Non sono dei boss ma continuano a mandarli al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2023 Attualmente ci sono oltre settecento reclusi al 41 bis, dove la maggior parte di essi non sono capi mafia, ma pura manovalanza. Senza dimenticare il caso di Alfredo Cospito, un anarchico individualista che - come si evince dalle motivazioni della sentenza di assoluzione del processo Bialystok - non è capo di nessuna organizzazione. Sì, perché la federazione anarchica informale non è una associazione dove ci sarebbero dei sottoposti, ma un “metodo”. Ma come mai questo continuo ricorso al 41 bis che, ricordiamo, dovrebbe essere una misura del tutto eccezionale? Una spiegazione l’ha data già nel 2021 il segretario generale della Uil polizia penitenziaria Gennarino De Fazio in commissione antimafia: “Sempre più spesso si ha la sensazione che si ricorra all’applicazione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario proprio perché l’Alta Sicurezza non offre sufficienti garanzie”. Per i reclusi, non boss o capi terroristi, ma “manovalanza” appartenente ai gruppi criminali, esiste già il regime differenziato. Parliamo appunto dell’alta sicurezza (AS). Come si evince da rapporto tematico redatto dal garante nazionale delle persone private della libertà, tali sezioni del circuito AS sono state istituite con il “compito di gestire i detenuti e gli internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio interno, tre differenti sotto- circuiti con medesime garanzie di sicurezza e opportunità trattamentali”. Esse sono definite con un Atto amministrativo e non con una norma di carattere primario. La decisione di prevedere tre sotto- circuiti nasce, nel 2009, dall’esigenza, specificata nella citata circolare, di rispondere alla eterogeneità dovuta alle differenti connotazioni di natura criminale alla base della presenza delle persone nell’allora circuito “Elevato indice di vigilanza”, da quel momento sostituito dal circuito dell’Alta sicurezza. Cosa ha denunciato il segretario generale della Uil pol pen? In sostanza, si ricorre sempre più spesso al 41 bis, perché i circuiti AS “non offrono più adeguate garanzie soprattutto a riguardo dell’interruzione dei collegamenti con l’esterno, ma pure rispetto ai traffici interni alle carceri”. Quindi cosa ha proposto per ridurre il ricorso al carcere duro (che sulla carta “duro” non dovrebbe però essere)? “È dunque necessario ripristinare adeguati livelli di sicurezza degli altri circuiti attraverso il potenziamento degli organici della Polizia penitenziaria e la dotazione e l’efficientamento di strumentazioni ed equipaggiamenti, ma anche mediante una nuova organizzazione complessiva che richiede riforme strutturali e urgenti”. Appare quindi che la magistratura abbia questo tipo di percezione e per questo indica sempre più spesso al ministero della giustizia il 41 bis. Ma se così fosse, viene meno la ratio di tale istituito che non può essere dato con estrema facilità visto il suo carattere - almeno sulla carta - eccezionale. Non solo. Va contro alcune sentenze della Corte costituzionale. La Consulta, nella sua sentenza n. 376 del 1997, ha espressamente detto che i ricorsi al 41 bis devono essere “concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza”. Poiché - afferma la Corte - “da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa; dall’altro lato, le restrizioni apportate rispetto all’ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere - sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità - solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza”. La Corte quindi è giunta alla conclusione che “non vi è dunque una categoria di detenuti, individuati a priori in base al titolo di reato, sottoposti a un regime differenziato: ma solo singoli detenuti, condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata, che l’amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il controllo dei Tribunali di sorveglianza, in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività, e che per questa ragione sottopone - sempre motivatamente e col controllo giurisdizionale - a quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione o la riduzione delle opportunità che in tal senso discenderebbero dall’applicazione del normale regime penitenziario”. L’abuso è chiaro. Il caso Cospito è il massimo esempio di tale stortura applicativa. Chi difende il 41 bis tace su divieti assurdi e incivili di Iuri Maria Prado Il Riformista, 9 febbraio 2023 L’ingiustizia del regime carcerario subordinato all’imperio del 41bis va persino oltre l’inciviltà intrinseca della norma e riguarda il fatto che essa, oltretutto, non funziona in modo da garantire il minuscolo residuo di diritti che pur dovrebbe sopravvivere in quello stillicidio di restrizioni. Siccome attribuisce all’amministrazione deputata ad applicarlo un potere discrezionale pressoché smisurato, infatti, quell’articoletto dell’ordinamento penitenziario si concede a forzature e a misure di concreta attuazione del tutto arbitrarie, ed è tenuto insieme da una giurisprudenza costretta a rimaneggiarlo, ritagliarlo, interpretarlo ogni volta per risolverne i palesi difetti e giustificarne gli indifendibili eccessi. E poiché non si tratta di segnaletica stradale o della curvatura del guscio delle vongole, ma della vita delle persone, ogni buco, ogni asperità, ogni zona d’ombra, appunto ogni difetto di quella norma infierisce molto gravemente sui diritti di chi vi è sottoposto. In tutta la chiacchiera sul 41bis, perlopiù mono-orientata in senso forcaiolo, manca sempre il riferimento a come di fatto è gestita e attuata quella misura oppressiva, ed è la stessa Corte costituzionale a dover registrare i casi di abuso cui essa si presta salvo spiegare (eccoci al punto) che il problema non risiede nella norma ma nel modo di volta in volta adoperato per attuarla. Ciò che in termini di giustizia generale dovrebbe preoccupare chiunque: perché è come dire che la tortura non è un problema visto che non sta nella lettera della legge ma “soltanto” nella pratica di chi la applica (e dunque sulla pelle di chi la subisce). Pare invece che la cosa non preoccupi nessuno se è vero che quotidianamente - ancora ieri ci si è messo Armando Spataro, sulla Stampa - si sprecano le requisitorie contro i pochissimi che sollevano dubbi sull’appropriatezza di una norma non soltanto più volte colpita, in una pluralità di sue parti, da dichiarazioni di illegittimità costituzionale (e quelli che la difendono oggi la difendevano anche per le parti poi dichiarate incostituzionali), ma che oltretutto è affidata a un dispositivo di esecuzione che sistematicamente oltrepassa i limiti, già molto avanzati, entro i quali un detenuto al 41bis può essere tormentato. Qualche esempio può aiutare. È abbastanza facile riferirsi - come fa Spataro - alla neutra e dopotutto non impressionante freddezza di una disposizione che limita la possibilità del detenuto di ricevere corrispondenza e oggetti: meno facile è giustificare che in presunto omaggio a questo presidio securitario si impedisca al detenuto di leggere un libro determinato perché la censura carceraria lo giudica inopportuno o perché gli arriva da fuori, e magari è la raccolta di poesie che gli manda il figlio dodicenne. E a chi obiettasse che non cade il mondo se a qualcuno è impedito di leggere quel che vuole, si potrebbe rispondere che il destinatario del divieto non è chi può farsi una passeggiata, sedersi a un caffè o fare quattro chiacchiere con gli amici, ma chi sta in isolamento e mena un’esistenza che non va molto oltre il perimetro delle funzioni vitali. Ma ancora: è facile non impensierirsi troppo se la norma prevede “la limitazione della permanenza all’aperto”. È meno facile se si precisa che non può trattarsi di più di due ore: ed è impossibile rimanere soprappensiero, salvo che per una sensibilità aguzzina, se di fatto il diritto ai minuti d’aria viene molto spesso esercitato in spazi che giudicheremmo insufficienti e oppressivi anche per un verro o per un cane. È una norma ingiusta di per sé, nonché per l’ingiustizia cui essa offre rifugio. E che si arrivi a discuterne grazie al detenuto che la denuncia, anziché per iniziativa della società libera, è il segno esemplare del degrado civile di questo Paese. Un Paese in cui non solo ha cittadinanza, ma onore di prima pagina e di telecamera, la finissima teoria secondo cui il 41bis va mantenuto perché è “efficace”. L’efficacia. Ma allora perché non gli diamo la corda? C’è caso che sia anche più efficace. Il caso Cospito solleva riflessioni sul 41 bis: una sanzione nella sanzione di Tonucci & Partners* huffingtonpost.it, 9 febbraio 2023 Nonostante la vasta applicazione, non vi è prova alcuna che la norma abbia sortito alcun concreto effetto. Recenti vicende di cronaca hanno acceso i riflettori sul cosiddetto “carcere duro” regolato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (o.p.). Si discute, in particolare, sull’efficacia dello stesso e sull’ipotesi di una sua abolizione. Prima di giungere a qualunque considerazione sull’argomento, è opportuno ripercorrerne in sintesi la genesi e comprendere di cosa si tratti in concreto. L’articolo 41 bis o.p. venne introdotto, con legge numero 663/1986, per fronteggiare una situazione emergenziale legata a episodi di gravi rivolte verificatesi in alcune carceri italiane. Esso prevedeva, quindi, che in tali casi eccezionali o in altre gravi situazioni di emergenza il Ministro della Giustizia potesse disporre la sospensione delle ordinarie regole del trattamento penitenziario, per il tempo strettamente necessario al ripristino dell’ordine e della sicurezza negli istituti carcerari. Nel 1992, dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, all’unico comma di cui constava l’articolo 41 bis o.p. venne aggiunto un secondo comma che assegnava al ministro della Giustizia il potere, con decreto motivato, di sospendere le regole del trattamento carcerario ordinario, nei confronti di detenuti indagati, imputati o condannati, per particolari categorie di reati elencati dall’articolo 4 bis, comma 1, dello stesso o.p. (cosiddetti reati “ostativi” di “prima fascia” - ovverosia reati per i quali non è consentito l’accesso ai benefici penitenziari, né alla liberazione condizionale). In altri termini, nella sua originaria concezione, il “carcere duro” era destinato sostanzialmente solo a soggetti ritenuti legati ad organizzazioni criminali terroristiche o mafiose. Va aggiunto che la disposizione in esame - per la sua natura “emergenziale” - prevedeva una data di scadenza di tre anni dalla sua entrata in vigore. Tuttavia, il Legislatore nazionale intervenne prorogando l’efficacia della norma per ben tre volte, sin quando la legge numero 279/2002 rese definitiva la disciplina relativa al cosiddetto “carcere duro”. I successivi interventi normativi, (ad esempio la legge numero 94/2009), hanno ampliato notevolmente la platea dei potenziali destinatari del regime carcerario di massimo rigore, in funzione anche dell’ampliamento del novero dei reati di “prima fascia” compresi nell’articolo 4 bis o.p. In concreto, l’attuale formulazione dell’articolo 41 bis o.p., prevede che il ministro della Giustizia possa, con decreto motivato, in fase di prima applicazione nei confronti di un detenuto, stabilire che per i successivi quattro anni questi subisca una serie di incisive limitazioni, per esempio, con riferimento alla facoltà di intrattenere colloqui in presenza ovvero telefonici con i propri familiari (sempre sottoposti a registrazione audiovisiva), al controllo della corrispondenza in entrata e in uscita, alla socialità all’interno dell’istituto carcerario, al contenuto di pacchi contenenti vestiario e/o cibo, ecc. Il carcere duro può, inoltre, alla scadenza del quadriennio, essere prorogato con decreto motivato del ministro per due anni. Scopo del regime carcerario sarebbe, dunque, quello di impedire a detenuti per reati ritenuti di particolare allarme sociale di mantenere contatti con l’esterno, al fine di prevenire la commissione di ulteriori fatti criminosi. Va, però, osservato come tale scopo non possa essere realizzato sottoponendo detenuti, i cui diritti sono già affievoliti proprio in funzione dello stato restrittivo, a trattamenti incongrui rispetto alle finalità perseguite o che siano equiparabili alla tortura o si risolvano in trattamenti inumani e degradanti. Nella realtà, numerosi sono i casi di detenuti in stato di custodia cautelare e nei confronti dei quali non è intervenuta condanna, sottoposti al regime del carcere duro; altrettanto numerosi i casi di detenuti sottoposti a tale regime da diversi decenni, senza soluzione di continuità, sul presupposto che gli stessi siano pericolosi per non avere manifestato condotte positive da cui desumere una resipiscenza (id est: condotte collaborative con la giustizia) e, dunque, sul presupposto della presunzione della immutata persistenza di una speciale pericolosità, pur in assenza di concreti elementi da cui desumere l’attualità di tale pericolosità. È allora lecito chiedersi come possa obiettivamente ritenersi efficace un regime carcerario di così grande rigore, fondato su elementi sostanzialmente presuntivi e, in quanto tali, quasi invariabilmente insuperabili e, astrattamente, ripetibile all’infinito. Non solo. Nonostante la vasta applicazione, non vi è prova alcuna che la norma abbia sortito alcun concreto effetto, laddove - all’opposto - non vi è dubbio che il regime carcerario che essa impone finisca per risolversi nell’irrogazione di una sanzione nella sanzione. *Studio legale e tributario internazionale Il 41 bis e la Xylella penitenziaria di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 9 febbraio 2023 È di ieri il messaggio giuntomi da una persona a me cara, un Rabbino che conosco da tantissimi anni e che ho sempre apprezzato per il modo lucido e razionale con il quale affronta le problematiche sociali che attanagliano i nostri tempi. Il saggio uomo mi ha invitato ad esprimere la mia opinione sulle discussioni, che indicava come un po’ surreali, che in questi giorni si sono moltiplicate sul caso del detenuto Alfredo Cospito, sul 41 bis e sui temi securitari afferenti il mondo penitenziario, trovando vasta eco anche all’estero. Ci proverò, sperando di non deluderlo. D’altronde gli devo un ringraziamento, così come ai tanti altri ministri di culto delle diverse religioni - compresa quella islamica. Quando ho avuto bisogno di un consiglio, li ho sempre trovati disponibili, nei tanti anni in cui ho lavorato in carcere. D’altronde nel carcere, ogni giorno, si celebra l’eucarestia del bene universale della libertà e può accadere che si rivolgano gli occhi al Cielo, seppure attraverso le grate. L’occasione della vicenda Cospito, una volta raffreddatosi il clima delle polemiche trasversali, potrebbe consentirci di analizzare meglio l’istituto securitario del 41 bis il quale, al netto di ogni considerazione e purtroppo strumentalizzazione, come ogni altra costruzione umana, seppure giuridico-normativa, - anche a mente del tempus in cui fu introdotto il regime rigoroso della misura, con la legge 10 ottobre 1986 numero 663 (la cosiddetta Legge Gozzini, con la quale, per converso, si rilanciò anche lo strumento delle misure premiali), già per il solo trascorrere degli avvenimenti e delle cronache, e nella consapevolezza che tante cose siano nel frattempo cambiate, non solo nel mondo ma anche nella stessa Italia - ha certamente bisogno non soltanto di una periodica e fisiologica “manutenzione”, ma anche degli opportuni aggiornamenti. Questo al fine di poter continuare ad attendere a quelle finalità securitarie le quali, ritenute indispensabili all’indomani delle numerose stragi di mafia che tanti lutti hanno causato al nostro paese, devono necessariamente pure allinearsi, doverosamente e ragionevolmente, all’esito delle diverse pronunce della Corte costituzionale, alle decisioni della Corte di Cassazione, nonché alle diverse sollecitazioni che sono giunte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel frattempo formatesi: questa non può essere ridotta ad una questione “politica” in senso partitico, perché è un’esigenza di diritto, tipica di uno Stato e di un ordinamento ove viga il principio di legalità. Non si tratta, pertanto, di cassare il 41 bis, ma di rimodernarlo. Pure nel solco di una antica tendenza umanitaria (che non è una cattiva parola e che ci richiama a Cesare Beccaria ma anche al Granducato di Toscana) agendo con ragionevolezza. Pertanto, tale esigenza non dovrebbe essere, aprioristicamente, letta come la prova di un cedimento verso le criminalità organizzate, qualunque sia la loro matrice (mafiosa, terroristica o terroristico-religiosa), ma come di rigenerazione e rafforzamento di un istituto giuridico che, altrimenti, potrebbe per davvero cedere all’improvviso perché considerato esso stesso, in alcuni pezzi, “fuorilegge”. E come ben sa l’amico Rabbino, il diavolo sa nascondersi nel particolare. Se questo accadesse - e cioè se si offrissero sponde utili a quanti, attraverso le crepe di illegittimità di alcune disposizioni pratiche, esecutive, di quel regime, volessero fare delle incursioni distruttive - paradossalmente proprio lo Stato sarebbe il loro inconsapevole migliore alleato perché offrirebbe un endorsement ai veri criminali che temono tale draconiana misura, la quale andrebbe applicata dopo un rigoroso esame della personalità dei destinatari, evitando che si avvantaggino dell’aureola di martiri perché sacrificati dalla cattiva e disumana giustizia. Al riguardo, ad esempio, un più oculato ed “intelligente” impiego di nuove tecnologie non invasive sul piano fisico in materia di controlli e di sorveglianza, insieme ad un affinamento delle capacità investigative della stessa Polizia penitenziaria, ove già da tempo possono ritrovarsi appartenenti dotati di elevate capacità professionali ed esperiti nell’utilizzo di sofisticate tecnologie, potrebbero ottenere perfino una maggiore ed efficace capacità di controllo e, soprattutto, di ricostruzioni di reti, esercitando un più sofisticato soft-power piuttosto che esporsi nelle tradizionali pratiche della sorveglianza, spesso anche penose per chi le deve attuare. Così come, introducendo nuove figure professionali all’interno del Corpo della Polizia penitenziaria, ad esempio degli psicologi e criminologi incardinandoli in un distinto ruolo tecnico, potrebbero meglio profilarsi le personalità criminali sottoposte al regime del 41 bis, la cui ratio continuerebbe a rimanere, evidentemente, quella di impedire ai destinatari di mantenere e dirigere e/o comunque condizionare, in termini evidentemente espansivi, le ormai numerose organizzazioni criminali di appartenenza, indigene e d’importazione. Ma, accanto alle misure che sommessamente indico, ve ne sono anche altre che riterrei assolutamente indispensabili e di cui poco si parla, glissando le questioni, e cioè il dovere assicurare che in tutti gli istituti penitenziari, anzitutto quelli ove sono presenti sezioni dedicate alle persone detenute sottoposte al 41 bis, siano per davvero presenti in congruo numero non soltanto i direttori penitenziari (non poche volte mancanti come titolari) - i quali non dovrebbero dividersi in più istituti a causa di un’assenza ormai cronica di tali rilevanti ed indispensabili figure professionali, che invece dovrebbero costituire un continuo punto di riferimento, non soltanto per le persone detenute (come è previsto dalle regole penitenziarie europee) ma anche per le stesse autorità giudiziarie, sia inquirenti che di cognizione, e soprattutto per la stessa magistratura di sorveglianza - ma dovrebbe essere assicurata pure la presenza di Comandanti titolari, e non facenti funzione, dei reparti di Polizia penitenziaria. Così come andrebbe garantita la presenza congrua ed indispensabile dei funzionari giuridico-pedagogici (quelli che all’inizio della mia carriera, allorquando anche Giovanni Falcone dava lezioni agli operatori penitenziari, nella sede di via Giulia, sentivano fortissima la tensione morale del trattamento rieducativo; si chiamavano “Educatori per adulti” ed io ero uno di loro), perché sono quelli che