41 bis, quante bufale. Così via d’Amelio accelerò la conversione in legge di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 febbraio 2023 Una valanga di bufale nel dibattito parlamentare sul 41 bis, a partire da come è nato, il suo scopo originario e del perché, di fatto, si è trasformato in tortura di Stato. L’aver varato il 41 bis è stata davvero una conquista di civiltà? La mafia corleonese è stata sconfitta grazie ad esso? Per Totò Riina era realmente il suo incubo peggiore visto che ha ordinato l’attentato di Via D’Amelio nel momento in cui c’era un Parlamento fortemente garantista tanto che solo a causa della strage, spinto dalla più che giustificata onda emotiva, ha deciso di accelerare l’iter, convertendo in legge il “decreto antimafia Martelli-Scotti” rimasto nel limbo dall’8 giugno 1992? Il 41 bis era una misura temporanea, oppure ordinaria? La vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito ha accesso fortemente il dibattito, ma porta con esso una valanga di bufale, partendo proprio dalla sua ratio fino al fatto che oggi è usato in maniera abnorme tanto da avere più di 700 detenuti reclusi al carcere speciale. Nasce per i boss, ma risulta difficile credere che esistano centinaia e centina capi clan in Italia. Un numero che nemmeno esiste nei cosiddetti narco - Stati del Sudamerica. Ciò significa che c’è un evidente abuso di tale strumento che con il passare degli anni, oltre ad estenderlo anche alla “manovalanza” (quindi non solo ai capi delle organizzazioni criminali), ha avuto un surplus di pene vessatorie del tutto inutili. Il rapimento Moro dette il via all’applicazione antesignano del 41 bis - Nei primi anni 70, il sistema penitenziario era al collasso con le incessanti evasioni e rivolte dei detenuti, quest’ultime dirette a sollecitare una riforma dell’ordinamento. Nell’aprile del 1973, il Parlamento affrettò l’esame della riforma penitenziaria, cercando di apportare poche modifiche al progetto di legge iniziale, ma proprio le proteste e le evasioni dei detenuti fecero sì che, durante l’esame della Commissione Giustizia della Camera, il progetto di legge subisse numerosi emendamenti, tanto da portare ad uno stravolgimento del testo iniziale. Nel 1975 si varò la riforma che non aveva con se elementi innovatrici tanto da destare numerose critiche dal mondo giuridico e politico garantista. Ed è in questa riforma che nasce l’articolo 90, l’antesignano dell’attuale 41 bis. Ma per anni non fu mai applicato, perché considerata una misura altamente eccezionale. Arriviamo al 16 marzo 1978. In via Fani, un commando delle Brigate Rosse rapisce il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e uccide i cinque uomini della scorta. A questo fatto di cronaca, viene legittimata per la prima volta l’applicazione dell’articolo 90. Arriviamo nel 1986 con la legge Gozzini che ha abrogato tale norma a causa delle distorsioni applicative alle quali aveva dato luogo e dei molti aspetti di dubbia costituzionalità. Totò Riina ha dato la spinta per l’approvazione - Come fu con l’azione terrorista nei confronti di Aldo Moro, le stragi mafiose del 1992 dettero l’impulso nel rispolverare l’articolo 90 attraverso, appunto, la conversione in legge del 41 bis. Il 23 maggio, a Capaci, esplode una quantità abnorme di tritolo. Una tragedia immane. L’ esplosione ha investito l’autovettura sulla quale viaggiavano gli agenti di Pubblica Sicurezza Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e quella che seguiva immediatamente dopo, cioè quella nella quale si trovavano i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. I primi soccorritori hanno potuto constatare che quest’ultimi erano ancora in vita. La dottoressa Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, invece Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Malgrado gli sforzi profusi dai soccorritori prima e dai sanitari dopo, entrambi i magistrati sarebbero poi deceduti in serata per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione. Tale tragedia spinse i ministri Martelli e Scotti a elaborare un decreto che inasprisce diverse misure, tra le quali l’introduzione del 41 bis. In quel momento storico, il Parlamento era trasversalmente attraversato da partiti fortemente garantisti, dai liberali, passando per i Radicali e i Socialisti, fino ad arrivare agli eredi del Partito comunista. Avevano espresso forti perplessità per questa misura che va in antitesi con la riforma Gozzini. Il decreto legge tardava per essere convertito in legge. Arriviamo al 19 luglio 1992 quando Totò Riina decide di accelerare la strage di Via D’Amelio. Paolo Borsellino era diventato troppo pericoloso per Cosa Nostra. Tutte le sentenze sulle stragi affermano che l’uccisione fu volta non solo per una questione vendicativa (esito del maxiprocesso), ma soprattutto “preventiva” visto il suo interessamento all’indagine su mafia appalti. Per Totò Riina l’esigenza maggiore era quella di preservare i suoi affari miliardari e patti (in un caso addirittura entrò in società tramite i Buscemi) con i potentati economici, anziché rischiare che passi il decreto sul regime del 41 bis. L’attentato di Via D’Amelio fece crollare il “muro” garantista. L’iter per la conversione in legge fu accelerato e l’8 agosto 1992 il parlamento convertì il decreto Martelli - Scotti e quindi anche il 41 bis. Da emergenziale a ordinario, fino a diventare duro - Così come per l’ergastolo ostativo (nello specifico il 4 bis), si strumentalizza Falcone per difendere l’attuale 41 bis. Il giudice ha voluto il rispolvero dell’articolo 90, non per torturare o convincere i boss a collaborare. La finalità, così come anche oggi è sulla carta, era necessaria per i capi mafia, coloro che erano al vertice dell’organizzazione, onde evitare ogni possibile collegamento e contatto tra i detenuti all’interno delle carceri e i criminali esterni. Punto. Nient’altro. Quando nell’agosto del ‘92 c’è stata la conversione in legge, secondo l’intento del legislatore tale misura dove essere emergenziale e soprattutto temporanea. Tuttavia la sua vigenza è stata assicurata nel corso degli anni, per quasi un decennio, da reiterati provvedimenti legislativi di proroga, fino alla sua definitiva stabilizzazione nel sistema penitenziario a opera della legge del 23 dicembre 2002 con il governo Berlusconi. Non solo. Attraverso la legge del 15 luglio 2009 n. 94, e sempre con il governo di centrodestra, il 41 bis ha avuto un inasprimento. Una legge che ha inserito gravose misure afflittive del tutto inutili rispetto alla finalità di sicurezza. Eppure, la ratio è quella di impedire i contatti che si realizzano soltanto attraverso due canali: da un lato la corrispondenza epistolare, telegrafica o telefonica, dall’altro, i colloqui. Non ci sono altri mezzi con cui il detenuto può comunicare. Quindi, non si comprendono determinate misure afflittive che appaiono surreali. L’ex senatore Luigi Manconi, durante la trasmissione In Onda su La7, sottolineando nuovamente che lo scopo del 41 bis è recidere i legami con i propri sottoposti dell’organizzazione criminale, ha fatto un esempio ponendosi questa domanda: “Perché a un detenuto, come nel caso di Cospito, ancorché sottoposto al regime speciale di 41-bis, viene interdetta la possibilità di tenere nella propria cella la foto dei propri genitori defunti prima che il sindaco della città di appartenenza di quelle persone fotografate abbia riconosciuto l’autenticità?”. Misure eccessive, afflizioni inutili e un uso abnorme di tale misura, tanto da raggiungere più di 700 reclusi al 41 bis. Non è possibile immaginare un Paese composto da quasi mille capi mafia. Così come non è possibile immaginare un anarchico individualista come Cospito, al vertice di una organizzazione: è un ossimoro. Oppure, basti pensare a Nadia Desdemona Lioce che è al 41 bis nonostante non esistano più le cosiddette “Nuove Brigate rosse”. A chi dovrebbe dare gli ordini? Bisogna partire dal fatto che il 41 bis dovrebbe essere una misura del tutto eccezionale e invece ha subito un processo dilatatorio fino a diventare una sovrastruttura dove la tortura, di fatto, viene normalizzata. Concludiamo con le parole di Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti: “È tutto misurato al limite della paranoia, e la persona isolata al 41 bis diventa paranoica perché è il sistema che la porta a questo punto. C’è una puntata della serie tv Law & Order dedicata proprio a questo. Un poliziotto si fa mettere in isolamento per cercare di capire cosa significhi, e in una settimana praticamente impazzisce senza rendersi conto che era trascorsa una settimana, mentre lui era convinto fosse passato chissà quanto tempo. Ecco, per sottolinearne la mostruosità”. Mirabelli: “41 bis, le limitazioni devono essere proporzionate allo scopo” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2023 Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, analizza luci ed ombre dell’applicazione pratica delle norme sul cosiddetto carcere duro. Un regime speciale che riguarda oggi in Italia 728 detenuti. Le diverse posizioni sul 41 bis sembrano essere più il frutto di una visione platonica della norma che concreta. Per alcuni non va toccata. per altri abolita. Come si fa invece a tracciare una linea di demarcazione tra il rigore necessario per raggiungere l’obiettivo del legislatore e dunque evitare i contatti con l’esterno dei detenuti, scongiurando al tempo stesso il rischio di cadere in un trattamento inumano e degradante? Molte delle posizioni contrapposte, radicalmente favorevoli o altrettanto radicalmente contrarie al 41 bis, sembrano essere pregiudiziali, a prescindere dal contenuto di questa disposizione e anche dalle criticità che può presentare. È una disposizione eccezionale innestata nell’ordinamento penitenziario e in origine limitata alla necessità di fronteggiare casi di rivolta o gravi situazioni di emergenza, sospendendo in alcuni istituti l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti per la durata strettamente necessaria per ripristinare ordine e sicurezza. Interventi legislativi successivi ne hanno ampliato e modificato la portata, prefigurando restrizioni necessarie. Le stratificazioni legislative ne hanno esteso l’applicazione e modificato il contenuto, applicandolo agli autori di gravi reati di criminalità organizzata, mafiosa, terroristica o eversiva, rendendolo uno strumento per fini di sicurezza pubblica. L’applicazione pratica del 41-bis è a volte soggetta alla discrezionalità del magistrato di sorveglianza o del direttore del carcere, come dimostrano le decine di sentenze con le quali la Cassazione analizza ogni giorno i ricorsi dei detenuti. Non in tutte le carceri italiane, la norma viene applicata allo stesso modo. Poi decide il giudice. Ma è dunque necessario avere dei buoni avvocati, e i mafiosi li hanno, per ottenere trattamenti più soft? Le misure consentite dall’articolo 41-bis sono disposte dal ministro della Giustizia, anche a richiesta del ministro dell’Interno, e applicate a detenuti per criminalità organizzata, terroristica o eversiva. La finalità non è quella di imporre il “carcere duro” come pena aggiuntiva per determinati reati, ma di impedire che il detenuto possa mantenere il collegamento con l’associazione criminale alla quale appartiene. Ecco un elemento di non facile prova e che richiede una valutazione che deve tenere conto anche del ruolo rivestito nell’organizzazione criminale. Il provvedimento con il quale il ministro della Giustizia, sentito il Pubblico ministero e la Direzione nazionale antimafia, dispone l’applicazione dell’articolo 41-bis, ha carattere amministrativo e contro di esso può essere proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza, le cui decisioni possono essere impugnate con ricorso alla Corte di cassazione. Se di fatto, e nonostante i ricorsi interni, si determina una lesione di diritti fondamentali, è possibile una tutela dinanzi alla Corte di Strasburgo. Esiste quindi una tutela dinanzi ad organi di giustizia indipendenti, le cui decisioni sono ponderate ed imparziali. I giudici non mancano di cogliere le criticità del sistema e di proporre alla Corte costituzionale dubbi sulla legittimità di singole norme. Come in ogni processo, la qualità della difesa aiuta a mettere in luce le criticità che si possono presentare, ma non ritengo che i Tribunali di sorveglianza e la Corte di cassazione siano meno attenti rispetto alla condizione del detenuto che non ha un buon avvocato. Tutti gli elementi che non sono il risultato di un’applicazione rigida del 41-bis non creano forse il presupposto per rendere il carcere duro inutilmente afflittivo, con buona pace della funzione rieducativa della pena? L’articolo 41-bis è una disposizione eccezionale, che limita diritti costituzionali, dei quali la persona è titolare anche se detenuta, e deve essere applicata in limiti rigorosi. È presente il rischio che si adottino misure che vanno oltre quanto sia indispensabile per garantire la sicurezza, o che alcune delle misure restrittive, che la legge consente, non siano ragionevolmente proporzionate rispetto al fine. L’articolo 41-bis non può essere usato per imporre una misura afflittiva ulteriore, come lascerebbe intendere la espressione invalsa di “carcere duro”. Si tratta di impedire i contatti e i collegamenti del detenuto con l’organizzazione criminale alla quale continua ad appartenere. Si può giustificare fino a quando questo pericolo sussiste e per le misure che siano concretamente adeguate e necessarie rispetto a questo fine. La Corte europea dei diritti dell’uomo, pur salvando l’impianto della legge, è intervenuta più volte nei singoli casi per contestare la violazione della Convenzione. È accaduto per Bernardo Provenzano per la proroga del regime speciale malgrado la malattia. La stessa Consulta ha fatto cadere dei tasselli del 41-bis. Sono possibili dunque interventi mirati nel rispetto dello spirito della legge? La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che l’articolo 41-bis si giustifica, in linea di principio, per ragioni di sicurezza pubblica e per fronteggiare situazioni di oggettiva pericolosità dei detenuti, deve essere rigorosamente giustificato e non può consentire trattamenti che di fatto, anche per le loro modalità, siano inumani o degradanti. È significativa la decisione della Corte di Strasburgo sul caso Provenzano. L’applicazione dell’articolo 41-bis non si salva sempre e comunque. La Corte costituzionale, in piena sintonia con la Corte di Strasburgo, ha precisato che limitazioni dei diritti fondamentali dei detenuti in regime differenziato possono essere ammesse solamente in quanto non dirette a determinare un sovrappiù di punizione, bensì esclusivamente se dirette a contenere la persistente pericolosità di singoli detenuti, autori di speciali gravi reati, impedendo i collegamenti con le organizzazioni criminali di appartenenza. Naturalmente se le limitazioni sono proporzionate rispetto a questo scopo, non irragionevolmente gravose, non vanifichino la finalità rieducativa della pena e non si risolvano in trattamenti contrari al senso di umanità. Valgano questi principi per avviare un dibattito sereno, diretto anche ad ispirare revisioni legislative del 41-bis, senza demolirlo e senza cristallizzarne il contenuto. Il 41 bis all’anarchico è assurdo. Nordio non può far finta di nulla di Paolo Becchi Il Riformista, 7 febbraio 2023 Il ministro ha il potere di alleviare le misure afflittive. Le stringenti regole della detenzione speciale non si applicano a pacchetto: sia il magistrato sia il titolare di via Arenula possono ad esempio concedere all’anarchico più colloqui con i familiari o la possibilità di leggere e studiare, per fare degli esempi. Come si può definire qualche manifestazione degli anarchici, un attacco al cuore dello Stato come fa il governo? Del vero punto non si parla. Per tre anni si è parlato solo di Covid e no vax. Di pericoli anarco-insurrezionalisti, fino a quindici giorni fa, nessuno sapeva nulla. E invece gli anarchici sono spuntati dall’oggi al domani come funghi dopo che uno di loro, Alfredo Cospito, ha iniziato uno sciopero della fame come forma di protesta contro il regime del carcere duro previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Come nasce il 41 bis - Facciamo un po’ di storia. La prima versione, richiesta dal generale Dalla Chiesa per combattere efficacemente le Brigate Rosse, fu introdotta dal Parlamento con la legge n. 354 del 26 luglio 1975. In presenza di gravi emergenze di ordine pubblico e sicurezza, il ministro della Giustizia poteva sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle normali regole di trattamento previste dalla disciplina carceraria ordinaria. Insomma, caso per caso, secondo singole valutazioni sui detenuti nell’ambito del reale fenomeno criminale complessivo: le Br sparavano contro gli uomini dello Stato, lo Stato reagiva con il carcere duro. Il 41 bis veniva applicato soprattutto per i reati di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. Sono gli “anni di piombo”. Poi arrivarono la mafia e il maxiprocesso di Palermo. Su richiesta di Giovanni Falcone, allo scopo di evitare che i mafiosi parlassero tra loro in carcere o riuscissero a far pervenire i loro messaggi all’esterno dell’Ucciardone (che all’epoca era chiamato Grand Hotel per via dell’accondiscendenza nei confronti di “Cosa nostra”), il Parlamento approvò la cosiddetta Legge Gozzini (legge 10 ottobre 1986, n. 663), la quale inasprì il regime del 41 bis con un “sistema di sorveglianza particolare” nei confronti dei criminali appartenenti ad associazioni a delinquere di stampo mafioso (mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita). Dopo la morte di Falcone il governo varò il decreto antimafia Martelli-Scotti (decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356), limitando fortemente i diritti dei detenuti cui veniva applicato (non era consentito neppure l’uso della Tv in cella). Agli inizi del secolo la legge n. 279/2002 revocò persino il carattere temporaneo della norma. Attualmente è in vigore la legge n. 94/2009, che ha invece ripristinato il carattere della temporaneità. Oggi l’applicazione del 41 bis può durare quattro anni e le proroghe due anni ciascuna. In che cosa consiste il 41 bis - Ora d’aria in un recinto di pochi metri quadrati, dove non si può neppure correre, di solito in solitudine salvo deroghe specifiche; isolamento in cella con Tv che di solito è programmata per pochi canali; niente libri e nessuna possibilità di studiare (salvo casi autorizzati); colloqui con parenti (anche stretti) limitati a una sola volta al mese dietro la protezione di un vetro e con divieto di qualsiasi contatto fisico; visite mediche e operazioni chirurgiche sotto la sorveglianza degli agenti etc. Fino a quindici giorni fa nessuno ne parlava, Cospito non esisteva anche se tutti erano a conoscenza del suo sciopero della fame. Il ministro Nordio, che del garantismo ha fatto la sua battaglia, in questa situazione ha perso del tempo prezioso. Una volta scoppiato il caso, il governo si è così trovato a dover mostrare i muscoli pur in assenza di pericoli concreti di eversione. Il pasticcio è successo dopo l’intervento alla Camera del deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, che ha accusato alcuni parlamentari del Pd di essere andati in carcere a trovare Cospito per favorire non si sa bene che cosa. Il Pd ha reagito accusando la destra di essere fascista e ignorante. Se Donzelli ha certamente sbagliato perché il potere ispettivo nelle carceri rientra tra le prerogative dei parlamentari, il Pd non ha però spiegato la differenza tra il potere ispettivo dei parlamentari nelle carceri (che è una cosa sacrosanta) e una o più insolite visite ad un solo detenuto. Come che sia la cosa ha assunto i connotati della tifoseria trash: da un lato la destra accusa il Pd di frequentare dei terroristi, dall’altro il Pd accusa la destra al governo di voler zittire le opposizioni. Fatto sta che tutti azzannano l’osso dell’avversario e nessuno risolve il problema. Premesso che siamo, in linea di principio, contrari al regime del 41 bis in quanto esso stesso cozza contro i principi di cui all’art. 27 della Costituzione (umanità del trattamento penitenziario e funzione rieducativa della pena), la situazione politica sul caso Cospito si è ormai ingarbugliata. Ma un margine pragmatico per uscire dal cul de sac forse c’è ancora. Partiamo col ricordare che le misure del 41 bis non sono applicate per così dire “a pacchetto”; infatti, il magistrato o il tribunale di sorveglianza possono adottare vari livelli di controllo, consentendo alcuni diritti e vietandone o circoscrivendone altri. Nordio allora potrebbe revocare a Cospito non il 41 bis (politicamente ora apparirebbe come un atto di debolezza), ma le misure più insopportabili tipiche del “carcere duro”, consentendogli ad esempio colloqui ogni due settimane con i parenti e non più uno al mese (senza vetro protettivo ma registrando le conversazioni e perquisendo lui e i parenti prima e dopo il colloquio), l’ora d’aria in compagnia di uno o due detenuti totalmente estranei ai reati per cui è condannato lui e la possibilità di leggere e studiare in cella e in biblioteca, se lo desidera. Se Nordio ritenesse che non rientrino tra i suoi poteri di Ministro decisioni di questo tipo, potrà allora sollecitare il giudice di sorveglianza a valutare decisioni in tal senso. Nel frattempo, per allentare la pressione, Cospito dovrebbe essere trasferito in un ospedale fuori dal carcere e alimentato e curato adeguatamente, sempre che ciò avvenga col suo consenso. Nel frattempo, governo e parlamento potrebbero avviare una seria discussione per riformare il 41 bis, limitandone il campo di applicazione al solo reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (che per definizione si estende a tutti i tipi di criminalità organizzata). In assenza di terrorismo o eversione dell’ordine democratico (cinquanta anarchici che protestano non costituiscono un “attacco cuore allo Stato”), il “carcere duro” dovrebbe restare solo per mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti che si sono macchiati di gravi delitti. Lo Stato se proprio non vuole abrogare il 41 bis lo applichi solo in relazione al concreto pericolo esistente e per casi particolarmente gravi. Ecco perché Cospito meritava il 41 bis (e perché sono gravi gli attacchi al Pd) di Armando Spataro La Stampa, 7 febbraio 2023 Ormai da varie settimane il caso del detenuto Alfredo Cospito sembra diventato il cuore del dibattito politico (e non solo). Cospito rifiuta di nutrirsi perché sottoposto al regime penitenziario del “41 bis” di cui chiede la revoca per sé e per tutti coloro (circa 740) che si trovano in identica situazione. La sua vita è a rischio, tanto che a sostegno della revoca sono scesi in campo intellettuali di diversa estrazione, ma anche gruppi terroristici in Italia ed in altre nazioni europee con azioni intimidatorie. La confusione, però, regna sovrana ed appare utile provare a fare chiarezza, a costo di usare qualche tecnicismo. Primo punto: cos’è il 41 bis? La risposta serve a spazzare il campo da equivoci grossolani poichè il 41 bis, norma dell’ordinamento penitenziario, non è parte della pena irrogata, non è un’aggravante, non