Nutrizione forzata, Tso e psichiatra: le opzioni (illegali) per salvare Cospito di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 febbraio 2023 Habeas Corpus. Il tribunale pensa ad un eventuale trasferimento in ospedale, in caso di peggioramento. La foglia di fico della “sacra” tutela della vita e della salute del detenuto Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso, coniugata alla fermezza millimetrica sul tipo di detenzione cui è sottoposto l’anarco-insurrezionalista nel carcere di Opera (41 bis anziché Alta sicurezza, come suggerisce la stessa Procura antimafia), rischia di incartapecorirsi già nelle mani del governo Meloni ancora prima che venga utilizzata per coprire la mancanza di coraggio politico. Non c’è infatti alcun modo di imporre a Cospito - quando si rendesse necessaria - la nutrizione forzata, almeno in forza di legge e di Carta costituzionale. Non c’è modo neppure di sottoporlo a visita psichiatrica, a prescindere dalle norme, perché è evidente che nessuno psichiatra in scienza e coscienza potrebbe valutare un paziente che, per libera e lucida scelta, rifiuti fin d’ora l’eventuale colloquio. E se pure si pensasse di tentare la strada del Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio, la richiesta circostanziata da parte di due medici dovrebbe essere controfirmata dal sindaco della città dove è ubicato il carcere: in questo caso, Milano. Piuttosto improbabile però che Giuseppe Sala possa decidere di forzare così tanto la mano, violando il corpo del detenuto, per togliere le castagne dal fuoco del governo, lui che è stato uno dei primi sindaci italiani a mobilitarsi per la legge sul cosiddetto Testamento biologico. L’avvocato difensore di Cospito, Flavio Rossi Albertini, infatti ha presentato già una diffida al ministero della Giustizia e per conoscenza al Garante dei detenuti con le Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) sottoscritte dall’anarchico con le quali rifiuta, in caso di perdita della coscienza, l’eventuale alimentazione artificiale e altri trattamenti forzati. Un atto che si è reso necessario perché i medici del penitenziario e il Tribunale di sorveglianza di Milano, presieduto da Giovanna Di Rosa, starebbero valutando l’eventuale trasferimento dell’uomo - che attualmente è lucido e ancora in grado di stare in piedi e camminare, ma che intende continuare a rifiutare il cibo e gli integratori fino alla revoca del carcere duro cui è sottoposto dal maggio scorso - nel reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo, quando le sue condizioni di salute diventassero incompatibili con la detenzione. L’avvocato non ne ha ancora avuto notizia formale ma il ricovero, per scongiurare ad esempio un arresto cardiaco, “sarebbe verosimile - afferma Rossi Albertini - in caso di un aggravamento dei parametri: era uno dei motivi per cui avevo chiesto il suo trasferimento dal carcere Bancali di Sassari. Si tratterebbe di un atto dovuto, perché è un detenuto nelle mani dello Stato e lo Stato deve fare di tutto per salvargli la vita”. I magistrati lo sanno, ed è per questo che nel ventaglio delle opzioni ci sarebbe anche il tentativo di imporre - tramite Tso - una perizia psichiatrica al 55enne pescarese per verificare le sue capacità di intendere e volere, visto che Cospito ha già rifiutato una visita con lo psichiatra del carcere, questa settimana. “Anche senza Dat, l’articolo 32 della Costituzione vieta trattamenti sanitari senza consenso, se non per disposizioni di legge. Ma siccome in questo caso il detenuto ha manifestato pubblicamente e chiaramente la propria scelta in materia sanitaria spiegandone le ragioni, e poiché la sua scelta non mette in pericolo altri, chiunque azzardi un intervento di nutrizione forzata, o un Tso con questo fine, commette un illecito”. È molto chiara l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni e membro del Direttivo di Science for Democracy, a capo del collegio difensivo di tutte le battaglie vinte sul fine vita. Una cosa sembra evidente per un uomo, come Alfredo Cospito, che ha già usato l’arma dello sciopero della fame quando era in carcere, nel ‘91, interrompendolo una volta ricevuta la grazia personale: l’anarchico ha commesso dei crimini, anche sanguinari, di cui non si è mai pentito. Ma farlo passare per “matto” per imporgli un trattamento sanitario che rifiuta, significa per lo Stato violare il principio dell’habeas corpus. Vuol dire che la violenza ha vinto. Caso Cospito, Tajani: “Il 41 bis non si tocca, attacco anarchico allo Stato” di Giacomo Galeazzi La Stampa, 5 febbraio 2023 Il vicepremier e ministro degli Esteri: “Mafia e terrorismo non sono ancora sconfitti”. “Il 41 bis non si può toccare in questo momento, perché bisogna ancora sconfiggere mafia e terrorismo”, ha detto il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, rispondendo ai cronisti che gli hanno chiesto se è possibile aprire una riflessione sul 41 bis in seguito al caso di Alfredo Cospito. “È assolutamente indispensabile continuare ad avere il 41 bis, come strumento di garanzia per la sicurezza dello Stato”, ha aggiunto a margine di un incontro elettorale promosso da Forza Italia a una settimana dal voto delle regionali a Milano. “C’è un’escalation, un attacco contro lo Stato italiano portato non solo all’interno dei confini nazionali ma da un’internazionale anarchica contro tutte le sedi diplomatiche del nostro Paese”, evidenzia tajani parlando delle reazioni degli anarchici alla detenzione di Alfredo Cospito al 41 bis: “Abbiamo innalzato il livello di sicurezza, ora bisogna lavorare per difendere lo Stato di diritto da chi vuole sconfiggere un sistema democratico dove chi commette un reato, dopo essere stato processato, deve essere condannato per aver commesso dei reati gravi, come è il caso del detenuto Cospito”. Manifesti - “Mi pare assurdo che si indichi il capo dello Stato come uno degli obiettivi che sono responsabili del 41 bis o della detenzione di un anarchico condannato per reati di terrorismo”, prosegue il titolare della Farnesina parlando dei manifesti affissi dagli anarchici all’Università La Sapienza di Roma, che indicano anche il capo dello Stato, Sergio Mattarella, come uno degli “assassini” di Alfredo Cospito. “Cospito, che vuole disegnarsi come un martire e una vittima, quando non lo è, può fare tutti gli scioperi che vuole, ma lo Stato non si farà ricattare. Il 41 bis non è in discussione e non si tocca. Lo Stato non si piegherà”, afferma allo stesso evento elettorale Licia Ronzulli, presidente del gruppo di Forza Italia a palazzo Madama e coordinatrice regionale della Lombardia. “Ieri abbiamo visitato il carcere di Pavia - puntualizza -. Abbiamo verificato lo stato comatoso delle strutture carcerarie, ma abbiamo prima di tutto fatto visita agli operatori della polizia penitenziaria che si spaccano la schiena, lavorando in condizioni precarie. Noi stiamo da quella parte lì, dalla parte degli operatori, dalla parte della giustizia, delle forze dell’ordine, dalla parte dello Stato. Non abbiamo dubbi e non abbiamo ambiguità”. Polemiche - “Sul caso Cospito hanno sbagliato completamente l’approccio. Se c’è il rischio di saldature tra anarchici e boss mafiosi contro il 41 bis, un governo serio chiama a raccolta tutti. Non crea scontri frontali che avvantaggiano i nemici dello Stato, per attaccare gli avversari politici”, afferma Mara Carfagna, presidente di Azione. “Io penso di no”, così il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, ha risposto ai cronisti che gli hanno chiesto se tema rallentamenti sulle misure del governo per le eventuali fibrillazioni relative al “caso Donzelli”. “Perché già sulle autonomie, come avete visto, è stato fatto il primo passo per poi portare a termine tutta l’operazione - ha poi aggiunto a margine del congresso Uncat in corso a Firenze - e anche sulla riforma fiscale penso che ci sarà condivisione. Poi penso che sia un tema che non dovrà nemmeno dividere maggioranza e opposizione perché è nell’interesse del Paese intervenire”. “La premier Giorgia Meloni è la grande assente ingiustificata. Scappa dai giornalisti e si preoccupa più di difendere i suoi fedelissimi Delmastro e Donzelli che la sicurezza della dello Stato e delle istituzioni alle prese con mafia e terrorismo. Questa non può essere la strategia del presidente del Consiglio”, attacca Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 stelle e già a capo di due esecutivi. Il giudice Bortolato: “41 bis da mantenere, ma senza restrizioni vessatorie” di Angelo Picariello Avvenire, 5 febbraio 2023 “Non si può confondere il dibattito sul 41 bis, con la necessità di garantire le cure necessarie a ogni detenuto”. Per Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, “questo istituto va mantenuto, ma adeguato ai parametri europei e privato di restrizioni inutilmente vessatorie”. Bortolato è stato componente di varie commissioni di riforma dell’ordinamento penitenziario con i ministri Cancellieri, Orlando e infine Cartabia partecipando con quest’ultima al gruppo di lavoro sulla giustizia riparativa. Ha pubblicato con il giornalista Edoardo Vigna, per Laterza, il libro “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”. Che riflessione trae dalla discussione sul regime di 41-bis originata dal caso di Alfredo Cospito? Che è sbagliato anteporre il dibattito politico circa l’abolizione del 41-bis, da ritenere ancora indispensabile purché emergenziale e temporaneo (come recita la stessa rubrica dell’articolo), alla necessità di tutelare il detenuto da ogni forma di aggressione, anche autoinferta. La posizione di protezione dello Stato non contempla un diritto a morire e non esclude, a mio giudizio, interventi coattivi pur nel rispetto della dignità umana. Ove la dissuasione tramite il dialogo e il sostegno non soccorrano, ritengo si possa attuare finanche un’alimentazione forzata. Dal lato umano penso che qualunque detenuto che attui uno sciopero della fame riveli in realtà il desiderio di vivere piuttosto che di morire. Si possono divulgare i contenuti di intercettazioni di detenuti sottoposti al regime di carcere duro? Mi riporto a quanto detto dallo stesso Ministro, il contenuto di quelle conversazioni “per sua natura” è sensibile. Se costituisca anche segreto d’ufficio in quanto riportato in una relazione redatta da Pubblici ufficiali sarà la magistratura penale a stabilirlo. Quali sono i limiti per i parlamentari che vanno a visitarli? Va distinto il diritto di visita dal diritto al colloquio, regolati da norme differenti: gli articoli 67 della legge e 117 del regolamento attribuiscono la facoltà di visita ai parlamentari solo al fine di verificare le condizioni di vita dei detenuti con i quali possono parlare, sempre alla presenza degli agenti, ma non ad esempio “trattare con imputati argomenti relativi al processo penale in corso”. Nessuna norma impedisce però di rivelare il contenuto delle dichiarazioni ricevute, di per sé non oggetto di segreto. Il “colloquio” in senso tecnico, anche con i familiari, ha invece un regime differente e, per i detenuti in 41-bis, è sottoposto a rigorose restrizioni: solo pochi soggetti (magistrato, difensore e Garante nazionale) possono avere colloqui riservati non sottoposti a registrazione. In teoria anche in questi casi non sembra esservi limite alla divulgazione a meno che ciò sia di pregiudizio alle indagini o alla sicurezza nazionale. Al fondo sembra esserci un problema culturale sul principio costituzionale di umanità e finalità rieducativa della pena... Questo è il tema di fondo. La questione sta oscurando il dibattito sulla finalità della pena e lo stato delle carceri in Italia. La Costituzione non solo rende obbligatorio il finalismo rieducativo anche verso gli autori di gravissimi reati (di fatto non praticabile per i detenuti in regime differenziato) ma tende a riaffermare il primato della persona umana sopra ogni altro interesse, ancorché irrinunciabile. Invece in questi casi si invoca spesso di “buttare la chiave”... Il refrain del “buttare la chiave” e quello del garantismo riservato solo al processo ed all’imputato inquinano il dibattito anche sul 41-bis e non consentono di riportare la discussione nei limiti in cui, ad esempio, era stato ricondotto durante i lavori degli “Stati generali dell’esecuzione penale” del 2015, di cui coordinavo il relativo Tavolo. Fermo restando il suo mantenimento, credo sia necessario adeguare il regime ai parametri costituzionali ed europei, eliminando le restrizioni meramente vessatorie che ne rivelano la natura più afflittiva che preventiva e ripristinare la giurisdizione territoriale dei tribunali di sorveglianza che, avendo competenza sul carcere di assegnazione del detenuto, dispongono di informazioni individualizzanti più idonee a valutare la legittimità del regime. Ardita: “Il 41 bis tutela la collettività. Cancellarlo sarebbe un segno di debolezza per lo Stato” di Simone Alliva L’Espresso, 5 febbraio 2023 Il magistrato difende la formula del carcere duro tornata alla ribalta nel caso dell’anarchico Alfredo Cospito. “La contrapposizione nel campo degli strumenti giudiziari sta raggiungendo un livello preoccupante”. “Rinunciare al 41 bis otto la pressione di gruppi, di esponenti o di singoli, rappresenterebbe un segno di debolezza dello Stato”. Non usa mezzi termini Sebastiano Ardita, magistrato antimafia, già direttore del Dap per 9 anni, mentre commentando il caso Alfredo Cospito, l’anarchico trasferito al carcere di Opera a Milano per l’aggravarsi delle sue condizioni dopo più di cento giorni di sciopero della fame. Un tema che resta aperto dopo il parere consegnato dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo al ministro della Giustizia Carlo Nordio: Alfredo Cospito può restare al 41 bis oppure tornare al regime di alta sicurezza, con tutte le dovute cautele, pur ribadendo che fu fondata la decisione del 5 maggio del 2022 di applicargli il carcere duro. Il consigliere del Csm, per anni coordinatore di delicate indagini antimafia fra