costruiscono l’ordito della tela dell’osservazione della personalità del ristretto, sulla quale si disegneranno, in chiave prospettica e cautamente predittiva le prognosi trattamentali, verificandone continuamente l’andamento e riferendone i risultati. Il lettore attento, arrivato a questo punto, saprà comprendere come dalle mie parole traspaia il timore, che è quasi una certezza - se è vero come è vero che sta per partire una stagione di lotte sindacali da parte del personale penitenziario delle cosiddette “Funzioni centrali” (il che porta a pensare che si tratti di dipendenti che operino solo negli uffici “romani”, del “centro”, mentre invece ci riferiamo anche e soprattutto a quelli che lavorano nelle circa duecento carceri e in tutti gli altri uffici sparsi sul territorio nazionale, ivi compresi gli uffici dell’esecuzione penale esterna) - che il vero primo problema d’affrontare sia l’effettivo e concreto adeguamento degli organici ed un migliore trattamento giuridico ed economico del personale. Oggi tutto il personale penitenziario, ivi compreso quello della polizia, lamenta non soltanto inadeguate condizioni retributive e di carriera, ma proprio la pericolosissima carenza degli organici. E quanto accade adesso non è frutto delle decisioni dell’attuale governo, ma il portato stratificatosi di tantissimi anni di sciatta percezione e conoscenza del mondo delle carceri, nel mentre si imbastivano solenni proclami di attenzione nei convegni o si dava vita a mille commissioni del nulla penitenziario. Si comprenderà, pertanto, come possa apparire agli occhi di tanti operatori penitenziari incomprensibile la curiosa querelle sul caso Cospito, e su tutti i suoi annessi e connessi, perché i problemi reali sono di gran lunga superiori e non sarà certamente la vicenda dell’anarchico a destabilizzare il sistema dell’esecuzione penale, e del 41 bis in particolare, perché l’indebolimento soprattutto di quest’ultimo, dove il risalto viene dato ad aspetti davvero ancillari rispetto a quelli di sostanza, risulta essere stato già minato da una sotto considerazione dei bisogni del sistema italiano delle carceri. Quanto affermo può trovare conferma nel fatto che vi siano tanti addetti ai lavori i quali confessino che il vero carcere duro non è quello dei mafiosi, dei camorristi e degli ‘ndranghetisti, ma quello della generalità dei detenuti “comuni”, costretti a vivere come sardine in ambienti insalubri, senza docce nelle stanze di “pernottamento” (e ci facessero vedere, allora, i locali del tempo mattutino, pomeridiano o serale, se ce ne fossero per davvero…), con spazi spesso risicati per la permanenza all’aria aperta, con pochi punti telefonici dove poter effettuare le loro chiamate o riceverle (non tutti, infatti, possono permettersi i telefonini introdotti illecitamente, perché costano “troppo”), spesso privi di cure mediche e soprattutto psichiatriche, costretti a consumare pasti preparati di regola da cuochi per caso, dove il tempo non passa mai perché schiacciati dall’ozio forzato, etc. etc.. Sì, penso davvero che le carceri siano una grande polpetta avvelenata esibita sul piatto di portata offerto al nuovo Governo e proprio per questo la premier Giorgia Meloni, Carlo Nordio, con il suo viceministro Francesco Paolo Sisto ed i suoi sottosegretari Andrea Ostellari e Andrea Delmastro Delle Vedove, farebbero meglio a fornirsi dei necessari antidoti che sono rappresentati da quella grande ricchezza multiprofessionale costituita dal personale ancora presente, dando reale ascolto alle loro organizzazioni sindacali, le quali da anni esigono un’attenzione istituzionale non soltanto verso se stesse (mi verrebbe da dire: come da contratto, se non sapessi come esso venga regolarmente violato proprio dalla parte pubblica, sempreverde ed indifferente ad ogni voluta politica), ma verso il sistema organizzativo penitenziario, banalizzato e mortificato, ove ogni criticità non viene mai contestualizzata nel suo insieme, bensì si traduce in una condanna senza appello verso gli operatori, sia in uniforme che in abiti civili, preferendosi non tagliare i rami secchi o eliminare i frutti marci, ma estirpare tutta la pianta con le sue radici. I filosofi del nulla cosa inventeranno adesso? Volevano superare i manicomi giudiziari e l’hanno fatto egregiamente, spostando i folli dagli Opg all’interno degli istituti penitenziari, ora dicono pure che occorra superare l’idea stessa di carcere piuttosto che esigere che le stesse strutture funzionino per davvero! Mah! Così va il mondo, caro mio amico Rabbino. *Presidente dell’Osservatorio internazionale sulla legalità di Trieste, già presidente Onorario del Centro europeo di studi penitenziari - Cesp di Roma 41bis. Radiografia di un sistema che non combatte più la mafia ma è diventato solo tortura di Umberto Baccolo L’Identità, 9 febbraio 2023 In concreto l’applicazione del 41bis si è trasformata in qualcosa di diverso. Feltri ha brillantemente definito “raffinata forma di tortura”. Il vero problema, però, è la sua incostituzionalità: non si può convincere le persone a confessare torturandole. Necessaria, quindi, una revisione di un istituto, visto che le sue applicazioni non hanno alcun senso dal punto di vista della tutela della comunità. Basta osservare qualche numero. A oggi sono 749 i detenuti al 41 bis, dei quali solo 13 donne. Di essi, quasi 300 sono ergastolani, gli altri invece un giorno usciranno. La maggioranza sono condannati definitivi, ma ci stanno pure custodie cautelari. Quasi tutti appartengono a Cosa Nostra, Camorra e Ndrangheta, con qualche decina di membri di altre organizzazioni mafiose e solo 4 terroristi, incluso l’ormai famoso Cospito (gli altri sono irriducibili di vecchie formazioni che si trovano in carcere da lungo tempo). I 41 bis stanno separati dagli altri detenuti in apposite sezioni che si trovano in 12 istituti di massima sicurezza. In 7 di questi esistono “aree riservate” per i capi supremi delle organizzazioni criminali, dove stavano Riina, Provenzano, Cutolo e dove vivrà Messina Denaro. La differenza tra aree normali e riservate è legata al tema sollevato da Donzelli per Cospito: gli incontri tra i detenuti al 41bis. Il problema di sicurezza, sul quale vale la pena riflettere, è questo: tenere una persona, anche la peggiore del mondo, in isolamento assoluto, senza poter parlare mai con nessuno, è una forma di tortura incostituzionale, inaccettabile e improponibile. Anche i 41bis con qualcuno devono parlare un’oretta al giorno. Ma con chi? Ovviamente non con detenuti comuni che avrebbero facilità a veicolare fuori dal carcere i loro messaggi, non avendo censura sulle lettere e controlli rigorosi nei colloqui coi parenti. Quindi con altri 41bis, il che ha senso: dal momento che dal 41bis è difficile uscire vivi (il regime dura 4 anni a livello teorico, con proroghe di 2 per volta, ma la realtà è che la maggioranza dei casi è prorogato in modo semi-automatico fino a fine pena, e per gli ergastolani ostativi per sempre). Per aumentare la sicurezza, se i 41bis normali possono vedere nella loro detenzione 3 altri 41bis con cui passano un’ora al giorno, sempre i soliti, scelti dalla direzione, i super boss nelle aree riservate possono vedere solo un’altra persona, scelta non tra i loro pari, ma tra i 41bis normali. Questa cosa ha mostrato la sua utilità: ricordiamoci che tutte le conversazioni dei momenti di socialità sono registrate e per questo motivo dalle intercettazioni delle chiacchiere di Riina col suo compagno d’aria abbiamo scoperto cose che altrimenti mai avremmo saputo, senza che il boss potesse Forse, più che con altri detenuti, bisognerebbe correre il rischio di far parlare queste persone di più con figli e mogli e con educatori, insegnanti e psicologi ben selezionati, in incontri non di gruppo registrati e controllatissimi dagli agenti, quindi sicuri, tendenti al far riflettere la persona sulla propria vita e farle cambiare direzione. nuocere a nessuno per il fatto che parlava con un compagno ben scelto dal DAP. Il tema però è delicato e risulta fondamentale, soprattutto fuori dalle aree, per quei 41bis non ergastolani che avranno prima o poi declassificazione e scarcerazione, una corretta selezione dei 3 compagni d’aria, e un attento ascolto delle registrazioni, per impedire che si creino connessioni tra membri di gruppi mafiosi e/o terroristici diversi tra loro, che alla declassificazione o scarcerazione senza un percorso di reinserimento di alcun tipo del primo dei quattro, incattivito dalle inutili torture subite in quel regime, si trasformino in alleanze criminali operative. La riforma dovrebbe eliminare i lati crudelmente afflittivi, puntare sul tentativo di avviare percorsi di cambiamento e rieducazione del detenuto (altro che vietare i libri, farli leggere a decine, quelli giusti, fare studiare) e porre massima attenzione al tema per cui è nato lo strumento, cioè con chi parlano i detenuti, cosa si dicono e che effetto ciò può avere per il mondo fuori dal carcere. “Il 41 bis è stato utile e lo è ancora, perché la mafia non è un fenomeno transitorio” di Maria Concetta Tringali micromega.net, 9 febbraio 2023 A partire dai casi Messina Denaro e Cospito le considerazioni del magistrato Sebastiano Ardita. La cattura di Matteo Messina Denaro, arrivata dopo una latitanza durata trent’anni, e lo sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il 41-bis animano il dibattito nel paese, da settimane. Messa a tacere la questione dell’ergastolo ostativo a dicembre con la legge sulle misure in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti che non collaborano con la giustizia, al centro rimane il tema caldissimo del regime penitenziario speciale. Consiste nella modifica, introdotta ad opera del decreto legge Scotti-Martelli nel giugno del 1992, a cavallo delle stragi di mafia, interviene sulla legge che norma l’ordinamento penitenziario. E lo fa con l’aggiunta di un disposto, dal tenore inequivocabile: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, (…), il Ministro di grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, (…), l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. Stiamo parlando di reati di mafia e di detenuti (che possono essere sia condannati in via definitiva sia in attesa di giudizio o in stato di custodia cautelare) per i quali, per la prima volta, la legge permette una sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario. È il 2002 quando poi la norma passa da una dimensione di provvisorietà (nasceva con una scadenza, il 1995, più volte prorogata) a quella di strumento utilizzato con la finalità preventiva di limitare la frequenza dei contatti fra i boss e i loro affiliati all’esterno. Interrompere i rapporti per impedire che l’organizzazione criminale possa continuare ad avere una guida, decapitare le famiglie mafiose è la ratio. Il regime delle proroghe (lo ricorderemo) ha peraltro assicurato la revoca del 41-bis per scadenza dei termini a numerosi detenuti (oltre trecento), proprio all’indomani delle stragi di Capaci e Via d’Amelio, e questo va detto senza infingimenti. A leggere i numeri aggiornati al dicembre 2022, il 41-bis interessa 748 detenuti (di cui 13 donne), dato a cui va aggiunto l’arresto di Messina Denaro rinchiuso da metà gennaio nel carcere dell’Aquila. MicroMega, che alla questione ha dedicato diversi contributi, oggi ha incontrato Sebastiano Ardita, già componente togato del CSM, per molti anni direttore generale del dipartimento detenuti e trattamento del DAP. Dottor Ardita, lei è anche autore di un libro dal titolo “Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere”. È certamente la persona più indicata per aiutarci a fare chiarezza: quanto ha pesato il carcere duro nella lotta alla mafia? Quanto è servito ad arginare il fenomeno? Il 41-bis è solo uno strumento di prevenzione, ma è riuscito ad impedire molti delitti ed è stato un deterrente rispetto allo strapotere dei capi mafia. L’unico errore da non commettere è considerarlo un fenomeno dettato dalla emergenza. Perché il fenomeno mafioso che intende contrastare non è affatto transitorio, ma anzi è stabile e saldo nel tessuto sociale di molti territori. Sull’anarchico in sciopero della fame da più di 100 cento giorni per contestare proprio il regime speciale, sulle manifestazioni e le sassaiole davanti al carcere di Opera dove è stato trasferito per esigenze legate al suo stato di salute, sulle prese di posizione di politici e società civile, proviamo a farci un’idea più precisa. Cosa pensa di Cospito e della situazione che si è venuta a creare? Penso che sia una situazione un po’ complicata in cui occorre distinguere tra legittimità delle scelte e strategia complessiva. La decisione di applicare il 41-bis a Cospito è più che legittima, il provvedimento firmato dalla Ministra Cartabia è scritto molto bene ed evidenzia tutti gli aspetti su cui si fonda la decisione. Il punto è che utilizzando lo strumento nei confronti di realtà diverse da quella mafiosa occorre anche tener conto del pericolo di saldare interessi di altre componenti contro il regime speciale. In ogni caso si tratta di una scelta di politica criminale su cui spetta al Governo l’ultima parola. I presupposti in diritto, dunque, nel caso di specie ci sono. Ma, certamente, non possiamo omettere di considerare che quella sul 41-bis sia una scelta precisa che tira in ballo l’esecutivo. Come fortemente politicizzato ne è il tema. I profili che quel regime illumina sono molteplici, tutti per la verità affrontati dalla Corte costituzionale nel corso di decenni. È a dir poco scivoloso il terreno del bilanciamento tra le esigenze di ordine e sicurezza (che il regime del carcere duro sottende) e quelle che impone il rispetto del diritto alla salute, che è diritto incomprimibile (lo sanno bene i giuristi e le giuriste). Qualcuno l’ha definito un equilibrio difficile, forse impossibile. Esiste una “questione 41-bis” che le condizioni di salute dell’anarchico hanno contribuito a rimettere al centro del dibattito? Lo sciopero della fame è una condizione autoimposta che può nuocere alla salute, ma questo non toglie che a Cospito si debba dare tutta l’assistenza prevista ove sia necessario. Nel caso che abbiamo davanti non c’è alcuna questione che riguardi la salute causalmente collegata alla concreta applicazione del regime. Il 41-bis non prevede alcuna minore assistenza sanitaria, rispetto al regime ordinario di detenzione. In ogni caso se le condizioni di salute dovessero peggiorare a causa dello sciopero della fame saranno garantite tutte le misure sanitarie previste per ogni detenuto. Quando si parla di 41-bis, si dice (forse più a torto che a ragione) “carcere duro”. Dalle pagine del suo libro si fa invece estrema chiarezza, su un punto che troppo spesso si è prestato a grandi strumentalizzazioni: “Il carcere diventava duro per impedire che da lì partissero gli ordini dei capimafia, non certo perché si volesse far soffrire apposta qualcuno. Non era previsto che si dovesse stare in isolamento assoluto, né venivano imposte sofferenze fini a sé stesse, perché ciò sarebbe stato contro i principi fondamentali che tutelano i diritti dell’uomo”. La misura pone un problema con cui ogni regime deve fare i conti: quello del divieto di trattamenti inumani. Per la Corte EDU l’Italia s’è già resa colpevole di aver violato l’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (su tortura e trattamenti degradanti). È accaduto ad esempio in occasione della proroga del regime speciale disposta per Bernardo Provenzano, ad appena qualche mese dalla sua morte. Per la Corte di Strasburgo il nostro paese aveva violato il divieto in quella precisa circostanza e calpestato diritti, in quanto non si era debitamente valutato il deterioramento cognitivo del detenuto. Lei crede che oggi si aprano oggi nuove o rinnovate riflessioni su 41-bis e trattamenti inumani? Credo che in quel caso, come anche in questo, molto abbia giocato l’aspetto simbolico del 41-bis che è un modo con cui i governi intendono affrontare una questione criminale. Ecco perché si suole dire che questa è una misura che, una volta adottata, se non viene annullata con i ricorsi giudiziari è poi difficile che venga ritirata. Ma su 41-bis e incostituzionalità, la Consulta in più occasioni ha ribadito per quel regime la non incompatibilità con i principi costituzionali. Nessun contrasto con i diritti fondamentali della persona, con quelli di inviolabilità della libertà personale e di finalità rieducativa della pena. Ciò, tuttavia, solo in presenza di due condizioni, è chiaro: che la misura sospensiva dell’ordinario trattamento non imponga ulteriori e più gravose restrizioni della libertà rispetto a quelle della detenzione e che - per l’appunto - non violi il divieto di trattamenti disumani e degradanti, o annulli la finalità rieducativa della pena. Vede altri profili di illegittimità costituzionale a carico del regime al quale sono sottoposti i boss? In realtà la corte tra il ‘93 e il ‘96 ha sancito che sono vietati i trattamenti disumani e degradanti - limiti cosiddetti esterni - e tutte le misure che non siano direttamente funzionali alle esigenze di impedire i contatti con l’esterno - limiti interni -. Sono due categorie generali che nel corso degli anni sono state riempite di casi concreti. Ad esempio, l’isolamento assoluto è incostituzionale perché impatta sui limiti esterni, in quanto lede il diritto fondamentale alla socialità. Il divieto di cuocere cibi, non è legato a un diritto fondamentale, ma si è ritenuto incostituzionale perché non funzionale alle esigenze del regime, e quindi inutilmente vessatorio... Altra questione attualissima è quella che attiene al diritto di difesa. Si è parlato molto di Messina Denaro e della nomina conferita alla figlia della sorella, avvocata Guttadauro. La Corte Costituzionale già nel 2013 definiva i contorni di questo rapporto, con riferimento al limite imposto ai colloqui (“fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari”) concludendo che per come congegnati era incompatibili con la garanzia di inviolabilità sancita dall’articolo 24, secondo comma, della Costituzione. L’inasprimento del regime speciale operato nel 2000 dal “Pacchetto sicurezza” lasciava intravedere un ragionamento - gravido di conseguenze - che pareva fondarsi su un sospetto: che anche il difensore si potesse prestare a fare da veicolo per messaggi e comunicazioni. Più di recente, il giudice delle leggi ha cassato il visto di censura della corrispondenza tra detenuti al 41-bis e difensori. Incontestabile è che il diritto di difesa sia “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale, che comprenda il diritto di conferire con il difensore e che trovi precise corrispondenze nel diritto internazionale dei diritti umani. Messina Denaro non ha ancora ricevuto la visita in carcere della nipote e qualcuno si chiede già se attraverso quella nomina non si stiano di fatto superando i limiti imposti, per gli incontri con i parenti, a chi è al carcere duro. La Camera penale di Cosenza (in risposta a un articolo pubblicato sul Corriere della Sera) si dice attonita per ciò che definisce “un facile accostamento avvocato-assistito, mediaticamente agevolato dal legame familiare”, accostamento cui addebita un percorso che conduce alla demolizione dello Stato di diritto. Che ne pensa? Penso che si debba guardare caso per caso. Nella gran parte gli avvocati svolgono in modo corretto il loro fondamentale ruolo. Ma vi possono essere casi - ne sono venuti alla luce alcuni nel passato - che vedono vere e proprie condotte di favoreggiamento se non di partecipazione alle attività criminali degli assistiti. È chiaro che occorre presumere la correttezza ed assicurare i contatti. Nel caso di violazioni della legge il Codice penale si applica anche agli avvocati, come a tutti gli altri cittadini. Sono molteplici gli attacchi al regime speciale che in queste settimane provengono anche da intellettuali e da una certa parte politica. Il 17 gennaio, sui suoi social, la filosofa Donatella Di Cesare scriveva “No al 41 bis - per Cospito, per Messina Denaro, per chiunque”; sulle pagine del Riformista denunciava ai danni dell’anarchico “la