ha a che fare con la diversa questione dell’ergastolo ostativo e non è necessario essere capi di un’organizzazione o avere ucciso qualcuno per esservi sottoposti. È invece uno strumento che, nel periodo delle stragi di Capaci e via D’Amelio e sulla spinta di Falcone e Borsellino, dunque da oltre 30 anni, fu varato per impedire che dal carcere i detenuti per gravi reati, tra cui quelli di mafia e terrorismo, continuassero a mantenere collegamenti con i gruppi criminali di cui facevano parte. Come? Disponendone la detenzione presso carceri attrezzate, limitandone i colloqui e sorvegliandone i contenuti (non certo quelli con gli avvocati) previa autorizzazione dei giudici, controllando conversazioni telefoniche e corrispondenza, riducendo somme e beni ricevibili dall’esterno nonché la permanenza all’esterno delle celle (massimo due ore al giorno ed in gruppi non superiori a 4 persone) etc. Il decreto di sottoposizione a tale regime fino alla durata di 4 anni, così come quelli di proroga per periodi di 2 anni al massimo e di eventuale revoca, sono emessi dal ministro della Giustizia, anche su richiesta di quello dell’Interno e con pareri ed informazioni provenienti dai pm presso i giudici che procedono e dal procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo. È possibile il ricorso dell’interessato presso il tribunale di sorveglianza di Roma e poi anche in Cassazione. Va detto che il 41 bis fu uno strumento utile contro terrorismo e mafia - non certo “il più utile” - e contribuì a determinare la collaborazione di centinaia di “pentiti” e l’arresto di molti “portatori di pizzini”. Fu sin dall’inizio un colpo al cuore per i capi delle mafie tanto che - non a caso - la sua cancellazione fu inserita nel famoso “papiello” di Riina, quale una delle condizioni per attenuare le strategie omicidiarie di Cosa Nostra. Le ragioni sono comprensibili a chiunque, anche solo sul piano logico e senza necessità di esperienza investigativa. Non si riesce quindi a capire perché molti osservatori siano contrari al mantenimento della norma nel nostro ordinamento e ne sostengano ostinatamente - e senza fondamento - la sua anticostituzionalità: il 41 bis comporta certo restrizioni alla vita carceraria di chi ha capacità dimostrata di mantenere collegamenti con associazioni criminali, ma non pare possibile forzare la realtà ed affermare che determini trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 Cost.) o comporti forme di violenza fisica o psicologica nei confronti dei detenuti (art. 13 Cost.). Ci si dimentica, piuttosto, che la Costituzione prevede anche la protezione e difesa delle istituzioni e dei cittadini. Secondo punto: Cospito meritava davvero il 41 bis e, comunque, le sue condizioni di salute non dovrebbero imporne la revoca? Rispondo con un “sì” alla prima domanda e con un “no moderato” alla seconda. I gruppi terroristici di matrice anarchica esistono pressoché ovunque nel mondo ed in Italia, in particolare, esistevano prima che nascessero le Br e continuano ad esistere ancora. Il fatto che si tratti di associazioni supportate da ideologia e strutture “fluide” non significa affatto che non siano giuridicamente inquadrabili come associazioni operanti con finalità di terrorismo: la Corte di Cassazione, tra l’altro, lo ha affermato di recente con sentenza definitiva proprio in relazione a quella di cui faceva parte Cospito (la Federazione Anarchica Informale - Fronte rivoluzionario internazionale, collegata ad altre simili realtà straniere) anche se in altre sedi di merito si possa essere giunti a conclusioni diverse. Certo, non si può affermare che si tratti di gruppi pericolosi come quelli che hanno agito negli anni di piombo, ma si evitino superficialità come quella di dire che i gruppi anarchici non sono né pericolosi, né sono formati da terroristi: si provi a chiederlo a Roberto Adinolfi, amministratore delegato dell’Ansaldo che a Genova, nel maggio del 2012, fu gambizzato proprio da Cospito. O si provi a pensare ai rischi corsi da coloro che erano vicini ai luoghi - in tante parti d’Europa - dove sono esplose bombe di ogni tipo. Non credo che esista un rischio di collegamento tra la galassia dei gruppi anarchici e le mafie italiane, ma non penso neppure che, indipendentemente dal numero forse limitato dei militanti e dall’assenza di un dettagliato progetto di potere politico, la loro capacità di elaborare in continuo nuove strategie di assalto e di terrore - contro Tav, Centri per Immigrati, Green Pass, sul tema della tutela dell’Ambiente, solo per rimanere alle ultime - possa essere ignorata. E veniamo a Cospito: non ho finora letto, salvo errori, che si tratta di un detenuto che, indipendentemente dai processi ancora in corso, è già stato definitivamente condannato alla pena di 30 anni di reclusione (provvedimento di cumulo di pene del Proc. Generale di Torino). Ma, in relazione a ciò di cui qui si discute, non è la pena in esecuzione o futura che rileva, quanto il fatto che la sua sottoposizione al regime del 41 bis sia stata correttamente deliberata dalla ministra della Giustizia pro tempore Cartabia, sulla base di pareri conformi della magistratura, per la dimostrata capacità di Cospito di mantenere contatti con la realtà criminale di cui faceva parte, istigata - anche attraverso articoli pubblicati su organi di area - a continuare a commettere azioni terroristiche. Del resto non si è letta una sola sua parola di autocritica o di invito a cessare quelle prassi, né gli intellettuali che ne sostengono le ragioni gli hanno chiesto di farlo. Ed il fatto che quegli incitamenti fossero pubblici non può tranquillizzare, anche alla luce dei colloqui con i mafiosi detenuti resi noti in questi giorni È giusto, pertanto, fare di tutto - a partire dalla sua già disposta ospedalizzazione e da cure efficaci - per salvarlo, ma la decisione di revocare o meno la sua sottoposizione al 41 bis o di attenuarla in qualche modo deve essere adottata con freddezza e ragione, ai sensi della legge, senza farsi influenzare dal modo in cui l’interessato lo chiede e da attentati intimidatori a suo sostegno. È certo che così farà la Cassazione il 24 febbraio decidendo sul ricorso avverso il diniego della revoca del 19 dicembre. E così dovrà eventualmente fare il ministro sul secondo ricorso pendente. Ultimo passaggio da chiarire: l’attacco politico dell’on. Donzelli (e non solo) ai parlamentari del Pd che hanno visitato Cospito in carcere. Si tratta di una vicenda che ha dato luogo ad una incredibile criminalizzazione del Pd, partito d’opposizione, al quale si è chiesto se è schierato con la mafia o con lo Stato! Tutto perché, come è loro pieno diritto, il 12 gennaio quattro parlamentari di quel partito (Debora Serracchiani, l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, Silvio Lai e Walter Verini) si sono recati dall’anarchico Alfredo Cospito nel carcere di Bancali per meglio conoscere la sua situazione. Orbene, il 31 gennaio, intervenendo nella Camera dei Deputati, l’on. Giovanni Donzelli ha dato lettura di un documento all’evidenza riservato, in cui la polizia penitenziaria riferiva al DAP del ministero della Giustizia della conversazione intervenuta quel giorno tra Cospito ed un mafioso pure sottoposto al 41 bis, relativa alla necessità di continuare la campagna contro quella misura, il che avrebbe giovato a tutti. “Io voglio sapere - gridava Donzelli - se la sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi”. Prevedibile la dura reazione, in Aula e dopo, di vertici ed appartenenti al Pd. Parole sicuramente inaccettabili solo che si pensi all’attenzione che Orlando da sempre ha dedicato alla situazione carceraria, tra l’altro, costituendo un’apposita Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario che, presieduta dal professor Glauco Giostra, provvide alla fine del 2017 a redigere un eccellente schema di decreto legislativo. Ma a smentire l’ipotesi di contiguità o simpatie criminali che potrebbero dedursi da visite in carcere, basterebbe anche solo ricordare che è stata in anni recenti la stessa Corte Costituzionale, presieduta da Giorgio Lattanzi, a varare ed illustrare pubblicamente il “Viaggio in Italia, la Corte Costituzionale nelle carceri”. E Valerio Onida, che ne fu presidente, aveva fatto visita in carcere proprio ad un detenuto sottoposto al 41 bis! Tutti sospettabili? È anomalo invece che sia stato reso pubblico in un’aula parlamentare un documento che, pur non essendo targato come “segretissimo”, “segreto”, “riservatissimo” o “riservato” (qualifiche previste dalla Legge n. 124 del 2007), avrebbe recato la dicitura “di limitata divulgazione”. Il ministro Nordio ha dichiarato che - a suo avviso - il documento non poteva considerarsi segreto o riservato (non so cosa significhi per lui “di limitata divulgazione”) e che, pertanto, non sarebbero stati a suo avviso censurabili né l’on. Donzelli, che ne aveva dato lettura in aula affermando di averlo ricevuto dal suo collega di partito Delmastro, sottosegretario alla Giustizia con delega al DAP, né quest’ultimo il quale aveva tutto confermato. Il prof. Flick, già presidente della Consulta e ministro della Giustizia la pensa diversamente (“Il sottosegretario che riceve rapporti riservati li deve usare solo per le finalità per cui gli sono stati consegnati con evidente riferimento ai suoi compiti istituzionali. Le informazioni ricevute per ragioni di ufficio non posso essere divulgate” - La Repubblica, 5 febbraio), mentre Gianrico Carofiglio ha ricordato che anche l’art. 15 del T.U. degli impiegati dello Stato dispone che il pubblico impiegato non possa comunicare, al di fuori dei casi previsti dalla legge, ...notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni. Non ho capito invece - leggendo la sua lettera al Corriere della Sera - quale sia il pensiero della premier Meloni. Nessuno si è preoccupato, peraltro, dei rischi che potrebbe correre ora il personale di Polizia Penitenziaria che ha giustamente messo per iscritto quanto ha sentito! La Procura di Roma ha aperto una indagine penale e si vedrà se riterrà sussistente qualche reato, ma - anche a prescindere da questo - credo e spero che ogni italiano, qualunque sia il suo orientamento, sappia ricordare quale uso può essere fatto di certi ruoli istituzionali. PS: ho saputo che il senatore Gasparri ha manifestato forte dissenso rispetto a queste mie valutazioni. Mi spiace che, da “maestrino” (come mi ha definito), non lo abbia consultato prima di esprimermi. Criticare il 41 bis non è possibile: chi tocca i fili fa una brutta fine di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 7 febbraio 2023 Impietosi i sondaggi sul tema: gli elettori di tutti i partiti vogliono il carcere duro. Nessun leader italiano oserebbe oggi criticare il 41 bis perché equivarrebbe a un suicidio politico. Questo vale per tutti: sei di destra, di centro, di sinistra poco importa davvero, a sostenere carcere duro ed ergastolo ostativo c’è un coro compatto e trasversale. Illuminante in tal senso è il sondaggio di Euromedia Research presentato dalla direttrice Alessandra Ghisleri: non solo oltre il 40% degli italiani approva il provvedimento ma un buon 30% lo vorrebbe inasprire perché considerato troppo morbido e addirittura estenderlo ad altri reati. Il picco giustizialista viene toccato tra l’elettorato dei cinque stelle, ma anche i sostenitori di Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega e, in misura leggermente minore, di Italia viva e Azione sono largamente favorevoli al provvedimento nato negli anni 90 per contrastare Cosa Nostra. Oltre una cultura forcaiola di lungo corso, che lievita nella nostra società dalla “rivoluzione” di Tangentopoli passando per il ventennio berlusconiano e per le sue tricoteuses , il caso Cospito ha riacceso i riflettori dei media sul 41 bis isterizzando il dibattito: “Sembra di assistere ad uno scontro tra tifoserie” fa notare Ghisleri su La Stampa prendendo in esame le visite di alcuni parlamentari del partito democratico all’anarchico detenuto nel carcere milanese di Opera che alcuni esponenti di destra hanno liquidato come un “inchino ai mafiosi”. In questo tritacarne chi si permette di far notare piccole grandi ovvietà, come ad esempio la condanna all’Italia emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha equiparato il 41 bis alla tortura, viene marchiato di infamia, associato alla criminalità organizzata. Per non parlare degli avvocati difensori che per buona parte dell’opinione pubblica sono “complici dei boss”. Eppure basterebbe spulciare la nostra Costituzione, che diventa “la più bella del mondo” soltanto quando ci fa comodo, per ritenere il 41 bis incompatibile con un sistema democratico. Come recitano gli articoli 13 e 27 “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”, mentre “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Impressiona il silenzio della classe dirigente italiana, maggioranza e opposizione, su queste flagranti violazioni dello stato di diritto e avvilisce la violenza strumentale con cui i partiti si danno battaglia in un’escalation giustizialista di accuse e veleni incrociati. Una politica che ha rinunciato da tempo a creare “senso comune” non può che divenirne la prima vittima. Così, invece di difendere i principi della democrazia anche a costo di rivelarsi impopolare, preferisce seguire il bagliore dei sondaggi le indicazioni degli uffici marketing e carezzare il popolo dalla parte del pelo titillando i suoi istinti più bassi. Immersa in un perpetuo mainstream e pronta ad affidarsi all’algoritmo di turno. Deve visitare Cospito da giorni, ma non autorizzano il medico ad entrare in carcere di Frank Cimini Il Riformista, 7 febbraio 2023 Da martedì scorso il medico di fiducia indicato dalla difesa di Alfredo Cospito attende di ottenere l’autorizzazione per recarsi nel supercarcere di Opera a visitare l’anarchico in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso. Si tratta di tempi un po’ lunghi (eufemismo) per una persona nelle sue condizioni di salute, anche se almeno per il momento non ci sarebbe il rischio di un trasferimento in ospedale, cioè nel padiglione per detenuti del San Paolo. Le condizioni di salute vengono definite “stabili e non allarmanti” in riferimento all’anarchico che continua a rifiutare gli integratori assumendo soltanto acqua, sale e zucchero. “Sono stato da lui e l’ho trovato in condizioni discrete”, dice l’avvocato Benedetto Ciccarone sostituto processuale di Flavio Rossi Albertini che dice di avere in preparazione una conferenza stampa nella giornata di venerdì alla Camera dei deputati “per chiarire le cazzate scritte in questi giorni”. A questo proposito bisogna ricordare per forza di cose la dichiarazione di Enzo Letizia, segretario dell’Associazione nazionale dei funzionari di polizia secondo il quale “la recrudescenza delle tensioni nelle piazze e il diffondersi di azioni intimidatorie realizzate in Italia e all’estero sono il terreno fertile da cui possono generarsi cellule eversive che potrebbero essere armate da ambienti mafiosi visto che la mobilitazione anarchica si salda con la volontà del crimine organizzato di abolire il carcere duro previsto dall’articolo 41bis. Mafie e terroristi sono abilità inserirsi nelle polemiche”. Alludere a alleanze tra anarchici e mafia senza lo straccio di una prova sembra grave per chi di mestiere fa il funzionario di polizia e per giunta è a capo di una associazione di categoria. Si tratta di parole fantasiose già circolate tre anni fa ai tempi delle rivolte in carcere per il Covid19. Allora a smentire ci pensò il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Vediamo se qualcuno provvederà stavolta. Intanto il dibattito politico sul caso Cospito va avanti. Secondo il ministro del Turismo, Daniela Santanché, “c’è un attacco allo Stato e non al Governo e non possiamo cedere perché sarebbe un gravissimo errore per la sicurezza della. nostra nazione”. “Cospito è un pericoloso terrorista, definirlo ‘coraggioso’ non è accettabile - sostiene Maurizio Gasparri vicepresidente del Senato per Forza Italia - Ho trovato sbagliato l’atteggiamento di alcuni esponenti del Pd. Fare visita alle carceri è una cosa lecita ma addirittura intrattenersi e scambiare interlocuzioni con alcuni boss soprattutto da parte di un ex ministro della Giustizia a mio avviso è sbagliato”. “Lo stato tratta i terroristi secondo le leggi attuali - aggiunge Gasparri - e se nello specifico va revocato il 41bis per Cospito lo deciderà la Cassazione. Noi continueremo a sostenere questa misura”. Per Giuseppe Conte, leader del Movimento Cinque stelle “il 41bis non si tocca, è uno strumento importante. È un carcere che prevede l’isolamento, si parla di carcere duro ma anche con delle limitazioni è lo stretto necessario per evitare che i detenuti continuino a guidare le loro organizzazioni e essere un punto di riferimento. Su Cospito la valutazione spetta alle autorità competenti che devono tenere conto della salute e della dignità delle persone”. Per Giuliano Giuliani, padre di Carlo (il ragazzo ucciso durante il G8 di Genova del 2001), “ci sono modi più dignitosi dell’articolo 41bis per limitare i contatti di Cospito”. Secondo Alfredo Antoniozzi vice capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera “tutte le forze politiche devono isolare i violenti rifiutando compromessi sulla difesa della legalità”. Per Matteo Salvini “non si toccano leggi sotto minaccia, si parli di giustizia con una riforma e non con le polemiche”. “Cospito, condizioni non allarmanti”. Il “piano Omega” per il ricovero di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 7 febbraio 2023 Pronti scorta e reparto ospedaliero in caso di trasferimento. I sanitari: “Benché il paziente sia sottopeso dopo un forte e rapido dimagrimento, i parametri restano all’interno dei limiti”. La “scorta” è pronta a partire ventiquattro ore su ventiquattro. La “bonifica” del percorso affidata pochi minuti prima a polizia o carabinieri. E poi due auto della penitenziaria e un’ambulanza del 118 che lasciano il carcere di Opera diretti verso l’ospedale San Paolo. Otto chilometri, una decina di minuti a sirene spiegate per attraversare la periferia sud di Milano. In gergo lo chiamano “Piano omega” è il trasferimento di un detenuto al 41 bis dal carcere al ricovero ospedaliero. È quasi una routine, benché nelle più elevate misure di sicurezza. Venne attivato anche per Riina e Provenzano. E oggi il “piano Omega” potrebbe essere la soluzione nell’immediato all’impasse del caso Cospito, l’anarchico arrivato ormai al giorno 110 di sciopero della fame. Le sue condizioni vengono definite “non allarmanti” e i magistrati del Tribunale di sorveglianza, diretto da Giovanna Di Rosa, sono in “costante contatto” con i medici. Più volte al giorno i sanitari verificano i parametri vitali: peso, pressione e l’esame del sangue ogni mattina per stabilire i valori degli elettroliti. “Benché il paziente sia sottopeso dopo un forte e rapido dimagrimento, i parametri restano all’interno dei limiti”. Cospito è ancora compatibile con la detenzione, benché all’interno del Sai (Servizio assistenza intensificata) di Opera. Si muove, cammina, parla, appare lucido. Assume solo liquidi, zucchero e sale. Nonostante la dichiarazione firmata da Cospito nella quale dice di non voler essere alimentato in maniera forzata, in caso di mancamento, malore o più grave patologia, i medici farebbero scattare il trasferimento in ospedale (che ha stanze per il 41 bis) e procederebbero alle cure salvavita. Compresa l’alimentazione forzata. Si attiverebbe d’ufficio la procedura del Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), come accaduto con altri detenuti per gesti autolesivi o rifiuto delle cure: “Lo Stato ha il dovere di tutelare la vita del detenuto, anche contro la sua volontà”. Mentre la tensione politica non cala, si moltiplicano le proteste del mondo anarchico: sabotati alcuni ripetitori nell’Alessandrino al confine con la Liguria e scritte su un treno del metrò a Milano. Ma l’attenzione degli investigatori, oltre che sul fronte sempre caldo delle piazze, si sta concentrando sul mondo carcerario. Al momento non sono emerse saldature tra l’anarchico e i boss reclusi. Ma c’è curiosità e speranza dai capimafia condannati perché la battaglia di Cospito arrivi all’obiettivo: abolire il carcere duro e soprattutto l’ergastolo ostativo, il “4bis” dell’ordinamento penitenziario, che esclude ogni beneficio per i detenuti. A Opera la battaglia è ancora più sentita di quella contro il carcere duro. Ma all’interno non ci sono state iniziative di solidarietà a Cospito, come la battitura delle sbarre. Nè i familiari dei reclusi hanno dato sostegno, o particolare pubblicità, alle manifestazioni di questi giorni degli anarchici. Il legale di Cospito al Guardasigilli: “Se aspetta ancora a decidere sul 41 bis, lui non ci sarà più” di Liana Milella La Repubblica, 7 febbraio 2023 Il 12 scade l’istanza di Flavio Rossi Albertini, che dice: “Se Nordio attende la pronuncia della Cassazione fissata per il 24 febbraio, Cospito morirà, lo sanno tutti”. “Grave che sia ancora senza il medico personale”. “Morirà, lo sanno tutti, ormai è un agnello sacrificale”. È uno scenario catastrofico quello che prevede Flavio Rossi Albertini, l’avvocato dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame, a oggi, da 110 giorni. È domenica pomeriggio, e lui è furibondo contro tutti. Non ha notizie aggiornate ad horas sulla salute, perché Cospito, in questo momento, non ha il suo medico personale. Con il trasferimento nel carcere milanese di Opera, dove Cospito è arrivato da Sassari lunedì 30 gennaio, si è chiusa l’assistenza di Angelica Milia, la cardiologa che lo ha seguito nella prigione di Bancali. “Grave che non sia stato autorizzato un medico personale” - Perché non è stata ancora sostituita? Rossi Albertini spiega di aver indicato, già martedì, un medico Asl dell’ospedale San Lorenzo di Milano. Non ne vuole fare il nome. E cosa è successo? “Che ad oggi l’autorizzazione non è stata ancora data”. Quindi Cospito è monitorato dal personale del carcere di Opera, ma non può contare su un suo medico di fiducia. Rossi Albertini ha già messo al corrente della questione il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma. La presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa assicura “come in tutti i casi di questo genere il monitoraggio con la massima attenzione”. Ma a Rossi Albertini non basta. Le sue notizie su Cospito si si fermano a sabato quando lo ha visitato un suo collaboratore. Lui l’ha visto giovedì. Ma ritiene che la decisione sul 41bis, l’unica che può mettere fine al digiuno, abbia ormai le ore contate. La decisione nelle mani di Nordio - Da via Arenula, dal ministero della Giustizia, non trapela nulla. Nordio è a casa sua, a Treviso. Ha in mano da tre giorni le decisioni dei magistrati antimafia della procura di Torino, del procuratore generale Francesco Saluzzo, della Direzione nazionale Antimafia di Roma che, con il capo Giovanni Melillo, ha ipotizzato la possibilità di passare Cospito dal 41bis all’Alta sorveglianza, giusto un gradino più sotto. Più duro Saluzzo che invece non deroga dal 41bis. Nordio deve rispondere entro il 12 febbraio perché quel giorno scadono i trenta giorni rispetto