Quelle telefonate che ti “riattaccano alla vita” Ristretti Orizzonti, 8 febbraio 2023 Lettera aperta ai direttori penitenziari e, per conoscenza, al Capo DAP, dottor Giovanni Russo e al Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento, dottor Gianfranco De Gesu. Quelle telefonate che ti “riattaccano alla vita” In un Paese in perenne emergenza, le uniche emergenze che quasi nessuno vuole vedere sono quelle che riguardano il carcere. Eppure è appena finito l’anno dei record, 84 suicidi, mai così tanti, e questa è una emergenza vera perché la gente sta morendo in carcere. Sostiene uno dei massimi esperti di suicidi, lo psichiatra Diego De Leo, che certo prevenire i suicidi è molto difficile, ma almeno si può cercare di creare una forma di protezione: “Aumentare le opportunità di comunicazione e le connessioni con il mondo ‘di fuori’ non solo renderebbe più tollerabile la vita all’interno dell’istituto di detenzione, ma sicuramente aiuterebbe nel prevenire almeno alcuni dei troppi suicidi che avvengono ancora nelle carceri italiane”. Quelle telefonate che sono un’accelerata agli affetti delle persone in carcere Scrive un detenuto: “Poter telefonare ogni giorno a casa aveva aiutato la mia famiglia a ritrovarsi. Ora ritornare da una telefonata al giorno a una telefonata a settimana di dieci minuti significa riperdersi. Questo periodo lo ricorderemo con i miei cari per esserci persi di nuovo”. Secondo l’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario il trattamento del condannato e dell’internato è svolto anche “agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. Ma quei contatti sono invece una miseria: 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, che vuol dire che un genitore detenuto può dedicare al figlio al massimo tre giorni all’anno. Il Covid ha portato ulteriore isolamento e sofferenza, e anche le prime rivolte, i morti, la paura. Ma per fortuna qualcuno ha capito che non era la criminalità organizzata a far esplodere le carceri, ma l’angoscia e la rabbia delle persone detenute, spaventate di essere lasciate sole e di non sapere nulla del destino dei loro cari. E si è trovata l’unica soluzione accettabile, dare un’accelerata agli affetti delle persone in carcere introducendo “il miracolo” delle videochiamate e la forza che ti viene dalle telefonate quotidiane. E così le persone si sono ritrovate a chiamare casa molto più spesso, in alcune carceri anche ogni giorno, e a rivedere le loro case e le famiglie lontane con le videochiamate. Gentili direttori, non è motivo “di particolare rilevanza” l’aver chiuso il 2022 con 84 suicidi? “Radio carcere” dice che le telefonate a breve non saranno più quotidiane o comunque molto frequenti, ma noi non ci crediamo. Non vogliamo credere che i direttori, che hanno la possibilità di concedere più telefonate per motivi “di particolare rilevanza”, rinuncino a un potere, che per una volta è davvero un “potere buono”, di far star meglio le persone detenute, e soprattutto le loro famiglie. Certo, per chi ha figli minori dovrebbe restare in ogni caso la telefonata quotidiana, prevista dalla legge, ma tutti quei figli maggiorenni che per anni hanno avuto a disposizione solo dieci miserabili minuti settimanali per parlare con un genitore detenuto, perché devono essere di nuovo penalizzati dopo aver faticosamente ricostruito delle relazioni famigliari decenti con la chiamata quotidiana (o comunque molto frequente)? Gentili direttori, non fateci tornare al peggio del passato, usate il vostro “potere” per prevenire i suicidi con quello straordinario strumento che può essere sentire una voce famigliare nel momento della sofferenza e della voglia di farla finita. Lasciate le telefonate in più, in nome dell’emergenza suicidi, e anche per dare continuità a quella che la Corte Costituzionale nell’ordinanza N.162/2010 definisce la “progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. Aderiscono Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Lombardia Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Liguria Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Veneto Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Friuli Venezia Giulia Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Emilia Romagna Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Trentino Alto Adige Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Toscana Associazione Antigone Redazione Ristretti Orizzonti Redazione Voci di dentro Granello di senape Venezia ODV Granello di senape Padova Voci di dentro Gruppo Carcere-Città ODV - Modena CSI Volontariamo - Modena Oltre Il Muro Piacenza Verso Itaca Piacenza Sesta Opera Milano Jesuit Social Network Centro di solidarietà della compagnia delle opere Liguria SC’ART! APS Sbarre di zucchero Bologna Sbarre di zucchero Napoli Sbarre di zucchero Roma Sbarre di zucchero Milano LoScarcere di Lodi Il Girasole ETS Garante comunale dei diritti dei detenuti Trieste Nati per Leggere - Trieste Referente regionale AIB NpL e Mamma lingua LeggiAMO 0 - 18 Friuli Venezia Giulia Icaro Volontariato Giustizia ODV - Udine Comunità San Martino al Campo - Trieste CRIVOP ITALIA ODV CRIVOP ITALIA ODV Sezione Aosta CRIVOP ITALIA ODV Torino CRIVOP ITALIA ODV Alessandria CRIVOP ITALIA ODV Cuneo CRIVOP ITALIA ODV Genova CRIVOP ITALIA ODV Bergamo CRIVOP ITALIA ODV Trieste CRIVOP ITALIA ODV Castrovillari (Cs) CRIVOP ITALIA ODV Crotone CRIVOP ITALIA ODV Messina CRIVOP ITALIA ODV Barcellona Pozzo di Gotto (Me) CRIVOP ITALIA ODV Termini Imerese (Pa) CRIVOP ITALIA ODV Palermo CRIVOP ITALIA ODV Trapani CRIVOP ITALIA ODV Caltagirone (Ct) CRIVOP ITALIA ODV Catania Associazione per i Vivai ProNatura Associazione Mutuo Aiuto di Trento Associazione Famiglie Tossicodipendenti CED Trento ODOS Bolzano ATAS onlus Trento Cooperativa Punto d’Incontro scs onlus Trento APAS Trento Avvocati per la Solidarietà del Trentino Cooperativa Girasole di Rovereto ACAT Savona Genova ODV (Associazione dei Club degli Alcolisti di Trattamento) Associazione VolCa di Brescia Altro diritto ODV Anno nuovo, suicidi “nuovi”: già quattro detenuti si sono uccisi nel primo mese di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 febbraio 2023 Non si arresta la tragica scia dei reclusi che si tolgono la vita in carcere. “Abbiamo bisogno di interventi profondi e urgenti di riforma”, chiede l’associazione Antigone al governo e Parlamento. Il 2022 si è concluso con 84 suicidi, ma il nuovo anno si apre già con la conta drammatica dei detenuti che si tolgono la vita. Come denuncia l’associazione Antigone, solo nel primo mese del 2023, i reclusi che si sono suicidati sono stati 4, il più giovane aveva 30 anni, il più “anziano” 47. Il primo suicidio che ha “inaugurato” l’anno nuovo è avvenuto al carcere di Piacenza il 16 gennaio scorso. Si tratta di un detenuto di 32 anni di origine marocchina. La morte sarebbe causata da inalazione di gas da una bomboletta. Il detenuto era a Piacenza dallo scorso settembre, sfollato per motivi di ordine e sicurezza dal penitenziario di Reggio Emilia, ed era stato posto sotto attenzione come a medio rischio suicidario. Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, aveva già manifestato forte preoccupazione per il susseguirsi di decessi in questo penitenziario. “Nel carcere di Piacenza - spiega Cavalieri - tutti i detenuti presenti sono stati classificati dalla locale unità di vigilanza e prevenzione suicidaria come a rischio: dei 382 detenuti presenti 8 sono ad alto rischio, 70 a medio rischio e 304 a basso rischio”. Il garante Cavalieri ha quindi sottolineato che valutazioni sulla situazione carceraria, non permettono ai sanitari di operare al meglio per contrastare e prevenire i potenziali pericoli di suicidio e la scelta di certificare un rischio per tutti i carcerati produce, per gli stessi operatori, carichi di lavoro insostenibili. Il 18 gennaio è toccato al carcere romano di Regina Coeli. Si tratta di un uomo di nazionalità libica, senzatetto, che si trovava in isolamento Covid. Ed è lì che si è impiccato. A renderlo noto il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa: “Purtroppo sempre più spesso la detenzione appare come un buco nero senza speranza. Ancora una volta, senza colpevolizzare nessuno, bisognerà capire cosa avrebbe potuto fare e cosa potrebbe essere fatto per prevenire altri suicidi”. Il terzo suicidio, anche se non è del tutto chiarito, è avvenuto al carcere di Terni. Si tratta di Fabio Gloria, 47 anni, già coinvolto in alcune inchieste antimafia. Il pomeriggio del 28 gennaio ha fatto una video telefonata alla moglie e presentava un occhio nero. Lui stesso le ha detto che lo avrebbe rimediato nello scontro con altri reclusi. Alle 23 la tragica notizia: “Si è ucciso”. I parenti non credono a questa versione e chiedono chiarezza. L’ultimo suicidio è avvenuto alla fine del mese di gennaio e riguarda un detenuto 44enne napoletano che era recluso nel penitenziario toscano di San Gimignano. Secondo i sindacati Uil Pa, si trovava in isolamento per essere stato trovato in possesso di un micro cellulare, sanzione che sarebbe terminata tra pochi giorni. L’uomo arrivava da un altro carcere, stava scontando una pena che sarebbe terminata nel 2039 ed era in regime di alta sicurezza. Alla luce di questi suicidi e delle criticità persistenti, Antigone continua a chiedere a governo e Parlamento di mettere il carcere al centro dell’agenda politica. “Abbiamo bisogno di interventi profondi e urgenti di riforma!”, chiosa l’associazione. La recidiva scende al 2% tra i detenuti che lavorano di Luca Cereda vita.it, 8 febbraio 2023 “Occorre fare rete tra il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, il mondo del Terzo settore che è la realtà più attiva in carcere nell’ambito del lavoro e le aziende. Come Cnel vogliamo creare un tavolo di aumentare il numero di detenuti che lavorano in carcere”, dice il consigliere di Cnel, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Gian Paolo Gualaccini. Nel 2022 sono avvenuti 84 suicidi nelle carceri italiane, il numero più alto di sempre (il tremendo record negativo precedente era del 2009, con 72 morti). Si tratta di 13 casi di suicidi ogni diecimila detenuti. Fuori dal carcere sono 0,6 ogni diecimila persone. Dinnanzi ad un fenomeno così complesso, non c’è mai una singola causa: hanno contribuito l’isolamento, la fatica a sentire gli affetti vicini, il sovraffollamento dei detenuti del 110% in media negli istituti di pena, la mancanza di direttori alla guida di molte carceri, così come del personale - sia agenti, che funzionari giuridico-pedagogici (educatori). “Ma anche il fatto che in carcere lavorino solo il 30% dei detenuti. La stessa percentuale in rapporto ai detenuti che è rimasta costante dagli anni ‘90 ad oggi. C’è di più, solo il 4% dei detenuti, ovvero 2400 persone recluse, è attivo nel mercato del lavoro, sia dentro gli istituti di pena, che uscendo ogni giorno per lavorare nelle cooperative sociali o nelle aziende del territorio, imparando una professione. Il lavoro dà dignità a tempo della pena, permette di far scoprire capacità e mettersi al servizio della società. E abbatte la recidiva, che è al 70% tra chi non lavora, e scende al 2% per chi esce dal carcere che ha imparato un mestiere durante la pena”, illustra Gian Paolo Gualaccini, consigliere di Cnel, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Dati alla mano, inoltre, chi lavora nell’amministrazione del carcere percepisce una remunerazione di un terzo rispetto ai detenuti che lavorano all’intento dell’istituto di pena o in articolo 21, ovvero fuori dal carcere, e hanno diritto alle ferie remunerate, alle assenze per malattia e il datore di lavoro paga per essi i contributi assistenziali (assicurazione sanitaria) e pensionistici. Numeri, questi, che sono stati presentati a Roma al Cnel, durante il convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” introdotto dal presidente dle Cnel Tiziano Treu e dal vicepresidente Floriano Botta. “Abbiamo sancito un patto fra l’Amministrazione penitenziaria, il Terzo settore e il mondo delle aziende profit, con l’obiettivo di incentivare la funzione rieducativa della pena carceraria, avvicinando il mercato del lavoro al mondo degli istituti di pena. I dati dimostrano che la finalità rieducativa della pena è ancora un obiettivo sostanzialmente inattuato, ma per i detenuti lavoratori i dati sono ottimi. la rieducazione deve passare dal lavoro e da una collaborazione tra il Dap, Cnel, il Terzo settore e le aziende”, afferma Gualaccini. Quello avviato dal Cnel con il Ministero della Giustizia e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria è un primo passo per facilitare l’ingresso dell’imprenditoria all’interno degli Istituti di pena, già previsto dalla legge193/2000 (la Legge Smuraglia), che offre incentivi economici alle aziende che assumono detenuti. “Tra queste - ricorda Gualaccini - uno sconto del 95% sui contributi che il datore di lavoro versa allo Stato per la pensione e l’assistenza sanitaria; l’utilizzo gratuito dei locali e le eventuali attrezzature esistenti; un bonus di 520 euro mensili (sotto forma di credito di imposta) per ogni detenuto assunto. Le agevolazioni proseguono nei diciotto o ventiquattro mesi successivi alla scarcerazione del detenuto, se prosegue il rapporto di lavoro all’esterno con lo stesso datore di lavoro, quindi assumere un detenuto conviene. Bisogna lavorare perché questa sia una possibilità sempre più all’ordine del giorno sulle scrivanie dei giudici dei Tribunali di Sorveglianza, non un’eccezione”. Al convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” è intervenuto anche Carmelo Cantone, vicecapo del Dap: “Implementare lavoro in carcere non significa togliere lavoro all’esterno è invece un grande valore per la società e anche di arricchimento del mercato del lavoro stesso. Mai come in questo momento storico c’è bisogno di portare sempre più imprese a sostenere i progetti di reinserimento dei detenuti perché il lavoro penitenziario risente della recessione, così come del periodo pre e post Covid. Il lavoro all’interno degli istituti penitenziari è svolto per la maggior parte in servizi domestici e di manutenzione ordinaria e, in misura minore, sia in attività industriali presso lavorazioni direttamente gestite dall’amministrazione, che in attività agricole nelle colonie agricole”. Ora l’obiettivo, conclude Gian Paolo Gualaccini è fare in modo che “chi esce dal carcere non viva una “lotta tra poveri” e “nuovi poveri” per l’accesso al mondo del lavoro. È fondamentale quindi che ai detenuti sia data oggi la possibilità di formarsi all’utilizzo delle tecnologie, e che esse siano applicate al lavoro, non fine a se stesse. Abbiamo bisogno di formare e far lavorare i detenuti laddove il mercato cerca e non trova competenze. Speriamo, ad esempio, che gli Its possano entrare in carcere facendo attecchire la riforma appena entrata in vigore dell’alta formazione”. “Morire di pena”, la campagna contro ergastolo e 41bis di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 febbraio 2023 60 associazioni e 150 tra artisti e intellettuali promuovono un appello per l’abolizione dei due istituti. È stata presentata ieri nella capitale “Morire di pena”, piattaforma nata due settimane fa a Napoli per sostenere l’abrogazione di 41 bis ed ergastolo. 60 associazioni e 150 tra artisti e intellettuali hanno firmato un appello per il superamento dei due istituti inserendosi nel dibattito sul carcere aperto dallo sciopero della fame del detenuto anarchico Alfredo Cospito. Primo obiettivo è sottrarlo alla china assunta negli ultimi dieci giorni quando alcune azioni anarchiche controproducenti, prevedibilmente utilizzate dal governo, e l’iniziativa forcaiola delle forze politiche di maggioranza (con sponde tra i 5S) hanno messo all’angolo chi critica il regime detentivo speciale. Il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli ha sottolineato “l’asimmetria tra l’inciviltà del crimine e la civiltà del diritto” che dovrebbe caratterizzare l’agire istituzionale, il cui primo obiettivo deve essere la tutela della vita umana. Al contrario, continua Ferrajoli, di quello che sta facendo l’esecutivo Meloni su Cospito e di quanto è avvenuto in Italia negli ultimi 30 anni. In questo lasso di tempo si è generato un paradosso: diminuiscono i reati ma aumentano detenuti e “sofferenza penale”. Una spia, secondo il filosofo, dell’imbarbarimento del dibattito pubblico “che minaccia il futuro della democrazia”. L’ex magistrata Laura Longo ha duramente criticato la deriva afflittiva del 41 bis che, soprattutto con le riforme del 2002 e 2009, si è espanso nel tempo e nelle tipologie di reati, snaturandone la funzione originale: interrompere i contatti tra detenuto e organizzazioni criminali esterne. Tra gli interventi l’ex senatore Luigi Manconi, l’avvocata Caterina Calia, il giurista Franco Ippolito, la scrittrice Elena Stancanelli e l’attore Ascanio Celestini. “Morire di pena” è anche il tentativo di liberare il caso Cospito e il dibattito sul carcere dalla spirale dello scontro Stato-anarchici, che difficilmente potrà giovare alla vita dell’uno o all’efficacia dell’altro, attraverso la promozione di un fronte garantista. Necessario, seppur minoritario nel paese. Il 41-bis (non) preso sul serio. Tutti umanitari ma nessuno tocca la norma di Maurizio Crippa Il Foglio, 8 febbraio 2023 Più ci si avvicina alle date in cui si dovrà decidere sul carcere duro a Cospito, più l’unica cosa evidente è che per destra e sinistra non è importante migliorare uno strumento utile ma usato come arma di tortura (vero antimafia?). Più si avvicina il 12 febbraio, data entro la quale il ministro di Giustizia deve rispondere all’istanza di revoca del 41-bis ad Alfredo Cospito; più si avvicina il 24 febbraio, data anticipata dalla Cassazione per l’udienza sulla revoca o meno del carcere duro, e più ci si allontana - nella rissa politica - da una pur basica cognizione dei fatti e dei temi. E cioè che l’affaire nasce da una maldestra forzatura politica da parte di esponenti di FdI (ora indaga la procura di Roma), che però a ben guardare è una reazione a un altrettanto maldestro tentativo politico di mettere sotto pressione il governo su un caso definito come umanitario, ma che non lo è. Una manna politica per l’anarchico-terrorista Cospito, che se la sta giocando con più intelligenza della sua controparte, “lo Stato” repressivo delle galere. Il tutto dentro a una confusione concettuale che rischia, per sovrappiù, di permettere a Cospito, che nemmeno ci pensava, di scardinare o indebolire un regime di detenzione come il 41-bis di cui invece rimane la necessità, in pochi e selezionati casi. Spoiler: sosteniamo da sempre sul Foglio che vada profondamente rivista la norma. Sui social è ricomparsa una “Bordinline” pubblicata da questo giornale il 20 agosto 2016 in cui Massimo Bordin magistralmente spiegava le ragioni che avevano portato a una norma di “giusta prevenzione”, che però si era malamente involuta in una “afflizione gratuita” per il corpo e la mente dei detenuti, come il divieto di ricevere libri, che non ha senso. Nessuno qui fa il tifo per l’attuale 41-bis. Ma la domanda giusta sarebbe: come mai da oltre vent’anni, da quando è stato reso definitivo, il 41-bis è divenuto un totem sacrale, immodificabile? È molto semplice: perché quelle “afflizioni gratuite” sono state usate come “pressioni unicamente volte a ottenere confessioni”, scriveva Bordin. Cioè sono “tortura”. Il 41-bis è tale perché la cultura dell’antimafia, con la sponda della sinistra, lo ha utilizzato a questo scopo. Della destra, nemmeno a dire: lì la civiltà giuridica è buttare la chiave. Allora l’altra domanda è: come s’è fatta trascinare, la politica, in questo pasticcio in cui tutti vogliono essere umanitari (anche Delmastro Delle Vedove, ieri) ma nessuno vuole toccare una norma che invece va ripulita? Ci si dimentica di dire che la protesta di Cospito non nasce in alcun modo contro il carcere duro, ma per la sentenza della Cassazione che ha confermato l’impianto dell’inchiesta Scripta manent della procura di Torino nella quale la Fai-Fri (Federazione anarchica informale - Fronte rivoluzionario internazionale) è giudicata associazione con finalità di terrorismo ed eversione. Lo sciopero della fame di Cospito parte pochi giorni dopo, a ottobre, anche se il 41-bis era già inflitto da mesi. Quindi contro la sentenza che lo ha condannato riconoscendo la natura terroristica di “una struttura stabile e organizzata, di respiro perfino internazionale”. In ballo non c’è il 41-bis. E dunque, che i parlamentari di sinistra vadano a fare una visita umanitaria, è da elogiare; ma che ci vadano, con motivazione umanitaria, quelli come Andrea Orlando che lasciò morire al 41-bis Binnu Provenzano, ha una nuance un po’ bizzarra. Soprattutto è difficilmente scusabile che si siano fatti attirare nel trappolone di Cospito - che lotta contro le motivazioni di una legittima sentenza e non contro il carcere duro - semplicemente per montare una polemica contro il governo in cui sono costretti, con un certo imbarazzo, a contestare le proprie storiche posizioni da sempre più che favorevoli, nel rispetto della dogmatica dell’antimafia giudiziaria, al 41-bis e pure al suo uso distorto. Non sapremmo dire se sia davvero in atto una “minaccia per lo stato”, come dice la premier Giorgia Meloni. Ma sul fatto che il carcere duro vada mantenuto sembrano tutti d’accordo, a partire dalla sinistra neo-umanitaria che grida allo scandalo. Il tutto rasenta il farsesco. Ieri Repubblica, “che ha potuto leggere la relazione” del Gruppo operativo mobile della Penitenziaria, raccontava un quadretto stravagante. Delmastro dice che i parlamentari in visita si sono “inchinati” alla mafia, ed è una menzogna indegna. Ma il verbalizzante scrive che Cospito aveva esordito: “Non ho niente da dire se prima non parlate con gli altri detenuti, solo dopo avrò qualcosa da dire”. E che “a tale frase la delegazione si affacciava alla camera 25 dove c’è il detenuto al 41-bis Francesco Di