colpevole inerzia di questo governo” attribuendole “il terribile sapore di una ripugnante vendetta”. Nel suo libro lei definisce il regime del 41-bis “un passo decisivo nella lotta alla criminalità organizzata ma anche l’inizio di un braccio di ferro tra Stato e mafia che è tutt’altro che finito”. Sul regime destinato ai boss stiamo assistendo a questo braccio di ferro? Diciamo che la distanza dagli anni delle stragi induce alcuni a sottovalutare la capacità di rigenerazione delle compagini mafiose. Tutto il testo è frutto di un dibattito tra sensibilità diverse. Questione di sensibilità, certamente. Ma sembra difficile non farsi sfiorare dall’idea che si stia facendo slittare la questione su un piano ideologico. A chi giovi, poi, allontanare il discorso dalla mera valutazione degli aspetti tecnici (quei presupposti che devono presiedere alla concessione o al mantenimento della misura), è domanda che dovremmo porci prima di ogni altra. Come, provando ad allargare la prospettiva e a pesare anche le recenti dichiarazioni del ministro Nordio sulle intercettazioni insieme al fuoco incrociato sul 41-bis, non si può non tentare di immaginare quale scenario queste manovre disegnerebbero. Dove crede che stia andando il Paese? Mi sembrano discussioni diverse, ma entrambe generate da una certa insofferenza verso l’azione repressiva dello Stato. L’Antimafia passa la palla a Nordio sul 41-bis a Cospito: “Il contesto è evoluto” di Francesco Bercic Il Foglio, 9 febbraio 2023 La relazione del procuratore Melillo raccomanda al governo di rivalutare il caso dell’anarchico detenuto in regime di carcere duro. Il ministero della Giustizia può ancora intervenire prima che si esprima la Cassazione il prossimo 24 febbraio. Il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, in una relazione inviata al ministro della Giustizia Carlo Nordio, raccomanda un “ponderato apprezzamento dell’effettivo rilievo preventivo” rispetto al mantenimento del 41-bis per Alfredo Cospito. In sostanza, i pm rimandano all’“autorità politica” la valutazione della gestione carceraria dell’anarchico: una posizione chiara che sembra togliere ogni alibi all’azione del Guardasigilli, se si pensa che ancora pochi giorni fa Nordio derogava qualunque scelta al parere della Cassazione, che si esprimerà il prossimo 24 febbraio. “Sul 41-bis di Cospito è opinione prevalente che il ministro non possa pronunciarsi prima di aver acquisito i pareri delle autorità giudiziarie competenti”, diceva Nordio durante la sua informativa alla Camera, lo scorso primo febbraio. Con la relazione della Direzione nazionale antimafia (Dna) diffusa oggi dal Corriere della Sera, il ministro viene invece messo di fronte alla responsabilità di una decisione: l’alternativa al 41-bis sarebbe il carcere di alta sicurezza o “altre forme di controllo”. C’è tempo fino a 30 giorni dall’istanza di revoca presentata il 13 gennaio dall’avvocato dell’anarchico detenuto nel carcere di Opera, a Milano, in sciopero della fame dallo scorso ottobre. A giustificare la posizione della Dna ci sarebbe “un’evoluzione” del contesto da quando, nel maggio dell’anno scorso, Cospito è stato sottoposto al carcere duro su decisione dell’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia. La realtà di oggi “appare orientata verso una decisa moltiplicazione dei documenti e degli strumenti di elaborazione ideologica” fruibili dai movimenti anarchici. Ed è questo panorama “complesso ed eterogeneo” a indurre i pm al dubbio: ci si domanda cioè se l’isolamento di Cospito possa davvero arginare in misura decisiva la pericolosità “delle iniziative violente”; o se, al contrario, escludere il detenuto da questi circuiti si riveli un’operazione fine a se stessa. Tenendo sempre presente che lo strumento del 41-bis possiede un carattere “preventivo” e non “afflittivo”. E che deve quindi essere motivato da un’evidente necessità cautelare. Con la relazione diffusa oggi, il governo ha un elemento in più per valutare il caso agendo nel pieno rispetto del diritto. Il parere offre infatti uno scudo contro le polemiche su possibili trattative con chi minaccia lo stato, se Nordio decidesse di revocare il carcere duro. Per questo le parole della Dna possono rappresentare una possibile svolta. A patto che l’esecutivo si allinei con una risposta altrettanto decisa. Caso Cospito, a Nordio tre giorni per una decisione di Francesco Grignetti La Stampa, 9 febbraio 2023 Il 12 scade il termine per il ministro per scegliere sul 41 bis all’anarchico. La via d’uscita della Superprocura: si potrebbe tornare all’Alta sicurezza. Il caso Alfredo Cospito è sempre lì, impossibile da aggirare per il governo. Non tanto perché ci sono diverse università in ebollizione - ieri sono state occupate l’Orientale di Napoli e la Statale di Milano - ma perché lo sciopero della fame dell’anarchico contro il 41 bis nelle carceri va avanti ad oltranza. Sono quasi 110 giorni di digiuno, aggravati nell’ultima settimana, da quando Cospito non assume più integratori, e va avanti solo ad acqua e zucchero. Fra tre giorni, il 12 febbraio, scade il termine entro il quale l’istanza dell’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini dovrebbe avere una risposta dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Risposta che per il momento non c’è e tutto lascia pensare che non ci sarà. È nelle prerogative del ministro, infatti, lasciar cadere l’istanza e mantenere immutato il regime carcerario. La settimana prossima, poi, il 15, Nordio sarà di nuovo in Parlamento per spiegare gli ultimi passi. E poi il 24 febbraio la parola toccherà alla Cassazione. Il Guardasigilli dovrà aggiornare le Camere su quanto successo dopo il 1° febbraio, quando ha già fatto una prima relazione. Dovrà districarsi tra i vari documenti che nel frattempo gli sono arrivati dalla magistratura. Nell’ordine: Superprocura, Distrettuale della procura di Torino, procura generale di Torino, magistrati di Sorveglianza. Ed è proprio tra le pieghe dei diversi documenti che Nordio avrebbe un appiglio onorevole per decidere il cambio di regime. C’è infatti una notevole difformità di vedute tra procura generale di Torino e Superprocura antiterrorismo. I due uffici valutano all’unisono la “pericolosità sociale” del terrorista anarchico, ma divergono sull’analisi dell’effervescenza anarchica nelle ultime due settimane e il potenziale ruolo di Cospito. Il pg Francesco Saluzzo ritiene che Cospito ha continuato ad agire da “apologeta e istigatore dell’associazione eversiva”, e anzi sarebbe divenuto con la sua protesta estrema il “catalizzatore” dei tanti gruppi del mondo anarco-insurrezionalista che a lui guardano ormai come “a un riferimento”. Perciò, conclude il procuratore generale, Cospito ha da rimanere al carcere duro. Il parere del procuratore nazionale Giovanni Melillo è molto più problematico. Invita l’autorità politica a una valutazione ponderata dell’evoluzione in atto del fenomeno, ossia “la decisa moltiplicazione dei documenti e degli strumenti di elaborazione ideologica - come rivela il Corriere della Sera - e dei canali decisionali delle conseguenti iniziative violente”. È trasparente la conclusione a cui tende la Superprocura: Cospito non può più comunicare con l’esterno da almeno 8 mesi, eppure gli anarco-insurrezionalisti non sembrano affatto decapitati; quindi è ben difficile sostenere che ci sia lui al vertice della galassia. Ciò a prescindere dalla considerazione che gli anarchici sono per definizione orizzontali e non verticali. La Superprocura è in linea con la Distrettuale di Torino quando segnala i “caratteri di complessità ed eterogeneità della comunicazione tra le diverse aree insurrezionaliste, emerse dall’aggiornata analisi della natura e dell’andamento dei fenomeni”. Il nodo politico a cui il ministro Nordio potrebbe appoggiarsi, se volesse, è che Superprocura e Distrettuale ritengono che per Alfredo Cospito si può fare un passo indietro. Si potrebbe tornare alla situazione della primavera scorsa, ovvero la detenzione nel circuito di Alta Sicurezza, che è un gradino più lieve del 41 bis. Ovviamente con le “ulteriori opportune forme di controllo proprie dell’ordinamento penitenziario e dell’attività investigativa”. Un eufemismo per dire che gli si potrebbe imporre una censura aggiuntiva sugli scritti e su tutte le comunicazioni con l’esterno. In fondo era anche la soluzione prospettata a caldo dal Garante per i diritti dei detenuti, Mauro Palma, che già un paio di settimane fa aveva ipotizzato il ritorno di Cospito nel circuito dell’Alta sicurezza. Sarebbe una soluzione elegante per uscire dal muro contro muro, salvando le esigenze di sicurezza ma anche quelle umanitarie. Nordio sceglierà questa via oppure lascerà trascorrere la data del 12 senza esporsi? In questo caso, la mancata risposta vale come conferma della situazione esistente. Peserà nella sua scelta la relativa anticipazione della udienza della Cassazione: dapprima aveva deciso di discuterne il 20 aprile, poi a marzo, infine il 24 febbraio. La Cassazione dovrà valutare la decisione del tribunale di sorveglianza di Roma che gli ha appena confermato il regime speciale per quattro anni. C’è una soluzione al caso Cospito: un carcere duro alternativo al 41 bis di Guido Salvini* Il Foglio, 9 febbraio 2023 Spezzare i circoli viziosi spostando l’anarchico in un altro regime carcerario ad alta sicurezza: l’AS2. L’analisi del magistrato della procura di Milano. Per trovare una via d’uscita ragionevole dal caso di Alfredo Cospito, che riempie da settimane lo spazio sui giornali e ha causato uno scontro politico ai livelli più alti, una via d’uscita senza danni innanzitutto per la sua vita e nello stesso tempo per la credibilità delle istituzioni e della giustizia, bisogna innanzitutto comprendere il mondo di cui fa parte e che si muove intorno a lui, non solo in Italia. Per capirlo bisogna dimenticare tanto le organizzazioni terroristiche che abbiamo conosciuto, di estrazione marxista-leninista, con le loro basi, i militanti clandestini, i documenti programmatici ma anche l’anarchismo sociale, quello del ferroviere Pinelli ad esempio, che è stato sino all’inizio del ‘900 una componente importante del movimento operaio. La progettualità della Federazione anarchica informale (Fai) non è una rivoluzione, che sostituirebbe un potere con un altro, ma la rivolta, la distruzione dell’intero esistente che si realizza con l’atto violento, quasi estetico e la gratificazione esistenziale che fornisce. Un pensiero di stampo quasi nichilista, come riconosce lo stesso Cospito nelle sue interviste, che è soddisfatto dall’azione in sé che colpisce le presunte catene della società e della civilizzazione. Gruppi come le Brigate rosse sono scomparsi ma le azioni della Fai durano da vent’anni grazie alla forma liquida che ha tale mondo. Il primo attentato è stato nel 2003 contro Romano Prodi, allora presidente dell’Unione europea, poi altri obiettivi come le carceri, sedi di forze dell’ordine, azioni ambientaliste e antinucleari, compresi i fronti No Tav e No green pass, e contro sedi tecnologiche in genere spesso con pacchi bomba. Sono hacker dell’intera società, c’è una parentela con i luddisti che all’inizio dell’800 in Inghilterra distruggevano le macchine della prima rivoluzione industriale e c’è un’affinità con Unabomber, quello vero, Theodore Kaczynski, che sconta l’ergastolo negli Stati Uniti e che spediva anch’egli pacchi bomba e viveva isolato in un bosco per combattere ogni tipo di società industriale. Per fortuna si tratta quasi sempre di azioni a bassa intensità e nell’arco di molti anni c’è stato solo un attentato diretto contro una persona, quello all’ing. Adinolfi e un grave attentato con esplosivo, quello alla caserma dei Carabinieri di Fossano, qualificato come strage anche se senza vittime e per il quale Cospito è stato condannato. Nella maggior parte dei casi per fortuna si tratta di azioni più di vandalismo che di terrorismo: incendi, raid nel centro delle città, danneggiamenti, scritte sui muri. In questo senso, a differenza dei tempi delle Brigate rosse che uccidevano e gambizzavano impunemente ogni mattina, non c’è una vera “emergenza anarchica” anche se le loro azioni sono per la verità imprevedibili e più impermeabili alle indagini della polizia e della magistratura. La Fai non è un’organizzazione e gli autori degli attacchi, che pur agiscono in molti paesi, dall’Italia alla Grecia alla Svizzera alla Spagna al Sudamerica, non si conoscono nemmeno l’un l’altro. Si riconoscono solo attraverso le azioni stesse. Non sono neanche propriamente una rete, ma gruppi di affinità. Sono azioni che chiunque può riprodurre per poi scomparire senza forme di organizzazione. Per questo, le indagini sono molto più difficili rispetto a quelle sui gruppi terroristici tradizionali ed è problematico contestare reati come quello di banda armata. Il sistema di comunicazione e di azione della Fai non è quello delle consorterie brigatiste che pedinavano le vittime e nelle basi studiavano per mesi gli obiettivi. Ma è pura e semplice imitazione, con una comunicazione a distanza tramite le azioni come le api che comunicano tramite segnali chimici. Grazie a questa forma di non-organizzazione, Cospito, sfruttando la sua collocazione al 41-bis e soprattutto con il suo lungo e studiato digiuno, ha davvero raggiunto il suo obiettivo. Mentre prima dello sciopero della fame i suoi messaggi, anche se si fosse trovato in carcere in regime ordinario e non al 41-bis, potevano raggiungere al più qualche migliaio di possibili adepti o imitatori, in queste ultime settimane hanno raggiunto milioni di persone in tutto il mondo, tanto è vero che la sua “lotta” è seguita giorno per giorno in tutta Europa, in Sudamerica e in altre parti del globo. Un successo veramente pieno anche per un dettaglio tecnico e criminologico. Infatti, alle organizzazioni criminali come la mafia serve far uscire, soprattutto dai capi che sono in carcere, indicazioni dettagliate sulla continuità della gestione del territorio, sull’investimento delle risorse finanziarie, sugli appalti e sui soggetti da avvicinare, sui rapporti di forza all’interno delle varie cosche. Un lavoro che, anche con eventuali pizzini, non è agevole. Ma per Alfredo Cospito il messaggio è semplicemente costituito dal suo corpo e per chi, anche senza conoscerlo, lo vede smagrito nelle fotografie sui giornali, questo è sufficiente per accendere l’azione. È un circolo vizioso che va spezzato. C’è una via di uscita ragionevole prospettata anche dalla Direzione nazionale antimafia. Quella, credo, e senza invadere le scelte altrui, della collocazione di Cospito in un circuito carcerario diverso dall’art. 41-bis ma comunque ad alta sicurezza in cui i suoi contatti siano monitorati. È il regime chiamato nell’ordinamento penitenziario As2 ed è proprio quello cui di regola sono assegnati i detenuti per reati di terrorismo. Una situazione carceraria che evita certe anche inutili restrizioni, ad esempio in tema di vitto e di accesso a libri e giornali, perché la detenzione deve essere dura rispetto alla possibilità di comunicare con potenziali associati ma non può essere inutilmente “dura” nella vita quotidiana. Collocare Cospito in un “semplice” regime di alta sicurezza non costituirebbe un cedimento dello stato, soprattutto mantenendo nel contempo limitazioni e un attento monitoraggio dei contatti con l’esterno. Se si vuole si può disinnescare la mina, anche in attesa della decisione della Corte costituzionale che deciderà se la “strage politica” debba essere obbligatoriamente punita con l’ergastolo. Altrimenti vi è il rischio di arrivare facilmente prima o poi al dilemma se applicare o no l’alimentazione forzata quando l’anarchico fosse in pericolo di vita o di danni fisici irreversibili. Con le prevedibili conseguenze di più allargate e pericolose azioni di protesta e di nuovi scontri giudiziari, politici e istituzionali in merito alla liceità di un intervento simile. Una prospettiva da evitare e non solo per il detenuto. Governo e opposizione, dopo le varie dichiarazioni in Aula, sono giunti al punto di scontrarsi aspramente, per la prima volta dopo l’insediamento del nuovo governo, non sui temi critici del paese ma sulla detenzione di Cospito. Ma se si arrivasse alla decisione sull’alimentazione forzata o no di Cospito, le istituzioni potrebbero anche diventare ostaggio del detenuto perché dalla povertà dell’attuale classe dirigente ci sarebbe, in quel momento da aspettarsi anche di peggio di quanto abbiamo già visto. Speriamo davvero di non doverci arrivare. *Magistrato presso la procura di Milano Aspettando il Godot Nordio: il caso Cospito è puro teatro di Filoreto D’Agostino Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2023 Il caso Cospito è segnato sia da attentati e proteste dei fiancheggiatori sia dal dibattito sul 41-bis, evolutosi in Parlamento, sul modello teatrale, con toni degni delle opere di Harold Pinter e Yasmina Reza, nelle quali si passa da relazioni apparentemente tranquille ad aspre contese. Lo scontro deriva dal pellegrinaggio sardo del 12 gennaio (sei giorni dopo quello dei re magi) di quattro parlamentari democratici non per onorare Sant’Efisio, ma per incontrare Cospito. La condiscendente soggezione alle richieste dell’anarchico di ascoltare prima terroristi e mafiosi soggetti al medesimo regime, divulgata dal sottosegretario Del Mastro, il messaggio pro reo dell’ex ministro Orlando hanno sicuramente animato la rappresentazione parlamentar-teatrale. L’opposizione chiede le dimissioni del sottosegretario, l’operato del quale sarà vagliato dalla magistratura. Va tuttavia riconosciuto che, senza quell’apporto, la grave vicenda del pellegrinaggio sardo rimarrebbe fatalmente ignorata, impedendo così di saggiare la credibilità del Pd sulla questione. Sempre il 12 gennaio il legale di Cospito presentava istanza di revoca dell’applicazione del 41-bis. Per quanto consta, l’istanza non ha ancora ricevuto risposta mentre si proclama doverosamente che lo Stato, seppure sotto attacco, non cederà a ricatti di terroristi e mafiosi. Sta di fatto che da quella data Cospito attende una risposta relativa esclusivamente al suo caso e non al proclamato tentativo di far abrogare il 41-bis, che richiederebbe non un decreto ministeriale, ma un atto legislativo ad hoc. In quest’ultimo caso i riferimenti teatrali riguarderebbero Samuel Beckett: un testo abrogativo, redatto da un governo evidentemente in crisi autodistruttiva, richiede comunque la sottoscrizione del presidente della Repubblica (e anche del Csm), la cui attesa supererebbe probabilmente quella di Godot. È perciò opportuno incentrare l’attenzione sulla richiesta di revoca. Si rammenta che il decreto del Guardasigilli ex art. 41-bis reca una misura di sicurezza, cioè un provvedimento amministrativo dal quale scaturisce il severo trattamento carcerario. Il ministro non opera da giudice, ma da autorità che agisce a tutela della sicurezza pubblica sui rapporti tra carcerati e mondo esterno, intangibili dal ministero dell’Interno, primario titolare di quelle funzioni, perché il loro esercizio implicherebbe un’ingerenza sull’apparato giudiziario. Il compito del Guardasigilli consiste nello stabilire se il detenuto possa intrattenere dal carcere rapporti con organizzazioni malavitose e terroristiche e continuare così nell’attività criminale. Gli elementi di giudizio sono pertanto il reo, l’eventuale percorso riabilitativo e l’obiettiva sussistenza e qualità di collegamenti con associazioni criminali: il margine di discrezionalità del ministro si riduce drasticamente. In un frangente così delicato ci vuole quasi un mese o forse più per decidere i dati valutativi. Una tempestiva decisione avrebbe eliminato la materia del contendere in caso sia di diniego sia d’accoglimento. Una motivata reiezione, infatti, qualificherebbe l’eventuale prosecuzione del digiuno come azione di esclusiva autoresponsabilità del detenuto, non legittimata dall’aspettativa di una modifica del regime carcerario, e toglierebbe spazio argomentativo anche a sterili obiezioni sulle particolari condizioni carcerarie. Chi vi è finito ha fatto una scelta di vita contro valori umanitari. La morale è