Il problema sono le carceri, non (solo) il 41 bis di Alfredo Roma* Il Domani, 6 febbraio 2023 Il sistema penitenziario italiano fa acqua da tutte le parti e questo è un problema molto più grave di quello sollevato dal caso Alfredo Cospito. Il sistema politico si è perso in questi giorni in una speciosa e improduttiva diatriba sull’articolo 41 bis del codice penale, al quale è sottoposto l’anarchico Alfredo Cospito. Il tema andrebbe semmai esaminato sotto il profilo della costituzionalità e degli aspetti umanitari, cosa che i politici si sono ben guardati dal fare, mentre alcuni magistrati hanno ricordato che rispettando le norme del nostro ordinamento giudiziario si potrebbe cancellare il 41 bis, che appare come un regime eccessivo per un paese democratico. Infatti, si parla ora di sottoporre Cospito al regime meno severo di alta sicurezza di secondo livello. Il tema andrebbe comunque esaminato nel contesto della situazione in cui si trova il nostro sistema penitenziario. Il sistema penitenziario - Alcuni dati di sintesi ci dicono che al 31 maggio 2022 nelle carceri italiane i detenuti erano 54.771, di cui 2.237 erano donne e 17.043 stranieri. Nel 2022, nelle carceri italiane ci sono stati 84 casi di suicidio ai quali bisogna aggiungere i 6 tra le forze della polizia penitenziaria. L’Italia, messa a confronto con i soli paesi membri dell’Unione europea, risulta avere le carceri più sovraffollate: 120,3 detenuti per ogni 100 posti, con una media di 1,9 persone per cella. Non solo, l’Italia risulta ai primi posti con il più alto numero di detenuti in attesa di un primo giudizio o di una sentenza definitiva: 34,5 per cento contro una media del 22,4 per cento. Non si può poi dimenticare che l’8 gennaio 2013 anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che l’Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di tre metri quadrati e ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di sette carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. Questa situazione implica inevitabilmente una vita in condizioni spesso disumane, dove anche chi non è delinquente lo diventa. Le misure alternative - L’ex magistrato Gherardo Colombo ha sintetizzato con queste parole il concetto di pena: “Credo che la pena, il castigo, il carcere non siano la soluzione dei problemi della giustizia italiana. Ma punire, infliggere il male in risposta alla trasgressione, in effetti legittima il male. La risposta alla devianza dovrebbe essere da una parte preventiva, dall’altra riconciliativa: portare, come dice la Costituzione, alla rieducazione di chi si è allontanato dalla società”. Il gruppo di lavoro costituito dal presidente Giorgio Napolitano nel 2013 sul tema delle carceri, propose quattro misure: di trasformare in pene principali alcune delle attuali misure alternative dell’esecuzione, come l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare; un ampio processo di depenalizzazione di condotte che possono essere meglio sanzionate in altra sede; l’introduzione su larga scala di pene alternative alla detenzione; con particolare attenzione va dedicata al tema del lavoro dei detenuti, che riduce drasticamente la recidiva, rende il carcere più vivibile, rispetta la dignità della persona detenuta; una congrua assegnazione di risorse finanziarie. Non si tratta di cifre importanti, ma il fondo complementare del Pnrr, alla lettera g prevede 132,9 milioni di euro, dal 2022 al 2026, per la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture penitenziarie per adulti e minori, una progettazione complessiva che tiene conto anche dei fondi per i lavori di ristrutturazione di 4 istituti per minori. Come dovrebbero essere - In Norvegia l’ergastolo è stato abolito nel 2012 e la pena massima è di 21 anni. Le carceri norvegesi sembrano sobri alberghi che garantiscono la dignità del carcerato. L’obiettivo del sistema giudiziario è quello della riabilitazione dei criminali, non quello della loro punizione. Le carceri dovrebbero essere come campus universitari dove si studia, si lavora e si apprende un mestiere che si potrà esercitare una volta scontata la pena. Ogni recluso dovrebbe avere una sua camera con servizi che consenta un dignitoso livello di vita. Questo è il solo modo per riabilitare i carcerati come richiede la Costituzione. La vera pena è quella della privazione della libertà di movimento, che di per sé è già un enorme castigo. Perché, ad eccezione del Partito Radicale di Marco Pannella, le forze politiche non si sono mai occupate seriamente del sistema carcerario? La risposta è semplice: 54.000 carcerati sono una base elettorale poco interessante. Molto meglio sostenere il pensiero dei benpensanti che auspicano uno stato forte che impone law and order e permetta una legittima difesa senza limiti. Questo è quello che, purtroppo, hanno evidenziato le ultime elezioni politiche. Forse le alte cariche dello stato dovrebbero chiedersi se l’Italia, con questo sistema penitenziario, ha completato il suo processo verso una democrazia compiuta. *Economista Carcere, recidiva quasi azzerata per chi può imparare un lavoro di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2023 Su 18.654 detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale il numero di coloro che tornano a commettere un reato è al 2%, contro una media che sfiora il 70%. Due per cento contro quasi 70. Sono i due numeri che fotografano il ruolo dell’accesso al lavoro all’interno del sistema penitenziario. Due per cento è infatti il tasso di recidiva tra i 18.654 detenuti che hanno un contratto di lavoro, 70%, anzi 68,7%, è il tasso complessivo medio stimato su una popolazione carceraria che si attesta a 56.107 (dato al 2 febbraio 2023). Chi, cioè, ha la possibilità di lavorare durante la reclusione, quando finisce la sua detenzione di fatto non torna più a delinquere, confermando in questo modo lo strumento del lavoro come il più efficace per centrare l’obiettivo della sicurezza sociale. A diffondere questi numeri è stato il Cnel, che ha anche annunciato l’istituzione al suo interno di una commissione per il lavoro carcerario. “Con questa commissione - spiega il presidente del Cnel, Tiziano Treu - vorremmo da un lato essere di stimolo a questo particolare segmento del mercato del lavoro e dall’altro mettere più a fuoco le esperienze positive svolte finora. Vorremmo inoltre continuare il confronto e avviarlo anche con i sindacati”. Al centro, nell’immediato, il tema del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione, che rappresentala percentuale maggiore, e la sua mancata professionalizzazione. L’interlocuzione con il sindacato del pubblico impiego, su questo aspetto, potrebbe aiutare lo svecchiamento del sistema con l’obiettivo di favorire l’acquisizione di competenze ma anche valorizzare il ruolo della polizia penitenziaria. Quanto invece al lavoro per le imprese private “bisogna intervenire sull’organizzazione ma soprattutto sulla comunicazione - prosegue - spesso cioè gli imprenditori non sono neanche a conoscenza delle varie possibilità”. Più sostegno per loro che devono misurarsi con una realtà complessa e con dinamiche precise e più accompagnamento alle attività peri detenuti. All’interno di una cornice che deve “prevedere anche delle risorse economiche”, conclude Treu. I numeri Facciamo un passo indietro: il lavoro in carcere è stato introdotto con l’articolo 15 della legge 26 luglio 1975, n. 354, che individua il lavoro come elemento del trattamento rieducativo, stabilendo, al secondo comma, che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa. Negli anni, però, solo una parte minoritaria della popolazione carceraria ha avuto questa possibilità. Attualmente, come spiega il Cnel, i detenuti e le detenute che lavorano con un contratto collettivo nazionale sono 18.654 (34% dei presenti), di cui 16.181 alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (84,7%) e 2.473 per imprese/cooperative esterne e hanno un contratto molto simile, con gli stessi diritti e gli stessi doveri, dei lavoratori liberi. Quelli che lavorano nell’amministrazione percepiscono una remunerazione decurtata di un terzo rispetto a quella dei lavoratori in stato di libertà; hanno diritto alle ferie remunerate, alle assenze per malattia e il datore di lavoro paga per essi i contributi assistenziali (assicurazione sanitaria) e pensionistici. “I dati - ricorda il consigliere del Cnel, Gian Paolo Gualaccini - dimostrano che la finalità rieducativa della pena è ancora un obiettivo sostanzialmente inattuato, ma per i detenuti lavoratori i dati sono ottimi. Se la recidiva per í detenuti non lavoratori, infatti, si aggira intorno al 70%, per coloro che invece in carcere hanno appreso un lavoro, imparando ad avere fiducia in sé stessi, la recidiva scende drasticamente intorno al 2%”. “Il lavoro penitenziario - spiega infatti Carmelo Cantone, vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - attraversa una fase di passaggio che risente tanto delle crisi tanto dell’emergenza pandemica. Oggi il nostro obiettivo è quello di sensibilizzare il mondo imprenditoriale, attirarne l’attenzione, creare delle filiere lavorative e produttive coerenti con le esigenze del mercato. Ma, soprattutto, far comprendere che implementare il lavoro in carcere non significa togliere posti di lavoro all’esterno, messaggio questo non solo equivoco ma anche molto pericoloso. Al contrario, anzi, il lavoro in carcere può essere un valore che arricchisce l’intero mercato”. Cospito, nutrirlo contro la sua volontà? Il dilemma etico dei medici, che ora pensano al ricovero di Elena Dusi La Repubblica, 6 febbraio 2023 L’anarchico in sciopero della fame ha scritto di non volere l’alimentazione forzata. La Costituzione e il codice deontologico gli danno ragione. Mario Riccio (associazione Luca Coscioni): “Non credo che il suo sciopero sia totale, 108 giorni sono troppi. Ma ora rischia un arresto improvviso del cuore o di scivolare gradualmente nell’incoscienza”. Filippo Anelli (Fnomceo): “Ma la vita dovrebbe venire prima di tutto”. “Mi opporrò con tutte le mie forze all’alimentazione forzata. Saranno costretti a legarmi nel letto”. Il biglietto scritto a mano da Alfredo Cospito, datato 12 novembre 2022 e consegnato dall’anarchico in sciopero della fame al suo avvocato, mette i medici in una posizione difficile. Come dovranno comportarsi ora, in caso di aggravamento delle sue condizioni di salute? “Rispettare la volontà del paziente” - La costituzione e il codice deontologico dei medici sono chiari. “Nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge” prevede l’articolo 32 della nostra Carta. L’articolo 51 del codice che regola il comportamento dei medici si mantiene su questa linea: “Quando una persona sana di mente rifiuta di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze”. Se chi sciopera decide di insistere, “il medico non deve assumere iniziative costrittive”, ma deve “continuare ad assisterlo”. Dopo 108 giorni di sciopero della fame, i medici del carcere di Opera e il tribunale di sorveglianza di Milano cominciano a prepararsi all’eventualità di un aggravamento. Se Cospito, 55 anni, dovesse peggiorare, sono pronti a trasferirlo al reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo. Questo, però, non vuol dire necessariamente alimentarlo a forza. Anche perché la difesa ha presentato una diffida al ministero della Giustizia e al Garante: in caso di peggioramento della sua salute, non vogliono che venga sottoposto a trattamenti forzati. Cosa potrebbe accadere a Cospito - “Dal punto di vista medico possiamo immaginare due scenari” ragiona Mario Riccio. Il primario di rianimazione all’ospedale di Casalmaggiore (Cremona) è in pensione da pochi giorni, ma continua a lavorare al 118 e fare guardie in ospedale. Membro dell’associazione Luca Coscioni, nel 2006 ha aiutato Piergiorgio Welby a morire. E’ stato per questo processato, poi assolto. “Dopo un lungo sciopero della fame il cuore può fermarsi all’improvviso, perché è un muscolo e senza benzina non può più lavorare. A soffrire per la carenza di zuccheri, altrimenti, potrebbe essere per primo il cervello. In quel caso il paziente perde gradualmente coscienza, mostra torpore e sopore, entra in una sorta di coma”. Un medico che rispetti il codice deontologico non dovrebbe intervenire. “Di fronte a un collasso cardiocircolatorio, in realtà immagino che si tenti di rianimare il paziente” prosegue Riccio. “Ma il cuore resta senza benzina. È difficile che riprenda a battere. E sarebbe comunque troppo tardi per tentare una nutrizione in extremis”. I possibili spiragli - Il secondo scenario - un declino lento delle capacità cognitive - è invece quello che porrebbe i medici di fronte agli interrogativi etici più pressanti. “L’articolo 32 della Costituzione parla chiaro. Non possiamo fare niente” conferma Filippo Anelli, presidente della Federazione degli ordini dei medici (Fnomceo) e membro consultivo del Comitato nazionale di bioetica. “Ma ci sono due possibili spiragli. Il paziente in sciopero della fame potrebbe essere salvato se a ordinarlo fosse un magistrato e se un comitato etico ad hoc si esprimesse in tal senso, di fronte a un ammorbidimento della volontà del paziente”. In questo caso, spiega Anelli, il medico avrebbe la facoltà di superare la volontà di Cospito. “Oltre al principio della Costituzione, c’è infatti quello della salvaguardia della vita. Tutto deve essere fatto per preservarla. Quanto al 41 bis, superare le rigidità del nostro ordinamento in questo caso non sarebbe cedimento, ma tutela di un valore assoluto come appunto quello della vita, che dovrebbe venire prima di tutto in un paese civile che mira alla rieducazione dei detenuti”. La nutrizione forzata come tortura - La nutrizione coatta per interrompere uno sciopero della fame, praticata in passato dagli americani con i sospetti terroristi di al-Qaeda detenuti a Guantánamo e discussa a livello di legge dagli israeliani alle prese con i prigionieri palestinesi, è condannata dalla Dichiarazione di Malta sugli scioperi della fame del 1991, adottata dalla World Medical Association. Nel caso di Guantánamo, la commissione per i diritti umani dell’Onu ha espressamente definito come “tortura” la pratica di nutrire i detenuti tramite un sondino naso-gastrico inserito a forza. “La nostra sensibilità è cambiata con il tempo” ricorda Riccio. “Quando andavo all’università, i professori mi spiegavano come superare le resistenze dei testimoni di Geova di fronte alle trasfusioni: sarebbe bastato attendere che diventassero troppo deboli per difendersi, poi avremmo potuto inserire l’ago nel braccio. Ora non ragioniamo più così. Se anche facessimo una flebo a un Cospito incosciente, cosa faremmo al suo risveglio, qualora lui se la strappasse?”