Catania e Messina e profondo conoscitore di Cosa Nostra, vede nella discussione che apre al dibattito sull’utilità del 41 bis: “Un livello di contrapposizione nel campo degli strumenti giudiziari sta raggiungendo un livello molto elevato e preoccupante” Consigliere Ardita, il dibattito scatenato dal caso di un detenuto in gravi condizioni di salute per via dello sciopero della fame sta mettendo in discussione (pubblicamente) il 41 bis. Che idea si è fatto del caso Cospito, considerando anche che il detenuto a regime non appartiene a una organizzazione piramidale e gerarchica? “È una situazione complessa quella che si è venuta a creare. Si è inizialmente scelto di applicare per la prima volta ad un appartenente all’area anarchica insurrezionalista una misura estrema come quella del 41 bis dell’ordinamento penitenziario, molto efficace contro le organizzazioni criminali. Si tratta di una decisione ritenuta legittima anche dalla autorità giudiziaria chiamata a giudicarne i presupposti. È pur sempre una scelta politica e simbolica, e quindi - anche se c’è il rischio di un allargamento del fronte di chi guarda criticamente il 41bis - non è facile pronosticare che il governo faccia un passo indietro”. Le condizioni di salute possono intervenire per far saltare il meccanismo di prevenzione e sicurezza come il 41 bis? “Le condizioni di salute possono e devono essere affrontate a prescindere dal regime, ma qualsiasi cura prevede la collaborazione della persona a cui viene dedicata”. Ormai siamo consapevoli di alcune intercettazioni provenienti dal carcere in cui Cospito parlava contro il 41-bis con un mafioso. Questo legame dovrebbe preoccuparci? “Certo che preoccupa perché dà la misura di come Cosa nostra non si faccia alcuno scrupolo nel cercare strade comuni per evitare il 41 bis”. Non le pare che l’attacco al 41-bis da parte di alcuni boss mafiosi in carcere possa oggi trovare sponde nel dibattito pubblico? “Di fatto ne ha sempre avute ma adesso ne sta trovando di nuove”. La Giunta dell’Ucpi (Unione Camere Penali) ha espresso “apprezzamento, solidarietà e sostegno per la dura azione non violenta con la quale un detenuto in regime di 41 bis, il signor Alfredo Cospito, ha inteso denunziare con forza, a rischio della propria vita, l’incivile barbarie di quel regime detentivo”. Che ne pensa? “Mi viene da pensare che la contrapposizione nel campo degli strumenti giudiziari sta raggiungendo un livello molto elevato e preoccupante. Ma penso anche che in una democrazia, oltre al rispetto per le opinioni di tutti, deve esistere il primato della legge come espressione della volontà popolare. Specialmente quando la sua applicazione serve a garantire la vita, la libertà e l’incolumità fisica di persone innocenti. E penso che rinunciare a strumenti di tutela collettiva, come è il regime 41 bis contro la mafia, sotto la pressione di gruppi, di esponenti o di singoli, rappresenterebbe un segno di debolezza dello Stato”. Ilaria Cucchi: “Si parla di vita o di morte di un detenuto. Nordio non può far finta di nulla” di Simone Alliva L’Espresso, 5 febbraio 2023 “Il 41 bis è una palese forzatura, ma una certa parte politica ceda alla tentazione di facili slogan. Quanto ai cosiddetti anarchici violenti, a loro non interessa nulla delle sue condizioni, vogliono solo farne un martire”. Parla la senatrice in prima linea per i diritti dei reclusi. “Facili slogan mentre qui si parla della morte di una persona che dovrebbe essere tutelata”. È granitica, Ilaria Cucchi, senatrice eletta nelle liste di Alleanza Verdi e Sinistra quando commenta a L’Espresso la vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico trasferito al carcere di Opera a Milano per l’aggravarsi delle sue condizioni dopo più di cento giorni di sciopero della fame. Si è da poche ore conclusa la conferenza stampa del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani con i ministri della Giustizia, Carlo Nordio, e dell’Interno Matteo Piantedosi. Una conferenza che ha chiuso le porte alla possibilità di rivedere il regime del carcere duro per l’anarchico. “Ora il 41 bis è indispensabile, è necessario mantenerlo”, ha concluso Nordio. Non per la senatrice dell’alleanza Verdi-Sinistra italiana e sorella del geometra romano ucciso mentre si trovava in carcere: “Il 41 bis è incostituzionale”. Senatrice Cucchi, lei ha scritto sul suo profilo Facebook che costringere Cospito al regime 41 bis “è stata una palese forzatura ed un errore colossale”... “Certo, Cospito non ha ucciso nessuno. Il 41 bis è assolutamente anticostituzionale e come tale è stato di recente censurato dalla stessa Corte Costituzionale e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. È stato giustamente così concepito, negli anni 90, in occasione delle stragi di mafia per impedire ai boss della criminalità organizzata di continuare ad avere collegamenti con i sodalizi mafiosi. Si è indubbiamente trattato dell’introduzione di un regime di emergenza a causa dell’incapacità dello Stato di realizzare un sistema carcerario che potesse, da un lato, essere in linea con i fondamentali criteri di rieducazione cui deve essere uniformata l’espiazione delle pene senza che con essa, dall’altro, si aprissero le porte alla prosecuzione dell’attività criminale dei boss dall’interno delle strutture di detenzione. Cosa c’entra con tutto ciò Cospito? Niente, ma in questo Paese l’emergenza diventa la regola e c’è sempre chi cade in tentazione e cerca di estendere l’applicazione dimenticandosi i sacri principi della nostra Carta Costituzionale. Questo è accaduto con una palese forzatura e commettendo, appunto, un errore colossale”. Negli ultimi mesi il Governo ha adottato la linea dell’indifferenza verso le condizioni di salute di Cospito. Nordio è rimasto in silenzio a lungo. Pensa che sia stato questo ad alimentare un’escalation di attentati e minacce? “Non mi stupisce che una certa parte politica ceda alla tentazione di facili slogan dimenticando che qui si parla di vita o di morte di una persona in detenzione che dovrebbe essere tutelata al di sopra di ogni questione. Nulla è più importante. Mi stupisce che un Ministro come Nordio, magistrato, faccia finta di ignorare tutto questo”. Il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, in conferenza stampa sul caso Cospito ha più volte detto che “lo Stato non può piegarsi a minacce e ricatti”... “La sublimazione di questa terribile e miope speculazione politica sta nel motto “questo governo non può piegarsi ai ricatti”? Così si fa finta di non dover adottare provvedimenti di sana civiltà giuridica e si consente la morte di un detenuto per paura che, diversamente, si possa dare l’impressione di cedere a fantomatici ricatti. Il collegamento agli attentati criminali della recente cronaca è tanto semplicistico quanto ipocrita. Si fa finta di non vedere che nulla hanno a che fare con Cospito e le sue drammatiche condizioni di salute. Questi cosiddetti anarchici violenti non vogliono altro che la morte di Alfredo Cospito per farne un martire. A loro nulla interessa delle sue condizioni. È fin troppo evidente. Sono per lui come lo sono stati i Black Block per i no global per i G8”. Alla fine l’ex militante della Federazione anarchica informale (Fai) è stato trasferito da Sassari al carcere di Opera a Milano dove c’è una struttura sanitaria che, a detta del ministro Tajani, è “forse la più efficiente in Italia”. Non basta? “No. Non basta certo il trasferimento in Lombardia. Deve essergli revocato il 41 bis”. Piantedosi oggi ha dichiarato: “Se mafiosi o aderenti a organizzazioni terroristiche, che lo subiscono, se ne lamentano e fanno una battaglia così forte contro il 41 bis, vuol dire che funziona”. Che ne pensa? “Piantedosi ha ragione, se lo Stato fosse corso ai ripari all’emergenza mafiosa degli anni 90. Non certo in un’ottica di acquiescenza alla violazione sistematica dei diritti fondamentali dell’Uomo da estendere il più possibile per esonerare il Paese dall’onere di dover raggiungere quello che non sappiamo oramai più cosa sia: lo Stato di diritto”. Gian Carlo Caselli: “È una tempesta perfetta. Dibattito rischioso sul 41 bis” di Giovanni Rossi Il Giorno, 5 febbraio 2023 I timori dell’ex magistrato: Cospito si è trasformato in un influencer delle istanze dei mafiosi. “Il terrorismo storico è finito. Ma qualche nostalgico potrebbe infiltrarsi tra gli anarchici”. Gian Carlo Caselli, 83 anni, ex procuratore capo di Palermo e di Torino, ha competenze speciali per parlare di mafia e anarchia, ora associate a sorpresa - nel dibattito pubblico - dal regime di carcere duro per Alfredo Cospito. Dottor Caselli, la stupisce questa escalation? “Decisamente sì. Ormai siamo in una tempesta perfetta i cui effetti possono irradiarsi in ogni direzione”. Cosa la preoccupa? “Il clima di rissa innescato da questo sciopero della fame può favorire una rappresentazione non equilibrata di questioni fondamentali per la sicurezza dello Stato”. L’area anarchica è correttamente valutata, ai fini della sicurezza, oppure è un fenomeno in attesa di codifica? “Se ne sa molto a livello investigativo e giudiziario, molto meno a livello di opinione pubblica. E anche questo può essere un problema, se si generasse una comprensione sfumata della partita in corso”. Teme una saldatura tra aree anarchica e antagonista a dispetto di storie movimentiste generalmente separate? “Come sa, ormai sono un pensionato, quindi non ho più elementi diretti di valutazione, ma da quanto paventano i colleghi e gli investigatori in prima linea - tutti soggetti che parlano con cognizione di causa - non è improbabile che il pericolo ci sia”. E invece, rispetto al terrorismo vero e proprio? “Il terrorismo storico è finito. Rimane qualche nostalgico che potrebbe infiltrarsi”. Ma non c’è il rischio opposto che un allarme eccessivo dello Stato offra visibilità in eccesso a gruppi anarchici eterogenei e sin qui ignoti all’opinione pubblica? “Il salto di qualità mediatico è già in corso perché, nel nome di Cospito, movimenti anarchici con anime distinte - un’autentica galassia di sigle - ora si stanno coagulando in una battaglia comune dalla forte impronta collettiva”. È possibile che nel caso Cospito le procure interessate e il precedente Guardasigilli abbiano ecceduto in severità? “Solo i magistrati e il ministro della Giustizia hanno in mano tutte le carte. Le valutazioni a livello di opinione pubblica sono fisiologicamente viziate dalla mancata piena conoscenza dei fatti. Oggi prevale la discussione attorno al 41 bis, ma in pochi ricordano i reati compiuti. Reati gravi: come la gambizzazione dell’Ad di Ansaldo Energia, Roberto Adinolfi, per rappresaglia contro l’incidente nucleare di Fukushima, o come la tentata strage alla Scuola allievi Carabinieri di Fossano”. Gli anarchici e Cospito non sembrano contestare le condanne, ma lo strumento del 41 bis... “Cospito interpreta il paladino di se stesso, e sin qui nulla da eccepire. Cosa diversa è trasformarsi in influencer delle istanze dei mafiosi. Quello di Cospito è un piatto sporco in cui possono mettere le mani personaggi di ogni tipo. Mafiosi in testa. Con effetti perversi”. Le critiche al 41 bis, così come all’ergastolo ostativo, arrivano però anche dalla Cedu (la Corte europea dei diritti dell’uomo), periodicamente dalla Consulta e dall’Unione camere penali... “Non si può non tener conto della specificità mafiosa, una caratteristica tutta italiana, un fenomeno che la stessa Cedu, sicuramente in buona fede, non riesce pienamente a comprendere. La realtà è che dopo le stragi del 1992, dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, solo le leggi sui pentiti e il regime di carcere duro al 41 bis hanno salvato la Repubblica dall’assedio di Cosa Nostra che spadroneggiava anche nelle carceri. Senza questi strumenti, la storia d’Italia sarebbe andata diversamente, mi creda”. E oggi? “Nessuno si illuda. Cosa Nostra ha subito sconfitte clamorose, ma ‘ndrangheta, camorra e mafie pugliesi - soprattutto quella garganica - sono tuttora molto forti. I cittadini devono saperlo: lo Stato non si vendica e non tortura; lo Stato lavora per affermare la legalità e non può rinunciare a strumenti di contrasto che funzionano. Non escludo che in futuro il 41 bis possa essere revisionato o ricalibrato, ma non certo oggi, per iniziativa di un terrorista anarchico”. Allora quando, nel caso? “In un Paese abituato a farsi dettare l’agenda dall’emergenza, un tema così delicato può essere preso in mano solo in un clima di unità politica. Non come quello di questi giorni in cui la maggioranza rovescia sull’opposizione accuse senza fondamento”. Il caso Cospito non può delegittimare il 41 bis di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 5 febbraio 2023 Il caso Cospito sta esasperando le divisioni della politica, sta infiammando le piazze, sta scatenando forme pericolose di violenza anche internazionale. I rischi sono tanti e diversi. In gioco c’è pure il 41 bis, che spesso certe polemiche associano inappellabilmente a parole pesanti come violenza, barbarie, vendetta, tortura, incostituzionalità. Premesso che il “doppio binario”, di cui il 41 bis è parte, si raccorda alla “specificità” della mafia rispetto a ogni altra forma di criminalità (Consulta dixit), specificità che può rendere ragionevole e quindi non incostituzionale un diverso trattamento; proviamo a ricordare come stanno le cose. L’ossessione dei mafiosi contro il 41 bis (in accoppiata con la legge sui “pentiti”) è una realtà storica consolidata. Essi infatti sanno bene che si tratta di un siluro sempre pronto a colpire sotto la linea di galleggiamento la loro organizzazione. Lo sapeva Totò Riina, che si diceva pronto a “giocarsi i denti” (a fare di tutto) pur di sbarazzarsi del micidiale pericolo. Lo sanno i mafiosi ancora in libertà che testualmente affermano “i nostri in carcere li dobbiamo cercare in qualunque maniera di accontentarli, di portagli il più rispetto possibile” (e sì, caro Nordio, i mafiosi parlano e le intercettazioni servono…). Lo sanno