che la vicenda propaga sintomi equivoci anche per l’inadeguata azione del ministro Nordio, dal quale ci si aspetterebbe, anche in ragione della sua lunga permanenza in magistratura, una maggiore solerzia per un atto di specifica competenza. Anziché limitarsi alla retorica litania sullo Stato che non cede ai ricatti, il ministro asseveri tale principio con i fatti e l’operosità che il suo alto ufficio impone. Limiti alla custodia cautelare, FI rilancia e apre al testo Cirielli di Errico Novi Il Dubbio, 9 febbraio 2023 L’azzurro Pittalis: “A breve la nostra proposta per eliminare gli arresti basati sulla reiterazione, bene l’ipotesi del viceministro di FdI”. E si muove pure Costa. “Garantisti al massimo finché la persona è sotto processo, rigorosi al massimo nella certezza della pena”: pochi sanno tradurre in forma concreta la controversa massima di Fratelli d’Italia. Pochi ci riescono come Edmondo Cirielli, che ha trovato la via per dare attuazione anche al primo dei due assiomi, alla parte garantista della linea Meloni: perché l’attuale viceministro degli Esteri è, come ha segnalato due giorni fa il Fatto quotidiano, firmatario di una proposta di legge che modifica radicalmente i presupposti per l’adozione della custodia cautelare. Rende più stringenti le tre famose condizioni per ricorrere al cosiddetto carcere preventivo: servono atti concreti dell’indagato per ritenere che possa inquinare le prove, ci si deve trovare non di fronte a un pericolo ma a un vero e proprio tentativo di fuga, se lo si vuole arrestare in modo da scongiurarne l’irreperibilità, e il concetto di mero pericolo va superato anche riguardo alla reiterazione del reato, nel senso che se il pm vuol chiedere al gip di mettere in cella l’indagato deve produrre elementi di prova sull’imminenza di ulteriori condotte illecite. Sarebbe una svolta, persino più netta di quella che avrebbe potuto realizzarsi col referendum promosso nella primavera del 2022 da Partito radicale e Lega. All’epoca la vittoria del sì avrebbe limitato la custodia cautelare solo quando basata sul rischio di reiterazione del reato, senza modificare la genericità degli altri due presupposti. Ora, come ha chiarito il quotidiano diretto da Marco Travaglio, nel partito di Giorgia Meloni non c’è molta voglia di esporsi su una proposta del genere. “Se ne occuperà Nordio a tempo debito”, ha però dovuto concedere la fonte di Fratelli d’Italia interpellata dal Fatto. E non potrebbe che essere così: non solo la lotta agli errori giudiziari è nell’agenda del centrodestra, ma il guardasigilli l’ha puntualmente declinata anche in un’ipotesi di revisione della custodia cautelare quando, nel presentare le proprie linee programmatiche in Parlamento, ha aperto con decisione a una proposta della minoranza, del Terzo polo e del vicesegretario di Azione Enrico Costa in particolare: affidare non più al gip monocratico ma a un collegio le valutazioni sulle richieste di misure cautelari avanzate dalla Procura. Il che non dimostra, certo, l’immediata disponibilità di via Arenula a sposare ad occhi chiusi la proposta Cirilelli, ma diciamo che si tratta di un’ottima premessa. Il ministro della Giustizia sa d’altra parte che deve attenersi al cronoprogramma concordato con la premier. E in quella tabella di marcia c’è la revisione dell’abuso d’ufficio, non la riforma del carcere preventivo. Se ne potrebbe occupare autonomamente il Parlamento, ma ormai l’impulso non può promanare da Cirielli, che ha depositato il proprio testo all’esordio delle nuove Camere, il 13 ottobre - insieme con numerose altre, quasi tutte di segno diverso, cioè “rigorista” -, e che comunque nel frattempo non avrebbe modo di seguire la materia visto che è alla Farnesina. C’è Costa che, come detto, condivide con Cirielli una sorta di primogenitura sul tema: “Ma non vedo una strada in discesa, per una proposta come quella di Cirielli, considerata la linea assai diversa che questa maggioranza segue sulla giustizia”, dice il vicesegretario del partito di Calenda. “Sicuramente il testo del viceministro di FdI sarebbe un passo avanti nella direzione necessaria, ma mi sembra difficile che lo sostengano. Riguardo alla valutazione collegiale delle misure cautelari, a breve intendo presentare la proposta come emendamento all’interno di un altro veicolo legislativo. Nordio si è detto disponibile, ma ribadisco il mio scetticismo su improvvise conversioni garantiste della coalizione di governo”. Eppure Costa potrebbe presto trovarsi meno isolato nella battaglia per ripristinare le garanzie in ambito penale: sembra pronta a schierarsi quanto meno Forza Italia, che proprio sulla custodia cautelare depositerà a breve un proprio testo: “Va in una direzione più radicale rispetto a quanto indicato dal viceministro Cirielli”, spiega al Dubbio Pietro Pittalis, deputato azzurro della commissione Giustizia, “nel senso che noi recuperiamo l’obiettivo dell’ultimo referendum ed eliminiamo la reiterazione del reato dal novero dei presupposti che consentono il carcere preventivo. È una soluzione necessaria, ritengo, perché oggi il pericolo di reiterazione viene utilizzato dal pm come mera formula di stile”, osserva Pittalis. “Si sostiene che l’indagato potrebbe ripetere la condotta illecita senza però addurre la benché minima motivazione. Certo, proprio sulla reiterazione, il testo di Cirielli aggiunge un elemento di concretezza molto utile. E considerato che su una questione del genere si dovrà trovare una convergenza nella maggioranza, se non anche al di là del centrodestra, la proposta dell’attuale viceministro potrebbe tornare preziosa”. Si potrebbe aggiungere un ulteriore dettaglio: a proporre di eliminare del tutto la reiterazione dal catalogo dei presupposti per il carcere preventivo è stata appunto la Lega con il referendum della primavera scorsa. La quale Lega al momento non si sbilancia su una riforma della custodia cautelare più chirurgica e articolata qual è quella di Cirielli. Ma certo per il partito di Matteo Salvini sarà difficile spiegare un’abiura, nel momento in cui FI spingerà per dire addio agli arresti facili. Esiste davvero un “pericolo anarchico”? di Gianfranco Ragona Il Manifesto, 9 febbraio 2023 In questi giorni la comunicazione e la politica si sono lanciate sul “caso Cospito” con una enorme foga, pari soltanto alla generale approssimazione. Si dimentica che al centro di tutto c’è la vita di un essere umano, un anarchico, cui è stato applicato il 41 bis in maniera molto discutibile, se si guarda ai fatti noti. Gli argomenti utilizzati dai giudici e ripresi nel dibattito pubblico sono infatti fondati su un errore: cioè che Cospito sia il capo di una organizzazione terroristica, con una sua struttura gerarchica e un progetto effettivo di sovversione violenta. E in tale posizione dirigente, dal carcere, egli emetterebbe ordini che una docile massa inquadrata di anarchici sarebbe pronta a eseguire. Di per sé l’anarchismo non ammette l’esistenza di una gerarchia politica, quindi capi, sottocapi quadri e masse, anzi il contrario: la sua ragion d’essere, convinca o non convinca, è la contestazione di ogni rapporto sociale fondato sul principio di autorità. Vengono concepite unicamente forme di aggregazione costruite su un principio federalistico, con decisioni basate su un consenso che fluisce dal basso in alto. Inoltre, nel caso di Cospito, anche volendo ammettere che le sue comunicazioni fossero pericolose, non avrebbe potuto essere applicata la misura della censura? Forse in molti se lo chiedono. Le istituzioni, invece di compiere un autorevole e doveroso atto di coraggio, ossia la revoca immediata del 41 bis per Cospito, mostrano tutta la loro debolezza che, come spesso accade, si manifesta con pose muscolari e agitando lo spauracchio del “pericolo anarchico”. Esiste oggi un “pericolo” di questo genere? Bisogna intendersi bene ed essere molto chiari. Se si parla di “terrorismo” si va del tutto fuori strada, soprattutto se la mente corre alle stragi, alla violenza che ferisce e uccide esseri umani. Negli ultimi decenni, l’unico caso di ferimento rivendicato da qualche esponente anarchico è quello dell’ingegner Adinolfi, per il quale proprio Cospito è stato condannato. Pur considerando tutte le diverse manifestazioni riconducibili a quel mondo plurale e pluralistico che definiamo anarchico, non risultano altri casi. Questo non significa che gli anarchici non sfidino l’ordine stabilito, contestando coi loro mezzi le politiche criminali sui migranti, lottando contro le povertà crescenti, facendo fronte comune con le vittime di quella nuova questione sociale che si affaccia con sempre maggiore drammaticità nelle nostre città. Il pericolo in questo senso è allora un altro, e non sorprende che i governi, poco interessati a rispondere ai bisogni degli strati sociali su cui la crisi si abbatte con durezza estrema, temano l’estendersi della propaganda anarchica e la possibilità che si saldi ad altri movimenti che attraversano l’attuale situazione. Tuttavia, è di chi spera di esorcizzare questa paura lasciando morire Cospito, per poi magari avviare una repressione su vasta scala, che bisogna avere più timore oggi. Un’ultima annotazione, solo apparentemente marginale. Durante una recente trasmissione televisiva, l’eminente storico Salvatore Lupo, conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi innovativi sulla criminalità organizzata, è stato indicato quale espressione di ambienti di “borghesia mafiosa”. Se non fosse una drammatica forma di degrado del dibattito pubblico, come opportunamente denunciato dalla Società italiana degli storici contemporaneisti, sarebbe solo ridicolo. Eppure questo è il livello, anche quando si accostano gli anarchici a fantasiosi connubi con simili organizzazioni criminali. La cosa qui è egualmente infamante: le mafie hanno storicamente sostenuto le classi proprietarie, trovando spesso accomodamenti con il potere ufficiale; gli anarchici si sono mossi nel tempo in direzione del tutto opposta, e con le mafie non hanno mai cercato abboccamenti o accordi. Non tutti possono dire lo stesso. Poi, la riduzione del complesso dell’opposizione che non è ricompresa nella sfera istituzionale, così come del dissenso e della critica radicale della società, a un fatto di criminalità comune o peggio organizzata, è un sintomo di una crisi civile profonda, che difficilmente troverà soluzione in una classe dirigente che sul disprezzo verso le classi popolari, i loro bisogni, le loro istanze, ha troppo spesso cercato di puntellare la propria incerta coesione. Altro che anarchici solitari. I nodi della rete di Cospito di Francesco Marone* Il Domani, 9 febbraio 2023 La minaccia mai davvero sopita dell’anarco-insurrezionalismo si muove con una strategia decentralizzata. La descrizione del network “informale” senza coordinamento potrebbe non corrispondere alla realtà dei fatti. Prima che Cospito finisse al centro del dibattito, molte “azioni dirette” erano già state compiute “in solidarietà rivoluzionaria con i compagni imprigionati”. L’anarco-insurrezionalismo italiano è arrivato ora al centro della discussione pubblica e della polemica politica con la vicenda di Alfredo Cospito, ma in realtà ha una storia lunga e rilevante nel nostro paese. L’Italia, infatti, costituisce storicamente un epicentro fondamentale di questo fenomeno estremistico, che pure è diffuso in altri paesi. L’anarchismo insurrezionale rappresenta una tendenza estremistica all’interno dell’eterogeneo movimento anarchico, che enfatizza appunto la pratica dell’”insurrezione” rivoluzionaria attraverso immediate azioni illegali e violente, non soltanto contro cose (per esempio, ripetitori, veicoli, sportelli bancari e così via), ma anche ai danni di persone. Nel nostro paese, già dalla metà degli anni Ottanta, gruppi e individui anarchici erano stati responsabili di decine di attacchi. La Federazione informale - Per più di un decennio, le tattiche più utilizzate erano state atti di vandalismo, sabotaggi e incendi dolosi su piccola scala. Dal punto di vista dell’uso della violenza, la svolta è maturata soltanto alla fine degli anni Novanta, quando gli anarchici insurrezionalisti hanno iniziato a usare frequentemente metodi più pericolosi, come ordigni esplosivi. In Italia l’entità più importante di questa frangia estremistica è la famigerata Federazione anarchica informale (Fai), una rete di individui e piccoli “gruppi di affinità” temporanei. È importante ricordare a questo proposito che la Fai informale non ha nulla a che vedere con la storica Fai (Federazione anarchica italiana), del cui acronimo si è deliberatamente appropriata in modo beffardo. Subito dopo la sua nascita nel 2003, la Fai informale ha lanciato una campagna di violenza terroristica, anche contro persone; il suo primo obiettivo, nel dicembre di quell’anno, è stato l’allora presidente della Commissione europea Romano Prodi. Negli anni successivi, decine di atti di violenza sono state rivendicate con il “brand” Fai informale in Italia e anche in altri paesi europei. La maggior parte degli attacchi contro persone ha assunto la forma di lettere bomba e di ordigni esplosivi rudimentali. Soltanto in una occasione due affiliati alla Fai, tra cui proprio Alfredo Cospito, hanno fatto ricorso a un’arma da fuoco, per gambizzare il manager Roberto Adinolfi a Genova, il 7 maggio 2012. Questa lunga scia di attacchi ha provocato feriti, ma, ad oggi, nessun morto; tuttavia, alcuni di questi atti di violenza erano potenzialmente letali. Anche per questa ragione, da anni le autorità italiane considerano l’anarco-insurrezionalismo la principale minaccia terroristica interna, escludendo il pericolo jihadista. Al centro del progetto eversivo dell’anarchismo insurrezionale si è posta proprio la Fai. Come enfatizza l’aggettivo “informale”, questa entità si è sempre presentata come una rete priva di centro decisionale, orizzontale, persino dichiaratamente caotica, fondata su un’applicazione compiuta del principio anarchico dell’opposizione a qualsiasi organizzazione gerarchica. La Fai informale è formata da singoli individui o piccoli “gruppi di affinità” dotati di larga autonomia. Mostrando alcune similitudini organizzative con altre forme di estremismo violento contemporanee (come il “sistema”, contrapposto alla “organizzazione”, dello jihadismo globale in occidente e la “resistenza senza leader” dell’estrema destra americana), gli anarco-insurrezionalismi non hanno bisogno di conoscersi personalmente tra loro, di appartenere organicamente a una medesima organizzazione né tantomeno di ricevere ordini per attivarsi. Questo modello altamente decentrato e mutevole, peraltro favorito da alcuni aspetti delle nostre società come lo sviluppo del web, tende a resistere meglio all’azione di infiltrazione e repressione degli apparati di sicurezza. In questa visione, la Fai non è tanto un’organizzazione, quanto un “metodo” d’azione. Nondimeno, occorre sottolineare che le dinamiche interne della Fai, così come le sue stesse dimensioni in termini di aderenti, non sono ancora pienamente note. È quindi opportuno verificare con accuratezza se il modello organizzativo pubblicizzato ufficialmente da questa sigla clandestina trovi sempre riscontro nei comportamenti effettivi. In questa direzione, alcune indagini svolte di recente sulla Fai hanno suggerito che la rappresentazione ufficiale di un network fluido possa persino costituire soltanto uno “scudo”, studiato a tavolino per fronteggiare la “repressione” statale (anche in merito alla configurabilità del reato di associazione con finalità di terrorismo, previsto dal Codice penale): in particolare, una sentenza della Corte d’Assise di Torino del 2019, in discontinuità con pronunce precedenti, ha esplicitamente sostenuto che la Fai informale presenta clandestinamente un “organismo centrale” che coordina l’azione delle sue cellule e che quindi non aderisce nei fatti al modello teorico che propugna a parole. La rete avrebbe quindi “nodi” rilevanti, e Cospito sarebbe uno di questi. L’internazionalizzazione - Il progetto “rivoluzionario” dell’anarco-insurrezionalismo si estende peraltro al di là dei confini nazionali. Lo stesso Cospito ha enfatizzato la dimensione internazionale della “lotta”, anche negli scritti estremistici che ha diffuso dal carcere prima che fosse sottoposto al regime del 41 bis. In questa direzione, gli aderenti alla Fai informale hanno costruito nel tempo contatti e relazioni con gruppi e militanti stranieri. In particolare, questa rete clandestina ha forti legami ideologici e di solidarietà con i gruppi anarchici greci, specialmente con la Cospirazione delle cellule di fuoco (Ccf), un gruppo armato rivoluzionario anarco-individualista emerso nel 2008. Intorno al 2011, la Fai ha anche ufficialmente promosso lo sviluppo del Fronte rivoluzionario internazionale (Fri), con l’ambizione di coordinare gruppi di azione ideologicamente affini a livello internazionale. Negli ultimi anni, diversi militanti e gruppi hanno utilizzato il marchio Fai per rivendicare la responsabilità dei propri attacchi (di solito atti di sabotaggio o incendi dolosi) in diversi paesi, dal Cile all’Indonesia. La minaccia - In Italia, la minaccia posta dall’anarco-insurrezionalismo è stata efficacemente contrastata con diverse operazioni di polizia, ma non è venuta meno. Di recente, come altri estremisti violenti, militanti anarchici hanno cercato di approfittare della pandemia di Covid-19, denunciando le presunte modalità repressive e militariste con le quali l’emergenza sarebbe stata affrontata. Tra gli attacchi, si può anche ricordare l’attentato incendiario al portone dell’Istituto superiore di sanità nella sera del 14 maggio 2021. Oggi, gli anarco-insurrezionalisti potrebbero essere in grado di beneficiare dalla visibilità che il caso Cospito sta offrendo. A ben guardare, molto prima che questo esponente di spicco della Fai finisse al centro del dibattito pubblico, molte “azioni dirette” erano già state compiute “in solidarietà rivoluzionaria con i compagni imprigionati” in Italia e all’estero. La solidarietà con i detenuti, infatti, è da sempre un aspetto assolutamente centrale dell’anarco-insurrezionalismo. Questo tema di mobilitazione, peraltro, può consentire di ridurre le distanze con altri settori della galassia anarchica e del mondo composito dell’antagonismo e, in casi eccezionali, come appunto l’affaire Cospito, potrebbe attirare simpatie, più o meno passive, anche dall’esterno di tali ambienti radicali, potenzialmente non soltanto per la specifica vicenda umana del detenuto in sciopero della fame, ma anche per la sua causa estremistica e violenta. *Analista Infermità mentale, Antoniozzi (FdI) propone una riforma per garantire giustizia alle vittime di Mario Campanella Il Secolo d’Italia, 9 febbraio 2023 Nei giorni scorsi la Corte di Assise di Napoli ha disposto la perizia psichiatrica in carcere per la signora Adalgisa Gamba, rea di avere ucciso nel gennaio del 2022 il figlioletto di due anni, a Torre del Greco, per il timore che potesse essere autistico. La decisione della Corte, fortemente avversata da pubblica accusa e parte civile, si basava su una perizia di parte e su una valutazione dei medici del carcere che avrebbero evidenziato un disturbo psicotico alla signora. Per troppi crimini si invoca l’infermità mentale - Ieri a Milano una giovane donna è stata arrestata per avere spruzzato più volte uno spray urticante sulla figlioletta di 17 mesi, causandone il ricovero. Un classico esempio di sindrome di Munchausen per procura, una condizione che porta a fare ammalare volutamente i figli che, però, non è pazzia vera e propria. Sono tanti, troppi gli episodi di crimini efferati in cui si invoca la seminfermità o l’infermità mentale del soggetto che ha compiuto un crimine. Antoniozzi pensa a una riforma del Codice penale - Un trend che preoccupa il vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Alfredo Antoniozzi, il quale ha annunciato una proposta di legge per la modifica degli articoli 88 e 89 del Codice penale che disciplinano l’infermità mentale. Tutto nasce da una sentenza della Cassazione a sezioni unite del 2005, la 9136, che ha dato dignità ai disturbi di personalità nella valutazione di condizionamento della capacità di intendere. E così, giusto per fare un esempio, il signor Giandavide De Pau, pregiudicato pericoloso, ha evitato il carcere dopo uno stupro e ha potuto uccidere, a novembre, le tre povere prostitute al quartiere Prati di Roma. L’assunto ideologico per cui il male non esiste - Questa fessura ha consentito negli anni a tanti criminali di farla franca. Gli avvocati, legittimamente ci mancherebbe, la usano come ultima carta per evitare un probabile ergastolo. ma dietro c’è anche un assunto antropologico e illuminista secondo cui “il male” non può esistere senza pazzia. Eppure, dall’alba dell’uomo, figlicidi e altre condizioni simili sono esistite, purtroppo, per semplice istinto crudele. Molti criminali si fingono pazzi per sfuggire alle condanne - Gli psichiatri non sono affatto contenti, dovendo ospitare nelle Rems persone che di fatto non hanno nulla o nulla di grave e non potendo occuparsi dei malati veri. Conoscendo la raffinatezza giuridica del ministro Nordio e la sensibilità sul tema del sottosegretario Delmastro, è auspicabile che questa riforma vada avanti. Settori avanzati della sinistra, lontani dalle ideologie, la sostengono. Perché in mezzo a tutto c’è la sacrosanta richiesta di giustizia che proviene dalle vittime (nei casi in cui sopravvivono) e dai loro parenti. Vedere un figlio ammazzato senza che ne segua una pena adeguata è una reiterazione del dolore già vissuto. Certo, la civiltà giuridica impone che una persona non imputabile non venga punita ma la proposta di Antoniozzi introduce la discriminante psicotica come nucleo essenziale di valutazione. Senza contare che simulare condizioni di infermità mentale è vecchio gioco che camorristi e mafiosi, negli anni scorsi, hanno spesso utilizzato per sfuggire alle condanne. “L’accusa di mafia, la galera, la paura e infine l’assoluzione. Ecco la mia odissea giudiziaria” di Simona Musco Il Dubbio, 9 febbraio 2023 “Provate voi a fare quattro passi per due tutti i giorni. Provate voi a pensare di iniziare una storia con una persona, senza avere paura di farle male. Provate voi a non sentirvi vuoti, a non pesare ogni parola che dite. Io ho passato 1.466 giorni da persona non libera. Ancora oggi, stanotte, mi sono svegliato due volte per farmi la doccia, perché sento l’odore del carcere addosso”. Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, ha passato 909 giorni in custodia cautelare da innocente. Per la procura aveva siglato un patto elettorale con i clan di ‘ndrangheta arrivati ad Aosta dal paese di origine di suo padre. Un patto mai dimostrato, senza contropartita. Eppure, prima di arrivare all’assoluzione, l’ex politico si è visto condannare a 10 anni di carcere. “Vorrei che mi spiegassero perché”, dice ora che il suo solo sogno è quello di tornare ad essere sereno. Si è fatto un’idea del perché sia successo tutto questo? Io vorrei girare la domanda al Tribunale che mi ha condannato in primo grado: perché mi sono stati inflitti 10 anni e 500mila euro di danni? Mi sento ancora tatuato addosso il carcere che ho subito senza motivazione. C’erano i presupposti per la custodia cautelare? Sono stato arrestato nel 2019 per fatti risalenti al 2015. Qual era il pericolo di fuga? Sarebbe bastato darmi i domiciliari o ritirarmi il passaporto. Non potevo reiterare perché non ero più assessore comunale e per quanto riguarda l’inquinamento probatorio come avrei potuto farlo se le accuse risalivano a quattro anni prima? Dalle indagini non è emerso nulla. Sono stato accusato di aver avuto rapporti con il ristoratore Antonio Raso (coimputato nel processo, ndr), ma in quello stesso ristorante ci andavano anche i giudici che mi hanno condannato e le forze dell’ordine. C’entra il fatto che entrambi siate calabresi, secondo lei? Sì. E quando non sono riusciti a trovare nulla hanno utilizzato una intercettazione ambientale in cui dicevo a Raso che da 20 anni, ogni anno, andavo a dare gli auguri di Natale ad un amico di famiglia, Bruno, che aveva fatto politica con mio padre. Una persona molto nota ad Aosta. Per il pm si trattava di uno ‘ndranghetista calabrese. Peccato, però, che non si trattasse della stessa persona. Le intercettazioni, secondo i giudici d’appello, dimostrerebbero che la ‘ndrina aveva puntato in realtà su altri candidati e non su di lei. Questa è l’apoteosi: in alcuni passaggi si sente dire a dei presunti affiliati che non mi avrebbero votato, facendo riferimento ad altri tre candidati. Sorbara non c’è mai. Gli altri politici sono stati indagati? No. Perché hanno dei cognomi valdostani. Insomma, vuole dire che il parametro sarebbe la sua calabresità? Praticamente sì. C’è un’ambientale bellissima nella sentenza d’appello in cui dico a una persona: ricordati che se tu ti fidi di un politico che ti promette un posto di lavoro hai sbagliato tutto. Per un posto di lavoro devi darti da fare ed essere onesto. Un altro esempio: mi dicono che ho aiutato la cognata di Raso ad ottenere una casa popolare. Bene, finché sono stato assessore le sono state respinte tre richieste. Il contributo lo ha ricevuto solo dopo che sono finito in carcere. Dopo il suo arresto in Comune è arrivata una commissione d’accesso: è emerso qualcosa? Che io non c’entravo nulla. E le dirò di più: l’amministrazione non è stata sciolta. Perché non c’erano tracce di infiltrazioni. La Commissione ha analizzato per sei mesi tutti i punti contestati nell’ordinanza di custodia cautelare, dagli appalti ai posti di lavoro e non ha trovato nulla. In più ci sono fiumi di intercettazioni - 42 faldoni e oltre 72mila pagine che ho letto almeno tre volte - in cui non c’è nulla di nulla. Lei era accusato di concorso esterno: non serviva la prova di un aiuto concreto al clan? E non è stata trovata. Ma non c’è neanche una richiesta da parte dei clan. Anzi, succede l’opposto: non volevano votarmi. È stato intercettato? Il paradosso è che io sono stato intercettato in una precedente inchiesta, nella quale però non sono nemmeno stato coinvolto: avendo ascoltato le mie conversazioni sapevano che sono una persona onesta. Si trattava della stessa procura? Non solo: erano gli stessi pm. Durante l’arringa Sandro Sorbara, mio avvocato e mio fratello, ha smentito il pm, che durante la requisitoria aveva affermato di non essere a conoscenza di quelle intercettazioni. Tutti sapevano che io ero innocente. Quello che mi sta devastando è non capire perché mi sia stata rovinata la vita. Pensa ancora alla politica? Disintegrato come sono, l’unica cosa di cui ho voglia è la serenità. Prima di chiedere l’aspettativa per il mio mandato politico ero dipendente della Regione. Ho una paura terribile di tornare. Spero che la mia storia possa servire ai giudici per capire che per colpa di storie come la mia ci sono persone che non credono più nella giustizia. E lo stesso vale per i giornalisti: come i magistrati hanno la capacità di uccidere, come un medico che sbaglia ad operarti. Quest’ultimo può toglierti la vita fisicamente, gli altri lasciandoti vivo. Che a volte è ancora peggio. Ha avuto problemi con la stampa? Un giornalista locale, Piero Minuzzo, di aostacronaca.it, ha fatto un articolo per difendermi nel periodo in cui mi trovavo in carcere. Ed è stato ripreso dall’ordine dei giornalisti per essersi schierato dalla mia parte. Per sei mesi, ma anche di più, sono stato massacrato. Parliamo del carcere: 909 giorni di custodia cautelare, 214 in carcere, poi ai domiciliari. Che esperienza è stata? Devastante. Il carcere per un innocente è terribile. Se il fine è quello di reintegrare, far capire ad una persona che ha sbagliato, posso dire che non funziona. Ti toglie anche la dignità. I sentimenti che provi, quando entri, sono due: voglia di toglierti la vita e rabbia, odio. Non c’è una via di mezzo. E se si esce in quel momento l’unica cosa a cui si pensa è la vendetta. L’ho visto sul viso di tante persone con le quali ho condiviso questa esperienza. Come sono stati i giorni in isolamento? Invito tutti a fare quattro passi per due e stare 45 giorni così. Avevo un letto in ferro cementato a terra, un piccolo lavandino, solo con l’acqua fredda, e una piccola tazza. L’unica umanità che hai lì dentro è quella degli agenti di polizia penitenziaria. Sei isolato, annientato. Ho avuto la fortuna di avere la fede. Ho camminato, come un criceto su una ruota. Ho trovato serenità solo dopo 33 giorni, perché ho potuto vedere mia madre. Com’è stato? I suoi occhi non potrò mai dimenticarli. Una donna di 79 anni che entra in carcere, viene perquisita dalla testa ai piedi per vedere suo figlio in un mondo assurdo: è devastante. Cos’è accaduto dopo l’isolamento? Mi hanno messo in una sorta di corridoio, con 25 celle su ogni lato, che si aprono alle 8 del mattino e si richiudono alle 20. Con i compagni di cella inizialmente hai anche paura di parlare, perché hai letto la tua custodia cautelare e allora non sai cosa possa accadere se hai contatti con qualcuno. Diventi tu lo strano dell’ambiente. Poi esci, ti trovi in una sezione dove tu sei il politico, quello che sta bene. Quello che può parlare con l’avvocato più volte a settimana. Così si genera odio nei tuoi confronti. E tu, che fino al giorno prima eri libero di fare ciò che volevi, non sei più niente. Non si può mettere una persona in custodia cautelare con persone che hanno già una sentenza passata in giudicato. Non si possono mettere nello stesso posto dei colpevoli con dei presunti colpevoli. Forse sarebbe il caso di dire presunti innocenti, come dice la Costituzione... Non è un lapsus il mio: per chi doveva giudicarmi ero già colpevole. È giusto fare le intercettazioni e le indagini, ma va fatto tutto bene. Le intercettazioni vanno lette per intero e contestualizzate. In più i pm devono avere il coraggio di ammettere gli errori. Ho passato 1466 giorni da persona non libera. Ancora oggi, stanotte, mi sono svegliato due volte per farmi la doccia, perché sento l’odore del carcere addosso. Non riesco ad avere relazioni con nessuno e quando ne ho le disfo in tre secondi. Ho paura. Ci ha provato? Dopo la scarcerazione una ragazza meravigliosa mi è stata vicino, ma ho mandato tutto all’aria. Come faccio a creare un futuro con qualcuno se ho paura di affezionarmi? Non posso più pensare di vedere persone che mi amano soffrire. Cose così ti rendono asettico. Da una parte è bello: se c’è fila non mi arrabbio più, mi si rompe la macchina e non me la prendo. Se vedo qualcuno piangere, paradossalmente, non provo nulla. Ma io non voglio essere così. Oggi sono spento. E voglio solo essere di nuovo il Marco di prima. “Io, indagato per Unabomber, sono un pensionato e ho paura che m’incastrino” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 9 febbraio 2023 Trieste, Fausto Muccin, ex perito chimico, è uno degli undici nomi sotto indagine: “Temo la fine di Zornitta”. Un altro è Luigi Benedetti: “Uno choc, non so se darò il Dna”. L’avvocato Devetag: “Un mio cliente ha perso 5 chili”. Uno parla di choc, un altro di paure, un terzo ha perso cinque chili... Per quanto la procura di Trieste abbia cercato di indorare la pillola ricordando che non c’è alcun elemento nuovo e che si tratta sostanzialmente di un atto dovuto per ragioni tecniche, i nuovi indagati del caso Unabomber non l’hanno presa affatto bene. Sono in undici, ci sono molti pensionati, alcuni ultrasettantenni, dieci di loro erano già stati iscritti e archiviati una ventina d’anni fa nel corso della vecchia indagine sul bombarolo. Ora la procura di Trieste vorrebbe utilizzare le nuove tecniche scientifiche per estrarre tracce genetiche da dieci reperti di altrettante bombe piazzate in quegli anni, dal 2000 al 2007, per compararle con il loro Dna e con quelli inseriti nella banca dati del Dna. La speranza è naturalmente di trovare l’impuntito Unabomber. “Mi sento osservato” - “Per me questa vicenda è sconvolgente, ora mi sento osservato anche se non c’entro nulla con quel disgraziato. E devo pure prendermi un avvocato per difendermi, io che da buon friulano sarei anche un po’ tiratino coi soldi. Vorrei capire perché”, si preoccupa Fausto Muccin, pensionato di Casarsa della Delizia, uno degli undici. Il perché è in quel sospetto di vent’anni fa, tramontato nello spazio di una perquisizione. “Capisco che potevo rientrare in quel profilo: ero perito chimico, abitavo in zona e vivevo da solo, come ora. Ma quando sono venuti hanno compreso bene che non potevo essere io. Non ho laboratori, sono volontario della croce rossa e non ho preso mai neppure una multa. E poi basta guardarmi per capire che non posso fare del male a una mosca”. Muccin ha una paura: “Io il Dna io lo do ma non mi fido perché se vogliono incastrarti t’incastrano anche se sei innocente, basta vedere quello che è successo a Zornitta che abita non distante da qui, eh”. Così, Muccin. Poi ci sono i gemelli Luigi e Lorenzo Benedetti, cinquantaduenni di Sacile, uno titolare di un’impresa agricola, l’altro di una ditta che affila utensili. “Non so se darò il Dna” - “Per me è stato uno choc - dice Luigi che si trova all’estero per lavoro. Trovo assurdo che vadano a indagare sempre gli stessi, avevano già fatto tutte le verifiche del caso a quei tempi, che senso ha ripetere tutto di nuovo”. Il Dna? “Non lo so se lo darò, vedremo, se hanno delle prove sì, ma, insomma, ne devo parlare con il mio avvocato”. A difendere buona parte dei nuovi indagati è l’avvocato Alessandra Devetag: “Al momento sono avvocato d’ufficio, se qualcuno mi nominerà di fiducia spero di poter avere un perito che partecipi alle analisi. Sempre che qualcuno voglia assumersi gli oneri di una difesa tecnica che qui sarebbe necessaria. Io penso che abbiano sbagliato a procedere in questo modo, senza tener conto di cosa significhi per queste persone, tutte di una certa età, tornare sotto indagine. Cioè delle ripercussioni psicologiche della vicenda. Io sono in contatto con uno di questi che già aveva sofferto in maniera indicibile all’epoca della prima iscrizione e che ora sta rivivendo lo stesso incubo: lui non parla, non ce la fa, e ha perso 5 chili da quando gli hanno notificato l’atto, il mese scorso”. Il nuovo nome - L’avvocato Devetag ha qualcosa da ridire sull’indagine: “Trovo allucinante che sia stato concesso a dei giornalisti di entrare in magazzino e di aprire i reperti senza tute e guanti”. Ha già depositato delle deduzioni, entrando nel merito delle singole posizioni, soprattutto rispetto all’unico nuovo nome, Luigi Pilloni, sessantenne di Gaiarine (Treviso), operaio: “Ho evidenziato la fragilità delle presunte prove a suo carico e il fatto che prima di un’indagine sul Dna si potevano fare altre cose. E solo nel caso in cui fossero emersi degli indizi si sarebbe dovuto procedere con l’indagine genetica”. Pilloni è imbarazzato: “Non ho fatto nulla di male e non voglio dovermi giustificare”, telegrafa mentre la moglie rassicura: “Dormo con lui dal 2004, figuriamoci se non mi sarei accorta di qualcosa”. Carcere ostativo, la Consulta: sulla nuova legge parlino i tribunali di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 febbraio 2023 La Corte costituzionale ha deciso di non intervenire ancora una volta sul testo delle nuove norme riguardanti il carcere ostativo, inserite dal governo Meloni nel decreto Rave e trasformate in legge il 30 dicembre scorso. Ieri, infatti, dopo una breve camera di consiglio, i giudici costituzionalisti hanno rinviato al Tribunale di sorveglianza di Perugia e al Magistrato di sorveglianza di Avellino gli atti con i quali avevano sollevato il dubbio di costituzionalità sull’art.4 bis primo comma dell’ordinamento penitenziario (quello che contiene l’elenco dei reati in relazione ai quali possono essere concessi i benefici e le misure alternative) “nella parte in cui, in caso di condanna per delitti diversi da quelli di contesto mafioso, ma pur sempre “ostativi”, non consente al detenuto che non abbia utilmente collaborato con la giustizia di essere ammesso alle misure alternative alla detenzione”. Nei due casi sollevati davanti alla Consulta si trattava di associazione per traffico di stupefacenti e, rispettivamente, dell’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale e alla semilibertà. La Consulta ha affermato che le nuove norme trasformano “da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative”, e tanto basta, per quel che è di sua competenza. Ora però spetta “ai giudici rimettenti verificare gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate, nonché procedere a una nuova valutazione della loro non manifesta infondatezza”. Reati di mafia e terrorismo, la Consulta ai giudici: “Tocca a voi decidere sul decreto Rave” di Liana Milella La Repubblica, 9 febbraio 2023 Com’era già accaduto per l’ergastolo “ostativo” l’8 novembre, quando la Corte ha rinviato gli atti alla Cassazione (che deciderà l’8 marzo), adesso rimanda le carte ai giudici di sorveglianza di Perugia e Avellino per valutare le loro istanze alla luce del primo decreto del governo Meloni del 31 ottobre. Bisogna partire dal decreto Rave, il primo del governo Meloni, convertito a fine dicembre, che contiene anche le nuove regole sull’ergastolo “ostativo” e sui reati “ostativi”, per capire la decisione presa oggi dalla Corte costituzionale. Che, su questi temi, ha solo rinviato la pratica ai giudici di Perugia ed Avellino. Per capire è indispensabile una premessa. Si chiamano “ostativi” - nel senso che bloccano la liberazione condizionale e la gamma dei permessi possibili - tutti i reati che hanno a che fare con mafia e terrorismo. Dal 1975 lo imponeva la legge Gozzini all’articolo 4bis, che legava la concessione dei permessi e della liberazione condizionale alla collaborazione del detenuto con i giudici. Con due sentenze, la Consulta ha scardinato l’automatismo e ha imposto al Parlamento di riscrivere le regole. È arrivato, dopo 18 mesi, e solo con il governo Meloni, il decreto Rave - firmato dal Guardasigilli Carlo Nordio - che pur accettando la linea della Consulta tuttavia ha stretto moltissimo la strada, divenuta un microscopico sentiero, per accedere a permessi e liberazione. La collaborazione non è più obbligatoria. In compenso dall’elenco dei reati sono scomparsi, su proposta del centrodestra, la corruzione, il peculato, e tutti i delitti contro la pubblica amministrazione. Questo breve excursus è d’obbligo per capire che cosa è accaduto oggi, 8 febbraio, alla Consulta. Che aveva sul tavolo due istanze di altrettanti giudici: il tribunale di sorveglianza di Perugia e il magistrato di sorveglianza di Avellino. I quali in sostanza chiedevano se fosse possibile aprire la via dei permessi senza la collaborazione. La Corte - relatore il giudice costituzionale Nicolò Zanon, che è divenuto il referente abituale su questi argomenti - ha semplicemente rinviato il problema ai giudici stessi e gli ha detto: adesso dovete leggervi bene il decreto Rave, dovete valutarlo anche dal punto di vista costituzionale, e decidere se potere applicarlo così com’è oppure dovete tornare di nuovo a bussare alla nostra porta. È lo stesso criterio che la Consulta, per se stessa, ha adottato l’8 novembre quando sono scaduti i sei mesi di proroga concessi al Parlamento proprio sull’ergastolo ostativo. Il 15 aprile del 2021 la Corte boccia quelle regole che consentono la liberazione condizionale solo se c’è la collaborazione, se, cioè, il mafioso è pentito. La Corte dà alle Camere un anno di tempo per cambiare la legge. L’anno passa inutilmente. E lei allora concede altri sei mesi. La legislatura si chiude, la nuova legge sull’ergastolo passa solo alla Camera, al Senato il centrodestra non la fa convertire. Gli italiani vanno al voto. E premiano Meloni. Il primo atto del governo è proprio il decreto Rave che, a parte la norma sui Rave party, piglia anche il testo sull’ergastolo della Camera e lo trasforma in decreto legge con vari e ulteriori inasprimenti, tra cui buttare nel cestino i reati della pubblica amministrazione. L’8 novembre, quando scadono i sei mesi, la Consulta fa esattamente quello che ha fatto oggi. Prende la pratica e la rimanda al cosiddetto giudice rimettente, la Cassazione, per la penna di Giuseppe Santalucia. Sì, proprio lui, il presidente