. Il ruolo degli integratori - Il dibattito, in assenza di dati certi sulla salute di Cospito, resta teorico. Ma con 108 giorni di sciopero della fame a incidere sull’organismo, c’è il timore che si possa salire di livello. “Una cosa è certa” spiega Riccio. “Un digiuno così lungo non può essere stato totale. Per vivere un essere umano ha bisogno almeno di tre elementi, proteine, grassi e carboidrati. Non bastano nemmeno gli integratori, se con questo nome si intendono vitamine e sali minerali. Esistono invece preparati liquidi che forniscono i nutrimenti necessari, dei brick usati in particolari tipi di pazienti debilitati. Anche le persone in coma possono vivere indefinitamente, grazie alla nutrizione artificiale”. Riccio, da frequentatore della galassia Radicale, conosce gli storici digiuni di Marco Pannella, “che si nutriva di cappuccini (con il latte che contiene proteine, zuccheri e grassi) e beveva la propria urina, finendo pesantemente debilitato”. Ma nel caso di Cospito precisa: “Non conosco i dettagli della sua alimentazione. E anche se riprendesse a mangiare, dovrebbe farlo con cautela. Uscire da un lungo periodo di digiuno è una procedura delicata, che ha bisogno dell’assistenza di un medico. Altrimenti anche un pasto normale rischierebbe di rivelarsi fatale”. Caso Cospito, l’analista dei servizi segreti: “Lui è abile, lo Stato non ceda” di Giovanni Rossi Il Giorno, 6 febbraio 2023 Alfredo Mantici, ora docente: “Serve agire per salvare il detenuto, e al tempo stesso non farsi ricattare. Non è interesse dello Stato trasformare Alfredo Cospito nel Bobby Sands del sovversivismo italiano”. Alfredo Mantici, analista di intelligence, ex capo divisione del controspionaggio nel Sisde (ora Aisi), poi direttore della Scuola addestramento dei nostri servizi, esperto di terrorismo e bioterrorismo, ora docente di scienze politiche alla Unint di Roma, cita il 27enne nordirlandese leader dell’Ira, morto nel 1981 nel carcere di Maze, dopo 66 giorni di sciopero della fame per protesta contro le condizioni detentive. Un richiamo storico che apre scenari estremi. Professore, il caso Cospito domina l’agenda politica. Con quali conseguenze? “Quelle sotto gli occhi di tutti. Con un salto narrativo impressionante, in sole due settimane l’opinione pubblica è passata dalla soddisfazione per l’arresto di Matteo Messina Denaro, ai sospetti sulla latitanza e sulla cattura del boss gravemente malato, all’apparizione della variante Cospito e alla messa in discussione del 41 bis che i mafiosi considerano il totem da abbattere. Un capolavoro della democrazia istantanea che non sa vedere oltre le successive 24 ore”. Per responsabilità o sottovalutazione di chi? “Cospito è stato molto abile a mettersi in gioco. Non è mai facile affrontare uno sciopero della fame. Una protesta così forte è certamente legittima se condotta per motivi personali, di contrasto a un regime carcerario ritenuto sproporzionato e ingiusto. Ma nel momento in cui la protesta diventa politica e abbraccia il principale strumento di contrasto alle comunicazioni esterne dei boss in carcere, allora lo Stato - al di là di ogni dinamica parlamentare, di ogni precedente avventatezza o errore dei suoi rappresentanti - non può cedere a ricatti. E deve salvare la vita al detenuto”. La volontà di Cospito è chiara: né alimentazione forzata né idratazione... “Lo Stato non può essere complice di un suicidio: meglio un Tso che un morto e un martire”. Ma fior di costituzionalisti segnalano, in punta di diritto, che Cospito ha piena potestà decisionale... “Non sono un uomo di legge ma, in un caso simile, sono convinto possa aprirsi lo spazio giuridico per un trattamento sanitario obbligatorio”. Offrendo altra benzina all’incendio anarco-insurrezionalista? “Questo è un altro tema. Lasciamolo da parte, per un attimo. Di certo, per uscire dal vicolo cieco in cui il Paese si è cacciato, non si può lasciare l’iniziativa a Cospito o al suo avvocato. Lo Stato deve scegliere e agire”. Da analista quali scenari valuta? “Un capitolo è Cospito, uno il 41 bis (e la mafia), un altro ancora la galassia anarco insurrezionalista. I tre temi devono essere gestiti separatamente”. Cospito? “Auspico una pronta interruzione dello sciopero della fame. Altrimenti vedo solo un Tso”. E il 41 bis? “La richiesta fatta all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di mitigare documentati aspetti del regime di carcere duro e dell’ergastolo ostativo - secondo la Cedu “inumani e degradanti” - assicura la straordinaria occasione di agire su impulso europeo per costruire la migliore mediazione possibile tra una legislazione antimafia motivata dai fatti e la funzione riabilitativa della pena”. Come? “Sul piano giuridico il 41 bis rimane e quindi l’Italia non lo sconfessa. Sul piano tecnico, anche attraverso un protocollo attuativo, lo Stato rinuncia invece a tutte le misure afflittive che esulano dall’obiettivo - sempre attuale e necessario - di impedire la comunicazione con l’esterno di mafiosi e terroristi”. Ad esempio? “Le pare che non poter appendere in camera le foto dei propri cari cambi il destino di chi ha lunghe o lunghissime condanne? Decisivo è soltanto impedire a boss o terroristi di dare ordini all’esterno, non di avere il telecomando o guardare la tv”. E la vampata anarco-insurrezionalista? “Può diventare pericolosa, perché pulviscolare e spontaneista. Cospito, tanto per tornare a lui, gambizza l’Ad di Ansaldo Energia, Roberto Adinolfi, perché il nome di Adinolfi è l’unico che sta in una pubblicazione contro il nucleare del collettivo anarchico di Rovereto. Non c’è una catena di comando, ognuno agisce per conto proprio in piccoli gruppi legati da affinità familiari o amicali. Questa è l’insidia maggiore. L’area anarchica va continuamente monitorata e mai sottovalutata. Anche per le forti connessioni con Grecia, Francia e Spagna”. Tempesta in vista? “In ogni democrazia esiste e sempre esisterà una quota fisiologica del 10-15% del Paese pronta ad opporsi alla narrazione mainstream, quale essa sia. Ne abbiamo avuto una plastica riprova durante il Covid con l’esplosione dei movimenti No vax. Ma una democrazia matura sa sempre trovare le forme per convivere con le più varie forme di dissenso lavorando per prevenire fenomeni di violenza o terrorismo”. Con quali strumenti? “Serve maggior capacità di analisi per capire i megatrend affrontandoli per tempo senza farsi sorprendere dagli agguati della cronaca. Legiferare sull’onda delle emozioni difficilmente garantisce risultati all’altezza”. Meloni: “Sul caso Cospito vogliono buttarmi giù”. Tajani: “Da noi toni bassi” di Serena Riformato La Stampa, 6 febbraio 2023 La premier: “Noi non trattiamo con la mafia. E non caliamo la testa”. Ma poi si dimentica di introdurre sul palco il candidato nel Lazio Rocca. Alla fine del suo discorso, Giorgia Meloni risale sul palco trafelata per annunciare l’entrata di Francesco Rocca, rimasto in attesa dietro le quinte: “Ce l’ho fatta a dimenticarmi”, la premier si scusa con il candidato del centrodestra per il Lazio a cui sarebbe, in teoria, dedicata la convention all’Auditorium della Conciliazione. Il voto regionale finisce invece sullo sfondo, come gli altri leader della coalizione presenti, Maurizio Lupi, Matteo Salvini, Antonio Tajani, persino Silvio Berlusconi, con un videomessaggio registrato. Meloni sceglie il palco di Rocca per farne l’evento dell’orgoglio di Fratelli d’Italia, nei giorni in cui due colonnelli del partito sono sotto accusa per l’uso disinvolto dei materiali ministeriali riservati su Alfredo Cospito. Accolta dalla standing ovation, “semplicemente Giorgia”, come la presenta l’attore Pino Insegno, ripropone la narrazione della sfavorita che ha battuto i pronostici: “Per qualcuno dovevamo durare qualche settimana, invece siamo ancora qui e diversi dagli altri”. “Non abbassare la testa”, le urlano dal pubblico: “nun te preoccupà”, risponde lei in romanesco. La premier traccia il bilancio dei primi cento giorni di governo, rivendica tutti i provvedimenti più discussi - dal decreto Rave alle norme sulle Ong - e deride chi la critica con vocine caricaturale (“L’Italia è isolatissima, che tragedia”, si finge in lacrime). Non fa mai il nome di Alfredo Cospito, ma ribadisce: “Credo che lo Stato non debba trattare con la mafia e con chi lo minaccia”. L’intera liturgia è costruita per convincere che la polemica sia acqua passata. Ecco quindi Giovanni Donzelli, l’epicentro, in prima fila, seduto di fianco a Fabio Rampelli, per smentire anche l’ipotesi che la nomina del deputato toscano a commissario della federazione romana di FdI abbia lasciato dissapori fra i due. Il coordinatore nazionale del partito si preoccupa solo di organizzare i movimenti dei giovani volontari che da lì a poco saliranno sul palco per cantare l’inno d’Italia con la mano sul cuore. Le sue dimissioni dal Copasir come quelle del sottosegretario alla Giustizia Delmastro non sono un argomento sul tavolo di palazzo Chigi, nonostante le proteste delle opposizioni: “Meloni si è assunta la responsabilità di difendere l’indifendibile - dice il candidato alla segretaria Pd Stefano Bonaccini - la Costituzione prescrive disciplina e onore per chi ricopre cariche istituzionali e non c’è dubbio che Delmastro non ha dimostrato né disciplina né onore”. Chi ha l’aria di avere meno voglia di spendersi per i maggiorenti meloniani è Forza Italia. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani sostiene sì che “il caso Donzelli-Delmastro debba essere chiuso”, ma allo stesso tempo smarca ilproprio partito: “Noi di Forza Italia non abbiamo mai alzato i toni”. Concetto ribadito da Silvio Berlusconi: “Promuovere unità e non prestare il fianco a chi ci vuole dividere questo è l’atteggiamento che abbiamo tenuto sul caso di Alfredo Cospito. Ben alla larga da ogni forma di polemica”. Il leader della Lega sposta l’attenzione sugli anarchici: “Se ancora qualcuno inneggia alla lotta armata è un dovere dello Stato evitare che questa persona parli con i giovani e con l’esterno. Se ti hanno dato il 41 bis, ti fai il 41 bis, punto”. Perché la premier sta sbagliando di Giovanni Orsina La Stampa, 6 febbraio 2023 All’ormai ben noto intervento che Giovanni Donzelli ha svolto alla Camera dei deputati martedì scorso potrebbe essere applicata la celebre frase che Joseph Fouché (ma forse fu Talleyrand) avrebbe detto in occasione del rapimento e della fucilazione del Duca d’Enghien: “È stato peggio di un crimine, è stato un errore”. Il “crimine” in questo caso è di media gravità. Muovere al Partito democratico l’accusa di fiacchezza nella lotta alla mafia e al terrorismo è non solo ingiusto, ma porta il conflitto politico fuori dal terreno della civiltà. Però dal terreno della civiltà il conflitto politico, negli ultimi trent’anni, è uscito spessissimo, e sulla mafia le forze politiche progressiste ne hanno date ben più di quante non ne abbiano prese - leggasi alla voce “Berlusconi”. Sfruttare il privilegio di stare al governo per raccogliere informazioni da usare nella lotta politica è quel che hanno sempre fatto tutte le maggioranze. Solo - ma non è poco - bisogna avere l’accortezza di non oltrepassare sotto gli occhi di tutti la linea assai delicata che separa le istituzioni dalla politica. Da questo punto di vista, che una parte delle notizie richiamate in aula da Donzelli fosse stata pubblicata da Repubblica è un’aggravante: il deputato avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato politico utilizzando i dati di dominio pubblico senza “scoprire” l’apparato del ministero della giustizia. Veniamo così all’errore. Seguendo le pulsioni autolesionistiche alle quali ci ha ormai abituato da anni, il Partito democratico si stava infilando nell’ennesimo vicolo cieco. È ben evidente, infatti, che per il buco che Alfredo Cospito sta cercando di aprire nella rete del 41 bis potrebbero cercar di passare pure i condannati per mafia. Ed è altrettanto evidente che adesso più che mai, dopo l’arresto di Messina Denaro, l’opinione pubblica non perdonerebbe chiunque potesse esser sospettato d’indulgenza nei confronti della criminalità organizzata. Politicamente, insomma, la maggioranza si trovava in una posizione favorevole. Favore che l’improvvida sortita di Donzelli ha convertito in svantaggio, consentendo al Partito democratico di spostare l’attenzione sull’abuso delle istituzioni e sull’uso politico di una delicata questione di ordine pubblico. La lettera che Giorgia Meloni ha scritto sabato al Corriere della sera non è stata sufficiente a rimediare alla condizione di svantaggio, né avrebbe potuto esserlo. L’appello a concentrarsi sulla sfida anarchica è debole fin quando essa rimane allo stato potenziale. Quello ad abbassare i toni non potrà mai convincere l’opposizione se al contempo il Presidente del Consiglio continuerà a difendere Donzelli e Delmastro. Ma se smettesse di difenderli Meloni pagherebbe un prezzo politico e, con ogni probabilità, anche personale assai caro, che non pare abbia la minima intenzione di sopportare. Il Partito democratico lo sa, e alza la posta. Ne esce infine una sorta di stallo alla messicana destinato, a meno che non accadano fatti nuovi, a concludersi naturalmente nel momento in cui l’attenzione pubblica si sposterà altrove. Mentre i “messicani” decidono come uscirne, possiamo in conclusione abbozzare due riflessioni. La prima, che la vittima principale di questa vicenda è un dibattito pubblico decente sul 41 bis. Quello previsto dal 41 bis è un regime carcerario indegno di un Paese civile che tuttavia, trent’anni fa, è stato reso necessario da una drammatica emergenza storica. L’emergenza è passata da un pezzo, ma il regime rimane. È lecito chiedersi se la sua permanenza, in questa forma, sia oggi giustificata. Una domanda, sia ben chiaro, alla quale non saprei in alcun modo rispondere per assoluto difetto di competenze, ma alla quale, peccando d’ingenuità, vorrei potesse dar risposta un discorso pubblico pacato e maturo. La seconda riflessione verte su una certa aria da cittadella assediata che sembra respirarsi intorno al governo Meloni. Che, certo, ha senso se si guarda al passato: una cultura abituata a pensarsi minoritaria ed esclusa; un Presidente del Consiglio che si definisce un “underdog”; i ridicoli e patetici allarmi dei mesi scorsi, in Italia e all’estero, sul fascismo alle porte. Ma non ha nessun senso, e può anzi fare gran danno, quando si guardi invece al presente e al futuro. A oggi, si potrebbe forse dire che nessun governo della nostra storia recente abbia goduto di un parallelogramma delle forze politiche così fortunato. Il quadro atlantico è favorevole. L’Europa è rassegnata con perfino qualche punta di benevolenza. I partner di maggioranza non hanno alternative. L’opposizione è talmente a pezzi da doversi aggrappare - appunto - al caso Donzelli. La cultura progressista è afona come non è mai stata: basti immaginarsi i caroselli cui avremmo assistito vent’anni fa se il governo Meloni fosse nato allora. L’underdog è diventato oggi un overdog. Al quale si chiede di uscire dalla cittadella e di mettere sul terreno quattro o cinque progetti politici che indichino la direzione al “branco” italiano. Bonaccini: “Il 41 bis non è in discussione. Donzelli e Delmastro devono lasciare” di Antonio Fraschilla La Repubblica, 6 febbraio 