte nell’esecutivo al di là delle importanti prerogative del Congresso. Questa mancanza di mediazioni e di corpi intermedi nella normale dialettica politica può permettere a personaggi come Trump e Bolsonaro di innescare una dinamica tossica e incosciente, in grado di sobillare e mobilitare la povera gente contro gli stessi i fondamenti della democrazia. Che mai come in questo decennio “populista” cominciato con la Brexit ci è sembrata fragile e in balia degli elementi. Non più messa in pericolo dai storici suoi antagonisti esterni, ma colpita al cuore da una crisi che lei stessa ha generato. Dopo l’assalto in Brasile. Il motore del populismo a destra è il complottismo non il fascismo di Claudio Cerasa Il Foglio, 10 gennaio 2023 Anche le rivoluzioni antidemocratiche si possono esportare. Le condanne a metà di Meloni e Salvini sull’aggressione alle istituzioni brasiliane mostrano la radice più tossica del sovranismo. Ha scritto ieri con saggezza Anne Applebaum sull’Atlantic che i sostenitori di Jair Bolsonaro, che domenica sera hanno preso d’assalto il Congresso brasiliano, il palazzo presidenziale e la Corte suprema, hanno dimostrato che le rivoluzioni in grado di diventare contagiose non sono solo quelle democratiche ma sono anche quelle anti democratiche. Applebaum naturalmente si riferisce alle simmetrie che esistono tra l’assalto ai palazzi del potere brasiliano (8 gennaio 2023) e quello al Congresso americano (6 gennaio 2021). E, in particolare, si riferisce al modo in cui, in Brasile, il presidente sconfitto - che dopo aver perso le elezioni a novembre si è rifiutato di partecipare all’insediamento del suo successore, di cancellare dalla bio dei suoi account social il titolo di presidente del Brasile e di riconoscere che coloro che hanno cercato di assalire le istituzioni brasiliane erano in buona parte suoi follower - ha scelto di non accettare la vittoria del suo rivale, proprio come Donald Trump. La prospettiva descritta da Applebaum, ovverosia che le rivoluzioni antidemocratiche possano essere terribilmente contagiose, dovrebbe suggerire a tutti coloro che hanno a cuore la difesa delle democrazie liberali di essere molto netti, molto chiari e per nulla ambigui di fronte a fatti come quelli registrati in Brasile. E coloro che avrebbero il dovere di essere più netti, più chiari e meno ambigui degli altri dovrebbero essere i rappresentanti delle forze politiche che in passato hanno mostrato buona vicinanza al politico che ha ispirato le rivolte andate in scena domenica in Brasile, ovvero Jair Bolsonaro. Sfortunatamente, nella giornata di ieri, il più importante governo di destra dell’occidente, ovvero il governo italiano, ha scelto di condannare l’assalto ai palazzi del potere brasiliano con toni apparentamene forti ma in realtà decisamente ambigui. Ha detto Giorgia Meloni: “Quanto accade in Brasile non può lasciarci indifferenti. Le immagini dell’irruzione nelle sedi istituzionali sono inaccettabili e incompatibili con qualsiasi forma di dissenso democratico. E’ urgente un ritorno alla normalità ed esprimiamo solidarietà alle istituzioni brasiliane”. Ha detto Matteo Salvini: “Condanniamo ogni tipo di violenza, in Brasile come ovunque. Il libero voto dei cittadini si rispetta, sempre”.  In entrambi i casi, i vecchi sostenitori di Bolsonaro, ovvero Meloni e Salvini, hanno scelto, come notato su Twitter da Mattia Guidi, docente di Scienze politiche all’Università di Siena, di non dare un nome all’accaduto (è o non è violenza?), hanno scelto di mostrare genericamente preoccupazione per “le immagini” arrivate dal Brasile (ovviamente “inaccettabili”) e hanno scelto di non esprimere alcuna solidarietà esplicita al presidente Lula (cosa che invece ha fatto per esempio Macron). Ma soprattutto Meloni e Salvini hanno scelto di non occuparsi minimamente, nella loro comunicazione politica, dell’ideologia tossica che si trova dietro l’assalto alle istituzioni brasiliane: il complottismo. Non se ne sono occupati ieri