Maio”, boss dei casalesi. Non proprio un passo di grande lucidità politica. Inoltre scrive Repubblica che “Cospito dimostra di sapere che cosa stia avvenendo fuori, le manifestazioni, i gesti dimostrativi”. Dunque, par di capire, al 41-bis la tv non la vede solo Messina Denaro. La domanda finale allora è o dovrebbe essere: questo carcere duro funziona, o no? La baruffa su una questione che non interessa né al governo né all’opposizione - la condizione delle carceri - potevano risparmiarcela. Da Cospito a Messina Denaro: il paradosso di un 41 bis che sfugge al suo scopo di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 febbraio 2023 Il “carcere duro” dovrebbe impedire le comunicazioni tra detenuto e mondo esterno. I casi dell’anarchico e del capomafia però svelano un altro scenario. Quello per cui si finisce per veicolare messaggi dei reclusi al mondo esterno. E meno male che il 41-bis dovrebbe servire a impedire le comunicazioni tra il detenuto pericoloso, ritenuto a capo di un’associazione mafiosa o terroristica, e l’esterno. A guardare cosa è accaduto negli ultimi giorni, il cosiddetto regime di carcere duro è apparso essere un vero e proprio colabrodo, un po’ per colpa di bieche strumentalizzazioni politiche, un po’ a causa del solito circo mediatico-giudiziario. Prima ci ha pensato la coppia Delmastro-Donzelli a rivelare in pompa magna i contenuti di informative riservate contenenti i colloqui avuti in carcere al 41-bis dall’anarchico Alfredo Cospito con due boss mafiosi. Il tutto con l’obiettivo di accusare il Pd di stare dalla parte dei terroristi. Parti delle affermazioni di Cospito diffuse da Delmastro e poi riferite alla Camera da Donzelli erano pure state anticipate poche ore prima dal quotidiano Repubblica. Come se la baraonda innescata da questa vicenda non bastasse, il Corriere della Sera ha diffuso alcune parole che il boss Matteo Messina Denaro avrebbe riferito a fonti sanitarie e penitenziarie all’interno del carcere di massima sicurezza dell’Aquila dove è detenuto in 41-bis. “Sono incazzato, su di me vengono raccontate balle”, avrebbe detto il boss riferendosi ad alcune informazioni ascoltate in televisione. Non è chiaro se il super boss, arrestato lo scorso 16 gennaio, si riferisse alle “rivelazioni” fatte da Salvatore Baiardo, uomo vicino ai fratelli Graviano, alla trasmissione “Non è l’arena”, di cui ormai è ospite fisso. Per Baiardo, ritenuto inattendibile plurime volte in sede giudiziaria, Messina Denaro si sarebbe consegnato allo stato sulla base di una nuova fantomatica trattativa. Insomma il 41-bis, nato per evitare le comunicazioni tra i detenuti e il mondo esterno, è diventato strumento di veicolazione - quasi in tempo reale - dei messaggi dei reclusi all’esterno. Un paradosso gigantesco per gli strenui difensori del carcere duro. Quando carcere duro ed ergastolo ostativo facevano inorridire la sinistra italiana di Paolo Delgado Il Dubbio, 8 febbraio 2023 Nel 1992 il Pds si scagliò contro il dl Martelli-Scotti definendolo incostituzionale. Stando alle dichiarazioni e agli scroscianti applausi di questi giorni si direbbe che il famigerato art. 41 bis sia nato con il sostegno e la piena approvazione della sinistra di ogni sfumatura. La realtà è opposta. Quando il decreto che introduceva il carcere duro fu presentato il Pds fu durissimo, lo accusò apertamente di incostituzionalità ed era pronto a dare battaglia in Parlamento. Prima della conversione, il 19 luglio 1992, intervenne però la strage di via D’Amelio e sull’onda di quella fortissima emozione il partito di Achille Occhetto decise di astenersi alla Camera e di votare a favore del decreto, senza però nascondere il disaccordo sulle nuove norme penitenziarie, al Senato, dove l’astensione equivaleva a voto contrario. Nonostante il clima di emergenza assoluto, Rifondazione comunista e i Verdi scelsero comunque di votare contro la conversione e la Rete di Leoluca Orlando si astenne. L’articolo esisteva già dal 1986: era inserito nella legge più odiata dai paladini della “certezza della pena”, la Gozzini. Prevedeva che, in casi eccezionali e in particolare nel corso di rivolte carcerarie, si potesse sospendere l’applicazione delle normali regole penitenziarie. La sospensione era però permessa solo per motivate esigenze di assicurare il ripristino dell’ordine ed era obbligatorio tornare alla normalità appena ripristinati ordine e sicurezza nella prigione interessata. Era una norma garantista e comunque non fu mai applicata. Il decreto antimafia Martelli-Scotti dell’8 giugno 1992, varato poco dopo la strage di Capaci, modificò l’articolo aggiungendo un secondo comma che assegnava al ministro della Giustizia la facoltà di sospendere tutte le garanzie assicurate dall’ordinamento penitenziario per i reati di mafia. La misura era esplicitamente emergenziale. Avrebbe dovuto restare in vigore per tre anni. Il dl, oltre a intervenire pesantemente sul processo penale, introduceva anche un altro cult dei giorni nostri: l’ergastolo ostativo, quello che impedisce l’accesso a misure alternative alla detenzione, con carattere retroattivo. Circa 250 persone, già in semilibertà, dovettero rientrare in carcere a tempo pieno. Secondo il “padre” del provvedimento, l’allora numero 2 del Psi Claudio Martelli, al decreto era contrarissimo il capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro che si vendicò, sempre secondo Martelli, mettendo in giro la voce secondo cui il ministro della Giustizia si preparava ad accoltellare il suo leader e alto protettore Bettino Craxi. Si spiegherebbe così la caduta in disgrazia di Martelli alla corte di Bettino- Bokassa e sempre l’ira di Scalfaro spiegherebbe la sua rimozione dal ministero di via Arenula pochi mesi dopo. La contrarietà del presidente al decreto non è accertata. Quella del Pds invece sì. In una conferenza stampa del 7 luglio 1992 un deputato, Massimo Brutti, e un senatore Ugo Pecchioli, parlarono di interventi “gravissimi” e di “stravolgimento del processo penale, della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario”. Non erano due parlamentari qualsiasi. Brutti era il principale esperto in materia di Costituzione e giustizia che ci fosse nel partito. Pecchioli era stato il “ministro degli Interni” del Pci negli anni del terrorismo, l’omologo e il referente del ministro degli Interni Cossiga: neppure Donzelli sarebbe riuscito ad accusarlo di eccessiva morbidezza senza che gli scappasse da ridere. I due parlavano a nome del partito non a titolo personale. Via D’Amelio cambiò le cose. Il Pds chiese modifiche, ottenne qualcosa ma non tanto da approvare la conversione. A palazzo Madama, dove l’astensione equivaleva al voto contrario, scelse di approvare il decreto nel complesso pur segnalando il giorno dopo sull’Unità il “profondo dissenso” sulle regole penitenziarie e l’ergastolo ostativo retroattivo. Nessun dubbio invece emerse quando 10 anni dopo, il 23 dicembre 2002, fu votato il ddl del governo Berlusconi che rendeva permanente il 41 bis, in vigore dal 1992 grazie a tre proroghe, lo estendeva ai reati di terrorismo e stabiliva che la disposizione a carico dei singoli detenuti dovesse andare da un minimo di un anno a un massimo di due anni, dopo i quali il regime di rigore doveva essere prorogato di anno in anno. I tempi erano cambiati, il Pds, ora Ds, era cambiato. La sinistra correva dietro agli umori giustizialisti del Paese: i Ds approvarono l’istituzionalizzazione di un regime nato come emergenziale voluta da Berlusconi. Lo stesso premier che sette anni dopo, nel 2009, avrebbe portato da due a quattro anni il tetto del carcere duro prorogabile ora di biennio in biennio. Senza obiezioni da parte di quello che diventato il Pd. “Non bastò l’uccisione di Falcone per riuscire a far approvare il 41 bis. Fu necessario anche l’assassinio di Borsellino” di Alessandra Ricciardi Italia Oggi, 8 febbraio 2023 Così Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia. “Se non ci fosse stata l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non so se il Parlamento avrebbe mai approvato la conversione in legge del 41 bis. La strage di Capaci non era bastata”. Claudio Martelli, storico esponente del Psi, era Guardasigilli quando, all’indomani delle stragi del 1992, fu istituito il 41 bis per i mafiosi. “Non si tratta di una misura punitiva, ulteriormente afflittiva rispetto alla pena da scontare, che sarebbe incostituzionale, ma di una misura preventiva il cui scopo è recidere i rapporti tra i mafiosi detenuti nelle carceri e la loro organizzazione fuori dal carcere. È per questo che la proposi. Erano gli anni in cui i boss comandavano dalla galera, ordinavano omicidi, governavano i loro affari, combattevano lo Stato”. E sul caso dell’anarchico Cospito, Martelli oggi dice: “Si può accettare di discutere o abrogare una legge perché c’è un detenuto in sciopero della fame? Io sono perplesso. Cospito non chiede che siano riviste le misure a cui è sottoposto ma che il 41 bis sia eliminato per tutti”. Il decreto legge istitutivo del 41 bis fu approvato dal consiglio dei ministri a tempi di record, l’8 giugno 1992, dopo sedici giorni dalla strage di Capaci in cui perse la vita Giovanni Falcone con la moglie e la scorta. Il percorso parlamentare di conversione in legge invece non fu affatto agevole... La legge fu approvata definitivamente il 6 agosto, con voto di fiducia. Il dibattito in Parlamento fu costellato dai pronunciamenti contrari dei gruppi del Pds e della Dc. Entrambi trovavano che il provvedimento non fosse approvabile perché anticostituzionale. Introduceva, era l’accusa, un regime carcerario diverso per i detenuti di mafia rispetto agli altri. Quando cambiarono le cose? Il 19 luglio 1992, con l’attentato di via D’Amelio in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. Quel giorno caddero tutte le resistenze, o quasi tutte. La strage di Capaci non era bastata. E francamente non so se senza via D’Amelio si sarebbe mai arrivati ad approvare il 41 bis. L’assassinio di Borsellino suscitò un’ondata di sdegno e la voglia di riscatto dello Stato e del Parlamento. Nei mesi precedenti vi era stato anche lo sciopero dei magistrati contro l’Antimafia... L’Antimafia è la creatura a cui Falcone e io avevamo lavorato per rafforzare, attraverso il coordinamento dell’attività delle procure, la lotta alla mafia. Evidentemente l’Associazione nazionale magistrati giudicava più pericolosi Falcone e Martelli che non la mafia. Il dibattito circa la costituzionalità di un regime più restrittivo, a parità di pena, per alcuni detenuti rispetto ad altri è ancora oggi d’attualità... È una questione di principio che si pose già nel 1992, capire se possa esservi un doppio regime carcerario tra i detenuti normali e quelli per i reati di stampo mafioso. Io ne parlai con l’allora presidente della Corte costituzionale il quale ragionò che se il provvedimento avesse avuto una durata limitata, motivata dalla necessità di affrontare l’emergenza mafiosa, i problemi di costituzionalità relativi a una possibile discriminazione potevano essere risolti. E in effetti la legge sul 41 bis prevedeva un ricorso alla misura limitato nel tempo. Poi è stata rinnovata fino a quando, su proposta del ministro della giustizia Angelino Alfano, non si decise di renderla permanente. Esistono anche altri paesi, come gli Usa, in cui la legislazione prevede regimi carcerari speciali a seconda della pericolosità dei detenuti e di questo nel dibattito va tenuto presente. Cosa risponde a chi accusa il 41 bis di essere una misura peggiorativa delle condizioni di vita del detenuto? Il 41 bis non è una misura punitiva, sarebbe altrimenti incostituzionale, è una misura preventiva, il cui scopo è recidere i rapporti tra detenuti mafiosi nelle carceri e tra loro e le organizzazioni fuori dal carcere. È per questo che la proposi. Erano gli anni in cui i boss comandavano dalla galera, ordinavano omicidi, governavano i loro affari, combattevano lo Stato. Eppure la legge nel 1992 era a tempo... L’ostacolo costituzionale è stato superato perché la diversità di trattamento è giustificata dal fatto che siamo davanti a rischi concreti per l’ordine e di sicurezza pubblica ed è a questi parametri che anche la durata della restrizione delle garanzie è parametrata. Il 41 bis inoltre non è un carcere duro, che è afflittivo, punitivo, e questo sarebbe incostituzionale perché l’obiettivo della pena la rieducazione e la riabilitazione della persona e non la sua ulteriore afflizione rispetto alla pena da scontare. Si tratta di un regime di isolamento in cui anche i colloqui con i parenti o gli avvocati vengono ridotti e avvengono in condizioni particolare proprio per evitare che arrivino indicazioni all’esterno. Il boss in carcere non deve poter continuare a delinquere, come accaduto invece fino agli anni 90. Contro il 41bis si stanno aggregando, intorno agli anarchici, gruppi di antagonisti, centri sociali, anche collettivi studenteschi, black bloc, ecologisti. Il dissenso sta assumendo forme nuove? Inviterei a non confondere fenomeni diversi. E non so quale sia oggi la pericolosità degli anarchici. Mi chiedo però se si possa accettare di discutere o abrogare una legge perché c’è un detenuto in sciopero della fame. Io sono perplesso. Stiamo parlando dell’anarchico Alfredo Cospito... Cospito è in sciopero della fame non perché siano riviste le misure a cui è sottoposto, che sarebbe legittimo, ma perché il 41 bis sia eliminato per tutti. La stessa richiesta che giunge dai boss mafiosi. A 30 anni dalle stragi, il 41 bis ha ancora senso? Andrebbe chiesto ai magistrati di sorveglianza, alla direzione Antimafia. Stando a quanto dicono gli esperti, mi pare che la risposta debba essere affermativa. Ma anche il Parlamento dovrebbe dire la sua: se qualcuno ritiene che la misura sia superata dovrebbe avere il coraggio di discuterne, di aprire un confronto, laicamente, senza tabù. La clessidra sottosopra del 41 bis. Sempre dalla parte del potere di Cecco Bellosi* altreconomia.it, 8 febbraio 2023 Che cosa c’entra Alfredo Cospito con il 41 bis? E che cosa c’entra il 41 bis con la Costituzione? Partiamo dalla seconda domanda. Perché è da questa che deriva la prima. La legge 354 del 26 luglio 1975 sull’Ordinamento penitenziario, all’articolo 1, recita che “il trattamento deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. All’epoca, a smentire questo principio direttivo, era stato inserito l’articolo 90, come “disposizione finale e transitoria”. Molto finale e poco transitoria. Argomentava: “Esigenze di sicurezza. Quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza, il ministro per la Grazia e la Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza”. Due anni dopo, nel 1977, sarebbe stato inaugurato il “circuito dei camosci” nella forma delle carceri speciali riservate ai detenuti classificati come pericolosi: militanti delle organizzazioni della lotta armata, giovani ribelli appartenenti alle batterie di rapinatori, pochi appartenenti alle organizzazioni mafiose che, soprattutto in Sicilia, erano ancora solide alleate dello Stato. C’era anche qualche fascista di Ordine Nuovo, ma alcuni tra loro, come Franco Freda e Guido Giannettini, ne sono usciti quasi subito, essendo anche loro complici dello Stato. Le misure previste dall’articolo 90 cominciarono a essere applicate a partire dal 1978, in maniera sempre più restrittiva. Passando dalla censura sulla posta, ai colloqui con i vetri divisori, all’abolizione dei pacchi viveri, alla riduzione degli spazi per le ore d’aria, ristrette a una al giorno e in sei per volta, all’impossibilità di ricevere libri se non dopo la loro scomposizione in fascicoli separati. La costituzionalità di quel provvedimento veniva messa sempre più in discussione su diversi versanti: esperti di diritto, esponenti politici e, piano piano, anche una buona parte dell’opinione pubblica. Dopo sei anni non si poteva più parlare di emergenza, rinnovata di sei mesi in sei mesi con circolari affisse in bacheca, al punto che la commissione Giustizia del Senato presieduta da Mario Gozzini iniziò il proprio lavoro proprio su quel punto specifico: la revisione dell’articolo 90. A favorire la sua soppressione contribuì in maniera significativa uno sciopero della fame protratto e condotto da oltre mille detenuti nelle carceri di massima sicurezza. La cosiddetta “legge Gozzini”, oltre all’apertura condizionata a istituti come il lavoro all’esterno attraverso l’applicazione dell’articolo 21, alla concessione dei permessi premio e all’affidamento sul territorio per le pene e i residui pena inferiori a tre anni, introduceva l’articolo 41 bis, a identificare le situazioni di emergenza, ma anche la loro durata, che non poteva essere protratta nel tempo come era accaduto per l’articolo 90. Nella formulazione iniziale, recitava così: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro di Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”. Già, la durata strettamente necessaria: per ora sono passati solo trentasei anni. Questo anche perché nel 1992, dopo le stragi compiute dalla mafia, al 41 bis è stato aggiunto il secondo comma: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo comma dell’articolo 4 bis, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. L’articolo 4 bis prevede l’esclusione dal lavoro esterno, dai permessi premio e dalle misure alternative per i detenuti condannati per l’articolo 416 bis, l’associazione a delinquere di stampo mafioso; per l’articolo 630, il sequestro di persona a scopo di estorsione; e per l’articolo 74 della legge 309 del 1990 sulle droghe per l’associazione a delinquere ai fini di spaccio. Se non diventano collaboratori di giustizia. Nel 2002 il comma 2 dell’articolo 41 bis è stato ulteriormente inasprito: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamento con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente”. Così questi detenuti non possono avere più di un colloquio al mese con i familiari, in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti: in altri termini, i colloqui si svolgono attraverso vetri divisori e vengono sottoposti a controlli auditivi e a registrazione. L’acquario ascoltato nel respiro. Anche i colloqui telefonici sono stai ridotti a uno al mese. A seguire, l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e l’immancabile visto della censura sulla posta. A chiudere il cerchio, un’ora d’aria al giorno, al massimo di cinque per volta. La sottrazione di un’unità, rispetto ai tempi dell’articolo 90, quando si poteva andare all’aria in sei per volta. Ma la filosofia è sempre la stessa: rinchiudere dentro la logica della sicurezza la pratica della vendetta. Perché non si capisce che cosa abbiano a che fare le restrizioni interne con la possibilità di mantenere contatti con l’organizzazione di appartenenza. Tortura, si tratta solo di tortura prolungata. Dopo un lungo periplo, lo Stato non solo è tornato all’articolo 90, accusato con forti motivazioni all’epoca di incostituzionalità, ma è andato molto oltre. Il 41 bis non è anticostituzionale, è esattamente il rovescio della Costituzione. Invocata in teoria, negata nella pratica. La clessidra sottosopra. Sempre dalla parte del potere. L’articolo 41 bis viola la Costituzione. Non solo nell’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, quando il 41 bis è radicalmente contrario a ogni senso di umanità e mira ad annientare il detenuto. Ma anche nell’articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che in carcere vengono puntualmente negati. E nell’articolo 13: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. A partire da questa violenza esercitata nei suoi confronti entra in scena la vicenda drammaticamente kafkiana di Alfredo Cospito. Rispetto a lui non torna nulla. Innanzitutto davanti alla richiesta dell’ergastolo per un attentato dimostrativo in piena notte con due ordigni deposti in un cassonetto vicino alla scuola per allievi ufficiali dei carabinieri di Fossano. A lui e alla sua compagna, Anna Beniamino, è stato contestato il reato di strage previsto dall’articolo 285, attentato alla sicurezza dello Stato. Una non strage senza alcuna vittima, nella realtà e nelle intenzioni. Ma quello che importa in maniera esasperata fino alla richiesta dell’ergastolo da parte della Corte di Cassazione è la sicurezza dello Stato minacciata in un cassonetto. Quando si dice l’ossessione da regime di Alfredo Rocco, riattualizzata quasi un secolo dopo. Il clima rimane quello. Non a caso Benito Mussolini, che nella sua disinvolta carriera era riuscito in gioventù anche a diventare anarchico in Svizzera, da fascista ebbe poi gli anarchici costantemente nel mirino. Ma il dramma umano e politico di Alfredo Cospito si declina anche nella relegazione al 41 bis. Cospito non appartiene a nessuna delle associazioni previste da quel regime di detenzione, di nessuno stampo. Per i due reati che gli sono stati contestati ha un’unica, o un unico, coimputato. E qualunque associazione prevede la presenza di almeno tre persone, fosse solo per il rispetto del diritto di maggioranza. Gli anarchici appartengono a un’idea, al massimo a labili tracce organizzative, mai a un’organizzazione gerarchica. Cultori della dimensione egalitaria e non verticistica. Alludere a una struttura piramidale dell’anarchia significa riconoscere un ossimoro. Infine, e qui si arriva al delirio di Stato e dei suoi burattini, a Cospito è stato contestato il fatto di avere scambiato in carcere delle parole con alcuni detenuti rinchiusi al 41 bis per l’appartenenza ad associazioni di stampo mafioso. Come se si fosse scelto lui la compagnia. Diversi anni fa mi è capitato di stare per alcuni mesi in una sezione ad alta sicurezza, un termine che ritorna sempre come un mantra, con i cosiddetti killer delle carceri, detenuti che avevano ucciso altri detenuti. Spesso a pagamento. E voi pensate che io non abbia, anche solo per motivi di sopravvivenza e di sguardi pieni di ogni sospetto a ogni mancanza di saluto, scambiato qualche parola con qualcuno di loro? Sono stato anche, nel braccio speciale di Rebibbia, con alcuni detenuti fascisti dei Nar. Ebbene sì, all’aria ho scambiato qualche parola anche con loro. In questo caso non per istinto di sopravvivenza ma per comune detenzione. Li detestavo ma in quel momento eravamo nello stesso luogo. Lo stesso luogo che non ha condiviso l’attuale presidente del Consiglio, loro nipote per tradizione comune: motivo per cui la lontananza da lei, o da lui, è molto più abissale. Almeno loro qualcosa hanno pagato, alla strategia della tensione. Lei ne ha solo ereditato i velenosi frutti. Senza pagare dazio. Rivendicando persino la lotta contro la mafia, quando le cronache e gli scheletri degli armadi della sua coalizione politica rigurgitano di amici veri, e non costretti a convivervi, delle organizzazioni mafiose. Questo permette oggi al presidente del Consiglio, come aveva già fatto il suo predecessore Benito Mussolini, di condannare a morte l’anarchico. Il nemico del regime. La cui lotta non è solo contro l’ingiustizia che sta subendo, ma è contro il regime disumano e degradante del 41 bis. Per questo non possiamo che stare con lui e con la sua lotta. Contro il fascismo di ieri. E, diverso ma uguale, di oggi. *Cecco Bellosi da oltre trent’anni lavora come coordinatore dell’Associazione Comunita? Il Gabbiano, che si occupa di tossicodipendenti, persone con problemi di sofferenza psichica, detenuti, minori in difficolta?, malati di Aids, ed è attiva in Lombardia dal 1983. Ha pubblicato Il paese dei contrabbandieri (Nodo Libri, 1995), Piccoli Gulag (DeriveApprodi, 2004), Con i piedi nell’acqua (Milieu, 2013), Sotto l’ombra di un bel fiore (Milieu, 2018), L’orlo del bosco (DeriveApprodi, 2022). Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti del Lazio: “Una riforma del 41 bis non è tabù” di Morena Di Giulio ilquotidianodellazio.it, 8 febbraio 2023 Mentre il dibattito sul 41 bis infiamma l’opinione pubblica e rischia di diventare uno scontro tra chi lo vuole abolire e chi non lo vuole toccare, abbiamo intervistato Stefano Anastasìa, 56 anni, Garante delle persone private della libertà per la Regione Lazio. Nella regione Lazio ci sono poco meno di 100 detenuti al 41bis. In tutto il territorio nazionale 728 (Relazione sull’amministrazione della giustizia” pubblicata dal Ministero della Giustizia) di questi 12 donne e 716 uomini. In Italia meno di 10 persone sono al 41 bis per reati legati alle associazioni di terrorismo interno e internazionale. Si rischia che il regime speciale e la discussione che si sta generando diventi uno scudo dietro quale nascondere le possibilità di una seria riforma carceraria. Il 41 bis nel Lazio si trova in apposite sezioni delle carceri di Rebibbia e Viterbo. Partiamo da qui. Ci spieghi come sono strutturate le carceri di massima sicurezza dove esiste il 41 bis, e cos’è? Noi non abbiamo nella regione Lazio degli istituti interamente dedicati al 41bis. Abbiamo delle sezioni all’interno degli istituti che, per la maggior parte in realtà, ospitano detenuti di altri regimi. Sia a Viterbo che a Rebibbia, il Nuovo Complesso, ci sono dei complessi dedicati al regime di 41 bis separate ovviamente da quelle degli altri. A Viterbo la sezione è un edificio a sé dove ci sono 50 detenuti al 41 bis mentre a Rebibbia non si tratta di edificio separato ma ci sono 2 reparti, il G7 e G13 che sono dedicati alle persone in 41bis. Nel penitenziario romano in tutti e due i reparti ci sono 42 detenuti in totale. Parliamo di sezioni interamente dedicate e gestite da personale specializzato, quello della polizia del gruppo operativo mobile, uomini addestrati alla gestione delle persone in 41 bis... Quello di cui stiamo parlando, è un regime speciale in cui si hanno 2 ore d’aria al giorno, un’ora di cosiddetta socialità che s’intende come la possibilità di stare con altre persone. Attenzione, le persone con cui si può socializzare sono sempre lo stesso gruppo; i detenuti in 41bis possono andare all’ora d’aria e poi incontrarsi in una piccola sala per 60 minuti e sempre con le stesse persone. Sono gruppi di 4 persone che vengono selezionati dall’amministrazione penitenziaria in modo tale che non ci siano né particolari amicizie, tantomeno inimicizie. Lo scopo è che possano passare quelle ore a disposizione fuori dalla camera detentiva senza che ne vengano problemi di altro genere. Nel resto della giornata sono chiusi ognuno nella propria stanza, con il bagno e le poche cose concesse, in un regime di sostanziale isolamento. Rigido controllo della corrispondenza, della possibilità di mandare lettere. Infine, i detenuti hanno a disposizione un colloquio mensile con i loro cari che è alternativo alla telefonata. Quando Cospito ha iniziato lo sciopero della fame, l’opinione pubblica si è accorta che al 41 bis non ci sono solo persone legate alla criminalità organizzata. Ci può raccontare di quale percentuale stiamo parlando? Il rapporto è sbilanciato già tra la popolazione carceraria generale e i detenuti al 41 bis, in particolare tra coloro che sono sottoposti a questo regime. Abbiamo poco più di 700 detenuti al regime speciale, di questi solo una decina sono coloro che non fanno parte dei circuiti della criminalità organizzata di tipo mafioso ma di organizzazioni di stampo terroristico. Cospito fa parte di una estrema minoranza, dove ci sono gli ultimi terroristi delle Brigate Rosse. Oltre al regime speciale, esiste l’alta sicurezza, dove era detenuto Cospito stesso prima dello spostamento al 41 bis, che differenza c’è? L’alta sicurezza è un circuito separato da quello dei detenuti comuni, ha una limitazione nelle comunicazioni con l’esterno, i detenuti di alta sicurezza possono fare 2 telefonate al mese invece che 4 o 6 come i detenuti comuni. Però hanno una vita comune, non sono isolati, possono frequentare le scuole e fare le attività del penitenziario. A Rebibbia ci sono tantissime persone in alta sicurezza che hanno fatto ottimi percorsi di studi universitari oppure hanno fatto teatro in carcere con discreto successo. L’alta sicurezza è finalizzata a separarli dagli altri detenuti per evitare ovviamente che possano avere un predominio o possano condizionare le attività degli altri. Il fatto che il regime di 41 bis sia stato pensato da Giovanni Falcone ne rappresenta oggi un tabù che ci preclude a una seria riflessione? È chiaro anche dalla discussione di questi giorni che sul 41 bis c’è un tabù, come se non si potesse parlarne o discuterne. D’altro canto è importante dire che tutte le Corti in cui le eccezioni che sono state sollevate, anche la Corte europea, ne hanno escluso la “assoluta illegittimità”. Vuoi la tua pubblicità qui? Tutte le corti costituzionali nazionali e sovranazionali riconoscono l’esigenza di un regime di particolare isolamento per i detenuti particolarmente pericolosi... Il problema sono i contenuti di questo isolamento. Su quello, purtroppo vice un tabù che non ci consente di discutere nel merito di questi contenuti. Le faccio un esempio; la Corte Costituzionale è dovuta intervenire anche sulla possibilità che queste persone potessero cucinarsi delle cose autonomamente, perché gli era vietato. Una circolare ministeriale stabilisce il numero massimo di libri e matite, di fotografie che i detenuti in 41 bis possono tenere. Ci sono una serie di norme che sono prive di senso rispetto alla finalità dell’istituto, che è impedire che il capo di una organizzazione criminale possa dare indicazioni all’esterno. Rispetto a questo pericolo vanno limitate le forme di comunicazione con l’esterno, ma tutto il resto? Il fatto che possano stare all’aria 2 ore invece che le 4 previste normalmente o che possano stare nella sala socialità solo per un’ora non ha nessun senso se non quello vessatorio. Lo vedeva così anche Giovanni Falcone? Nel senso comune il 41 bis non è quello che aveva pensato Falcone, una misura preventiva per evitare che i capi, appunto, potessero mantenere il controllo dal carcere. Si tende a immaginare il 41 bis con il cosiddetto regime speciale, cioè una ulteriore pena afflittiva a quella che si deve scontare. Questo è illegittimo. Quando la società civile prende posizione su questo, spesso riecheggia l’espressione “tortura di Stato”. Un modo che impedisce il percorso di reinserimento che dovrebbe essere sempre il fine del regime carcerario. Pensa sia vero che stiamo abusando del 41 bis? La misura del 41 bis viene disposta in prima battuta per 4 anni e poi si rinnova, di 2 anni in 2 anni; dopodiché ci sono persone, e sono molte, che non devono scontare un ergastolo ma sono al 41bis. Queste persone scontano la loro pena, fino all’ultimo giorno, in 41bis e il giorno dopo sono liberi. Anche dal punto di vista del percorso “trattamentale” che si fa in carcere è una cosa priva di senso, quando una persona sta finendo di scontare la sua pena perché non viene rimessa in alta sicurezza per l’ultimo biennio così da poter essere reinserita in un percorso di socializzazione? Che senso ha lasciare le persone isolate fino alla fine della pena? Reinserimento, quei percorsi da garantire ai detenuti Parliamo dei percorsi di reinserimento, quando incontra i detenuti in carcere ha la percezione che non gli stiamo offrendo qualcosa oltre alla pena detentiva? In gran parte è così, in carcere di fanno anche alcune attività importanti e che coinvolgono i detenuti, appunto la scuola o il teatro, piccole attività lavorative, però si tratta sempre di offerte limitate che per forza di cose raggiunge una minoranza delle persone detenute. La maggioranza dei detenuti è in carcere e aspetta la fine della pena, con il rischio che se entri in carcere con difficoltà varie di inserimento sociale, quando esci dalla detenzione hai meno risorse di quante ne aveva prima. Come definirebbe la situazione delle carceri nel Lazio? La definirei complicata. Abbiamo un tasso di affollamento più alto della media nazionale, se in Italia il tasso di affollamento è del 110% (110 detenuti ogni 100 posti detentivi) nella nostra regione saliamo fino al 120%. Ci sono poi istituti particolarmente sovraffollati e altri meno ma la situazione in generale si sente, Regina Coeli, Civitavecchia, Viterbo e anche il piccolo carcere di Latina, contengono più persone di quante effettivamente possano accogliere. Questo pesa sulla vita interna rendendo difficile gestire l’istituto, accedere alle attività. Aggiungiamo una cronica carenza di personale, in particolare della polizia penitenziaria ma non solo. La carenza di personale pesa poi anche sui detenuti perché se non hai educatori o se non hai il personale di polizia che controlla lo svolgimento delle attività, se non hai questo le attività non possono partire. In molti istituti del Lazio nel pomeriggio non si può fare niente perché non ci sono persone in turno. E nelle carceri minorili le cose come vanno? Nella regione Lazio abbiamo un solo carcere minorile, quello di Casal del Marmo, un istituto molto piccolo rispetto alle carceri per gli adulti, dove invece troviamo una discreta presenza di personale educativo. Sono ragazzi che hanno maggior bisogno di supporto nel reinserimento. Purtroppo a volte gli istituti per minori sono un po’ abbandonati a loro stessi, ci sono mancanze di personale direttivo, lo stesso personale di polizia è semplicemente distaccato dagli istituti per adulti e anche questo impatta nella gestione dei minori e nel tipo di relazione che si dovrebbe istituire con i ragazzi. Torniamo a Cospito, anche se al momento il Governo pare lo abbia escluso, pensa che con la sua battaglia si possa arrivare a discutere di una riforma del 41 bis? Temo di no, temo che la discussione si stia polarizzando tra chi è per l’abolizione e chi lo vede come qualcosa di intoccabile. Ecco io non la vedo in nessuno dei due modi, il 41 bis non può essere cancellato perché è chiaro che il contesto nazionale italiano è un contesto in cui il 41bis deve esserci, ma questo non preclude che si possa lavorare a limitarne l’uso, dubito che le oltre 700 persone siano tutti capimafia. Bisognerebbe pensare a cambiarne anche le condizioni di esecuzione. Servirebbe una riforma ma la nostra società al momento è divisa tra un Governo che non vede i problemi che ci sono e fette di popolazione civile che replica con una proposta di abolizione che suona un po’ velleitaria. Cospito monitorato, Meloni insiste: “Sul 41 bis non arretreremo mai” di Grazia Longo La Stampa, 8 febbraio 2023 L’avvocato del 55enne manda il suo medico dio fiducia: “È in condizioni allarmanti”. Due cose sono assodate. Il governo monitora le condizioni di salute del terrorista anarchico Alfredo Cospito, da oltre 100 giorni in sciopero della fame, ma non cederà al suo ricatto e quindi non gli revocherà il 41 bis. Lo ribadisce a chiare lettere il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, con delega al Dap, a margine di una visita al carcere di Perugia. “È nostro dovere assicurargli le migliori condizioni di salute ed eventualmente trasferirlo in una clinica qualora degenerassero - afferma l’esponente di Fratelli d’Italia - Cospito è monitorato e quindi l’erogazione sanitaria c’è ed è costante. Ma sul 41 bis non arretreremo mai. Certo è che lo sciopero della fame, pur essendo un diritto, non può scardinare un sistema ereditato da Falcone e Borsellino per contrastare la criminalità organizzata”. E la premier Giorgia Meloni incalza: “Lo Stato non può scendere a patti con chi lo minaccia, questo vale per la mafia ieri e per gli anarchici oggi”. Concorda anche il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi: “Lo Stato deve garantire la salute di ogni detenuto, ma deve garantire anche l’applicazione delle leggi senza favoritismi e senza eccezioni”. Intanto non si spegne la polemica su Andrea Delmastro e il vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli, sempre nel mirino delle opposizioni, che chiedono le loro dimissioni per l’uso improprio delle informazioni su Alfredo Cospito e gli attacchi ai dem. Ma la presidente del consiglio respinge al mittente la sollecitazione di un passo indietro per i due suoi fedelissimi: “Non penso ci sia bisogno delle dimissioni. La Procura fa il suo lavoro e il ministero della Giustizia ha più volte detto che non erano documenti coperti da segreto. E mi pare che queste informazioni sensibili fossero già presenti suoi quotidiani. Io ho chiesto a tutti di abbassare i toni e questo vale anche e soprattutto per Fratelli d’Italia”. Nel frattempo Cospito verrà visitato sabato dal medico nominato dal suo difensore. Il consulente si recherà il prossimo 11 febbraio nel padiglione del Servizio assistenza intensificata del carcere di Opera. L’anarco-insurrezionalista è dimagrito di oltre quaranta chili e da alcuni giorni rifiuta di assumere anche gli integratori. Si mantiene solo con acqua e sale o zucchero. È controllato costantemente dal personale medico e al momento le sue condizioni non sono definite “allarmanti” al punto da dovere intervenire con un ricovero in una struttura ospedaliera e in particolare nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo a Milano. Nei giorni scorsi il suo difensore, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, ha presentato una diffida al ministero della Giustizia e per conoscenza al Garante dei detenuti affinché, in caso di peggioramento delle condizioni di salute, non venga sottoposto alla nutrizione o a trattamenti forzati. Intanto il 12 febbraio scadono i trenta giorni di tempo che il ministro della Giustizia ha per rispondere all’istanza di revoca del carcere duro avanzata dalla difesa. Trascorsi i termini, e in assenza di una risposta da parte di via Arenula, il ricorso viene considerato respinto. Escludendo colpi di scena, l’attenzione si sposterà quindi al 24 febbraio prossimo data in cui è fissata in Cassazione l’udienza che tratterà l’istanza avanzata dai legali dopo il no al reclamo contro il 41 bis dichiarato da Tribunale di Sorveglianza di Roma. Cospito, il parere dell’Antimafia: “Sul 41 bis necessaria una valutazione ponderata” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 febbraio 2023 I pm: si consideri l’evoluzione del fenomeno anarchico. Rispetto al maggio 2022, quando l’anarchico Alfredo Cospito fu sottoposto al “regime differenziato” previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, alcune cose sono cambiate. E dunque ciò che fu stabilito allora dalla ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, su richiesta della Procura distrettuale di Torino e della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo all’epoca guidata da Federico Cafiero De Raho (oggi deputato dei Cinque Stelle) può essere rivisto dal nuovo Guardasigilli alla luce di quei mutamenti. Senza trattative né cedimenti da parte dello Stato, bensì all’esito di un “ponderato apprezzamento” sulla reale necessità di quella misura speciale. Così ha scritto il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo nell’articolato parere inviato al ministro Carlo Nordio. Rimettendo ogni valutazione alla “Autorità politica”, la Dna raccomanda, per l’appunto, “un ponderato apprezzamento dell’effettivo rilievo preventivo di misure derogatorie dell’ordinario trattamento penitenziario riferite al singolo detenuto”. Linguaggio involuto e parole soppesate una a una, ma dal significato abbastanza chiaro. Se si sottolinea l’opportunità di riconsiderare l’effettiva necessità del “carcere duro”, vuol dire che la conclusione non è scontata. Né ci si potrà rifugiare dietro il parere della magistratura dal momento che i pubblici ministeri - almeno quelli dell’Antiterrorismo nazionale, d’accordo con la Procura distrettuale di Torino ma non con la Procura generale che invece s’è espressa chiaramente per il mantenimento del “41 bis” - hanno lasciato aperte altre porte. Ma che cosa è cambiato rispetto allo scorso anno sul “caso Cospito”? Non la “pericolosità sociale” del detenuto, che anzi rimane “indubbia”. Né, secondo la Dna, vale granché la recente sentenza della Corte d’assise di Roma utilizzata dall’avvocato difensore Flavio Rossi Alberini per presentare al Guardasigilli l’istanza di revoca del “41 bis”. C’è stata piuttosto una “evoluzione del fenomeno anarchico-insurrezionalista, su scala nazionale e internazionale”, nella comunicazione ideologica e strategica, che va considerata per stabilire se i messaggi lanciati dal presunto capo siano così rilevanti e decisivi al punto da sigillarlo al “carcere duro”. La nuova realtà “appare orientata verso una decisa moltiplicazione dei documenti e degli strumenti di elaborazione ideologica e dei canali decisionali delle conseguenti iniziative violente”, scrive la Dna; dunque - par di capire - non è escludendo Cospito da questo circuito con le misure più drastiche che si può pensare di eliminare i pericoli esterni. Proprio alla luce dei “caratteri di complessità ed eterogeneità della comunicazione tra le diverse aree insurrezionaliste, emerse dall’aggiornata analisi della natura e dell’andamento dei fenomeni e delle condotte delittuose”. La bussola resta il carattere “preventivo”, e non meramente “afflittivo”, del “41 bis”; solo così la misura eccezionale introdotta nel 1992 dopo le stragi di mafia, e poi estesa anche ai militanti delle organizzazioni terroristiche, può essere applicata “in conformità ai precetti del magistero costituzionale”. Dentro questi confini - conclude il parere della Dna - e valutando l’evoluzione del fenomeno anarchico, “l’Autorità politica è chiamata ad operare per ricercare eventuale conferma della giustificazione logico-giuridica del mantenimento di misure preventive speciali nei confronti del detenuto Cospito Alfredo”. Tenendo presente l’alternativa: “La eventuale idoneità delle misure proprie del regime detentivo riferito al circuito della cosiddetta Alta sicurezza (As2) e delle ulteriori opportune forme di controllo proprie dell’ordinamento penitenziario e dell’attività investigativa”. Con le quali, chiosa il procuratore nazionale Melillo, si deve mirare a “contenere l’indubbia carica di pericolosità sociale” di Cospito. Ma non necessariamente attraverso il “41 bis”. La parola, ora, al ministro. Cospito può rifiutare l’alimentazione forzata. Neppure il 41 bis cancella i suoi diritti di Francesco Di Paola* Il Dubbio, 8 febbraio 2023 L’intenzione di Alfredo Cospito, l’anarchico attualmente detenuto presso il carcere di Opera a Milano e sottoposto al regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, espressa ai magistrati del Tribunale di Sorveglianza di voler continuare lo sciopero della fame che si protrae da diversi mesi e soprattutto il manifestato rifiuto dell’eventuale alimentazione forzata altro non sono che l’esercizio del diritto che gli attribuisce la legge 219 del 2017, che prevede la disciplina su “Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”. Con la entrata in vigore di quest’ultima, l’idratazione e l’alimentazione artificiale sono state annoverate nella categoria dei trattamenti sanitari e come tali sono legittimamente rifiutabili. Tutto ciò è declinazione del principio già riconosciuto dalla nostra Carta costituzionale, sin dal 1948, all’articolo 32 secondo il quale nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito senza il consenso del paziente, perfino se dovesse portare alla morte. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella dell’intera comunità di una Nazione o dei suoi rappresentanti democraticamente eletti, può sostituirsi nelle scelte sulla propria salute, anche se unanimemente condivise. Tutto ciò contribuisce ad evitare la formazione di quelle che il Professore Rodotà, nel suo libro Il diritto di avere diritti, chiamava le “non persone”, ossia quella categoria su cui sarebbero gli altri a decidere cosa sia meglio fare, in ragione del proprio sentire e della propria convinzione. Ciò non può non valere anche per chi, come Cospito, è sottoposto al regime carcerario “duro”, quindi sotto la “protezione” dello Stato che deve, sì e sempre, assicurare le cure necessarie al benessere del detenuto/ paziente ma che non può invadere la sua sfera di libera scelta. Inoltre, non vi sono ragioni affinché ad un individuo in queste condizioni si impedisca, eventualmente, di redigere le disposizioni anticipate di trattamento previste dall’articolo 4 comma 1 della legge sul cosiddetto testamento biologico (la 219 del 217) per cui “ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le Dat, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata ‘fiduciario’, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie”. È proprio in questo senso che devono essere intese anche le dichiarazioni manifestate finora ai medici con cui egli ha possibilità di colloquiare perché parti del rapporto terapeutico in cui deve formarsi il consenso informato del paziente. Per quanto parte della pubblica opinione ed alcuni commentatori televisivi considerino i detenuti sottoposti al regime del 41 bis soggetti (nemmeno persone) dei quali non aver riguardo perché mafiosi o terroristi, l’auspicio è che lo Stato, in tutte le sue articolazioni, non perda quel senso di civiltà che deve caratterizzarlo. La linea della fermezza da più parti invocata al cospetto della violenza non deve trasformarsi in quella tortura che verrebbe a realizzarsi con l’imposizione di quel trattamento sanitario (perché tale è la alimentazione forzata) nel timore delle drammatiche e inevitabili conseguenze della volontà liberamente espressa da Cospito. *Avvocato, membro di Giunta dell’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica Il caso Cospito e la scelta sulla morte in carcere di Massimo Lensi* Il Domani, 8 febbraio 2023 Il caso Cospito non è soltanto il caso di Alfredo Cospito. Ormai è qualcosa di più esteso. Ha sollevato, ad esempio, per la prima volta in Italia la questione dell’eutanasia in carcere. Se cioè un detenuto può decidere sugli aspetti conclusivi della propria vita biologica in conformità a eventi esterni, come una malattia terminale o la sofferenza psicologica irreversibile. In Italia non è ancora possibile, né fuori né dentro il carcere. L’Italia è il paese della sofferenza riparativa e penitenziale. In Belgio, una legge permette il suicidio assistito per cause di sofferenze psichiche insopportabili e incurabili, ma per Frank Van Den Bleeken, uno stupratore seriale in carcere da trent’anni per l’omicidio di una diciannovenne, e per altri quindici detenuti, non fu comunque possibile eseguire la procedura della “buona morte”. In Spagna, invece, alla richiesta del detenuto Marin Eugen Sabau, conosciuto come “il pistolero di Tarragona”, colpito da tetraplegia irreversibile, le corti dettero il via libera al suicidio assistito. In entrambi i paesi europei, il dibattito politico e giuridico è stato ampio, intenso e molto interessante e le frontiere mobili del diritto si sono aperte a nuove valutazioni. Frank Van Den Bleeken chiese di morire a causa di un disagio psichico ormai insopportabile, ma per i familiari della vittima la “pena di morte assistita” era troppo lieve per il delitto commesso, sostenendo così la tesi della sofferenza perpetua a vita. Temi affascinanti e terribili, pieni di contraddizioni e di una complessità straordinaria, che però consentirebbero, con un minimo di coraggio, di affrontare con un altro respiro il futuro del senso della pena. *Associazione Progetto Firenze Carceri e Cpt: Garante e Sapienza insieme per formazione e ricerca di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 febbraio 2023 Protocollo d’intesa per una serie di iniziative. Organizzare conferenze, seminari e tavole rotonde, promuovere corsi di formazione rivolti agli operatori delle forze di Polizia e degli Uffici di esecuzione penale esterna nonché studi e ricerche su tematiche di interesse comune. In sostanza parliamo dello sviluppo congiunto di iniziative di formazione e ricerca: è questo l’obiettivo principale del protocollo d’intesa siglato il mese scorso dal Garante nazionale delle persone private della libertà e dal Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università La Sapienza. Il Comitato di indirizzo e coordinamento delle attività sarà composto, per il Garante nazionale, dal dottor Giovanni Suriano, e per il Dipartimento di Economia e Diritto, dalla professoressa Silvia Fedeli. Il protocollo d’intesa parte da un dato interessante sul numero di strutture dove le persone vengono private della loro libertà di fatto e di diritto. Rende noto che in Italia sono presenti 190 istituti penitenziari per adulti, 17 istituti penali per minorenni e diverse strutture di Comunità che operano in convenzione con il Dipartimento per la giustizia minorile, 33 residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), 10 centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) e 4 Hotspot, 1278 camere di sicurezza agibili gestiti dalle diverse forze di polizia, 10 reparti di medicina protetta, 96 strutture ospedaliere con 152 stanze di degenza protette e un numero imprecisato di strutture residenziali socio - assistenziali per persone disabili o anziane. Il protocollo d’intesa, costituisce obiettivo comune delle parti (Garante nazionale e università La Sapienza) il pieno rispetto delle norme nazionali e delle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’ltalia, con particolare riferimento a quelle relative alle persone private della libertà personale. Il loro obiettivo è la ricerca scientifica, nonché la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, in linea con il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo e I’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, di cui all’articolo 35 della Costituzione. Altro comune obiettivo - si apprende nel protocollo d’intesa siglato - è la promozione di un sistema integrato di diffusione della conoscenza e di opportunità formative destinate agli operatori penitenziari che operano negli Istituti penitenziari o nelle strutture di esecuzione penale esterna e presso i Cpr e gli Hotspot e che tale sistema appare strategico per garantire il diritto alla formazione e alla conoscenza. Ma c’è anche la ricerca scientifica e la diffusione dei risultati nella materia dei diritti umani; nella prospettiva del reinserimento, e altresì strategica la massima diffusione della valenza sociale della realtà penitenziaria e della formazione di una cultura dei diritti. Il protocollo sottolinea che la valorizzazione dei percorsi di formazione professionale risulta determinante nella prospettiva della rieducazione del condannato, secondo quanto stabilito dall’articolo 27 comma 3 della Costituzione. “Pertanto - si legge nell’accordo siglato - si reputa opportuno avviare una proficua collaborazione tra il Dipartimento e il Garante nazionale al fine di valorizzare e accrescere l’efficacia delle rispettive politiche di conoscenza, ricerca scientifica, formazione e promozione dei diritti fondamentali delle persone soggette a privazione o limitazione della libertà personale, di diritto o di fatto, e di prevenire atti di violazione di tali diritti”. Il Dipartimento dell’Università La Sapienza si impegna a favorire con ogni necessaria iniziativa il consolidamento delle conoscenze relative alle tematiche di interesse comune; coinvolgere gli Istituti penitenziari, gli Uffici di esecuzione penale esterna, i Cpr, le Rems, le strutture residenziali socio sanitarie assistenziali per persone disabili o anziane, le strutture ospedaliere con reparti e stanze di medicina protetta Forze di Polizia e i vari soggetti del territorio coinvolti nella formazione e ricerca; monitorare, attraverso le valutazioni provenienti dai vari utenti coinvolti, l’efficacia delle singole attività svolte e favorire iniziative di studio e ricerca di interesse comune. Il cinema e il teatro possono salvare il carcere di Franco Corleone Il Manifesto, 8 febbraio 2023 Il 26 e 27 gennaio sono stato coinvolto in due eventi eccezionali: la presentazione a Volterra del progetto di un teatro nel carcere di Volterra (dove da trentacinque anni opera Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza) ad opera dell’arch. Mario Cucinella e a Roma nella Sala Troisi la proiezione in anteprima del film “I nostri ieri” di Andrea Papini, ambientato in un carcere. Il regista ha tenuto a precisare che non assistiamo a “un film scientifico sulla struttura carceraria, non era questo lo scopo”, ma il carcere, come evoca il titolo, rappresenta “un pretesto per parlare del rapporto con la nostra memoria e il vero protagonista è il tempo”. Non è questa ovviamente la sede per una recensione critica del film. Mi limito a dire che la visione di una storia così complessa provoca forti emozioni anche per la bravura degli attori e delle attrici: mi auguro che il film abbia il successo che merita nelle sale e che successivamente sia proiettato nelle carceri, agli operatori e ai detenuti, per favorire la riflessione sul senso della pena. Anche perché la crisi del carcere e la riforma necessaria che invece tarda (col rischio di chiusura della speranza), rendono il tema di grande attualità. E non casualmente assieme a Peppino Mazzotta e Maria Roveran, due dei protagonisti/e del racconto, sono stati invitati Lucia Castellano, dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria e io stesso con una lunga storia di impegno su giustizia e carcere e attualmente garante dei diritti dei detenuti a Udine. Ha fatto bene Castellano a sottolineare nel film il percorso di consapevolezza di se stessi: “Da operatrice penitenziaria - ha detto- spero che si trasmetta a tutti gli spettatori l’idea che il carcere non può bastare a se stesso; seppure entrare in carcere è sempre molto complicato, e però bisogna farlo, perché la vita delle persone che stanno dentro non è una vita cancellata o sospesa”. Da anni, con ostinazione, denuncio il fatto che il carcere si caratterizza come una discarica sociale, costituita da poveri, soggetti marginali, stranieri, consumatori di sostanze illegali o piccoli spacciatori. Una umanità con pene brevi da espiare e con la difficoltà di costruire percorsi di reintegrazione nella società per la mancanza di opportunità all’esterno, di elementi essenziali come il lavoro e la casa. Al contrario, il carcere dovrebbe essere riservato solo a chi compie gravi reati contro la persona. In altre parole, la prigione dovrebbe essere destinata ai cattivi, per far emergere responsabilità, elaborare la ricostruzione del passato, proiettarsi nel futuro: il tutto nello spirito dell’articolo 27 della Costituzione, che prescrive che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sulla scia del pensiero di Cesare Beccaria e di Aldo Moro. Il film ha il merito di mettere in luce la retorica della riabilitazione degli ultimi affidata alla galera invece che al welfare e la difficoltà della concretizzazione di progetti di giustizia riparativa, dell’incontro tra vittima e carnefice nei casi di delitti di sangue. Scrivo questa nota nei giorni della bufera sul caso Cospito, il cui sciopero della fame contro il carcere duro è definito polemicamente come un ricatto, bloccando così ogni possibile iniziativa di dialogo. L’Italia non può seguire la strada della Turchia che lascia morire i prigionieri politici in digiuno, se non mettendo in gioco la democrazia e il senso dell’umanità. Certo, il grande problema è la dubbia costituzionalità del regime duro del 41bis e dell’ergastolo ostativo, tante volte sotto il giudizio della Corte Costituzionale Forse solo l’arte, il cinema e il teatro (o i libri come “L’università di Rebibbia” di Goliarda Sapienza) possono far capire che cosa è la detenzione e salvare i valori della ragione contro un’idea di pena parente della vendetta. Il riassuntino di via Arenula non chiude il caso Donzelli di Andrea Colombo Il Manifesto, 8 febbraio 2023 Ai parlamentari che hanno chiesto gli atti solo una sintesi di tre pagine. “Atti non secretati, che potevano leggere tutti i parlamentari”: l’autodifesa di Donzelli era stata immediata. Delmastro aveva confermato con un po’ di prudente raziocinio in più: “Avrei raccontato il contenuto di quelle carte non secretate a qualunque parlamentare me lo avesse chiesto”. Il ministero ha benedetto la loro versione: “Non risultano apposizioni formali di segretezza”. Ma per i parlamentari che hanno chiesto di leggere proprio la scheda sintetica di quei colloqui nel carcere di Sassari preparata dai Nic, la secretazione evidentemente c’è. O forse non figurano tra i parlamentari dei quali parla Donzelli. Riccardo Magi di +Europa, Angelo Bonelli, il leader dei Verdi che col suo esposto ha messo in moto l’indagine della procura di Roma, e Marco Grimaldi, di Asv, quel rapporto non lo hanno potuto leggere. Gli è arrivato in compenso un riassunto di tre paginette: la 49, la 53 e la 54. Però, ha spiegato la capo di gabinetto di via Arenula, “epurate dai dati sensibili dei detenuti e degli operanti”. Così l’incidente non si chiude e non si risolve perché il Pd non molla: “Si può chiudere solo con le dimissioni di Delmastro”, ripete Provenzano. Perché le mozioni del M5S e del Pds-Asv che chiedono al governo di revocare la carica ci sono, convergeranno e andranno discusse. Ma soprattutto perché nei salti mortali di via Arenula è impossibile non intravedere il tentativo di salvare a ogni costo Delmastro. Non si chiude neppure per la procura di Roma, che nei giorni scorsi ha ascoltato, in quanto persone informate dei fatti il capo del Dap Russo, l’ex capo del Gom della penitenziaria D’Amico e il suo successore Zaccariello, poi ha aperto un fascicolo. È ancora a carico di ignoti ma con una fattispecie di reato per la prima volta precisa: rivelazione di segreto d’ufficio. La faccenda è invece chiusa, anzi non si è mai aperta, per Giorgia Meloni. Lo ribadisce a volontà lei stessa, in un punto stampa improvvisato all’uscita della Prefettura di Milano, dopo un vertice sulla sicurezza con il prefetto e il ministro Piantedosi. La premier è giuliva: l’operazione sicurezza partita dalle stazioni di Roma, Milano e Napoli con il coinvolgimento di tutte le forze dell’ordine coordinate sta andando a gonfie vele. Dal 16 gennaio sono state controllate oltre 40mila persone: “Comincia un lavoro quotidiano e molto serio che possa tornare a far percepire il valore della sicurezza”. Le domande sono tutte sul caso che tiene banco, quello dei due scavezzacolli. L’operazione “stazioni sicure” passa in secondo piano ed è un errore perché di solito proprio dalle stazioni partono le offensive nella guerra contro i poveri dichiarata da molti governi e 40mila controlli in 3 settimane qualche inquietudine dovrebbero destarla. Sul caso Delmastro-Donzelli, la premier non ha nulla da aggiungere. Tutt’alpiù rincara: “Non penso che ci sia bisogno di dimissioni. La procura fa il suo lavoro. Il ministero della Giustizia ha detto più volte che quei documenti non erano coperti da segreto e anzi erano a conoscenza di buona parte della stampa”. Che problema c’è? Il problema è che alcune testate avevano sì parlato dei colloqui ma non del contenuto degli stessi e la reticenza nel mostrare ai parlamentari quei “documenti non secretati” dipende probabilmente proprio dall’imbarazzante precisione dei colloqui riferiti nei particolari da Donzelli. Certo Giorgia non apprezza lo stile adoperato dai suoi fedelissimi ma non sono i primi e la stessa delicatezza è stata adoperata nei suoi confronti. Non si pensi però che la fretta di archiviare il caso denoti preoccupazione. La premier è rilassata, scherza quando le chiedono dei malumori di Berlusconi. Figurarsi, “i dibattiti nelle maggioranze sono normali” ma il clima, parola sua, è idilliaco, opposto a quello che raccontano i soliti giornali. Tanta tranquillità si spiega facilmente: per un’opinione pubblica condizionata dai media e da decenni di ossessione securitaria condivisa da tutte le forze politiche la faccenda è già definita, senza bisogno di indagare oltre. Se qualcuno è da biasimare è chi va a trovare i galeotti del 41 bis e addirittura rivolge la parola ai mafiosi. Neanche fossero esseri umani! Caso Donzelli-Delmastro, la procura indaga per rivelazione di segreto d’ufficio di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 8 febbraio 2023 L’inchiesta non è più a modello 45, ma è stato iscritto un reato ma a carico di ignoti. Meloni: “Non c’è bisogno dimissioni. Stato non scende patti con mafia o anarchici”. Rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio. La procura apre un fascicolo sul caso del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e del vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli. L’inchiesta non è più a modello 45, ma è stato iscritto un reato. La rivelazione appunto, ma a carico di ignoti. La vicenda è quella in cui è protagonista Donzelli. Il deputato di Fratelli d’Italia alcuni giorni fa è intervenuto alla Camera sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito. Il parlamentare ha definito l’anarchico “influencer del 41 bis” e ha accusato la sinistra di “stare con i terroristi” riferendosi alla visita del 12 gennaio di quattro deputati dem a Cospito e l’atteggiamento del partito di minor fermezza dinnanzi alla conferma del 41 bis. Il deputato nell’attaccare la sinistra ha citato colloqui in carcere avvenuti tra Cospito e boss della mafia. Le prove di questi colloqui secondo il Pd sarebbero in alcune intercettazioni trascritte in documenti riservati e non a disposizione dei parlamentari. Per questo il Partito Democratico ha chiesto le dimissioni di Donzelli. Meloni, non c’è bisogno dimissioni - “Non penso ci sia bisogno delle dimissioni” degli esponenti di Fratelli d’Italia Donzelli e Delmastro”, ha detto la premier Giorgia Meloni a margine della riunione di oggi in Prefettura a Milano. “La procura fa il suo lavoro - aggiunge - e il ministero della Giustizia ha più volte detto che non erano documenti coperti da segreto. E mi pare che queste informazioni sensibili fossero già presenti suoi quotidiani”. Motivo per cui “non ho ragione di dire che ciò che sta sulla stampa non possa andare in Parlamento”. “Lo Stato non può scendere a patti con chi lo minaccia, questo vale per la mafia ieri e per gli anarchici oggi” ha aggiunto Meloni. Capo Dap sentito in Procura Roma su parole Donzelli - Primi testi ascoltati in procura a Roma a seguito dell’esposto presentato da Bonelli. Nei giorni scorsi sono stati ascoltati, come persone informate sui fatti, il capo del Dap, Giovanni Russo, l’ex direttore del Gruppo operativo mobile (Gom) della penitenziaria, Mauro D’Amico e l’attuale capo, Augusto Zaccariello. “Informazioni inaccessibili”. E il ministero su Donzelli smentisce il Guardasigilli di Grazia Longo La Stampa, 8 febbraio 2023 La Procura di Roma ipotizza il reato di violazione e utilizzazione di segreto d’ufficio. Bonelli attacca: “A me sono stati negati gli atti perché riservati. Nordio è confuso”. È destinata a crescere l’inchiesta della Procura di Roma sulle rivelazioni, in Parlamento, da parte del vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli, di Fdi, in merito alle conversazioni tra l’anarchico Alfredo Cospito e alcuni boss rinchiusi come lui al 41 bis nel carcere di Sassari. Quelle notizie, contenute in una relazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), sono state comunicate a Donzelli dal suo compagno di partito e coinquilino Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia con delega proprio al Dap. Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Paolo Ielo puntano a verificare, come anticipato da La Stampa venerdì scorso, se in questo passaggio e diffusione di informazioni sia stato commessa “violazione e utilizzazione del segreto d’ufficio”. Questa è infatti l’ipotesi di reato su cui si sta investigando. Un illecito penale che prevede una pena da 6 mesi a tre anni di reclusione. Si lavora per ricostruire tutti i vari step che hanno portato all’intervento di Donzelli. A questo scopo, nei giorni scorsi, sono stati interrogati in procura, in qualità di persone informate sui fatti, il capo del Dap Giovanni Russo, l’ex capo del Gruppo operativo mobile (Gom) della polizia penitenziaria, Mauro D’Amico e l’attuale direttore, Augusto Zaccariello. Dal loro racconto dei fatti è emerso che il Gom aveva comunicato al Dap i colloqui captati, nel senso di ascoltati ma non intercettati, tra Cospito e alcuni boss mafiosi. E che Delmastro ha chiesto, più di una volta, al direttore del Dap di poter ricevere il documento con il dettaglio di quelle conversazioni. I magistrati sono intervenuti dopo l’esposto del deputato dei Verdi e co-portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli. Che ora annuncia l’intenzione di integrare quella denuncia con un’altra. Il motivo? La definizione di “atti inaccessibili” in merito proprio a quelle conversazioni. “Ho chiesto espressamente sia al ministro della Giustizia Carlo Nordio sia al direttore del Dap Russo di avere quei documenti - spiega - ma stamattina (ieri per chi legge, ndr) il Gabinetto del ministro mi ha consegnato solo lo stenografato dell’intervento di Donzelli in Parlamento. E per giustificare il rifiuto di darmi tutte le 54 pagine sono stati citate due norme: l’articolo 24 della legge 241 del ‘90 e il Decreto ministeriale 115 del 25 gennaio 1996. Ebbene il primo attiene all’inaccessibilità degli atti in quanto riservati e così anche il secondo, che riguarda il regolamento del Dap. E allora mi faccio una domanda: ma se quelle conversazioni sono inaccessibili per me, come ha potuto Donzelli divulgarle alla Camera senza incorrere nella violazione e utilizzazione del segreto d’ufficio? Consegnerò la relazione che ho ottenuto dal ministero della Giustizia in procura”. Intanto i carabinieri della polizia giudiziaria coordinati dall’aggiunto Ielo venerdì mattina si sono recati in via Arenula e hanno acquisito tutta la documentazione del Dap sul caso. Gli accertamenti puntano a definire i meccanismi tecnici con i quali si svolge l’attività di monitoraggio dei detenuti al 41 bis, oltre a ricostruire la dinamica dei fatti oggetto del fascicolo per violazione e utilizzazione del segreto d’ufficio. Giovedì scorso La Stampa aveva già reso nota la questione della riservatezza degli atti trasmessi da Delmastro a Donzelli e poi da questi diffuse in Parlamento perché secondo il Dap si trattava di informazioni “non divulgabili e cedibili a terzi, nonostante non fossero secretati”. Il ministro Carlo Nordio aveva provveduto a spegnere le polemiche con una nota che accennava a informazioni “non coperte dal segreto e di divulgazione limitata”. E Angelo Bonelli incalza: “Cambiano le parole ma non la sostanza. Non è di segreto di Stato che stiamo parlando in questo caso, bensì di violazione del segreto di ufficio, che è il reato contestato dalla Procura della Repubblica di Roma sulla base di un mio esposto. Perché il ministero fa confusione tra segreto di Stato e segreto d’ufficio, compiendo un errore così grossolano? Forse il ministro deve trovare una soluzione politica al disastro compiuto da Donzelli e Delmastro?”