e lo dicono i mafiosi detenuti, per esempio i Ganci, i fratelli Graviano, Pippo Calò e altri di rango criminale elevato che, nel processo “Borsellino ter”, comunicano di aver intrapreso uno sciopero della fame (di cui non si avranno ulteriori notizie) per protesta contro le condizioni disumane del regime carcerario cui sono sottoposti. Oppure Leoluca Bagarella: in videoconferenza dal carcere de L’Aquila legge una lunga lettera a nome di tutti i detenuti al 41 bis, “stanchi di essere umiliati, strumentalizzati, vessati”. E l’ossessione continua anche oggi: i mafiosi detenuti a Sassari esortano Cospito a continuare la sua protesta “perché pezzo dopo pezzo si arriverà al risultato”. E se non basta per ipotizzare una vera alleanza tra mafiosi e anarchici, si può ben sostenere che il caso Cospito è diventato un piatto sporco nel quale molti hanno messo o possono mettere le mani per trarne vantaggio. I mafiosi in primissima linea. E poi accusare il 41 bis di tortura etc. a mio avviso è insensato. È carcere duro nel senso di giustamente severo nei confronti dei mafiosi detenuti, i quali prima del 41 bis vivevano ad aragoste e champagne (chi ne dubita per favore si informi!). E non era una questione… gastronomica, ma ben altro. Era simbolo e sigillo dello strapotere dei mafiosi, che nel carcere facevano il brutto e il cattivo tempo a loro piacere; della sopraffazione dei mafiosi sullo Stato, incapace di impedire loro di comandare anche in carcere e nel contempo di continuare a esercitare il loro dominio criminale fuori, in attesa di una perizia medico-legale compiacente o dell’immancabile (allora) assoluzione per insufficienza di prove. Così la mafia era sempre più forte dello Stato e la battaglia contro la mafia persa prima ancora di cominciare. In ogni caso, che tortura è quella di un detenuto che scrive “solo per me spendo venti milioni al mese di avvocato, vestirmi, libretta e colloqui”? Si tratta di Giuseppe Graviano in una delle lettere scambiate con Antonino Mangano, capo del mandamento di Brancaccio dopo la sua cattura. Si dirà, vabbè ma gli altri? Sempre Graviano nelle sue lettere chiede “perché ai carcerati gli è stato diminuito il mensile dopo il mio arresto?”. E non c’è solo il “mensile”. Ancora Graviano: “Ci sono venti carcerati che sono rovinati processualmente e non hanno mezzi economici per affrontare la situazione; l’impegno è di darci dai tre a quattro appartamenti ciascuno per avere un futuro economico sicuro sia loro che le loro famiglie”. Millanterie? No di certo, perché Graviano aggiunge: “I costruttori debbono uscire questi appartamenti, se qualcuno babbìa gliela debbo fare pagare, chi approfitta dei carcerati è un infame”. Uno spaccato che fa a pugni con le disinvolte accuse di tortura. Generalizzarlo sarebbe sbagliato, ma ignorarlo lo è ancora di più. Infine, guai se qualcuno dimenticasse la genesi del 41 bis, approvato dopo le stragi del 1992 e perciò praticamente scritto col sangue di Falcone, di Borsellino e di quanti hanno perso la vita con loro a Capaci e in via d’Amelio. Il nostro non sarebbe un Paese serio. E allora, che Cospito (è una sua scelta) faccia lo sciopero della fame; che gli sia assicurata un’adeguata assistenza sanitaria; che sia risolto l’intreccio di ricorsi e contro-ricorsi della sua vicenda carceraria. Ma che Cospito non si allarghi a fare l’influencer per l’abolizione del 41 bis in favore dei mafiosi. E nessun altro con lui. Carceri: non solo il 41 bis, la vergogna di suicidi e botte di Antonio Padellaro Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2023 C’è una vicenda che dovrebbe essere tenuta a mente da tutti coloro per i quali il caso Cospito non è il solito teatrino di Pulcinella dove esibirsi a favore di telecamere (la comica coppia di FdI) ma l’occasione per gettare uno sguardo, almeno, in quel buco nero che è il sistema carcerario in Italia. Parliamo del “Pestaggio di Stato”, avvenuto il 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che è il titolo del libro inchiesta di Nello Trocchia. Quel pomeriggio 283 agenti della polizia penitenziaria, muniti di caschi e manganelli e alcuni a volto coperto, irrompono nelle celle e infieriscono per ore sui detenuti. “La prova del fallimento della struttura sociale e istituzionale del nostro Paese, l’abdicazione del sistema Giustizia”, scrive nell’introduzione Ilaria Cucchi. Trascorrerà quasi un anno e mezzo prima che il depistaggio costruito dall’amministrazione penitenziaria nel tentativo di respingere le accuse sia vanificato. Sarà infatti l’autore del libro a pubblicare sul sito del giornale “Domani” le immagini dell’infame aggressione estratte dal sistema di videosorveglianza del carcere. Solo allora il ministro della Giustizia Cartabia denuncerà “l’offesa e l’oltraggio alla dignità della persona dei detenuti” e anche “alla divisa della polizia penitenziaria”. La domanda è se, trascorsi altri venti mesi dal disvelamento di quella macchia indelebile, a quel “tradimento della Costituzione” si sia cominciato a porre un qualche rimedio. Per ora, dietro il polverone sollevato dallo sciopero della fame di Alfredo Cospito, non s’intravede altro che un furibondo scontro politico (più che umanitario) sull’applicazione del 41 bis (728 coloro che devono sottostarvi) e dell’ergastolo ostativo (1.259). Questioni importanti legate al giusto equilibrio tra sanzione, sicurezza e civiltà giuridica, ma che riguardano solo una minima parte degli oltre 57 mila detenuti nelle carceri italiane. Delle non-persone a giudicare dall’interesse quasi zero che la loro condizione suscita nel dibattito pubblico. Pensiamo agli 84 suicidi che hanno deciso il loro fine pena, con atto autonomo e definitivo. Ma che, tranne in rarissimi casi, non sono riusciti ad attirare l’attenzione sulla loro “vita di scarto” (Zygmunt Bauman) neppure togliendosela. Se non fosse per il capitolo che gli dedica Nello Trocchia, chi saprebbe, per esempio, qualcosa del detenuto Lamine Hakimi picchiato selvaggiamente a Santa Maria Capua Vetere e morto vomitando sangue? Per carità, nessun paragone con lo sciopero della fame dell’anarchico insurrezionalista di cui tutti parlano. Ma la sensazione che anche dietro le sbarre ci sia qualcuno che è più (o meno) uguale degli altri, questo sì. “Nessun presupposto per le dimissioni di Delmastro. Ora tutti abbassino i toni, compresa Fratelli d’Italia” di Giorgia Meloni Corriere della Sera, 5 febbraio 2023 La presidente del Consiglio risponde alle polemiche sul caso Cospito e alla domanda sul passo indietro del sottosegretario con una lettera al “Corriere”. Caro direttore, da diversi giorni vengo accusata, da esponenti delle opposizioni e dei media, di reticenza in relazione all’acceso dibattito su Alfredo Cospito svoltosi alla Camera, che ha visto coinvolti tra gli altri l’onorevole Donzelli e il Sottosegretario Delmastro. Della vicenda mi è stato chiesto ieri, quando durante una conferenza stampa con il Cancelliere Scholz a Berlino, e di fronte ai media internazionali, giornalisti italiani mi hanno interrogato su questo, evidentemente meno interessati alla trattativa che stavo conducendo nell’interesse italiano in vista del prossimo Consiglio Europeo straordinario. Ho preso l’impegno di rispondere e lo faccio ora, segnalando che la ragione per la quale non sono intervenuta finora è che ho tentato di non alimentare una polemica che considero, per tutti, controproducente. Le spiego perché. A monte: sicuramente i toni si sono alzati troppo, e invito tutti, a partire dagli esponenti di Fratelli d’Italia, a riportarli al livello di un confronto franco ma rispettoso. Tuttavia, non ritengo vi siano in alcun modo i presupposti per le dimissioni che qualcuno ha richiesto. Peraltro, le notizie contenute nella documentazione oggetto del contendere, che il Ministero della Giustizia ha chiarito non essere oggetto di segreto, sono state addirittura anticipate da taluni media. Ci sono in questo polverone, a mio avviso, aspetti chiaramente strumentali. Trovo singolare che ci si scandalizzi perché in Parlamento si è discusso di documenti non coperti da segreto, mentre da anni conversazioni private - queste sì da non divulgare - divengono spesso di pubblico dominio. Trovo singolare l’indignazione del Pd per un’accusa sicuramente eccessiva, quando però la sinistra in passato ha mosso alla sottoscritta, leader dell’opposizione, le accuse di “essere la mandante morale delle morti in mare” o di guidare un “partito eversivo”, per citarne alcune. Senza dimenticare quando esponenti istituzionali gridavano tra gli applausi che avremmo dovuto “sputare sangue”. Trovo paradossale che non si possa chiedere conto ai partiti della sinistra delle loro scelte, quando all’origine delle polemiche di questi giorni si colloca oggettivamente la visita a Cospito di una qualificata rappresentanza del Partito democratico, in un momento in cui il detenuto intensificava gli sforzi di comunicazione con l’esterno, come emerge dalle note dell’autorità giudiziaria che si è pronunciata sul caso, rese note dai mezzi di informazione. E quello che colpisce me, ancora più di quella visita, è che dopo aver preso atto - da quello che riporta la stampa sulla vicenda - dei rapporti tra Alfredo Cospito e i boss mafiosi in regime di carcere duro, e ben sapendo quanto alla mafia convenga mettere in discussione il 41bis, autorevolissimi esponenti del Pd abbiano continuato a chiedere la revoca dell’istituto per Cospito, fingendo di non comprendere le implicazioni che tale scelta avrebbe avuto soprattutto in termini di lotta alla criminalità organizzata. Detto ciò, io credo che il punto sia un altro. Mentre maggioranza e opposizione si accapigliano sul caso, attorno a noi il clima si sta pericolosamente e velocemente surriscaldando. E non risparmia nessuno, come dimostrano i manifesti comparsi ieri all’università La Sapienza di Roma, che definiscono “assassini” il Presidente della Repubblica e i membri di diversi governi, senza distinzione di colore politico. Mentre si continua a pensare che questa questione possa essere utilizzata per attaccare il governo o l’opposizione, ieri è stato necessario assegnare la scorta all’on. Donzelli e ai Sottosegretari Delmastro e Ostellari, e ovunque compaiono minacce alle istituzioni italiane, qui in patria e all’estero. È chiaro che non ci troviamo davanti a una delle tante polemiche che agitano il mondo politico, ma a una situazione dai contorni decisamente inquietanti che rischia di avere conseguenze gravi. A uno scenario che richiede prudenza e cautela ma che deve vedere compatto lo Stato, in tutte le sue articolazioni e componenti, a difesa della legalità. È un appello che rivolgo a tutti, politici, giornalisti, opinionisti. Perché non ci si debba domani guardare indietro e scoprire che, non comprendendo la gravità di quello che stava accadendo, abbiamo finito per essere tutti responsabili di un’escalation che può portarci ovunque. I sospetti di Meloni sui tempi del caso Cospito: “Sciopero iniziato con il mio arrivo” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 5 febbraio 2023 La linea della premier Giorgia Meloni, via chat, ai suoi: “Storia inquietante, ora tutti zitti”. Prima l’appello all’unità lanciato con una lettera al Corriere e l’invito al suo partito, Fratelli d’Italia, ad abbassare i toni sul caso Cospito. Quindi un nuovo invito ai suoi: “Ora zitti. La linea la do io”. Sono bastate poche ore alla presidente del Consiglio per avere l’impressione che il suo invito al “cessate il fuoco” rivolto all’opposizione fosse finito nel vuoto. E così, in serata, ha affidato la sua preoccupazione alla chat dei gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia, invitandoli al riserbo. “Sono molto preoccupata, dalle risposte al mio appello credo che l’opposizione preferisca continuare ad alimentare la polemica attorno a questa vicenda. E dalla minimizzazione che vedo da parte di molti”, ha scritto Meloni nelle chat, anticipate dall’AdnKronos. E ha spiegato: “Le auto incendiate, i manifesti che additano presunti “assassini” di Cospito all’università, le minacce di morte, gente messa sotto scorta. E dall’altra parte chi finge di non vedere e anzi giustifica (leggevo un lunare articolo nel quale si sostiene che inventiamo pericoli finti per poi imporre scelte di limitazione delle libertà) o soffia direttamente sul fuoco”. Per la presidente del Consiglio “tutti i contorni di questa vicenda sono abbastanza inquietanti, compresa la tempistica che quasi sovrappone la nascita del governo all’inizio dello sciopero della fame da parte di Cospito”. “È possibile che io stia esagerando e spero sia così - aggiunge la premier - ma comunque vada serve che tutti siano concentrati e seri. Continuiamo a lavorare per cercare di dare risposte”. Parole che concentrano tutti i timori che Giorgia sta comunicando in queste ore ai suoi fedelissimi. Convinta che vi sia una sottovalutazione generale di ciò che è stato innescato dal caso Cospito. Le minacce che si moltiplicano. Le proteste che alzano il livello dello scontro. Persino il volto del capo dello Stato indicato tra gli “assassini” in un manifesto. Uno scenario che la induce a evitare una pratica che, come si è visto altre volte, pur bene le riesce: lo scontro frontale con chi la attacca. Ecco perché ha risposto per iscritto sul perché non “fa dimettere” il sottosegretario Andrea Delmastro, che ha accusato i 4 deputati dem in visita a Cospito di essersi “inchinati” ai boss, suoi vicini di cella, scatenando l’indignazione del Pd. E al perché non “caccia” nemmeno Giovanni Donzelli, che ha rivelato le parole di incoraggiamento dei criminali a Cospito contro il 41 bis contenute in due relazioni del Dap, riferitegli da Delmastro. Una formula che le ha consentito di mandare più messaggi. Il primo rivolto proprio ai suoi: un richiamo alla responsabilità e al rispetto istituzionale rivolto al suo partito ma nel quale, per estensione, si è trovato coinvolto l’intero governo. Così, per tutta la giornata, ieri è cessato il batti e ribatti. E