e non se ne occuperanno neppure nei prossimi giorni, purtroppo, perché per i sostenitori della vecchia destra nazionalista fare i conti con il proprio passato complottista è difficile, è traumatico, è complicato e significherebbe dover ammettere, sia quando si parla di minacce antidemocratiche in Brasile sia quando si parla di minacce antidemocratiche negli Stati Uniti, che uno dei motori che accendono l’estremismo, nelle democrazie moderne, che è lo stesso motore che spesso accende anche la macchina violenta del suprematismo, non è azionato dal gesto di un qualche folle, dall’azione di un qualche pazzo, dall’impresa di un qualche squilibrato ma è, molto più semplicemente, frutto di un sentimento che in molti, negli anni passati, hanno contribuito ad alimentare. Parlare di complottismo, condannarlo fino in fondo, denunciarlo nel suo profondo per i vecchi amici del nazionalismo, per i vecchi compagni di merende dei Bolsonaro e dei Trump, significherebbe mettersi di fronte a uno specchio, significherebbe riconoscere i propri errori, significherebbe condannare il proprio passato senza fingere che ciò che si è oggi sia in coerente continuità con ciò che si è stati ieri. E significherebbe infine ammettere quanto sia stato grave aver dato la propria adesione all’internazionale del complottismo, un’internazionale che partiva da Donald Trump passava per Jair Bolsonaro e arrivava fino a Vladimir Putin, dando un proprio contributo al sostegno, nelle democrazie, delle rivoluzioni antidemocratiche. Condannare, in modo generico, è meglio che fischiettare, ma condannare in modo generico non è sufficiente per fare i conti fino in fondo con una storia che sul curriculum delle destre mondiali pesa più del fascismo: il complottismo, bellezza. Libia. Sit-in di protesta per chiedere la liberazione dei rifugiati detenuti da un anno a Ain Zara di Omer Abdullah focusonafrica.info, 10 gennaio 2023 Una grande manifestazione di solidarietà con i rifugiati in Libia è stata organizzata, in contemporane a quella prevista a Tipoli, in vari paesi europei. “#FreeThemAll è lo slogan o di queste proteste transnazionali per il rilascio degli attivisti sfollati in Libia. In Italia manifestiamo anche contro i decreti Ong che violano tutte le leggi del mare e la Convenzione dei diritti dell’uomo”‘ fa sapere Dominic Weiss-Grein di Solidarity with refugees in Llybia. Il 10 gennaio 2023 si terranno veglie simultanee a Tripoli e in diverse città europee- Roma, Amburgo, Berlino, Bruxelles e Londra per chiedere il rilascio dei rifugiati detenuti nel centro di detenzione di Ain Zara. “Refugees in Lybia è un pacifico, autonomo, movimento di protesta organizzato e guidato dai rifugiati che sostiene i diritti delle persone in movimento. In collaborazione con l’alleanza transnazionale Solidarity with Refugees in Lybia, gli attivisti continuano a chiedere all’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) di adempiere al suo mandato di proteggere e difendere i diritti dei rifugiati e adoperarsi per il rilascio degli attivisti” si legge in una nota.  Dopo 120 giorni di proteste pacifiche davanti all’ufficio dell’UNHCR a Tripoli, il presidio di protesta per i rifugiati in Libia è stato violentemente disperso il 10 gennaio 2022 e più di 600 manifestanti sono stati arrestati e sono in carcere nel campo di detenzione di Ain Zara. Con il titolo #FreeThemAll - Liberazione dei manifestanti pacifici del movimento “Rifugiati in Libia”, domani verranno ricordati i 250 attivisti tuttora detenuti in condizioni disumane. Sui canali social di Rifugiati in Libia si condividerà un video delle precedenti azioni di protesta e i resoconti delle iniziative di solidarietà, gli attivisti protestano nelle singole città contemporaneamente. “In Italia, le associazioni e i singoli attivisti aderenti alla rete transnazionale Solidarity with Refugees in Libya, che lavorano contro i confini e per la libertà di movimento di tutte le persone sono impegnate per contrastare in