all’istante che gli ha inoltrato Rossi Albertini. Ma il 24 febbraio la Cassazione deve pronunciarsi ugualmente sul ricorso di Albertini rispetto alla decisione del tribunale di sorveglianza di Roma (fissata per il 20 aprile, l’udienza è stata spostata prima al 7 marzo e ora al 24). Nordio può decidere prima? Certo che può farlo perché, come ha spiegato a Repubblica l’ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick, la sua è una decisione politica. Giudizio sottoscritto dall’ex procuratore di Torino Armando Spataro. La linea dura della premier Meloni - Ma di mezzo c’è la politica. La linea dura della premier Meloni. Che però deve fare i conti con la ritrovata effervescenza della galassia anarchica. Che cosa accadrebbe, in Italia ma anche nel resto del mondo, se Cospito dovesse morire? Si moltiplicherebbero gli attentati in cui rischiano di morire cittadini comuni? Proprio questa domanda dovrebbe spingere verso una mediazione, e quella della collocazione nei reparti dell’Alta sicurezza, sarebbe una soluzione accettabile sia per chi sostiene la linea dura, sia per la sicurezza degli italiani. Flavio Rossi Albertini - preoccupatissimo per lo stato di salute di Cospito - non prevede nulla di buono. “Morirà, lo sanno tutti”. E ancora: “È un agnello sacrificale”. La sua convinzione è che ormai non si possa più aspettare un minuto di più. Che succede se Nordio rimanda tutto per attendere il 24 febbraio? “Accade che Cospito non ci sarà più, quindi pronunciarsi ormai sarà inutile”. “Ci sono strumenti più adeguati per punire Cospito” - Il 24 febbraio però la Cassazione metterà un punto fermo. E lui replica: “Sono un osservatore di quello che sta avvenendo e vedo una vicenda straziante, anche per l’evidente sproporzione tra i reati di Cospito e la sua pena. Chiunque si fermi a guardare la situazione si rende conto che Cospito ha subito una condanna più grave di quelle per la strage di Capaci, per la strage di Bologna, o per piazza Fontana. Cospito avrà anche mandato dei messaggi, ma ci sono strumenti più adeguati per punirlo”. Lo sciopero della fame di Cospito è stato organizzato a tavolino in coincidenza con l’arrivo a palazzo Chigi della premier Meloni, come lei stessa ipotizza? “Sono cose fuori della realtà” risponde Rossi Albertini. E racconta che “solo il 20 ottobre Cospito ha incontrato per la prima volta il presidente del tribunale di sorveglianza di Sassari con il quale ha affrontato il suo reclamo per via della sua corrispondenza bloccata da prima dell’estate proprio perché il 41bis comporta quella censura”. Cospito in liaison con le mafie e loro strumento per eliminare il 41bis, tant’è che a chi lo va a trovare, come il Pd, chiede di parlare proprio con loro? Anche questa, per l’avvocato, sarebbe una bufala. Racconta che “tra fine dicembre e gennaio cambiano i compagni di cella di Cospito”. Sempre quattro, e sempre gli stessi durante la giornata, perché così vuole il regime del 41bis. “I compagni di cella diventano altri - dice Rossi Albertini - ed è normale che i nuovi si complimentino per una battaglia che ovviamente non può che vederli d’accordo”. Nessuna pianificazione a monte, dunque. Ma Rossi Albertini va oltre le polemiche. In questo momento gli preme solo salvare la vita di Cospito perché la vede decisamente a rischio. A cominciare dal fatto che lo Stato non gli consente neppure di parlare con il suo medico di fiducia. Il caso Cospito: chiariamo alcuni punti di Gian Carlo Caselli micromega.net, 7 febbraio 2023 Se uniamo i punti del caso Cospito come avviene nelle riviste di enigmistica, nel fronte Pd emergono smagliature non banali e nella maggioranza di governo emerge l’uso spregiudicato di atti riservati per attaccare gli avversari politici a colpi di manganello o machete, col sostegno dell’informazione amica. Fissiamo alcuni punti che ruotano intorno al “caso Cospito”. 1. Alberto Cospito, anarchico terrorista, è detenuto a Sassari (per una “gambizzazione”, per aver spedito qua e là per l’Italia vari ordigni esplosivi, per un grave attentato fallito ad una caserma Cc di Fossano); 2. Cospito è al 41 bis e da oltre 100 giorni fa lo sciopero della fame contro questo regime carcerario; 3. Una delegazione del Pd (Orlando, Serracchiani, Verini e Lai) fa visita al detenuto Cospito; un’attività rientrante nel potere ispettivo sulle carceri riconosciuto ai parlamentari, ma nel caso concreto esercitata con modalità (quattro persone quattro) forse sovra dimensionate; 4. Il GOM (Gruppo operativo mobile; un’articolazione della Polizia penitenziaria che si occupa dei 41 bis), in una relazione indirizzata al DAP (Dipartimento amministrazione penitenziaria), riferisce di un colloquio intercorso fra Cospito e alcuni mafiosi co-detenuti; costoro lo esortano a proseguire nello sciopero perché “pezzo dopo pezzo si arriverà al risultato”; 5. Cospito fa sapere che la sua lotta estrema per abolire il 41 bis è una lotta in favore di tutti i detenuti assoggettati a questo regime; tant’è che dichiara di voler continuare lo sciopero della fame anche nel caso che la misura gli fosse tolta. Tutti i detenuti al 41 bis: quindi anche i mafiosi (riconoscenti!). 6. Dal DAP la relazione del GOM passa, come di norma, al Ministero della giustizia di via Arenula; 7. La legge Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri (si era segnalato portando la sua piena e incondizionata solidarietà agli Agenti penitenziari nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove era stata denunziata una terribile vicenda di pestaggi dei reclusi); 8. Del Mastro porta la relazione a conoscenza del compagno di partito (FDI) Giovanni Donzelli (deputato vicepresidente del Copasir) con il quale condivide l’appartamento di Roma; 9. Il contenuto della relazione viene qualificato ora come sensibile, ora come riservato, ora a divulgazione limitata (qualunque cosa ciò significhi); per di più la Procura di Roma ha aperto un procedimento per violazione di segreto; 10. Con un “vibrante” intervento alla Camera dei deputati, Donzelli racconta del colloquio di Cospito coi mafiosi; aggiunge che esso è avvenuto proprio nel giorno della visita al carcere di Sassari della delegazione del Pd; parla di contatti anche con i mafiosi co-detenuti di Cospito; quanto basta a Donzelli per stigmatizzare i Pd come fiancheggiatori di anarchia, terrorismo e crimine organizzato; 11. Emerge inoltre che fu Cospito a indirizzare la delegazione Pd ai mafiosi co-detenuti; 12. Delmastro in una intervista a “Il Biellese” dichiara che il Pd “dovrà spiegare all’opinione pubblica quell’inchino ai mafiosi” nel carcere di Sassari. 13. L’opposizione chiede le dimissioni di Delmastro e Donzelli e ipotizza una mozione di sfiducia nei confronti del sottosegretario; i due non retrocedono di un mezzo millimetro dalle loro posizioni; la Maggioranza fa blocco intorno a loro; la premier Giorgia Meloni per un po’ tace, poi (con una lettera al Corriere della Sera, evitando le domande che qualche giornalista “curioso” potrebbe porre in una conferenza stampa) sostanzialmente “assolve” i suoi sodali Delmastro e Donzelli e conclude salomonicamente con un’azione di pompieraggio invitando tutti (tutti…) ad abbassare i toni. Se uniamo i punti del “caso Cospito” come avviene nelle riviste di enigmistica, nel fronte Pd emergono “smagliature” non banali e nella maggioranza di governo escono figure con “postura muscolare di wrestler staraciano” (così Massimo Giannini su “La Stampa” del 5.2.23, riferendosi più in generale alla politica del governo nei suoi primi cento giorni). Di certo si profila nettamente l’uso spregiudicato di atti riservati per attaccare gli avversari politici a colpi di manganello o machete, col sostegno dell’informazione “amica” (c’è chi ha scritto di un “asse” bombaroli-Pd…). Con il timore che la “postura muscolare” miri soprattutto a distogliere l’attenzione della pubblica opinione dalla mancata soluzione dei gravi problemi politico-economici che affliggono anche il nostro paese in questa lunga e pesante contingenza. In ogni caso, il caso Cospito e la sua gestione in Parlamento hanno “gonfiato” il tema del 41 bis inducendo molti, prima più prudenti, a chiederne con forza l’abolizione, che però per la lotta alla mafia sarebbe una vera iattura. Se lasciamo da parte pregiudizi e approssimazioni, non possiamo non riconoscere la “specificità” della mafia rispetto ad ogni altra forma di criminalità. Questa specificità (riconosciuta dalla stessa Consulta) consente di parlare del “doppio binario”, di cui il 41bis è struttura portante, in termini di “ragionevolezza”, parametro utilizzabile per superare i dubbi di incostituzionalità. Da questa premessa dovrebbe partire ogni discussione sul 41bis. La protesta di Cospito contro il 41bis e l’ergastolo ostativo riflette la storia violenta del carcere di Giuseppe Rizzo L’Essenziale, 7 febbraio 2023 Il caso di Alfredo Cospito non è cominciato oggi: va avanti da 250 anni e non da 110 giorni. I secoli sono più o meno quelli della storia del carcere così per come lo conosciamo nella sua forma attuale, i giorni sono quelli dello sciopero della fame che l’anarchico ha cominciato contro il 41bis e l’ergastolo ostativo. Se queste due vicende non si leggono insieme, si rischia di non capire né l’una né l’altra: né, evidentemente, l’importanza che hanno per tutti, dentro e fuori la galera. Cominciamo da Cospito. Nel 2014 l’anarchico è stato condannato perché due anni prima a Genova aveva ferito Roberto Adinolfi, dirigente dell’Ansaldo nucleare, sparandogli alle gambe. Nel 2017 è stato accusato di vari reati, tra cui aver messo due pacchi bomba davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, esplosi nella notte ??tra il 2 e il 3 giugno 2006. L’attentato non ha causato né morti né feriti, ma secondo i giudici è stata solo una casualità, e infatti lo hanno condannato a vent’anni di reclusione con l’accusa di strage. La corte di cassazione ha però ritenuto che non bastasse, e nel luglio 2022 ha ridefinito il reato da “strage contro la pubblica incolumità” a “strage contro la sicurezza dello stato”. Per capirsi: neanche gli attentati di Capaci e di via d’Amelio nel 1992 (undici morti in totale), né quello di Bologna nel 1980 (ottanta vittime), furono definiti stragi contro la sicurezza dello stato. Come ha scritto Adriano Sofri, è inutile commentare: “Non si può commentare la smisuratezza. La giustizia è smisurata e si compiace di esserlo, i suoi amministratori hanno nomi e cognomi ma non li indossano, bastano le uniformi, sono esseri smisurati per irrazionalità e cattiveria”. L’ergastolo ostativo - Per questo reato Cospito rischia l’ergastolo ostativo e cioè la pena senza scampo. È il caso di soffermarsi su questa misura, perché è uno di quegli strumenti nati durante periodi d’emergenza che però sono diventati ordinari nel sistema penale italiano - distrattamente per la maggioranza delle persone, volutamente per gli innamorati delle galere altrui - e che caratterizzano questa storia. Messo a punto all’indomani della strage di Capaci per combattere la mafia, l’ergastolo ostativo cancellava ogni alternativa al carcere per chi non collaborava con la giustizia. Nel tempo le maglie si sono allargate e oggi tra i cosiddetti delitti ostativi non c’è solo l’associazione mafiosa, ma anche il sequestro a scopo d’estorsione, la violenza sessuale di gruppo, il peculato e la corruzione. Nel 2021 la corte costituzionale ha accertato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo e ha lasciato al parlamento un anno di tempo per “affrontare la materia”. Il governo Meloni lo ha fatto, riconfermandolo. L’emergenza è diventata sistema. Ma non è l’unica nel caso di Cospito. Da quando è in carcere l’anarchico ha continuato a inviare articoli ad alcuni giornali della sua area, usando le parole che ha sempre usato: insurrezione, lotta contro lo stato, violenza necessaria. Finché nel maggio 2022 l’allora ministra della giustizia Marta Cartabia ha ritenuto che le sue parole fossero “documenti destinati ai propri compagni anarchici, invitati esplicitamente a continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti ritenuti più efficaci”. Per questo motivo a Cospito, invece di una semplice censura alla sua posta, è stato applicato il 41 bis, la seconda eccezione diventata regola che compare in questa vicenda. Il 41 bis - La misura esiste dal 1986, quando fu approvata per consentire al ministero della giustizia “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza” di sospendere “l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti”. Sono ancora una volta gli attentati di cosa nostra del 1992 a spingere la politica ad estendere i “casi eccezionali” e le “situazioni di emergenza”, consentendo di applicare il 41 bis ai mafiosi per interrompere ogni loro contatto con l’esterno. Doveva durare tre anni, è arrivato fino a oggi, in una forma che prevede: l’isolamento quasi totale; due ore d’aria al giorno, contro le quattro degli altri; un colloquio di un’ora al mese, invece di sei, e solo con i familiari, separati da un vetro, tranne se il familiare ha meno di dodici anni; la sorveglianza 24 ore su 24; il controllo della posta; la registrazione delle telefonate e degli incontri. La durezza di questo regime è sconfinata spesso nell’umiliazione, nel paradosso e nell’assurdo, quando non nell’annientamento vero e proprio, atteggiamenti e prassi vietate dalla costituzione italiana, anche per i crimini più violenti. Nel 2021 a un detenuto è stato negato un libro di Marta Cartabia, allora ex presidente della corte costituzionale, perché il possesso lo avrebbe “messo in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”. Il Post ha raccontato la storia della brigatista rossa Nadia Lioce: “La detenuta in un anno solare aveva parlato solo per 15 ore”. Un altro detenuto ha detto al Dubbio: “Per dieci anni sono stato isolato in una cella di 1,52 metri di larghezza per 2,52 di lunghezza. Non mi arrivava un raggio di luce”. Il docente di diritto penale Tullio Padovani ha tradotto in un’immagine efficace e sconfortante questa realtà: “Come previsto dalla normativa europea, un maiale adulto deve disporre di almeno sei metri quadrati di superficie libera. Noi al posto del porco mettiamo il detenuto”. Nel tempo, anche l’uso del 41 bis si è dilatato, andando oltre il perimetro dell’associazione mafiosa. Oggi può finirci chi è accusato di terrorismo, prostituzione minorile, pedopornografia e contrabbando di tabacchi. Cospito è il primo e unico anarchico nella storia italiana a cui è stato applicato. Come ha ricordato sull’Essenziale Luigi Manconi, sociologo ed ex senatore del Pd, il 41 bis dovrebbe avere una sola finalità: “Interrompere le relazioni tra il detenuto e la criminalità esterna. Tutte le misure che eccedono quello scopo sono illegali”. Nel 2018 la corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver rinnovato il 41 bis al boss mafioso Bernardo Provenzano in punto di morte, violando il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani. La corte costituzionale italiana è intervenuta varie volte, dichiarando illegittimi alcuni divieti, ma di fatto l’emergenza a cui doveva rispondere la norma è diventata ormai normale amministrazione. C’è un motivo per cui questo succede, e per capirlo bisogna tornare a circa 250 anni fa. Il carcere non è sempre esistito - Nel 1757 Robert-François Damiens provò a uccidere re Luigi XV di Francia e per questo fu condannato a una delle pene più esemplari dell’epoca. “Alla fine fu squartato. Quest’ultima operazione fu molto lunga, perché i cavalli di cui ci si serviva non erano abituati a tirare (…), si fu obbligati, per smembrare le cosce del disgraziato a tagliargli i nervi e a troncargli le giunture con la scure”. Nel raccontare l’esecuzione di Damiens il filosofo Michel Foucault non risparmia i dettagli più atroci e per un motivo preciso: fin dalle prime pagine del suo Sorvegliare e punire (Einaudi 1976) vuole mostrare “lo splendore dei supplizi”, ovvero il ricorso alle punizioni eclatanti, brutali e ingegnose che hanno preceduto la nascita del carcere. Al contrario di quanto si possa pensare, il carcere non è sempre esistito. Anzi, nella forma in cui lo conosciamo oggi ha una storia relativamente breve, che comincia tra il settecento e l’ottocento. Non che prima non esistessero prigioni, segrete o “recinti” (carcer, in latino) dove tenere chiusa la gente. Ma erano appunto quello: luoghi in cui una persona accusata di qualcosa doveva aspettare la sua pena. Non erano la pena. Non si condannava qualcuno a sei mesi, sei anni o sessant’anni di carcere. Gli antichi romani preferivano che i torti fossero risarciti in denaro, o con la fustigazione, l’esilio, i lavori forzati, e in alcuni casi la morte. In linea di principio il carcere era usato “ad continendos homines, non ad puniendos”. E così è stato per secoli. Perfino nel medioevo il carcere non aveva la centralità che ha oggi. Questo non significa che la situazione fosse migliore. Invece di scontare la loro pena in una cella le persone erano messe alla gogna, decapitate, bruciate, mutilate. I supplizi, appunto, splendevano. È durante l’illuminismo, scrive Foucault, che “la punizione cessa, poco a poco, di essere uno spettacolo”. Quel rito che “concludeva il crimine viene sospettato di mantenere con questo losche parentele: di eguagliarlo, se non sorpassarlo (…) di far rassomigliare il boia a un criminale e i giudici ad assassini”. Contro il supplizio estremo, cioè la pena di morte, nel 1764 Cesare Beccaria scrisse Dei delitti e delle pene, un libro che racchiudeva lo spirito di riforma dell’epoca e che scatenò entusiasmi e polemiche in diversi paesi europei. “L’assassinio, che ci viene presentato come un crimine orribile, noi lo vediamo commettere freddamente, senza rimorsi”, scriveva il marchese. Con cosa sostituirlo? Sul frontespizio della terza edizione del libro c’è un’immagine emblematica. La giustizia rappresentata da Minerva allontana con orrore il boia che le offre una serie di teste tagliate e punta lo sguardo verso un insieme di zappe, seghe e martelli, intrecciati a catene e manette. Il lavoro coatto e il carcere erano l’alternativa alla pena di morte e alla barbarie dei supplizi. La prigione nasce come una risposta a un’emergenza, ma l’emergenza l’ha segnata: da un lato è un’istituzione che ne è afflitta, dall’altro non potrebbe farne a meno. Tanto che, come ha fatto notare Foucault, le proposte di riforma del carcere sono coetanee al carcere stesso, e le inchieste giornalistiche e le denunce di secoli fa sulle sue condizioni sono simili a quelle di oggi. Perché tutto questo funzioni c’è bisogno di una cosa: far credere che non esistano alternative. Foucault: “Essa appare talmente legata, e in profondità, col funzionamento stesso della società, da respingere nell’oblio tutte le altre punizioni che i riformatori del secolo diciottesimo avevano immaginato”. David Garland (Pena e società moderna, il Saggiatore 1999): “L’esistenza stessa di un sistema penale induce a trascurare la pensabilità di soluzioni alternative e a dimenticare che le istituzioni sono convenzioni sociali che non rispondono a un ordine naturale”. Wole Soyinka (Le baccanti di Euripide, Zona 2002): “Sei in catene. Ami le catene. Respiri catene, parli di catene, mangi catene, sogni catene, pensi catene. Il tuo mondo è in manette”. Il carcere è una macchina che crea e divora emergenze, trasformandole in sistemi ordinari. Il 41 bis e l’ergastolo ostativo ne sono gli esempi più drammatici. Non sono delle eccezioni, sono il carcere al massimo della sua forma. La vicenda di Alfredo Cospito mostra che in Italia una pena basata sui principi di umanità e recupero, invece che sulla sete di vendetta e annientamento del nemico, è un’idea minoritaria. Lo era anche quella sull’abolizione della pena, come ricorda spesso il giurista Luigi Ferrajoli. Se la proposta di Beccaria e altri riformatori fosse stata messa ai voti, anche solo tra le persone che allora sapevano leggere, sarebbe stata bocciata. Senza una classe politica con il coraggio di assumersi la responsabilità di scelte impopolari, radicali e giuste, senza un’idea di mondo migliore che non sia quella di un mondo in prigione, senza una concezione della pena diversa dalla vendetta, i supplizi continueranno a splendere. Quei malati psichiatrici due volte vittime dell’inferno del carcere di Giorgio Mannino Il Domani, 7 febbraio 2023 Roberto si è tolto la vita dentro la sua cella nel carcere Pagliarelli di Palermo. Ha fatto un cappio con le lenzuola e si è lasciato andare giù. Aveva 29 anni. È morto il 15 settembre 2022, dopo due settimane di coma. Era stato accusato di una tentata rapina in una parafarmacia e a ottobre lo aspettava la prima udienza del processo. Davanti al giudice non c’è mai arrivato. Troppa la pressione, moltiplicata dietro le sbarre dalle sue fragilità. Roberto era un malato psichiatrico, soffriva di disturbo di personalità borderline. Racconta suo padre Ino Vitale, poliziotto in pensione: “Da maggio ad agosto, in quei tre mesi di detenzione, Roberto ha cambiato decine di celle perché quando i compagni si accorgevano che prendeva le medicine lo allontanavano. Gli facevano trovare i bagagli fuori dalla cella”. Le condizioni di vita erano impossibili, dice Ino: “Non si riusciva a respirare. La cosa peggiore è che la doccia, col caldo che fa a Palermo d’estate, veniva permessa una volta alla settimana. Roberto spendeva i soldi per comprare acqua minerale al supermercato. Si lavava di nascosto. E alla fine, per non farsi discriminare dagli altri detenuti, ha smesso di assumere i farmaci”. Il padre di Roberto non trattiene le lacrime: “Mio figlio non avrebbe mai dovuto mettere piede in carcere nelle sue condizioni di salute. Anche il gip, disponendo la custodia cautelare in carcere, si era raccomandato di trovare una comunità terapeutica che lo accogliesse. Ma non c’erano posti liberi. Non si può perdere un figlio così. Roberto ha lottato ma dentro di me sapevo che non ce l’avrebbe fatta. Il sistema non funziona”. Ino Vitale è stato tra i primi poliziotti ad arrivare in via D’Amelio dopo l’esplosione della bomba che ha ucciso Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. Di quel pomeriggio che ha segnato la storia italiana ricorda tutto. “Credevo di aver visto l’inferno quel 19 luglio 1992, invece l’inferno l’ho visto in carcere e l’ho vissuto attraverso i racconti di mio figlio. Per anni ho servito lo stato, lo stesso che avrebbe dovuto custodire Roberto e che invece me l’ha portato via per sempre”. Undici suicidi nel 2022 - La Sicilia è osservatorio privilegiato per raccontare l’inferno carcerario. Quello di Roberto è uno degli undici suicidi registrati nelle carceri siciliane in un 2022 che sarà ricordato come l’anno nero per gli istituti di pena italiani. L’anno scorso 84 detenuti si sono tolti la vita, uno ogni cinque giorni. Il precedente primato negativo risaliva al 2009, quando in totale erano stati 72. Ma allora i detenuti nelle carceri erano 61mila, cinquemila in più di oggi. “Non vedere negli 84 suicidi dell’ultimo anno la misura delle condizioni in cui versano le carceri del paese è ingiustificabile”, commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione nata negli anni Ottanta per tutelare i diritti e le garanzie nel sistema carcerario. I penitenziari dell’isola sono al secondo posto nella classifica dei gesti estremi in cella dopo i 15 suicidi registrati in Lombardia. Ma in rapporto alla popolazione carceraria (seimila i detenuti in Sicilia, ottomila in Lombardia) i due dati sono equivalenti e fanno del caso siciliano un simbolo preoccupante. L’età media delle persone che si sono tolte la vita è di 37 anni. Spiega Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti: “Basta fare i conti. Se rapportiamo queste cifre ai siciliani che nel 2022 si sono tolti la vita fuori, ci accorgiamo che nelle carceri il tasso di suicidi aumenta di almeno venti volte. Il piano di prevenzione del rischio suicidi e atti autolesionistici dev’essere dotato di figure specialistiche, altrimenti è una scatola vuota che serve a poco. E questi numeri lo confermano”. Degli undici suicidi nelle carceri siciliane quattro si sono verificati a Palermo, e uno in ciascuno dei penitenziari di Messina, Catania, Barcellona Pozzo di Gotto, Caltagirone, Siracusa, Castelvetrano e Termini Imerese. Di questi detenuti cinque erano siciliani, quattro stranieri, uno proveniente dal Veneto e uno dal Lazio. A pesare è anche il sovraffollamento. Dei 23 istituti di pena siciliani almeno quattro - Castelvetrano, Augusta, Catania Bicocca e Gela - superano la capienza massima prevista dalla legge. Le Rems - “Perché mio figlio è stato rinchiuso in un carcere normale? Non era il posto giusto. Lo stato lo ha abbandonato”. La risposta alla domanda di Ino Vitale è sempre la stessa: assenza di strutture e di posti disponibili. In Sicilia sono circa 200 i detenuti in lista per le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture sanitarie per l’accoglienza di pazienti psichiatrici autori (o accusati) di reato. Ma le Rems in tutta l’isola sono solo due, una a Caltagirone, l’altra a Naso, in provincia di Messina. Ognuna può ospitare 20 pazienti. Per accedervi si possono aspettare anche due anni. L’assessore alla Salute della giunta Musumeci, Ruggero Razza, in carica fino allo scorso ottobre, aveva annunciato l’apertura di altre due strutture, una a Caltanissetta e l’altra nella Sicilia occidentale. Il governo regionale è cambiato e al momento non si è visto nulla. Ma a mancare non sono solo le strutture. In molti istituti vi è una presenza di specialisti psichiatri e psicologi nettamente inferiore alla media nazionale. Il problema è diffuso, ma anche in questo caso Palermo è maglia nera. Sia nel 2021 che nel 2022 la media dei servizi erogati si attesta intorno alle 10 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri, e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. Gli ultimi dati disponibili diffusi da Antigone mostrano ad esempio che il carcere Ucciardone di Palermo ha una presenza molto inferiore di entrambi gli specialisti: 5,1 ore gli psichiatri e 5,1 ore gli psicologi. Come dire che uno psichiatra passa una mattinata alla settimana a occuparsi dei problemi mentali di un centinaio di persone. Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale dell’università di Palermo e garante dei detenuti in Sicilia, “non è solo un problema di carenza numerica, ma anche di competenza e di formazione degli psicologi carcerari. Manca una competenza specifica di psicologia penitenziaria, una conoscenza approfondita delle reazioni che si possono manifestare per effetto dello stato detentivo”. Secondo il noto giurista “dovrebbero essere anche i magistrati, quando dispongono l’applicazione della pena detentiva, ad avere maggiore attenzione rispetto alle caratteristiche psicologiche di chi viene giudicato. Certamente il magistrato non è uno psicologo, per questo ci vorrebbe personale esperto che interagisca con lui”. Ad aggravare la situazione della realtà penitenziaria siciliana, secondo Fiandaca, c’è anche “la minore opportunità di lavoro, di formazione e di studio rispetto ad altri luoghi”. Il garante nazionale Palma sollecita l’iniziativa delle aziende sanitarie territoriali: “Devono muoversi e in fretta. È un problema trasversale. Anche in Lombardia, per esempio, è difficile trovare comunità che accolgano pazienti psichiatrici in attesa di giudizio o condannati. In questi casi l’elemento di supporto della sanità territoriale dovrebbe essere molto forte”. E sottolinea un dato è allarmante: “Il 70 per cento delle persone che si sono uccise nel 2022 sono state coinvolte in situazioni di criticità. Cioè situazioni in cui la struttura carceraria non poteva farcela da sola e si richiedeva l’aiuto della realtà territoriale”. Aiuto che, come i risultati dimostrano, troppo spesso è mancato. Le opposizioni unite assediano la giustizia. Meloni (per ora) fa scudo di Simona Musco Il Dubbio, 7 febbraio 2023 Le “rivelazioni” di Donzelli su Cospito e i dem hanno l’effetto di compattare Pd, 5Stelle e Calenda. Da Calenda a Conte, l’opposizione si compatta per la prima volta e lo fa contro il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Con un duplice attacco, che va dalle mozioni di censura presentate da Pd e M5S - alle quali il Terzo Polo ha già garantito il proprio voto favorevole - e il pressing di Riccardo Magi (+ Europa), Enrico Costa (Azione) e Angelo Bonelli (Verdi) per l’accesso agli atti resi pubblici in aula dal vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli. Un modo per dimostrare che delle due solo una può essere la verità: o gli atti sono accessibili anche agli altri parlamentari e, dunque, Donzelli poteva entrarne in possesso o quella commessa dal sottosegretario Delmastro - che gliene ha riferito il contenuto - è stata una violazione, per cui è necessario che restituisca le deleghe. Il primo a colpire il governo è Magi, che da quattro giorni attende una risposta alla richiesta di accesso agli atti presentata al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al capo del Dap Giovanni Russo, con la quale chiede “di prendere visione e/ o di ottenere copia della scheda di sintesi del Nic (Nucleo investigativo centrale, ndr)” sui dialoghi tra l’anarchico in sciopero della fame Alfredo Cospito e tre boss al 41 bis, atti che, secondo Nordio, non sarebbero coperti da segreto. In assenza di risposta da via Arenula, Magi si presenterà personalmente oggi al ministero per sollecitarne la consegna, così come farà Bonelli. L’altro fronte caldo è quello delle mozioni di censura, depositate alla Camera da dem, Alleanza Verdi- Sinistra e grillini. Premesso che “il sottosegretario Delmastro Delle Vedove ha svelato il contenuto di informazioni riservate e il collega Donzelli le ha usate strumentalizzandole contro alcuni deputati del maggior gruppo dell’opposizione ed è evidente che la rivelazione di informazioni riservate e delicatissime per la lotta alla mafia e al terrorismo da parte del sottosegretario dimostra la sua assoluta inadeguatezza al ruolo ricoperto - si legge nella mozione firmata da Pd e Avs -, impegna il Governo ad invitare l’onorevole avvocato Andrea Delmastro Delle Vedove a rassegnare le dimissioni da sottosegretario di Stato alla giustizia”. La mozione “è un passaggio ineludibile”, secondo Marco Grimaldi, vicecapogruppo Avs alla Camera. “Di fronte all’incredibile copertura offerta dalla presidente del Consiglio Meloni ai due esponenti di Fratelli d’Italia - ha evidenziato - non resta che insistere nella nostra denuncia: il comportamento dei due coinquilini li rende inaffidabili, hanno rotto la catena di garanzie istituzionali che è a fondamento dello Stato di diritto. Oggi rivelazioni di materiale sensibile e non divulgabile usato come clava contro le opposizioni, ci chiediamo quale potrebbe essere il prossimo passo, un bel dossieraggio?”. Il M5S chiede invece di “avviare immediatamente le procedure di revoca, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, della nomina a sottosegretario di Stato del deputato Andrea Delmastro Delle Vedove”. Meloni, ha poi aggiunto il leader dei 5S Giuseppe Conte in comizio a Monza, “deve invitare i suoi fedelissimi Donzelli e Delmastro a dimettersi, perché si sono dimostrati superficiali e inadeguati ai ruoli che rivestono, non possono utilizzare informazioni non segrete ma riservate e non divulgabili per fini di lotta politica, non è consentito”. Assicurato il supporto del Terzo Polo, come chiarito dal leader di Azione Carlo Calenda in un’intervista al Corriere della Sera. “È netto che la ragione stia dalla parte del Pd - ha sottolineato. Noi l’abbiamo sempre detto che sulle questioni che riguardano i diritti ci sarebbe stata un’opposizione intransigente. Qui stiamo parlando dell’uso d’informazioni riservate nella disposizione di un sottosegretario alla Giustizia che vengono usate contro l’opposizione. È inaccettabile”. Salvini e Berlusconi con la premier: il 41 bis non si tocca di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 7 febbraio 2023 I leader di Lega e Forza Italia condividono la linea di Giorgia Meloni: “Non si toccano alcune leggi sotto minaccia e sotto ricatto o sotto violenza”. “Assolutamente sì”. Così il vicepremier e segretario della Lega Matteo Salvini, a margine dell’incontro dei ministri del Carroccio a Mind, ha risposto a chi gli chiedeva se sul caso Cospito la maggioranza di governo sia compatta sulla posizione della premier Giorgia Meloni. “Non si toccano alcune leggi sotto minaccia e sotto ricatto o sotto violenza”, ha detto Salvini, ricordando che “il 41 bis nacque per evitare che alcuni detenuti pericolosi, possano essere mafiosi o terroristi, comunicassero le loro idee all’esterno”, quindi “se c’è ancora qualcuno convinto nel 2023 che la lotta armata sia la soluzione a un problema, mi sembra assolutamente ragionevole che non possa comunicare queste folli idee all’esterno”. A chi gli chiedeva se il Paese, comprese le opposizioni, debba essere compatto, Salvini ha risposto: “Lo credo fortemente”, augurandosi poi che “tutti abbassino i toni”. Anche Silvio Berlusconi condivide la linea della premier. “Per quanto ci riguarda, noi di Forza Italia siamo stati ben alla larga da ogni polemica strumentale” ha spiegato il leader di Forza Italia parlando a Mattino Cinque. “Non sono preoccupato da questo clima perché l’Italia davanti a manifestazioni e proteste come quelle di questi giorni ha sempre avuto la capacità di rispondere con l’unità di tutte le forze politiche. I violenti o chi ha provato a minacciare i nostri diritti e la nostra democrazia sono sempre stati isolati e sconfitti. Quindi mi sento di tranquillizzare su questo tema tutti i nostri compatrioti. E per quanto ci riguarda, noi di Forza Italia siamo stati, come ha visto, ben alla larga da ogni polemica strumentale”. “I toni non li abbiamo mai alzati, raccogliamo l’invito a lavorare tutti con grande unità quando ci sono delle intimidazioni eversive e delle minacce alla sicurezza dello Stato. Su questo Meloni troverà M5S compatto e in prima linea per assicurare unità e forza allo Stato per quanto riguarda la reazione”. Lo ha detto il presidente Giuseppe Conte, a margine di un appuntamento elettorale a Monza in vista delle elezioni regionali in Lombardia. “Un’altra cosa - prosegue il leader del Movimento 5 Stelle - sono gli avvenimenti accaduti, su quello lei non deve fare il leader di partito ma il presidente del Consiglio. Deve invitare i suoi fedelissimi Delmastro e Donzelli a dimettersi. Hanno dimostrato di essere superficiali, inadeguati nei ruoli che rivestono. Non possono utilizzare informazioni ancorché non segrete ma comunque riservate e non divulgabili che mettono a rischio la sicurezza dei cittadini per fini di lotta politica”. Cospito, da tre giorni Nordio non risponde sull’accesso agli atti di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 7 febbraio 2023 L’iniziativa del deputato di +Europa Riccardo Magi. Anche Costa (Azione) si prepara alla richiesta e Bonelli fa sapere che oggi andrà a via Arenula. Depositate due mozioni da Pd e M5S per le dimissioni del sottosegretario Delmastro, è favorevole anche il Terzo polo. Se quel documento non è segreto, né coperto da una qualche forma di classificazione, allora il ministero della Giustizia permetta l’accesso agli atti. Da tre giorni, il deputato di +Europa Riccardo Magi attende invano una risposta da Carlo Nordio. E in assenza di segnali, domani si recherà personalmente nella sede del ministero a via Arenula per sollecitare la consegna dei documenti che contengono i dialoghi tra Alfredo Cospito e alcuni boss mafiosi, svelati in Aula dal deputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli, che ha ricevuto queste informazioni dal sottosegretario meloniano alla Giustizia Andrea Delmastro. Non è l’unico, Magi. Anche Angelo Bonelli, dei Verdi, annuncia che domani andrà via Arenula a sollecitare i documenti, visto il rifiuto finora opposto. Ed Enrico Costa di Azione si prepara a chiedere l’accesso agli atti. Ecco il testo della richiesta di accesso agli atti di Magi: “Premesso che nel corso della discussione parlamentare svoltasi alla Camera dei Deputati nella seduta di martedì 31 gennaio 2023 (Resoconto Allegato), l’on. Giovanni Donzelli, durante il suo intervento ha dato pubblica lettura di uno stralcio di un documento del Ministero della Giustizia recante alcuni dialoghi intercorsi tra i detenuti Alfredo Cospito e Francesco Presta, in regime di 41-bis; in data 2 febbraio 2023 è stato diffuso un comunicato stampa del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel quale il Ministro ha dichiarato che l’affermazione testuale dell’onorevole Donzelli: ‘dai documenti che sono presenti al Ministero della Giustizià è da riferirsi ad una scheda di sintesi del Nic non coperta da segreto, che non risultano apposizioni formali di segretezza né ulteriori diverse classificazioni sulla scheda, e che la natura del documento non rileva né disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati”. Per questo, il deputato “chiede di prendere visione e/o di ottenere copia della scheda di sintesi del Nic a cui fa riferimento il Ministro Nordio nel comunicato stampa del 2 febbraio 2023 citato in premessa, nonché di ulteriore eventuale documentazione non coperta da segreto contenente i dialoghi tra il detenuto Alfredo Cospito e il detenuto Francesco Presta diffusi dall’on. Giovanni Donzelli, o tra Cospito e altri detenuti”. È evidente che l’attesa è tutta per la risposta del ministero. Negare l’accesso agli atti avrebbe l’effetto di rinfocolare le polemiche attorno al comportamento di Delmastro e Donzelli, mentre permetterlo costituirebbe comunque un delicato precedente. “Non mi ha ancora risposto nessuno, attendo. E mi preparo ad andare al ministero”, dichiara Magi. E anche il deputato di Azione Costa si prepara a richiedere l’accesso agli atti. La battaglia attorno alle rivelazioni di Cospito non accenna a placarsi. Le mozioni contro il sottosegretario - Intanto due mozioni per chiedere le dimissioni del sottosegretario alla Giustizia Delmastro, sono state presentate alla Camera dai gruppi del Pd-Avs e del M5S. Mentre il Terzo Polo preparerà una mozione di censura contro Delmastro insieme al Pd, come ha fatto sapere il leader di Azione, Carlo Calenda. L’opposizione si muove unita, come mai prima, su questo dossier. Un sottosegretario non può essere sfiduciato come un ministro, ma può essere invitato a dimettersi, così come chiedono le due mozioni. Se passasse anche una sola delle due, il sottosegretario dovrebbe essere invitato a dimettersi. In caso di rifiuto la sua nomina potrebbe venire revocata dal presidente della Repubblica sentito il presidente del Consiglio, d’intesa con il ministro interessato. I precedenti non mancano: dal caso dell’allora sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti Armando Siri, a quello dell’allora viceministro Vincenzo Visco coinvolto nel 2007 nella vicenda Unipol-Gdf. Nel caso di Siri ci fu la revoca della nomina da parte del Presidente della repubblica Sergio Mattarella. Nel caso di Visco, quest’ultimo dovette rimettere la delega sulla Guardia di Finanza. Delmastro, pressing dell’opposizione. La destra fa muro di Andrea Colombo Il Manifesto, 7 febbraio 2023 Possibile mozione di censura unitaria contro il sottosegretario. Lega e Fi a disagio, ma non possono permettersi strappi sul voto. Il caso Cospito? Non esiste. Nessuno azzarda più neppure un dubbio sull’opportunità di sospendere il regime di 41 bis, da Meloni a Conte passando per Salvini e Serracchiani. Nessuna differenza tra maggioranza e opposizione. Problemi sull’articolo che a suo tempo il Pds di Achille Occhetto non votò e che il duro del Pci Ugo Pecchioli definiva “gravissimo”? Non ce ne sono. Se su Cospito l’unanimità è salda, sull’articolo in generale è granitica. Per la politica il caso è chiuso: restano aperti strascichi che riguardano esclusivamente le ginocchiate con cui i partiti si confrontano, ormai guardando solo alle elezioni di fine settimana. Dunque da un lato il caso Delmastro-Donzelli, che la sinistra si sforza di tenere vivo e che ha un fondamento reale, dall’altro lo “scandalo” della visita della delegazione del Pd nel carcere di Sassari. Lì di fondamento reale non c’è neppure l’ombra però, complice un Pd tutto sulla difensiva, rischia di arrivare all’opinione pubblica e agli elettori con ben maggiore impatto. Su Delmastro sono state presentate a Montecitorio due mozioni di censura che chiedono la revoca dell’incarico, una dal M5S, l’altra in tandem dal Pd e Asv, ma potrebbe arrivare una mozione unitaria delle opposizioni. “Il 41 bis, l’ergastolo ostativo e le intercettazioni non si toccano. La decisione su Cospito spetta alle autorità competenti. Noi siamo pronti ad abbassare i toni ma la presidente Meloni deve invitare i suoi due fedelissimi a dimettersi”, spiega Conte e riesce a sintetizzare perfettamente lo stato delle cose. Sulla sostanza della vicenda il sentire è identico: il resto è materiale da rissa mediatica. Che la mozione venga approvata è impossibile anche se il disagio di Lega e Fi è evidente. Salvini insiste nel ripetere, salomonico, che tutti devono abbassare i toni e oltre non va. Berlusconi segnala che il partito azzurro è stato “alla larga dalle polemiche”. Tradotto suona come rivendicare la non partecipazione alla sgangherata aggressione di Donzelli. Ma alla resa dei conti né il Carroccio né Arcore possono votare una mozione che segnerebbe la fine della maggioranza e del governo. Non significa che l’incidente sia destinato a passare senza lasciare tracce. L’irritazione del Cavaliere è reale e profonda, anche perché la vicenda, i toni usati dai due meloniani, la completa sottomissione del guardasigilli non sono certo un buon auspicio né per la riforma della giustizia, a cui Berlusconi tiene molto, né per il suo peso nelle scelte future della maggioranza, a cui tiene moltissimo. Ma è una incrinatura che si trasformerà in qualcosa di più, forse, solo nei prossimi mesi. A modificare un quadro che altrimenti sembra definito possono essere solo le inchieste: quella parlamentare del Giurì d’onore della Camera e quella giudiziaria della Procura di Roma, a cui ieri sono stati consegnati dai Gom tutti i fascicoli riguardanti le conversazioni tra Cospito e altri detenuti riportate parola per parola da Donzelli in aula. Per ora i magistrati di Roma, attivatisi dopo l’esposto del leader verde Bonelli, si concentrano sulla natura specifica di quel monitoraggio. I tempi non saranno fulminei. Ma è evidente che una censura esplicita del Giurì o il ravvisamento di estremi di reato da parte della procura renderebbero la situazione dei due pupilli di Meloni molto più pericolante. Al momento però a incassare è solo la premier. Lo dicono i sondaggi che registrano un tripudio giustizialista, un peana al carcere duro e magari fosse anche più duro, modello Guantanamo, i cui dividendi finiranno quasi tutti nei forzieri di FdI. L’ultimo cavillo di Nordio sulle carte di Cospito per salvare Donzelli di Tommaso Ciriaco e Fabio Tonacci La Repubblica, 7 febbraio 2023 Nella risposta alla richiesta di accesso agli atti del deputato Bonelli, il ministero prova a dribblare le accuse: “Documenti divulgabili anche se di norma inaccessibili”. Nel tentativo di salvare il sottosegretario Andrea Delmastro e il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, il ministro della Giustizia Carlo Nordio si aggrappa di nuovo all’arzigogolo giuridico. Questa volta inserito non in un comunicato stampa ma nella risposta all’istanza di accesso agli atti presentata da Angelo Bonelli dei Verdi, che ha chiesto di avere le stesse carte su Cospito da cui il deputato ha attinto per scagliarsi in Aula contro l’opposizione. Risposta che per forza di cose doveva essere positiva, altrimenti la linea del governo Meloni, riassumibile in “Donzelli e Delmastro potevano averle, nessun segreto d’ufficio è stato violato”, sarebbe crollata all’istante. E però la via d’uscita è tutt’altro che un’agile discesa. Dunque il ministero, replicando a Bonelli, ribadisce che il documento nella disponibilità di Donzelli - una scheda di sintesi del Nucleo investigativo centrale (Nic) della Polizia penitenziaria relativa alle attività dell’anarco-insurrezionalista recluso al 41 bis nel carcere di Bancali - non era in alcun modo classificato. Di più: pur contenendo le dichiarazioni di boss mafiosi, “era divulgabile”. Allo stesso tempo da via Arenula sono costretti ad ammettere che quella scheda del Nic non si può avere neanche tramite l’accesso agli atti perché coperta da un decreto ministeriale (il 115 del 1996) che, per tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica, la rende inaccessibile. Infatti, e non a caso, il richiamo al decreto 115 appare in calce alla relazione di servizio che riporta la visita a Cospito dei quattro parlamentari Pd Debora Serracchiani, Andrea Orlando, Silvio Lai e Walter Verini. Curioso che il sottosegretario Delmastro, già avvocato della premier Giorgia Meloni (le sta seguendo la causa contro Roberto Saviano), non abbia considerato il rischio di incappare nel reato di rivelazione di segreto d’ufficio quando ha consegnato al suo coinquilino Donzelli parti della scheda. È proprio questo il punto su cui sta indagando la procura di Roma e che spaventa, non poco, Donzelli, Delmastro e lo stesso Nordio. Se non è accessibile, come ha fatto il Gabinetto del ministro ad accettare parzialmente la richiesta di Bonelli, inviandogli solo le tre pagine (49, 53 e 53) del documento dove si leggono i virgolettati di Cospito? Allargando a dismisura la facoltà di sindacato ispettivo dei parlamentari. In pratica, ha considerato l’istanza di Bonelli alla stregua di una interrogazione parlamentare, quindi “atto ascrivibile latu sensu al sindacato ispettivo”. Peccato però che neanche in questo modo Donzelli ne esce: non ha fatto né l’accesso agli atti né una domanda scritta che, al limite, poteva rientrare nella formula larga pensata a via Arenula. Ne conosceva il contenuto perché gli è stato rivelato dal sottosegretario, scavalcando ogni procedura istituzionale. E volutamente esagerando ciò che quella carta non dice. Delmastro sostiene che i quattro, durante la vista a Bancali, si siano “inchinati” alla mafia. Ma Repubblica ha potuto leggere la relazione di servizio del Gruppo operativo mobile (altro reparto della Penitenziaria) sull’incontro, durato 48 minuti: non c’è stato alcun inchino, piuttosto l’ennesimo monologo di Cospito. La