2023 Intervista al candidato alla segreteria del Pd: “Su Cospito decidono i giudici non la politica. La destra vuole rivalsa ma non dà risposte”. Arriva in un locale in zona Tiburtina per partecipare a un evento organizzato dal deputato dem Matteo Orfini. Parla pochi minuti davanti a una sala piena di ex deputati ed ex ministri, da Giuditta Pini e Fausto Raciti a Marianna Madia, rincuorandoli su un partito che “ha ancora un grande futuro se si rivolge al mondo delle imprese e alla ragazza che rifiuta giustamente un salario da 700 euro al mese”: un partito che non è morto “se però è chiaro nelle sue scelte”. E proprio per rispettare quest’ultimo passaggio Stefano Bonaccini, candidato a guidare il Partito democratico, prende una posizione netta anche sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito che digiuna contro il 41-bis e sull’uso politico che di questa vicenda hanno fatto prima il sottosegretario Andrea Delmastro e il deputato Giovanni Donzelli, rivelando alcune intercettazioni dello stesso Cospito, e poi in questi giorni la premier Giorgia Meloni. Bonaccini, condivide la linea Meloni sul caso Delmastro-Donzelli? “No, è una risposta sbagliata. Un sottosegretario che divulga informazioni riservate tradisce la sua funzione. E un vicepresidente del Copasir che utilizza quelle informazioni per colpire l’opposizione in Parlamento non ha giustificazione alcuna. Meloni avrebbe dovuto chiudere la vicenda con tempestività e autorevolezza. Non lo ha fatto”. Delmastro e Donzelli devono dimettersi da sottosegretario e da vice del Copasir come chiesto dai dem in Parlamento? “Sì. Non hanno dimostrato quell’onore e quella disciplina che la Costituzione chiede a chi ricopre cariche istituzionali. Il rispetto delle regole e della democrazia viene prima di ogni cosa, soprattutto per chi dovrebbe guidare il Paese”. Sul caso Cospito e in generale sul 41 bis che posizione ha? “Il 41-bis è un istituto essenziale per la lotta alla mafia e a ogni tipo di eversione: per quanto mi riguarda non è minimamente in discussione. Vengo dal Pci e ricordo che nella nostra storia ci sono le lapidi di Pio La Torre e Guido Rossa. Quanto a Cospito, anche in carcere tutte le persone devono essere curate in modo adeguato e va rispettata la loro dignità: se non succede è una sconfitta per lo Stato”. Hanno fatto bene i deputati dem ad andare in carcere a trovarlo? “La verifica delle condizioni carcerarie rientra nell’attività dei parlamentari. Ma questo non c’entra nulla col 41 bis”. Ma è favorevole o no a mantenere il 41 bis per Cospito? “Non credo spetti alla politica decidere di questo, ma alle autorità giudiziarie che gestiscono e conoscono il caso”. Secondo lei perché Meloni difende i suoi che hanno accostato “la difesa dei mafiosi” al Pd? “Probabilmente è meno forte di quanto voglia far apparire. E colgo un altro elemento: la destra si è sempre sentita esclusa dallo Stato e ora che è al governo è come se avesse un atteggiamento di rivalsa. Ma debolezza e arroganza sono cattive consigliere”. Teme una strategia della presidente del Consiglio per alzare la tensione nel Paese? “No, non lo voglio credere. Imperizia e, ripeto, debolezza e arroganza. Io vedo più questo nel comportamento di Fratelli d’Italia. E la necessità di provare a nascondere le difficoltà a dare risposte agli italiani sui problemi reali di ogni giorno: lavoro, sanità, inflazione record. In questi casi spostare l’attenzione su altro aiuta. Ma i cittadini inizieranno presto a presentare alla destra il conto delle promesse elettorali fatte”. C’è una emergenza su attacchi o presunti tali a istituzioni da parte di frange anarchiche? “Mi preoccupa il coagularsi di solidarietà. Difendo ovviamente la libertà di espressione di tutti, ma vedo un po’ di leggerezza. Ciò detto, non ho elementi per dire quale sia il rischio potenziale o reale. Certo, eviterei un’escalation di toni e di scontro politico. Per questo la risposta di Giorgia Meloni è stata debole e insufficiente”. Il sondaggio: il caso Donzelli spacca gli elettori. Due italiani su tre difendono il 41 bis di Alessandra Ghisleri La Stampa, 6 febbraio 2023 Il 42,2% ritiene grave la visita dei parlamentari Pd a Cospito in carcere. Il 44% critica la diffusione di informazioni riservate e gli attacchi alla sinistra. Il 41% degli italiani è convinto che il 41 bis, il cosiddetto carcere duro, sia una legge giusta da mantenere così com’è. E il pensiero è politicamente trasversale nei partiti che sostengono la maggioranza da Forza Italia (56,7%) a Fratelli d’Italia (52,3%), fino agli elettori della Lega (32%), che si dividono tra questa opzione e la possibilità di inasprire questo provvedimento ed estenderlo anche ad altri reati (28,8%). Su queste due posizioni si allineano anche gli elettori del Movimento 5 Stelle, dove il 43,7% la ritiene corretta così, mentre il 31,2 desidererebbe - addirittura - renderla più dura. Per i sostenitori del Partito Democratico il 41 bis è giusto così (42,2%). Tuttavia, nell’area delle opposizioni emerge anche uno spiraglio di riforma che riguarda la possibilità di limitare il carcere duro solo a quei detenuti considerati - agli atti - più pericolosi. La pensa così 1 elettore su 3 di Azione e 1 su 4 del Pd e di +Europa. Le posizioni così nette sul 41 bis appaiono ancora più divisive nel caso che ha coinvolto le parole del deputato Donzelli e del sottosegretario Delmastro. In questa vicenda il Paese si divide tra chi pensa che queste dichiarazioni abbiano portato alla conoscenza del grande pubblico la visita della delegazione con importanti rappresentanti del Partito Democratico in carcere ad Alfredo Cospito e ad altri detenuti sottoposti al 41 bis e chi è convinto che queste siano state solo strategie politiche usate a scopo politico per screditare il centro sinistra. Ovviamente sulla prima posizione si schierano tutti gli elettori dei partiti del centro destra; viceversa, sulla seconda si trovano schierati i partiti delle opposizioni. Sembra di assistere ad uno scontro tra tifoserie. Andando sui numeri il 42,2% ritiene che gli incontri tra i parlamentari del Partito Democratico e Alfredo Cospito siano gravi, mentre il 44,1% ritiene che sia più grave l’utilizzo e la diffusione di documenti e informazioni riservate nelle parole di accusa del deputato Giovanni Donzelli. E ancora, anche se il 35,7% non ha saputo offrire una sua interpretazione sulla violazione nella diffusione di documentazione riservata, a questo quesito il 33,1% del campione di italiani intervistati ritiene che ci sia stata un’infrazione nella diffusione di documenti - comunque - riservati, mentre il 31,2% è convinto che in questa vicenda non si sia rivelato nulla di riservato. In tema di dimissioni, 1 elettore su 3 indica i deputati del Pd chiamati in causa da Donzelli come coloro che si dovrebbero dimettere, mentre il 34,8% punta il dito sullo stesso Giovanni Donzelli e sul sottosegretario Andrea Delmastro per delle possibili dimissioni. In questo caso un elettore su due di Forza Italia (46,7%) si distingue dal resto essendo convinto che questi non siano fatti rilevanti. La miccia è stata innescata, volente o nolente, ed è chiaro che la spinta emozionale di appartenenza ad un partito prevalga sulla possibilità di essere imparziali e consapevoli. L’appello del presidente del Consiglio alla prudenza e alla cautela deve comprendere la responsabilità di tutti a partire da chi accende il cerino, perché il rischio è che tutto possa essere strumentalizzato e utilizzato per meri scopi elettorali. Sabella: “Se il 41 bis serve a ottenere confessioni allora è uno strumento di tortura” di Giacomo Galeazzi La Stampa, 6 febbraio 2023 “Assurdo oggi il doppio dei detenuti al carcere duro rispetto alla stagione delle stragi. Snaturata la misura voluta da Falcone e Borsellino”. Parla il magistrato che alla procura di Palermo ha catturato Brusca, Bagarella, Aglieri e i principali latitanti di Cosa Nostra: “Lo Stato fa giustizia, non vendetta, altrimenti agisce come la mafia”. È abituato a misurare le parole ma se parla di 41 bis diventa un fiume in piena il magistrato simbolo della caccia agli stragisti di Cosa Nostra. “Ma come è possibile che quando c’erano per strada i morti delle stragi corleonesi i detenuti al 41 bis fossero 400 e trent’anni dopo siamo arrivati ad averne 900?”, si chiede Alfonso Saballa parlando alla Stampa. Il cacciatore di latitanti che ha catturato Brusca, Bagarella, Aglieri smantellando i vertici della mafia non usa mezzi termini: “Giustizia non significa vendetta né tortura” Il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri ha detto alla Stampa che negli anni il 41 bis è stato attenuato di fatto dalle circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). E’ così? “Confermando la mia stima per il procuratore Gratterei, su questo punto non sono d’accordo con lui. Le circolari del Dap si sono limitate ad applicare quanto stabilito dalla Corte Costituzionale richiamando più volte a rivedere alcuni aspetti della misura. Per esempio i dieci minuti finali di colloqui con i figli minori o il divieto di poter avere un fornelletto in cella per riscaldare del cibo. Si tratta di indicazioni della Corte Costituzionale non di iniziative dell’amministrazione penitenziaria e attengono alla condizione e ai diritti fondamentali dei detenuti”. Può farci un esempio? “Il divieto di cucinare alimenti in cella era giustificato con la necessità di limitare l’influenza dei boss in carcere perché in precedenza i mafiosi ostentavano il loro potere preparando pietanze di lusso come le aragoste o gli astici. Ma ciò non ha nulla a che vedere con il circuito limitato e controllato di chi è al 41 bis. Il pensiero che viene è piuttosto un altro”. Quale? “C’è chi erroneamente usa il 41 bis come mezzo per ottenere confessioni, snaturando quando voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Negli anni 90 alla procura di Palermo i pentiti li abbiamo fatti parlare sempre prima che andassero al 41 bis. Invece poi la prassi e il pensiero sono stati altri. E cioè che più si allarga il numero dei detenuti al 41 bis più si inducono i soggetti più deboli a confessare e fare dichiarazioni. Sotto sotto è questo il metodo che nel tempo preso ha piede. E ciò è inaccettabile”. Perché? “Perché così il 41 bis si degrada a strumento di tortura. In questo modo diventiamo mafiosi pure noi e invece per sua natura lo Stato deve fare giustizia, non vendetta, altrimenti agiamo come Cosa nostra. Lo Stato applica le convenzioni internazionali, rispetta il dettato costituzionale non tortura neppure il peggior criminale. Faccio due esempi. Bernardo Provenzano era ridotto dall’Alzheimer a un vegetale, quindi quali messaggi poteva mandare all’esterno del carcere in quelle condizioni disperate? Raffaele Cutolo non aveva più da decenni una organizzazione criminale alle spalle, quindi a quale clan camorristico poteva inviare ordini? Eppure entrambi sono rimasti al 41 bis fino alla morte”. Come si è arrivati a questo uso “estensivo e distorto” del 41 bis? “Non potrò mai dimenticare le parole sconvolgenti e umanamente comprensibili del capo della procura di Palermo Antonino Caponnetto dopo le stragi: “È finito tutto”. Ho davanti agli occhi il volto stravolto di Carlo Azeglio Ciampi a piazza della Signoria: senza una parola diceva tutto. La voglia di forzare la mano contro la mafia stragista era forte ma per quel che riguarda la procura di Palermo abbiamo sempre agito rispettando la legge. Non siamo nel carcere di Abu Ghraib e non ci comportiamo come ha fatto la Germania quarant’anni fa contro i terroristi Banda Baader-Meinhof. Non si ridà legittimità allo Stato vendicandosi su chi lo attacca pur in modo sanguinoso e spietato”. A cosa si riferisce? “Io ho interrogato due volte Vincenzo Scarantino e non ho mai creduto che fosse il responsabile della strage di Via d’Amelio. Lasciandolo gli disse: ‘Se lei è un mafioso, io sono un fisico nucleare’. Ciò prima ancora della collaborazione di Gaspere Spatuzza e del ruolo di pezzo da 90 come il boss Pietro Aglieri. Ho sempre pensato che ad ammazzare Paolo Borsellino e gli agenti di scorta fossero stati gli uomini di Brancaccio. Lo Stato non estorce dichiarazioni. E si è capito dopo cosa era accaduto in quel depistaggio. Non si cerca un colpevole a tutti o costi. E con il 41 bis non si avallano teoremi né si ottengono confessioni anche vere. Il fine non giustifica i mezzi. Così si distrugge il 41 bis e non si consegue nessun risultato utile. A Palermo dopo le stragi abbiamo applicato il rispetto assoluto delle leggi e i latitanti li abbiamo scovati con il supporto incondizionato dello Stato. Un aiuto economico, organizzativo e personale che se fosse stato messo a disposizione di Falcone Borsellino la storia della lotta a Cosa Nostra sarebbe stata completamente diversa”. Le conversazioni di Cospito in carcere non potevano essere divulgate: ecco perché di Vitalba Azzollini* Il Domani, 6 febbraio 2023 Ci si aspettava che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, facesse chiarezza sulla divulgabilità di conversazioni tra l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto sottoposto al regime previsto dall’art. 41-bis (l. n. 354/1975), e alcuni membri della criminalità organizzata. Com’è noto, tali informazioni erano state rese pubbliche alla Camera da Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia, il quale le aveva apprese da Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario al ministero della Giustizia, con delega all’amministrazione penitenziaria. Ma la chiarezza attesa non c’è stata. Il segreto - Nella nota diffusa da Nordio il 2 febbraio scorso, si dice subito che la scheda contenente le informazioni divulgate da Donzelli non risultava “coperta da segreto”. Al di là dei tecnicismi utilizzati nella parte successiva della nota, questa frase è la più agevolmente comprensibile da chiunque. Ma quali sono i documenti classificati come segreti? Il ministro lo spiega qualche riga dopo: si tratta di quelli che rientrano nella “materia del segreto di Stato”, relativo agli atti che possono arrecare danno all’integrità della Repubblica, alla difesa delle istituzioni ecc.; nonché di quelli coperti da una delle “classifiche di segretezza, disciplinate dalla legge 124/07”, vale a dire segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato. I documenti in questione, inoltre, non presentavano “contenuti sottoposti al segreto investigativo” (art. 329 C.p.p.), che invece copre gli atti di indagine. Atto non segreto significa divulgabile da chiunque e nei confronti di chiunque? Nordio precisa che la scheda con le informazioni riferite da Donzelli era comunque a “limitata divulgazione”. “Limitata divulgazione” - La dicitura “limitata divulgazione” pare rimandare a un livello intermedio tra segretezza e divulgabilità, cioè a un regime di conoscenza ristretta a una cerchia di soggetti, tenuti alla riservatezza. Si tratta di un regime non previsto dalla legge, come dice lo stesso Nordio, che lo definisce come “prassi amministrativa in uso