forme non-violente l’assurdo- Decreto Legge che intende fortemente limitare non le partenze, ma i salvataggi delle persone in pericolo nel mare. Non sono bastate al Governo italiano le 1400 vittime accertate nel 2022, che cinicamente e barbaramente, invece di affiancare e sostenere il lavoro umanitario delle Ong, le sottomette alla discrezionalità dei prefetti e ritarda il loro ritorno nelle zone di salvataggio di molti giorni assegnando sbarchi in porti lontanissimi” conclude il comunicato. L’azione di protesta annunciata segue altre manifestazioni a livello europeo che si sono susseguite dall’ottobre 2022 a oggi e un’azione collettiva davanti alla sede dell’UNHCR nel dicembre 2022. Iran. “Non è giustizia”: prigione circondata per fermare il boia di Francesca Luci Il Manifesto, 10 gennaio 2023 Due giovani a rischio esecuzione: arrivano le famiglie e tanti iraniani. Il racconto di uno di loro, Rashid: “Sono intervenuti i poliziotti e sono scappato: con i miei precedenti nelle manifestazioni, se mi prendono, la prossima volta sarò al posto loro”. Appena due giorni dopo l’esecuzione di due giovani manifestanti la magistratura della Repubblica islamica ha annunciato la condanna a morte di Saleh Mirhashmi, Majid Kazemi e Saeed Yaqoubi, in relazione alle proteste in Iran. I servizi di sicurezza e la magistratura iraniana continuano a perseguire coloro che in un modo o nell’altro hanno manifestato il loro dissenso negli ultimi mesi. Arrivano notizie di pesanti condanne da tutto il paese. Domenica sera, con la pubblicazione della notizia della possibile esecuzione della sentenza di Mohammad Broghni e Mohammad Qabadlou, in moltissimi si sono radunati davanti al carcere dove sono detenuti per impedirne l’esecuzione. “Ieri avevamo organizzato una cerimonia in ricordo delle vittime della tragedia del volo ucraino PS752 abbattuto tre anni fa. Una giornata grigia e piena di rabbia e dolore. Mentre ritornavo a casa ho visto la notizia che i due ragazzi erano stati trasferiti in isolamento dalla prigione di Rajaee Shahr (ovest di Teheran, ndr) per una probabile esecuzione”, ci dice Rashid, attivista di diritti umani in Iran. I due giovani, 19 e 22 anni, sono stati accusati di aver ferito deliberatamente una guardia di sicurezza con un coltello e di aver incendiato l’ufficio regionale della città di Pakdasht. Dopo processi iniqui, sono stati condannati all’impiccagione per “corruzione sulla terra” e “inimicizia contro Dio”. “Mi è arrivata la notizia che la famiglia Mohammad (Qabadlou) era davanti al carcere. Io vivo a Karaj e il carcere non è lontano così ho deciso di andarci. C’era una fila di macchine parcheggiate. Molte persone radunate davanti alla prigione che urlavano slogan - continua Rashid - La mamma di Mohammed urlava: “Non è vero che è stato mio figlio. (La vittima) è stato ucciso altrove. Accusano ingiustamente mio figlio. Questa non è giustizia”“. “Sono intervenuti i poliziotti. Sono dovuto scappare velocemente, con i miei precedenti nelle manifestazioni se mi prendono la prossima volta sarò al posto loro”, racconta Rashid. La notizia ha causato rabbia e condanne interne e internazionali. La ministri degli Esteri tedesco, Analina Berbuk, ha convocato l’ambasciatore iraniano: “Un regime che uccide i giovani per terrorizzare il proprio popolo non ha futuro”. Il segretario generale del Servizio europeo per l’azione esterna Stefano Sannino, ha convocato, a nome dell’Alto rappresentante, l’ambasciatore della Repubblica islamica presso l’Unione europea per ribadire la forte costernazione dell’Ue. Sannino ha ribadito l’invito dell’Ue alle autorità iraniane a cessare immediatamente la pratica di imporre ed eseguire condanne a morte contro i manifestanti. Lars Rasmussen, ministro degli Affari esteri della Danimarca, ha detto che l’ambasciatore iraniano sarà convocato: “Il maltrattamento che hanno fatto alla loro stessa gente ha provocato la nostra estrema rabbia”. Tutto ciò non sembra preoccupare lo Stato iraniano. La guida