dell’Anm, nonché fine giurista ed ex direttore dell’Ufficio legislativo di via Arenula con il Guardasigilli Andrea Orlando, che ha sollevato il caso. Poteva decidere direttamente? Gli alti giudici dicono di no. Il buon senso direbbe di sì, se non altro perché ci sono detenuti, come l’ergastolano Francesco Pezzino che per primo ha sollevato tutta questa faccenda ormai da 5 anni, tuttora in attesa di una risposta. E ovviamente senza poter ottenere, in quel caso, la liberazione condizionale. Niente da fare. Il faldone torna alla Suprema corte. Che avrebbe dovuto decidere il 25 gennaio, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. E invece, per colpa (davvero incredibile) della procura che si scorda di presentare la sua memoria, la decisione viene ancora una volta rinviata. All’8 marzo. Oggi toccava di nuovo alla Consulta. E che ha fatto? Ha rinviato anche lei ai giudici. E pure la Cassazione potrebbe fare lo stesso. Rinviare tutto il fascicolo al giudice di sorveglianza dell’Aquila al quale per la prima volta si è rivolto Pezzino che voleva la liberazione condizionale per uscire dall’ergastolo ostativo. Reddito di cittadinanza, rischio carcere anche per il falso parziale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2023 Per la Corte di cassazione, sentenza n. 5440 depositata oggi, attestare una convivenza ormai cessata per aumentare Rdc rientra nella medesima fattispecie penale. Linea dura della Cassazione sulle false dichiarazioni per ottenere il reddito di cittadinanza. È punibile con la reclusione da sei mesi a due anni anche la dichiarazione di convivenza mendace finalizzata soltanto ad aver un rateo di importo più alto, da parte di un soggetto legalmente separato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 5440 depositata oggi e segnalata per il “Massimario”, respingendo il ricorso dell’imputato che invece aveva sostenuto la tesi del “falso innocuo” avendo egli comunque i requisiti per accedere al reddito. La Corte ricorda che, secondo quanto accertato nelle fasi di merito, l’indicazione della situazione di convivenza con la moglie era stata indicata sia nella Dichiarazione Sostitutiva Unica del luglio 2020 che nella domanda di accesso al reddito di cittadinanza presentata il 16 dello stesso mese. Mentre la convivenza doveva ritenersi cessata dal 13 maggio 2019. Né era stata dedotta una ripresa della vita in comune tra i due ex-coniugi. Inoltre i tentennamenti nella redazione della domanda - per avere l’imputato prima incluso, poi escluso, quindi definitivamente incluso la moglie nella dichiarazione relativa al nucleo familiare - lungi dall’essere una prova a discarico “è circostanza che può corroborare la conclusione di una apprezzabile ponderazione in ordine all’informazione da rendere”, utile, come visto, per conseguire un importo maggiore del beneficio. Ma cosa prevede esattamente la norma? Ebbene, l’art. 7, comma 1, Dl n. 4 del 2019 così recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni”. “Questa disposizione - spiega la Cassazione - deve ritenersi riferita non solo ai casi di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, o di omissione di informazioni dovute finalizzati a conseguire il beneficio economico del reddito di cittadinanza, quando questo non spetterebbe in alcuna misura, ma anche ai casi di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, o di omissione di informazioni dovute finalizzati a conseguire il beneficio economico del reddito di cittadinanza per un importo maggiore di quello altrimenti spettante, come nel caso in esame”. Innanzitutto, infatti, prosegue la decisione, beneficio “indebitamente” ottenuto è anche quello di importo maggiore di quello legittimamente spettante. Inoltre, tale soluzione ermeneutica “è in linea anche con esigenze di coerenza normativa”. Infine, conclude la decisione, posto che il reato è configurabile anche nei casi di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, o di omissione di informazioni dovute finalizzati a conseguire il beneficio economico del reddito di cittadinanza per un importo maggiore di quello altrimenti spettante, “una falsità relativa ai dati rilevanti ai fini della determinazione della rata da erogare, quale quella incidente sulla composizione del nucleo familiare, come accertato essere avvenuto nel caso di specie, non può certo qualificarsi innocua”. Napoli. L’Università L’Orientale occupata. Striscione a sostegno di Alfredo Cospito di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 9 febbraio 2023 Ieri assemblea. “Contro la repressione si prenda una posizione”. Martedì gli striscioni ed i fumogeni, ieri l’assemblea e poi l’occupazione. Palazzo Giusso, la sede dell’Università L’Orientale in largo San Giovanni Maggiore, nel centro storico di Napoli, diventa il quartiere generale della mobilitazione studentesca in solidarietà di Alfredo Cospito. Di lui molto si è scritto e discusso nelle ultime settimane. È l’anarchico che sta scontando trent’anni di reclusione - attualmente è detenuto nel penitenziario di Opera, alle porte di Milano - perché ritenuto l’autore di alcuni attentati dinamitardi, tutti senza vittime, e della gambizzazione nel 2012 di Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Cospito è sottoposto al 41 bis in ragione della sua presunta capacità di influenzare e promuovere dal carcere nuove iniziative e nuovi attentati. È in tale condizione dal 4 maggio 2022, quando il ministro Cartabia firmò il decreto che prevedeva nei confronti dell’anarchico tale provvedimento. Da tre mesi e mezzo ha intrapreso uno sciopero della fame, che ne mette ogni giorno che passa sempre più a rischio la vita, contro il regime carcerario che gli è stato applicato. Ne chiede la revoca ed ha esteso la sua battaglia a tutti i detenuti nella sua condizione. Non solo mafiosi, perché il carcere duro riguarda, per esempio, anche Nadia Desdemona Lioce, esponente dell’ultima leva delle Brigate Rosse, in carcere per l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi e per altri reati. Due giorni fa - si diceva - il Collettivo autorganizzato universitario, l’ala della sinistra radicale tra gli studenti universitari, aveva acceso fumogeni e calato uno striscione lungo la facciata della sede dell’ateneo. “Alfredo Cospito - avevano scandito gli attivisti al megafono - è in sciopero della fame contro una misura detentiva che è stata definita tortura persino dalla Corte europea e la sua lotta riporta l’attenzione sulla disumanità del sistema carcerario nel suo complesso in questo Paese”. L’iniziativa era anche propedeutica a lanciare l’assemblea che si è svolta nel pomeriggio di ieri e che poi è sfociata nella occupazione. L’incontro di mercoledì è stato promosso dal Cau in collaborazione con il comitato “Morire di pena” e si proponeva di sensibilizzare l’opinione pubblica affinché si arrivi all’abolizione di ergastolo e 41 bis. Ha avuto un riscontro discreto, perché hanno preso parte all’assemblea un centinaio di ragazze e ragazzi. I quali, alla fine, hanno deciso che la protesta proseguisse con la presa di possesso degli spazi dell’ateneo. “La nostra iniziativa - scrivono in un comunicato - si inserisce in una mobilitazione più ampia in corso nel Paese contro la disumanità delle condizioni delle carceri in Italia”. E aggiungono: “Contro un governo di estrema destra e incline alla repressione è fondamentale che si prenda posizione anche all’Università”. Nella serata di ieri sono confluiti a Palazzo Giusso altri attivisti, per rafforzare la presenza degli occupanti. Oggi è in programma una manifestazione pubblica. Potrebbe essere un’altra assemblea o potrebbe diventare, se i numeri lo permetteranno, un corteo all’interno del centro storico cittadino. L’occupazione dovrebbe essere limitata peraltro ad una sola notte, secondo le notizie raccolte ieri tra alcuni dei partecipanti alla mobilitazione. Non è la prima iniziativa a Napoli di solidarietà per l’anarchico al 41 bis quella che stanno promuovendo in queste ore le studentesse e gli studenti universitari dei collettivi autogestiti. Il 5 gennaio, infatti, ci fu un presidio davanti al carcere di Poggioreale, al quale parteciparono anche Potere al Popolo, i comitati di appoggio alla resistenza comunista(Carc), l’Unione sindacale di base, l’ex consigliere regionale Franco Maranta e Samuele Ciambriello, il garante dei detenuti della Regione Campania. Torino. Processo per le torture nel carcere, le parti civili: “Impossibile che i vertici non sapessero” lavialibera.it, 9 febbraio 2023 Le parti civili contestano la difesa dei vertici dell’istituto penitenziario Lorusso-Cutugno di Torino, accusati di omessa denuncia e favoreggiamento per i presunti reati di tortura commessi dagli agenti di Polizia penitenziaria tra aprile 2017 e ottobre 2019: “Hanno scelto di proteggerli”. “Impossibile che i vertici non sapessero: hanno scelto di proteggere gli agenti a discapito del rispetto dei diritti dei detenuti”. In un’udienza che si è svolta martedì al tribunale di Torino, gli avvocati del Garante nazionale e regionale dei diritti delle persone private della libertà personale hanno contestato la difesa dell’ex direttore del carcere Lorusso e Cutugno e dell’ex comandante degli agenti di Polizia penitenziaria, accusati di omessa denuncia e favoreggiamento per i presunti reati di tortura commessi in istituto tra aprile 2017 e ottobre 2019. Entrambi i Garanti, difesi rispettivamente dagli avvocati Davide Mosso e Roberto Capra, si sono costituiti parte civile nel processo a carico dei vertici della struttura. Il Garante regionale ha chiesto nel complesso un risarcimento di 25mila euro da devolvere alla Casa circondariale. Sia l’ex direttore che l’ex comandante hanno scelto il rito abbreviato. Tra gli agenti, è uno solo ad aver optato per questa soluzione: con “violenze gravi” e “crudeltà” avrebbe provocato “acute sofferenze fisiche” a un detenuto e poi l’avrebbe minacciato per assicurarsi l’impunità. Gli altri 21 agenti, invece, hanno scelto il rito ordinario che inizierà solo a luglio del 2023 (e, come denunciato da lavialibera, dopo pochi mesi alcuni di loro sono tornati in servizio nello stesso istituto e persino nella stessa sezione). Nella scorsa udienza il pubblico ministero Francesco Pelosi ha domandato un anno di carcere per l’ex direttore, un anno e due mesi per l’ex comandante e quattro anni per l’agente. A inizio processo, la difesa dell’ex direttore ha puntato sul fatto che l’ex direttore non fosse del tutto consapevole di quanto accadesse all’interno del carcere, giudicando le tante segnalazioni ricevute dalla Garante cittadina dei diritti delle persone private della libertà personale Monica Gallo “troppo generiche”. Ma, secondo gli avvocati di entrambi i Garanti, la sua ricostruzione non è attendibile. L’ex direttore, come ammesso da lui stesso, è venuto a conoscenza della situazione già nel 2017, quando in occasione di un convegno dal titolo Proiezione del film di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem. Liberi dentro” (il cui video è disponibile sul sito di Radio Radicale) un detenuto di origine nigeriana, che non è parte del processo, si è alzato denunciando al microfono di essere stato picchiato dagli agenti. “Lei ha il potere di intervenire”, era stato l’appello dell’uomo, a cui l’ex dirigente aveva reagito con un’ammonizione: “Attenzione a calunniare”. Non solo. Gallo ha più volte informato l’ex direttore dei presunti episodi di violenza che si verificavano nel padiglione C, in cui sono reclusi gli autori di reati sessuali. Segnalazioni che avevano sempre lo stesso protagonista: l’allora responsabile di sezione, l’ispettore Maurizio Gebbia considerato “non solo un picchiatore, ma anche una persona che copriva i picchiatori”. L’ex direttore - ha detto Mosso - aveva assunto un patrimonio conoscitivo considerevole, in particolare per quel che riguarda un detenuto di nome Diego Sivera, più volte picchiato e insultato dalla polizia penitenziaria. Il detenuto aveva denunciato che gli agenti lo avevano fatto rimanere in piedi davanti al muro della sezione per 40 minuti, costringendolo a ripetere “Sono un pezzo di merda”. Episodio in parte confermato all’ex comandante da una delle sue fonti fiduciarie all’interno dell’istituto, e che viene segnalato dalla Garante Gallo al provveditorato. Allertato, l’ex direttore avrebbe “dovuto comunicarlo alla procura della repubblica - sostiene il legale - e non solo non l’ha fatto ma ha incaricato l’ex comandante di avviare un’istruttoria interna”. Sul fatto che l’ex direttore non avesse sufficienti prove sugli abusi per informare l’autorità giudiziaria, l’avvocato dell’associazione in difesa dei diritti dei detenuti Antigone, Simona Filippi, ha citato un dato rilevante: dei 166 eventi critici che si erano verificati nel carcere di Torino da inizio gennaio a inizio ottobre 2018, 75 (quasi la metà) erano stati registrati proprio nel padiglione C. Nel 2019 Gebbia è stato messo alla guida di un altro padiglione (il B) a seguito di “un avvicendamento preparato da tempo, dopo molte consultazioni” e “le violenze si sono spostate con lui”, sostengono i difensori dei Garanti, aggiungendo che “l’ispettore era un problema e lo sapevano tutti”. Ex direttore aveva comunicato la scelta di trasferirlo via email, scrivendo: “Gebbia verrà spostato come assicurato sei mesi fa”. In un’udienza precedente, a domanda “se pensa che l’ispettore fosse idoneo a guidare un altro reparto?”, l’ex direttore aveva risposto: “Ho pensato che lo spostamento avrebbe fatto bene anche a lui”. L’ex comandante, invece, si era difeso dimostrando di aver avviato un’istruttoria interna riguardo a due episodi. Istruttorie che però sono state affidate agli stessi agenti al lavoro all’interno del penitenziario di Torino, quando il decreto del 14 giugno 2007 che istituisce il Nucleo investigativo centrale, nato per svolgere un servizio centrale di polizia giudiziaria all’interno delle carceri, all’articolo 6 avverte: “Le indagini che, in ragione della particolare riservatezza o del coinvolgimento di personale operante presso un istituto, non possono essere svolte dalla Polizia penitenziaria in servizio nel medesimo istituto”. Peraltro in precedenza lo stesso ex comandante aveva contestato, per la stessa ragione, un’indagine interna che lo vedeva protagonista. L’avvocato Roberto Capra ha ricordato come “le regole prevedono che, in questi casi, i vertici dell’istituto prendano dei provvedimenti importanti, anche di natura disciplinare. Invece hanno fatto una scelta: privilegiare il rapporto con gli agenti rispetto all’osservanza dei diritti dei detenuti. Condotte omissive che il diritto permette di sanzionare”. Nel caso dell’ex comandante, inoltre, l’istruttoria sarebbe stata anche “dolosamente diretta a smentire quanto accaduto”. Gli avvocati dei due Garanti hanno anche ricordato la valenza del processo che Musso ha definito “estremamente importante”, ricordando che “a 50 anni di distanza dal processo a Giorgio Coda, vice direttore del manicomio di Collegno e direttore della struttura psichiatrica per bambini Villa Azzurra, imputato per maltrattamenti, ci troviamo a fare un processo sull’altra istituzione totalitaria della città: il carcere”. Il rito abbreviato, che riguarda i vertici della struttura, accusati per omessa denuncia e favoreggiamento, non può essere compreso senza tenere conto dei reati contestati agli agenti nel procedimento che, fatta eccezione per l’egente che ha chiesto il rito abbreviato, si svolgerà in estate: tra cui il reato di tortura. Ripetuti episodi di violenza che, per Capra, hanno leso la dignità dei detenuti ed erano caratterizzati dalla gratuità, cioè prescindevano dal comportamento dei reclusi in istituto, tanto “che gli agenti si erano preoccupati persino di ottenere le carte processuali dei reclusi, in modo da poterli insultare meglio”. “I reati di tortura contestati hanno delle caratteristiche comuni - continua Capra: la prima è che nessuno aveva denunciato questi episodi. Molti abusi li abbiamo saputi solo dopo, grazie alle intercettazioni”. La ragione della mancata denuncia sarebbe la paura: “Andare contro un agente può voler dire rendersi la vita all’interno dell’istituto un inferno”. L’altro problema è l’attendibilità, “su cui puntano molto sia l’ex direttore sia l’ex comandante per delegittimare le denunce dei detenuti: agli occhi di un magistrato, un autore di reato può risultare meno credibile di un agente”. L’altro aspetto da tenere in considerazione riguarda chi ha subito queste condotte: gli autori di reati sessuali, oggetto di disprezzo sia al di fuori del carcere sia all’interno dove i sex offender “sono i più fragili perché esposti alle violenze prima di tutto degli altri detenuti”. In sostanza - sintetizza Capra - “in questo processo, ci stiamo chiedendo se lo Stato possa sottoporre a tortura i suoi uomini più deboli, che dovrebbe proteggere. E se lo Stato, attraverso il sistema giustizia, quindi dei percorsi stabiliti e codificati, sia in grado di correggersi”. Le parti civili hanno infine ricordato che nessun processo per reato di tortura all’interno delle carceri d’Italia è stato avviato su segnalazione di un agente di polizia penitenziaria, o di un dirigente d’istituto. Brescia. Protocollo con Confindustria, 18 detenuti “si diplomano” come carrellisti quibrescia.it, 9 febbraio 2023 Si è concluso questo mercoledì il corso di formazione organizzato all’interno della Casa di reclusione di Brescia Verziano secondo quanto previsto dal “Protocollo Carceri” che coinvolge Confindustria Brescia. L’iniziativa rappresenta la prima di una serie di attività finalizzate a creare un percorso di inserimento lavorativo per i detenuti, come definito dal protocollo rinnovato nello scorso settembre da Confindustria Brescia, Istituti di Pena Bresciani, Garante dei Detenuti e Tribunale di Sorveglianza di Brescia. In particolare, nei primi due giorni di formazione del corso - erogato da Isfor Formazione Continua attraverso un formatore esterno - è stata affrontata la parte teorica: normativa in materia di sicurezza, principali rischi connessi all’utilizzo del carrello, meccanismi di funzionamento e caratteristiche del carrello e verifica delle condizioni di equilibrio e manutenzione. Nei giorni seguenti, i partecipanti - divisi in gruppi da 6 - hanno quindi affrontato la parte pratica: illustrazione di uso del carrello e guida dello stesso su un percorso di prova per evidenziare le manovre a vuoto o a carico. I partecipanti - selezionati tra le categorie dei prossimi alla fine della pena o di coloro che, seppur ancora in esecuzione, sono autorizzabili ad eseguire attività lavorativa (rientrando in carcere al termine del turno lavorativo) - hanno quindi ottenuto l’abilitazione alla guida del carrello elevatore industriale: si tratta di una figura professionale individuata da Confindustria Brescia tra quelle attualmente più richieste in ambito produttivo manifatturiero. Le aziende che manifesteranno interesse potranno ora inserire le figure abilitate in azienda. “Credo che oggi sia fondamentale creare una linea di dialogo con le carceri - commenta Silvia Mangiavini, vice presidente di Confindustria Brescia con delega a Legalità e Bilancio di sostenibilità. Dobbiamo sempre ricordare che il carcere, in Italia, ha anche una finalità rieducativa e riabilitativa. Non è corretto che una persona rimanga segnata a vita per una scelta sbagliata. Inoltre, c’è da considerare che, se queste persone rimanessero escluse dal contesto lavorativo, probabilmente si troverebbero di nuovo a vivere di espedienti, diventando potenziali fonti di danno per la comunità. Il percorso di reinserimento lavorativo ha anche lo scopo di evitare che questo accada, a tutto beneficio della persona e della comunità intera. Il corso per carrellisti si inserisce proprio in tale contesto, e costituisce una dimostrazione tangibile di come il Protocollo per le carceri, rinnovato nello scorso settembre, costituisca un esperimento sociale di grande impatto e valore per il nostro territorio”. “Desidero ringraziare fortemente Confindustria Brescia che ha permesso, in conformità a quanto previsto dalla convenzione recentemente rinnovata con gli Istituti penitenziari di Brescia, la formazione professionale di 18 detenuti quali carrellisti - aggiunge Francesca Paola Lucrezi, direttrice delle carceri di Brescia -. Il corso si è tenuto presso la Casa di reclusione di Verziano, istituto che, grazie agli spazi disponibili, ha consentito l’espletamento della parte pratica della formazione. Tuttavia, ben 9 detenuti dei 18 formati provengono dalla Casa circondariale di Brescia ed hanno beneficiato del trasferimento a Verziano per la formazione. Tra i discenti anche alcune detenute donne: il corso, come tutte le attività della Casa di reclusione, ha infatti visto la partecipazione di detenuti di entrambi i generi e questo costituisce un unicum in tutt’Italia, di cui andiamo molto fieri. Adesso auspichiamo che la formazione professionale ricevuta, anche in considerazione della domanda formulata dal mercato per la posizione di carrellista, possa costituire un valido presupposto per l’inserimento lavorativo, completando così le intenzioni della convenzione sottoscritta”. Le iniziative legate al Protocollo Carceri, che ha durata di un anno, proseguiranno nei prossimi mesi. In particolare, nel mese di marzo, il gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria Brescia porterà all’interno delle carceri di Brescia una riunione del proprio Comitato direttivo, che verrà aperto alla popolazione carceraria, agli educatori e alle parti sottoscrittrici dell’accordo, con la finalità di sviluppare forme di dialogo tra il carcere e il mondo del lavoro. Milano. Bollate, la “sala della pittura” che porta in carcere la libertà di Barbara Uglietti Avvenire, 9 febbraio 2023 Le mostre realizzate dai detenuti della Casa di reclusione in collaborazione con l’Accademia di Brera. “Pensavo a uno scherzo, invece dipingere è stata una rivelazione”. Quando gli hanno proposto di dipingere in uno spazio dentro al carcere ha fatto un cenno di diniego con la mano e si è incamminato verso la sua cella: voleva solo allontanarsi da quell’idea che gli sembrava una specie di scherzo. “Pure di cattivo gusto”, racconta Giacomo. “Dipingere che cosa? Per chi, poi?”