al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, n.d.r.) a partire dall’anno 2019, non disciplinata a livello di normazione primaria”. Per capire le motivazioni di questa “prassi” bisogna prestare attenzione alla data, il 2019. Nel 2019, infatti, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intervenne sulla riforma in tema di intercettazioni del suo predecessore, Andrea Orlando, che non era ancora divenuta operativa. Secondo la disciplina, le intercettazioni devono restare riservate fino a quando il magistrato non ne valuti la rilevanza e decida di acquisirle al fascicolo processuale o comunque di utilizzarle. Solo dopo ne è conoscibile il contenuto, ciò al fine di rendere noti gli elementi che hanno portato alla decisione finale. Gli ascolti delle conversazioni dei detenuti al 41-bis - a opera del Gruppo operativo mobile (Gom), che poi ne riferisce in apposite relazioni - non costituiscono intercettazioni in senso tecnico, sottoposte alla relativa disciplina, ma sono sostanzialmente assimilabili ad esse, sia nella sostanza sia in quanto necessarie al giudice per adottare provvedimenti di proroga o di revoca del 41-bis, ed eventualmente anche per verificare se esse contengano notizie di reato. Considerata questa assimilabilità sostanziale, può reputarsi che nel 2019, parallelamente e in concomitanza alla riforma sulle intercettazioni, il Dap abbia rimediato in via amministrativa alla mancanza di un’analoga normativa che tutelasse in via legislativa la riservatezza delle conversazioni captate in carcere; e così abbia disposto per queste ultime la “limitata divulgazione”, cioè la non conoscibilità al di fuori degli uffici che le hanno rilevate e di quelli a cui sono destinate per la successiva valutazione, avviando la “prassi” di cui parla il Guardasigilli. Ma andiamo oltre. Nordio fa specifico riferimento al fatto che la riservatezza sulle informazioni divulgate da Donzelli non sia sancita dalla legge, bensì da una “mera” fonte amministrativa che le ha qualificate a “limitata divulgazione”. Come se la natura amministrativa potesse rendere irrilevante la riservatezza stessa e le conseguenze derivanti dalla sua violazione. Le cose non stanno esattamente in questo modo. Oltre alle forme di segreto citate da Nordio, tipizzate dalla legge, esiste il cosiddetto segreto “amministrativo”, noto anche come segreto d’ufficio. In forza di tale segreto, ai dipendenti pubblici è vietato divulgare informazioni conosciute per ragioni di ufficio, “al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso” (d.P.R. n. 3/1957, art. 15). Quindi, da un lato, la conoscenza di queste informazioni deve restare circoscritta a chi le tratti in ragione del proprio ufficio, anche quando non coperta da forme di segreto “legislativo”; dall’altro lato, tale conoscenza può in alcune ipotesi essere acquisita da terzi esclusivamente attraverso il procedimento disciplinato dalla legge sull’accesso agli atti (l. n. 241/1990) e da quella sull’accesso civico generalizzato (d.lgs. n. 33/2013). La portata del segreto amministrativo è determinata dai limiti all’accesso previsti dalle due leggi citate. Limiti sia tassativi, cioè posti in via legislativa, a tutela di interessi pubblici fondamentali, che lo comprimono del tutto e in via definitiva; sia facoltativi, vale a dire posti in via amministrativa, discrezionalmente, anche allo scopo di differire l’accesso ai documenti sino a quando la loro conoscenza possa nuocere all’azione amministrativa. Tiriamo le fila della vicenda in base a quanto spiegato. 1) Può reputarsi che le informazioni “sensibili”, come le ha definite Nordio, qualificate con la dicitura a “limitata divulgazione”, rientrassero nell’ambito del segreto amministrativo, cioè posto da un’amministrazione, il Dap; e che, come detta testualmente la dicitura, non dovessero uscire dalla cerchia di soggetti tenuti a trattarle per compiti istituzionali, perché la loro conoscenza pubblica avrebbe potuto compromettere l’azione amministrativa. Chiunque altro poteva provare ad acquisirle solo attraverso un’istanza di accesso agli atti nelle modalità previste dalla legge. 2) Se pure il segreto amministrativo, e quindi l’obbligo di riservatezza sugli atti conosciuti in ragione del proprio ufficio, è previsto normativamente per i dipendenti pubblici, può ritenersi che alla riservatezza siano tenuti anche altri soggetti che possano avere conoscenza di tali atti per le funzioni svolte, dunque pure i collaboratori del ministro. Se così non fosse, cioè se un obbligo di riservatezza non fosse imposto anche su di questi ultimi nel momento in cui assumono incarichi istituzionali, relativamente alle informazioni apprese in ragione di tali incarichi, si avrebbe una grave lacuna. Si arriverebbe all’assurdo che un sottosegretario, o chiunque altro non definibile come dipendente, potrebbe divulgare notizie “sensibili”, la cui diffusione è invece sanzionata penalmente per altri (art. 326 c.p.). Insomma, Delmastro non doveva comunicare quelle informazioni a Donzelli. 3) Donzelli avrebbe potuto richiedere tali informazioni mediante un accesso agli atti, oltre che con un atto di sindacato ispettivo come parlamentare. Invece, gli sono state comunicate da Delmastro in via informale. Pertanto, considerata la natura “sensibile” delle informazioni, equiparabili sostanzialmente a intercettazioni, nonché la circostanza di non averle apprese nei modi in cui sarebbe stato legittimato a farlo, Donzelli non avrebbe dovuto divulgarle. 4) Se Donzelli avesse fatto un accesso agli atti, probabilmente gli sarebbe stato risposto con un diniego: la “limitata divulgazione” ne restringeva l’ambito di conoscenza, potendo la loro diffusione pregiudicare la successiva attività valutativa e decisionale, e non solo del Guardasigilli, ma anche di eventuali procure, in relazione a indagini su possibili notizie di reato contenute in quegli atti. Per valutare la correttezza di queste conclusioni, c’è una prova del nove: fare un’istanza di accesso al ministero della Giustizia per ottenere analoghe informazioni, e verificare se accoglie l’istanza, rendendole pubbliche. Restiamo in fiduciosa attesa. *Giurista Come regolare le intercettazioni: un gioco dell’oca che va avanti dal lontano 1973 di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 febbraio 2023 L’annuncio di Nordio di voler intervenire per evitare la pubblicazione di quelle irrilevanti ha scatenato durissime reazioni. Come ricordato nei giorni scorsi in una intervista da parte dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, la riforma delle intercettazioni voluta dal Guardasigilli Andrea Orlando, che ben si proponeva di introdurre un limite alla loro pubblicazione selvaggia, non sarebbe mai stata applicata fino in fondo. Appena Carlo Nordio ha annunciato, allora, di volere riscrivere la normativa per meglio tutelare la riservatezza delle persone coinvolte evitando la pubblicazione delle intercettazioni irrilevanti, è stato subito assalito dalla opposizione, dai “soliti” giornali e da alcuni magistrati, per lo più in pensione ma sempre pronti a dare una sponda contro il governo di centro destra. Tali strali fanno nascere spontanea una domanda: quello in questione è un tema inventato da Nordio oppure costituisce un problema irrisolto da parte della politica nostrana? Proviamo a vedere come stanno realmente le cose. Nel 1973, la Corte costituzionale con la sentenza numero 34 aveva già sottolineato la necessità di predisporre un sistema a garanzia di tutte le parti in causa per l’eliminazione del materiale non pertinente. Ciò in base al principio secondo cui non può essere acquisito agli atti solo il materiale probatorio rilevante per il giudizio. Nel 1989, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, l’articolo 268 appositamente dedicato alla materia si limitava a stabilire che “nel verbale è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate”. La mancanza di un espresso divieto di trascrizione, anche di quelle comunicazioni o conversazioni che in qualche modo potessero essere irrilevanti ai fini delle indagini, è una delle principali cause che ha favorito quel pericoloso corto circuito tra una parte del mondo della magistratura ed un parte del mondo della informazione ben contenta di poter avere a disposizione tutto il materiale intercettato, compreso quello irrilevante soprattutto quando ha riguardato la sfera privati degli uomini pubblici. Nel 1999, Flick si propose di riscrivere la disciplina sulle intercettazioni il cui testo viene però stravolto e poi abbandonato. Nel 2007, proprio a seguito di alcune vicende clamorose (si pensi ad esempio alla pubblicazione sul libro nero dell’Espresso in concomitanza con l’inchiesta di Calciopoli dei numeri di telefono degli indagati, oppure alle notizie attinenti alle abitudini sessuali, come nel caso di alcuni processi che vedevano coinvolto Silvio Berlusconi) iniziava a svilupparsi in ambito parlamentare un apposito dibattito per porre un freno sul versante della pubblicazione. La discussione su questi temi confluiva in un apposito provvedimento, noto come ddl Mastella, che tuttavia non portava ad alcun esito a causa dell’ostracismo delle categorie interessate, ovverosia quella dei magistrati e quella dei giornalisti attraverso le loro rappresentanze sindacali. Nel 2015, in maniera piuttosto clamorosa iniziava un revirement all’interno della stessa magistratura. In particolare, il 17 aprile del 2015, gli allora procuratori della Repubblica di Roma e di Milano, durante una audizione alla Commissione giustizia della Camera dei deputati, si pronunciarono contro la indebita diffusione di intercettazioni irrilevanti acquisiti nell’ambito di un processo penale. Uno dei due procuratori era Edmondo Bruti Liberati che ultimamente, invece, in diversi interventi è stato molto critico contro Nordio. Nel 2016, questo ripensamento della magistratura sul tema in questione iniziava a fare breccia all’interno del Consiglio superiore della magistratura che, il 29 luglio del 2016, approvava una apposita delibera nella quale veniva affermato il dovere del pubblico ministero titolare delle indagini di compiere il primo delicato compito di filtro nella selezione delle intercettazioni inutilizzabili e irrilevanti per evitarne l’ingiustificata diffusione. Nel 2017, Orlando, forte della sponda di una parte della magistratura si impossessava del tema recependolo addirittura a livello legislativo. Infatti, con il decreto legislativo numero 216 veniva inserito il comma 2 bis al citato articolo 268 del c.p.p. che al fine di meglio tutelare la riservatezza delle persone coinvolte senza in alcun modo pregiudicare le indagini, introduceva esplicitamente il divieto di trascrivere comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini. Appena entrata in vigore tale riforma trovava un inaspettato dietro front dei magistrati evidentemente “spaventati” dal punto di forza della riforma, che richiedeva al pubblico ministero un maggior impegno professionale e una costante attenzione selettiva al fine di realizzare una puntuale azione di separazione dell’utile dall’irrilevante. A tale coro di insoddisfazione della magistratura si univa anche il mondo dell’informazione, evidentemente temendo di non poter più attingere ad una rilevante mole di informazioni che seppur irrilevanti ai fini della indagine penale rimanevano comunque di potenziale interesse e, ciò nonostante, la previsione di segretezza delle stesse. Nel 2019, il mutato contesto politico e la nuova maggioranza giallorossa portarono a una drastica inversione di rotta rispetto ai principi introdotti nella riforma Orlando. Il 30 dicembre del 2019, per volontà del ministro grillino Alfonso Bonafede veniva approvato il dl numero 161 che metteva nel cassetto la riforma Orlando con due mosse: abolizione del divieto di trascrizione del materiale irrilevante; limitazione del divieto di trascrizione solo a quelle idonee a danneggiare la reputazione dei soggetti intercettati nonché a quelle relative ai dati sensibili. Nel 2023, e siamo arrivati ai giorni nostri, Nordio ha annunciato di voler intervenire su tale assetto normativo rendendosi evidentemente conto che la riforma Bonafede ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina scarsamente idonea a evitare l’ingresso nei brogliacci di ascolto di comunicazioni che, in seguito, si possono rivelare di nessuna utilità probatoria, ma che nello stesso tempo possono rappresentare una lesione rilevante della privacy delle persone coinvolte. Insomma, una specie di gioco dell’oca che aveva fatto ritornare tutti al punto di partenza, a distanza di quasi mezzo secolo, consentendo alla stampa di pubblicare qualsiasi notizia senza alcun limite, con buona pace del diritto alla riservatezza. Cronaca di una cattura annunciata. Matteo Messina Denaro tra Stato e mafia di Giuseppe Panissidi micromega.net, 6 febbraio 2023 “I mafiosi non vogliono morire in prigione”. La considerazione, che potrebbe apparire scontata e banale, circola da qualche giorno con insistenza negli ambienti giudiziari dell’anti-mafia. In realtà, essa sottende una verità profonda. Al di là dell’intrigante previsione dell”intraneo Salvatore Baiardo sull’arresto, nonché delle puntuali e immancabili tesi complottiste, l’epilogo della trentennale latitanza dell’uomo delle stragi interroga la coscienza civile, ancor prima che politica, di tutti e di ciascuno. Il gusto del ragionamento suggerisce qualche domanda. Se è vero, com’è vero, che per molte posizioni ‘definitive’ la prospettiva del ‘fine pena mai’ appare più che certa, quale senso si può mai annettere alla predetta asserzione? In altri e più precisi termini, quale speranza costoro possono mai coltivare di “non morire in prigione”? Una risposta plausibile presuppone l’attenta disamina del contesto presente, come oggettivamente modificato dalla cattura del latitante più pericoloso e meglio informato, dopo Totò Riina, in merito ai tragici eventi che hanno devastato la vita pubblica nazionale per alcuni decenni. È del tutto evidente che, una volta di più, dopo le alterne vicende della nota “trattativa”, la speranza dei reclusi non può che rivolgersi allo Stato. Solo lo Stato, infatti, ha il potere di con-cedere. Ecco, allora, emergere il ‘proprio’ dell’osservazione, secondo la quale i detenuti per mafia “non vogliono morire in prigione”. Al riguardo, sovvengono le parole dell’ex procuratore generale della Repubblica di Palermo, il sen. Roberto Scarpinato, a giudizio del quale “Messina Denaro si è lasciato arrestare”. Sarebbe, dunque, il solo disposto a morire in carcere? E perché mai? Forse in forza di un nuovo scambio pattizio, peraltro risolutamente escluso dagli inquirenti, con l’astratta ‘speranza’ di qualche beneficio per sé stesso e i compagni di merenda, i quali non vogliono morire in prigione? Davvero un mirabile esempio di abnegazione e magnanimità, all’esito di tre decenni di tranquilla latitanza e relativa libertà, da parte di un cultore dell’acido, in specie nitrico. E quale sarebbe la contropartita per lo