mentre dal Partito democratico e da tutta l’opposizione fioccavano ancora accuse e polemiche, è stato zitto il sottosegretario. Zitto, in verità già da giorni anche Donzelli. E zitto, fino a sera, il ministro della Giustizia Nordio. Descritto, in questi giorni di tormenta in Via Arenula da alcuni come “irritato” con il duo Delmastro-Donzelli e costretto a stilare in fretta a furia quel comunicato, un po’ involuto, con cui ha scagionato Delmastro dalla rivelazione di documenti classificati: le due relazioni del Dap sui colloqui tra l’anarchico e i boss. Sia pure citando la dicitura “Limitata divulgazione”: che giuridicamente non chiude il caso e politicamente gli è costata critiche di “ambiguità”, come quella formulata dal dem Walter Verini. Ambiguo o meno, a Giorgia Meloni è andato benissimo per rispondere all’opposizione con un dato: che “non ci sono i presupposti” per le dimissioni richieste. Una risposta quasi scientifica. Separata dalle considerazioni che in Fratelli d’Italia tutti ormai fanno solo a microfoni spenti: “Il Pd crea un polverone sul nulla per coprire la sua grande responsabilità: aver dato attenzione al digiuno di Cospito che sta facendo il gioco dei mafiosi chiedendo l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo”. Niente dimissioni. Meloni difende i fedelissimi e attacca di Andrea Colombo Il Manifesto, 5 febbraio 2023 Dalla premier rimbrotto a Delmastro e Donzelli per i toni. Poi rilancia le accuse ai dem. La premier è stata di parola. Aveva promesso da Berlino che avrebbe fatto sapere ieri cosa pensa del caso Delmastro-Donzelli: nella mattinata scrive al Corriere della sera, procede come un trattore. Non che sia sguaiata come i due incontinenti guardiaspalle. Al contrario pesa parole e toni. Paga il dovuto obolo all’autocritica: “I toni si sono alzati troppo e invito tutti, a partire dagli esponenti di FdI, a riportarli al livello di un confronto franco ma rispettoso”. Non ci si faccia ingannare dalla peraltro delicatissima rampogna. Ai suoi pupilli Giorgia Meloni non offre solo piena copertura. Riprende e rilancia tutte le loro argomentazioni. “Trovo paradossale che non si possa chiedere conto ai partiti della sinistra delle loro scelte, quando all’origine delle polemiche si colloca la visita a Cospito”. Di dimissioni non se ne parla proprio: “Non ritengo vi siano in alcun modo i presupposti”. L’assoluzione da parte del guardasigilli Carlo Nordio sta lì proprio per essere citata e Meloni provvede. L’accusa mossa dallo scalmanato Donzelli in aula era “sicuramente eccessiva”. Si sa come sono i ragazzi e chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma non potrà certo essere chi proprio contro di lei ha adoperato parole tanto forti come “mandante morale delle morti in mare”. La difesa dei due Fratelli era prevedibile, prefigurata dal silenzio dei giorni scorsi. La premier però non si ferma qui, si scaglia come loro contro il Pd. Le sembra “paradossale” che non si possa “chiedere conto ai partiti della sinistra delle loro scelte”. Sul banco degli accusati ci sono loro perché all’origine del fattaccio “si colloca oggettivamente la visita a Cospito di una qualificata rappresentanza del Pd” proprio quando “il detenuto intensificava gli sforzi di comunicazione con l’esterno”. E c’è di peggio: “Ben sapendo quanto alla mafia convenga mettere in discussione il 41 bis”, pur messi al corrente dal solerte Donzelli “dei rapporti tra Cospito e i boss”, autorevolissimi dirigenti del Nazareno “hanno continuato a chiedere la revoca dell’istituto per Cospito” fingendo di ignorare “le implicazioni che tale scelta avrebbe avuto nella lotta alla criminalità organizzata”. La lettera di Meloni è esplicita e volutamente chiara. La presidente non vuole correggere neppure una virgola. Conferma, ribadisce, rincara. Quelle di Donzelli non sono state parole dal sen fuggite. Sono una precisa strategia studiata per sottrarsi a ogni possibile critica per la scelta di mettere Cospito in pericolo di vita senza alcun motivo e per rovesciare le parti mettendo all’indice il Pd con l’accusa di favorire, se non per dolo almeno per superficialità, la mafia. Nonché di minare il santissimo articolo 41 bis. Non a caso ieri il capogruppo di FdI Foti ha presentato una mozione che impegna il governo a negare la sospensione del 41 bis a Cospito. Basterà mezzo voto in dissenso da parte della sinistra per ritrovarsi incollata addosso l’etichetta di amici dei mafiosi. È una manovra che sta riuscendo in pieno. Il Pd, dopo aver martellato per giorni chiedendo alla premier di esprimersi, replica, dopo troppe ore, con un comunicato che sembra battagliero ed è invece tutto sulla difensiva. Letta e le capogruppo Malpezzi e Serracchiani partono lancia in resta: “Una lettera che riattizza il fuoco invece di spegnerlo. Parole di un capo partito che difende i suoi oltre l’indifendibile e per farlo rilancia polemiche strumentali e livorose”. Il resto del comunicato però il Pd lo spende per smentire le accuse della ex missina. Il Pd che “ha nel suo dna la difesa della libertà, della democrazia” etc. I “tanti caduti del campo, vittime della nostra intransigenza nei confronti del terrorismo”. La “fermezza che teniamo oggi verso tentativi di sovvertimento dell’ordine costituito che non ci vedono e non ci vedranno mai ambigui”. Da ogni riga, da ogni virgola trapela la paura che le calunnie di FdI facciano presa e il Pd passi, se non per amico dei mafiosi, almeno per non abbastanza intransigente. È precisamente il terreno su cui la premier e i suoi scherani, fuori di testa solo in apparenza, volevano portare il Pd, e dove i 5S già troneggiano. Un territorio nel quale chiedere di sospendere il 41 bis, senza alcun pericolo per le istituzioni, per un detenuto che rischia la vita diventa complicità con Cosa Nostra. Il sentiero lungo il quale il Pd insegue da sempre trafelato la destra. Con esiti puntualmente disastrosi. Il vertice Pd per la linea dura: “Avanti tutta finché Donzelli e Delmastro non lasceranno” di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 5 febbraio 2023 Enrico Letta in videoconferenza con le capogruppo Malpezzi e Serracchiani. L’idea di una querela anche a nome del partito. Tra i parlamentari dem spuntano malumori sull’opportunità della visita all’anarchico in carcere. Linea dura, senza incrinature né - “per una volta”, commenta qualcuno - distinzioni nel Pd. La sollecitazione di Giorgia Meloni ad abbassare i toni - la tesi dopo la pubblicazione della lettera sul Corriere - non può essere accolta fino a quando Andrea Delmastro, responsabile di aver veicolato informazioni riservate sulle conversazioni di Alfredo Cospito in carcere, e Giovanni Donzelli, che le ha diffuse in Aula, non saranno indotti a fare un passo indietro o sollevati dai loro incarichi rispettivamente di sottosegretario alla Giustizia e vicepresidente del Copasir. Il ragionamento, tra gli esponenti del partito, è dritto: non si adoperano i ruoli istituzionali per fare battaglia politica, è stata violata una regola. È una questione di forma, oltre che di sostanza, e non può restare senza responsabili. “E poi, tanto più dopo le parole di Meloni, non tocca a noi, calmare le acque”, sostengono i dem. La lettera della premier e leader di FdI, il partito di Delmastro e Donzelli, infatti è stata letta con sorpresa e irritazione. E ha provocato un ulteriore irrigidimento: Meloni - si riflette tra i dirigenti - non chiede ai suoi di scusarsi, anzi ne fa una difesa d’ufficio e poi ribalta le accuse, la sua è quasi una provocazione. Ogni eventuale cambio di rotta, ogni ammorbidimento, quindi, è più difficile di quanto lo fosse fino a ieri. Nel Pd alle prese con il congresso nelle sezioni, quindi, tutti compatti dietro alla posizione espressa dal gruppo dirigente uscente: il segretario Enrico Letta e le due capigruppo Simona Malpezzi e Debora Serrachiani. Riuniti a ora di pranzo in una sorta di “gabinetto di guerra”, in videoconferenza, per replicare alla lettera che Meloni ha affidato al Corriere, hanno trovato immediatamente la linea comune. Quella della fermezza che non prevede passi indietro. Così vanno avanti anche le azioni annunciate nei giorni più roventi della polemica. Questa settimana non ci sono lavori parlamentari, per l’ultima settimana di campagna elettorale. Ma la mozione pd contro Delmastro è già stata depositata alla Camera. Si aggiunge a quella, nello stesso senso, presentata dal M5S. Le querele per diffamazione contro Donzelli e lo stesso Delmastro che hanno accusato in dichiarazioni in Aula e poi sui media gli esponenti dem che hanno fatto visita a Cospito in carcere, di stare dalla parte di terroristi e mafiosi, stanno per partire. Gli avvocati starebbero valutando anche se, al di là delle querele individuali dei quattro (tre deputati e un senatore) che sono stati al carcere di Sassari, già pronte, ci siano gli estremi per depositarne una a nome del partito “offeso nel suo complesso”. E tuttavia qualche incrinatura nella galassia pd, dopo cinque giorni di battaglia con FdI, emerge. “Molti malumori” sia nel partito, sia nei gruppi parlamentari dem, riferiscono alcuni esponenti, per la sottovalutazione dell’opportunità politica di far visita a Cospito in un momento di grandi tensioni e proteste originate dalla sua vicenda. “Col senno di poi è facile dire che non era opportuno”, sostiene chi difende la scelta dei quattro parlamentari, tra i quali la presidente del gruppo alla Camera e un ex ministro alla Giusitizia. “Un’istruttoria, prima di andare a Sassari, era un’opzione che politici esperti avrebbero dovuto considerare”, replicano gli atri. E le espressioni riservate da Cospito alla sinistra, portano argomenti alla tesi di questi ultimi. “Gli uomini della sinistra, che non conoscono la realtà del carcere né la mia figura, stanno strumentalizzando la mia protesta, trasformandola in una macchietta” è il giudizio che l’anarchico ha dato di azioni e dichiarazioni dei politici progressisti sulla sua vicenda. Frasi che risalirebbero a fine gennaio e che sono riportate nella nota di accompagnamento alle relazioni degli agenti del Gruppo operativo mobile (Gom) di Sassari sui colloqui tra Cospito e i mafiosi. Quelle relazioni inviate al ministero della Giustizia, che poi rivelate da Delmastro a Donzelli e da Donzelli a tutti, a Montecitorio, sono state la miccia dell’incendio che ancora divampa. Flick: “Un sottosegretario non può divulgare le informazioni ricevute dal Dap per ragioni d’ufficio” di Liana Milella La Repubblica, 5 febbraio 2023 L’ex presidente della Consulta: “I rapporti riservati devono essere usati solo per le finalità per cui sono stati consegnati”. E ancora: “Il ministro della Giustizia può revocare il 41bis perché il parere dei magistrati non è vincolante”. Lei, Giovanni Maria Flick, ha firmato l’appello dei giuristi per togliere Cospito dal 41bis. Lo farebbe anche oggi dopo la vampata anarchica che ha investito l’Italia? “Quel documento chiedeva di accertare in modo attento e scrupoloso le condizioni di salute di chi fa lo sciopero fame e di verificare se il carcere avesse una struttura sanitaria per affrontare peggioramenti ed emergenze. Questo appello lo sottoscriverei anche oggi”. Il sottosegretario Delmastro attacca il Pd perché è andato a trovare Cospito e avrebbe fatto un “inchino” ai boss. Incontrare un detenuto al 41bis significa sottoscrivere i suoi delitti o semplicemente verificare le sue condizioni di salute? “Mi pare evidente che la risposta è la seconda. I parlamentari hanno il diritto e il dovere di frequentare le carceri per controllare lo stato in cui si trovano e operare perché quel sistema venga cambiato per rispettare l’articolo 27 della Costituzione”. Anche i giudici costituzionali hanno fatto il viaggio nelle carceri e hanno incontrato i detenuti... “Menomale che lo hanno fatto. Il problema è evitare che mentre loro entrano dalla porta del carcere, la Costituzione se ne esca dalla finestra”. FdI è sulla linea del tutti in galera, ma un loro sottosegretario deve avere come faro la Carta o l’ideologia politica? “La sua non è una domanda, è già una risposta”. Il garantista Nordio non glielo dovrebbe ricordare? “Da quando in qua un terzo estraneo può sindacare i rapporti tra ministro e sottosegretario? Questa è cosa loro”. Per la sua storia - avvocato, docente di diritto, Guardasigilli, giudice e poi presidente della Consulta - lei ha ovviamente ben chiari i compiti del governo. Chi decide sul 41bis? Cartabia l’ha sottoscritto per Cospito, Nordio può toglierlo? “Certamente ha il potere di revocare un provvedimento amministrativo emanato dal suo predecessore. La legge prevede che senta il parere dei magistrati interessati, che però non è vincolante. La revoca deve fondarsi su circostanze o fatti nuovi rispetto alla situazione in cui il 41bis venne decretato”. Nordio gode di un potere assoluto e può ignorare il parere dei pm? Non c’è nessun potere assoluto, per fortuna quella stagione è finita, e anche male. Il ministro deve sentire per legge un parere che, ripeto, non è vincolante, ma comunque importante e deve tenerne conto nell’azione amministrativa di verificare se tuttora il 41bis sia necessario”. Le provocazioni anarchiche lo condizionano? “Non credo proprio. Non si può cambiare una legge per via della violenza in atto e neppure attraverso la richiesta del singolo con lo sciopero della fame”. E se Cospito morisse? “Mi auguro proprio che non accada. Ho apprezzato per questo il trasferimento del detenuto in un ambiente sanitario attrezzato”. Nordio deve decidere subito? “Finora mi pare che abbia fatto quello che c’era da fare, ma non spetta a me giudicare il suo comportamento precedente e quello futuro”. E non gli darebbe un consiglio? “Se fossi io il ministro risponderei, grazie, ma so sbagliare da solo”. Quando lei firmava i 41bis ricorda di aver avuto delle contestazioni? “Li firmava, su mia delega, il sottosegretario Ayala per la specifica competenza maturata come pm nel primo maxi processo a Cosa nostra”. Nordio ha affidato la