. Oggi - sei mesi, una mostra e migliaia di visitatori dopo - parla, scrive, soprattutto ragiona come un artista. E ringrazia di essere tornato indietro sui suoi passi. È uno dei 12 detenuti della Seconda Casa di Reclusione di Bollate che hanno partecipato al progetto “Diciotto Stanze” iniziato nel marzo scorso. Diciotto stanze come le diciotto vetrine della Stazione di Porta Garibaldi che hanno ospitato i loro lavori sulla detenzione come condizione esistenziale. La mostra - che è stata presentata da Giorgio Leggieri, direttore dell’istituto, e da Luigi Pagano, già provveditore agli Istituti di pena -, si è conclusa il 31 gennaio, passando il “testimone” a un nuovo percorso che sta per iniziare. E per i ragazzi - italiani, marocchini, tunisini, albanesi, molti con pene detentive pesanti, anche di dieci anni - è tempo di bilanci, di sguardi lanciati lontano. “Mi avevano parlato del progetto - continua Giacomo - e subito ho immaginato tre tele e qualche pennello in una stanza piccola e buia, le pareti ingiallite, gli scatoloni impolverati in un angolo. Sbagliavo. La sala pittura è stata una scoperta: una specie di fortezza magica incastonata nel penitenziario. Un posto dove combattere malinconia e monotonia. Lì siamo stati liberi dalle gerarchie, dalle costrizioni, dalle finzioni. Sì, certo, ci sono le sbarre alle finestre, ma varcata la soglia nessuno ti stava più addosso. Per alcune ore il carcere sembrava fluttuare lontano. Anche se stava lì, un passo oltre la porta”. Bollate è una struttura modello, ma la reclusione resta una delle esperienze più difficili, specialmente per chi ha poco più di vent’anni. Il laboratorio di arti visive è nel Quarto reparto di Trattamento avanzato, e funziona grazie alla collaborazione di docenti - Isabella Maj e Angelo Falmi - ex docenti - Anna Garau, Annamaria Fazio, Paola Baldassini, Francesco Ceriani, Gennaro Marino, Camillo Russo, Andrea Cancellieri, Nadia Nespoli - e allievi del Liceo Artistico e dell’Accademia di Belle Arti di Brera. L’ateneo ha una Scuola di Terapeutica artistica che propone attività in corrispondenza con i luoghi di sofferenza: ospedali, cliniche e, appunto, i penitenziari. Sono 150 ore di lavoro, due volte alla settimana. Renato Galbusera, che a Brera è stato titolare della Cattedra di Pittura, e ora partecipa al Laboratorio di arti visive di Bollate, insegna nella struttura dal 2011. Negli anni lui, che espone in tutta Italia e all’estero, ha imparato ad aprire un canale di dialogo con questi giovani, spesso complicati, che la vita sta mettendo alla prova. Trasmettere il senso di una creazione artistica, stimolarli ad alzare gli occhi da una realtà che costringe a tenere lo sguardo basso, non è sempre facile. Insieme, ce l’hanno fatta. Nel percorso espositivo, utilizzando tutti i linguaggi espressivi (la pittura, la fotografia, la scultura) sono riusciti a raccontare la chiusura fisica o mentale. L’idea, ora, è quella di dare continuità al lavoro. Elton ha 30 anni, è albanese. “La mia esperienza da artista è iniziata l’anno scorso dipingendo il corridoio che porta alla sala musica. Non mi sono più fermato”. Dopo il corridoio sono arrivate le Diciotto stanze. “Adesso abbiamo iniziato il nuovo progetto: “Quattro mani”. Si tratta di una collaborazione stretta, sulla medesima opera, dal concepimento all’ esecuzione, tra docenti e detenuti”. L’obiettivo è una presentazione il prossimo giugno nello spazio espositivo della Libreria Claudiana a Milano. Le “quattro mura” del carcere, si estenderanno, questa volta, fino a lì. Caserta. Un “libro sospeso” per i detenuti ansa.it, 9 febbraio 2023 In occasione della presentazione del volume su Alfonso Bolognesi. È l’iniziativa che sarà lanciata oggi nel corso della presentazione del libro “Vittima Innocente. Un errore giudiziario. Il caso Alfonso Bolognesi”, alla presenza (ore 15 Grand’Hotel Vanvitelli di San Marco Evangelista, Caserta) del presidente di Antigone Patrizio Gonnella. Scritto dall’avvocato penalista Raffaele Crisileo, il volume è dedicato alla storia giudiziaria del maresciallo dei Carabinieri, vittima di un errore giudiziario costatogli oltre tre anni di carcere per l’infamante accusa di essere la “talpa” del capo dell’ala stragista del clan dei Casalesi Giuseppe Setola, responsabile di decine di omicidi nel Casertano e soprattutto della strage dei ghanesi avvenuta a Castel Volturno il 18 settembre 2008. Bolognesi fu arrestato proprio nel 2008. Dopo cinque processi (la Cassazione aveva rinviato ad un’altra sezione della Corte di Appello di Napoli prima di emettere sentenza definitiva), il sottufficiale dell’Arma fu condannato a quattro anni di carcere per corruzione con l’aggravante mafiosa, scontandone poi tre e mezzo (per gli ultimi mesi gli fu concesso l’affidamento in prova come operaio presso la pizzeria del fratello in un paesino del Cilento). Nel 2019 è arrivata la prima svolta, con la sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e ottenuta da Bolognesi in un altro processo, sempre per corruzione, relativo ad omessi controlli ad un esercizio commerciale di Castel Volturno che deteneva delle macchinette videopoker. Quella assoluzione ha infatti aperto la strada al processo di revisione della condanna definitiva per corruzione mafiosa, che si è svolto ad inizio 2021 davanti alla Corte di Appello di Roma; i giudici capitolini hanno rifatto l’istruttoria ascoltando tutti i collaboratori di giustizia che avevano accusato Bolognesi, decidendo poi di annullare la condanna a quattro anni. Bolognesi è stato quindi riabilitato ed è tornato ad indossare l’uniforme dell’Arma nel giugno del 2022. Udine. Con la Caritas un ciclo di incontri sul carcere, iniziando dalla giustizia riparativa diocesiudine.it, 9 febbraio 2023 Un ciclo di tre incontri che mira ad accendere i riflettori sul carcere: a proporlo è il Circolo culturale regionale Enzo Piccinini, insieme alla Caritas diocesana di Udine, a partire da giovedì 16 febbraio 2023. Il primo appuntamento - dal titolo “La giustizia riparativa: punire basta?” - è in programma per giovedì 16 febbraio alle 18 al Centro culturale diocesano “Paolino d’Aquileia” di via Treppo a Udine. Ulteriore iniziativa il 23 febbraio con la Libreria Paoline. All’incontro del 16 febbraio interverranno Adolfo Ceretti, criminologo e docente all’Università Bicocca di Milano, Enrico Marignani e Sara Dell’Armellina, rispettivamente presidente e coordinatrice dell’associazione “La Voce”. A introdurre i lavori sarà la presidente del circolo Piccinini, Marina Cavedon; a moderare l’incontro, invece, Annarita De Nardo della Caritas diocesana di Udine. Gli incontri successivi - che si svolgeranno nei prossimi mesi, in date da definire - avranno rispettivamente per tema “Essere accolti è ripartire” e “Il carcere nella città”. In entrambi saranno presentate alcune esperienze virtuose. Perché questo ciclo di incontri? Da qualche tempo il mondo carcerario è sotto osservazione per la necessità di passare da logiche eminentemente custodialistiche a logiche riabilitative e reinclusive. Toppo spesso, infatti, vincoli normativi, formali e burocratici impediscono esperienze innovative e di sviluppo umano all’interno delle mura carcerarie. L’approfondimento culturale del tema permette non solo il confronto tra idee diverse, ma anche il paragone con esperienze già in atto, e tutto ciò apre a metodologie e prospettive nuove. Diversi progetti si stanno muovendo attorno alla Casa circondariale di Udine, a partire dalla straordinaria occasione data dagli imminenti lavori di ristrutturazione che prevedono anche spazi per la partecipazione della cittadinanza. Ecco, dunque, che l’obiettivo dell’iniziativa è sensibilizzare i cittadini rispetto al tema del carcere legato alla questione di una giustizia vera, occasione di riabilitazione e reinserimento nella società civile. La città, considerata come comunità sociale, può diventare, infatti, un valido alleato nell’accoglienza e nel reinserimento di chi ha scontato la propria pena e può, conseguentemente, contribuire alla reale diminuzione delle recidive. Con le Paoline, un Vangelo in carcere - Un’ulteriore iniziativa, dal titolo “Ero carcerato, sei venuto a trovarmi” si svolgerà giovedì 23 febbraio - primo giovedì di Quaresima - alle 17.45 nella libreria “Paoline” di Udine. I cappellani carcerari di Tolmezzo e Udine, rispettivamente i padri vincenziani Claudio Santangelo e Lorenzo Durandetto, presenteranno l’iniziativa del “Vangelo sospeso” per le persone detenute. Sarà possibile acquistare delle copie del libro dei Vangeli, che tramite la cappellania penitenziaria saranno donate ai detenuti che desiderano riceverle. L’evento è realizzato in collaborazione con il convitto udinese delle Suore Francescane Missionarie del Sacro Cuore. Il carcere di Nisida nel monologo di Francesca Fagnani a Sanremo 2023 di Maria Volpe Corriere della Sera, 9 febbraio 2023 La giornalista ha deciso di dedicare il suo monologo al carcere minorile di Nisida e attacca “La scuola dovrebbe garantire pari opportunità, almeno ai più giovani e lo Stato dovrebbe essere più sexy dell’illegalità”. “Una belva a Sanremo” così l’ha presentata Amadeus. La seconda co-conduttrice della seconda serata del Festival di Sanremo è la giornalista Francesca Fagnani, conduttrice appunto di “Belve” su Rai2. Uno stile asciutto e ironico il suo, sia quando fa le interviste, sia sul palco dell’Ariston. Il suo monologo comincia alle 23.30 ed è dedicato ai ragazzi del carcere minorile di Nisida, un tema a lei molto caro. “Vogliamo che la gente sappia che non siamo animali, non siamo bestie, non siamo killer per sempre, vogliamo che la gente ci conosca”, ha detto citando i minori reclusi. Fagnani legge qualche frase detta proprio dai ragazzi. “Io mi pensavo che la felicità si comprava” dottoré. Hanno 15-18 anni. Sguardi sfidanti. La giornalista li ha intervistati e tutti loro hanno detto che se avessero potuto, sarebbero andati a scuola. Fagnani punta il dito contro la povertà educativa: “La scuola dovrebbe garantire pari opportunità, almeno ai più giovani e lo Stato dovrebbe essere più sexy dell’illegalità”. Un monologo asciutto, breve, sintetico. Frutto delle sue esperienze, degli incontri della giornalista. Che negli anni ha visitato le carceri, sia quelle degli adulti che quelle dei ragazzi. E ha visto lo stato abietto nel quale vivono. “Il carcere deve rieducare” ribadisce. “Un magistrato ha detto che i detenuti non devono passare per vittima e non devono essere picchiati, ma perché lo Stato non può essere violento come chi arresta. Chi esce dal carcere deve uscire meglio di come è entrato, per rispetto dell’art. 27 della Costituzione. Che uno spacciatore o un ladro che sia, una volta uscito, cambi mestiere”. Il riferimento è al magistrato Nicola Gratteri che al festival “Il libro possibile”, il 29 luglio dello scorso anno a Vieste, ha detto: “Sono contrario a uno schiaffo in carcere o in caserma, il detenuto non deve essere toccato nemmeno con un dito perché non deve passare per vittima”. “I nostri ieri”, il film sulle nostre prigioni con Francesco Di Leva di Emanuele Bucci ciakmagazine.it, 9 febbraio 2023 Il regista Andrea Papini racconta a Ciak il suo nuovo lungometraggio, in sala dal 9 febbraio, in cui il cinema è strumento di riscatto per i detenuti di un carcere. Da qualche tempo, il cinema italiano d’autore sta (ri)entrando nelle carceri. E, mentre i numeri dei suicidi tra i detenuti (84 nel 2022) denunciano l’urgenza della questione, alcuni film nutrono il dibattito mettendo a fuoco gli istituti penitenziari e chi li abita. Dopo Ariaferma di Leonardo di Costanzo e Grazie ragazzi di Riccardo Milani, è il turno de I nostri ieri, presentato ad Alice nella Città e in arrivo dal 9 febbraio per Atomo Film, con anteprima a Roma il giorno precedente e poi un tour nelle principali città italiane, incluse varie tappe in Emilia. È non a caso l’ex carcere di Codigoro, in provincia di Ferrara, la location del nuovo lavoro di Andrea Papini, outsider del nostro cinema al terzo lungometraggio di finzione dopo La velocità della luce (2008) e La misura del confine (2011). Il regista (anche produttore con Antonio Tazartes e Marita D’Elia per Atomo Film) torna a riflettere sul rapporto fra spazio e tempo, memoria e identità, attraverso la vicenda del filmmaker Luca, che coinvolge alcuni detenuti in un laboratorio dove metteranno in scena cinematograficamente la storia di come sono finiti in prigione. Partendo dal caso più grave, quello del camionista Beppe. Nel ruolo di Luca abbiamo Peppino Mazzotta, presenza costante nel cinema di Papini: “Mi dà la garanzia di poter interpretare alla perfezione qualunque ruolo, è così bravo che finisco per trascurarlo sempre, preoccupandomi più degli altri”, confessa il regista a Ciak. Beppe ha invece il volto di Francesco Di Leva, conosciuto da Papini assistendo allo spettacolo sul Sindaco del Rione Sanità diretto da Mario Martone. Ricco anche il cast femminile, con Daphne Scoccia, Denise Tantucci, Teresa Saponangelo e Maria Roveran. Il contributo di quest’ultima è stato fondamentale anche in fase di scrittura: “A un certo punto - ricorda Papini - facendo le prove con Maria, lei ha cominciato a fare osservazioni estremamente lucide e puntuali, per cui le ho proposto di collaborare. L’ultima versione della sceneggiatura in tanti punti ha la sua limatura”. Ne è nata un’opera che evita ogni cliché da prison movie: “Mi interessava, da un lato, non fare un elogio della violenza visiva - sottolinea Papini - infatti l’unica sequenza “forte” che troviamo è quella nel camion, l’unica necessaria. Dall’altro, volevo andare oltre gli stereotipi frequenti nelle rappresentazioni carcerarie al cinema: il secondino cattivo, il secondino buono… cose del genere mi sembravano banali e fastidiose”. I nostri ieri, invece, mostra la realtà possibile, e in taluni casi fattuale, di istituti penitenziari dove non vengano meno il rispetto dei diritti e la necessità dei percorsi di riabilitazione e riscatto sociale: “Dal 2000 - afferma il regista - la collaborazione tra agenti e detenuti viene favorita perché, in base a tutti gli esperimenti che hanno fatto, la recidiva nelle carceri non costrittive è molto minore. Quando c’è un direttore illuminato, e di solito sono direttrici illuminate, c’è un cambiamento positivo”. D’altronde, il film ci parla delle prigioni mentali, non meno di quelle fisiche. Perché, dice Papini, “tutti noi abbiamo gabbie e schemi”, e perché il suo cinema punta sempre a spaziare oltre la cronaca per “sviluppare progetti senza tempo, incentrati su legami fondamentali”, dove rivestono un’importanza chiave i silenzi e le pause riempiti dai gesti della quotidianità. Un’idea di cinema indipendente sorretta dalla convinzione che “i film non sono ‘prodotti’, sono qualcosa che ha a che fare con la psiche degli spettatori, oggetti molto complessi: trattarli come prodotti è un suicidio”. Perché la Costituzione non è un pezzo di carta di Carlo Galli La Repubblica, 9 febbraio 2023 Difenderla e accettare il peso del nostro passato è la nostra sfida. D’accordo. Benigni non è un costituzionalista, ma un attore. Sanremo è un festival di canzonette e non è un’aula universitaria né una delle Camere. La politica non è (soltanto) uno spettacolo ma è (o dovrebbe essere) un affare serio. Eppure, non è stata una sgrammaticatura, un imbarazzante passo falso, quella “lezione” sulla Costituzione che è andata in onda martedì sera. Ha avuto un senso. E non soltanto perché in sala era presente - sia pure in forma privata - il Capo dello Stato, che della Costituzione è il custode. Ma perché quello che Benigni, a modo suo, con i suoi mezzi espressivi, ha comunicato è un concetto vero, che ha a che fare con un problema vero, con un bisogno reale. Con l’esigenza della “Costituzione vivente”, cioè di una Costituzione che sia sentita e interpretata come il filo conduttore dell’esistenza di un popolo; e, per converso, con l’esigenza che questa esistenza sia “costituzionale”. Da una parte, insomma, si deve evitare che la Costituzione sia un “pezzo di carta”, sostanzialmente ignoto - oppure oggetto soltanto di letture specialistiche -, non influente nella realtà della vita collettiva, sociale, e istituzionale. Al contrario, si deve operare per cogliere nella Costituzione il valore di una discontinuità, di un progetto nuovo, sofferto e pensato dopo errori e tragedie, e pagato a caro prezzo. Una lettura storica, o meglio ancora “drammatica”, della Costituzione può ben passare attraverso la valorizzazione dell’articolo 21, che sancisce il diritto di libera manifestazione del pensiero; e attraverso la comparazione fra un “prima” e un “dopo”, fra la paura di parlare e la libertà, fra il sospetto e la franchezza. Da un attore può venire una plastica suggestione a immedesimarci nelle due possibili situazioni, e a fare nostro il valore, la portata, di quel salto, di quel passaggio di settantacinque anni fa. La Costituzione nella sua valenza storica, vissuta, è un progetto di democrazia che è stato realizzato solo in parte, che ha ancora molto spazio per diventare, come deve, davvero vivente. Cioè per diventare parte integrante dell’identità della nazione, per dare senso all’esistenza collettiva. Che di senso, di orientamento, ha davvero bisogno: uno dei rischi più grandi che stiamo correndo è quello di una politica - e di una vita civile - priva di profondità storica, tutta e solo concentrata su polemiche di basso profilo e sui problemi dell’attualità (nemmeno su tutti, in realtà), che sono certamente molti e gravi, ma che non troveranno vera soluzione al di fuori della Costituzione. Che da evento passato deve farsi anche prassi presente e orientare il futuro. Che da sogno deve diventare realtà materiale e morale. E ciò significa pensare tutta la nostra storia, conoscerne la continuità per meglio comprendere la discontinuità marcata dalla Costituzione. Non si può ignorare o censurare questo o quel passaggio, questo o quel momento. Non si può tacere sul fascismo, insomma, o considerarlo un reperto storico come le guerre puniche, o limitarsi a condannare le leggi razziali e l’entrata