Stato? Un trofeo di caccia fine a sé stesso, la formale chiusura di un’ingombrante pratica giudiziaria, mediante la tardiva esecuzione di un giudicato multiplo e il controllo ‘fisico’ di un ex latitante di rilevante statura criminale? La questione è inaggirabile. Senza minimamente sminuire il merito indubbio dell’azione di magistratura e forze dell’ordine, MMD, data l’indisponibilità dell’opzione stragista, palesemente ‘inattuale’, in costanza, aumento e cogenza delle ‘esigenze’ dei detenuti di mafia, si sarebbe, se non costituito, verosimilmente ‘consegnato’. Non già perché stremato e gravemente malato, men che mai perché ravveduto, ipotesi in apparenza verosimili, in realtà allotrie e fuorvianti, bensì allo scopo di portare la ‘minaccia’, la prospettazione, ossia, quand’anche implicita, e pur sempre a carattere intimidatorio, della possibilità/pericolo di collaborare e parlare, in carne ed ossa, all’interno di una prigione di Stato. Dunque, di fatto, dentro lo Stato. Lettura tanto più (essa sì) verosimile, in ragione dell’impervietà di una tale ‘manovra’ dall’esterno e ragionevolmente escluso che egli ignorasse il prosieguo di rito, ovvero che sarebbe stato sottoposto a un’intensa gragnuola di domande vagamente… incandescenti. Potrebbe essere questa la vera posta in gioco della “partita”, secondo l’icastica definizione di Nino Di Matteo, tra mafia e Stato. Una partita da ‘saldare’, naturalmente, e, auspicabilmente, non una ‘partita doppia’, in quanto confliggente con la Civiltà giuridica ed etica e la Costituzione dello Stato democratico. Se ne dovrebbe desumere, pur senza velleità predittive, che lo spirito della trattativa, forse, ri-vive e lotta insieme a noi. Con la non trascurabile differenza rispetto alla precedente, ancorché controversa e tuttora sub iudice, che, stavolta, il primo tempo, per dir così, si sarebbe consumato negli ‘interna corporis’ delle cosche. Il secondo tempo, da giocare direttamente con lo Stato, dovrebbe ancora iniziare, ad opera, per l’appunto, di MMD, in funzione di ‘cavallo di Troia’, uno dei soggetti più idonei e potenti sotto il profilo della ‘conoscenza’, oggettivamente assistito da un (irresistibile?) potere negoziale. E, se la conoscenza è dolore, la tragedia classica istruisce, nella presente contingenza la summa di sapere accumulata da MMD, se esternata - anche parzialmente, nell’improbabilità di una completa discovery - causerebbe, sì, dolore, ma ad… altri. Anche allo Stato? Eppure, ciò nonostante, una nuova alba può sorgere sul Paese, in cui ciascuno è chiamato ad assumere le proprie responsabilità. Finalmente. Anche se alle strutture e agli uomini preposti al contrasto anti-mafia, Costituzione alla mano, incombe l’obbligo tassativo di “rispettare il silenzio eventuale” di MMD, come non ha mancato di sottolineare, nel corso di un’intervista, il procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio De Lucia, il quale, in ottima compagnia, presidia il… tema. In breve, se il capo mandamento appena catturato, invertendo la rotta segnata e percorsa dai suoi predecessori, si determinasse a “dichiarare”, prosegue il pm De Lucia, egli riceverebbe il massimo “ascolto”, com’è pacifico, in modo speciale, si può aggiungere, intorno alle inquietanti ambiguità che tuttora avvolgono l’indimenticata stagione delle stragi. Il Paese potrebbe così, infine, affrancarsi dal mistery, ancora irrisolto, della terza agenda di Paolo Borsellino, quella rossa, un autentico buco nero della nostra storia recente. Ebbene, MMD potrebbe rendere, addirittura, superflua la conoscenza del suo contenuto, contribuendo, dall’interno, a squarciare l’oscurità intorno a quello “Stato parallelo e occulto”. orgogliosamente impunito e gonfio di commossa riconoscenza, dentro e contro lo Stato, un’entità spesso e soffertamente evocata, tra gli altri, dal compianto Stefano Rodotà, che ci piace ricordare. Una realtà, tuttavia, non astratta e inafferrabile, come si suole (o conviene) immaginare, bensì concreta e distinta, sul piano dell’empiria, da nomi, cognomi e… indirizzi, già noti o di non proibitiva identificazione. Perché, ridotta all’osso, la domanda in trepidante attesa di risposta si può formulare nel modo seguente. Quando uomini non marginali della congrega mafiosa gioiosamente affermano di avere “il Paese nelle mani”, esattamente, che cosa intendono significare? Esattamente. In caso contrario, si arguisce, è giocoforza aspettare, scrutando le dinamiche e i comportamenti delle istituzioni democratiche dello Stato costituzionale di diritto e, segnatamente - vero punctum dolens - del livello politico. Donde soltanto possono giungere gli auspicati chiarimenti, sotto un cielo denso di nubi, dopo la fine di una lunga latitanza, non genericamente protetta, come si ripete, bensì, e pour cause, letteralmente blindata. Lo Stato “non tratta” con l’anti-Stato, è il refrain che risuona, monotono, a ogni piè sospinto. Se non che, dopo più di mezzo secolo, ritornano in mente le parole di Salvatore Francesco Romano: “La mafia è l’infrastruttura di sviluppo e di ricambio dei gruppi dirigenti della società e dello Stato”. Di quanti, ossia, ai vari livelli della piramide, “borghesia mafiosa” inclusa, e non solo borghesia, vivono con timore e tremore, non per vocazione filosofica esistenziale, bensì perché hanno troppo, se non tutto, da perdere dagli eventuali ‘svelamenti’ di MMD. E chissà quanti devoti credenti, genuflessi, ora recitano preghiere e fanno voti, invocando la grazia del suo silenzio. Perché di tale specie, si sa, è la religiosità prediletta da siffatta genia, coscienziosamente altra da ogni fede autentica, come quella, vedi caso, di don Pino Puglisi! Inevitabilmente, come “tutti i fenomeni umani”, anche la mafia sconterà il destino della fine, presto o tardi. L’acuto e dolente sguardo di “lunga durata” di Giovanni Falcone, palesemente riconducibile agli storici della scuola francese delle “Annales”, esaltando una visione del presente come storia di strutture, al di là degli eventi contingenti, metteva a fuoco e in tensione complesse problematiche entro una prospettiva più ampia della stessa, pur essenziale, giurisdizione penale. Epperò, “c’è molto cammino da compiere, recita il poeta, promesse da mantenere”, se è vero che alla domanda di Giovanni Falcone su chi fossero i mafiosi a Palermo Tommaso Buscetta rispose: “Dott., mi chieda chi non è mafioso…”. Con ogni evidenza, il ‘convertito’ Buscetta, più che all’organizzazione criminale con l’etichetta, si riferiva alla (propriamente detta) ‘comunità di consenso’, la ‘mafiosità’, quel formidabile e mefitico terreno di coltura, vera e propria fonte energetica, fuori dalla quale agli uomini della mafia mancherebbe finanche il respiro, a differenza persino di alcune varietà di pesci senz’acqua, e senza la quale la storia della mafia sarebbe alquanto diversa, forse meno letale, di certo meno… vincente. In realtà, al netto dell’arresto di MMD, oggi la mafia è “tutt’altro che sconfitta”, ché, anzi, ‘cerca’ un nuovo capo, come non si stancano di ribadire gli organi dell’antimafia. Il silenzio di MMD potrebbe assicurarle un’ulteriore e vitale stabilità, sia nel suo complesso gioco economico-sociale, sia nella cruciale ‘partita istituzionale’ con lo Stato. Se la concreta declinazione degli eventi volgesse in questa sciagurata direzione, la coscienza morale e civile, ancor prima che politica, sarebbe inesorabilmente indotta a domandarsi se il principio profondo di G. W. F. Hegel, secondo cui “lo Stato sa ciò che vuole”, non spetti piuttosto alla mafia. Certo, infatti, è che le mafie, tra cadute rovinose e astute riconversioni, talora anche drammatiche, del proprio mestiere seguitano a prendersi cura con determinazione. E lo Stato, indefesso celebrante della gloriosa memoria dei suoi martiri, “sa ciò che vuole”? E “persegue i suoi fini”, ancora Hegel, whatever it takes, ovvero in modo e con l’intento di porre fine a questa lunga e non più tollerabile… emorragia di Civiltà? Avellino. Irpinia prima in Campania sulla giustizia riparativa di Riccardo Di Blasi orticalab.it, 6 febbraio 2023 L’avvocato Giovanna Perna racconta l’esperienza de “Il lampione della cantonata”. Pochi giorni fa la costituzione della cabina di regia. Con la riforma Cartabia ogni distretto di Corte d’Appello dovrà avere un centro di giustizia riparativa: “La galera non basta a ricucire ciò che si rotto e non responsabilizza il detenuto. Con l’incontro tra vittima e colpevole, si avvia un percorso che riduce la recidiva, supera gli odi e pacifica la società” Reato, processo, condanna. È questo che abbiamo in mente quando pensiamo ai compiti della giustizia, quando noi stessi invochiamo giustizia. Come se ciò bastasse a ricucire quello che si è rotto, a riparare il danno arrecato alla vittima, alla comunità, a responsabilizzare il reo. Da decenni in Europa - accanto e non al posto del processo penale - esiste un altro metodo, che va più a fondo, che vuole ascoltare i bisogni della vittima e del colpevole, per guidare entrambi in un percorso di pacificazione, di giustizia vera, per superare odi e rancori, per un’espiazione che non si limiti a pratiche restrittive della libertà; perché il carcere, strumento e non fine, da solo non basta. Non “guarisce” le ferite della vittima, non porta, quasi mai, a un ravvedimento del detenuto. Questo metodo, questo “paradigma”, come viene tecnicamente definito, va sotto il nome di giustizia riparativa, ed è stato di recente normativizzato dalla riforma del processo penale firmata dall’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, che ha recepito le raccomandazioni delle istituzioni europee. L’Irpinia sta facendo la sua parte, prima di altri. Dopo la presentazione del 28 novembre scorso, che ha visto la partecipazione di Agnese Moro - figlia dello statista Dc ucciso dalle Br - qualche giorno fa è stata costituita la Cabina di regia per il monitoraggio del Centro di Giustizia Riparativa “Il Lampione della Cantonata”. Al momento l’ufficio è l’unico in Campania, altre esperienze esistono, ma riguardano esclusivamente il processo minorile. Dell’organismo fanno parte il presidente della Provincia, Rizieri Buonopane; Rosario Cantelmo, già procuratore capo di Avellino; Girolamo Daraio, docente dell’Università di Salerno; Carlo Mele, Garante provinciale dei detenuti; Giuseppe Centomani, direttore del Centro per la Giustizia Minorile della Campania; Barbara Salsano, direttrice dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Avellino; Gabriella Pugliese, già referente dell’area sanitaria penitenziaria per Avellino e provincia; Giovanna Perna, avvocato e mediatore penale. Proprio al lavoro dell’Avvocato Perna, che da tempo si occupa di carcere e condizione dei detenuti, si deve la nascita del centro. Gli obiettivi della giustizia riparativa sono molteplici: ristabilire l’ordine e la pace nella comunità, riparando le relazioni danneggiate; denunciare il comportamento criminale come inaccettabile; supportare le vittime, dargli voce, consentirgli di partecipare, di essere ascoltate; stimolare tutte le parti coinvolte ad assumersi le loro responsabilità, soprattutto il reo; identificare i risultati che si vogliono raggiungere, anticipandoli; prevenire la recidiva, stimolando cambiamenti individuali nel reo, facilitando la sua integrazione nella comunità e la sua inclusione sociale. “La giustizia riparativa - spiega l’avvocato Perna - parte dal presupposto che fare giustizia non si esaurisce nell’accertamento del reato, nella commutazione della pena e nella concessione del risarcimento alla vittima. Le ferite causate da un fatto penale possono essere più profonde e possono riguardare la vittima, ma anche la comunità, impaurita e scossa di fronte a fatti di cronaca. L’obiettivo è dunque mettere insieme autore e vittime del reato, per cercare di risanare i rapporti. La giustizia riparativa si distingue dal processo penale, ma non si sovrappone. Non influisce sull’entità della condanna ma, eventualmente, sul trattamento sanzionatorio e sulla concessione delle misure alternative”. “Questa pratica non è una novità - aggiunge Perna. Nel nostro Paese esperienze di giustizia riparativa esistono in ambito minorile già da 20 anni, ed hanno dato risultati soddisfacenti sulla recidiva e la reiterazione del reato, oltre che nella capacità di ricucire quei legami sociali che inevitabilmente, di fronte a fatti penalmente rilevanti, si lacerano”. A differenza del processo penale, “la giustizia riparativa mira a capire quelli che sono i bisogni dell’autore di reato, della vittima, della comunità. Soltanto mettendo insieme questi tre soggetti è possibile raggiungere l’obiettivo di abbassare la recidiva, avere un contesto territoriale più sano, in grado di trattare il rancore, il desiderio di vendetta e di ricondurli ad una dinamica dialettica”. Ad un programma di giustizia riparativa si può accedere in ogni grado e stato del processo: “La richiesta è su base volontaria, anche se la Cartabia prevede la possibilità, per il giudice, di valutare l’opportunità di inviare l’autore del reato al centro di giustizia riparativa. In termini di conseguenze per il reo, dal punto di vista penale, il magistrato ne può tenere conto quando stabilisce il trattamento sanzionatorio”. Uno dei casi scuola di giustizia riparativa è descritto nel Libro dell’incontro - a cura di Bertagna, Ceretti e Mazzuccato - dove si racconta del dialogo fra vittime e responsabili della lotta armata. Muovendo dalla constatazione che la ferita di quegli anni sanguina ancora, nonostante i processi e le condanne, un gruppo numeroso di vittime, familiari e responsabili della lotta armata ha iniziato a incontrarsi, a scadenze regolari e con assiduità sempre maggiore, per cercare con l’aiuto di tre mediatori una via altra alla ricomposizione di quella frattura che non smette di dolere. Ciò nella convinzione che la logica punitiva dei reati non solo non previene i reati stessi, ma li alimenta, bloccando le vittime, gli autori dei reati e la società, in una dimensione vendicativa imprigionante per tutti. “La giustizia riparativa è una scommessa - prosegue Perna. Autore o vittima prendono l’iniziativa, se ci sono i presupposti si avviano gli incontri alla presenza del mediatore, che è la persona specializzata e abilitata a fare questo. Il programma prevede una serie di incontri anche alla presenza di psicologi, educatori, assistenti sociali. Il mediatore poi redige una relazione da destinare al giudice. La giustizia riparativa si distingue dal processo penale, ma non si sovrappone. Non influisce non sulla condanna, ma, eventualmente, sul trattamento sanzionatorio e sulla concessione delle misure alternative”. Fondamentale il ruolo dei mediatori, “figura chiamata a valutare la sincerità del percorso intrapreso del reo. Per questo il mediatore deve avere una preparazione a 360 gradi, che va oltre quella del magistrato e dell’avvocato. La Cartabia prevede che almeno ogni Distretto di Corte d’Appello abbia un centro di giustizia riparativo, accreditato dal Ministero, gestito