visita comincia alle 11.25 della mattina del 12 gennaio. La delegazione Pd è davanti alla cella n.24 e Cospito si affaccia al cancello. “Non ho niente da dire se prima non parlate con gli altri detenuti, solo dopo avrò qualcosa da dire”, fa lui. Il poliziotto del Gom annota: “A tale frase la delegazione si affacciava alla camera numero 25 dove c’è il detenuto al 41 bis Francesco Di Maio (boss dei Casalesi, ndr), che salutava la delegazione e riconosceva Orlando quale ex ministro della Giustizia”. Sente Di Maio esclamare: “Ora siamo inguaiati”. Il tono e la circostanza fanno pensare all’operatore che “probabilmente intendeva dire che prima, nel periodo in cui Orlando era ministro, si stava meglio, mentre ora si sta peggio”. Orlando, sul punto, sottolinea di aver interpretato l’esclamazione come “un fastidio per il fatto che si creasse eccessiva attenzione sul 41 bis di Bancali, con possibili restrizioni”. Aggiungendo: “I deputati hanno detto con fermezza a Cospito che erano lì a verificare le sue condizioni di salute dopo 80 giorni di sciopero della fame”. Il 55 enne, condannato a trent’anni per la gambizzazione del dirigente di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi e per le due bombe fatte esplodere all’ingresso della scuola allievi carabinieri di Fossano, dice di stare fisicamente bene e di essere seguito “benissimo” a livello sanitario, poi si lancia in un rosario di lamentele sulle condizioni detentive e sulle, a suo giudizio, vere ragioni della reclusione al carcere duro. “Solo per la mia ideologia”. Un monologo, lo definisce il poliziotto. “Noi anarchici, che ora conosciamo anche questo mondo, non smetteremo di lottare sino a quando non sarà abolito”. Cospito mostra di sapere cosa si sta muovendo fuori, le manifestazioni e i gesti dimostrativi in giro per il mondo in sua solidarietà. “Continuerò la mia protesta fino alla fine, non ho niente da perdere”. E sulla Fai-Fri Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale, spiega: “Non siamo un’associazione mafiosa, siamo soggetti che seguono ideali e che probabilmente nemmeno ci conosciamo. Come faccio io a essere il capo di un’associazione, ad esempio la Fai-Fri, che ha sostenitori in tutto il mondo?”, si chiede poco prima di salutare la delegazione. Che lascia il carcere sassarese quando sono le ore 12.13. Nordio blinda le regionali: informativa sul caso Delmastro dopo il voto di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 febbraio 2023 Mozioni Pd-M5S: il sottosegretario alla Giustizia si deve dimettere. L’ultimo cavillo del ministro per provare a salvarlo e l’imbarazzo di Forza Italia: “Non ci smarchiamo ma facciamo valere le nostre posizioni”, dice Cattaneo. A meno di una settimana dalle elezioni amministrative, non accenna a calare la tensione sul caso Cospito, e sulle rivelazioni fatte dal sottosegretario Andrea Delmastro al collega di FdI Giovanni Donzelli e da questi denunciate in Aula, riguardo ai colloqui tra l’anarchico abruzzese e i boss di ‘ndrangheta e camorra contro 41 bis ed ergastolo ostativo. Ma a mettere in sicurezza le regionali ci pensa Carlo Nordio: l’informativa del ministro della Giustizia arriverà in Aula martedì 14 febbraio. Giusto il giorno dopo il voto, che in Lazio e Lombardia si terrà domenica e lunedì 12 e 13 febbraio. Ieri comunque è stata guerra di mozioni tra FdI e opposizione che in Aula intende ritrovarsi assieme. I Cinque Stelle hanno depositato una mozione che accusa il sottosegretario di aver “abusato dei suoi doveri” e recato pregiudizio a indagini di mafia e terrorismo. Il Pd ne ha depositata un’altra, alla quale si potrebbe unire anche il Terzo polo, che censura “la rivelazione di informazioni riservate e delicatissime per lotta a mafia e terrorismo” e mostra “l’assoluta inadeguatezza” del sottosegretario. Intanto Fdi, in contemporanea, presenta un testo a favore del 41 bis. Un sottosegretario non può essere sfiduciato come un ministro, ma può essere invitato a dimettersi, così come chiedono appunto le due mozioni di grillini e dem. Se passasse anche una sola delle due, il sottosegretario dovrebbe essere invitato a dimettersi. In caso di rifiuto la sua nomina potrebbe venire revocata dal presidente della Repubblica sentito il presidente del Consiglio, d’intesa con il ministro interessato. I precedenti non mancano: dal caso dell’allora sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti Armando Siri, a quello dell’allora viceministro Vincenzo Visco coinvolto nel 2007 nella vicenda Unipol-Gdf. Intanto la Procura di Roma va avanti nell’inchiesta per rivelazione di segreto d’ufficio, con le prime audizioni e l’acquisizione dei documenti dal Gom (Gruppo operativo mobile) per capire se le relazioni di cui ha parlato il sottosegretario a Donzelli fossero riservate o meno. O se lo fosse il loro utilizzo. Dai primi riscontri, segnala il Corriere della Sera, filtra che non si trattava di documenti classificati, né segreti. Ma di quelle relazioni che vengono prima “lavorate” dal Gom per capire se ci sono notizie di reato o elementi utili da tenere sotto attenzione, altrimenti trasmesse “in chiaro” al Dap. Secondo Repubblica, invece, nel tentativo di salvare Delmastro e Donzelli, il ministro della Giustizia si aggrappa di nuovo all’arzigogolo giuridico. Il cavillo è inserito nella risposta all’istanza di accesso agli atti presentata dal verde Angelo Bonelli, che ha chiesto di avere le stesse carte su Cospito da cui il deputato ha attinto per scagliarsi in Aula contro l’opposizione. Il ministero della Giustizia, replicando a Bonelli, ribadisce che il documento nella disponibilità di Donzelli non era in alcun modo classificato. Di più: pur contenendo le dichiarazioni di boss mafiosi, “era divulgabile”. Allo stesso tempo, però, dal ministero della Giustizia sono costretti ad ammettere che quella scheda del Nic (Nucleo investigativo centrale) non si può avere neanche tramite l’accesso agli atti perché coperta da un decreto ministeriale (il 115 del 1996) che, per tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica, la rende inaccessibile. Delmastro non avrebbe quindi considerato il rischio di incappare nel reato di rivelazione di segreto d’ufficio quando ha consegnato al suo coinquilino Donzelli parti della scheda. È proprio questo il punto su cui sta indagando la procura di Roma. Se non è accessibile, come ha fatto il Gabinetto del ministro ad accettare parzialmente la richiesta di Bonelli, inviandogli solo le tre pagine (49, 53 e 53) del documento dove si leggono i virgolettati di Cospito? Allargando a dismisura la facoltà di sindacato ispettivo dei parlamentari. In pratica, ha considerato l’istanza di Bonelli alla stregua di una interrogazione parlamentare, quindi “atto ascrivibile latu sensu al sindacato ispettivo”. Il punto però è che Donzelli, al contrario di Bonelli, non ha fatto né l’accesso agli atti né una domanda scritta che, al limite, poteva rientrare nella formula larga pensata a via Arenula. Ne conosceva il contenuto perché gli è stato rivelato dal sottosegretario, scavalcando ogni procedura istituzionale. Da una intervista al Corriere, nel frattempo, traspare tutto l’imbarazzo degli azzurri per la vicenda. Alessandro Cattaneo, presidente dei deputati di Forza Italia, ricorda che il suo partito non ha mai alazato i toni, anzi “quando è esplosa la polemica proprio io ho chiesto al presidente che fosse interrotta la seduta, noi ci siamo operati perché il ministro Nordio venisse subito a chiarire”, dice. “Noi siamo una delle forze della coalizione - aggiunge - e abbiamo le nostre posizioni. Non ci smarchiamo ma le facciamo valere”. E, ancora, chi ha ragione tra Pd e FdI “lo stabilirà il Giurì, ma sia chiaro: noi sosteniamo il 41 bis senza alcuna ambiguità” e sulla mozione del partito di Giorgia Meloni per mantenere il 41 bis a Cospito “esamineremo le mozioni e decideremo: sicuramente il centrodestra non si dividerà”. Nuova grana per Nordio: arriva la prima richiesta di ottenere gli atti del Dap di Giulia Merlo Il Domani, 7 febbraio 2023 Il deputato di Più Europa, Riccardo Magi, ha chiesto di ottenere copia degli atti dell’amministrazione penitenziaria che Delmastro ha divulgato e che, secondo il ministro, sarebbero divulgabili. Non ha ancora ottenuto risposta. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è sempre più l’anello debole che rischia di pagare per gli errori di gestione del caso di Alfredo Cospito. Nella settimana in cui dovrà decidere del ricorso per la revoca del 41bis all’anarchico in sciopero della fame, anche la copertura istituzionale che ha dato al suo sottosegretario, Andrea Delmastro, rischia di ritorcerglisi contro. Il guardasigilli ha spiegato in una nota le ragioni per cui la relazione di servizio che Delmastro ha dato al suo compagno di partito Giovanni Donzelli fosse divulgabile. Si tratterebbe, infatti, di “una scheda di sintesi del Nic non coperta da segreto. Non risultano apposizioni formali di segretezza e neppure ulteriori diverse classificazioni sulla scheda”. E, anche se sul dossier c’era la dicitura “limitata divulgazione”, presente sulla nota di trasmissione, si tratterebbe di “una mera prassi amministrativa interna in uso al Dap”.Contro questa lettura, però, si sono susseguiti molti pareri giuridici, a partire da quello dell’ex ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, oltre che da fonti dello stesso Dap che hanno ritenuto il contenuto non divulgabile. Ora che il ministro ha difeso il suo sottosegretario giustificandone la condotta, sono in arrivo le prime conseguenze. Seguendo la linea di ragionamento di Nordio, infatti, il deputato di Sinistra Italiana, Marco Grimaldi e il deputato di Più Europa, Riccardo Magi, hanno fatto richiesta di accesso agli atti. Entrambi hanno scritto al ministero, chiedendo di prendere visione di tutta la documentazione che riguarda Cospito e delle informative del ministero su di lui, compresa quella citata in aula da Donzelli. La richiesta di Grimaldi è in sospeso dal 1 febbraio, quella di Magi dal 3 e dal loro accoglimento si capirà se davvero gli atti divulgati da Delmastro erano pubblicabili. Non sono i soli: anche Angelo Bonelli dei Verdi ed Enrico Costa del terzo polo si preparano a presentare domande analoghe. Bonelli e Magi, poi, sono pronti ad andare personalmente al ministero per ottenere risposta. Nordio rischia anche la smentita indiretta della procura di Roma. In seguito all’esposto di Bonelli, infatti, è stato aperto un fascicolo a carico di Donzelli per rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e la polizia penitenziaria ha messo a disposizione una serie di documenti tecnico-conoscitivi. Se i pm ritenessero di chiedere il rinvio a giudizio, la tesi di via Arenula sarebbe ulteriormente messa in crisi.Contro il sottosegretario Delmastro, poi le opposizioni sono per una volta unite. Il Pd e il Movimento 5 Stelle hanno già presentato mozione per chiedere le dimissioni e altrettanto dovrebbe fare il terzo polo. Un sottosegretario non può essere sfiduciato ma, se una delle mozioni passasse, Delmastro verrebbe invitato a dimettersi. Se si rifiutasse, la nomina potrebbe venire revocata dal Quirinale, sentita la premier e il ministro. La scadenza - La vicenda Donzelli-Delmastro, tuttavia, non è l’unica a impensierire Nordio. Su di lui, infatti, grava la responsabilità anche della decisione sulla richiesta, avanzata ai suoi uffici, per la revoca del carcere duro a Cospito. La scadenza per decidere è fissata il 12 febbraio e, nel silenzio del ministero, la richiesta si considera respinta. Nordio ha acquisito il parere della Direzione nazionale antimafia, secondo cui Cospito “può restare al 41 bis oppure tornare al regime di alta sicurezza, con tutte le dovute cautele”, e quello contrario della procura generale di Torino. Tuttavia, nessuno è vincolante. Il guardasigilli, però, ha già fatto sapere che non deciderà da solo e che, “vista la politicità della vicenda”, invertirà il consiglio dei ministri. Tuttavia il tempo è ormai agli sgoccioli. Non esistono soluzioni intermedie: lasciar scadere la richiesta significa comunque ribadire la linea dura del no alla modifica della misura ma con l’aggravante di non assumersi l’onere di motivarla, mentre le condizioni di Cospito peggiorano dopo 111 giorni di sciopero della fame. Fonti ministeriali, tuttavia, suggeriscono che il ministro assumerà una decisione. Politicamente la situazione di Nordio è la più difficile da sostenere, perchè su di lui peseranno le conseguenze sia per il caso Delmastro che per Cospito. Le relazioni della magistratura gli lasciano ampi margini per decidere di revocare il 41bis, ma sarebbe una mossa autonoma e in totale disaccordo rispetto ai proclami della premier, Giorgia Meloni. Rigettare la richiesta, invece, significa adottare la linea politica del governo e lasciare la scelta alla Cassazione, che deciderà il 24 febbraio. Se Cospito sarà ancora vivo. Cospito, le intercettazioni, la privacy e Meloni. Parla Violante di Annalisa Chirico Il Foglio, 7 febbraio 2023 “La libertà si può riacquisire, i beni pure, ma la reputazione, una volta lesa, non si recupera più”, dice il presidente della Fondazione Leonardo. “Non mi soffermerei su una frase attribuita al Garante della privacy, era solo una risposta fugace a una domanda…”, glissa il presidente della Fondazione Leonardo Luciano Violante a proposito dell’ottimismo, si fa per dire, espresso da Pasquale Stanzione, presidente dell’Autorità per la protezione dei dati personali, audito in Commissione Giustizia al Senato a proposito di eventuali “abusi” sul fronte della privacy a partire dal 2020, anno dell’entrata in vigore della legge Orlando. Com’è noto, in tale sede Stanzione ha affermato che, negli ultimi due anni, non risultano abusi sul fronte delle intercettazioni. Eppure, a sfogliare i giornali, qualche dubbio sorge. “Certo, ma mi sembra un fenomeno in leggera riduzione, anche grazie ad una sorta di autoregolamentazione dei giornalisti. Non vedo più paginate intere dedicate a conversazioni prive di rilevanza penale o politica. I mezzi di comunicazione stanno comprendendo che così si distrugge la reputazione e si delegittima l’informazione. Il sistema italiano di intercettazioni è il più garantito in Europa: solo i giudici possono autorizzarle; nei casi di urgenza il pm può procedere ma è obbligato a rivolgersi al giudice entro ventiquattr’ore. La fase di richiesta e concessione riguarda i magistrati ma la propalazione, con inevitabile danno alla reputazione delle persone, investe il ruolo degli organi di stampa. La libertà si può riacquisire, i beni pure, ma la reputazione, una volta lesa, non si recupera più. Abbiamo assistito, negli anni, a innumerevoli casi scandalosi: voglio ricordare un ex ministro dello Sviluppo economico che finì nel tritacarne mediatico a causa della pubblicazione dei dialoghi, privi di rilevanza, con il suo compagno (Federica Guidi, ndr)”. Lei dice che le cose vanno meglio... “Vanno meno peggio. Qualche progresso c’è stato. In passato, quando una ragazza era vittima di violenza sessuale, comparivano nome, cognome, indirizzo e fotografia. Ora non accade più. Si é fatta strada un’etica professionale. Si dice che il giornalista peggiore sia quello che non pubblica le notizie in suo possesso, vero. Ma io domando: quanti processi si sono celebrati nei confronti dell’apparato pubblico - magistrati, dipendenti amministrativi, società per le intercettazioni, polizia giudiziaria - per le fuoriuscite di atti giudiziari secretati? Una magistratura che riesce a catturare Matteo Messina Denaro si mostra incapace di individuare l’autore di una propalazione illecita?”. A proposito di fuoriuscite, che cosa pensa delle conversazioni tra il detenuto al 41bis Alfredo Cospito e alcuni boss mafiosi, diffuse dal deputato Fdi Giovanni Donzelli nel corso di un dibattito parlamentare? “La considero uno sgradevole episodio; mi auguro che i protagonisti si ricredano. L’uso politico delle intercettazioni è un problema di etica pubblica”. Donzelli ha spiegato di averle recepite dal Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro... “Mi sembra discutibile che un membro del governo passi materiali riservati ai colleghi di partito. Non so se è vietato dalla legge; è però vietato dall’educazione politica”. Emerge che i mafiosi tifano per Cospito... “Era prevedibile. La sua azione dimostrativa mira ad ottenere un allentamento per tutti. A mio giudizio, dobbiamo stare attenti. All’inizio la legge penitenziaria prevedeva che determinate carceri fossero interamente destinate ai detenuti di massima sicurezza, solo in un secondo momento si è passati alle misure ad personam. Il 41bis ha una utilità innegabile perché serve a interrompere i rapporti tra il boss e il mondo esterno. Questa esigenza non va sottovalutata: è interesse della comunità che la persona sconti la pena senza continuare ad esercitare il ruolo del capo. Quanto alla durata, per il 41bis come per l’ergastolo ostativo, io penso che nessuno è mai perduto per sempre. Rispettare l’umano è importante in ogni attività sociale, anche quella politica e giudiziaria”. Cospito-parlamentari Pd, ecco cosa si sono detti davvero di Giuliano Foschini, Fabio Tonacci La Repubblica, 7 febbraio 2023 Esclusivo: la relazione di servizio della Polizia penitenziaria inviata a Nordio e finita nella disponibilità di Donzelli. Il detenuto: “Mi hanno messo al 41 bis per la mia ideologia. La Fai non è mafiosa e io non sono il capo”. Nessun “inchino”, per usare le parole del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Piuttosto un monologo, l’ennesimo, di Alfredo Cospito. Repubblica è in grado di ricostruire cosa è successo il 12 gennaio quando quattro parlamentari del Partito democratico (Andrea Orlando, Debora Serracchiani, Walter Verini e Silvio Lai) sono stati 48 minuti nella sezione del 41 bis presso il carcere di Bancali per incontrare l’anarco-insurrezionalista. E, incidentalmente, anche i tre boss mafiosi che con Cospito condividono l’ora di socialità. La cronaca di quell’incontro è contenuta nelle due pagine della relazione di servizio del Gruppo operativo mobile (Gom) della polizia Penitenziaria, datate 12 gennaio 2023 e finite nella disponibilità del deputato di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli che le ha usate per il suo intervento in Aula contro l’opposizione. Nonostante l’atto contenesse informazioni sensibili e facesse parte di un plico “a limitata divulgazione”. Sostiene dunque Delmastro: “Invece di montare polemica su questo, il Pd spieghi il suo inchino ai mafiosi durante la visita in carcere” . Ma davvero le cose sono andate così? A giudicare da quanto è riportato nel documento, no. Di Maio riconosce Orlando: “Ora siamo inguaiati” - Alle 11.25 della mattina la delegazione è davanti alla cella n. 24, quella di Cospito. Il quale si affaccia al cancello. “Io non ho niente da dire se prima non parlate con gli altri detenuti, solo dopo avrò qualcosa da dire”, fa lui. I poliziotti del Gom annotano tutto. “A tale frase la delegazione si affacciava alla camera di pernottamento numero 25 ove è allocato il detenuto al 41 bis Francesco Di Maio (boss dei Casalesi, ndr), che salutava la delegazione e riconosceva l’onorevole Orlando quale ex ministro della Giustizia”. Di Maio in quel momento esclama: “Ora siamo inguaiati”. Il tono e la circostanza fanno pensare e annotare questo all’operatore in ascolto. “Probabilmente intendeva dire che prima, nel periodo in cui Orlando era ministro, si stava meglio, mentre ora si sta peggio”. Il confronto coi tre mafiosi - E’ Di Maio il più loquace. Parla per qualche minutO coi quattro parlamentari e così il Gom riassume il contenuto del discorso: “Riferiva alla delegazione che il regime del 41 bis equivale alla condanna a morte in quanto non c’è la possibilità di difendersi, essendo giudicati dal Tribunale di sorveglianza di Roma e non da quello del posto ove si è detenuti, che a suo dire conosce i detenuti. Vero è che non è uno stinco di santo, ma lui faceva parte di un’associazione vent’anni fa, mentre ora non c’è più nulla. L’unico modo per uscire dal 41 bis è collaborare con la giustizia, ma lui non ha più nulla da dire e quindi non può collaborare”. Mentre il casalese sta ancora esponendo il suo punto di vista, una parte della delegazione si sposta davanti alle camere 22 e 21, dove sono reclusi Pino Cammarata e Pietro Rampulla. Cammarata, al 41 bis da 22 anni (“viene rinnovato con motivazioni fotocopia!”, si lamenta) dice di avere difficoltà ad essere curato adeguatamente, soprattutto per le visite esterne che richiedono molto tempo. Rampulla si limita a specificare di essere nel regime del carcere duro da 30 anni. “Non parlo, siete del partito di Cartabia” - Dopo aver parlato coi tre mafiosi, la delegazione torna davanti alla cella numero 24. Ma l’anarchico fa resistenza. “Cospito esordisce che non è molto predisposto a parlare”, si legge nella relazione di servizio. Il motivo è semplice e frutto di un errore: è convinto infatti che il decreto che lo ha messo al 41 bis sia stato firmato da “un’appartenente allo stesso vostro partito politico”. In realtà l’ex ministra Marta Cartabia non è del Pd e glielo fanno notare. “La delegazione spiega che la ministra della Giustizia è la giurista ex presidente della Corte costituzionale e che non appartiene ad alcun partito politico in quanto al governo come ‘tecnica’. Il detenuto prende atto e ammette di aver ‘toppato’ e quindi inizia a parlare”. Il confronto, parte 1: “Nel carcere duro solo per la mia ideologia” - Dopo aver specificato di stare fisicamente bene e di essere seguito “benissimo” a livello sanitario, Cospito si lancia in un rosario di lamentele sulle sue condizioni detentive. Un monologo, lo definiscono i poliziotti della Penitenziaria. “In questo carcere non c’è un filo d’erba e ci sono detenuti che non vedono l’erba o un albero da vent’anni”, “la mia vita è in quasi totale isolamento”, “appena arrivato a Sassari, mi hanno sequestrato le foto dei genitori morti perché la Direzione pretende che siano vistate per avere la certezza di chi sono”, “è difficilissimo acquistare libri”, “non si può ricevere riviste (anarchiche, ndr)”. Alla fine, sostiene di essere lì al 41 bis solo per le sue idee. “Riferisce che quel decreto è stato fatto per la sua ideologia, e non per i fatti commessi, non per questo si definisce un non violento, avendo comunque preso un’arma per commettere un reato. Comunque, riferisce, ‘noi anarchici’, che ora conosciamo anche questo mondo (il carcere duro, ndr), non smetteremo di lottare sino a quando sarà abolito, precisando che sino ad ora non l’avevano fatto solo perché non lo conoscevano”. Il confronto, parte 2: “Non sono il capo della Fai” - Di fronte ai quattro onorevoli, Alfredo Cospito (condannato a trent’anni per la gambizzazione del dirigente di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi e per le due bombe fatte esplodere all’ingresso della scuola allievi carabinieri di Fossano) ribadisce che “non vuole essere definito ora una vittima solo perché sta facendo lo sciopero della fame, e che sta protestando non per se stesso ma contro lo Stato e il sistema”. L’anarchico sa cosa si sta muovendo fuori, le manifestazioni e i gesti dimostrativi in giro per il mondo in sua solidarietà. “Continuerò la mia protesta fino alla fine, non ho niente da perdere”. Sulla Fai-Fri Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale, spiega: “Non siamo un’associazione mafiosa, siamo soggetti che seguono ideali e probabilmente nemmeno ci conosciamo. Come faccio io ad essere il capo di un’associazione, ad esempio la Fai-Fri, che ha sostenitori in tutto il mondo?”