. Il bicchiere della cronaca e la tempesta politica di Pino Corrias Vanity Fair, 8 febbraio 2023 Un anarchico detenuto che digiuna e sembra che l’italia intera vada in tilt. È la nuova specialità del governo: trasformare ogni bicchiere della cronaca in una tempesta politica. È successo con la fesseria dell’allarme rave party, che il nostro ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha tramutato in una emergenza nazionale, anche se solo per qualche ora, prima di dedicarsi a modificare i salvataggi degli immigrati-straccioni in pubbliche crociere lungo le coste italiane, per godersi, in privato, il piacere di viverle all’asciutto. Poi è toccato alla guerra lampo sul Pos, la scatola per i pagamenti digitali, trasformata in una battaglia di libertà, anche se era, più modestamente, la cara, vecchia rivendicazione del contante per la piccola evasione quotidiana. Stavolta tocca al “pericolo anarchici” che in queste ore infiamma il governo, scuote l’opposizione, terremota i giornali. Intasa la tv talk. Riempie le trincee di garantisti e di giustizialisti, che si danno battaglia, anche se tutti distantissimi dalla svalvolata biografia del detenuto in oggetto, Alfredo Cospito, 55 anni, anarchico di Pescara, rimasto congelato in una bolla d’aria del Novecento italiano, che aveva il tritolo e le gambizzazioni guerrigliere incorporate. Per due di quei delitti, il ferimento di un dirigente d’azienda e un attentato fallito a una caserma dei carabinieri, Cospito è stato condannato, nel 2012, a un totale di 30 anni di galera. Da allora si dichiara prigioniero politico e rivendica i reati a nome suo e a quello del Fai, la Federazione anarchica informale, che è galassia inafferrabile, pulviscolare, in lotta contro le democrazie occidentali che per loro sono sistemi di governo dove si fabbricano le peggiori ingiustizie sociali. Cospito contesta il regime di detenzione a cui è sottoposto, inasprito dal 41-bis, che vuol dire isolamento totale, 22 ore al giorno in cella chiusa, un solo colloquio al mese, varato negli anni delle stragi mafiose, per impedire contatti tra i boss arrestati e le rispettive organizzazioni criminali. Il digiuno del detenuto dura da 100 giorni e passa. Nessuno dell’amministrazione penitenziaria e pochissimi della politica se ne sono occupati fino a quando il digiuno ha messo in pericolo la sua vita, infiammato qualche piazza, alimentato le proteste dei garantisti vista la pesantezza della pena e il regime del 41 bis che in molti considerano incostituzionale perché sigilla il detenuto, anziché “tendere alla sua rieducazione” come vorrebbe ogni buona legislazione, compresa la nostra, dai tempi di Cesare Beccaria in poi. Ogni ingranaggio si è messo in moto per complicare, invece che risolvere, la sorte del detenuto. Lo avrebbe dovuto fare per tempo la magistratura di sorveglianza. Oppure la normale politica di un normale governo. Che invece preferisce convertire le tensioni in (finte) emergenze, attaccare le opposizioni che balbettano, flettere tutti i muscoli identitari. Per poi ammirarsi nello specchio della solita propaganda illuminata dalla fiamma tricolore. Il potere della magistratura. Ha ragione Cassese di Alberto Cisterna Il Riformista, 8 febbraio 2023 Si tratta di una questione strutturale. La magistratura inquirente ha usato l’azione penale in maniera funzionale diventando un’aristocrazia ideologica e di potere capace di resistere a ogni cambiamento. L’articolo di Sabino Cassese di pochi giorni or sono (“Qualche numero”, Il Corriere della sera, 27 gennaio) contiene un’analisi in larga misura condivisibile dello stato della giustizia nel nostro Paese. Tra cifre snocciolate e proposte mirate per porre rimedio alla crisi profonda del servizio giustizia, l’illustre studioso non manca di elevare il livello del confronto su un piano che, a oggi, è rimasto latente, quasi nascosto nell’antagonismo pur aspro delle tifoserie. Resta, infatti, sempre in ombra quali siano i veri connotati, per così dire, l’identità, il nome e cognome degli epigoni dei due fronti che si danno battaglia. Cassese ne offre una descrizione a spanne, ma che certo contiene una buona dose di verità: “Rispetto all’immagine tradizionale del magistrato appartato, silenzioso, che parla con le sentenze, rispettato nella società, l’attuale immagine pubblica del magistrato (quale si evince dal comportamento di quelli più chiassosi) è molto diversa: loquace, battagliero, onnipresente, sindacalizzato, circondato da crescente sfiducia”. Non ci sono i nomi, ma insomma tutti hanno presente all’incirca di chi si stia parlando; sono le vittime collaterali della riforma di legge posta a tutela della presunzione d’innocenza che ha praticamente ammutolito i procuratori e costretto i più riottosi a prendere a sportellate leggi, ministri, ex ministri, dispensando pagelle e opinioni a ruota libera, per continuare ad avere un qualche strapuntino mediatico. La legge tutela la presunzione d’innocenza dei cittadini, ma non sanziona le sgrammaticature mediatiche a largo raggio. Sin qui, in verità, si potrebbe dire nulla di nuovo. Il problema è noto e di non facile soluzione poiché occorre mediare tra il riserbo e la continenza pretesi dalla funzione giudiziaria - in applicazione del precetto costituzionale che impone a qualunque pubblico dipendente “disciplina e onore” (articolo 54 Costituzione) - e la libertà di manifestazione del pensiero che compete ai magistrati come a qualunque altro cittadino. Persino prefigurare norme disciplinari è complesso in questa materia in cui la partecipazione al dibattito civile su temi generali costituisce anche esercizio del dovere di ciascun lavoratore di concorrere “al progresso materiale o spirituale della società”. Questo non vuole dire che la toga di turno possa prendere a randellate qualunque malcapitato reo, ai suoi occhi, di attentare all’autonomia o all’indipendenza della magistratura sol perché pretende la separazione delle carriere o vuole limitate le intercettazioni o critica l’ergastolo ostativo. Insomma, ci vuole un punto di equilibrio che, al momento, la corporazione non sa imporsi e la politica non sa neppure dove cercare. Avrà ecceduto il ministro Nordio nell’affermare che alcuni procuratori condizionano l’agenda parlamentare, ma non si può stare a braccia conserte nel sentire dispensati quarti di nobiltà antimafia o patenti di incompetenza, se non peggio, da questo o quel magistrato, in servizio o in quiescenza. Cassese ha presente il problema e ha ben diritto di inserirlo tra i “numeri” che minano l’efficienza e la credibilità del sistema giudiziario di cui ha detto il vicepresidente del Csm nel suo discorso di insediamento ricordando il martire Rosario Livatino. Eppure, nell’analisi di Cassese, c’è un punto di evidente novità, messo in chiusura delle proprie considerazioni, quasi fosse banalmente cascato tra le righe di una riflessione che sembrava complessivamente scivolare su altri versanti: “l’affermarsi di magistrati combattenti, organizzati in associazioni che ritengono l’ordine giudiziario un corpo separato dotato di autogoverno, salvo partecipare all’attività legislativa e amministrativa, e quindi scavalcare la separazione dei poteri, ha finito per creare una politicizzazione endogena del corpo”. Il tema della “politicizzazione endogena” è scottante, urticante, provocatorio. Un calcio negli stinchi. Ma è anche un invito ad affondare il bisturi in una postura ideologica della magistratura italiana che appare ormai acquisita, consustanziale, divenuta congenita in settori non marginali delle toghe. Lenin, Bakunin, Marcuse, come noto, si sono impegnati a lungo nel cogliere limiti e prospettive della cosiddetta “aristocrazia operaia” ossia di quel gruppo di lavoratori che, per un motivo o per l’altro, si trovano ai vertici del proletariato, godendo così di una situazione di superiorità e di privilegio rispetto agli altri. La categoria politica potrebbe servire a gettare una luce, almeno in parte, sulla condizione politica, istituzionale, persino psicologica della magistratura italiana. Concepita dai padri della Costituzione come un insieme di operai, come una classe di funzionari senza gerarchia e senza subordinazione, addetti paritariamente alla giurisdizione (articolo 107:”I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”), la magistratura ha finito per ricevere e farsi dare un assetto ordinamentale che troppe volte collide con il progetto di una “isocrazia” di eguali, ciascuno dei quali esercita la funzione in piena autonomia e indipendenza e senza controlli esterni. Il problema, soprattutto dalla riforma del 2006 in poi, è particolarmente avvertito negli uffici di Procura che, come noto, censiscono al proprio interno molti tra i “più chiassosi” di cui parla Cassese e ove i condizionamenti sono innegabili e vanno dalle indagini che attingono al potere economico e politico alle prescrizioni d’impiego della polizia giudiziaria, dalla destinazione dei fascicoli più delicati alla costituzione, dopo il 1993, delle oligarchie che si occupano di mafia e terrorismo nei più importanti uffici del paese. Una realtà complessa, competitiva, a volte opaca, malmostosa come dimostrano anche vicende recenti e non solo. E’ evidente che la materiale separazione delle carriere che già connota la magistratura italiana dal 2006 a oggi, in cui i passaggi di funzioni da requirente a giudicante e viceversa sono pochissimi, abbia portato al formarsi di una “aristocrazia operaia” che ha una propria ideologia e che ha generato la propensione politica endogena di cui parla Cassese. L’esercizio dell’azione penale - a stento e in minima parte circoscritto dalla riforma Cartabia - è uno strumento politico per sua definizione, tant’è che in molte democrazie liberali il pubblico ministero ricade comunque nel perimetro della responsabilità dell’esecutivo o è addirittura elettivo. Decenni di sostanziale discrezionalità nell’individuazione delle indagini da svolgere e dei soggetti da sottoporre a investigazioni ha impresso nel codice genetico del potere inquirente stimmate di “politicizzazione” che è difficile rimuovere. A questa discrezionalità di fatto si è associata l’elaborazione, inevitabile e conseguenziale, di politiche criminali che rendono ancora più autorevole e sofisticato l’intervento della “aristocrazia operaia” su questi temi con una capacità di annichilire la gran parte degli oppositori adoperando argomentazioni non certo banali o marginali. Il lungo scontro, ad esempio, tra il Ros dei Carabinieri e alcune Procure in anni passati ha radici profonde in questa disparità di sensibilità e di vedute, in questa insofferenza delle toghe verso progetti investigativi elaborati nelle strutture di élite delle forze di polizia e non negoziati con i procuratori che intravedevano, nell’affermarsi di queste inedite progettualità inquirenti, il rischio di essere retrocessi a meri “avvocati della polizia”. Una stratificazione e una costruzione sapienziale quella dei magistrati inquirenti, edificata su una cultura politica e tecnica di livello, che ha generato una “egemonia” difficile da contendere, soprattutto da parte di una politica in gran parte inadeguata e sprovvista di una visione così complessiva e globale del sistema repressivo e giudiziale. Ecco, perché, “in cauda venenum” le parole conclusive di Cassese dischiudono le praterie di un dibattito che, a oggi, manca di una compiuta riflessione e che, certo, non può esaurirsi in poche righe. Tuttavia è necessario comprendere che malamente si accusa questa parte di magistratura militante e combattente di essere prevenuta, accanita, inaffidabile istituzionalmente. Certo ci sarà e, soprattutto, ci sarà pure stato un manipolo di farabutti, ma la questione appare molto più radicale e affonda nel tessuto connettivo più profondo che caratterizza la magistratura inquirente italiana. Lasciata per anni, anzi voluta dalla politica, alla guida delle politiche criminali non poteva che adoperare l’azione penale nel senso più congruente rispetto ai risultati che doveva conseguire trasformandosi in tal modo - naturalmente e senza nessun preordinata scalata golpista - in un’aristocrazia ideologica e di potere capace di resistere a ogni rivoluzione e vocazionalmente refrattaria a ogni mutamento. Il regime ostativo torna di nuovo davanti alla Corte costituzionale di Valentina Stella Il Dubbio, 8 febbraio 2023 Oggi in Camera di consiglio due questioni relative alla semilibertà e all’affidamento in prova che potrebbero avere effetti anche sui detenuti condannati all’ergastolo. Oggi la Corte Costituzionale si riunirà in Camera di Consiglio per decidere, tra l’altro, su due questioni relative all’articolo 4- bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario che sarebbe in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Per entrambi i casi il relatore sarà Zanon. Le parti non si sono costituite. Precisiamo subito: non si tratta di detenuti condannati all’ergastolo ostativo ma le decisioni assunte avrebbero un effetto anche su di loro. La prima ordinanza è la 194/ 2021 che esamina l’articolo in questione nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’articolo 416- bis del codice penale e da quelli commessi per agevolare le associazioni della criminalità organizzata, possa essere concesso l’affidamento in prova al servizio sociale, anche in assenza di collaborazione con la giustizia allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. A sollevare la questione era stato il Tribunale di Sorveglianza di Perugia (estensore Gianfilippi) a settembre 2021. Il caso: R.C. era detenuto per associazione a delinquere volta al traffico di stupefacenti. Come sappiamo la sentenza 253/ 2019 della Consulta ha deciso che anche ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 - bis possano essere concessi permessi premio pure in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. In via consequenziale il Giudice delle leggi ha esteso tale possibilità anche ai condannati per reati diversi da quelli di mafia. Alla luce di un’ampia istruttoria il magistrato di sorveglianza concedeva a R. C. il richiesto permesso premio. Poi il recluso chiedeva di proseguire nel proprio percorso risocializzante mediante la concessione di una ampia misura alternativa, come l’affidamento in prova al servizio sociale, per dedicarsi ad una attività lavorativa presso un centro estetico. Purtroppo la legge non permette di concedere, nonostante la medesima istruttoria, tale beneficio. E quindi il Tribunale di Sorveglianza ha rimesso la questione alla Corte Costituzionale. Il secondo caso è l’ordinanza 62/ 2022 del magistrato di sorveglianza di Avellino del 16 febbraio 2022, concernente l’articolo 4- bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che possa essere concessa la semilibertà anche ai detenuti condannati che non abbiano prestato attività di collaborazione con la giustizia ma che abbiamo avuto accesso ai permessi premio. L.D.B. è stato condannato a dodici anni per reati legati alla droga. Il 4 febbraio 2022 presenta domanda di applicazione in via provvisoria ed urgente di semilibertà, prospettando a sostegno della misura la possibilità di svolgere attività lavorativa presso un’officina meccanica. “Pur in presenza di tutti i presupposti di merito, l’istanza andrebbe allo stato dichiarata inammissibile, visto che l’istante è ancora ristretto in espiazione della quota di pena relativa al reato ostativo e non ha mai prestato collaborazione; dunque non vi è altro modo per superare l’inammissibilità se non quello di sollevare la questione di legittimità costituzionale sull’input dato dal difensore”, scrive il magistrato perché, tra l’altro, “non è possibile interpretare estensivamente l’apertura operata per i permessi premio anche alla semilibertà”. Cosa potrebbe fare la Corte Costituzionale oggi? Probabilmente si appresta ad una decisione interlocutoria e a rinviare gli atti al tribunale e al magistrato di sorveglianza. Sarebbe la scelta più plausibile perché si tratta di valutare l’ambito di applicazione e gli eventuali dubbi di costituzionalità della nuova normativa, predisposta dal Governo Meloni. Ricalcherebbe quanto già fatto nel caso di Salvatore Pezzino quando a novembre ha restituito gli atti alla prima sezione penale di Cassazione. Tuttavia, se nel frattempo il condannato avesse scontato la pena (come nel primo caso) e quindi non gli si potesse più applicare la normativa impugnata, verrebbe a mancare la rilevanza. Pertanto il giudice a quo non potrebbe ridiscutere la questione e tutto finirebbe su un binario morto. Se invece fosse ancora recluso (come pare per il secondo caso) il magistrato di sorveglianza potrebbe vedere se la nuova norma dà la possibilità di concedere il beneficio o potrebbe nuovamente rimettere gli atti alla Consulta. Corte di cassazione: 41 bis, costituzionale la competenza al ministero di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2023 Il 41 bis non equivale a una misura di prevenzione. E quindi la competenza del ministro della Giustizia, e non dell’autorità giudiziaria, nel disporne l’applicazione non può essere censurata. Tanto meno sul piano costituzionale. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 5363/2023 della Prima sezione penale, depositata ieri. La pronuncia interviene così su una materia tradizionalmente delicata, oggi ancora di più per lo scontro politico intorno al caso Cospito. La vicenda giudiziaria riguarda la sottoposizione al regime detentivo del 41 bis di un detenuto considerato il referente locale della cosca mafiosa insediata a Mazara del Vallo. La difesa, nel contestare l’applicazione della norma restrittiva, aveva tra l’altro messo in evidenza l’analogia tra la misura in questione e quelle di prevenzione personale. Illegittimo sarebbe quindi, sul piano costituzionale, assegnare la competenza sull’applicazione al ministro, espressione del potere politico, e non alla magistratura. La Cassazione, tuttavia, torna a ricordare la fondamentale distinzione tra l’istituto del 41 bis e la misura di prevenzione in senso stretto. Sotto il profilo della giustificazione, l’articolo 41 bis attesta la ricorrenza di condizioni oggettive di emergenza e sicurezza pubbliche ed altre soggettive che riguardano il detenuto, che derivano dalla condanna per reati di particolare gravità e allarme sociale, oltre che la persistente esistenza e operatività dell’organizzazione di appartenenza. Le misure di prevenzione, invece, vengono imposte per fronteggiare il rischio della commissione di reati nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per effetto, non tanto e non solo di misure cautelari, ma dello stile di vita. Anche negli effetti va considerato che la sospensione delle regole detentive ordinarie riguarda l’esecuzione della pena nei confronti di quei detenuti che fanno temere la capacità di conservare collegamenti con le organizzazioni criminali di appartenenza e di trasmettere ordini e direttive fuori dal carcere. Con la conseguenza di condurre a una limitazione dei diritti soggettivi e non alla loro soppressione. Non esiste poi, avverte la sentenza, un automatismo tra condanna per alcuni tipi di reato e regime carcerario, ma la decisione viene presa selettivamente con riferimento a detenuti con particolari indici di pericolosità. Lo stesso diritto di difesa appare assicurato dalla possibilità di impugnare il provvedimento del ministro della Giustizia sia in sede di prima irrogazione sia poi per eventuali e successive conferme. E sempre sul 41 bis, la Cassazione accoglie il ricorso del ministero della Giustizia e nega al detenuto la possibilità di accesso anche al canale televisivo Tv8. La Corte, con la sentenza 5361/2023, sempre della Prima sezione penale, smentisce quindi il provvedimento del tribunale di sorveglianza che aveva aperto alla visione di un canale non espressamente inserito tra quelli presi in considerazione dalla circolare del Dap del 2 ottobre 2017. Per il tribunale, il divieto era in conflitto con il diritto all’informazione del detenuto e non esistevano riscontri sull’impiego del canale televisivo per veicolare messaggi all’esterno né per ricevere informazioni dall’organizzazione criminale di riferimento. Perla Cassazione, invece, non esiste una lesione di diritti soggettivi e neppure un fatto attuale e grave che legittimi l’intervento del magistrato di sorveglianza. La valutazione, piuttosto, va fatta tenendo presente il “pacchetto” informativo comunque a disposizione anche di chi è sottoposto al 41 bis, che risulta, nella lettura della Corte, più che sufficiente anche sul piano della disponibilità di altri canali televisivi. Roma. Nordio dai detenuti di Rebibbia. “Le carceri obsolete vanno cedute” di Francesco De Remigis Il Giornale, 8 febbraio 2023 Il guardasigilli loda i progetti di recupero: “Pure in cella può rinascere la cultura del lavoro. Ora strutture nuove”. Politica e arte entrano dentro un penitenziario nello stesso giorno. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in visita ieri al carcere romano di Rebibbia, ha lanciato un messaggio forte ai detenuti, partendo dall’ala che ospita i laboratori di sartoria, i corsi da orafo, la falegnameria, l’ala dedicata alla digitalizzazione e alle attività di call center per l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. A Rebibbia esistono infatti varie convenzioni per il reinserimento lavorativo dei detenuti, e una di queste è la gestione delle prenotazioni sanitarie. Alcuni di quelli che frequentano i percorsi di artigianato hanno regalato a Nordio un timbro con le sue iniziali. Uno anche per il capo del Dap, Giovanni Russo. Un inno alla cultura del lavoro che per il ministro “può essere coltivata” anche dietro le sbarre, da vivere come “strada primaria” per la rieducazione e per la consapevolezza del reato. Partendo poi dagli spunti del film di Riccardo Milani, “Grazie Ragazzi”, girato con Antonio Albanese nei penitenziari di Rebibbia e Velletri, e proiettato ieri nel Teatro Libero del carcere, la direttrice della casa circondariale davanti al Guardasigilli parla di “gente che sa di aver sbagliato che chiede nuove possibilità”. Rebibbia punta cioè a “restituire alla società al termine della pena un cittadino migliore di quello ricevuto”, dice Rosella Santoro. Carcere non solo come “luogo di detenzione sicuro”, ma pure come “strumento di recupero”. Il film allarga il dibattito al ministro Nordio, che ipotizza “regolamenti nuovi per favorire la differenziazione tra chi si è macchiato di un delitto di una certa gravità e chi invece di un reato meno grave”. Lo dice, forse, anche consapevole del fatto che pure la compagna dell’anarchico Alfredo Cospito, Anna Beniamino, è reclusa a Rebibbia. Poi traccia la rotta: “Orientarsi verso il potenziamento di queste strutture moderne, quelle antiche sono incompatibili con la vita in comune”. E infine la proposta: “Si potrebbero cedere le carceri obsolete, che sono anche in zone centrali, ma ci sono difficoltà quasi insormontabili, come la sdemanializzazione. E poi c’è la difficoltà di costruire carceri nuove”. A Rebibbia sono convinti che un risultato si ottenga con attività formative e sportive (“Avversiamo l’ozio e il non fare”). E se il film è testimonianza di quanto l’arte possa essere fattore di libertà, il Teatro Libero ne è la prova. Nordio viene interpellato anche da un detenuto: scontare la pena, certo. Ma in un penitenziario che non può essere solo afflittivo. I numeri del Teatro Libero di Rebibbia parlano da soli: coinvolti oltre 600 carcerati da inizio attività, con la conseguenza positiva che il tasso di recidiva fra i detenuti impegnati sul palcoscenico, ma pure dietro le quinte, si è drasticamente ridotto. Il potere dell’arte, da un lato; quello esercitato dalla politica, dall’altro. Certo, recitare in carcere non vuol dire fare ciò che si vuole: né libertà al 100%. “Il garantismo ha un duplice volto, garantire la presunzione di innocenza e non lasciare impunito il delitto”, sostiene Nordio. Ma chi ha sbagliato prova a riscattarsi. Albanese nel film dice che recita “Aspettando Godot con dei detenuti che non sanno neanche chi è Beckett”. E forse è questo il bello. “Ho visto cose straordinarie qui dentro, come in altre carceri italiane - chiosa Nordio - Qui fanno anche la torrefazione del caffè, quando sono entrato io in magistratura sarebbe stato inimmaginabile. Non servono solo ad ammazzare il tempo, ma a prepararle a un lavoro, coniugando ciò che si impara in carcere con ciò che si può fare una volta espiata la pena. No al marchio di infamia a vita”. Forlì. Carcere, stop alle lezioni scolastiche mentre il centro medico è in grave sotto-organico forlitoday.it, 8 febbraio 2023 Impossibile prendere la licenza media o la maturità da scuola superiore nel carcere di Forlì. Per la prima volta, infatti, questi servizi scolastici per i detenuti non sono stati attivati. Lo rileva, nel suo monitoraggio annuale dei penitenziari regionali l’Associazione Antigone Emilia Romagna. Tra le altre problematiche - oltre alla struttura vetusta, alloggiata in edifici dove il più vecchio risale all’Ottocento - si registrano livelli crescenti di conflittualità attribuiti all’ ingresso di detenuti problematici (diagnosi psichiatriche e disturbi comportamentali). “Uno stato di grave crisi è riferito al pesante sotto-organico di medici, anche in considerazione del fatto che Forlì è l’unico istituto romagnolo dotato di un centro clinico strutturato, con copertura medica h24”, rileva Antigone. Sussistono poi problematiche anche le carenze di organico della polizia penitenziaria, aggravate da tassi di malattia molto elevati degli agenti. “Il tema della carenza di personale sanitario è spesso emerso nel corso dell’attività di monitoraggio svolta nel corso del 2022 e rispetto al quale appare necessario individuare soluzioni che permettano di garantire una adeguata copertura sanitaria ed un incremento in particolare del personale medico, considerato peraltro l’alto numero di persone attualmente recluse”, continua Antigone. Le visite effettuate dall’Associazione nel corso dell’anno appena terminato hanno riguardato la totalità delle carceri per adulti presenti in regione ovvero le case circondariali di Bologna, Ferrara, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Forlì, Ravenna e Rimini, la casa di reclusione di Parma e la casa di lavoro di Castelfranco Emilia oltre che l’Istituto penale per i minorenni di Bologna. In riferimento alle carceri per adulti, l’Emilia Romagna si conferma essere una delle regioni, quantomeno del nord Italia, con il più alto tasso di presenze: al 31 dicembre 2022 erano 3407 i detenuti presenti in regione; tra questi 153 donne distribuite nelle 5 sezioni femminili presenti a Bologna, Modena, Piacenza, Reggio Emilia e Forlì, e 1660 stranieri. In merito alla posizione giuridica ben 2561 detenuti erano condannati in via definitiva. Il carcere di Forlì, visitato a novembre, ospita 162 detenuti (su 180 posti), di cui 122 definitivi. “Oltre alle sezioni comuni, ci sono una piccola e ben funzionante sezione femminile (20 posti), la sezione Oasi (protetti) e la sezione Orizzonti (dimittendi e autorizzati al lavoro esterno)”, è l’identikit tracciato da Antigone. Le carceri della regione, spesso con elevati livelli di sovraffollamento, presentano diversi profili di criticità dovuti anche ai diversi circuiti presenti all’interno dei singoli istituti, che comportano evidenti conseguenze anche dal punto di vista dell’accesso alle offerte trattamentali se si considera, peraltro, l’alto numero di persone condannate in via definitiva (2561) in rapporto al numero di funzionari giuridico-pedagogici, spesso in sotto organico. Le maggiori problematiche si riscontrano all’interno delle sezioni di media sicurezza ove, peraltro, è ristretta la maggior parte della popolazione detenuta. È all’interno di queste che si rilevano spesso condizioni strutturali peggiori, soprattutto all’interno delle celle che appaiono in molti degli istituti visitati caratterizzati da mobilio vecchio, sprovviste di docce all’interno, prive di acqua calda. Bari. Servizi anagrafici nel carcere, il Comune attiva lo sportello per i detenuti baritoday.it, 8 febbraio 2023 L’ufficio, disciplinato da una convenzione siglata fra la Casa Circondariale e l’amministrazione locale, permetterà il rilascio di carte d’identità elettroniche, certificazioni dello stato civile, celebrazioni di riti civili, dichiarazioni di nascita e riconoscimenti di paternità. Attivato questa mattina lo sportello dei Servizi anagrafici all’interno della Casa circondariale di Bari. Il servizio, disciplinato dalla convezione siglata tra il Comune e la Casa circondariale, punta a favorire l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile delle persone private della libertà personale. Da una precedente disamina delle esigenze della popolazione detenuta condotta dalla direzione dell’Istituto, è emersa infatti la necessità di assicurare un’adeguata e tempestiva fruizione dei servizi comunali di anagrafe e di stato civile in favore dei soggetti destinatari di misure restrittive della libertà individuale, con particolare riferimento ai servizi anagrafici (emissione di certificati, rilascio autentiche di firme su dichiarazioni sostitutive, emissione di carte di identità) e ai servizi di stato civile (celebrazione di riti civili, dichiarazioni di nascita, riconoscimento di paternità). L’amministrazione comunale ha risposto alla richiesta dell’Istituto penitenziario, realizzando uno sportello demografico dedicato ai detenuti all’interno della casa circondariale, con aperture a cadenza periodica da destinare in via esclusiva allo svolgimento delle funzioni istituzionali di anagrafe e di stato civile. Il Comune garantirà l’espletamento dei seguenti servizi anagrafici e di stato civile: rilascio certificazione anagrafica e di stato civile, autentiche di firme su dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà, rilascio carte di identità elettroniche, iscrizione e cancellazioni anagrafiche, celebrazioni di riti civili, dichiarazioni di nascita, riconoscimento di paternità. Lo sportello si compone di una postazione ministeriale per l’emissione delle carte di identità elettroniche e una postazione di lavoro, di proprietà comunale, per l’erogazione di tutti gli altri servizi. Entrambe saranno collegate alla rete comunale per l’accesso al Sistema gestionale comunale e alla banca dati anagrafica, con un sistema di connettività mobile, attraverso l’utilizzo di una Sim dati fornita dal Comune. L’Istituto penitenziario metterà a disposizione del Comune un ufficio da destinare, in via esclusiva, allo svolgimento delle funzioni istituzionali di anagrafe e di stato civile nei giorni concordati. Lo sportello demografico sarà attivo ogni due mesi, il primo martedì del mese, dalle ore 9 alle 13. Per il rilascio di carta di identità elettronica e di certificazione anagrafica con bollo l’Istituto dovrà preventivamente trasmettere, a mezzo email, le generalità del richiedente al Comune, affinché questi provveda a generare un ‘avviso di pagamento’. Sarà cura dell’Istituto consegnare la relativa ricevuta di pagamento all’ufficiale del Comune nel giorno stabilito per l’apertura dello sportello. “Le persone private della libertà continuano ad avere dei diritti e il nostro obiettivo è stato consentire che almeno in questo ambito, questi potessero essere fruiti in pratica e non solo in teoria, penso in particolare al riconoscimento di figli o al semplice rilascio di un certificato o di una carta d’identità - ha dichiarato il vice sindaco di Bari, Eugenio Di Sciascio - L’avvio dello sportello rappresenta inoltre un modo sinergico di collaborare tra istituzioni che porta anche a maggiore efficienza e risparmio di tempo e risorse”. “Questo risultato ci riempie di gioia, perché è indicatore di un’attenzione da parte del Comune non solo per i detenuti, ma per tutto il mondo penitenziario, che è parte della città e ne rappresenta le criticità e il disagio - ha commentato la direttrice dell’Istituto, Valeria Pirè - Finalmente gli sforzi del Comune e della Casa circondariale di Bari hanno condotto al risultato concreto e tangibile di questo dialogo e di questa presa in carico della società esterna”. “Oggi ho avuto modo di salutare e ringraziare i funzionari del Comune che, contestualmente all’avvio dell’appena allestito sportello, hanno già cominciato ad erogare i primi servizi, con le pratiche per il rilascio di quattro carte di identità - ha concluso il Garante dei diritti dei detenuti, Piero Rossi - Naturalmente si è trattato di un gesto simbolico, di benvenuto e di presa d’atto che il servizio ha un significato importantissimo per gli utenti, ma anche per la città e per l’amministrazione penitenziaria. I detenuti spesso vivono una condizione di isolamento che esorbita quanto spetta loro nel corso della espiazione della pena. Questo è uno di quei giorni in cui una comunità si ricompatta, recuperando l’orgoglio di occuparsi dei propri cittadini più marginalizzati. Ora occorrerà “esportare” questo modello in tutto il territorio regionale”. Roma. “Quei poliziotti mi hanno buttato giù dalla finestra”. Hasib conferma le accuse in procura di Marco Carta La Repubblica, 8 febbraio 2023 A riferire della testimonianza resa dal trentaseienne ai pm lo scorso 2 febbraio, è il parlamentare Riccardo Magi (+Europa) che nei mesi scorsi aveva presentato una interrogazione e l’esposto ai magistrati. “Sono stato colpito e picchiato da quei poliziotti, poi sono stato scaraventato dalla finestra”. È il racconto reso in procura da Hasib Omerovic, il 36enne rom sordomuto, rimasto per molto tempo in coma dopo essere precipitato dal balcone della sua abitazione di Primavalle nel corso di una perquisizione della polizia. A confermarlo è il parlamentare Riccardo Magi (+Europa) in una nota. Dimesso dall’ospedale - “Martedì 31 gennaio Hasib, precipitato dalla propria abitazione di Primavalle lo scorso 25 luglio, è stato dimesso dal Policlinico “Agostino Gemelli” dopo più di 6 mesi di degenza. Dopo essere stato ricoverato in pericolo di vita presso il reparto di terapia intensiva del nosocomio, gradualmente e dopo numerosi interventi, ha visto migliorare le sue condizioni fisiche per essere alla fine trasferito presso il reparto di riabilitazione ad alta intensità. - aggiunge parlamentare - Attualmente Hasib, che non ha riportato danni cerebrali, è in buone condizioni fisiche, deambula autonomamente e si è ricongiunto con il proprio nucleo familiare presso l’alloggio di edilizia residenziale pubblica nella periferia est della Capitale. Nei prossimi mesi continuerà presso strutture specialistiche una terapia riabilitativa che interesserà le due braccia, gravemente compromesse dall’evento traumatico. In questi mesi, ad eccezioni dei giorni successivi al fatto, Hasib ha sempre mantenuto vivi i ricordi di quanto avvenuto la mattina del 25 luglio, quando gli agenti della Polizia di Stato hanno fatto irruzione nella propria abitazione”. Le accuse ai poliziotti ripetute in Procura - “Il pomeriggio di giovedì 2 febbraio, convocato dalla Procura - prosegue Riccardo Magi - Hasib è stato ascoltato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal Sostituto Procuratore Stefano Luciani. Con loro due interpreti della lingua dei segni. Nel corso dell’interrogatorio, durato 3 ore, Hasib ha ricostruito nel dettaglio quanto avvenuto il 25 luglio presso la propria abitazione, confermando quanto riportato nell’esposto promosso dai propri genitori all’indomani della vicenda. Ha affermato di essere stato colpito e picchiato dagli agenti, e di essere poi stato scaraventato dalla finestra”. “La famiglia Omerovic, fiduciosa nel lavoro svolto dal Procura - conclude il parlamentare - attende con serenità il compimento delle indagini, nella ferma convinzione che la verità che sta emergendo dal lavoro investigativo, potrà finalmente consentire di individuare le dovute responsabilità. Il parlamentare Riccardo Magi, l’Associazione 21 luglio, gli avvocati difensori e l’attivista Patrizia Allaria continueranno a supportare la famiglia nella ricerca di verità e giustizia per Hasib”. Torino. “Il rap in carcere per riflettere sulla libertà” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 8 febbraio 2023 A volte il destino ti sorprende con una gentilezza. È successo durante la registrazione di “Pelle tosta”, il videoclip che il rapper Kento ha realizzato lo scorso autunno con i detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno e che sarà presentato dall’artista domani al Circolo dei lettori, assieme al libro Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile. “Stavamo registrando le tracce soliste”, racconta Kento. “Un detenuto era di fronte al microfono quando sono venuti a comunicargli la scarcerazione. Prima ha voluto finire la sua parte. Nel video c’è la scena di lui che esce e viene abbracciato dalla madre”. Da quanti anni insegna rap nelle carceri? “Una dozzina. Di solito tengo i laboratori nelle carceri minorili, alle Vallette è stata la mia prima esperienza con adulti, un progetto del Circolo dei lettori. Siamo stati insieme una settimana, abbiamo scritto una canzone e girato il video. Un mese dopo ero di nuovo a Torino, al Ferrante Aporti. Anche lì sta nascendo qualcosa di bello, un piccolo documentario. D’altronde a Torino il genius loci del rap è forte. È stata la prima capitale del genere”. Bisogna “insegnare” il rap ai detenuti? “No, lo conoscono tutti bene. Ma ognuno lo lega al suo vissuto. Una volta un ragazzo mi ha detto di amare la “old school” e mi ha citato Eminem. Che non è “vecchia scuola”, però il suo film 8 Mile è uscito nel 2002, quando il ragazzo non era ancora nato. Ci sta”. Che storie raccontano i giovani detenuti? “Ci sono tutti i temi del rap, anche i più stereotipati: soldi, donne, gangsta. Ma quasi sempre il detenuto che ha l’aria più “criminale” di nascosto poi mi chiede di scrivere una canzone per la fidanzata”. Cosa prova quando esce dall’altra parte delle “barre”? “Un sospiro di sollievo. Il carcere è un posto brutto, è fatto per esserlo, non è un hotel a cinque stelle. Poi mi prende il magone. Quando incontro i ragazzi, dico loro: il vostro corpo è chiuso, ma la vostra mente? Cosa fate per liberarla? Quando esco mi chiedo: e noi, che ci riteniamo liberi, cosa facciamo?”. C’è un momento particolare in cui ha visto la mente dei suoi allievi liberarsi e volare via? “A Cagliari nel 2021 cancellarono un laboratorio perché un ragazzo era morto all’improvviso. Dopo una settimana mi richiamano: gli altri detenuti volevano farlo a tutti i costi, per scrivere una canzone per il compagno morto. Nella prima strofa gli parlano, nella seconda lui risponde. Si intitola Ballata per Alessandro, adesso il testo è scritto sul muro esterno del carcere”. Milano. Come il rap aiuta i giovani a sopravvivere nei penitenziari minorili di Mariarosa Porcelli linkiesta.it, 8 febbraio 2023 La musica è al centro di alcuni progetti che puntano a riabilitare socialmente i ragazzi detenuti in Italia, come quello di Don Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano. Secondo l’articolo 27 della Costituzione italiana la pena deve tendere alla rieducazione dei detenuti. Ma cosa si intende per rieducazione? Per i minori, forse, si può fare un passo indietro e parlare di “educazione”, data l’età. Dei giovani detenuti negli Istituti penitenziari minorili sappiamo che sono poco più di 300, quasi tutti maschi e molti di origine straniera. I progetti di enti e cooperative per portare la cultura in carcere sono troppo pochi e faticano a dare gli strumenti sufficienti per una formazione. “Nelle carceri ormai c’è un progetto educativo datato e inadeguato” pensa don Claudio Burgio, una delle voci che abbiamo interpellato per guidarci in un piccolo viaggio attraverso le barre del sistema carcerario dei minori nel nostro paese. Barre che sono quelle delle celle ma anche il modo in cui vengono chiamati i versi della musica rap, una delle chiavi più adatte a decifrare le personalità complesse dei ragazzi nelle carceri. Kayrós, il tempo di don Burgio. Don Burgio è cappellano dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano, insieme a don Gino Rigoldi. Parlando dell’associazione Kayrós, che ha fondato nel 2020 per occuparsi di accoglienza e servizi educativi per adolescenti in difficoltà, ci dice che “Il tempo può essere chronos e trascorrere senza che accada nulla, come spesso avviene in carcere, oppure kayrós, in cui rielaborare il passato per gettare le basi di un progetto di vita”. Da Kayrós sono passati alcuni ragazzi di Seven 7oo, il collettivo di San Siro a Milano di cui fanno parte trapper come Neima Eizza e Rondodasosa, saliti alla ribalta delle cronache recenti per problemi con la giustizia. Ma ci è passato anche Baby Gang, il trapper Zaccaria Mouhib di Lecco, finito in carcere per il coinvolgimento con Simba La Rue in una sparatoria avvenuta nel 2022 a Milano. “Sono andato a trovare Zaccaria in carcere da poco” ci dice don Burgio. “Lui sa di sbagliare ma sente troppa rabbia e un accanimento nei suoi confronti. Anche perché non gli permettono di fare concerti”. Don Claudio spiega che nel nichilismo di questi ragazzi, persi tra mille fragilità, la musica è uno strumento privilegiato per rapportarsi con loro. “Educa perché verbalizza emozioni ed esperienze. Le parole di Baby Gang sono un codice d’accesso alla sua interiorità. Certo nel Beccaria è impensabile che vengano fuori canzoni come le sue, per via della censura. A Kayrós siamo stati contestati perché abbiamo preso la strada di lasciar fare musica senza filtri ma sarebbe interessante, invece, far partire già dal carcere la rielaborazione dei vissuti”. La libertà di espressione creativa è fondamentale per don Burgio, che ha un passato da direttore della Cappella musicale del Duomo di Milano. “Tanti generi musicali sono nati come contestazione, anche il jazz. La musica porta a galla temi importanti come la discriminazione delle seconde generazioni”. Ci sono tanti ragazzi di origine straniera, ribadisce il cappellano, spesso le famiglie non si sono integrate e vivono una crisi d’identità. Poi c’è invece chi sta prendendo una strada più artistica, come Neima Ezza (nato in Marocco, ndr), che nelle sue nuove canzoni parla d’amore. “Lui è uno che si mette dalla parte dei deboli e lancia temi sull’amicizia. Ai suoi live sembra di essere all’oratorio”. L’educazione rap di Amir Issaa - “Mio padre è stato detenuto a lungo fin da quando avevo 3 anni, per me lavorare nelle carceri è come una missione” esordisce Amir Issaa nella nostra chiacchierata. Rapper romano di origine egiziana, autore di libri tra cui Educazione rap, da una decina d’anni si dedica ai laboratori con studenti e detenuti. Dosando gli interventi in carcere, però, perché ogni volta “si riapre la ferita”, ammette. Il progetto a cui partecipa adesso si chiama “Ti Leggo / Il club del rap”, ideato da Loredana Lucchetti e Massimo Bray per Fondazione Treccani Cultura. Finora è arrivato negli Istituti penitenziari minorili di Airola, in provincia di Benevento, e di Catanzaro. Agli occhi dei giovani detenuti Amir Issaa fa la differenza anche per le doppie radici. “Essere figlio di un detenuto emigrato dall’Egitto colpisce subito. Tanti ragazzi che incontro sono nati in altri paesi e spesso ascoltano Baby