da un ente pubblico, con mediatori formati secondo i requisiti previsti dalla riforma, attraverso un percorso universitario. Da giugno gli uffici dovranno essere operativi. Questi mesi serviranno a fare attività di ricognizione sul territorio, a vedere quali sono i centri che esistono, a reclutare gli operatori, a formare i mediatori, a stabilire le risorse necessarie”. Perna precisa che “la giustizia riparativa non riguarda soltanto il penale, al programma si può aderire anche per un problema condominiale, o per una lite sul luogo di lavoro: invece di rivolgersi ad un avvocato ci si può anche affidare ad un mediatore. È un approccio culturale totalmente diverso, che, tra gli altri vantaggi, consente di snellire il carico che grava sulla magistratura. Noi in Irpinia abbiamo anticipato i tempi, e siamo di fatto già pronti. Nelle prossime settimane avvieremo un’attività di sensibilizzazione nelle carceri e nelle scuole della provincia, soprattutto nei comuni dove insistono uffici giudiziari e istituti penitenziari”. Resta una difficoltà, che all’avvocato Perna non sfugge. Non è facile infatti parlare di questi temi in un contesto sociale che spesso invoca, come soluzione ai problemi sociali e di sicurezza, sempre più sanzioni, pene e carcere. C’è, dunque, la necessità di far capire alla comunità che si tratta di un’opportunità per tutti, non di una scappatoia per il detenuto. “Se noi pensiamo che il centro di Avellino debba servire a mitigare la pena, ad alleviare le sofferenze di chi è ristretto, ad avere un piano b rispetto al processo, allora siamo fuori strada. La giustizia riparativa non ha nulla che vedere col processo penale. So che la società non è pronta ad accettare questo metodo. Di fronte a fatti penalmente rilevanti, le comunità tendono a chiudersi, a spaventarsi, a perdere la fiducia. Bisogna far capire che il centro è un luogo dove è possibile parlare, confrontarsi, anche sfogarsi”. Da responsabile dell’Osservatorio Carcere Campania dell’Unione delle Camere Penali, oltre che da collaboratrice dell’Ufficio del Garante provinciale dei detenuti, Perna conosce bene anche le condizioni nelle quali versano gli istituti penitenziari della regione e della provincia: “Stiamo messi molto male - dice. Tant’è che la Corte di Strasburgo periodicamente condanna l’Italia. Molti detenuti hanno fatto ricorso e hanno vinto. Oggi il carcere si è messo a posto con i metri quadri, 5/6 detenuti per cella anziché 10 o 12, ma le strutture sono ancora fatiscenti. Nessuno pensa che i detenuti debbano stare in un albergo, ma in strutture dignitose sì. Soprattutto, in molti casi, viene di fatto negato il diritto alla salute, perché il sistema, per come è organizzato, non garantisce un intervento immediato del medico. Certo, ci sono delle eccezioni, purtroppo rare”. Ma la società sembra insensibile al tema. La politica, sempre alla ricerca del consenso, fa fatica ad occuparsi di carcere. Prevalgono istinti manettari e forcaioli. “A chi dice frasi tipo bisogna buttare la chiave, devono marcire in galera, rispondo: andatevi a fare un bel giro nelle carceri. E rendetevi conto della situazione. La pena va scontata in condizioni umane, lo dice la legge. C’è poi un altro aspetto, riguarda l’attività trattamentale: il detenuto che sta in galera, in un’ottica di reinserimento, deve svolgere delle attività. Lo Stato è tenuto a rieducarlo, altrimenti la pena si traduce in un fallimento per lo Stato stesso, il detenuto, la società nel suo complesso”. Il tema è di stretta attualità. L’arresto di Matteo Messina Denaro e la vicenda Cospito hanno riaperto il dibattito sul carcere duro: in particolare sull’ergastolo ostativo (pena che non prevede alcun beneficio penitenziario) e il 41 bis (basato sull’isolamento e la sorveglianza costante). Per Perna non ci sono dubbi: “L’ergastolo ostativo va contro la Costituzione per una semplice ragione, perché anche in quel caso la funzione deve essere rieducativa. Non si può blindare una persona a vita, bisogna valutare l’accesso alle pene alternative, che non si possono negare a prescindere. Stesso discorso per il 41 bis, è ugualmente ostativo. Certo, i reati mafiosi vanno trattati modo diverso, ma in un percorso che preveda comunque la riabilitazione”. Bergamo. I detenuti di via Gleno: “Celle sporche e sovraffollate, ecco come viviamo” di Michele Andreucci Il Giorno, 6 febbraio 2023 La garante Valentina Lanfranchi scriva al ministro Nordio: “Servono interventi urgenti”. Il tempo in cui, per la qualità della vita e i servizi offerti, era considerata l’Hilton delle carceri italiane è solo un ricordo. Ora anche la casa circondariale di Bergamo deve fronteggiare una vera emergenza: il sovraffollamento delle celle, problema da cui ne discendono molti altri, come le difficoltà del personale con organici sottodimensionati e l’aumentare dei detenuti con problemi sanitari o psichiatrici. Nel carcere di via Gleno, stando all’ultimo dato aggiornato dal ministero della Giustizia al 31 dicembre 2022, i reclusi sono 536 (comprese 36 donne), a fronte di una capienza regolamentare di 319 posti: l’edificio di via Gleno ospita cioè il 68 per cento di detenuti in più rispetto a quanti ne dovrebbe accogliere. In Italia solo il carcere di Varese ha una situazione peggiore: ne ospita il 75 per cento in più. Per questo motivo la Garante dei detenuti di Bergamo, Valentina Lanfranchi, ha preso carta e penna e ha indirizzato una lettera a Carlo Nordio, il neo ministro della Giustizia, per ribadire per l’ennesima volta la necessità urgente di interventi. Lanfranchi sottolinea “una serie di tematiche per rendere umani e vivibili i nostri istituti di detenzione. Servono interventi urgenti, da tempo segnalati come necessari, per problemi quali il sovraffollamento, la mancanza di personale, la crisi sanitaria, gli ostacoli a far valere la giustizia, le carenze strutturali degli edifici, la presenza sempre più alta di detenuti affetti da disturbi psichiatrici”. Il documento porta con sè anche la testimonianza di alcuni reclusi. La lettera dei carcerati racconta la quotidianità del penitenziario. “In cella - scrivono i detenuti di via Gleno - tocchi con la tua pelle l’assurdità di convivere con persone dai reati più disparati, di lingue e culture diverse. Sei buttato in celle raramente pulite, dove il lavandino serve per lavarsi i vestiti, lavare l’insalata, farsi la barba, lavarsi al mattino. Il wc è accanto al fornello da campeggio che utilizzi per rendere migliore l’alimentazione”. La socialità è un nodo importante. “Tutte le attività - scrivono ancora i reclusi nel penitenziario orobico - si concentrano inspiegabilmente tra le 9 e le 11 e tra le 13 e le 16. Dopo quelle fasce orarie, il carcere si chiude in sé. Tutto quanto avviene tra queste mura, a eccezione della scuola, è opera di volontari e/o del Terzo settore o della Chiesa o della Garante. Chiediamo anche più incontri con le nostre famiglie”. Monza. In carcere, una biblioteca dei bimbi: “Qui i genitori incontrano i loro figli” di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 6 febbraio 2023 L’hanno realizzata gli stessi detenuti. I libri sono arrivati grazie a una campagna di sensibilizzazione lanciata nel dicembre 2019 dai club di servizio Inner Wheel di Monza, Fidapa Modoetia Corona Ferrea e Soroptimist International. Un arcobaleno, un prato fiorito, ma anche un paesaggio innevato, da fiaba. Le pareti della nuova biblioteca dei bambini all’interno del carcere di Monza, è un luogo pieno di colori. Così l’hanno realizzata Micheal, Alessandro e Diego insieme ad altri detenuti. Non tutti sono padri, ma hanno pensato a un luogo bello dove accogliere i bambini, in mezzo ai libri e ai giochi. C’è una casetta in legno, realizzata insieme agli studenti dell’Istituto del mobile Meroni di Lissone, panchette bianche e scaffali colorati dove hanno trovato posto oltre 350 libri per bambini da pochi mesi fino ai 15 anni. I libri sono arrivati grazie a una campagna di sensibilizzazione lanciata nel dicembre 2019 dai club di servizio Inner Wheel di Monza, Fidapa Modoetia Corona Ferrea e Soroptimist International. “Abbiamo lanciato un appello ai cittadini e coinvolto le librerie di Monza nel periodo di Natale - spiega Tiziana Achilli, past president di Fidapa Modoetia- hanno partecipato in tanti, poi la pandemia ci ha fermato, ma oggi siamo arrivati all’inaugurazione”. “Questa biblioteca - spiega il direttore della casa Circondariale Maria Pitaniello - è un ponte tra dentro e fuori. Un luogo dove i padri possono incontrare i loro figli, riappropriarsi del ruolo di genitori in un ambiente a misura di bambino”. La nuova biblioteca e ludoteca è un progetto innovativo che si affianca a quello inaugurato nel 2018: un vero e proprio mini appartamento nei locali attigui, realizzato dal Soroptimist, con un soggiorno, un angolo cottura, la zona pranzo dove le famiglie possono ritrovarsi e riallacciare legami che la detenzione ha separato. “Crediamo nel valore dei libri - spiega l’educatrice Marika Colella che ha seguito il progetto della biblioteca - perché è più semplice rompere il silenzio leggendo una favola ai propri figli, è anche più semplice trovare le parole giuste per raccontare una verità difficile. Questo spazio promuove e sostiene la genitorialità, aiuta a promuovere il benessere delle famiglie e a rimarginare le ferite”. “Non vedo l’ora di accogliere qui i miei bambini e spero possa accadere presto - racconta un detenuto - mi sono impegnato in questo progetto per loro, ma anche per realizzare qualcosa di bello per tutti i bambini che verranno qui a giocare e leggere insieme ai loro papà”. Rossano Calabro (Cs). Inaugurato Anno accademico del Polo universitario penitenziario di Antonella Barone gnewsonline.it, 6 febbraio 2023 Per l’inaugurazione dell’anno accademico del Polo universitario penitenziario di Rossano, tenutasi il 2 febbraio nel teatro della casa di reclusione calabrese, gli organizzatori hanno scelto una cerimonia informale centrata sulla promozione dei valori legati alla cultura della legalità e aperta alla partecipazione, insieme ai detenuti, di scolaresche, studenti universitari e volontari. L’evento, che ha visto anche la partecipazione di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso nella strage di Via D’Amelio, è stato realizzato dall’istituto penitenziario diretto da Maria Luisa Mendicino in collaborazione con l’Università della Calabria. Nel corso del suo intervento, Gianfranco De Gesu, direttore generale dei Detenuti e del trattamento, ha richiamato, in un’articolata panoramica ricca di dati, le iniziative di formazione e artistico-culturali realizzate negli ultimi anni dall’Amministrazione penitenziaria. Dati che descrivono una realtà vitale e in crescita, benché ancora si riferiscano a oltre un anno fa e, dunque, risentano delle limitazioni portate dalla pandemia. A dicembre 2021 risultavano 1093 i detenuti iscritti ai corsi universitari (517 negli Istituti sede dei Poli, 576 in altre sedi) e 19 sono stati gli studenti che hanno conseguito la laurea. Seguire un corso universitario in carcere può costituire, secondo De Gesu “sia opportunità di cambiamento per i soggetti reclusi, sia occasione di mutamento del microcosmo penitenziario e delle norme che ne regolano il funzionamento”. Per realizzare simili interventi formativi occorre una logica progettuale che coinvolga una pluralità di attori, in particolare tutte le Istituzioni chiamate alla formazione culturale. Un lavoro di rete favorito dai tanti protocolli d’intesa tra Amministrazione penitenziaria e Atenei e con l’elaborazione, insieme alla Conferenza nazionale dei poli universitari penitenziari, di Linee Guida che vengono trasmesse a tutti i Provveditorati. Gianfranco De Gesu ha anche sottolineato l’importanza di “colmare il divario digitale di coloro che stanno scontando pene detentive, allo scopo di evitare il rischio di esclusione dalla conoscenza e dall’uso di tecnologie indispensabili oggi a ogni tipo di attività di istruzione/formazione, economica e associativo/relazionale”. In proposito, è stata ricordata la sperimentazione realizzata, grazie all’Università di Sassari, presso le sedi di Sassari Bancali, Alghero, Tempio Pausania e Nuoro. Un modello che potrà essere adottato in altri istituti grazie al virtual desktop su licenza Citrix che consente di personalizzare, in base alle esigenze di sicurezza, i collegamenti con il mondo esterno. Sempre nel 2021, secondo i dati del monitoraggio sull’attività teatrale riportati da De Gesu, nelle carceri erano attivi 124 laboratori di teatro, 69 dei quali esistenti da più di 4 anni quindi in grado di assicurare una continuità all’esperienza. In 113 laboratori i detenuti imparano tecniche di recitazione, in 37 a realizzare scenografia e costumi, in 35 a eseguire accompagnamenti musicali e in 30 a danzare. Gli insegnanti sono per la maggior parte professionisti dei vari campi, mentre i finanziamenti sono per la maggior parte di provenienza pubblica. De Gesu ha ricordato anche gli accordi tra ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria e il Coordinamento nazionale teatro in carcere, promotore della rassegna “Destini incrociati” e con ACRI Associazione di fondazioni e casse di risparmio per il progetto “Per aspera ad astra”. “Un obiettivo ambizioso a questo punto potrebbe essere - ha concluso De Gesu - quello di creare una ‘politica culturale’ della Giustizia che riconosca nel carcere un possibile luogo di produzione e di formazione ai mestieri dello spettacolo e nel teatro penitenziario un’espressione della drammaturgia contemporanea, caratterizzata da una propria cifra stilistica”. Cassino. Confronto sulla situazione delle carceri promosso dalle associazioni Dike e Città Futura linchiestaquotidiano.it, 6 febbraio 2023 Al Palazzo della Cultura di Cassino, martedì 7 febbraio alle ore 18,30, è in programma l’evento organizzato dalle associazioni Dike e Città Futura, sarà occasione per parlare del sistema carcerario, della funzione rieducativa prima ancora che risocializzante, che gli istituti penitenziari devono svolgere. Con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, i Padri Costituenti spinti dalla volontà di azzerare le disuguaglianze offrono pari opportunità per tutti, così da non avere una società di vinti, in cui abitano condizioni di marginalità e fragilità sociale. “Proveremo a restituire uno spaccato della quotidianità dei detenuti attraverso la viva voce di testimoni ed esperti della società civile, con competenze e professionalità diverse che operano nel sistema penitenziario”, spiegano gli organizzatori. Ospite d’eccezione Antonio De Matteo, attore nella serie “Mare Fuori”, che partendo dalle immagini e suggestioni della narrazione cinematografica permetterà di andare oltre la realtà romanzata. Parteciperanno all’incontro dibattito esperti del Terzo Settore, Loredana Greco, Responsabile Centro Antiviolenza Perseo, Paolo Iafrate - Presidente Associazione Oltre l’occidente e Walter Bianchi - Presidente Associazione Dike. Secondo Walter Bianchi, presidente