della Repubblica, Khamenei, nel suo ultimo discorso incentrato sulle proteste antigovernative ha detto: “Alcuni hanno fatto sembrare che i manifestanti nelle “ribellioni” fossero contrari alle debolezze amministrative ed economiche del paese, mentre al contrario, il loro obiettivo non era eliminare le debolezze, ma distruggere le forze del Paese. Questo senza dubbio è tradimento. I responsabili delle istituzioni devono continuare ad affrontarli seriamente”. Parole che sembrano una luce verde per il neo comandante generale della polizia Ahmadreza Radan e per la magistratura. Rimangono ancora migliaia i manifestanti arrestati in attesa del processo. Secondo Iran Human Rights, 109 di loro rischiano la pena di morte. Mentre si moltiplicano espressioni di solidarietà da tutto il mondo, la Fondazione Olaf Palme ha indicato Narges Mohammadi, uno dei fondatori del Consiglio nazionale per la pace dell’Iran, come il vincitore del premio 2023. Mohammadi, già vincitore del premio internazionale della Fondazione Alexander Langer nel 2009, attualmente, si trova nel carcere di Evin a Teheran. Afghanistan. Ong vietate alle donne, appello di Intersos a Kabul: “Abbiamo bisogno di loro” di Kostas Moschochoritis* Corriere della Sera, 10 gennaio 2023 Con Intersos presente nelle aree rurali delle province di Kabul, Zabul e Kandahar operano 340 donne. La loro presenza è fondamentale. Ora il governo vuole vietare loro di lavorare con le ong. Ad aver bisogno di aiuto umanitario sono 28,3 milioni di persone. Il divieto per le donne a lavorare con le 0ng, annunciato dalle autorità talebane negli ultimi giorni del 2022, condiziona e pregiudica l’intervento umanitario in modo molto grave. Non solo questa decisione rappresenta un inaccettabile e inatteso passo indietro sul piano del rispetto dei principi umanitari e dei diritti umani, ma non tiene conto del ruolo fondamentale che l’esperienza professionale delle donne ha nel garantire l’efficacia degli interventi e salvare vite umane. In particolare, il contributo del personale femminile è la precondizione che consente a milioni di altre donne e ragazze di accedere a servizi di assistenza umanitaria dai quali sarebbero altrimenti escluse. Lo vediamo con chiarezza nelle aree rurali remote nelle quali Intersos opera nelle province di Kabul, Zabul e Kandahar, dove l’accesso a molti servizi di base dipende quasi esclusivamente dalla presenza di ong internazionali e dove donne e ragazze sono le principali destinatarie del nostro intervento. Il divieto ha già avuto un forte impatto sulla fornitura di servizi essenziali per la popolazione afghana più vulnerabile, portando alla sospensione temporanea di programmi salvavita a causa dell’impossibilità di impiegare personale femminile. È stato così anche per le attività di Intersos che, dopo una sospensione generale, abbiamo deciso di riprendere ovunque l’impiego di personale femminile sia reso possibile da accordi locali e di settore (in particolare, ciò è stato già possibile nella provincia di Kabul). La comunità umanitaria è impegnata a gestire questo passaggio difficile ed alleviare le enormi sofferenze della popolazione. I numeri della crisi non sono mai stati così gravi: 28,3 milioni di persone hanno bisogno di aiuto umanitario urgente, tra cui oltre 11 milioni di donne. Da una parte occorre mantenere un atteggiamento pragmatico, consapevole della complessità e dei diversi punti di vista presenti anche nel campo talebano, tenendo aperti tutti i canali di dialogo a livello sia centrale che locale e favorendo la ricerca di soluzioni nel rispetto dei principi umanitari e delle tradizioni locali. Ma dall’altra sappiamo bene che la partecipazione delle donne alle operazioni umanitarie è centrale e non negoziabile. Intersos conferma il pieno sostegno alle 340 donne afghane che in questo momento collaborano con la nostra organizzazione, insieme alla promessa che non le lasceremo sole. *Direttore generale Intersos Russia. Navalny: “Rinchiuso in