Gang, Simba La Rue, Neima Ezza per le origini straniere. Ma anche perché le storie che cantano non sono inventate. Ormai siamo come gli Stati Uniti dove la delinquenza questi rapper l’hanno vissuta davvero, in casa o al contrario perché una casa non ce l’hanno. In una situazione così difficile, va detto che quando arrivano in carcere, della cultura non gli interessa niente”. Invece la cultura può essere una strada di libertà, ci spiega Loredana Lucchetti, responsabile del progetto, nato all’interno del più ampio “Ti Leggo” con l’obiettivo di allargare la base sociale della lettura. E aggiunge che “purtroppo il limite dei laboratori è la brevità e il fatto che possono saltare, essendo considerati un premio. Per questo stiamo provando, con il ministero della Giustizia, a renderli strutturali e sistematici”. Anche per Issaa la cultura attraverso il rap può essere una via d’uscita. “A livello narrativo perché i ragazzi tirano fuori ciò che sentono facendo anche un lavoro accurato sulla lingua. Per ottenere rime belle alla Tupac bisogna leggere molto. Così gli si ribalta l’immaginario e capiscono che il rapper bravo non è ignorante”. E secondo, poi, perché la musica può diventare un lavoro, anche se non è detto che non si possa ricadere nella delinquenza. “Ma io non giudico. Le storie che ci sono dietro sono complesse e il mio compito è di entrare lì in punta di piedi e mostrare che le vite possono svoltare, come è successo alla mia”. Le Barre di Kento - Il rapper di Reggio Calabria Francesco “Kento” Carlo ha portato il suo primo laboratorio in un istituto di Roma circa 12 anni fa e non si è più fermato. “Dei 17 istituti presenti in Italia, ne ho girati una decina” ci dice. Sulla base di queste esperienze sono nati videoclip, documentari, serie tv, competizioni di poetry slam, e il libro del 2021 Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile pubblicato da Minimum Fax. I suoi laboratori sono focalizzati sulla scrittura e sulle competizioni di poesia performativa, meglio note come poetry slam. “La poesia performativa fatta come una sfida assomiglia molto alle battle del rap” ci fa notare. “È un percorso interessante e divertente che piace ai ragazzi anche perché possono essere loro i giudici”. L’obiettivo di Kento non è forgiare rapper professionisti, anche se a volte se può accadere. “Il rap è un mezzo e non un fine. Punto a stimolare la capacità espressiva dei ragazzi, farli confrontare con se stessi e portarli a mettere la penna sul foglio per domandarsi: cosa voglio raccontare di me? È questa la parte difficile perché invece il rap lo conoscono già molto bene”. Kento ci spiega che ai ragazzi in carcere vengono dati dei lettori mp3 con un numero limitato di canzoni, visto che non ci sono Internet né Spotify. “A pensarci bene è quello che faceva la mia generazione negli anni novanta: ascoltare gli stessi pezzi allo sfinimento e con attenzione. Qualcuno di loro ha anche imparato l’italiano in questo modo”. I riferimenti dei giovani detenuti partono dallo street rap di Noyz Narcos e Chicoria per arrivare ai loro ex compagni di istituto che una volta liberi si sono messi a fare musica per davvero. “Poi c’è il neomelodico, altro riferimento importante che con il rap ha molto in comune perché entrambi possono definirsi folk contemporaneo, e sono legati ai temi dell’attualità con la stessa credibilità e immediatezza”. “Mia zia Ada e le Br. Una scelta d’amore, non di rivoluzione” di Giorgia Mecca Corriere di Torino, 8 febbraio 2023 Giuseppe Culicchia presenta il suo nuovo libro in cui racconta la storia della madre di Walter Alasia, il cugino brigatista morto in uno scontro a fuoco. “Se mio figlio si fosse fatto prete, sarei andata a messa tutte le domeniche”. Sorride in ogni foto che le è stata scattata prima del 1976 Ada Tibaldi; allegra, solare, golosissima, finiva sempre il cibo avanzato nei piatti degli altri, ricordi di una fame antica ma anche voglia di prendere a morsi la vita, innamorata del suo Walter. La Storia con la “s” maiuscola ha travolto prima uno poi l’altra, anzi, forse li ha travolti nello stesso momento, il 15 dicembre 1976 quando Walter Alasia, che avrà per sempre vent’anni, è stato ucciso dopo avere ucciso due poliziotti, Sergio Bazzega e Vittorio Padovani. Ada sarà costretta a sopportare il dolore più grande, sopravvivere alla morte di chi ha messo al mondo. La sua agonia durerà otto anni, la donna morirà a 52 anni di infarto. No, di crepacuore. Dopo aver raccontato la storia di suo cugino, il brigatista Walter Alasia, in “Il tempo di vivere con te”, Giuseppe Culicchia torna a raccontare la sua famiglia, sua zia Ada, con il romanzo “La bambina che non doveva piangere” (Mondadori). Lo scrittore torinese, che in questi giorni è sulla bocca di tutti, tra chi lo vorrebbe a dirigere il Circolo dei Lettori e chi il Salone del Libro, preferisce non commentare le voci - “Non ho niente da dire, non è davvero il momento” - ma parlare di cose concrete, il suo passato, cosa succede quando la Storia travolge le storie. “Il tempo di vivere con te” è il racconto di suo cugino Walter, dall’infanzia nelle campagne del Canavese alla morte a Sesto San Giovanni. Come mai ha deciso di ritornare su questa storia? “Dopo essermi dedicato a Walter volevo dedicarmi anche a mia zia Ada, per raccontare una donna segnata al di là del bene e del male dall’amore per il proprio figlio. Ada è presente fin dal mio primo romanzo, Tutti giù per terra. Allora non avevo gli strumenti, ma per il personaggio della Zia Carlotta mi sono ispirato a lei”. Ada è confidente e addirittura complice di suo figlio. Un giorno le capita di fare il palo a lui e Renato Curcio. Perché pensa che lo abbia fatto? “È una scelta che non mi stupisce. Mia zia e mio cugino erano una cosa sola, li univa un legame che non ho mai più trovato in nessun altro. Sicuramente avevano gli stessi ideali, ma la scelta di Ada di coprire Walter è stata una scelta di amore, non di rivoluzione”. Non le è mai capitato di pensare che se Ada lo avesse denunciato oggi sarebbero vivi entrambi? “Io sono costretto ad accettare ciò che è successo, perché questo è stato. Certo, quando Walter è stato ucciso non aveva ancora fatto molto all’interno delle Brigate Rosse, forse non avrebbe fatto molto carcere. Ma le cose, come sappiamo, sono andate diversamente”. Gad Lerner raccontando il funerale di suo cugino scrisse che Ada era distrutta e piena di dignità e che voleva dimostrare che suo figlio non era un mostro... “Molte persone pensano che il dolore di chi stava dalla parte sbagliata non abbia il diritto di essere espresso. Io invece volevo raccontare la vita di una donna che è morta perché per otto anni non ha fatto altro che pensare alla notte in cui suo figlio è morto. A volte mi chiamava al telefono per chiedermi di fare la voce di Walter, poco prima Nei ringraziamenti lei cita Giorgio Bazzega, il figlio del maresciallo ucciso da Alasia. Vi siete incontrati? “Sì. Giorgio aveva due anni quando suo padre è stato ucciso, non ha avuto una vita facile. Mi ha confessato di avere odiato Walter quando era adolescente, oggi non più. Oggi si occupa di giustizia riparativa, il nostro incontro è stato emozionante. Credo che per entrambi sia stata la chiusura di un cerchio”. Dopo ciò che è successo alla sua famiglia le è mai capitato di rifiutare la politica o addirittura odiare le ideologie che crea? “Dipende dai periodi. Negli anni Settanta la politica era ovunque. Io ho maturato l’idea che non esistono mostri, esistono persone che commettono atti mostruosi. Caino è nostro fratello”. La cultura costituzionale che ci manca per resistere alla regressione democratica di Donatella Stasio La Stampa, 8 febbraio 2023 Un film già visto in Ungheria e Polonia si ripete ora in Israele limitando l’alta Corte. Bisogna ripartire dalla formazione dei cittadini per evitare che la giustizia diventi una farsa. Quando cominceremo a prendere sul serio la Costituzione? E a fare i conti, seriamente, con quella “regressione democratica” che giorno dopo giorno, ormai da qualche decennio, fa scivolare vecchie e nuove democrazie verso forme di autoritarismo? Chiederselo è doveroso di fronte al crescente, persino ostentato, analfabetismo istituzionale e costituzionale, di cui però sembriamo accorgerci solo oggi. Non gli abbiamo dato peso, occupati come siamo a rincorrere il consenso, che siano like, follower, sondaggi, share, mercato. Sordi, ciechi e afasici, capaci al più di interlocuzioni di poche battute, spazi compresi, altrimenti non si capisce, non c’è tempo, troppo difficile, la pubblicità... Ecco allora esplodere il caso-Cospito, con il rischio di rimanere schiacciati dall’urlo fazioso dei Fratelli d’Italia, e di precipitare nella confusione, espropriati come siamo stati di ogni punto di riferimento, quelli sui quali le madri e i padri costituenti avevano costruito un mondo nuovo, una convivenza civile, un clima. Proprio così, un clima, senza il quale non riusciamo a trattarci da uguali, ci ricorda incessantemente Giuliano Amato; un luogo dove i diritti fondamentali si rispettano, perché solo così esistiamo come democrazia costituzionale. Questa è la nostra identità - purtroppo smarrita - di cui dobbiamo riappropriarci senza temere di essere additati tra “i nemici”, i “collusi” o, per dirla con Massimo Giannini, di essere “manganellati”, com’è capitato ad Armando Spataro e a Lucia Annunziata, per aver espresso opinioni critiche sul governo, in diretta Tv. E allora la domanda è: quanto coraggio ci vuole per stare dalla parte della Costituzione e per non gettare la spugna, sia quel che sia? Proprio in queste settimane assistiamo al tentativo del nuovo governo israeliano di Bibi Netanyahu di smantellare la Corte suprema. Un film già visto in Ungheria e Polonia. Anche in Israele si parla di una riforma della giustizia. Netanyahu vuole assoggettare la Corte al controllo politico attraverso una manovra in tre punti: abbassare l’età della pensione dei giudici per mandar via alcune figure scomode; stabilire che per dichiarare incostituzionale una legge occorre una maggioranza qualificata dei giudici della Corte; prevedere che il Parlamento possa sempre riapprovare una legge dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. Di fronte a questo progetto, decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a Tel Aviv ed è in atto una enorme mobilitazione di giuristi per spiegare alla gente comune che questa riforma stravolgerà le garanzie dei cittadini. A tutela di quelle garanzie ci sono appunto le Corti costituzionali e non vorremmo che anche in Italia la nostra cambiasse fisionomia. Preoccupazione giustificata dalla strategia riformatrice della maggioranza, che viaggia sempre più sui binari delle modifiche alla Costituzione: dalla giustizia all’autonomia differenziata, dalla forma di governo all’esecuzione della pena, sembra che alle destre stiano stretti gli abiti che la Carta ci chiede di indossare, soprattutto in tempi difficili e in particolare alle classi dirigenti. Sarà mica una questione di cultura? I Fratelli d’Italia, anche con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro - quello che ha passato al collega Giovanni Donzelli le carte del Dap sulle battute tra Cospito e i boss mafiosi, definite dal guardasigilli di “limitata divulgazione” per non vanificare, riteniamo, lo scopo del 41 bis eppure divulgate per motivi di lotta politica - propongono di riformare l’articolo 27 della Costituzione perché la funzione rieducativa della pena ostacolerebbe la sicurezza collettiva; sarebbe addirittura un “valore tiranno” rispetto alla prevenzione, ha sentenziato Delmastro, che fra l’altro fu il primo, all’epoca della “mattanza” dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, a solidarizzare con i poliziotti (il processo è in corso, e vede 105 imputati tra medici, funzionari del Dap, e agenti di polizia). Un manifesto ideologico della destra, garantista solo nel processo, guai dopo la condanna, va ripetendo nello scontro politico sull’ergastolo ostativo e sul 41 bis. Eppure, non risultano proposte di riforma di quello che, erroneamente ma non casualmente, viene chiamato il “carcere duro”, ovvero il regime eccezionale di detenzione introdotto dopo la strage di Capaci per impedire ai boss mafiosi di impartire ordini assassini dal carcere. Strumento eccezionale ma necessario, che però non giustifica ulteriori dilatazioni della “durezza” allo scopo di indurre a collaborare con la giustizia. Uno scopo, ahimè, sotterraneo se è vero quanto ha scritto su questo giornale uno dei “padri” del 41 bis, l’ex ministro Enzo Scotti: “Basta che ci dica quelle cose perché si aprano, se non le porte del carcere, almeno quelle che li separano dal mondo”. Voglio ricordare le parole scritte nel 2002 dall’allora presidente della Corte suprema di Israele Aharon Barak sulla famosa sentenza riguardante i limiti dei poteri della polizia negli interrogatori di presunti attentatori, ritenuti a conoscenza dei luoghi in cui erano state piazzate bombe pronte ad esplodere (ticking bombs). La polizia avrebbe potuto stressare l’interrogatorio fino a trasformarlo in una forma di tortura per salvare vite umane? Ovviamente, fortissima era la pressione dell’opinione pubblica per la sicurezza collettiva, anche se a scapito del diritto fondamentale all’incolumità personale dei presunti terroristi. “Mi considero un giudice sensibile a quello che è il suo ruolo in una democrazia - scrisse Barak. Prendo sul serio i compiti che mi sono imposti: gettare un ponte tra il diritto e la vita e proteggere la Costituzione e la democrazia. A dispetto delle critiche spesso ricevute, scese talora al piano degli attacchi personali e delle minacce di violenza da parte di estremisti, ho continuato a perseverare su questa strada per molti anni. Penso che, così facendo, sto servendo adeguatamente il mio ordinamento giuridico. Come giudici della Corte più elevata dobbiamo continuare nel nostro compito in accordo con la nostra coscienza. Noi, in quanto giudici, abbiamo una stella polare che ci guida, i valori e i principi fondamentali della democrazia costituzionale. Una grande responsabilità è posta sulle nostre spalle. Anche in tempi difficili dobbiamo rimanere fedeli a noi stessi. Siamo parti della società israeliana. I suoi problemi ci sono noti e viviamo la sua stessa storia. Siamo consapevoli dell’aspra realtà del terrorismo nella quale a volte siamo immersi. Nostra preoccupazione è che questa decisione pregiudichi la possibilità di trattare adeguatamente i terroristi e il terrorismo. Tuttavia, noi siamo pur sempre giudici. I nostri concittadini ci chiedono di agire secondo il diritto. Questa è la linea che ci siamo dati noi stessi. Quando sediamo in giudizio siamo sotto giudizio”. Ma che cosa accade se i concittadini o una maggioranza politica chiede di agire non secondo, ma contro il diritto? Che cosa succede se la Costituzione viene percepita non come garanzia ma come ostacolo? E se l’analfabetismo costituzionale fa ritenere legittima una soluzione contraria al diritto e alla Costituzione? Infine, che cosa accade se la politica aizza l’opinione pubblica contro i giudici che agiscono in modo diverso dai loro umori? In questi casi c’è solo una cosa che può salvare le Corti, i diritti e le democrazie costituzionali: la cultura. Solo la cultura costituzionale, con i suoi bilanciamenti, può fare da sostegno, da scudo e da argine, “il bisogno di vivere non nel regno della forza ma nel regno del diritto che regola la forza”, ha scritto Gustavo Zagrebelsky in Principi e voti nel 2005, chiedendosi se però esista un “partito della Costituzione” al quale rivolgersi con fiducia e sicurezza nei momenti difficili. Non esiste, purtroppo. Ecco perché bisogna ripartire dall’alfabetizzazione costituzionale, non solo per evitare - sulla scia di Ungheria, Polonia e Israele - che la nostra giustizia costituzionale diventi una farsa, una copertura della volontà del più forte; ma anche per respingere al mittente - chiunque esso sia - l’accusa di collusione con il “nemico” ogni volta che si difende coerentemente la cultura in cui affondano le radici dei nostri diritti e doveri, del nostro stare insieme. Quella cultura ha bisogno di essere irrorata, non intimidita e mortificata. Ha bisogno di voce e di voci. Il governo ha già tolto il reddito di cittadinanza di Chiara Saraceno La Stampa, 8 febbraio 2023 La legge di bilancio 2023, nell’annunciare la fine del Reddito di cittadinanza a partire dal 2024, quando verrà sostituito da una nuova misura tutta da definire, ha introdotto alcune modifiche sostanziali per il 2023. Le più importanti, che mutato i diritti e le obbligazioni dei beneficiari, sono tre. La prima è la riduzione a soli 7 mesi della durata del beneficio per tutti coloro, adulti, che non hanno tra i familiari un minorenne, una persona con una grave disabilità, un anziano ultra-sessantacinquenne, a prescindere dal fatto che, secondo la normativa vigente, siano indirizzati al patto per il lavoro o invece al patto per l’inclusione sociale. Un ultracinquantenne senza figli a carico, disoccupato di lungo periodo e senza realistiche chance di trovare un’occupazione regolare con remunerazione decente, attualmente inviato ai servizi sociali, a fine luglio perderà il sostegno che gli consente di pagarsi un affitto e di provvedere ai propri bisogni di base. La seconda modifica è l’eliminazione della possibilità di rifiutare anche una sola proposta di lavoro “congrua”, come se il problema fosse l’eccesso di rifiuti e non la scarsità e inadeguatezza delle offerte. La terza modifica è l’obbligo, per chi è tenuto al patto per il lavoro, a frequentare sei mesi intensivi di un corso di formazione, a partire dal primo di gennaio. Per i giovani fino ai 29 anni che non hanno il titolo della scuola secondaria di primo grado, a questo obbligo si aggiunge quello di frequentare, sempre dal primo gennaio, corsi che consentano di acquisirlo. Questi due obblighi formativi, a ben vedere, non riguardano solo i percettori del Rdc. Riguardano, di fatto, in primo luogo chi dovrebbe provvedere a renderli attuabili: centri per l’impiego in collaborazione con gli enti di formazione da un lato, ministero dell’Istruzione dall’altro. A tutt’oggi, tuttavia, nulla si è mosso su questo fronte. Non è stato neppure approvato il protocollo di intesa tra ministero del Lavoro e ministero dell’Istruzione che dovrebbe fornire il quadro organizzativo e regolativo necessario per individuare, organizzare e rendere disponibili su tutto il territorio nazionale i corsi per il conseguimento dell’obbligo scolastico, stante che le iscrizioni e la frequenza ai Cpa, Centri per la formazione degli adulti, seguono il calendario scolastico normale e non ci si può iscrivere a metà anno. È una questione annosa, che non riguarda solo i beneficiari del Rdc, che richiederebbe di ripensare alla formazione scolastica per gli adulti in una chiave più flessibile dal punto di vista del calendario, per intercettare la domanda formativa il più tempestivamente possibile, senza imporre lunghe attese che rischiano di far perdere la motivazione, quando non scoraggiare del tutto. Anche sul piano della formazione professionale, intensiva o meno, nulla è cambiato rispetto a prima, quando pochi erano coloro effettivamente coinvolti. Anche l’ambizioso programma di politiche attive del lavoro avviato con il Pnrr, il programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori, include solo una piccola frazione dei beneficiari del Rdc, che, per altro, si sono dimostrati i più difficilmente occupabili e bisognosi di un più lungo percorso formativo. Di questo passo, a fine luglio molti beneficiari di Rdc lo perderanno senza aver ricevuto neppure i sostegni e le risorse formative loro promesse. E anche coloro che, stante la presenza di minorenni, anziani, o persone con disabilità grave in famiglia, avranno ancora qualche mese di respiro, difficilmente avranno incrociato quelle misure di rafforzamento delle loro competenze e qualifiche professionali che sono necessarie, anche se non sempre sufficienti, per trovare una collocazione adeguata in un mercato del lavoro difficile. Prontissimo a mostrare la faccia arcigna con i poveri e a colpevolizzarli per la loro condizione, il governo si sta dimostrando incapace di dare seguito ai propri impegni nei loro confronti, per altro nel totale disinteresse dell’opposizione. Il leader dell’Onu: noi, in cammino verso sempre più guerra di Sabato Angieri Il Manifesto, 8 febbraio 2023 Monito del segretario generale all’Assemblea delle Nazioni unite: ho paura dell’annientamento nucleare, rischio più alto da decenni. “Le possibilità di ulteriore escalation e spargimento di sangue continuano a crescere. Temo che il mondo non stia camminando come un sonnambulo in una guerra più ampia, temo che lo stia facendo con gli occhi ben aperti”. Sono parole di Antonio Guterres, il segretario generale delle Nazioni unite. Di fronte all’Assemblea generale Guterres si è mostrato, forse per la prima volta in modo così esplicito, seriamente preoccupato. Il mondo “è al più alto rischio da decenni di una guerra nucleare”, ha sottolineato in un altro passaggio del suo discorso il capo dell’Onu, “un annientamento nucleare causato in modo accidentale o in modo deliberato”. L’allarme di Guterres non è rivolto solo all’Ucraina, ma sembra criticare in toto l’intero sistema costruito negli anni della Guerra fredda. “Dobbiamo porre fine alla minaccia rappresentata dalle 13mila armi nucleari immagazzinate negli arsenali di tutto il mondo”. Tuttavia, contestualizzando, è impossibile non pensare che sia Guterres sia i leader occidentali quando parlano di “minaccia nucleare” pensano alla Russia di Vladimir Putin. Dal canto suo il Cremlino continua ad accusare l’Ue e la Nato di essere responsabili dell’escalation e persino delle morti di civili. Senza armi Kiev non potrebbe rispondere e quindi noi non saremmo costretti a bombardare, sembra il senso di certe dichiarazioni ufficiali di Mosca. Ieri, in occasione della visita a sorpresa del ministro della difesa