delega sulle carceri a Delmastro. Lui può usare politicamente le informative del Dap anche “a diffusione limitata”? “Il sottosegretario che riceve rapporti riservati li deve usare solo per le finalità per cui gli sono stati consegnati con evidente riferimento ai suoi compiti istituzionali. Le informazioni ricevute per ragioni d’ufficio non possono essere divulgate. Altro problema è ritenere che la violazione del dovere di riserbo possa costituire un reato ai sensi dell’articolo 326 del codice penale, o se non sia semplicemente una violazione della riservatezza e della deontologia”. Gianrico Carofiglio: “Delmastro inadeguato al ruolo, ferita la credibilità della premier” di Andrea Malaguti La Stampa, 5 febbraio 2023 L’ex magistrato: “Barbarie contro il Pd, ma avrei evitato una delegazione vistosa in carcere. Il caso Cospito interroga le coscienze, ora qualunque scelta rischia di essere sbagliata”. Gianrico Carofiglio, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro dovrebbe dimettersi? “Secondo la grammatica politico istituzionale ci sono pochi dubbi al riguardo. Si trova in una situazione indifendibile per colpa sua e per il comportamento inaudito del suo compagno di appartamento”. Il suo compagno di appartamento, Giovanni Donzelli, è il vicepresidente del Copasir e quegli atti, magari, li avrebbe avuti lo stesso. Non è un peccato veniale averli condivisi? “Un conto è ricevere atti riservati per le vie istituzionali con tutte le necessarie garanzie e la connessa trasparenza. Un altro conto è l’opacità - uso un eufemismo - di questa condivisione privata e illegale. Seguita da un uso altrettanto illegale. Quanto a Delmastro, che per ruolo è destinatario naturale di atti segreti del Dap, ha dato la dimostrazione plastica di non essere all’altezza del suo incarico”. Giorgia Meloni pensa il contrario... “Era abbastanza chiaro che il sottosegretario si sentisse protetto ai livelli più alti. In fondo questa storia per le opposizioni è un bene, perché apre una ferita nella credibilità di una leadership che sembrava procedere senza errori. Questo, invece, è uno scivolone pesante che espone Meloni a facili attacchi”. È un bene anche per l’Italia? “Direi di no: la prima presidente del Consiglio donna si rende protagonista di una seria sgrammaticatura istituzionale a pochi mesi dalla sua elezione”. Torno a Donzelli. Più censurabile il suo comportamento o quello di Delmastro? “Ci sarei tornato io. Prima di rispondere vorrei fare una riflessione: si immagina come si sentirà un funzionario dello Stato quando sarà chiamato a parlare di dossier riservati davanti al Copasir, magari presieduto dallo stesso Donzelli, temendo che le sue parole possano diventare pubbliche dieci minuti dopo?”. Domanda retorica... “Domanda retorica”. Quanto alla gravità dei comportamenti? “Quello di Delmastro è di più immediata rilevanza da un punto di vista penale. Quello di Donzelli più grave da un punto di vista umano e politico”. La stravagante circolare del ministero della giustizia sostiene che nessun atto fosse secretato ma che la diffusione di quelle intercettazioni dovesse essere limitata. Dunque nessun reato... “Non commento. Le dico solo che il paradigma normativo per segreto d’ufficio è nell’articolo 15 del testo unico degli impiegati dello Stato. Dispone che il pubblico impiegato non possa comunicare, al di fuori dei casi previsti dalla legge, informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o conclusione, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni. Non c’è molto da aggiungere”. Carofiglio, lei sarebbe andato a trovare Cospito in carcere? “Non so rispondere, da parlamentare non sono mai andato in cella da nessuno. Ma questo dipende dal modo in cui ciascuno di noi interpreta il proprio ruolo”. Svicola... “Ma no: la visita a un detenuto in quelle condizioni era sacrosanta, esercizio di una fondamentale prerogativa parlamentare. Ciò detto: forse avrei evitato una delegazione così vistosa. La funzione di queste visite è di verificare lo stato di salute dei detenuti. Rischiare, anche involontariamente, di caricare di significati diversi queste scelte, finisce per esporti ad aggressioni barbare come è successo in questo caso”. Barbare? “Barbare. Credo che anche molti parlamentari di destra siano rimasti allibiti per le parole usate da Donzelli in Aula”. Non è legittimo chiedere alle opposizioni se stanno con lo Stato o con i terroristi? “Mi pareva di avere risposto. Ma ripeto volentieri: se un membro della maggioranza accusa l’opposizione di connivenze con mafia e terrorismo, sapendo benissimo che si tratta di un’accusa falsa e infamante, si tratta di barbarie politica”. Eppure, in una lettera al Corriere della Sera, la premier dice di trovare singolare l’irritazione del Pd, visto che i dem l’accusarono di essere la “mandante morale delle morti in mare”... “È una classica fallacia retorica, alla quale la premier ricorre spesso”. Cioè? “Attacco alla persona per non rispondere al merito delle questioni”. Dovrebbe dimettersi anche lei? “No, le basterebbe chiedere a Delmastro e Donzelli di farsi da parte”. Persino secondo il ministro Tajani, c’è un attacco contro lo Stato... “Una frase fatta per non parlare del merito delle cose”. Gli anarchici non fanno paura? “Le agenzie di sicurezza dello Stato sono in grado di affrontare molto efficacemente chi si comporta in modo violento. Certo, in questo momento c’è bisogno di grande attenzione. Il rischio di atti sconsiderati esiste, soprattutto se la politica non abbassa i toni”. Abbassare i toni. La pensa così anche Meloni... “Temo che la sua sia una richiesta poco credibile se consente ai suoi di accusare gli avversari politici di combutta con i terroristi”. Solo la destra deve abbassare i toni? “Tutti, ovviamente. Avere alzato, anche solo simbolicamente, il livello dello scontro è stata una pessima idea”. Come dovrebbe comportarsi lo Stato con Cospito? “Difficile dirlo ora. Con quello che è successo qualunque scelta rischia di essere sbagliata”. Giusto il carcere duro? “Per Cospito? Non so, avrei bisogno di leggere gli atti. Mi sembra che la galassia anarchica sia caratterizzata da spontaneismo anche nelle attività criminali. Non ci sono capi che dettano ordini. E il carcere duro serve proprio a evitare che i boss in cella mandino ordini all’esterno. Questo in via teorica fa sorgere qualche dubbio. Ma, ripeto non conosco gli atti e non voglio esprimere opinioni su cose così delicate senza avere tutti gli elementi necessari”. Cospito ha detto: se peggioro non voglio alimentazione forzata... “Lo so. Sono situazioni che interrogano le coscienze. Non vorrei essere al posto di chi deve prendere certe decisioni”. Stiamo per fare di un criminale un martire? “Il rischio di un epilogo drammatico esiste. Sarebbe una doppia sconfitta. L’idea della morte di un detenuto è molto amara a prescindere. In questo caso, poi, sarebbe difficile prevedere le conseguenze destinate a prodursi all’esterno”. Nel 2019 il ministro Nordio definiva il 41 bis “isolamento mortuario”. Adesso dice che è intoccabile... “Dal carcere duro alle intercettazioni la mia impressione è che il ministro faccia fatica ad andare d’accordo con se stesso. Non solo è ondivago, ma il suo livello di impopolarità tra i magistrati è senza precedenti nella nostra storia recente”. Carofiglio, il 41bis ha ancora senso? “Applicato in modo corretto, certamente sì”. Passaggio a Nordio: quante manovre intorno al ministero della Giustizia di Susanna Turco L’Espresso, 5 febbraio 2023 Dal caso Cospito al fantasma del Terzo polo. Dalle carte riservate usate da Fratelli d’Italia alla struttura che guida il dicastero. Con gli uomini di Matteo Renzi e di Carlo Calenda. E le donne. Mentre Giorgia Meloni deve decidere da che parte stare. Così via Arenula diventa il crocevia di tutte le trame. La penultima volta in cui Giorgia Meloni aveva dovuto garantire che fosse tutto a posto, ci aveva dovuto mettere la faccia, la foto e il messaggio di rassicurazione. Era il 26 gennaio, meno di dieci giorni fa. La premier aveva dovuto celebrare la scoperta dell’acqua calda con un vertice a Palazzo Chigi in cui diceva: esiste un programma sulla giustizia ed esiste il ministro che gode della “piena fiducia” per attuarlo, è Carlo Nordio, eccolo qui accanto a me. Era prima del 31 gennaio, altra data fatidica. Quella della controffensiva - diventata un mezzo boomerang - sul caso di Alfredo Cospito, il primo anarchico detenuto in regime di 41 bis, in sciopero della fame da oltre cento giorni per abolire il carcere duro. Alle sue richieste, quel giorno, il governo e il Guardasigilli rispondevano un no della fermezza e della mascella dura. Con tanto di conferenza stampa della trimurti ministeriale Nordio, Matteo Piantedosi, Antonio Tajani. Peccato che, proprio negli stessi minuti in cui Nordio estraeva il suo latinorum da tribunale e convegnistica, parlando di redenzione, espiazione e addirittura invocando l’Ecclesiaste solo per significare che sul regime di carcere duro lui sempre garantista aveva temporaneamente cambiato opinione (“è una vecchia questione filosofica se siano i tempi che fanno gli uomini o siano gli uomini che fanno i tempi, a questo mondo come insegna l’Ecclesiaste non c’è nulla di eterno”), ecco, proprio negli stessi minuti il reggente di fatto di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, gli rovinava tutta la scena. Rivelando ai quattro venti, in piena seduta della Camera, i dialoghi di intercettazioni riservatissime, contenute in una informativa proveniente proprio dal ministero di via Arenula, che gli erano state svelate dall’amico, coinquilino, sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, Andrea Delmastro (il quale nega trattarsi di materiale riservato). In questo modo, pur di mettere in mezzo il Pd nell’offensiva mediatica post gaffe sulle intercettazioni (“i mafiosi non parlano al telefono”, aveva detto Nordio due giorni prima dell’arresto di Messina Denaro), Donzelli ha fatto entrare, per la prima volta, nei resoconti ufficiali del Parlamento, dialoghi tra detenuti coperti da segreto (sul punto, la Procura di Roma ha aperto un fascicolo). E così, anche stavolta e nonostante tutte le cautele, il ministero della Giustizia si conferma il posto più fragile e delicato dell’intero governo. La casella che balla, il punto di frattura possibile che è nello stesso tempo il punto del massimo accrocco, il centro del prisma su cui si regge l’architettura del governo Meloni. Che è fatta da un asse principale, e da un asse di ricambio. Come si vide già il primo giorno della legislatura, quando per eleggere Ignazio La Russa presidente del Senato si materializzò una maggioranza alternativa, nella quale i voti di Forza Italia erano sostituiti da altri apporti trasversali. Il fantasma del Terzo Polo, formato dall’asse Renzi-Calenda, pronto a intervenire in caso di crisi interna al centrodestra. Una vena aurea sotterranea che si ritrova nella stessa architettura del ministero. Per esemplificarla, più che da Nordio, bisogna partire da quello che taluno chiama il caso delle due Giusi. Giuseppa Lara, detta Giusi, Bartolozzi, vice capa di gabinetto, e Giuseppina, detta Gippy, Rubinetti, capa della segreteria del ministro: quasi lo stesso nome di battesimo ma scarsa sintonia. Anzi, chi frequenta i corridoi di via Arenula sostiene che spesso e volentieri le due bisticcino. Eppure qualche punto in comune potrebbero trovarlo, e non solo perché entrambe hanno sostenuto i sì ai referendum sulla giustizia nel giugno 2022. Giusi Bartolozzi, magistrata e già parlamentare di Forza Italia, la porta sbattuta nel 2021 in seguito a un voto in dissenso sulla riforma Cartabia che le era costata il posto in commissione Giustizia e l’ira di Marta Fascina, molto vicina a Enrico Costa, ex responsabile Giustizia di FI, passato a Carlo Calenda, e compagna di Gaetano Armao, già vice di Musumeci alla Regione Siciliana e alle ultime elezioni nell’isola candidato proprio con Azione. Un’altra nuance di centrismo è quella rappresentata da Gippy Rubinetti: avvocata nello studio Michele Vietti, nel cda della fondazione Einaudi assieme, ad esempio, all’ex parlamentare renziano Andrea Marcucci, vicina a Luca Palamara, l’ex magistrato che trattava le nomine con il renzianissimo Luca Lotti e con Cosimo Ferri, già sottosegretario alla Giustizia e deputato di Italia viva, referente dell’ex rottamatore negli ambienti della magistratura. Ce ne sarebbe già abbastanza per capire quanto il terzo polo si sia allargato, e quanto siano agganciate alla realtà mosse come l’elezione del renziano Ernesto Carbone al Csm, o come l’esultanza di Matteo Renzi per l’elezione alla vicepresidenza di Fabio Pinelli, primo leghista a ricoprire quel ruolo (“serio, autorevole, credibile. Complimenti e buon lavoro”, il tweet con cui Matteo Renzi ha salutato la cosa) e, in generale, le molteplici aperture a una riforma della giustizia. “Io e tutto il Terzo polo stiamo dalla parte di Nordio e lo dimostreremo con le nostre proposte”, ha detto in sintesi proprio Costa, che è stato poi il primo (e più duro, a parte il Pd) a chiedere le dimissioni di Donzelli dopo le rivelazioni su Cospito. Ma c’è dell’altro. Alla poltronissima del Dap, quella che fece inciampare da Guardasigilli Alfonso Bonafede, è stato nominato il magistrato napoletano Giovanni Russo, che è fratello di Paolo Russo, deputato di lungo corso di Forza Italia e anche lui ora entrato in Azione come responsabile per il Sud, con una ampiezza di manovra archeo-forzista che, per dire, in Campania va dall’essere sponsor di Mara Carfagna all’essere amico di Nicola Cosentino. Insomma va a finire che Nordio è circondato da renziani e da calendiani spesso ex forzisti. E questo spiega l’attivismo con il quale la Lega e Forza Italia si dedichino invece a smontare l’attività di Carlo Nordio, dagli attacchi sulle intercettazioni alla cortese freddezza che proviene dal ministero dell’Interno guidato da Matteo Piantedosi, fino alla completa riscrittura del decreto rave operata in