cella di rigore anche a Capodanno” di Giuseppe Agliastro La Stampa, 10 gennaio 2023 L’avversario numero uno di Putin è stato arrestato due anni fa, non appena ha rimesso piede a Mosca da Berlino, dove era stato curato per un avvelenamento che aveva fatto temere per la sua vita. “E così i miei piani di un fantastico Capodanno sono stati rovinati”. Alexey Navalny scherza, descrive con ironia la sua vita da carcerato. Ma le storie che affida al web tramite i suoi avvocati raccontano di ripetuti soprusi nei suoi confronti, di una repressione politica che pare continuare a prenderlo di mira anche dietro le sbarre. L’avversario numero uno di Putin dice di essere stato costretto a trascorrere il Capodanno chiuso in una cella di isolamento del penitenziario a 200 chilometri da Mosca in cui è ingiustamente detenuto per ragioni politiche. Il motivo? Essersi lavato il viso mezzora prima del previsto la mattina del 31 dicembre. Tanto - racconta l’oppositore - è bastato ai funzionari del centro detentivo IK-6 di Melekhovo per spedirlo in cella di rigore per ben 15 giorni: la massima punizione possibile. “Il Capodanno in cella d’isolamento lo si passa come qualunque altro giorno: sveglia alle 5, luci spente alle 21. E così, per la prima volta da quando avevo sei anni, ho dormito nella notte di Capodanno”, fa sapere Navalny mescolando indignazione e sarcasmo. “In generale sono soddisfatto: la gente paga per festeggiare il nuovo anno in modo inusuale, io invece l’ho fatto gratis”, scherza ancora il dissidente dicendo che per il primo giorno del 2023 aveva messo da parte un pacchetto di patatine e del pesce in scatola. “Rinchiuso continuamente in cella di punizione con pretesti e motivazioni assurde” - Navalny dice di aver trascorso in cella d’isolamento gran parte degli ultimi mesi: racconta infatti che non appena sconta una punizione l’amministrazione carceraria trova subito un nuovo pretesto per rispedirlo dentro, e così è già la decima volta in meno di cinque mesi che viene mandato in cella di rigore. Questi continui provvedimenti sono considerati una palese violazione dei diritti umani. Stando a quanto raccontato da lui stesso o dai suoi alleati, l’ex trascinatore delle proteste anti-Putin è stato mandato in isolamento per tre giorni perché uno dei bottoni della sua uniforme da detenuto era slacciato e ancora per 11 giorni perché non aveva addosso una giacca durante un’ispezione alle 5 del mattino. Per aver condannato la mobilitazione dei riservisti per la criminale invasione dell’Ucraina ordinata da Putin gli sono stati invece inflitti 12 giorni di cella di rigore. La denuncia di Amnesty International - Secondo Amnesty International, l’obiettivo dell’amministrazione carceraria è quello di “spezzare lo spirito di Alexey Navalny rendendo la sua esistenza nella colonia penale insopportabile, umiliante e disumanizzante”. A settembre, l’ong per la difesa dei diritti umani riferiva di “informazioni profondamente inquietanti sul trattamento sempre più duro riservato” all’oppositore russo. “Questo - spiega Amnesty - include pene severe per presunte infrazioni e ripetuti tentativi di ostracismo da parte di altri prigionieri a cui, secondo quanto riferito, non è permesso parlare con lui o addirittura guardarlo. In grave violazione dei suoi diritti e delle stesse leggi russe, ad Alexey Navalny non sono consentiti incontri riservati con il suo avvocato”, denuncia ancora l’organizzazione sottolineando che “la salute e il benessere” dell’oppositore in carcere “sono a grave rischio, e questo equivale a un trattamento crudele, disumano o degradante”. Secondo l’avvocato Vadim Kobzev - ripreso dalla testata online Meduza - Navalny è ora in cella di punizione con febbre e tosse. Il più noto tra gli oppositori del regime di Putin è stato arrestato due anni fa, non appena ha rimesso piede a Mosca da Berlino, dove era stato curato per un avvelenamento che aveva fatto temere per la sua vita e per il quale si sospettano i servizi segreti russi.