tedesco Boris Pistorius a Kiev, il ministro della difesa russo Sergej Shoigu ha aggiunto che l’operato dell’Occidente sta trascinando i gli Usa e i suoi alleati in un conflitto nel territorio russo e potrebbe portare a un livello imprevedibile di escalation. Intanto Pistorius e il suo omologo ucraino si facevano fotografare con un modellino di panzer, mentre il tedesco annunciava l’invio imminente di 100 Leopard 1 da diversi Paesi Ue. In ogni caso non è la prima volta che Shoigu minaccia. L’hanno già fatto in modo più esplicito il ministro degli esteri Lavrov e lo stesso Putin. Dov’è la novità? Ci sono alcuni elementi che sembrano spingere verso due alternative contrapposte: allargamento del conflitto o trattativa con Putin. I dati che citano diversi analisti, anche quelli più distanti dalle posizioni apocalittiche di certa informazione, tengono conto della riorganizzazione delle forze russe di stanza in Donbass, della loro avanzata verso gli obiettivi strategici della regione come Bakhmut (seppur “di pochi metri al giorno” come sostiene l’intelligence britannica), dell’arrivo di decine, forse centinaia, di migliaia di nuovi soldati al fronte e della prospettiva che la guerra si protragga ancora. Inoltre, ci sono i problemi interni al governo ucraino. Le inchieste sulla corruzione nel ministero della difesa hanno di fatto decapitato tutti i vertici del dicastero e si attendono a breve le dimissioni dell’attuale ministro Oleksiy Reznikov. Ma le insistenze della stampa, che cerca di capire perché Reznikov sarà allontanato, non piacciono al governo ucraino, tanto meno al presidente Zelensky che ieri, secondo Reuters, ha chiesto che si interrompano immediatamente le “voci o a qualsiasi tipo di pseudo-informazione” che mette a repentaglio l’unità del Paese nella guerra contro la Russia. Intanto il parlamento ucraino ha approvato la richiesta del presidente di nominare Vasyl Maliuk a capo dei servizi segreti ucraini, anche noti come Sbu. Secondo gli attivisti anti-corruzione ucraini, Maliuk è vicino al noto vice-capo di gabinetto di Zelensky, Oleh Tatarov che è stato accusato di corruzione nel 2020. Da allora, il suo caso è stato congelato, secondo alcuni addirittura insabbiato da alcuni personaggi influenti delle forze dell’ordine, anche perché si ritiene che Tatarov eserciti un’influenza significativa sulla maggior parte degli organi di polizia. Quasi contemporaneamente è stato nominato anche il nuovo ministro degli interni. Si tratta di Igor Klymenko, che prende il posto di Denys Monastyrskyi, deceduto a causa del misterioso schianto dell’elicottero dove viaggiava lo scorso mese a Brovary. Appelli ad aiutare la Siria isolata e sotto sanzioni di Michele Giorgio Il Manifesto, 8 febbraio 2023 Terremoto. L’Oms ricorda che il paese è in condizioni critiche dopo la guerra civile e l’epidemia di colera. Una dozzina gli Stati che si sono detti pronti ad aiutare Damasco. Usa e Ue soccorrono solo le aree a nord-ovest che non sono sotto il controllo di Bashar Assad. Venti uomini della Protezione civile libanese sono giunti ieri in Siria per partecipare alle operazioni di ricerca e salvataggio nelle aree devastate dal terremoto. Nelle prossime ore passeranno il confine anche 15 genieri dell’esercito del paese dei cedri. Ed è in viaggio una squadra della Croce Rossa su richiesta dei governi di Libano e Siria e in coordinamento con la Mezzaluna Rossa siriana. Il governo Mikati inoltre ha messo a disposizione l’aeroporto di Beirut e i porti di Beirut e Tripoli per ricevere aiuti umanitari destinati alla Siria. Le conseguenze devastanti del sisma hanno avuto il sopravvento sui rapporti “complessi” tra Damasco e Beirut. Il Libano fa parte di quei paesi - Russia, Iran, Bahrain, Emirati, Pakistan, Algeria, Mauritania, Sudan, Corea del nord, Giordania, Egitto e Tunisia - che si sono attivati per portare soccorsi alla Siria, a differenza di Stati uniti e Unione europea che escludono di poter cooperare con il governo siriano e garantiranno aiuti diretti solo alle regioni nordoccidentali non controllate da Damasco, come quella di Idlib che è in gran parte nelle mani di formazioni jihadiste e qaediste schierate contro le autorità centrali. Il terremoto non ha colpito solo il territorio siriano al confine con la Turchia. Popolazioni allo stremo e distruzioni enormi si registrano anche in altre zone della Siria. Ieri alti funzionari dell’Oms hanno lanciato l’allarme sull’emergenza umanitaria in cui si trova il paese a causa della guerra civile - che ha ucciso mezzo milione di persone e costretto circa la metà della popolazione ad abbandonare le proprie case - e della recente epidemia di colera. Secondo Adelheid Marschang, del dipartimento per le emergenze dell’Oms, la Turchia possiede la capacità di rispondere alla crisi mentre i principali bisogni umanitari nell’immediato e nel medio termine sono in Siria. “Questa è una crisi che va ad aggiungersi a molteplici crisi nella regione colpita” ha spiegato Marschang. “In tutta la Siria - ha aggiunto - le necessità sono cresciute dopo quasi 12 anni di crisi e i finanziamenti umanitari continuano a diminuire”. L’appello dell’Oms giunge dopo quello lanciato dalla Mezzaluna Rossa Araba Siriana (Mlrs) ai paesi occidentali affinché revochino le sanzioni economiche e forniscano aiuti. “I paesi dell’Ue devono revocare le sanzioni alla Siria. È giunto il momento dopo questo terremoto” ha esortato Khaled Haboubati, capo della Mlrs, rivolgendosi direttamente anche all’Agenzia Usa per lo sviluppo (USAid). Damasco attribuisce i suoi gravi problemi finanziari e la responsabilità della crisi umanitaria nel paese alle sanzioni occidentali imposte sulla scia del conflitto cominciato nel 2011. Sanzioni che sono state aggravate dal Caesar Act statunitense, entrato in vigore nel 2020, che paralizza buona parte dei rapporti economici e commerciali della Siria. E se è vero che il territorio siriano sotto il controllo del governo centrale già riceve aiuti attraverso le Nazioni unite, è altrettanto vero che le agenzie internazionali non hanno potuto sino ad oggi avviare la ricostruzione del paese per la netta opposizione degli Stati uniti e dell’Ue. Secondo i governi occidentali, il via libera a un’ampia ricostruzione internazionale della Siria rappresenterebbe un riconoscimento della vittoria militare del presidente Bashar Assad che lo porterebbe ad escludere una soluzione politica negoziata con l’opposizione. Calcoli politici e sanzioni che penalizzano solo la popolazione civile. Il terremoto aggrava la condizione di milioni di siriani già in miseria. L’Onu avverte che almeno 2,9 milioni di persone in Siria sono alla fame e che altri 12 milioni rischiano la stessa sorte. Il pugno duro occidentale inoltre lega in modo più stretto la Siria all’Iran che, poche ore dopo il terremoto, ha cominciato il ponte aereo con Damasco fornendo attrezzature e assistenza umanitaria. E lo stesso vale per la Russia, pronta ad aiutare il suo principale alleato in Medio oriente. Intanto l’ambasciatore siriano all’Onu, Bassam Sabbagh, ha assicurato al segretario generale Antonio Guterres che qualsiasi aiuto raggiungerà l’intera popolazione siriana. “Sospendiamo le sanzioni alla Siria già devastata dal conflitto” di Valerio Gigante Il Manifesto, 8 febbraio 2023 L’appello della Comunità di Sant’Egidio. “Riteniamo sia giunto il momento di sospendere le sanzioni per permettere ai soccorsi di giungere copiosi e il più rapidamente possibile, in aiuto alla popolazione stremata dalla guerra e dal sisma”: dopo il terremoto che ha devastato Turchia e Siria e che ha interessato anche le aree del Kurdistan settentrionale e occidentale si muove la Comunità di Sant’Egidio, il movimento cattolico che ha appena compiuto 55 anni (celebrati, stamattina, con una messa a S. Giovanni in Laterano, presieduta dal loro ecclesiastico più autorevole, il card. Matteo Zuppi, attuale presidente della Cei), definita “l’Onu di Trastevere” per il grande credito a livello internazionale, specialmente Oltreoceano, ottenuto negli anni e la sua “diplomazia parallela”, particolarmente attiva nell’area africana e medio orientale. La proposta è di sospendere le sanzioni internazionali che colpiscono da anni la Siria per favorire l’accesso umanitario urgente, via aerea e via terra: tanto più, scrive la comunità in una nota, che il sisma ha colpito una regione che è il teatro di una sanguinosa guerra che dura da più di 11 anni. “Siamo in contatto con la Chiesa latina di Siria e con tante famiglie siriane, tramite i profughi arrivati con i corridoi umanitari. Purtroppo alcuni hanno avuto notizia di aver perso dei parenti. È una situazione grave e angosciosa che colpisce il popolo siriano dove già la guerra aveva portato distruzioni enormi. È anche in corso un’epidemia di colera, e le strutture sanitarie del paese sono distrutte”. La comunità di Sant’Egidio - che si sta attivando attraverso le comunità cristiane presenti in Siria - si dice particolarmente preoccupata per i governatorati di Aleppo e Idlib in Siria, devastati dal conflitto e in cui giungono rari aiuti internazionali a causa delle sanzioni Le attuali sanzioni nei confronti della Siria sono state introdotte per la prima volta nel 2011 sia dagli Usa che dall’Ue (quest’ultima, a maggio 2022, le ha ulteriormente prorogate, almeno fino al primo giugno 2023) e sono dirette, oltre che ad Assad, alla sua famiglia, ai funzionari del governo e anche alle entità terze che lo sostengono come società, aziende, singoli imprenditori. Includono anche un embargo sulle importazioni di petrolio, restrizioni su alcuni investimenti, congelamento dei beni della banca centrale siriana detenuti nell’Ue e restrizioni al credito, ai finanziamenti, all’esportazione di attrezzature e tecnologie. Già nel 2020, durante la pandemia, la ong cattolica New Humanity lanciò un appello internazionale (sottoscritto anche da Romano Prodi), chiedendo la revoca dell’embargo, che aveva gravemente danneggiato la capacità della Siria di produrre e acquistare medicinali, attrezzature, pezzi di ricambio e software. A febbraio 2021, l’allora arcivescovo cattolico greco-melchita di Aleppo monsignor Jean-Clément Jeanbart (che, a seguito del terremoto, è stato estratto vivo dalle macerie della sua abitazione ed è attualmente ricoverato), denunciò, in una lettera all’agenzia di stampa dei vescovi italiani, il Sir, “le sanzioni e l’embargo che ci vengono inflitti e che colpiscono tutti gli abitanti, soffocando in particolare i meno fortunati che sono moltissimi. Sanzioni commerciali e finanziarie messe consapevolmente in atto per impedire la ricostruzione, la riabilitazione e la rinascita economica della Siria”. Afghanistan anno zero, alle donne i talebani hanno tolto tutto di Francesca d’Aloja Corriere della Sera, 8 febbraio 2023 Escluse da istruzione, lavoro, sport, e le passeggiate al parco senza accompagnatore sono proibite. Sono state allontanate anche dalle Ong. È difficile capire il livello di terrore che impedisce agli afghani di protestare. Come può rispondere la comunità internazionale? “Sembrava di vivere in un Paese senza donne... conoscevamo il chador, l’abito che nasconde il corpo delle maomettane, avevamo visto alcune figure imbacuccate, informi, passare veloci per i vicoli dei bazar, ma queste apparizioni avevano poco di umano. Erano ragazze, madri, vecchie, che età avevano, erano allegre o tristi, belle o brutte? Come vivevano, cosa facevano, a chi andava la loro attenzione, il loro amore, il loro odio?”. Così scrive Annemarie Schwarzenbach nel libro Tutte le strade sono aperte, a commento di ciò che vide arrivando in Afghanistan in automobile, guidando dalla lontana Svizzera, durante l’incredibile viaggio compiuto insieme all’amica Ella Maillart nel 1939. Ottantatré anni dopo, nel medesimo luogo, di fronte alle stesse immagini, mi sono posta analoghe domande, e molto probabilmente chi si troverà a passare da quelle parti fra venti o trent’anni assisterà purtroppo a scene simili. Questo per dire che il processo di cambiamento invocato da noi occidentali e auspicato da una parte (esile, ahimè) della popolazione afghana, si fonda su concetti e presupposti difficili da comprendere, tanto più osservando ciò che sta accadendo in questi giorni, quando le lancette del tempo non solo non avanzano, ma retrocedono di secoli. La logica e la realtà - Non servono intelligenza e perspicacia per cercare di capire, la logica in certi casi non aiuta: è forse possibile capire la ratio che ha originato il divieto all’istruzione, al lavoro, alla pratica dello sport, all’ascolto della musica, alla innocente passeggiata in un parco? È immaginabile che nel 2023 ci siano donne che non possono uscire di casa se non accompagnate da un uomo di famiglia? Nessun Paese al mondo, nessun regime si è mai permesso di negare alle donne il diritto all’istruzione, nessuno. Solo l’Afghanistan dei talebani si è spinto così in basso, imponendo divieti che calpestano non soltanto i diritti umani ma gli stessi precetti della shariah, in nome della quale vengono giustificati. Malgrado gli impegni presi con la comunità internazionale, la frangia più radicale dei Talebani sta disattendendo l’iniziale promessa di “tolleranza”, e il disegno di esclusione delle donne dalla vita politica e sociale si fa sempre più intransigente. Con l’editto del 24 dicembre, le donne che lavoravano nelle Ong nazionali e internazionali sono andate ad aggiungersi alla lunga lista delle escluse. E di nuovo viene spontaneo chiedersi perché? Perché promuovere una misura così drastica e autolesionista che non tiene conto delle inevitabili, tragiche conseguenze sull’intera popolazione, già piegata da un collasso economico e alimentare senza precedenti? Domande senza risposta - In un Paese in cui, per ragioni culturali, le donne non possono interagire con operatori umanitari uomini, la partecipazione femminile è fondamentale: chi aiuterà una donna a partorire se non potrà più contare sulla presenza di un’ostetrica? Chi accoglierà le ragazze e le donne bisognose di aiuto che si presentano quotidianamente nei presidi medici e sanitari allestiti dalle organizzazioni umanitarie dislocate sul territorio? “È una situazione insostenibile, le nostre unità sanitarie mobili sono ferme - (furgoni attrezzati che raggiungono le comunità remote bisognose di assistenza, ndr) - e tutte le altre attività di protection, che si occupano di denutrizione, educazione all’igiene, disagio familiare, maltrattamenti e assistenza legale, sono state vietate” mi dice con tono accorato Sergio Mainetti, responsabile di Intersos, l’ONG italiana che opera in Afghanistan (e in altri 23 Paesi) dal 2001, e conta sul contributo di 340 donne lavoratrici. Un danno incalcolabile soprattutto per i beneficiari che vivono nelle aree rurali remote delle province di Kabul, Zabul e Kandahar la cui assistenza umanitaria dipende quasi esclusivamente dagli interventi delle ONG. Come atto di solidarietà nei confronti delle donne impossibilitate a lavorare, Intersos aveva inizialmente preso la decisione di sospendere le attività, in linea con altre organizzazioni umanitarie, secondo quanto riferito da Acbar (Agency Coordinating Body for Afghan Relief & Development), l’organismo indipendente afghano che rappresenta 183 ONG nazionali e internazionali, da giorni impegnato a esercitare pressioni sul governo talebano affinché torni sui suoi passi. Pochi spiragli di dialogo - Le delicate trattative in corso tengono conto dell’atteggiamento non del tutto monolitico dei vari ministeri, soprattutto quello della Sanità (il più interessato al mantenimento del lavoro femminile) al cui interno paiono aprirsi spiragli di dialogo. Sebbene aspettarsi un voltafaccia repentino da parte del governo centrale risulti illusorio, si tenta un approccio pragmatico attraverso accordi locali o di settore (è frequente la disomogeneità territoriale nel rispetto delle regole imposte, seguite più o meno fedelmente a discrezione del governatore locale), ribadendo tuttavia che la partecipazione delle donne è centrale e non negoziabile. Intanto Intersos ha ripreso le attività a Kabul e presto, si spera, nelle altre sedi. Ci si muove dunque a piccoli passi, cercando di aggirare i divieti senza mettere a rischio le attività umanitarie e le persone che vi prestano servizio. Susanna Fioretti, presidente di Nove Onlus, l’Ong che da anni si occupa della condizione delle donne afghane, promuovendo progetti e iniziative che le riguardano direttamente, non vuole farsi scoraggiare e conferma la presenza di Nove in Afghanistan: “Abbiamo intenzione di restare, finché sarà possibile. Abbiamo dovuto sospendere alcune attività ma riusciamo ancora a dare alle donne aiuti di emergenza, opportunità alternative di educazione e lavoro, utilizzando vie rimaste aperte o inventandone di nuove”. La comunità internazionale - Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre la metà dei 38 milioni di afghani necessita di assistenza umanitaria. Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha definito le restrizioni “irresponsabili e pericolose” qualificandole come “ingiustificabili violazioni dei diritti umani”. Ma cosa può fare la comunità internazionale? Diverse associazioni (portavoce nella difesa dei diritti femminili, rappresentanti Ong, esperti di terrorismo internazionale) hanno avanzato alcune proposte al Consiglio di Sicurezza Onu: oltre a incrementare le sanzioni, si richiede l’immediato divieto di accesso ai conti bancari esteri e relative transazioni internazionali ai leader talebani le cui famiglie risiedono all’estero, con consegue rimpatrio permanente dei familiari. Si chiede inoltre di valutare la possibile estradizione dei leader talebani (che non potranno beneficiare di immunità diplomatica non essendo stato considerato legittimo il loro governo), affinché sia avviato nei loro confronti il procedimento per crimini contro l’umanità, davanti al Tribunale dell’Aia. Il consenso - È indubbio che la condanna unanime della comunità internazionale e la richiesta di una presa di posizione intransigente siano auspicabili, tuttavia l’attuale governo talebano pare più preoccupato del consenso interno che di quello internazionale. Basando il proprio regime sul terrore, seduce i militanti più radicali ripristinando lo stesso clima instaurato durante la prima presa di potere (1996/2001), attraverso l’applicazione ultrarigorista dell’Islam, dimostrando ancora una volta quanto la sua struttura ideologica si fondi molto sulla religione (o meglio sulla sua interpretazione estremistica) e poco sulla politica. L’educazione scolastica è il bersaglio centrale nel nuovo governo talebano, che definisce il programma scolastico seguito nei vent’anni precedenti “pieno di brutte superstizioni”, perché frutto della contaminazione con il corrotto mondo occidentale. Superstizioni che hanno il nome di democrazia, uguaglianza, diritti civili, diritti delle donne. Le restrizioni promosse dai talebani a ridosso del loro insediamento nell’agosto 2021 formano una lunga lista di aberrazioni, vale la pena di riportarne alcune: il 13 agosto gli imam ricevono l’ordine di fornire i nominativi delle donne nubili da “offrire” ai loro combattenti, l’8 settembre vengono bandite le proteste e gli slogan, tre giorni dopo si proclama il divieto di accesso agli studi secondari per le ragazze seguito da quello di frequentare l’università, il 17 settembre il ministero per gli Affari femminili viene sostituito dal ministero della Virtù e prevenzione del vizio, il 22 novembre le donne sono escluse dai programmi televisivi, segue il divieto di viaggiare senza l’accompagnamento di un uomo, la proibizione di ascoltare la musica, praticare sport, andare al parco... e via di seguito fino al recente, raccapricciante, ripristino delle flagellazioni (per crimini “morali”) e delle esecuzioni sulla pubblica piazza. È bene tenere a mente questi fatti quando ci si chiede comprensibilmente come mai in Afghanistan la popolazione non reagisca a tali soprusi, facendo un parallelo con ciò che accade in Iran o in Ucraina, Paesi in cui la società civile combatte quotidianamente contro un regime che la opprime o un invasore che l’attacca. Il nulla - Le immagini di uomini e donne, ragazzi e ragazze, che lottano coraggiosamente per la libertà, scatenano, in noi che osserviamo impotenti, un’intensa reazione emotiva. Il fatto che in Afghanistan non accada la stessa cosa, veicola l’ambigua e subdola idea di un popolo rassegnato, che subisce senza reagire. È difficile capire il livello di terrore che impedisce gli afghani di protestare, un terrore seminato in decenni, nutrito da una cultura ancestrale prigioniera delle sue stesse regole. È sbagliato fare paragoni con un popolo fuori dal tempo, il cui tasso di analfabetismo è fra i più alti al mondo. Chi poteva permetterselo è fuggito, lasciando un Paese orfano di professionisti e intellettuali. Sono rimasti i più poveri, divisi in etnie diverse e nemiche. La risposta che mi diede una donna di Kandahar alla domanda su cosa fosse cambiato nella sua vita dopo l’avvento dei talebani, fu la seguente: “Nulla”. Il cambiamento interno - Il prima e il dopo non esistono in Afghanistan. Non ancora. La comunità internazionale, oltre al sacrosanto invio di aiuti umanitari, può fare ben poco. Indurre i talebani a cambiare atteggiamento spetta soprattutto ai leader del mondo musulmano, i quali dovrebbero convincere i talebani che l’interpretazione dei diritti delle donne sotto la shariah differisce in gran parte dalla loro versione. L’unico possibile grimaldello è la cultura, lo sanno bene i talebani che non a caso hanno bandito l’istruzione. E forse il germoglio di un possibile cambiamento potrebbe nascere all’interno dello stesso movimento talebano, viste le recenti posizioni di alcuni elementi di spicco (tra cui il vice leader talebano e ministro dell’Interno Sirajuddin Haqqani e il ministro dell’Istruzione superiore Abdul Baqi Haqqani) che hanno chiesto la revoca del divieto all’istruzione. In una parola, soltanto gli afghani potranno cambiare gli afghani.