. Il confronto, parte 3: “Prolungherò al massimo la protesta” - Scrivono ancora gli operatori del Gom: “E’ ben cosciente a cosa va incontro con il suo sciopero della fame e sostiene che la sua protesta può continuare ancora per molto, essendosi informato su tutti gli effetti e di come fare per prolungare al massimo i tempi della protesta”. Ultima annotazione del poliziotto, tratta da ciò che Cospito va dicendo ai quattro piddini: “Paradossalmente, ora definisce una fortuna l’applicazione del 41 bis nei suoi confronti perché altrimenti non l’avrebbe saputo descrivere e aggiunge che dov’era prima, nel carcere di Terni, era tranquillo, poteva scrivere libri ed esprimere le sue ideologie e il suo pensiero. Infatti scriveva libri che prima non si leggeva nessuno, mentre ora, con la risonanza mediatica, stanno leggendo in tanti”. Dopo il “monologo” di Cospito (così è definito nella relazione di servizio), la delegazione se ne va. Sono le 12.13 quando lascia il reparto 41 bis del penitenziario di Bancali. La separazione delle carriere agita l’Anm: “Indipendenza a rischio” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 febbraio 2023 Quattro le proposte di legge: per il sindacato delle toghe il rischio è quello di finire sotto il controllo della politica. Migliucci, già presidente dell’Ucpi: “Mantra privo di significato”. Una sola e grande preoccupazione è emersa dal Comitato direttivo centrale dell’Anm che si è tenuto nel fine settimana: la separazione delle carriere, oggetto di una corposa mozione. Come è noto, in Commissione Affari Costituzionali alla Camera sono state incardinate il 2 febbraio quattro proposte di legge in materia. Relatore Nazario Pagano. La prima ad essere depositata è quella di Enrico Costa (Azione), la seconda quella di Roberto Giachetti (IV), la terza di Antonino Calderone (FI), la quarta di Jacopo Morrone (Lega). Tre di esse, tranne quella di Fi, riprendono il testo di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare presentata nella scorsa legislatura e promossa dall’Unione delle Camere Penali. Il 13 febbraio scade il termine per i gruppi parlamentari per indicare chi vogliono far udire sul tema. L’Ucpi annuncia una conferenza stampa forse per il 14, ma il presidente Gian Domenico Caiazza ci dice: “Abbiamo intenzione di organizzare una mobilitazione nazionale nei prossimi mesi”. Nella conferenza stampa di fine anno Meloni disse: “Nei prossimi mesi lavoreremo per mettere a punto la riforma della giustizia secondo capisaldi che sono quelli storici del centrodestra, penso alla separazione delle carriere”. E così sembra la direzione presa dalla via parlamentare. Mentre da via Arenula trapela che per ora le priorità sono l’efficienza degli uffici giudiziari e il conseguimento degli obiettivi del Pnrr. Per l’Anm il quadro “desta profondo allarme: oltre alla separazione delle carriere”, si “prevede l’introduzione di distinti organi di autogoverno, che peraltro non vedranno più al loro interno la prevalenza numerica dei componenti togati, voluta dalla Costituzione proprio per assicurare il giusto equilibrio tra poteri e quindi l’autonomia della Magistratura. Ancora più preoccupante la progettata abolizione dell’art. 107 comma 3 della Costituzione che, nel prevedere la distinzione dei magistrati solo per funzioni, ne rappresenta la massima garanzia di indipendenza. Una rigida separazione delle carriere porterà ad un pubblico ministero sempre più lontano dalla cultura della giurisdizione, per divenire un “avvocato dell’accusa” pericolosamente piegato ai desiderata del potere politico”. Tra l’altro, sostengono i magistrati, “è la realtà dei fatti che smentisce l’assunto secondo il quale il giudice sia “culturalmente adesivo” alla prospettiva del pm: nel 48% dei giudizi penali la sentenza è di assoluzione, nel 45% di condanna, il resto ha esito misto. Chi insiste a sostenere che la separazione è soluzione ai problemi della giustizia dimentica, evidentemente, che dal 2006 la media dei trasferimenti da una funzione all’altra è di 50 magistrati all’anno, e solo 21 nell’anno appena terminato”. Beniamino Migliucci, già presidente dell’Ucpi, sotto cui si raccolsero le firme per la pdl, così commenta: “Il grido di allarme dell’Anm significa che la politica, per la prima volta, intende discutere seriamente una riforma ineludibile. Di volta in volta, la magistratura associata si è opposta, evocando scenari apocalittici e inesistenti controindicazioni: dapprima il rischio del controllo dell’esecutivo sul pubblico ministero, poi il pericolo che questi diventasse un super poliziotto. Dato che la proposta all’esame del Parlamento non prevede nulla di questo, l’Anm ha trovato rifugio in un vecchio armamentario: il pubblico accusatore perderebbe la cultura della giurisdizione”. Per il penalista “si tratta di un mantra privo di significato quanto meno nel senso voluto dall’Anm, considerato che, come ha osservato il ministro Nordio, la cultura della giurisdizione in senso stretto è riservata al giudice, mentre quella desiderata dall’Anm prevede, significativamente, solo l’esclusione dell’avvocato che ne rimane estraneo, secondo una logica autoritaria propria dei sistemi inquisitori”. Per questo, conclude, “la riforma ispirata dalla proposta presentata dall’Ucpi assieme alla Fondazione Einaudi e ai Radicali va discussa e può essere perfettibile, ma occorre rendersi conto che nelle maggiori democrazie liberali che adottano codici accusatori le carriere sono separate per assicurare la terzietà del giudice prevista nella nostra Costituzione e che rappresenta una garanzia per tutti”. Se il complottismo di Fdi prende di mira anche una biblioteca di Mario Di Vito Il Manifesto, 7 febbraio 2023 Archivio storico della Fai. Mollicone ha chiesto di verificarne il contenuto. Chi ha paura della biblioteca degli anarchici? Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura della Camera in quota FdI, vede del marcio a Imola, dove ha sede l’Archivio Storico della Federazione Anarchica Italiana: “Arriva fino ai giorni nostri, con tutta la campagna a favore di Cospito, contro il 41 bis e contro lo Stato. Chiederò una verifica sui contenuti al ministro Piantedosi per valutare se ci sono testi inneggianti all’omicidio o al terrorismo”, ha detto qualche giorno fa in tv. Il gioco è ad accomunare la Federazione Anarchica Italiana (organizzazione ormai storica e nata nel 1945) alla Federazione Anarchica Informale, quella di cui Alfredo Cospito è accusato di far parte: l’equazione diventa così anarchico uguale terrorista, con tutto quello che ne consegue. Ovviamente un archivio storico ha il preciso compito di conservare più carte possibile a scopo di studio, cosa ben diversa dalla propaganda e dal dibattito politico. Spiegarlo può apparire superfluo, ma evidentemente siamo in un periodo in cui è necessario ribadire anche l’ovvio. Che un esponente di Fratelli d’Italia sia spaventato da una biblioteca dovrebbe sorprendere solo fino a un certo punto, così come è chiaro che l’attacco all’Asfai sia solo l’ennesimo tassello della narrazione complottista in base alla quale il Pd starebbe offrendo copertura politica a una banda di criminali che vuole portare l’attacco dritto al cuore dello Stato. Già, perché l’archivio di Imola, dal 2010, è “bene di interesse storico” per la Sovrintendenza della Regione Emilia Romagna, da sempre governata dal centrosinistra. Fa niente se parliamo di un archivio bibliotecario tra i più importanti d’Europa, con circa 8mila tra volumi e opuscoli, riviste italiane e straniere, raccolte complete delle principali testate libertarie del secondo dopoguerra, manifesti, bandiere storiche, film, documentari, registrazioni audio, materiale autografo di vario genere che coinvolge personaggi del calibro di Pietro Nenni, Sandro Pertini, Piero Calamandrei, Adriano Olivetti, Ignazio Silone, Amelia Rosselli, Enzo Tortora. La Federazione Anarchica Italiana negli ultimi giorni ha valutato l’ipotesi di rispondere a Mollicone, ma poi ha (comprensibilmente) deciso di lasciar perdere per evitare di immischiarsi nel dibattito delle ultime settimane, infiammato dal caso Cospito e capace di partorire perle di rara assurdità come l’inesistente saldatura tra anarchici e mafiosi sotto l’egida di un gruppo di parlamentari del Pd capeggiati da Andrea Orlando (è la tesi gridata la settimana scorsa alla Camera dall’onorevole Donzelli). Dall’area anarchica, comunque, in difesa dell’Asfai è arrivato un comunicato del Centro Studi Giuseppe Pinelli, che bolla la polemica come una “marea di livorose imbecillità” e aggiunge che “si confonde il lavoro culturale degli archivi con la propaganda politica. Se gli archivi non potessero preservare tutti i documenti esistenti in merito a un movimento politico, o riferiti a un certo periodo storico, che tipo di storia si finirebbe a fare? Forse lo sappiamo: come emerso da alcune parti del discorso inaugurale del nuovo governo, appare evidente la passione per cancellare o riscrivere le pagine di storia italiana non gradite”. Mollicone però non si dà per vinto e, anzi, si dice stupito dallo scalpore destato dalla “semplice” richiesta di inviare gli ispettori all’Asfai. Lo stesso scalpore che aveva destato l’uscita che gli regalò un altro quarto d’ora di celebrità, quando vide Peppa Pig e chiese l’intervento della Rai perché un personaggio ha due mamme. Su Pittelli solo mero sospetto: il riesame boccia la tesi della Dda di Valentina Stella Il Dubbio, 7 febbraio 2023 “Dopo tre anni e due mesi di privazione della libertà personale, con la umiliazione feroce addirittura del carcere di Badu e Carros per molti mesi, e la distruzione di una intera vita pubblica e privata costellata di successi, riconoscimenti e responsabilità anche politiche, il Tribunale del Riesame di Catanzaro riconosce finalmente la insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che avevano fino ad oggi legittimato l’accusa a carico dell’avvocato Giancarlo Pittelli, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa”: così l’avvocato Gian Domenico Caiazza ha annunciato la revoca della misura cautelare per l’ex parlamentare di Forza Italia, imputato nel processo ‘Rinascita Scott’ per concorso esterno in associazione mafiosa ed altri reati. “Onore alla onestà intellettuale ed alla indipendenza di questi giudici, innanzitutto, in un contesto tutt’altro che semplice. Ma onore soprattutto a Giancarlo Pittelli ha proseguito il penalista che lo assiste insieme ai colleghi Salvatore Staiano e Guido Contestabile -, colpito dalla peggiore delle violenze possibili, cioè quella di una accusa ingiusta. Chissà quando si riuscirà finalmente a comprendere che non può accadere nulla di più drammatico ad un essere umano che essere travolto e distrutto da un’accusa infamante ed ingiusta. Mi auguro che Giancarlo Pittelli sappia trovare la forza per riprendersi quella vita che gli è stata così immotivatamente ed oltraggiosamente distrutta”, conclude il presidente dell’Ucpi. È stata dunque annullata l’ordinanza del Tribunale di Vibo del 14 aprile dello scorso anno relativa al rigetto dell’istanza di revoca degli arresti domiciliari nei confronti di Pittelli. Smontate pertanto le accuse della Dda di Catanzaro. La decisione di ieri arriva dopo un annullamento con rinvio ad opera della Corte Suprema di Cassazione. Spiegano i giudici che “la misura cautelare degli arresti domiciliari è stata oggetto di successiva modifica con sostituzione della misura in atto con quella non custodiale dell’obbligo di dimora, con provvedimento del Tribunale di Vibo Valentia del 19 dicembre scorso”. Permane tuttavia “l’interesse alla trattazione dell’appello”, anche per “l’interesse della difesa alla verifica della sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza per una eventuale azione di riparazione per ingiusta detenzione”. Punto centrale la presunta rivelazione da parte dell’ex senatore dei verbali ancora secretati del pentito Andrea Mantella. Nel merito, il Riesame ha stabilito che, allo stato degli atti e dell’istruttoria del processo Rinascita- Scott, non emerge che Giancarlo Pittelli abbia disvelato notizie coperte da segreto in relazione ai verbali relativi alla collaborazione nel 2016 del collaboratore di giustizia vibonese Andrea Mantella. In tal senso, quindi, dagli atti non emerge che Pittelli abbia trasmesso notizie coperte da segreto al clan Mancuso. Per il Tribunale del Riesame, infatti “difetta la gravità indiziaria della asserita prestazione di ricerca delle informazioni contra ius e dei verbali non discoverati di Andrea Mantella. Tale vulnus non viene superato dalle allegazioni della Procura, che pur dimostrative di una condotta opaca di Pittelli e difficilmente catalogabile come professionale, e della sussistenza di legami, connotati anche da una certa frequenza, con Marinaro, agente della Dia dal quale, secondo il costrutto accusatorio, avrebbe reperito le informazioni segretate, in realtà, allo stato degli atti - scrivono i giudici del Riesame - e salvo più approfondita istruttoria dibattimentale, si arrestano al mero sospetto, non potendo affermarsi che i verbali e le informazioni in ordine alla collaborazione di Mantella fossero nella disponibilità di Pittelli o che Pittelli avesse gli strumenti e si fosse effettivamente attivato, tramite le proprie conoscenze per reperirli”. Sul punto appaiono rilevanti due aspetti sottolineati dalla difesa. Innanzitutto, il tenore della conversazione del 12 settembre 2016 con Giovanni Giamborino. Difatti “Pittelli affronta il tema della collaborazione di Mantella in modo confidenziale, con frasi che non preludono al disvelamento di segreti, ma piuttosto traspare l’immagine di un avvocato che, raccolte le informazioni sulla vicenda, anche da fonti notorie come il giornale, voglia dar luce alla propria importanza nella vicenda per supportare gli assistiti, finanche millantando la possibilità di reperire notizie ancora segrete sui fatti. Ma vi è di più. Nella conversazione del Giamborino con Ceravolo del 31.10.2016 il primo afferma che nessuno ha a disposizione i verbali delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia relativamente alle parti omissate, con la conseguenza logica che tale dato non è in possesso neanche di Pittelli. Ciò è confermato anche dalla conversazione tra Pittelli e Giamborino del 19 novembre 2016, allorquando Pittelli afferma, con riferimento a Mantella: “Io non posso dire quello che dirà questo, perché non lo sappiamo ancora’. Ebbene, tale frase - rimarcano i giudici del Riesame - letta nell’intero contesto intercettato, a parere del Collegio conferma che i verbali non solo non sono in possesso di Pittelli al mese di novembre 2016, ma per di più non si fa neanche minimamente cenno alla possibilità di reperirli con le illecite ingerenze ed entrature dell’avvocato”. Infine per quanto concerne “il manoscritto rinvenuto in sede di perquisizione, il Tribunale del Riesame di Catanzaro ritiene che lo stesso, quand’anche dimostrativo di una illecita fuga di notizie in favore di Pittelli, tuttavia non prova il disvelamento, in assenza di altri elementi indiziari, di notizie riservate alla cosca Mancuso da parte dell’avvocato, essendo emerso, piuttosto, anche in ragione della informativa del Marinaro, un interesse dell’imputato ad avere notizie di indagini a suo carico e non per contribuire alla sopravvivenza o rafforzamento del sodalizio”. In pratica per il Collegio “la messa a disposizione del Pittelli non ha dispiegato alcun contributo concreto alla consorteria, trattandosi appunto, per come acclarato nei precedenti provvedimenti giudiziali, di una sorta di millanteria per far considerare dai propri assistiti come cruciale il suo ruolo, alla luce delle sua conoscenze ed entrature. Tale condotta non è qualificabile come concorso esterno in associazione mafiosa, per carenza dell’elemento soggettivo della fattispecie del nesso causale tra condotta contestata e aiuto concreto al sodalizio, richiesto indefettibilmente per la configurabilità del delitto ex art 110- 416bis cp”. Per l’avvocato resta comunque la misura cautelare in quanto detenuto nell’ambito dell’altra inchiesta “Mala Pigna”. Carcere ostativo, domani di nuovo alla Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 febbraio 2023 Al vaglio il reato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. La Corte potrebbe allargare il varco aperto nel 2019 o ritenere sufficienti le modifiche. Domani la Corte costituzionale tornerà a occuparsi, in camera di consiglio, del cosiddetto carcere ostativo. Nel frattempo si attende l’8 marzo, giorno in cui la Corte di Cassazione dovrà riesaminare - alla luce delle nuove norme sull’ergastolo ostativo inserite dal governo Meloni nel decreto Rave e convertite in legge il 30 dicembre scorso - il caso del detenuto mafioso Salvatore Pezzino, non collaborante con la giustizia, per il quale venne chiamata ad esprimersi la Consulta che, a partire da quel contesto, nell’aprile 2021 prospettò in parte l’incostituzionalità del vecchio testo dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Questa volta però all’attenzione dei giudici costituzionalisti ci sono reati non di stampo mafioso e pene anche diverse dall’ergastolo. A sollevare dubbi di costituzionalità per contrasto con gli articoli 3 e 27 della Carta sono stati infatti il tribunale di Sorveglianza di Perugia e il magistrato di Sorveglianza di Avellino, relativamente ai casi di due persone condannate per traffico di stupefacenti in associazione. Così la Corte costituzionale, relatore il giudice Zanon, è chiamata ad esprimersi sul dubbio espresso il 23 settembre 2021 dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia secondo il quale potrebbe essere incostituzionale l’”omessa previsione della possibilità di concedere l’affidamento in prova al servizio sociale” di un detenuto, condannato per associazione dedita al traffico di stupefacenti, che non ha mai collaborato con la giustizia. Sul conto dell’uomo - R. C. - sono però stati “acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti”. Il magistrato di Avellino, invece, con l’ordinanza del 16 febbraio 2022 ha sollevato un dubbio simile sul caso di L. D. B., un uomo condannato sempre per reati contemplati all’articolo 74 del Testo unico sugli stupefacenti 309/’90 al quale, malgrado abbia già espiato i due terzi della pena, non viene concessa la semilibertà perché non si è pentito e non ha rivelato nomi e segreti dell’organizzazione criminale cui era affiliato. Il detenuto però nel corso della sua detenzione ha già avuto “accesso ai permessi premio, sulla base di elementi dai quali è stata desunta l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo del loro ripristino”. Le ordinanze dei due magistrati sono state trasmesse alla Consulta quando ancora non c’era stato alcun intervento del legislatore sulle norme giudicate incostituzionali perché precludevano pregiudizialmente i benefici di legge ai condannati per reati di mafia che non avessero collaborato con la giustizia. La nuova disciplina però, malgrado elimini l’automatismo con cui si considera la presunta pericolosità ostativa, ribalta l’onere della prova sul richiedente: è il detenuto che deve dimostrare di aver reciso ogni collegamento con la criminalità organizzata e di aver maturato una diversa consapevolezza di sé. Domani pomeriggio la Consulta potrebbe ampliare il varco aperto già nel 2019 (sui permessi premio) oppure anche rispedire indietro i fascicoli considerando la nuova legge esaustiva e costituzionale. In ogni caso, per il detenuto di Perugia la decisione è ininfluente perché il suo fine pena è già arrivato. Roma. Lo spoils system colpisce anche la Garante dei detenuti di Nello Trocchia Il Domani, 7 febbraio 2023 Gabriella Stramaccioni ha condotto la battaglia su vitto e sopravvitto ed è molto apprezzata da associazioni e attivisti. Potrebbe essere sostituita ma il Pd smentisce: “Nessun spartizione”. Nei giorni scorsi i finanzieri sono entrati nel carcere di Rebibbia per sequestrare documenti inerenti il grande affare del vitto e del sopravvitto, il cibo che viene consegnato ai detenuti e quello che i reclusi possono acquistare. La Guardia di finanza ha eseguito accertamenti disposti dalla procura della Repubblica di Roma che indaga per riscontrare irregolarità a partire dall’esposto della garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni: “Ho presentato una denuncia circa un anno e mezzo fa in cui segnalavo la qualità del vitto che veniva distribuito nei quattro istituti di Rebibbia e il prezzo del sopravvitto, il cibo che i detenuti acquistano a loro spese, con prezzi fuori mercato e qualità scadenti. Ho denunciato l’anomalia che fosse la stessa ditta (Ventura ndr) a gestire sia il vitto sia il sopravvitto”. La garante è in proroga dal maggio scorso. Da più parti sono arrivati appelli perché venga riconfermata, ma c’è chi teme possa finire sacrificata nella girandola di nomine targate Pd. Garante “ficcanaso” - Negli ultimi cinque anni Stramaccioni è diventata un riferimento per il mondo del carcere sollevando lo scandalo del vitto e del sopravvitto, con il primo troppo scadente e il secondo troppo caro, provocando gli interventi della giustizia amministrativa e contabile prima di quella penale. La Garante ha seguito la condizione femminile all’interno degli istituti di pena. All’inizio del suo mandato il nido di Rebibbia contava 18 bambini con mamme, ora ce ne sono zero grazie alle pressioni per l’attivazione delle misure alternative. Non ha trascurato neanche il centro per il rimpatrio di Ponte Galeria inviando continue segnalazioni alla prefettura. La sua riconferma trova la migliore motivazione nel lavoro fatto e raccoglie il sostegno di attivisti, associazioni e anche della politica. Il M5s e la lista civica Raggi hanno attaccato il Pd: “Non intende mollare di un millimetro i suoi feudi con i propri vassalli che vanno accontentati, con buona pace del servizio. Evidentemente il curriculum fitto di esperienza - fra cui i 18 anni trascorsi a Libera, l’organizzazione antimafia di don Luigi Ciotti - l’impegno e l’ascolto nei confronti dei più umili e diseredati non sono bastati a tenere al riparo Stramaccioni dalla furia iconoclasta in salsa dem”. Anche il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, esprime la sua preoccupazione: “Io non entro nelle vicende di nomina, ma stiamo molto attenti perché questi incarichi non devono rispondere ad aree politiche, ma a una effettiva esperienza rispetto a un mondo molto complesso che necessita di figure svincolate da appartenenze e vicinanze”. La stessa garante, nei giorni scorsi, ha affidato ai social una riflessione che suona come un saluto: “La nomina del nuovo garante verrà decisa dall’Assemblea capitolina nei prossimi giorni, ma da indiscrezioni di queste ore pare certa la mia non riconferma. Mi auguro solo che i consiglieri valutino i curricula e le relative competenze/esperienze che abbiamo presentato per partecipare all’avviso