in guerra con Hitler senza cogliere l’intimo nesso di questi passi catastrofici con la natura stessa del regime. Né si può allontanare il tema con fastidio, come se si trattasse di una provocazione politica; perché non si tratta qui di sostenere che l’attuale governo è fascista (evidentemente non è vero) ma di accettare il peso del passato, di farcene carico, per aderire tutti più radicalmente e più sinceramente alla Costituzione e al suo spirito democratico. La Costituzione non è un feticcio intoccabile, certo, ma trae il proprio senso dalla critica aperta del fascismo, dal suo superamento esistenziale, dalla rottura profonda con quell’esperienza politica. Comprendere che questa non è una polemica di parte significa comprendere la nostra identità. Che è plurale, ovviamente, ma che è anche collettiva - o, con un termine che dovrebbe essere caro alla destra oggi al governo, nazionale - : e che è democratica. Significa riconciliarci con la nostra storia, proprio col criticarne apertamente un periodo (il che non toglie che lo spirito critico si debba esercitare responsabilmente su ogni fase della nostra vita unitaria). E significa stare nel mondo di oggi, davanti a sfide e ad emergenze veramente esistenziali - in cui pace e guerra, democrazia e tirannide sono di nuovo problemi urgenti -, con quanto serve di democratica consapevolezza identitaria e costituzionale. Che questa passi anche attraverso un contesto nazionalpopolare come San Remo, è un segno dei tempi. Che si radichi in un costume politico, civile, sociale, è un’esigenza e una speranza. Eutanasia. Paola, 89 anni e tanto dolore, costretta al suicidio in Svizzera di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 febbraio 2023 Si autodenunceranno oggi a Bologna, per l’aiuto fornito, Virginia Fiume, Felicetta Maltese e Marco Cappato. Non ancora dipendente da sostegni vitali, non poteva ricevere assistenza in Italia. La scelta di Paola R., bolognese di 89 anni affetta da una grave forma di Parkinson, che si è fatta accompagnare da due volontarie dell’associazione Soccorso civile in una clinica svizzera dove ieri è morta suicida, “è maturata nel tempo”, come ha spiegato l’anziana signora in una nota lasciata all’associazione Luca Coscioni. La malattia è stata spietata con lei, ma Paola non era “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”, requisito richiesto dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019, emessa sul caso Cappato/Dj Fabo, per poter avere accesso al suicidio assistito in Italia. Finora, il primo e unico caso è stato quello di Federico Carboni, alias “Mario, il 44enne di Senigallia morto nella propria casa, vicino ai propri affetti, come avrebbe voluto anche Paola R.. Altri due pazienti, Stefano Gheller in Veneto e “Antonio” nelle Marche hanno ricevuto il semaforo verde e sono liberi di procedere quando decideranno che è arrivato il loro momento. Le due attiviste che hanno accompagnato Paola R. - Virginia Fiume, che per l’Associazione Luca Coscioni ha coordinato la raccolta firme per il referendum Eutanasia Legale in Sicilia, e Felicetta Maltese, che già a dicembre scorso aveva compiuto un’altra disobbedienza civile, seguita da autodenuncia a Firenze, per aver accompagnato Massimiliano in Svizzera - si autodenunceranno oggi ai carabinieri di Bologna, accompagnate da Marco Cappato e dall’avvocata Filomena Gallo. “Anche Marco Cappato, che non ha direttamente accompagnato la signora Paola, si autodenuncerá - spiega in una nota l’associazione Coscioni - in veste di legale rappresentante dell’associazione Soccorso Civile che ha organizzato e finanziato il viaggio verso la Svizzera, della quale fanno ora parte 17 disobbedienti civili e che ha provveduto all’organizzazione del trasferimento in Svizzera”. “Dal 2012 un inizio di malessere chiaramente diagnosticato nel 2015; un graduale e lento decorso verso la totale immobilità. Ora - ha lasciato scritto Paola R. prima di morire - sono vigile in un corpo diventato gabbia senza spazio né speranza. Anzi stringe, ora dopo ora, inesorabile la morsa. La diagnosi è un parkinsonismo irreversibile e feroce - Taupatia - arrivata oggi ad uno stadio che non mi consente più di vivere. Non sono autonoma in nulla, tranne che nel pensiero”. Come lei, neppure Massimiliano, Romano (parkinsonismo) e Elena Altamira (paziente oncologica) potevano accedere in Italia al suicidio assistito, secondo i dettami della Consulta. Sono stati costretti perciò, loro malgrado, a compiere quell’ultimo viaggio per mettere fine a sofferenze che considerano intollerabili. Per tutti loro, e per la signora Paola, la dipendenza da sostegni vitali da poter rifiutare o sospendere sarebbe arrivata, prima o poi. Si tratta però di “una discriminazione tra malati - spiega l’avvocata Filomena Gallo, coordinatrice del collegio legale che si batte per l’eutanasia legale - scaturita dalla decisione con cui la Corte costituzionale nel 2019 ha depenalizzato l’aiuto al suicidio solo per malati in determinate condizioni. La stessa Corte ha più volte sollecitato il Parlamento ad emanare una legge che, senza discriminazioni, rispetti le scelte di fine vita delle persone malate. Siamo nel 2023 e a parte un tentativo nella scorsa legislatura, peraltro con un testo di legge inadeguato, il Parlamento non solo non legifera, ma non discute nemmeno per un minuto il tema, continuando di fatto ad ignorare le tante richieste di cittadini che vogliono essere liberi di scegliere il proprio fine vita. A seguito delle nuove disobbedienze civili - conclude la segretaria nazionale dell’associazione Coscioni - saranno ancora una volta i tribunali ad intervenire sui singoli casi e ancora una volta, dinanzi alla mancanza di volontà politica nell’emanare una legge adeguata, sarà la giurisprudenza a tutelare i diritti delle persone”. Recentemente, altri dieci volontari si sono aggiunti ai sette attivisti di “Soccorso civile”, l’organizzazione fondata da Cappato, per far fronte alle tante richieste di informazione e aiuto, che, riferisce l’associazione “sono aumentate del 111% negli ultimi 12 mesi: 351 contro le 166 dei 12 mesi precedenti, ovvero quasi 30 persone al mese”. La verità, vi prego, su Daniel Radosavljevic: era italiano ed è morto in un carcere francese di Luigi Manconi La Repubblica, 9 febbraio 2023 Rinchiuso nell’ottobre del 2022 in un istituto di pena vicino a Cannes, il 18 gennaio è stata data notizia della sua scomparsa. Le autorità dicono si tratti di suicidio. Ma in questa vicenda ci sono diversi aspetti poco chiari. A pochi chilometri da Cannes, in Francia, si trova il carcere di Grasse. Qui, fino a due mesi fa, era detenuto Daniel Radosavljevic, un cittadino italiano di 20 anni residente a Rho, in provincia di Milano. Nell’ottobre del 2022 Daniel è stato arrestato dalla gendarmeria francese per non aver rispettato l’alt a un posto di blocco. Il 18 gennaio scorso è stata data notizia della sua morte all’interno del carcere francese. Secondo le autorità, si è trattato di un suicidio per impiccagione, tuttavia, alcuni aspetti di questa vicenda risultano poco chiari. Simone Alliva, sull’Espresso del 3 febbraio scorso, ricostruisce i fatti e rende nota una videochiamata tra i parenti del giovane e un detenuto del carcere di Grasse. Quest’ultimo non ritiene possibile “che Daniel abbia fatto questo”. E alla domanda su cosa possa essere accaduto risponde: “Ha litigato con un altro detenuto. La sorveglianza lo ha messo in cella con una diversa persona. Daniel non era d’accordo, si è arrabbiato e la guardia carceraria lo ha picchiato”. Il 24 gennaio la madre raggiunge l’istituto francese per recuperare gli effetti personali del figlio. Qui altri due elementi sembrano alimentare i sospetti intorno al presunto suicidio: i segni sul suo corpo e il contenuto di alcune sue lettere. Il cadavere sembra riportare una ferita alla testa e una al costato, un mignolo rotto e parti di unghie spezzate. Ma non sono stati individuati segni sul collo che possano rimandare a una impiccagione. D’altra parte, gli appunti scritti da Daniel rivelano uno stato di inquietudine inequivocabile. In un foglio che riporta la data dell’11 dicembre si legge: “So che pensate che io abbia infamato Isham, ma andate a chiedere alle guardie di informarsi chi è stato a parlare. [...] Ripeto, preferisco morire che fare l’infame”. E ancora: “Queste sono le parole con cui affronterò i detenuti. Non so se oggi morirò, ma se così accadrà sono morto per la verità”. In un altro scritto del 16 gennaio, il giovane racconta un episodio di tensione avvenuto nell’area Sport dell’istituto. Scrive: “Ho preso le mie cose e mi sono diretto da chi mi sentivo al sicuro. Mi sono acceso una sigaretta per tranquillizzarmi”. Dalle carte emerge dunque quel tessuto di relazioni che vige in qualsiasi prigione: i rapporti tra i detenuti sono governati da gerarchie interne che determinano alleanze e inimicizie, complicità e contrasti. Daniel Radosavljevic cercava di comunicare il suo disagio come se quelle pagine fossero le uniche alle quali poter affidare il suo sentimento di paura. Dopo uno scambio avvenuto con il compagno di cella, il giovane descrive la sua preoccupazione sempre più crescente: “Ed è lì che ho cominciato a insospettirmi ancora di più. [...] Ero agitato, impaurito e non trovavo soluzione”. Conclude così: “Se dovessi morire in questo carcere per ultima cosa chiedo che i miei scritti vengano dati alla mia famiglia”. Ora l’avvocata Francesca Rupalti, che rappresenta la famiglia del giovane, ha inviato un esposto al Tribunale di Roma, che ha la competenza per i delitti commessi all’estero a danno di cittadini italiani. Il corpo è tornato in Italia e si trova a Rho, in attesa dell’autopsia che sarà effettuata oggi, 8 febbraio, all’Istituto di medicina legale di Milano. Si spera che emergano elementi ulteriori e che, per arrivare alla verità, non si debba aspettare un’eternità. La Ue discute i muri anti-migranti: via libera anche dal governo italiano di Claudio Tito La Repubblica, 9 febbraio 2023 Al Consiglio europeo è iscritta all’ordine del giorno la possibilità di realizzare barriere. Ma Tajani frena: “Serve intervenire in Africa”. Palazzo Chigi avrebbe contrattato la possibilità di azioni militari congiunte. Costruire muri per fermare i migranti, con i soldi dell’Unione europea. Su quello che sembrava un tabù infrangibile, si apre una prima ma molto larga crepa. Oggi, sarà il Consiglio europeo a discuterne formalmente la possibilità. Il via libera all’inserimento nell’ordine del giorno della riunione straordinaria è arrivato ieri dall’incontro degli ambasciatori che preparano i lavori del summit. E l’Italia non si è opposta. Palazzo Chigi ha dato esplicitamente il via libera. Nessuna contrarietà. Anzi, la scelta è stata studiata. Un “do ut des”: per avere in cambio qualcosa. In particolare, il riconoscimento che le vie marittime della migrazione, quelle che toccano direttamente il nostro Paese, hanno una loro “specificità”. Una formula su cui l’esecutivo Meloni ha insistito. E non a caso. È considerata la porta principale da cui far passare una “svolta”, anche militare, nel controllo dei flussi migratori. Un modo per conquistare uno spazio rispetto alle richieste di partenza della destra italiana e non rompere quel filo ideale che ha sempre legato Fdi e Lega ai sovranisti di Ungheria e Polonia. Anche se la linea sta provocando una frattura nell’esecutivo. Il ministro degli esteri, Antonio Tajani, ha infatti fatto sapere che “non dobbiamo finanziarie muri ma un’azione forte in Africa”. Nella bozza del documento finale, però, compare sia il percorso “edile” già invocato in passato soprattutto dall’ungherese Viktor Orban - in passato decisamente in sintonia con Giorgia Meloni - sia il concetto della “specificità” marittima. “È probabile - ammette allora lo staff della presidenza del Consiglio europeo - che il dossier sul finanziamento dei muri sia sul tavolo del summit europeo”. Già nei mesi scorsi, nonostante la netta contrarietà politica della Commissione e della sua guida, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, aveva chiarito che non esiste alcun divieto giuridico in merito alla possibilità di finanziare barriere mobili o permanenti contro l’ingresso clandestino di extracomunitari. E stavolta un fronte molto ampio, dall’Ungheria all’Austria, ha insistito che proprio in virtù dell’assenza di una proibizione legale, si inserisse nelle conclusioni del vertice straordinario l’ipotesi di pagare con i soldi di tutti i cittadini europei la costruzione dei muri anti-migranti. Una “formulazione specifica” che arriva sull’onda di una situazione che viene considerata emergenziale. Di certo, la guerra in Ucraina ha amplificato l’urgenza. In secondo luogo, nonostante i proclami del centrodestra, i numeri degli arrivi in Europa e in Italia sono di nuovo in crescita e hanno superato i dati del 2015-2016. Resta il fatto che la presidente del consiglio italiana ha dato il suo ok all’idea di costruire un muro nel cuore d’Europa, barattandolo con l’idea di poter conquistare uno spazio comune nel Mediterraneo. Nel documento finale è scritto esplicitamente che la migrazione “necessita una risposta europea”. Sebbene al momento Palazzo Chigi ritenga di sfruttare l’apertura sulla “specificità” delle vie marittime dei migranti chiedendo interventi “mirati” dal punto di vista del sostegno economico, da quello giuridico connesso al Paese di primo approdo e quindi alla redistribuzione degli extracomunitari, nel dossier italiano c’è anche una seconda e successiva possibilità. Quella di misure operative in mare. Dalla rivalutazione della missione “Sophia” con navi militari europee fino al famigerato “blocco navale”, di cui spesso ha parlato l’attuale premier. Una soluzione da tenere pronta all’occorrenza. E la “specificità” marittima è giudicata il grimaldello per future opzioni di questo tipo. Anche sul piano delle misure economiche e del sostegno alle imprese europee, il via libera italiano allo scambio tra flessibilità sull’uso dei fondi europei e più aiuti di Stato, rientra nello schema. Poi certo l’agenda, come ha scritto Charles Michel nel suo invito ai leader, si concentrerà “sulla dimensione esterna della migrazione, migliorando i rimpatri e le riammissioni, controllando meglio le nostre frontiere esterne”. Il punto cruciale è che può essere violato, per la prima volta dopo il 1989 berlinese, un principio che sembrava inviolabile: mai più nuovi muri. Autocrati e intrecci letali di Antonio Polito Corriere della Sera, 9 febbraio 2023 In Occidente, dalla Rivoluzione Francese in poi, cittadini sono tutti coloro che abitano su un territorio; nelle autocrazie i sudditi meritevoli di soccorso sono solo quelli che fanno parte della gens del capo, o gli sono fedeli. E così è in Siria. “Filosofi che osate gridare tutto è bene,/ venite a contemplar queste rovine orrende:/ muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri./ Donne e infanti ammucchiati uno sull’altro/ sotto pezzi di pietre, membra sparse;/ centomila feriti che la terra divora,/ straziati e insanguinati ma ancora palpitanti,/ sepolti dai loro tetti, perdono senza soccorsi,/ tra atroci tormenti, le loro misere vite”. Da quando Voltaire scriveva questi versi per le vittime del terremoto di Lisbona, nel 1755, abbiamo imparato a non dare più alla volontà di Dio la colpa dei disastri naturali. Ma ancora non abbiamo imparato a fare la nostra parte di esseri umani per alleviarne le sofferenze. Adesso, mentre leggete queste righe, ci sono ancora in Anatolia “centomila feriti che la terra divora”. In questo momento, ancora, donne e infanti “perdono senza soccorsi le loro misere vite”. Nell’immane tragedia dell’Anatolia ce n’è una perfino peggiore che sta colpendo i popoli che vivono nel Nord della Siria. Dopo una guerra brutale di dodici anni, intrappolati da un despota che ha usato ogni possibile arma contro la sua gente, in un panorama desolato dalla distruzione arrecata dalle bombe, quattro milioni e mezzo di civili, tre milioni dei quali profughi o sfollati, aspettano un soccorso che chissà se arriverà. Già da anni la loro vita dipendeva interamente dall’aiuto umanitario occidentale. Grazie a una risoluzione Onu del 2014, presa contro il volere di Assad, gli aiuti passavano infatti dall’ormai unico varco aperto nella frontiera siriana a Bab al-Hawa. In realtà una volta le porte d’ingresso in Siria erano tre, ma la Russia, alleata del dittatore di Damasco, ha usato il suo potere di veto nel Consiglio di sicurezza per chiudere le altre due. A lungo le macerie, la neve, gli aeroporti danneggiati, e la ferma intenzione di Erdogan di pensare prima ai turchi, che a primavera decideranno il suo destino nelle elezioni, hanno chiuso anche l’ultima via della speranza. Solo ieri, finalmente, si sarebbe riaperta. I siriani del Nord, in questa regione controllata da “ribelli” molto spesso curdi, sono ancora a migliaia sotto le macerie, denuncia su Foreign Policy un esperto di Medio Oriente, Charles Lister. I tremila eroici volontari civili di White Helmets hanno acquisito negli anni una grande esperienza nel tirar fuori i feriti dalle macerie dei palazzi e degli ospedali colpiti e distrutti dall’aviazione siriana e russa; ma il disastro ora è troppo immane, non hanno i mezzi, non hanno gli uomini e, anche quando riescono a raggiungere i sepolti vivi, non hanno i medici per curarli. L’Occidente d’altro canto applica da tempo sanzioni al regime di Assad. Numerose voci si stanno sollevando in Europa perché l’embargo venga sospeso per ragioni umanitarie. Ma il rischio reale è di aiutare così il tiranno di Damasco a dirottare gli aiuti verso le zone da lui controllate, tra le quali la città di Latakia, luogo d’origine e roccaforte storica del clan degli Assad. Mentre, approfittando del sisma, lui regola i conti con i nemici bombardandoli con rinnovato vigore, come ha fatto subito dopo la scossa a nord di Aleppo. Anche se il tiranno ha mandato una mail all’Europa per attivare gli aiuti promettendo di distribuirli anche ai ribelli, la figlia di Bashar, la diciannovenne Zein, dalla sua dorata residenza londinese ha messo in guardia i follower sui social dal rispondere all’appello per Idlib, una delle città più colpite dal terremoto ma in mano ai ribelli: “Per favore - ha scritto - attenti a quelli a cui donate. Questo è un gruppo che sostiene i terroristi, le vostre donazioni non andranno ad Aleppo, a Latakia, ad Hama”. In Occidente, dalla Rivoluzione Francese in poi, cittadini sono tutti coloro che abitano su un territorio; nelle autocrazie i sudditi meritevoli di soccorso sono solo quelli che fanno parte della gens del capo, o gli sono fedeli. L’ambasciatore presso le Nazioni Unite ha detto che la Siria accetterà aiuti solo se passeranno da Damasco, dunque sotto il controllo del regime. Che però ha una lunga storia di ruberie e speculazioni, grandi quantità di fondi umanitari deviate verso la cricca al potere: secondo alcune stime, per ogni dollaro di aiuti la metà è finita a rafforzare il principale responsabile dei problemi di questo Paese. Ci vorrebbe un nuovo Voltaire per raccontare l’intreccio letale tra guerra, tirannia e disastro che ha sepolto un popolo. La Natura è neutrale, colpisce dove e quando crede; ma i regimi ne possono moltiplicare la forza distruttiva. Così come le placche tettoniche, gli enormi segmenti di crosta terrestre che si spingono e si scontrano provocando i terremoti, così anche i popoli sono sbalzati in aria quando la guerra li muove gli uni contro gli altri. Assad è riuscito a isolare la sua nazione dal mondo, e l’ha resa così più vulnerabile all’insulto della Natura. È forse uno dei più perfetti interpreti di quella “civiltà del potere” che si oppone alla “civiltà della libertà” di cui parla il filosofo Biagio de Giovanni; il protagonista di un gioco orientale in cui, come negli scacchi, pedoni e alfieri possono essere sacrificati, ma la partita finisce quando cade il Re. “Delle sette piaghe di Siria - ha scritto ieri su questo giornale Francesco Battistini - le scosse, i morti, il buio, il gelo, la fame, la paura, Assad è la peggiore”. Purtroppo è così. Perfino davanti al terremoto ci sono popoli più sfortunati di altri.