dell’associazione Dike “Con l’intento di raccontare la vita dei ‘carcerati’, che Pasolini affermava essere tutti appartenenti alla classe dominata e i loro giudici tutti appartenenti alla classe dominante, proviamo a raccontare la realtà di uomini e donne, persone - che nella loro vita non hanno avuto la fortuna di avere le opportunità che hanno molti - superando i pregiudizi, alimentati da narrazioni spesso incomplete, inesatte e stereotipate”. La partecipazione sarà gratuita ed aperta a tutti. Ferrara. Al Libraccio si parla di diritti umani, carcere e populismo penale con Stefano Anastasia ferraratoday.it, 6 febbraio 2023 Martedì alle 17.30 presso la libreria Libraccio è in programma il primo appuntamento della nuova edizione de ‘I Libri della Ragione’. Stefano Anastasia presenta il suo volume ‘Le pene e il carcere’ e discute di un argomento mai così attuale con due docenti di Unife, Stefania Carnevale e Andrea Pugiotto. Necessità e forme della pena restano un problema in ogni società democratica. Chi autorizza, in che misura, con quali limiti l’inflizione di una sofferenza legale? L’interrogativo appare ineludibile quando si presenta nell’estremo della pena capitale, ma riecheggia anche nella privazione della libertà cui sono costretti i condannati alla pena detentiva, spesso in carceri sovraffollate e in condizioni fatiscenti. Eppure la domanda di giustizia in forma di carcere e pena cresce diffusamente, insieme con le facili risposte populiste che le sollecitano e ci scommettono. In questo libro la complessità del tema viene indagato attraverso la differenza tra diritto e potere di punire, la distanza tra il volto costituzionale della pena e la sua realtà e le sfide che una concezione radicale dell’universalità dei diritti umani pone alle prassi punitive e alla stessa istituzione carceraria. Stefano Anastasia è ricercatore di sociologia del diritto nell’Università di Perugia e docente di criminologia presso Unitelma Sapienza. Dal 2016 è Garante delle persone private della libertà per la Regione Lazio e coordinatore nazionale dei garanti territoriali. Il senso di Sciascia per la giustizia, dall’ergastolo ostativo al populismo di Paolo Colonnello La Stampa, 6 febbraio 2023 Due penalisti usano la lente di ingrandimento dello scrittore siciliano per valutare lo stato di salute di uno dei pilastri della nostra democrazia. Davvero non c’è nulla di più attuale delle riflessioni di Leonardo Sciascia in tema di giustizia, tutt’ora imprescindibili per comprendere la realtà dei tribunali che si nasconde dietro liti e polemiche finendo per rendere incomprensibile la materia a chi poi, a questa materia, spesso soccombe: il popolo. Passione di giuristi, avvocati e giudici, ma anche di imprenditori e giornalisti, lo scrittore di Racalmuto, dalle profondità della sua Sicilia, s’interroga a lungo sul mistero del giudicare, fino ad anticipare il futuro che anche in questi giorni stiamo dibattendo nelle aule parlamentari. E ne fa sintesi nei suoi appassionanti libri che, dalla civetta mafiosa fino al rapimento di Moro, passando per Il Consiglio d’Egitto, raccontano il mistero del potere e dei suoi strumenti, tribunali inclusi. Così due avvocati penalisti, Lorenzo Zilletti, ex presidente della Camera penale di Firenze, e Salvatore Scuto, ex presidente di quella di Milano, si sono dati la briga di mettere insieme un nutrito gruppo di esegeti dello scrittore siciliano, pescando tra l’altro anche negli articoli di quello straordinario e appassionato giornalista che fu Massimo Bordin (Radio Radicale) per scrutare ancora una volta, attraverso la lente d’ingrandimento sciasciana, crepe e stato di salute di uno dei pilastri fondamentali della democrazia, la giustizia. Il risultato è questo “Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia” (Ed. Leo S.Olschki), utile manuale di lettura per chiunque intenda oggi maneggiare l’incandescente materia con cognizione di causa e senza pregiudizi. Si tratta di sette letture che si segnalano per l’originalità della prospettiva con cui porgono al lettore diverse questioni. Prendiamo ad esempio una delle più recenti, l’ergastolo ostativo. Scrive Andrea Pugiotto, docente di Diritto costituzionale a Ferrara, che se è vero che in Italia non esiste più la pena di morte, “sopravvive invece la pena fino alla morte: tale è infatti l’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, cioè senza scampo e senza speranza per chi, potendolo fare, non collabora utilmente con la giustizia”. Ed ecco intervenire Sciascia, che nel romanzo La Strega e il capitano (storia di un processo inquisitorio del 1617) scrive: “Il far nomi di sodali, di complici, è stato sempre dai giudici inteso come un passar dalla loro parte, come un rendersi alla giustizia e farsene, anche se tardivamente, strumento…”. Questione insomma di opportunità, qualità che a Sciascia faceva appunto difetto, una vera anomalia in un Paese dove invece il senso dell’opportunità è sviluppatissimo fino a diventare spesso opportunismo. L’attualità del pensiero di Sciascia giunge fino a noi perfino in un articolo scritto ormai nel lontanissimo 1987 (vigilia della riforma del codice di procedura penale), che sembra essere tagliato sulla vicenda processuale dell’anarchico Cospito: “Sembra inconcepibile - scrive Sciascia - a lume di diritto e di senso comune, che persone che hanno partecipato a delle azioni più dimostrative che letali restino a scontare delle pene che appaiono gravi ed esorbitanti, in confronto a quelle irrisorie inflitte agli assassini. Ma è quello che accade nel nostro beato Paese, in cui le leggi sempre più si allontanano dal diritto e la loro applicazione è suscettibile di arbitrio e tracotanza”. L’articolo, guarda caso, è intitolato A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Gli scritti di Sciascia divengono profezia come quando, sempre nel 1987, anticipando il populismo giustizialista dell’ultimo decennio, spiega che “i cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia in un Paese in cui retorica e falsificazione stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa: e specialmente quando nulla di concreto si fa”. Scrive Gianfranco Dioguardi, docente, saggista e imprenditore barese, che la grande seduzione del modo di pensare di Sciascia è ben palesata nelle poche, esemplari parole che scrisse proprio su questo giornale il 6 agosto del 1988: “Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è”. Cosa spinge a condividere fake news sul web? Uno studio scientifico prova a rispondere di Silvia Renda huffingtonpost.it, 6 febbraio 2023 Mancanza di giudizio critico e partigianeria, fattori generalmente citati come causa della diffusione della disinformazione online, non sono le uniche motivazioni, anzi. C’entra molto l’abitudinarietà. Che la diffusione delle fake news sia un fenomeno in grado di orientare le decisione delle masse, lo hanno dimostrato anche eventi recenti. Per citare un esempio fresco in memoria, in pieno periodo pandemico false informazioni hanno ostacolato l’accettazione dei vaccini Covid e delle misure anti contagio. Ma cosa spinge la diffusione online della disinformazione? Le ricerche psicologiche in passato si sono concentrate sull’analisi degli individui: alla loro mancanza di giudizio critico o alla loro partigianeria è stata ascritta la risposta alla suddetta domanda. Una nuova ricerca pubblicata sulla ricerca scientifica statunitense Pnas sposta invece il focus sull’abitudine alla condivisione, alimentata proprio dai social network attraverso meccanismi di ricompensa. Gli studiosi della Princeton University elencano dapprima i fattori notoriamente riconosciuti come concime per fake news. Le persone leggono in maniera disattenta e hanno capacità di riflessione limitata: le affermazioni false possono sembrare nuove e sorprendenti e quindi attivano un’elaborazione emotiva e non critica. Le persone anziane e quelle con capacità di riflessione meno critica possono non riuscire a rilevare la veridicità delle informazioni e quindi essere meno perspicaci nella loro condivisione. Un’altra causa è dettata dal valutare in maniera distorta i titoli che supportano la propria identità. La partigianeria può influenzare in particolare le valutazioni della veridicità delle informazioni e le informazioni false hanno maggiori probabilità di essere condivise da utenti più conservatori. Sebbene queste analisi identifichino distinti predittori dell’accettazione di notizie false, tutte implicano che le persone diffonderebbero meno informazioni false se solo fossero sufficientemente capaci o motivate a considerare l’accuratezza di tali informazioni e discernerne la veridicità. “Questi limiti e motivazioni personali, sebbene ampiamente studiati, potrebbero non essere gli unici meccanismi alla base della condivisione di notizie false. La condivisione di disinformazione sembra far parte di un modello più ampio di frequente condivisione online di informazioni”, si legge nella ricerca. Le persone che condividono un numero maggiore di notizie false tendono anche a condividere più notizie vere, le persone che condividono notizie più politicamente liberali condividono anche notizie più conservatrici. Tale condivisione indiscriminata suggerisce cause al di là di una mancanza di ragionamento critico o di partigianeria. Il meccanismo psicologico alla base è ascrivibile invece al sistema delle abitudini che le persone sviluppano quando usano ripetutamente un social media. Si sposta così l’attenzione dai deficit dei singoli utenti ai modelli di comportamento appresi all’interno delle attuali strutture dei siti, localizzando il controllo della disinformazione non nel riconoscimento dell’accuratezza da parte degli utenti, ma direttamente nella struttura della condivisione online. Le abitudini si formano quando le persone ripetono una risposta gratificante in un particolare contesto. È particolarmente probabile che la semplice ripetizione dell’uso dei social media formi abitudini. La ricerca ha lo scopo di verificare se le abitudini che le persone formano attraverso l’uso ripetuto dei social media si estendono anche alla condivisione di informazioni indipendentemente dal loro contenuto. I partecipanti a tutti gli studi avevano un account Facebook e hanno scelto di condividere o meno una serie di titoli di notizie, premendo un pulsante di condivisione Facebook. Nel sondaggio iniziale su 200 partecipanti online, sono stati condivisi più titoli veri (32%) che falsi (5%). I partecipanti con abitudini più forti hanno condiviso più titoli. Ancora più importante, i partecipanti con abitudini più forti erano meno perspicaci sulla veridicità del titolo. Quelli con abitudini più forti condividevano una percentuale simile di titoli veri e falsi, mentre quelli con abitudini più deboli condividevano una percentuale maggiore di titoli veri rispetto a quelli falsi. Pertanto, i partecipanti con abitudini deboli erano 3,9 volte più perspicaci nella loro condivisione rispetto a quelli con abitudini forti. Inoltre, gli effetti dell’abitudine sono mantenuti in modelli che includevano misure di differenza individuale di riflessione critica e partigianeria. Il 15% formato da “condivisori” più abituali era responsabile del 37% dei titoli falsi condivisi in questo studio. Gli utenti abituali, insomma, erano responsabili della condivisione di una quantità sproporzionata di informazioni false. Per gli autori dello studio, questa tendenza è spiegata in particolare dal sistema di premi istituito sui social network. Le forti reazioni di rabbia, divertimento, perplessità che le false informazioni provocano ne motiverebbero la condivisione. Gli individui, vedendo che i loro messaggi hanno una notevole risonanza, diffondono meccanicamente informazioni che riconoscono come virali. E in ogni esperimento condotto durante lo studio, è stato proprio il fattore dell’abitudine ad avere la maggiore influenza sui partecipanti, davanti alla mancanza di conoscenza o al pregiudizio politico. Questo significa che sono in ultima analisi i colossi digitali ad avere in mano la maggior parte delle carte per ridurre l’influenza delle false informazioni sulle reti. Laddove la maggior parte delle strategie e delle politiche di controllo delle fake news si concentra sull’individuo stesso, una delle maggiori leve deve essere attivata dalla parte delle aziende responsabili delle reti social. Trasformando il funzionamento degli algoritmi, è possibile rompere questo vizioso sistema di ricompensa che evidenzia informazioni false a favore di un sistema più sano che evidenzia informazioni più sicure dai media tradizionali o tramite istituzioni di riferimento. Gli autori propongono quindi di modificare e rendere più difficoltoso il sistema di pubblicazione su argomenti spinosi, al fine di regolamentare la diffusione di informazioni false. Se l’homeless è una donna: il “primato” di Napoli. E la città si mobilita di Emanuele Imperiali Corriere della Sera, 6 febbraio 2023 Nel capoluogo campano, secondo l’Ista, c’è il 10 per cento di tutte le “senza dimora” d’Italia. Un protocollo e una comunità per accoglierle con i bambini. A Napoli vi è, secondo l’Istat, il più alto numero di donne senza dimora, ben il 10% di quelle censite in Italia, così come nel capoluogo campano la presenza di stranieri è molto più circoscritta rispetto ad altri grandi Comuni: appena l’8,6% contro circa il 60% di Roma, Milano e Firenze. Si tratta di donne con un’età media di oltre 40 anni. Come mai? A Napoli lavorano poco più di 2 donne su 10 e le condizioni di povertà toccano spesso e drammaticamente loro. Diventano homeless per una serie di motivi che vanno dall’aver avuto uno sfratto esecutivo all’abbandono del tetto coniugale, dalla violenza tra le mura domestiche al licenziamento, dalla sopraggiunta dipendenza da alcol, gioco, droghe alla conclusione di un rapporto di lavoro da badante presso il domicilio dell’assistito, infine alla volontà di uscire dalla prostituzione. Nell’hinterland napoletano si contano circa 2000 clochard, anche se l’Istat ne censisce poco meno di 7mila, comprendendo in questo numero tutti coloro che hanno una residenza fittizia. Un esercito di invisibili che si ingrossa, complici la pandemia e la crisi economica. Michele Ferraris, portavoce della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, ricorda che “costoro perdono la possibilità di usufruire dei servizi pubblici perché, a causa della mancanza di abitazione, non hanno più la residenza e non possiedono i documenti di identità”. Una condizione di morte anagrafica che determina la totale perdita dei diritti di cittadinanza: non hanno un medico a cui potersi rivolgere ne possono chiedere un sussidio. Prima di Natale è stato firmato un protocollo d’intesa tra Comune, Diocesi e Asl Napoli 1 per migliorarne le condizioni di vita, finanziando, tra l’altro, una comunità per senza dimora accolte con i loro bambini, che si va ad aggiungere alla Casa di Tonia presente da anni. “Abbiamo avviato - sottolinea l’assessore al Welfare Luca Trapanese - una politica