penombra da una avvocata abile come Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato. C’è da domandarsi se Giorgia Meloni sapesse dell’arietta terzopolista e renziana che avvolge Nordio già prima di sceglierselo o l’abbia scoperta solo a cose fatte. Di certo, la premier ha collocato di sua mano un altro bell’elemento di contrasto, sempre nel parterre Giustizia. Si tratta del sottosegretario Alfredo Mantovano, magistrato, supercattolico di destra, campione di Alleanza Cattolica, già vicino a Gianfranco Fini dal quale si allontanò ai tempi della svolta laica (fecondazione assistita, biotestamento, eccetera) per tornare ai tribunali, rappresentante di un’idea per cui la destra è il partito della legalità e della legge, e che quindi da questo punto di vista è l’esatto opposto del Nordio garantista. Non è un caso che Mantovano abbia confermato a vice capo del Dagl Roberto Tartaglia, nominato al dipartimento per gli affari giuridici e legislativi ai tempi di Draghi e noto per essere stato a Palermo, fra l’altro, uno dei pm del processo Trattativa Stato-mafia con Nino Di Matteo. Insomma una certa impostazione culturale, quella che il 18 gennaio ha portato lo stesso Mantovano, tra i fondatori del Centro studi Livatino, davanti alla reliquia della camicia insanguinata del giudice-beato esposta in Senato. Anche questa linea aveva una sua candidata alla vicepresidenza del Csm: la neoconsigliera Daniela Bianchini, avvocata, parte anche lei del Centro studi Livatino. Stavolta non è andata, ma la legislatura è lunga. La strategia di Meloni schiaccia Nordio e allontana le riforme di Giulia Merlo Il Domani, 5 febbraio 2023 Il guardasigilli ha dovuto avallare l’operato del suo sottosegretario, ma si è legato le mani da solo. La premier ha avallato le posizioni dei suoi fedelissimi, pur chiedendo di abbassare i toni, e il ministro non ha potuto che seguirla. Alla fine, il rischio è che l’unico vero perdente sia proprio il guardasigilli e soprattutto le sue iniziative di riforma della giustizia. La settimana di fuoco appena trascorsa lascia ferite ancora aperte a via Arenula. Il ministero della Giustizia è al centro della polemica su due fronti: il caso Cospito e quello che ormai è diventato il caso Donzelli-Delmastro. Su entrambi, con sfumature sia politiche sia giudiziarie, il guardasigilli Carlo Nordio sembra avere poco spazio per incidere. Alla fine, il rischio è che l’unico vero perdente sia proprio lui e soprattutto lo siano le sue iniziative di riforma della giustizia. Suo malgrado, infatti, si trova in prima linea su quella che è la linea del governo, finalmente esplicitata in modo chiaro dalla premier, Giorgia Meloni. In una lettera al Corriere della Sera, infatti, ha invitato tutti ad abbassare i toni, “anche gli esponenti di Fratelli d’Italia”, tuttavia ha blindato il sottosegretario Andrea Delmastro, per cui “non ci sono gli estremi per le dimissioni” e di fatto validato la linea di Donzelli. Meloni, infatti, ha ripetuto esattamente le accuse del suo fedelissimo: “Trovo paradossale che non si possa chiedere conto ai partiti della sinistra delle loro scelte, quando all’origine delle polemiche di questi giorni si colloca oggettivamente la visita a Cospito di una qualificata rappresentanza del Partito democratico, in un momento in cui il detenuto intensificava gli sforzi di comunicazione con l’esterno”. Parole che, invece di sopirla, rischiano di accendere ancora di più la polemica e che danno la dimensione di come l’iniziativa di Donzelli non sia stata un’iniziativa individuale, ma una linea precisa avallata dal vertice. Il caso Cospito - L’anarchico Alfredo Cospito, da 107 giorni in sciopero della fame al carcere di Milano Opera contro il regime di carcere duro, ha presentato ricorso anche al ministero per la revoca del 41bis. Per questo, oltre al ricorso in Cassazione la cui decisione è stata anticipata al 24 febbraio, il termine più impellente è quello del 12 febbraio. Entro questa data il ministero deve rispondere alla richiesta e, secondo la legge del 2009, la decisione deve essere preceduta dai pareri obbligatori della direzione nazionale antimafia, della procura che ha seguito il caso e del tribunale di sorveglianza. Quello dell’antimafia è stato interlocutorio: “Alfredo Cospito può restare al 41 bis oppure tornare al regime di alta sicurezza, con tutte le dovute cautele”, si legge nel documento. Contrario, invece, quello del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo. Manca quello del tribunale di sorveglianza, ma è già evidente come non sarà la magistratura a dare a Nordio la copertura per dire categoricamente no alla modifica del regime carcerario per Cospito. Del resto - come ha detto anche Nordio - è “controverso” quanto questi pareri siano vincolanti. Tradotto: la scelta di revocare la misura è sì coadiuvata dalle necessarie valutazioni dell’autorità giudiziaria, ma rimane un atto di valutazione politica del ministro. Tuttavia, Nordio ha già chiarito che non eserciterà le sue prerogative di decisione. Il rischio, infatti, è di venire lasciato solo con il proverbiale cerino in mano. Vista la politicità del caso, ha infatti detto che la decisione attesa per il 12 febbraio “verrà discussa in consiglio dei ministri” e ha auspicato anche un “dibattito parlamentare”. Politicamente il segnale è quello di un ministro stretto tra due fuochi. Da un lato fa parte di un governo che ha scelto la linea della fermezza, contro cui difficilmente reggerà una motivazione giuridica per la revoca della misura. Dall’altro c’è la forza di volontà del detenuto che ha già firmato il dat per non venire alimentato artificialmente. Tra questi opposti, il rischio è che a finire bruciato sia il ministro della Giustizia. Il caso Delmastro - A peggiorare la situazione, su via Arenula si è abbattuta la crisi più grave fino ad oggi. Il deputato di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, ha accusato in aula alla Camera i deputati Pd che erano andati a fare visita a Cospito di essere conniventi con i mafiosi e i terroristi. A sostegno di questo, ha utilizzato una relazione di servizio della polizia penitenziaria, che è un documento riservato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. A consegnarglielo, è stato il suo collega di partito e sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. Entrambi hanno sostenuto che l’atto fosse pubblicabile, nonostante si trattasse di una relazione su detenuti al 41bis. Al netto del ferocissimo scontro con l’opposizione, la responsabilità di questa pubblicazione è ricaduta indirettamente sul ministro, che prima ha preso tempo, parlando di atti “sensibili” e avviando un’inchiesta interna, poi però ha dovuto salvare il suo sottosegretario. Subito, infatti, è stato evidente che a prevalere sul diritto sarebbe stata la politica. Donzelli e Delmastro, infatti, sono due fedelissimi della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha glissato sul caso e con il suo silenzio ne ha avallato la condotta. Il muro di FdI ha fino ad oggi protetto il sottosegretario e, nonostante fonti del ministero abbiano confermato che il ministro era all’oscuro di tutto, Nordio è stato costretto a prenderne le difese. Con una nota, infatti, ha spiegato che “la natura del documento non disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati”. Anche se sul documento figura la dicitura “limitata divulgazione”. Il comunicato, prontamente rilanciato da Delmastro, ha di fatto legato le mani al ministro per una eventuale revoca delle deleghe. Così, però, Nordio rischia un incrinamento anche dei rapporti interni al ministero. Dal Dap, infatti, sono filtrate considerazioni esattamente opposte a quelle della sua nota e fonti hanno fatto sapere che l’atto usato da Donzelli “non era divulgabile nè cedibile a terzi”. L’interrogativo, ora, è quale dirigente ministeriale si fiderà a posare sulla scrivania di Delmastro atti delicati.La minaccia peggiore per Nordio, però, potrebbe arrivare dalla procura di Roma che ha aperto un fascicolo a carico Donzelli per rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio. Con il rischio che i pm smentiscano la tesi dello stesso ministero. I tormenti di Nordio - A imbrigliare Nordio è soprattutto Meloni. Fratelli d’Italia, che lo ha eletto, sta mostrando ora il suo volto securitario e soprattutto la volontà di fare quadrato intorno ai propri uomini, nel silenzio di Lega e Fratelli d’Italia che così hanno preso le distanze da quello che è ormai un caso tutto interno al partito della premier. Nordio sarà costretto a riferire di nuovo in aula, prestando la voce alla difesa d’ufficio di Delmastro. Ironia della sorte, proprio il sottosegretario con cui va meno d’accordo e con cui ha avuto gli scontri più accesi nelle scorse settimane sul tema delle intercettazioni. Nel tritacarne dello scontro rischia di finire proprio questa riforma annunciata da Nordio e che ha già prodotto un duro confronto con i magistrati. Il ministro ha detto di voler modificare le norme sulle intercettazioni, limitandole ai reati più gravi ed impedendone la illegittima pubblicazione sui giornali. Meloni ha scritto di trovare “singolare che ci si scandalizzi perché in parlamento si è discusso di documenti non coperti da segreto, mentre da anni conversazioni private - queste sì da non divulgare - divengono spesso di pubblico dominio”. Tuttavia, visti i dubbi che ancora permangono sulla pubblicabilità di atti che non sono nella disponibilità di tutti, la battaglia di Nordio per riformare le intercettazioni non può che venire indebolita. Cosa che - è il sospetto che circola in via Arenula - in fondo potrebbe essere una conseguenza inaspettata ma positiva proprio per FdI. Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, infatti, il partito di Meloni sta cavalcando la lotta alla mafia e tutti gli strumenti simbolo, dalle intercettazioni al 41 bis. Non a caso proprio Delmastro aveva messo anche pubblicamente paletti all’iniziativa riformatrice di Nordio. Ora, costringendo il ministro a difenderlo, potrebbe averla sabotata meglio che con le sole parole. Riforma della giustizia? Per ora è virtuale di Marco Bertoncini Italia Oggi, 5 febbraio 2023 C’è chi tende a escluderlo totalmente, chi afferma che un’intesa sarebbe difficile, che la necessità sussiste ma il malessere esploso in questi giorni lo sconsiglia. Invece sarebbe ora di riformare la giustizia. Bisogna ammettere, va da sé, che non si tratta di una riforma organica e globale. Se si guardasse oltre un secolo e mezzo di unità nazionale, potremmo ricordare due soli, concreti ed esaustivi esempi: la Costituzione, è ovvio, e la riforma della scuola legata al nome di Giovanni Gentile. La questione, semmai, è di avviare una parziale riforma della giustizia, almeno in qualche suo istituto. Carlo Nordio ne ha parlato sovente, in plurime sedi, sia in passato sia dopo l’assunzione al governo. Continuare a trattarne in maniera verbale, ondeggiando fra intendimenti sentiti e pratiche frenate da persone e fatti con i quali fare i conti, diventa sempre più sminuente nei riguardi di un ministro che trova sostegni nella maggioranza e fuori. Occorre che tanto Giorgia Meloni quanto Andrea Delmastro superino lo stallo attuato di fatto verso Nordio. Sarebbe ora che il sottosegretario Delmastro, prendendo atto della copertura effettuata in suo favore dal ministro, smettesse di agire da cane da guardia. Le questioni che il ministero della Giustizia potrebbero affrontare, con disegni di legge e (con più difficoltà) attraverso decreti-legge, sono molteplici: abuso d’ufficio, intercettazioni, trasformazione digitale, funzione statistica, attuazione del codice accusatorio Vassalli, rilascio di certificati, esecuzioni civili, limitazione della libertà personale direttamente in capo a un organo collegiale … Non è pensabile che due mesi addietro Nordio emettesse questi annunci, rimasti lettera morta. Il “pericolo anarchico” esiste solo nell’allarmismo del governo di Giovanni Tizian Il Domani, 5 febbraio 2023 Roma non è stata messa a ferro e fuoco dagli anarchici, nonostante ai negozianti fosse stato consigliato di abbassare le serrande. Ma Fratelli d’Italia continua nella strategia di far salire la tensione sulla giustizia. Per ora il pericolo anarchico è solo nelle parole della presidente del consiglio Giorgia Meloni. Lo ha detto l’altro giorno e lo ha fatto capire ieri con una lettera al Corriere della Sera online. Ha difeso ancora una volta i suoi Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli (vice presidente del Copasir) e Andrea Delmastro Delle Vedove (sottosegretario alla Giustizia), dopo la diffusione delle relazioni riservate sui colloqui tra l’anarchico insurrezionalista Alfredo Cospito e alcuni boss di mafia reclusi al 41 bis. Quel materiale era stato usato per colpire l’opposizione, accusata in aula di stare dalla parte di terroristi e mafiosi. Tuttavia, secondo Meloni non meritano le dimissioni. Il pericolo anarchico, invece è anche quello delle manifestazioni che si sono tenute ieri. La lettera di Meloni al Corriere è stata pubblicata online nel pomeriggio, in perfetta concomitanza con la partenza del corteo degli anarchici a Roma. Lì è filato tutto liscio o quasi: all’appello hanno risposto 500 persone tra studenti, militanti dei centri sociali e anarchici. Solo alla fine, intorno alle 18.30, un piccolo gruppo di incappucciati si è staccato, rompendo vetri, incendiando una centralina elettrica e ribaltando tre cassonetti della spazzatura. L’azione non è stata condivisa da tutti, a tal punto da creare tensioni tra i partecipanti presenti in quello spezzone di corteo. Sono così partite le cariche della polizia. Il tutto è durato pochi minuti e poi tre persone sono state portate in Questura. Ma è stato un lampo di violenza in una giornata di assoluta tranquillità. Anzi, sono proprio gli anarchici sul furgone di apertura del corteo a denunciare: “Hanno caricato un corteo mentre entrava nel quartiere. Ci sono due ragazzi con la testa spaccata. Sono stati