pubblico”. Il mandato di Stramaccioni è scaduto a fine maggio, da allora è in proroga. Dopo l’approvazione del nuovo regolamento è stato bandito un concorso pubblico al quale hanno partecipato dieci candidati. Il Consiglio comunale dovrà scegliere la nuova garante valutando profili che non sono stati pubblicati sul sito del Campidoglio. Valentina Calderone, collaboratrice dell’ex senatore Pd, Luigi Manconi, è il nome più accreditato dalle cronache locali per il dopo Stramaccioni, ma gli interventi di opposizione e associazionismo hanno riaperto un discorso che sembrava già chiuso. “Nessuna spartizione” - “Stiamo analizzando tutti i profili, quando saremo pronti sceglieremo il nuovo garante in consiglio comunale, ci vorranno i due terzi dei consiglieri e quindi dovrà essere una figura di equilibrio e garanzia”, dice Valeria Baglio, capogruppo del Pd in Consiglio comunale a Roma. Ma c’è il rischio che la nomina finisca nella girandola di nomine targate Pd? “Assolutamente no, nessuna spartizione, siamo persone serie e sceglieremo la figura migliore per ricoprire quel ruolo coinvolgendo anche le opposizioni per una posizione unitaria”, rassicura Baglio. “Al momento nessuno ci ha coinvolti, comunque la nostra candidata è Gabriella Stramaccioni perché i risultati del suo lavoro sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto dei detenuti che la stimano e la apprezzano”, dice Virginia Raggi, ex sindaca di Roma, che ha nominato la garante cinque anni fa. Ora si attende la decisione del consiglio comunale che potrebbe slittare a dopo le regionali in tempo utile per capire eletti e sconfitti della tornata elettorale. Como. Il Bassone è tra le carceri peggiori d’Italia, ma esiste un piano per riqualificare la struttura di Mauro Peverelli La Provincia di Como, 7 febbraio 2023 “Il carcere di Como è uno dei peggiori dal punto di vista architettonico. È afflittivo. Noi non siamo dei visionari, questo di cui stiamo parlando è un progetto che va portato avanti”. A parlare ad una platea mista di detenuti, agenti, giornalisti con la presenza del vicesindaco di Como Nicoletta Ropertoe di Enrico Lironi del Cda di Fondazione Cariplo, è l’architetto Cesare Burdese. Il tema sul tavolo è affascinante, quello di una sistemazione radicale del Bassone, sia in termini di spazi interni sia di opere murarie. L’occasione è stata l’incontro di ieri all’interno del penitenziario per presentare il progetto “Ri-Co-Struire” finanziato da Fondazione Cariplo con il coinvolgimento della Facoltà di Psicologia e del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano. Lo scopo è capire le componenti architettoniche che impattano sul benessere non solo dei detenuti ma anche di chi in carcere lavora, come gli agenti della penitenziaria, per poi provare a migliorare la struttura. Un lavoro diviso in più punti, “con il primo miglio” già alle spalle, hanno detto i presenti. A parlare per prime, introdotte dal direttore della casa circondariale Fabrizio Rinaldi, sono state le psicologhe della Cattolica Emanuele Saita e Antonia Sorge. “L’obiettivo - hanno detto - non è solo modificare l’ambiente ma come l’ambiente viene percepito da chi lo vive. Gli spazi in cui i detenuti vivono non devono essere afflittivi ma rigenerativi. C’è bisogno di cambiare le cose partendo da componenti architettoniche che incidono come la luce, l’aria, l’acustica, le prospettive, i colori, gli spazi aperti”. Per il progetto di cambiamento sono stati analizzati più spazi, le “camere di pernottamento” (ovvero le celle), i corridoi, ma anche il cortile interno che “non può essere solo un cubo di cemento aperto in alto”. Sono state 73 le persone che si sono messe a disposizione (40 detenuti, 33 agenti) e che sono stati monitorate con apposite apparecchiature che registravano battiti cardiaci, pressione, reazione elettrica della pelle al passaggio nelle diverse aree ricostruite tridimensionalmente. Sono stati infine gli architetti - il già citato Burdese ma anche Davide Ruzzon - a spiegare i prossimi passi, il “secondo miglio ancora da percorrere” e da finanziare. “Miglioreremo la permeabilità visiva, gestiremo i muri”, hanno detto. Alcune idee messe sono il trasformare i corridoi non solo come zone di transito ma come spazi da usare per la lettura, per parlare, anche con una serra. Le celle sono invece previste diverse l’una dalle altre, con quelli che sono stati definiti “balconi” e “logge” per creare ulteriori spazi interni. E poi il verde e la natura per colorare il grigio del cemento. “Certe cose bisogna realizzarle sennò rimangono solo studi - ha concluso il direttore - Ma già che ci siano questi studi è importante”. Viterbo. “Al pronto soccorso detenuti, anche del 41bis, nel corridoio” di Renato Vigna Il Messaggero, 7 febbraio 2023 Belcolle, denuncia della Fns-Cisl: “Siamo stati per ore anche con detenuti del 41bis nel corridoio in mezzo agli altri pazienti sulle barelle”. Maurizio Orlandi, segretario generale della Fns-Cisl Viterbo, denuncia cosa sta accadendo da mesi all’interno del pronto soccorso di Belcolle. “Prima - è la sua testimonianza - avevamo una stanza adibita ai detenuti e agli agenti di scorta. Ricordo che, oltre ai comuni, accompagniamo anche quelli psichiatrici, dell’alta sicurezza e del 41bis”. Belcolle, che ha un reparto di medicina protetta, è punto di riferimento per i detenuti della casa circondariale di Mammagialla. Ma prima di essere ricoverati, anche i carcerati devono passare dal pronto soccorso. E lì, come tutti gli altri pazienti, attendono in base al codice che viene loro riconosciuto all’accettazione. “Prima del Covid - continua Orlandi - l’attesa era in quella stanza con finestra blindata. Poi, la pandemia ha imposto di destinarla agli altri pazienti e noi ci siamo appoggiati per un po’ nel gabbiotto del posto di Polizia di Stato. Ora che dopo le numerose aggressioni al personale dei pronto soccorso il presidio è stato ripristinato, noi della polizia penitenziaria non abbiamo più uno spazio dove stazionare con i detenuti malati”. Ed è così successo che detenti del 41bis rimanessero ore nel corridoio insieme ai sei agenti della scorta. “Ve li immaginate con le mitragliette e le pistole in mezzo alle barelle piene di pazienti comuni? Sono situazioni - denuncia il segretario Fns-Cisl - lesive della dignità del detenuto che è lì con catene ai polsi, ma anche poco rispettose del personale sanitario e dei colleghi, nonché di tutti gli altri malati. Mi sono stati riferiti anche episodi più gravi, con detenuti e poliziotti costretti ad attendere fuori dall’ospedale. Se confermato, sarebbe davvero assurdo”. Nei mesi scorsi, Orlandi ha segnalato tutto alla direzione della Asl. “Mi hanno risposto che avrebbero preso in considerazione le mie segnalazioni non appena avessero effettuato i lavori al pronto soccorso, ma si tratta di altri mesi o più. Questa situazione - conclude - non è più tollerabile per nessuno dei soggetti coinvolti”. Cosenza. Il sindaco dice sì all’istituzione del Garante cittadino dei detenuti cosenzachannel.it, 7 febbraio 2023 Parere favorevole del primo cittadino e dal presidente della commissione legalità Chiara Penna. Parte l’iter per istituire la nuova figura. Deposita alla presidenza del consiglio comunale nei giorni scorsi, la mozione per l’istituzione del Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà personale nella città di Cosenza, di cui è prima firmataria il consigliere e presidente della commissione legalità, Chiara Penna. L’atto condiviso con il sindaco Franz Caruso, che ha accolto con entusiasmo la proposta proveniente in tal senso dalla Camera Penale “Fausto Gullo” di Cosenza, e con il Presidente del Consiglio Comunale, Giuseppe Mazzuca, richiede l’adozione di un apposito regolamento che dovrà essere deliberato dall’assise cittadina. “È importante e fondamentale - hanno affermato in una nota congiunta il sindaco di Cosenza Franz Caruso ed il Presidente della Commissione Legalità Chiara Penna - istituire il Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà personale, perché rappresenta uno strumento che contribuirà certamente a tutelare la funzione costituzionale della pena: la rieducazione del condannato. È una figura di garanzia che costituisce una ricchezza per la Città e testimonia l’attenzione verso il mondo dei detenuti che è propria di una società civile, democratica e libera. C’è, infatti, una responsabilità istituzionale in materia di prevenzione di trattamenti degradanti, di assistenza sanitaria e reinserimento sociale delle persone private della libertà personale che non può essere disattesa”. “Lo stimolo proveniente dalla Camera Penale di Cosenza non poteva, per quanto ci riguarda - concludono il sindaco Franz Caruso e Chiara Penna - che essere condiviso pienamente ed immediatamente. Siamo fortemente convinti, infatti, che le istituzioni devono garantire vicinanza all’avvocatura soprattutto in questo momento storico, in cui la difesa dei diritti fondamentali spesso viene messa in secondo piano in nome della sicurezza. Ma non bisogna dimenticare mai la reale scala dei valori di un ordinamento democratico e, soprattutto, bisogna vigilare affinché gli istituti penitenziari non siano luoghi di violenza e di sofferenza, ma di rieducazione. Con questa convinzione, l’iniziativa della Camera penale “Fausto Gullo” sarà immediatamente sottoposta ai diversi passaggi amministrativi-istituzionali necessari, onde procedere alla istituzione, mediante Regolamento, del Garante”. Prigioni & galere. Breve storia del rapporto fra istituzioni e “delinquenti” di Michele Magno Il Foglio, 7 febbraio 2023 Molta voglia di catene, poca di rieducare. Il primo regolamento carcerario dell’Italia unificata trattava i detenuti come soggetti passivi. Il racconto del carcere e del “carcere duro” dal Panopticon al Sessantotto. Panopticon (l’occhio che tutto vede) è il titolo di un opuscolo scritto nel 1786 da Jeremy Bentham. Stampato nel 1791, ha dato al suo autore una fama imperitura. I romanzi di appendice, i film in costume, le incisioni di Piranesi continuano a trasmettere anche a noi, in modo tutto sommato fedele, quella che per secoli è stata l’idea di prigione: uno spazio senza luce, chiuso da mura spesse, da porte pesanti, da chiavistelli rugginosi. Quei luoghi avevano un loro scenografico orrore; ma, sottratto agli sguardi degli altri, il corpo del prigioniero godeva di una sia pur limitata libertà. Il padre dell’utilitarismo in realtà aveva immaginato una prigione abbastanza diversa, controllata da un guardiano invisibile. Nel 1976 Michel Foucault la descriveva così: “Alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre, che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; le celle hanno due finestre: una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre, l’altra verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale […]. Per effetto del controluce, si possono cogliere dalla torre, ben stagliate, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individuabile e costantemente visibile” (Sorvegliare e punire, Einaudi, 2014). Bentham pensava che la sua invenzione potesse avere un gran numero di applicazioni, non solo nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria, ma in ogni settore della società. “Sia che si tratti di punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, addestrare quelli che vogliono entrare nell’industria, o fornire l’istruzione alle future generazioni”, il Panottico poteva trasformarsi in manicomio, fabbrica, ospedale, scuola, brefotrofio. In ogni caso, diventò subito un “carcere ideale” nel 1795 nell’isolotto di Santo Stefano, nell’arcipelago pontino. Su incarico di re Ferdinando IV di Borbone, l’architetto Francesco Carpi lo progettò seguendo i dettami del filosofo inglese: verrà chiuso solo nel 1965. Oggi strutture analoghe sono ancora presenti in Cile, nella Russia e negli Usa. Pochi anni prima del Panopticon, John Howard aveva pubblicato Lo stato delle prigioni, un libro che destò nell’opinione pubblica europea un’attenzione e un interesse paragonabili solamente a quelli suscitati dall’opera eponima di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764). Pur muovendo da presupposti morali e religiosi, l’austero filantropo quacchero arrivava alla stessa conclusione del laico Bentham (anch’egli ammiratore di Beccaria), ovvero che i galeotti, “persone malate che non avevano l’autodisciplina necessaria per controllare le proprie passioni”, potevano essere rieducati e ricondotti all’onestà grazie al lavoro manuale, ammortizzando in tal modo anche i costi della prigionia. Da queste idee sorsero i sistemi penitenziari moderni, volti al reinserimento del condannato nella vita sociale attraverso ambienti più salubri, l’istruzione degli analfabeti e l’insegnamento della religione per rafforzare i “sentimenti morali”. Si differenziavano, però, su un punto, ossia sull’efficacia dell’isolamento permanente del detenuto. Il sistema “filadelfiano” (dal nome della città della Pennsylvania in cui si affermò) ebbe come suoi capisaldi l’isolamento continuo, diurno e notturno. Il sistema “auburniano” (da Auburn, una località vicina a New York) adottò l’isolamento notturno e consentì il lavoro in comune durante il giorno, ma con l’obbligo rigoroso del silenzio. Il sistema “irlandese” creato da Walter Crofton (1815-1897), invece, prevedeva un primo periodo d’isolamento continuo e un secondo d’isolamento solo notturno, intervallati da periodi di lavoro in opifici industriali o in fattorie agricole. Fu questo terzo sistema che ebbe la diffusione maggiore in Europa e in America, ma non nel Regno d’Italia. Il problema della scelta del sistema penitenziario fu affrontato per la prima volta nel 1861, con la presentazione in Parlamento del disegno di legge per la costruzione di un carcere auburniano a Cagliari. Non superò l’esame del Senato anche per l’opposizione del conte di Salmour, esponente di una delle casate piemontesi più in vista. Su suo suggerimento, venne allora istituita una Commissione di studio sulla riforma carceraria. Analizzando i sistemi penitenziari angloamericani, il documento di sintesi redatto nel 1862 bocciava quello auburniano e tesseva le lodi del filadelfiano, i cui vantaggi erano quelli di “rendere la pena più dura e nel tempo stesso più giusta; di evitare tra i detenuti la vicendevole conoscenza, che spesso è sorgente di nuovi delitti; di mettere il condannato in presenza di se stesso, costringendolo ad abitudini d’ordine e di regolarità; e di agevolare l’uso de’ mezzi adatti per ottenerne la resipiscenza, dando maggiore accesso alla voce della religione e agli affetti di famiglia” (Assunta Borzacchiello, Breve storia dell’irrisolta questione carceraria, Rivista penitenziaria e criminologica, n. 2-3, 2005). Pur tra polemiche e perplessità, il 28 gennaio 1864 veniva quindi emanata la “Legge colla quale è determinato il modo di riduzione e di costruzione delle carceri giudiziarie”, che adottava il sistema penitenziario a segregazione perpetua. Infatti, come recitava l’articolo 1, “Le carceri giudiziarie saranno ridotte e costruite secondo il sistema cellulare: i detenuti vi saranno segregati gli uni dagli altri, ed occuperanno locali isolati in guisa che rimanga impedita ogni comunicazione fra di loro tanto di giorno che di notte. Sarà provveduto al passeggio all’aria libera dei detenuti in locali ove questi siano egualmente segregati gli uni dagli altri”. Il primo regolamento carcerario dell’Italia unificata venne promulgato nel 1891. La relazione dell’allora direttore delle carceri chiariva che il legislatore riserva ai detenuti l’appellativo di “delinquenti”: essi sono “per lo più individui spostati, dediti al vizio, intolleranti di ogni freno”. I detenuti sono considerati soggetti passivi, portatori d’obblighi, senza alcun diritto: per esempio non hanno diritto ad alcuna retribuzione per il loro lavoro. “Il condannato, diventato definitivo, è sottoposto a una preparazione di segregazione cellulare: può durare sette anni, se trattasi dell’ergastolo, un sesto della durata della pena, se della reclusione”. La punizione più grave consisteva nell’essere inviati nelle case penali di rigore, dove erano destinati i condannati “incorreggibili”, sottoposti a un regime di segregazione continua, senza poter ricevere visite, inviare lettere, obbligati a lavori forzati senza retribuzione. Solo qualche anno dopo verranno attenuate alcune norme: nel 1902 viene abolito l’uso della catena al piede, mentre un decreto dell’anno successivo sopprime la camicia di forza, i ferri e la camera buia. Ciononostante, nella seduta della Camera del 18 marzo 1904, Filippo Turati pronuncia un memorabile discorso sulla situazione delle carceri italiane. Il deputato socialista accusa il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti di ignorare le condizioni di vita dei detenuti, la pessima qualità del vitto, l’umiliazione a cui erano costretti per la “cosiddetta aria, imposta anch’essa dal regolamento per un’ora al giorno, che si prende in quegli orridi cortiletti dei reclusori, che sembrano pozzi: e non v’è nulla di più lugubre di quelle file taciturne di condannati, vestiti da arlecchino, perquisiti all’entrata e all’uscita del cortiletto, che girano di continuo, a passo uguale, rasente le mura, a distanza di alcuni metri l’uno dall’altro, senza poter dire una parola, senza potersi fermare se non col permesso dell’aguzzino, come povere giumente cieche che girino la ruota di una macina da mulino”. L’elenco delle ruberie, delle illegalità, dei soprusi svelati da Turati faceva insomma emergere una realtà drammatica, sconosciuta all’opinione pubblica dell’epoca. Nel 1931 vede la luce un regolamento che aggiorna quello del 1891, stabilendo una disciplina più congeniale al regime fascista. Restano i tre pilastri della vita carceraria -lavoro, istruzione civile e pratiche religiose - ma ne viene rafforzato il carattere tassativo: ogni altra iniziativa non solo è vietata, ma è passibile di sanzioni disciplinari. Ad alcuni divieti e obblighi viene riservato particolare rilievo, per rendere evidente il “carattere afflittivo e intimativo” della pena e “l’austero carattere dell’esecuzione penale”: sono proibiti “ogni giuoco, festa o altra forma di divertimento” e anche intrattenimenti musicali, che debbono essere “riservati al cittadino che vive la vita onesta e libera”; “non è consentito ai singoli di astenersi dalla partecipazione alle funzioni regolamentari collettive della religione di Stato, perché queste sono una manifestazione di quella disciplina morale, che è la base di ogni forte ordinamento”. Il crollo del regime mussoliniano, la fine della guerra e l’instaurazione della democrazia repubblicana “non segnano una netta cesura nella storia delle istituzioni penitenziarie” (Guido Neppi Modona, Carcere e società civile, lezione tenuta all’Università Roma Tre, 24 gennaio 2014). A causa delle disastrose condizioni delle carceri scoppiano tumulti e rivolte, a Roma (1945) come a Milano e Torino (1946). Lo stesso ministro della Giustizia Togliatti, visitando Regina Coeli, dichiara che quello non è un carcere, ma un cattivo campo di concentramento. Alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri, la prima e unica nella storia dell’Italia unita, istituita nel 1948 e poi insediata nel luglio del 1949, i detenuti indirizzano migliaia di lettere che consentono di disegnare una vera e propria geografia sommersa delle carceri italiane di quegli anni. La Commissione, appoggiata e promossa da un numero speciale della rivista Il Ponte del 1949, che raccoglie saggi, memorie e testimonianze di quanti avevano conosciuto il carcere e il confino fascisti, termina i suoi lavori alla fine del 1950, “con una relazione che propone innovazioni piuttosto modeste, volte a eliminare gli aspetti più assurdamente afflittivi e vessatori del Codice Rocco, accompagnate da alcune proposte più incisive, quali la liberazione anticipata e permessi per motivi di famiglia e a fini rieducativi per i condannati meritevoli” (Guido Neppi Modona, ibidem). Alcuni di questi modesti tentativi di umanizzazione della pena troveranno attuazione in una circolare ministeriale del Guardasigilli Zoli del 1951: si raccomanda ai direttori di fare un uso limitato dell’isolamento in cella, si dispone che tutti i detenuti siano chiamati con il nome e cognome e che i colloqui con i famigliari si svolgano senza il controllo di un agente di custodia. Inoltre, viene bandito il ricorso alla cintura di sicurezza come mezzo di punizione e permesso alle detenute di fumare. Ma questa svolta permissiva non dura molto. Meno di tre anni dopo una circolare del Guardasigilli Michele De Pietro (presidente del Consiglio Mario Scelba) contiene pesanti richiami all’ordine, poiché “l’opera di restaurazione morale non ha progredito come quella di restaurazione materiale”. Non fortuitamente verso la fine degli anni Cinquanta incomincia a prendere forma il modello del “carcere-clinica”, che fa del detenuto un oggetto di studio e di osservazione scientifica della personalità, base di un trattamento rieducativo “individualizzato”. Seguiranno il Sessantotto e l’autunno caldo sindacale, con l’ingresso in carcere di quadri studenteschi e operai altamente politicizzati. Sono gli anni della scoperta, sia sul terreno culturale che su quello della lotta politica (spesso violenta) delle “istituzioni totali”: non solo il carcere, ma l’ospedale psichiatrico e la caserma. Nascono così le prime forme di collegamento tra studenti e operai detenuti per reati di carattere politico e condannati per reati comuni, soprattutto clamorose rapine, che avevano avuto momenti di popolarità nella cronaca nera e giudiziaria di quegli anni. Ha così inizio la stagione del carcere “politico”, alimentato dalle “avanguardie interne” dei detenuti comuni politicizzati e dai detenuti politici, per lo più appartenenti a Lotta continua. Una stagione che si intreccia con le vicende della riforma penitenziaria approvata nel 1975, che vedrà numerose integrazioni nei decenni successivi. Nel 1992, con la strage di Capaci, viene promulgato il “decreto antimafia Martelli-Scotti”. Nel 2002 la norma del “carcere duro” diventa definitiva e viene estesa anche ai condannati per terrorismo e altri reati gravi. Ma questa è cronaca. Migranti. L’Ue prepara la stretta su Ong e confini Il Manifesto, 7 febbraio 2023 Il vertice del 9 e 10 febbraio. Restrizioni sui visti per i Paesi di origine che non cooperano sui rimpatri. La parola d’ordine è: stringere. Stingere i tempi per un accordo che soddisfi tutti ma soprattutto stringere i confini esterni dell’Unione europea rendendoli impermeabili ai migranti. Alla vigilia dell’ennesimo vertice sull’immigrazione, quello dei capi di Stato e di governo in programma il 9 e 10 febbraio, a Bruxelles si tornano ad alzare i toni nella speranza di trovare soluzioni che mettano d’accordo gli Stati membri e tranquillizzando allo stesso tempo opinioni pubbliche interne in realtà molto meno preoccupate di un tempo dagli sbarchi di uomini, donne e bambini. Un anticipo di quanto potrebbe accadere giovedì prossimo si è avuto ieri nel corso del Consiglio Affari generali convocato proprio per preparare il summit. Le conclusioni raggiunte dovrebbero rappresentare la bozza delle dichiarazioni finali del vertice, un