sociale per i senza tetto. Abbiamo stanziato 25 milioni per gli homeless in tre anni, su 60 destinati all’assistenza. E possiamo contare sui 6 milioni del Pnrr”. Oggi in città ci sono cinque unità di strada, e si stanno attrezzando housing first, in locali confiscati alla camorra, per dar loro un alloggio. In questo gennaio con temperature polari, la gara di solidarietà per metterli al riparo dell’emergenza freddo vede in prima fila nel capoluogo partenopeo gli Angeli di Strada Villanova, grazie ai quali è stato avviato anche a Napoli il progetto di Cucina Mobile, un food truck con forni e bollitori a bordo che accompagna i volontari nella distribuzione serale di pasti caldi. “Il lunedì sera - spiegano i promotori, Marcello Ciucci e Marika Cafiero - quando usciamo per le strade cittadine, siamo in grado di fornire 160 cene complete con in aggiunta un kit per la prima colazione mattutina”. Sul camper utilizzato per il food truck si forniscono ai clochard un primo piatto caldo, un secondo, frutta e acqua. Sono una settantina, aggiungono gli Angeli di Strada, le cuoche che li preparano a Napoli. A gestire il servizio è la Fondazione Progetto Arca onlus con gli Angeli della Strada. A finanziare la cucina mobile sono la Z Zurich Foundation e l’Unione Buddhista. Generazione alcolica, un milione di ragazzini tra 10 e 14 anni si è già ubriacato almeno una volta di Paolo Russo La Stampa, 6 febbraio 2023 I dati dello studio “Espad” ancora inedito, condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr. Sempre più giovani iniziano a bere. “E c’è il sorpasso delle ragazze”. Età media diminuita. Quasi la metà dei 12-14enni (46,1%) ha già assunto bevande alcoliche. Negli ultimi 15 anni si è abbassata l’età di chi si rivolge agli alcolisti anonimi. Non hanno nemmeno l’età per guidare un motorino, frequentano ancora le medie o addirittura le elementari, ma circa un milione di bambini e ragazzini tra i 10 e i 14 anni già si sbronza. E il 66% lo ha fatto tra i 15 e i 17 anni, quando la somministrazione di alcolici sarebbe ancora vietata. Rintanati in casa negli anni bui della pandemia, giovani e giovanissimi tornano a socializzare ma tra loro cresce la generazione dei “baby alcol”, fotografata da uno studio “Espad” ancora inedito, condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr. Un alzare di gomito in età sempre più precoce che ha effetti disastrosi per la salute ma anche nella vita familiare e affettiva di questi adolescenti. A diciassette anni Mario è già un alcolista con un passato in una comunità di recupero. Giacomo ha quattro anni in più e il lunedì, dopo la sbornia, si sente “in colpa” perché nel weekend appena trascorso ha “picchiato mamma mentre il cervello era alterato dal gin”. A quindici anni Vincenzo si ubriaca ogni sabato sera “per farsi accettare dal gruppo di amici, che bevono tutti”. Storie di giovanissime vite rubate dall’alcol. “Negli ultimi 15 anni l’età di chi si rivolge a noi è calata moltissimo: è scesa di 10 anni”, racconta Pasquale M., coordinatore di Alcolisti Anonimi Campania. Secondo lo studio Espad il 46,1% degli studenti ha assunto per la prima volta bevande alcoliche tra i 12 e i 14 anni. Il 15,2% lo ha fatto persino prima degli 11 anni. “Fortunatamente nella maggior parte dei casi si tratta di approcci, tipo il nonno che fa assaggiare lo champagne a Capodanno, ma non sempre è così”, spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice del Cnr e responsabile dello studio. “Dal 2019 osserviamo infatti un aumento della percentuale di under 11 e di 12-14enni che hanno fatto abuso di alcol”. A conferma sciorina i dati dello studio: la fetta di chi consuma alcolici sotto 11 anni di età dal 2019 ad oggi è salita dal 10,5 al 15,2%, mentre ad ubriacarsi è l’1,2%. Quota che sale però al 28% quando si passa alla fascia di età 12-14 anni, dove a sbronzarsi è oltre il 5% in più rispetto a soli tre anni fa. In percentuale non sembra granché, ma considerando che tra i 10 e i 14 anni si contano oltre 2,8 milioni di ragazzini, significa che un milione di loro ha già provato l’effetto dell’ubriacatura. Sbronze a parte, ad allarmare è soprattutto la percentuale di chi fa abuso di alcol, bevendo 20 o più volte nel corso di un mese. Oramai lo fa il 6,1% di ragazzi e ragazzini, “la percentuale più alta mai registrata in Italia”, specifica la dottoressa Molinaro. La quale rimarca anche un’altra novità del 2022: il sorpasso delle ragazze (il 78,6%) sui ragazzi (76,7%) che tra i 15 e i 19 anni hanno fatto uso di bevande alcoliche, “più frequentemente di cocktail, che per la presenza di zuccheri e per l’alta gradazione sono anche maggiormente pericolosi delle birra, prediletta dai maschi”. A bere di più sono soprattutto le giovanissime tra i 15 e i 16 anni, “tra le quali è anche diffuso il fenomeno del bere e non mangiare per evitare di ingrassare. Pratica che ovviamente aumenta gli effetti deleteri dell’alcol”, rivela ancora la ricercatrice del Cnr. Ad aggravare ancor di più la situazione c’è poi il mix con energy drink e droghe varie assunte per attenuare gli effetti dell’alcol. Lo ha sperimentato almeno una volta un ragazzo o un’adolescente su tre mentre uno su dieci lo fa frequentemente. Sono facilmente immaginabili gli effetti devastanti sulla salute. “Per rendersi conto della gravità del fenomeno basta fare due chiacchiere con i tassisti che nelle notti di venerdì e sabato riaccompagnano a casa tantissimi bambini stravolti dall’alcol dopo serate nei chioschetti e nei locali”, conferma Alberto Villani, responsabile di pediatria generale e malattie infettive all’ospedale romano Bambino Gesù ed ex Cts. Il quale poi cita il dato dell’Osservatorio dipendenze di Palazzo Chigi, che tra i ricoverati in pronto soccorso per intossicazioni alcoliche ha rilevato un 17% di under 14. “Chi ha questo tipo di problema - prosegue Villani - sono bambini ricchi e poveri, maschi e femmine, non c’è differenza. Generalmente soggetti che vivono una profonda solitudine esistenziale. Non praticano sport, non suonano strumenti, hanno una vita vuota che riempiono con vino, birra e superalcolici”. “Nell’immediato - spiega l’esperto - vanno incontro al coma etilico, a lungo termine possono sviluppare danni al sistema nervoso centrale che si traducono in rallentamenti e tremori. Per non parlare delle conseguenze a livello epatico, cirrosi e tumori compresi”. Danni che si rischia di infliggere al proprio corpo quando si pratica il “binge drinking”, ossia ci si stordisce mandando giù più di cinque bevande alcoliche di ogni sorta nel giro di poco tempo. A Roma qualche tempo fa un’inchiesta ha smascherato un gruppo di pub che rilasciava persino una tessera con la quale dar vita al tour etilico. Lo studio Espad rivela che un ragazzo su tre pratica il binge drinking, e uno su quattro ha addirittura meno di 17 anni. Cattive abitudini che diventano deleterie quando si abbinano all’obesità, condizione oramai comune a un bambino su tre. “In questo caso si innesca una vera e propria bomba a orologeria”, spiega il professor Valerio Nobili, responsabile delle epatopatie metaboliche al Bambino Gesù, dove ha condotto uno studio sugli effetti della pratica. “Quello che stiamo osservando nei nostri ragazzi - spiega - è il costante aumento della presenza di problemi al fegato cronici e progressivi come infiammazioni, steatosi e fibrosi, che compromettono la struttura dell’organo stesso fino alla perdita totale della sua funzione. Nel nostro Paese si stima circa un milione di bambini con fegato grasso, ai quali vanno aggiunti quelli con sindrome metabolica, nonché i ragazzi-bevitori, esposti allo stesso identico rischio. La risultante di questo processo sarà avere un numero sempre più grande di adolescenti con il fegato compromesso che saranno adulti malati e quindi ancor più bisognosi di cure mediche”. Perciò, conclude, “è obbligo istituzionale e dovere morale di noi pediatri intervenire per arginare questa pandemia”. Un obbligo che avrebbe esteso a chi ha la responsabilità politica di porre un freno alla deriva alcolica (e non solo) della nostra generazione Z. Iran. L’amnistia a metà per i manifestanti: Khamenei concede la grazia a chi si pente di Gabriella Colarusso La Repubblica, 6 febbraio 2023 Esclusi dal perdono i condannati a morte. La decisione presa per celebrare l’anniversario della rivoluzione del 1979. Pentitevi e sarete liberati. Dopo quattro mesi di proteste, sopite da una dura repressione, la guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, tenta un gesto di “riconciliazione” offrendo l’amnistia ad alcuni detenuti - “migliaia” dicono i media di Stato - tra cui molti manifestanti arrestati da settembre. Ma a una condizione: che ammettano di aver commesso reati e si pentano promettendo di non tornare più in piazza. Il perdono dell’ayatollah non varrà in ogni caso per chi è condannato a morte - almeno 100 manifestanti rischiano la pena capitale secondo le organizzazioni per i diritti umani - per chi ha collaborato con agenti stranieri o è responsabile di “omicidio e lesioni intenzionali, distruzione e incendio doloso di proprietà dello Stato”. Le autorità iraniane non hanno mai fornito finora il numero delle persone arrestate durante le proteste. La Human Rights Activists News Agency parla di 19.500 detenuti, e più di 500 morti. Molti prigionieri hanno ricevuto condanne di anni anche solo per aver condiviso messaggi sui social a sostegno delle manifestazioni. Per giustificare la decisione di una amnistia parziale, il capo della magistratura, Gholamhossein Mohseni Ejei, ha parlato di giovani “che hanno commesso azioni sbagliate e crimini a seguito dell’indottrinamento e della propaganda del nemico”, che è la linea tenuta dal governo fin dall’inizio delle proteste: i disordini sono sobillati da forze “antirivoluzionarie”. “Questi giovani non sono in alcun modo contrari al sistema della Repubblica islamica”, ha voluto precisare Mohseni Ejei. La grazia arriva a pochi giorni dalle celebrazioni per il 44esimo anniversario della rivoluzione di Khomeini, il prossimo 11 febbraio, e in un momento di grande fragilità per la Repubblica Islamica, attraversata da una crisi di legittimità inedita nella sua storia. Già in passato Khamenei ha annunciato amnistie in occasione delle celebrazioni, ma la mossa di queste ore sembra dettata anche dal tentativo di non far allargare le crepe politiche interne al Sistema. A chiedere un cambiamento profondo infatti non sono solo le piazze, i giovani del movimento pro-democrazia, ma anche pezzi dello stesso establishment rimasto fedele alla Repubblica Islamica per decenni. Sabato l’ex premier e figura di spicco dell’opposizione, Hossein Mousavi, ai domiciliari dal 2011, ha chiesto un “referendum libero sull’opportunità di redigere una nuova Costituzione”, perché l’attuale “struttura” del sistema, in cui il potere decisionale è affidato a una sola figura, la Guida, è “insostenibile”. “L’Iran e gli iraniani hanno bisogno e sono pronti per una trasformazione fondamentale il cui profilo è tracciato dal puro movimento Donna, vita, libertà”, ha scritto Mousavi in un comunicato richiamando lo slogan del movimento pro-democrazia. E ieri ha parlato anche l’ex presidente riformista Mohammad Khatami: “Ciò che è evidente oggi è un diffuso malcontento”, ha detto, “non vi è alcun segno del desiderio di riforma del sistema al potere per evitare gli errori del passato e del presente”. Khatami ha chiesto che si agisca con “metodi civili non violenti” per “costringere il sistema di governo a cambiare approccio e ad accettare le riforme”. Iran. La “grande amnistia” di Khamenei. Gli attivisti: “È solo propaganda” di Greta Privitera Corriere della Sera, 6 febbraio 2023 Il leader iraniano: “Libereremo centinaia di migliaia di oppositori”. Ma le eccezioni sono moltissime. Ridono tutti, nei limiti del consentito. Gli attivisti, i comuni cittadini. Alcuni rispondono ai messaggi con la faccina gialla che sogghigna. Nessuno di quelli con cui parliamo crede alle parole di Ali Khamenei, che ieri, ai sensi dell’articolo 110 della costituzione iraniana, ha detto che concederà l’amnistia a centinaia di migliaia di prigionieri, tra cui alcuni manifestanti arrestati negli ultimi cinque mesi. Lo fa su richiesta del capo della magistratura perché da quando le proteste sono diminuite, dice, “un gran numero di persone che ne hanno preso parte si saranno pentite delle loro azioni”. “Faccio lo spelling: p-r-o-p-a-g-a-n-d-a”, ci dice Mahmood Amiry-Moghaddam, fondatore della Ong Iran Human Rights di Oslo. “Non è una cosa nuova per il regime fare azioni di questo tipo soprattutto vicino alle ricorrenze (l’11 febbraio è l’anniversario della Rivoluzione antimonarchica, ndr.). Di certo non lo fa per pietà. Il motivo principale è economico: le carceri sono zeppe e costano troppo: s i rischiano le rivolte”. L’attivista aggiunge che con l’amnistia l’ayatollah cerca di placare la popolazione e convincerla a smettere di protestare. Vuole dire “sono anche buono”. “E poi c’è un messaggio all’Occidente, perché allenti la pressione. Ma niente cambierà, libereranno una quota che non considerano minacciosa. In cinque mesi ne hanno arrestati più di ventimila”, conclude l’attivista. L’amnistia arriva con una lunga lista di eccezioni. Sarai liberato se: non hai commesso spionaggio a vantaggio di stranieri, non hai avuto rapporti diretti con i servizi segreti stranieri, non hai commesso omicidi o lesioni, non hai distrutto o dato fuoco a strutture governative, militari e pubbliche, non sei stato querelato da un privato e non hai la doppia cittadinanza. Rimarranno in carcere anche tutte le persone accusate di reati per cui è prevista la pena di morte e in più sembra che sia necessario un documento dove chiedi perdono e prometti che non violerai ancora la legge. Lo spiega bene un tweet di Saeed Hafezi, giornalista iraniano in Germania: “Date un’occhiata ai termini dell’amnistia di Khamenei. Non include la condizione di nessuno dei prigionieri! Sapete perché? Perché sotto tortura sono costretti a confessare tutti quei reati”. Fariba vive a Qom, ha 30 anni, fa l’architetta: “Ce ne freghiamo dell’amnistia ipocrita del dittatore, non abbiamo fatto niente. Siamo noi che dovremmo decidere se perdonarlo, e di sicuro non vogliamo. Gli attivisti come mia sorella rimarranno dentro, non abbiamo sue notizie da un anno. A Mashhad costruiscono un nuovo carcere con 15 mila posti: le celle sono strapiene”. Conferma tutto Mohsen, 21 anni, appena uscito da una prigione di Teheran. “Nelle celle la situazione è disumana, in alcune ci sono anche venti persone. Sono stato dentro due mesi e non posso più frequentare l’università”. La notizia dell’amnistia arriva mentre l’ex premier Mousavi, riformista leader della rivoluzione verde, ai domiciliari da 12 anni, parla per la prima volta di riscrivere la costituzione e di referendum. E, paradossalmente, arriva con l’arresto di Elnaz Mohammad, giornalista del quotidiano Ham-Mihan, gemella di Elaheh, stesso lavoro: in carcere per aver scritto del funerale di Mahsa Amini.