manganellati”. Dal muro di casse piazzato sul furgoncino bianco che apre il corteo il suono è potente: non ci sono Bella ciao o Bandiera rossa, all’inizio è musica techno da rave party, l’altra grande entità nemica numero uno di questo governo. I cori, invece, quelli sì, richiamo la Resistenza (“ora e sempre”), le lotte contro il potere, “pagherete caro, pagherete tutto” e naturalmente la libertà, “Alfredo libero dal 41 bis”. In piazza Vittorio a Roma il presidio, poi diventato corteo senza autorizzazione, non si è trasformato in una guerriglia urbana. La manifestazione per sostenere la battaglia contro il carcere duro (41 bis) portata avanti dall’anarchico Cospito, condannato tra le altre cose per la gambizzazione del manager di Ansaldo Nucleare, è stata pacifica. Cospito è in sciopero della fame da 108 giorni. Inizialmente ristretto a Sassari, è stato trasferito a Milano nel penitenziario di Opera, sempre al 41 bis ma con la possibilità di cure che in Sardegna non sarebbe stato possibile assicurargli, visto il suo stato di salute. “La Questura ce l’ha messa tutta a descriverci come mostri in combutta con la mafia, saremmo demoni disposti a tutto secondo questa narrazione”, dice una delle militanti a lato del furgone addobbato con la bandiera rossa e nera. Terrorizzare - C’è un fatto che fa capire bene il tentativo di creare un clima di paura nel paese. È accaduto nei giorni che hanno preceduto il sabato della manifestazione per Cospito. Le forze dell’ordine, con i vigili urbani in testa, “sono passati negozio per negozio a suggerire ai negozianti di chiudere le serrande”, denunciano gli organizzatori. E in effetti attorno alla piazza, e nei dintorni, è un deserto: i locali sono chiusi e i commercianti sono a casa. Eppure c’è un chiosco aperto. Il titolare conferma a Domani il racconto degli anarchici: “Hanno seminato er terrore, er panico “, dice in romanesco mentre serve caffè e birre in bottiglie di vetro. “Volevano farci chiudere, e io gli ho detto che avrei tenuto aperto visto che non esisteva un’ordinanza formale che mi impediva de lavorà. Sapevamo che sarebbe stato tutto tranquillo”. Questo racconto spiega a meraviglia il clima che vorrebbe creare chi gestisce l’ordine pubblico, fondato sui messaggi inviati dal governo contro il pericolo anarchico. “Non ci sono allarmi particolari”, spiega un’autorevole fonte dell’antiterrorismo. “Il mondo anarco insurrezionalista è monitorato da un decennio e non abbiamo segnali particolari di innalzamento del livello di scontro”. Gli errori del governo - Di certo, per adesso, la tensione è cresciuta nel paese per merito del governo e della gestione del caso Cospito. La coppia Donzelli e Delmastro Delle Vedove ha contribuito molto a scaldare gli animi e le piazze. Con le loro dichiarazioni e le loro allusioni, rivolte soprattutto all’opposizione del Pd. Il metodo Donzelli ha innalzato il livello dello scontro, e potrebbe avere conseguenze anche sulle proteste, soprattutto su quelle future. Molto dipenderà da cosa accadrà nei prossimi giorni. Dalla decisione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha ricevuto i pareri richiesti sul mantenimento o meno del 41 bis per Cospito. La procura nazionale antimafia e antiterrorismo guidata da Giovanni Melillo è stata chiarissima: non chiedono la proroga del carcere duro per l’anarchico. A differenza della procura generale di Torino, che vorrebbe la conferma. Tocca perciò al governo fare il governo. E sbrogliare la matassa con le armi della politica e non della propaganda, che per sua natura vede e individua nemici ovunque. Il governo Meloni e l’allerta anarchici: repressione e manganello, il terrore è tornato di Paolo Becchi Il Riformista, 5 febbraio 2023 A ciascun governo, la sua emergenza. Sembra essere questa, ormai, la regola della politica italiana, da qualche tempo. Alluvioni, crollo di un ponte, per governi un po’ incolori, migranti, epidemie, guerre, per quelli a cui piace il gioco duro. Cosa c’era allora di meglio, per un governo “dio-patria-famiglia”, della vecchia emergenza “rossa”, anarchico-insurrezionalista? È bastato il caso Cospito, una vicenda penosa che si trascina ormai da mesi. Penosa, anzitutto, nei suoi aspetti giudiziari: perché ancora non si è ben capito cosa giustifichi l’applicazione del 41-bis, un regime pensato nella sua formulazione attuale per i capi mafiosi, a Cospito. Per i giudici, Cospito andrebbe tenuto in isolamento perché, comunicando con l’esterno, continuerebbe ad esercitare il suo ruolo di “leader” nei gruppi anarchici - che, per definizione, non hanno leader. Per il ministro Nordio, poi, “l’ondata di violenza e di gesti vandalici e intimidatori sono […] la prova che il legame tra il detenuto e i suoi compagni esterni rimane, e tenderebbe a giustificare il mantenimento del 41bis”. Manifestare contro il 41-bis costituisce la prova della necessità del suo mantenimento. La macchina dell’emergenza, a questo punto, si è messa in moto. Sanremo a rischio di attentati. A Roma i palazzi dei ministeri difesi da esercito e polizia in attesa dell’imminente attacco degli anarco-insurrezionalisti pronti a seminare il caos. Lo Stato adotta il pugno duro e la linea della “fermezza”: non si tratta, non si cede ai ricatti degli anarchici. Cospito resta dov’è, o meglio al momento in ospedale, sperando così almeno non crepi o crepi all’ospedale. Aspettate qualche giorno, e tutti saranno convinti che in questo paese esista un pericolo di terrorismo, di matrice anarchica, e che occorrano le maniere forti: più controlli, più polizia, niente proteste. Il terrore rosso è tornato. Due riflessioni credo siano, a questo punto, d’obbligo. La prima è che penso che difficilmente, fino a ieri, si sarebbe trovato qualcuno disposto a sostenere seriamente e pubblicamente che in Italia, oggi, esisterebbe una minaccia di terrorismo anarco-insurrezionalista. E questo dovrebbe dimostrare in modo chiaro come l’”emergenza” non è la causa, ma la conseguenza del fatto che essa venga dichiarata, percepita come tale, prodotta dalla stampa, dai media, dagli appelli del governo, e così via. È un vecchio trucco della politica: si dichiara che esiste un pericolo, anche quando non c’è, per poter mettere in atto una serie di meccanismi per prevenirlo e reprimerlo. A quel punto questi stessi meccanismi favoriscono la possibilità che quel pericolo si concretizzi per davvero, che qualche attentato avvenga sul serio, qualche bomba venga fatta esplodere. Ed il fatto che si concretizzi giustificherà le misure repressive inizialmente adottate - ed anzi legittimerà ad adottarne di nuove, o intensificare la repressione. Per quanto tutto questo dovrebbe, ormai, esser noto a tutti, evidentemente continua comunque a funzionare. Vengo alla seconda considerazione: possibile che, in un tempo di “psico-politica”, in una società in cui il controllo, ormai, è assicurato in modo capillare dai mezzi invisibili del capitalismo digitale (flussi di dati costantemente prodotti da noi stessi in modo “volontario”, visibilità assoluta di ogni nostro spostamento, acquisto, comunicazione con gli altri), ancora si usino questi vecchi metodi da “generazione del manganello”? Certo in molti esponenti di questo governo è forte la nostalgia per i cari vecchi anni Settanta, alle vecchie adunate con bastoni e catene. Ma non credo basti a spiegare quel che accade. La verità, forse, è che il vecchio ed il nuovo non sono mai in rapporto di successione l’uno con l’altro, ma sono tali proprio perché sempre coesistono, per lunghi periodi, e danno spesso luogo a forme ibride: bastone e web, smartphone e moschetto. Ed è questa ibridazione che, oggi, sembra fare miracoli, tanto è divenuto facile far diventare reale un pericolo che non esiste, far precipitare un Paese in una emergenza vecchia di cinquant’anni, e far sì che tutto questo, in qualche modo, accada. Per questo il “caso” Cospito - che sembra richiamare strani fantasmi del passato - in realtà è anche di una attualità folgorante. Per ora Nordio ha separato le carriere di sé stesso di Mattia Feltri huffingtonpost.it, 5 febbraio 2023 Ci chiedevamo quanto il garantista Nordio avrebbe contaminato un governo giustizialista, ma per il momento il governo giustizialista si è ingoiato il garantista Nordio. Così non abbiamo più il Nordio pensatore e non abbiamo ancora il Nordio ministro. Credo sia un obbligo per noi sostenitori dell’applicazione costituzionale agli affari di giustizia - non dico noi garantisti sennò qualcuno potrebbe sospettare un inchino ai mafiosi - confidare nonostante tutto nell’effetto benefico di Carlo Nordio su un governo filosoficamente cresciuto alla scuola di Alcatraz. Da tredici mesi, da quando Giorgia Meloni candidò Nordio alla successione di Sergio Mattarella, ci si chiede quali affinità elettive leghino la prima al secondo, e ancora più ce lo si chiede da quando la prima ha voluto il secondo al ministero della Giustizia, poiché storicamente sulle questioni penali dove lei dice sì lui dice no, e dove lei dice no lui dice sì. Ma siccome non ci muoviamo con disinvoltura nell’ambito dell’esoterico, qui a Huffpost ci siamo limitati a domandarci come sarebbe andata la contaminazione culturale, e cioè quanto Nordio avrebbe indirizzato a sé la destra e quanto la destra avrebbe indirizzato Nordio a sé. Finora è andata come dovevamo immaginarci: poiché rappresenta una minoranza etnica, Nordio ha ricevuto un’accoglienza degna di un immigrato clandestino sbarcato a Lampedusa. Cioè un intruso, e non l’hanno ancora ributtato a mare per motivi di opportunità estetica, più o meno le stesse per le quali il governo della propaganda nazionalista e autarchica si rizza sull’attenti (per fortuna) al cospetto di ogni potere forte, dalla Nato all’Unione europea alla Bce ai mercati ex satanici. Però rimane a schiena diritta, con pochissime ragioni e molti torti, davanti ai poveracci, quelli del reddito di cittadinanza, delle carceri, dei barconi. E il nostro Nordio - lo dico aggrappato a un pregiudizio positivo - procede in tradimento di sé stesso per encomiabile utilitarismo, poiché dopo di lui le cose potrebbero andare soltanto peggio: potrebbe piovere. Ma che cosa resta di Nordio in Nordio, dopo il suo sostegno alle pene di ispirazione iraniana agli organizzatori di rave party? Che cosa resta dopo il cedimento alla finta riforma dell’ergastolo ostativo, da lui definito soltanto poche settimane prima “un obbrobrio (…) in stridente conflitto con ogni principio umano e divino di giustizia”? Dopo aver difeso con imbarazzante goffaggine Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro, mentre ancora rimbombavano le sue parole sulla “diffusione arbitraria delle intercettazioni”, che “non è civiltà né libertà” e contro la quale “sono pronto a battermi fino alle dimissioni?”. E cioè, Donzelli e Delmastro, l’uno vicepresidente del Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), l’altro sottosegretario alla Giustizia con delega al Dap (amministrazione penitenziaria), si consociano per diffondere intercettazioni - o trascrizioni, poco cambia - di chiacchiere afferrate in carcere fra l’anarchico Alfredo Cospito e alcuni boss mafiosi, e le diffondono nel luogo pubblico per eccellenza, il Parlamento, e per dozzinali scopi politici, e la trovata per Nordio non rientra nella “diffusione arbitraria delle intercettazioni”, non la vive come una plateale e spudorata delegittimazione, architettata per di più da Delmastro, un suo diretto sottoposto. No, si mette a cavillare sulla natura delle intercettazioni, non “segretate” bensì “a diffusione limitata”, come se fosse meno grave, come se carte “a diffusione limitata” siano diffondibili in un dibattito parlamentare, che equivale a diffonderle al paese intero, anarchici e mafiosi compresi. Vorrei anche indagare su come siano conciliabili le sue pregresse opinioni sul carcere (“la pena non deve essere crudele, deve rieducare il condannato”) con il regime carcerario riservato a Cospito, oppure se apprezzi il suddetto sottoposto, il sottosegretario Delmastro, che traduce in un inchino ai boss la visita in carcere a Cospito e ai suoi compagni di prigionia dei parlamentari del Pd, poiché Nordio esordì da ministro visitando Regina Coeli, e disse: “Non significa essere buonisti, ma applicare la Costituzione”. Ma il panorama è già sufficientemente sgombro per vedere Nordio isolato e accerchiato, le opposizioni non gli hanno mai teso la mano per ragione sociale e tantomeno potrebbero tendergliela adesso, la maggioranza lo irride, lo scansa e nemmeno tanto lentamente lo piega a una costante abiura di fatto, la presidente del Consiglio tace fingendo di non vedere violazioni e contraddizioni, la magistratura stappa le migliori bottiglie al disarmo di un ministro sventolante il progetto di una riforma della giustizia che culmini addirittura con la separazione delle carriere, e per ora si è assistito soltanto alla separazione della lunga e nobile carriera del Nordio pensatore con la carriera del Nordio ministro. Così non abbiamo più il Nordio pensatore e ancora non abbiamo il Nordio ministro. Dal vertice dell’Anm al lavoro con Nordio, scoppia il caso tra i magistrati di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 febbraio 2023 Antonio Sangermano era nel direttivo dell’Anm per la corrente di destra. Il ministro lo ha chiamato a dirigere la giustizia minorile. L’accusa delle altre correnti: “Lo statuto vieta i passaggi diretti. Così rischiamo il collateralismo”. Da giorni i commenti circolavano sottotraccia. Ieri il caso è esploso all’avvio della riunione del parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati. Un’altra toga, Antonio Sangermano, capo della procura dei minori di Firenze, è stata chiamata da Nordio al ministero. Guiderà il dipartimento della giustizia minorile. Per quasi tutti la particolarità della notizia sta nel fatto che adesso collaborerà con il governo di destra il pm che accusò Berlusconi nel processo Ruby a Milano. L’unico che sia riuscito a ottenerne la condanna (7 anni), poi i