proclamare una linea sempre più dura nei confronti non solo dei migranti ma anche dei paesi di origine che non collaborano abbastanza per fermare le partenze e nel facilitare i rimpatri dei loro cittadini entrati irregolarmente in Europa. E’ necessario, ha spiegato il ministro per gli Affari Ue Raffaele Fitto, presente all’incontro, “che il Consiglio europeo concentri la sua attenzione sulla dimensione esterna con particolare riguardo al rafforzamento del controllo delle frontiere esterne, ad un maggiore impegno finanziario nei confronti dei paesi di origine e di transito, alla lotta ai trafficanti, alla regolazione a livello europea delle attività delle ong che operano nel Mediterraneo, ad una politica dei rimpatri più rapida ed efficace”. Ben poco spazio, come di vede, viene lasciato alla solidarietà. Neanche una parola sulla possibilità di arrivare a un meccanismo europeo di distribuzione obbligatoria dei migranti, come vorrebbe l’Italia, e anche se nei giorni scorsi è tornato a riunirsi i, gruppo di contatto per i soccorsi per le operazioni di ricerca e salvataggio, il tutto si è però concluso senza fare significativi passi in avanti. Nel documento finale del vertice ci si limita a una generica “cooperazione rafforzata” per e attività di soccorso in mare senza però entrare nel merito. Viceversa, tra i 27 sembra prevalere la volontà di adottare regole europee più strette per le navi delle organizzazioni umanitarie che salvano i migranti nel Mediterraneo, al punto da far propri gli slogan del governo Meloni secondo i quali le navi delle ong sarebbero dei “taxi del mare”. “Il consiglio europeo - è scritto infatti nelle bozze - condanna il tentativo di strumentalizzare i migranti a fini politici” e “invita la Commissione e il Consiglio a portare avanti i lavori sugli strumenti pertinenti, comprese eventuali misure contro gli operatori dei trasporti h praticano o facilitano la tratta di persone o il traffico di migranti”. In programma anche un giro di vite per quanto riguarda la concessione dei visti a quali paesi che non cooperano in materia di rimpatri, mentre si sollecita un’accelerazione nella discussione e approvazione del patto su migrazione e asilo, codice Schengen e direttiva rimpatri, sollecitando infine un monitoraggio comune sui flussi migratori, “sia all’interno che all’esterno dell’Unione europea”. Una sottolineatura che potrebbe portare di nuovo l’Italia su banco degli imputati per i migranti che, una volta sbarcati, lasciano il nostro paese per dirigersi verso il nord Europa. Migranti. Niente multe, le ong possono fare i soccorsi multipli di Gabriella Cerami huffingtonpost.it, 7 febbraio 2023 La premier aveva annunciato il pugno duro contro i salvataggi ripetuti di migranti ma poi alla fine la realtà del diritto del mare ha prevalso: nel decreto ong non c’è traccia del divieto. “Se tu ti imbatti in una imbarcazione e salvi delle persone le devi portare al sicuro, quindi non le tieni a bordo continuando a fare altri salvataggi multipli finché la nave non è piena”. Parole del premier Giorgia Meloni affidate a Instagram il 3 gennaio scorso nel giorno in cui entrava in vigore il decreto contenente la stretta sulle Organizzazioni non governative. Ma tra la propaganda a favore di popolo social e la realtà ci sono in mezzo le leggi internazionali, quindi l’obbligo di soccorso in mare. Ed è la ragione per cui la nave Geo Barents di Medici senza Frontiere, che ha effettuato tre salvataggi, di cui due dopo l’assegnazione del porto sicuro, non è stata multata. Bensì dopo le operazioni di sbarco e l’interrogatorio del comandante in Prefettura a La Spezia, la Ong ha avuto il via libera per riprendere la navigazione verso l’area di ricerca e soccorso dei migranti, dove si trova attualmente. Il decreto ora in discussione alla Camera recita così: “Gli operatori di soccorso in mare devono richiedere, nell’immediatezza dell’evento, l’assegnazione del porto di sbarco; Raggiungere senza ritardo il porto di sbarco assegnato per il completamento dell’intervento di soccorso”. Nel provvedimento, nonostante gli annunci, non si fa riferimento ai soccorsi multipli perché si sarebbe trattato di un testo incostituzionale e in contraddizione con le normative europee. “Raggiungere senza ritardo il porto di sbarco assegnato” implicherebbe - così era stato spiegato dagli esponenti del governo dopo la sua approvazione - l’impossibilità di effettuare nuovi soccorsi in mare. Ma come i fatti hanno dimostrato, se viene lanciato un alert non è possibile ignorarlo. Come è successo alla nave Geo Bartens che si era avviata verso il porto di La Spezia per “raggiungerlo senza ritardo”, come previsto dal decreto, ma è tornata legittimamente indietro perché avvisata di un nuovo naufragio. E infatti come spiega Salvatore Fachile, avvocato dell’associazione studi giuridici per l’immigrazione, “dal punto di visto tecnico quella norma non vieta i salvataggi multipli ma dice che una nave, quando le viene dato, deve raggiungere il porto sicuro senza ritardo. Pone quindi un vincolo, nel senso che non può decidere di partire il giorno dopo o aspettare un nuovo alert. Questo decreto va letto con le altre norme, quindi con le leggi del mare, che prevedono l’obbligo di effettuare salvataggi salvo che questi mettano a rischio la vita di chi è a bordo”. Di conseguenza “se mettiamo insieme queste due norme, nel momento in cui a una Ong viene dato un porto sicuro ha l’obbligo di dirigersi verso quel porto, ma può tornare indietro se chiamata a salvare qualcuno. Per questo a Medici senza Frontiere non viene contestato nulla”. Fermo restando che la Prefettura ha 90 giorni di tempo per comminare la multa. Ma in particolare a La Spezia si è intrecciata anche una resistenza tutta politica. Nei giorni dell’arrivo in porto della nave Geo Barents, mentre diversi componenti del governo immaginavano che Medici senza frontiere sarebbe stata la prima Ong colpita dal nuovo decreto, il governatore di centrodestra Giovanni Toti diceva: “Giusto che ognuno faccia la propria parte”. Parole che sono state lette come un regolamento di conti tra gli alleati in vista delle prossime elezioni amministrative dal momento che il presidente della Liguria sta giocando la partita per la riconferma di Claudio Scajola come candidato sindaco, Fratelli d’Italia non accetta le sue condizioni mentre il Terzo Polo di Renzi si è offerto disponibile a sostenere l’ex ministro. È possibile che il premier Meloni non abbia voluto prestare il fianco a Toti, quindi accendere la miccia ed esasperare i toni. Nel frattempo, ed era già nell’aria, la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha chiesto al governo italiano di “considerare la possibilità di ritirare il decreto legge” sulle Ong. La richiesta si basa su un parere reso da un comitato di esperti del Consiglio, che contiene pesanti rilievi circa la contrarietà del decreto alle convenzioni sul diritto del mare e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È vero che le valutazioni del Consiglio, organismo internazionale che si occupa di tutela dei diritti umani, non sono vincolanti, ma hanno un peso comunque rilevante, e infatti il Viminale ha risposto per iscritto: “Le nuove disposizioni non impediscono alle Ong di effettuare interventi multipli in mare, né, meno che mai, le obbligano a ignorare eventuali ulteriori richieste di soccorso nell’area, qualora già abbiano preso a bordo delle persone. Tali interventi sono, infatti, legittimi se effettuati in conformità alle regole di condotta enucleate dal legislatore e alle indicazioni del competente centro di coordinamento del soccorso marittimo”. A dimostrazione che un conto sono le parole un altro sono i fatti e le leggi. Migranti. Cimitero Mediterraneo: “Ho perso due figli, lotto per i morti senza nome” di Alessia Candito La Repubblica, 7 febbraio 2023 Il drammatico racconto di una mamma tunisina: “Sulle loro tombe ho promesso che continuerò a cercare i dispersi e chiedere giustizia”. Nel 2022 sulla rotta per la Sicilia 1.400 vittime Quest’anno sono già 66. Ho fatto una promessa ai miei figli, la mia lotta non finisce qui. Continuerò a combattere per conoscere la sorte degli scomparsi in mare, per la giustizia. Migrare è un diritto, non un crimine”. La sua voce arriva sporcata dal fruscio di un vecchio altoparlante che combatte contro il vento rumoroso e gelido che spazza la serata palermitana. Il dolore che traspare dal suo videomessaggio, invece è nitido. Jamila è una delle tante madri di Zarzis che piangono figli che il mare ha divorato. Vittime di frontiere diventate tagliole che dal 2019 ogni 6 febbraio vengono ricordate sulle due sponde del Mediterraneo e nel resto d’Europa. Anche la Sicilia, con mobilitazioni a Palermo, Messina, Lampedusa, si è unita alla rete del ricordo, che non vuole essere semplice memoria, spiegano gli attivisti palermitani, ma è battaglia per “esigere verità, giustizia e riparazione per le persone morte e disperse alle frontiere e per le loro famiglie”. E in Sicilia, approdo sperato lungo la rotta del Mediterraneo centrale, lo sguardo è inevitabilmente rivolto al mare, negli ultimi anni teatro di una strage senza fine. Solo nel 2022, lungo le traiettorie che da Libia e Tunisia puntano alla Sicilia sono morte più di 1.400 persone, già 66 nei primi trentatré giorni del 2023. Due ogni ventiquattro ore. Numeri da capogiro. Ma si tratta solo delle vittime di cui si ha notizia. Nel Mediterraneo svuotato di navi di soccorso dal nuovo decreto Piantedosi, rischiano di essere decine, se non centinaia i lutti di cui non si ha nemmeno cognizione. Jamila ha perso i suoi ragazzi nel naufragio del 30 novembre del 2019. “Hedi quando è morto aveva 23 anni - racconta - Mehdi venti”. L’ultima cosa che ha saputo di loro è che stavano per partire. Poi più nulla. “Abbiamo passato sei mesi a cercarli, senza riuscire notizie. Dopo sei mesi siamo riusciti a trovare delle foto in cui si vedevano i tatuaggi dei miei ragazzi”. Per riportare le salme a casa, racconta Jamila, ci sono voluti altri due anni. Di documenti, battaglie legali, burocrazia. Fondamentale è stato il ruolo della rete a trazione siciliana che dal 2022 si è costituita in Mem.Med, ma da anni opera sulle spalle di singole associazioni: Borderline Sicilia, Cledu Palermo, Carovane Migranti, LasciateCIEntrare, Rete Antirazzista Catanese e Watch the Med alarmphone. Un progetto nato sul campo, per cercare e identificare i dispersi in mare, dare un’identità e una storia a quelle che troppo spesso sono tombe senza nome, supportare le famiglie rimaste sulla sponda Sud e magari restituire loro almeno una salma da piangere, testimoniare violenze e tragedie che nel Mediterraneo sono cronaca quotidiana. “Continuerò a cercare i dispersi in mare, a stare vicino alle loro famiglie”, dice Jamila, che ieri, insieme a madri, parenti, amici di chi è morto in mare, era sulla spiaggia di Zarzis per salutare i suoi ragazzi con una rosa piantata nella sabbia. “A tutte le madri, a tutte le donne dico “fatevi coraggio”. Noi continueremo a combattere”, promette. E da Palermo si ricorda che le frontiere divorano a mare, come a terra, “continuano a frapporsi in maniera violenta e mortale tra le persone che arrivano in Italia e l’ottenimento di una vita dignitosa”. E sono “in hotspot, e diventano mortali quando vengono negate cure mediche di emergenza”, come successo a Lampedusa, sono “nei luoghi di detenzione, nelle carceri e nei centri per il rimpatrio, o cpr”, dove c’è chi pur di fuggire si toglie la vita. Tutte vittime “di politiche migratorie omicide che durano da decenni”, dicono gli attivisti palermitani. “Sono sorelle, fratelli, figlie, amici di tante e tanti qui oggi, in Sicilia e nel mondo, e per loro esigiamo verità, giustizia e riparazione”. Al Parlamento europeo la paura fa 704 di Marco Perduca huffingtonpost.it, 7 febbraio 2023 Eva Kaili da due mesi è in carcere e separata da sua figlia di due anni, un trattamento impossibile in tutta Europa, tranne che in Belgio. Ma non c’è uno dei 704 parlamentari che abbia qualcosa da ridire, per non essere sospettato di collateralismo alla cricca. La legge belga consente che le detenute madri possano avere con sé figlie e figli fino all’età di 3 anni, dopodiché non accetta più che i bambini restino con la madre in carcere. A differenza di situazioni simili in Italia, Francia o Germania, dove il limite varia da 18 mesi e 7 anni. Le più recenti statistiche ci dicono che sei madri vivono con il figlio in carcere in Belgio. Tra queste non c’è Eva Kaili, la ex-vicepresidente del Parlamento europeo arrestata il 9 dicembre scorso perché ritenuta parte dell’associazione guidata da Antonio Panzeri, ex eurodeputato, per corrompere eletti al Parlamento europeo e riciclare danaro. L’ambiente carcerario non è naturalmente un ambiente appropriato per neonati e bambini piccoli e spesso è concausa di ritardo duraturo nel loro sviluppo. Tuttavia, se separati con la forza dalla madre, questi si ritrovano permanentemente con problemi emotivi e relazionali. La maggior parte dei sistemi carcerari europei dispone di alcune strutture per accogliere le madri con bambini, ma centinaia di bambini sono ancora separati dalle loro madri detenute. Tra queste c’è la bambina di Kaili che ha poco meno di due anni. In Italia solo a gennaio sono state contate 15 madri con 9 bambini. Nel 2022 il Parlamento ha approvato la legge 21 aprile 2011, n. 62, per valorizzare il rapporto tra detenute madri e prole concentrandosi sulla acclarata necessità di conciliare l’esigenza di limitare la presenza nelle carceri di bambini in tenera età e al contempo di garantire la sicurezza dei cittadini anche nei confronti delle madri di figli minori che abbiano commesso delitti. Le norme dell’anno scorso introducono innanzitutto alcune ulteriori modifiche al quarto comma dell’art. 275 c.p.p., per escludere l’applicazione della custodia cautelare in carcere per le madri con prole di età inferiore a 6 anni (ovvero del padre qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole), prevedendo che, in caso di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice possa disporre la custodia cautelare presso gli istituti a custodia attenuata per detenute madri. In Italia, paese che non brilla per il rispetto dei diritti umani nelle carceri, Eva Kaili sarebbe a casa con la figlia. Come segnala l’Associazione Antigone sul suo sito, “nella fase iniziale della detenzione, si riscontrano disturbi psicologici che possono essere legati all’arresto, all’imprigionamento, al rimorso per il delitto commesso, alla previsione della condanna, o a disturbi preesistenti”. Entrando in carcere la persona perde il ruolo sociale che aveva prima e la privazione degli affetti di uno spazio proprio e della possibilità di decidere autonomamente possono causare diversi scompensi sia fisicamente e psicologicamente. La detenzione comporta una completa dipendenza dall’istituzione e se le modalità del primo trattenimento o la qualità della restrizione non rispettano gli standard di umanità previsti dal diritto internazionale, siamo di fronte ad ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e crisi di identità aggravate dal degrado in cui si è detenute. Sempre secondo Antigone, “all’inizio della detenzione i disturbi possono manifestarsi come crisi d’ansia generalizzata, se poi il disadattamento persiste, possono sopraggiungere attacchi di panico e claustrofobia”. Eva Kaili, non solo non ha la figlia con sé ma continua ad affermare la propria estraneità ai fatti contestatigli sapendo che se si “pentisse” e collaborasse, avrebbe vantaggi tanto di pena quanto di condizioni detentive. Dalla presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, a chi ha preso il posto di Eva Kaili (anche se la deputata greca appare ancora sul sito dell’istituzione) a tutti i parlamentari, nessuno ha pensato di ricordarsi che i diritti umani esistono anche in Europa e non solo in Iran, Qatar, Marocco, Cina, Russia eccetera. Il cuore dell’Europa viola una legge nazionale, sacrifica standard riconosciuti da convenzioni delle Nazioni unite sull’altare della lotta alla corruzione politica. Al silenzio del Parlamento europeo si aggiunge quello dei commissari del Consiglio d’Europa, le agenzie speciali dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e tutto l’ambaradan della Nazioni unite che si interessa di detenzioni arbitrarie, diritti del fanciullo o vita nel carcere. Nel 2012, quando ero senatore, votai a favore dell’arresto dell’allora tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, accusato d’essersi intascato 20 milioni di euro di un partito che non esisteva più elettoralmente ma con significative risorse. L’accusato si poté difendere davanti alla giunta per le autorizzazioni del Senato e successivamente in aula prima dell’arresto. Nel suo intervento di replica in plenaria, Lusi se la prese in particolare con Emma Bonino per il suo intervento a favore dell’arresto ritenendo che i radicali dovessero essere contro il carcere sempre e comunque - il che in linea teorica, cioè ideale, sarebbe anche corretto. Appena tradotto a Rebibbia lo andai a trovare. Era in una piccola cella nella zona di transito, dove al posto della porta c’erano solo le sbarre e il servizio igienico era a vista. Se non disumano si trattava sicuramente di un trattamento degradante. Tornai una seconda volta a trovarlo per portargli dei documenti che mi aveva chiesto e, per molto tempo, sono stato l’unico eletto che lo andò a trovare. Col tempo una delegazione della giunta per le autorizzazioni si recò a Rebibbia. Dei suoi non mi risulta nessuno… Il Belgio non ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione, OPCAT, contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, un accordo internazionale entrato in vigore nel 2006 volto a prevenire la tortura e le pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che consente la visita di autorità internazionali nelle carceri dello Stato membro dell’Onu. ll focus sulla prevenzione è un’innovazione nel sistema delle Nazioni unite, non ci si attiva a seguito di denunce circa presunte violazioni dei diritti umani ma ci cerca di agire prima. L’OPCAT stabilisce infatti criteri e garanzie per la realizzazione di efficaci visite preventive da parte degli organismi nazionali assicurando, in questo modo, l’implementazione di standard internazionali a livello locale. Anche in mancanza di precisi obblighi internazionali parlamenti nazionali o europei possono fare richiesta di visita ispettiva di un istituto di pena in virtù del loro ufficio. Magari ci vorrà un po’ di tempo per ottenere il permesso ma è ragionevole ipotizzare che uno Stato membro dell’Ue alla fine risponda positivamente. I quotidiani belgi, che hanno cavalcato lo scandalo Qatargate, non si sono azzardati, e con loro anche la politica nazionale, a denunciare questa mancata ratifica o a lanciare un appello affinché il Regno del Belgio si adegui, tra le varie cose, anche a questi recenti sviluppi del diritto internazionale. La lotta alla corruzione politica, o la proiezione verso il pubblico della massima intransigenza per la politica che delinque, rendono il Parlamento europeo una mala bestia che ha paura delle proprie idee e azioni. Che siano paladini del garantismo - una categoria di sedicenti che comprende chi, ogni tre per due, propone l’istituzione di nuovi reati o aggravamenti di pena, ma con la fiducia granitica nella “presunzione d’innocenza” - o che si straccino le vesti col mantra del “restiamo umani”, nessuno dei 704 eletti di questo Parlamento europeo merita la riconferma proprio per come si sta comportando nei confronti di una loro ex-collega che, chissà, forse alla fine verrà scagionata dopo mesi di carcere inumano e degradante. Francia. L’ultima lettera di Daniel, trovato impiccato in cella: “Vogliono uccidermi” di Gabriele Moroni Il Giorno, 7 febbraio 2023 Il ventenne italiano recluso a Grasse temeva gli altri: “Non sono un infame”. Nuova autopsia in patria. “Ferita dietro il cranio, non è suicidio”. Un esposto al Tribunale di Roma per delitto commesso all’estero ai danni di un cittadino italiano. Chiede di indagare sul carcere francese di Grasse, “per reati commessi in condotte attive e omissive”, la famiglia di Daniel Radosavljevic, 20 anni, cittadino italiano, trovato impiccato lo scorso 18 gennaio nella cella dove si trovava in custodia cautelare dopo l’arresto dell’8 ottobre 2022. La famiglia non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio e nei biglietti scritti a mano da Daniel emerge in modo inequivocabile la paura che aveva di morire. Si sentiva in pericolo, aveva paura di ritorsioni, “il nano di Nizza che mi ha detto che arriverà un detenuto con me (...) che mi ammazzerà e così arriverà la mia morte. Vi prego, vi chiedo aiuto, vi supplico aiutatemi”. Il biglietto è datato 17 gennaio. Il giorno dopo la mamma Branka Milenkovic riceve la telefonata della direzione del carcere, “suo figlio si è suicidato per impiccagione durante il regime di isolamento”. E poi un’altra telefonata da un detenuto che invita i parenti a investigare. Per sapere cosa sia successo in carcere, come è morto Daniel e perché, il legale della famiglia, l’avvocato Francesca Rupalti, ha presentato l’esposto al tribunale romano competente per questo tipo di reato. Domani sarà il giorno dell’autopsia, in Italia, all’istituto di medicina legale di Milano, alla presenza di un consulente di parte. “È stata fatta anche un’autopsia in Francia, ma non abbiamo ancora l’esito”, spiega l’avvocato. Intanto ci sono le foto scattate dai parenti quando hanno visto la salma di Daniel, “ci sono una ferita nella parte dietro del cranio, un’altra sotto il costato, il mignolo rotto e altri segni che ci lasciano perplessi che non possono essere riferibili all’impiccagione”. E poi secondo la famiglia Daniel non aveva nessuno motivo di togliersi la vita, “non vedeva l’ora di tornare a casa”, racconta la mamma. Il 20enne era stato arrestato l’8 ottobre a Cannes con l’accusa inottemperanza all’ordine di fermo e tentato omicidio di un pubblico ufficiale perché non aveva rispettato l’alt imposto ad un posto di blocco, era fuggito e aveva speronato le auto della Gendarmeria. Dal carcere di Grasse comunicava con la famiglia tramite un telefono clandestino e intanto scriveva biglietti. La carcerazione stava per scadere, “Daniel aveva contezza che probabilmente si sarebbe interrotta, l’udienza era fissata per il 25 gennaio”. Il 15 gennaio la sua ultima telefonata alla mamma. E poi verità e timori su fogli manoscritti dalla cella, “era ossessionato dalle accuse di essere un infame che nel gergo carcerario è come avere una condanna a morte - aggiunge l’avvocato Rupalti - lo scrive spesso nei suoi biglietti, dice di avere la coscienza a posto, ma ha paura e si sente al sicuro solo in isolamento”. Ma purtroppo non è stato così. La sua volontà, quella sì, è stata rispettata. I suoi manoscritti sono stati consegnati alla famiglia, insieme agli effetti personali. Daniel aveva un sogno, “spero che di tutto ciò che è accaduto venga fatta giustizia per i ragazzi che come me si trovano soli, senza un aiuto, senza un amico (...) Perché faccio tutto ciò? Perché io non sono come loro che si ammazzano come cani e ho pensato di ritornare dalla mia famiglia”.