comportamenti del Cavaliere non furono ritenuti penalmente rilevanti, tanto che fu assolto in appello e Cassazione. Per l’Associazione nazionale magistrati la straordinarietà sta invece nel fatto che Sangermano passa direttamente dal vertice del “sindacato delle toghe” - fino al 20 gennaio era infatti nel comitato direttivo centrale - al ministero che fa da controparte all’Anm. È Paola Cervo, giudice della Corte di appello di Napoli, a presentare al parlamentino dei magistrati un documento di Area, una delle due correnti di sinistra, che solleva “un problema politico evidente: il passaggio diretto a un ruolo apicale, strettamente fiduciario nella scelta, espone l’associazione al rischio di essere considerata vicina al potere politico… Speriamo che non sia il segno di una vicinanza, che è cosa ben diversa dalla leale collaborazione”. Sangermano è uno degli esponenti di punta di Magistratura indipendente, la corrente di destra che ha vinto le elezioni per il Csm. In passato è stato della corrente centristra di Unicost, uscita terremotata dallo scandalo Palamara, Sangermano guidò il passaggio di un pezzo di quella corrente nella destra di Mi. Se la questione della collaborazione delle correnti con i ministri della giustizia è eterna (le correnti si rinfacciano a turno il collateralismo), non si trovano precedenti di un salto diretto dal vertice dell’Anm al ministero. Anche perché è un salto vietato dallo statuto dell’associazione che all’articolo 25-bis dispone: “Gli associati si impegnano a portare a termine gli incarichi elettivi assunti fino alla loro naturale scadenza” e che i componenti del comitato direttivo “si impegnano a non accettare incarichi fuori ruolo di qualsiasi natura prima della scadenza”. L’autodifesa di Mi è gracile: la regola c’è ma non è tassativa perché non è prevista sanzione. Eppure Sangermano sarebbe stato sicuramente espulso dall’Anm per violazione dello statuto, se non avesse pensato lui stesso a dimettersi prima, in tempo per accettare l’incarico al ministero. L’unico precedente che si ricordi riguarda ancora Mi ed è quello di Cecilia Bernardo, giudice del Tribunale di Roma che fa parte della giunta esecutiva dell’Anm (è direttrice della rivista dell’associazione) e da quella posizione “esecutiva” è entrata nel gruppo di lavoro chiamato da Cartabia per la riforma del processo civile. Ed è rimasta tra gli esperti che hanno deciso, con Nordio e su pressione della Ue, l’anticipo a marzo della riforma (invece che a luglio) tra le proteste di avvocati e magistrati. Sul rischio di attrazione fatatali tra il governo e una parte delle toghe l’Anm è sul chi va la. Proprio Sangermano era stato protagonista di un acceso scontro con le correnti di sinistra nella prima riunione del comitato direttivo dopo le elezioni politiche, a ottobre, perché aveva invitato a non fare un’opposizione pregiudiziale al governo. Alla prima prova, i magistrati eletti da Mi nel Csm hanno fatto blocco con i consiglieri laici della destra per eleggere il vicepresidente indicato dalla Lega. D’altra parte, la prassi di chiamare soprattutto magistrati negli uffici di diretta collaborazione Nordio l’ha solo ereditata. Il ministro ha scelto da Magistratura indipendente il capo di gabinetto, Alberto Rizzo, il nuovo capo del Dap, Giovanni Russo, il nuovo capo del legislativo, Antonio Mura. Mentre è della sinistra di Magistratura democratica Gaetano Campo, nuovo capo dell’organizzazione giudiziaria. La ragione è intuibile, considerate le conoscenze e le esperienze che possono vantare le toghe, eppure è stata sempre oggetto di polemiche feroci da parte della destra. Un esempio? I tanti interventi di una toga in aspettativa nella scorsa legislatura, Giusi Bartolozzi, eletta alla camera con Forza Italia. Per esempio questo contro la riforma Cartabia: “Volete velocizzare i processi? Lasciate i magistrati in magistratura. Invece no, concedete loro di andare nei ministeri, in quelli uffici dove vai perché sei amico della politica o perché sei appartenente alle correnti, altrimenti non ci vai”. Adesso è con Nordio, vice capo di gabinetto. Noi, persone prima che detenuti La Stampa, 5 febbraio 2023 La lettera dei carcerati di San Vittore: “Qui dentro si rischia di perdere la dignità. I nostri diritti sembrano solo retorica, ma ci aiutano a capire davvero gli errori”. I detenuti di “Costituzione Viva” - Con questo articolo, inizia una collaborazione tra La Stampa e “Costituzione Viva”, un gruppo di detenuti del carcere milanese di San Vittore, uno dei più grandi d’Italia. La loro voce sarà una testimonianza della vita “dentro” e del lavoro portato avanti in questi anni sulla legalità e la Costituzione, dopo l’incontro con la Corte costituzionale. Ascolteremo i disagi e le aspettative di chi ha commesso reati, anche gravi, che sa di aver sbagliato e di dover saldare i conti con la giustizia, ma che non si rassegna all’idea di essere considerato uno scarto della società. Daremo voce a chi, attraverso un percorso di revisione critica, l’impegno e il confronto con il mondo “fuori”, spera di poter tornare, in quella società, come cittadino. Lo facciamo perché, proprio nel momento in cui riesplodono le polemiche sul carcere, sul 41 bis, sull’ergastolo ostativo, e torna a soffiare il vento oscurantista di chi vuole “chiudere le gabbie e buttare via le chiavi”, noi crediamo che la forza dello Stato non si misuri sulla sua voglia di vendetta, ma sulla sua capacità di garantire i diritti fondamentali di tutti, anche degli ultimi. Lo facciamo perché siamo ancorati ai valori della Costituzione, che all’articolo 27 sancisce il principio della funzione rieducativa della pena. Lo facciamo perché siamo convinti che un carcere è giusto se rispetta la dignità delle persone e offre concrete occasioni di cambiamento. Lo facciamo perché abbiamo fiducia nell’umanità. E perché questa per noi si chiama civiltà. ---------------------------- Caro Direttore, siamo un gruppo di detenute e detenuti del carcere milanese di San Vittore, che lavora sulla Costituzione nell’ambito di un progetto chiamato “Costituzione Viva”, nato cinque anni fa dopo l’incontro in carcere con la Corte costituzionale. Qui a San Vittore il “viaggio” della Corte nelle carceri è passato tre volte e ci ha aiutato a costruire un linguaggio comune. Le chiediamo ospitalità per raccontare da “dentro”, per la prima volta, quel viaggio di cui tanto si è parlato anche sui media, sia per spiegare il senso che ha avuto per noi sia per dare un contributo alla conoscenza del carcere sia, infine, per testimoniare il nostro impegno a partecipare al dibattito civile. Per molti di noi è stata una prima volta... No, non sapevamo proprio che esistesse un giudice capace, addirittura, di cancellare le leggi. Neppure sapevamo molto dei diritti e della dignità garantiti dalla Costituzione a tutte le persone, comprese quelle come noi, chiuse in carcere. Ne avevamo un’idea vaga, come di parole belle ma lontane, che suonavano piuttosto vuote in questi corridoi. Di una dignità che si perde subito, a partire dal denudamento iniziale, quando entri in carcere. Di principi facili da aggirare e calpestare, quando rispettarli sarebbe scomodo. Di una retorica alla quale si può restare indifferenti. Il Viaggio della Corte costituzionale nelle carceri ha cambiato tutto questo. Abbiamo lavorato e discusso a lungo - con l’aiuto soprattutto dei volontari - per mettere a fuoco, a partire dal “basso”, cioè dalla concretezza dell’esperienza che ciascuno fa nella quotidianità della sua vita, alcune domande “alte”, generali, capaci di andare al di là delle nostre storie personali. Pensando a come e cosa chiedere, abbiamo sentito crescere la responsabilità: in un certo senso, avremmo parlato a nome di molte persone nelle nostre stesse condizioni, che non hanno avuto l’occasione di essere ascoltate. Questo lavoro ha impegnato uomini e donne di varie età, religioni e nazionalità. Spesso diventava difficile mettere da parte la rabbia, il malessere, la frustrazione per i tanti problemi. A tratti si faceva fatica a parlare in modo costruttivo. Non sono mancati dibattiti accesi, pieni di fervore. È importante sottolinearlo subito: in ciascun incontro, i giudici hanno risposto alle nostre domande. I temi sono stati tanti: la recidiva, le misure di sicurezza, il sovraffollamento, la tutela della salute anche mentale, le dipendenze, i rapporti con la famiglia e i figli, il lavoro, quello che ci attende all’uscita da qui. I giudici hanno dato risposte precise e comprensibili, anche se si trattava di questioni complicate. Non sono venuti a fare prediche o, come qualcuno ha detto, a fare catechismo: sarebbe stata un’immagine avvilente, infantilizzante, per tutti, come se i detenuti potessero fare solo “domandine” (così viene chiamato, nel gergo carcerario, il modulo per chiedere di partecipare ad attività, incontrare persone ecc...) e i giudici dovessero dispensare pensierini buoni. Non si è trattato di risposte accomodanti o preconfezionate, di contentini calati dall’alto; ma di ragionamenti lucidi e impegnativi, fatti con rispetto, senza trattarci come bambini o mostri. Insomma, c’è stato un lavoro da entrambe le parti e, al momento del confronto, una certa dose di empatia. Come avrebbe potuto essere diversamente, parlando di situazioni disumane come quelle degli anziani o dei malati psichiatrici in carcere o dei suicidi? Questo ha facilitato la comunicazione. Un conto è parlare, anche con i giudici, sulla carta. Un altro, è farlo direttamente, con il tono della voce che sale o scende secondo i momenti, le pause, i silenzi. Negli incontri preparatori, e poi con i giudici, il tempo a disposizione sembrava sempre finire troppo presto. Che questo accada in carcere, credeteci, è un lusso! Dal nostro punto di vista, il “viaggio” ha avuto diversi significati. È stata anzitutto un’occasione per imparare, e per riflettere su alcune cose. Ad esempio, che i diritti sono proprio diritti, non privilegi né concessioni dall’alto o forme di benevolenza che, secondo i casi, possono valere oppure no. Che nella Costituzione i diritti si accompagnano ai doveri. Che è difficile tenere tutto assieme: non avevamo mai sentito parlare di “bilanciamento”, ma abbiamo iniziato a capire quanto è difficile e importante. Parlare di diritti è anche un modo per ragionare sulla responsabilità, la nostra: abbiamo cominciato a parlare di diritti partendo dai nostri ma il passo successivo è stato capire il collegamento con quelli degli altri e riconoscerli. Quando si ignora tutto questo, è più facile la strada verso la violazione della legge. Inoltre, la riflessione su come si responsabilizza una persona, su come la si rende attiva e partecipe di conoscenze e decisioni, serve anche a capire meglio la pena, la sua misura e quantificazione, ciò che la rende giusta e proporzionata, soprattutto ciò a cui dovrebbe servire. Uno fra noi - forse con un po’ di utopia - ha osservato che sarebbe importante, al momento di decidere la pena, che si desse al condannato la possibilità di dire qualcosa sul tipo e sulla quantità della pena che merita, appunto per renderlo corresponsabile. A un altro di noi, un vecchio detenuto, è tornato in mente un processo in cui era stato condannato con altri sette imputati. Alla fine dell’udienza il giudice, dopo avere letto la sentenza, si è rivolto a ciascuno dei condannati spiegando perché aveva inflitto proprio quelle pene e perché, caso per caso, le pene erano differenti. Nessuno dei condannati - tutti recidivi - si era mai trovato in una situazione simile. Allora, nessuno si permise di parlare di condanne ingiuste. Al di là dei tanti anni di carcere, il nostro compagno si sentì rispettato come persona. La pena spiegata è una pena di cui si capiscono più facilmente ragioni e finalità. Ancora, abbiamo capito perfettamente, come ha detto il presidente Amato, che la Costituzione contiene formule in technicolor, mentre la realtà della legge e soprattutto della sua applicazione è ancora in bianco e nero. Ma abbiamo anche capito che la Costituzione continua a segnare la direzione in cui ci si deve muovere, che le aspettative frustrate non devono diventare alibi e facili giustificazioni. Questo rimane vero anche se la strada sembra ancora lunga e difficile. E vale sia per noi, sia per la società. Noi con le nostre responsabilità cominciamo a fare seriamente i conti, ma ci ha colpito molto leggere in una sentenza della Corte (n. 149 del 2018) della “correlativa responsabilità della società” nello stimolare il condannato alla revisione del proprio passato, per favorire il progressivo reinserimento nella società. Su questo cammino si incontrano ostacoli insormontabili: la recidiva è un fallimento per tutti. Certe volte si ha la sensazione che sia più comodo considerarla una sorta di malattia incurabile. Tante volte, dopo i vari incontri, siamo tornati in cella indignati, sconfortati, afflitti. Ma abbiamo cercato anche di essere obiettivi. Imparare a convivere con questa rabbia, con i sentimenti di impotenza, con la consapevolezza che di questo stato di cose siamo responsabili anche noi: anche questo ha fatto parte del “viaggio”. Infine, bisogna ricordare che il carcere è un muro che ci separa dal mondo esterno e che tutto ciò che contribuisce ad attenuare questa separazione è positivo. Vale anche nel rapporto con i giudici: quelli di sorveglianza che applicano la legge penitenziaria; quelli costituzionali che - abbiamo appreso - giudicano quella stessa legge e, in questo modo, influiscono sulla sua applicazione. Con le loro visite, i giudici hanno contribuito ad abbassare quel muro, parlando con noi, guardandoci in faccia e scegliendo le parole e i gesti per una comunicazione diretta. Questo ci ha fatto sentire degni di ascolto, anzi di più: titolari del diritto a essere ascoltati, di scambiare idee, proposte, critiche e dissensi; meritevoli dell’attenzione che spetta a ogni persona e che non si dovrebbe perdere insieme alla libertà personale, per il fatto di essere in carcere. Insomma, il faccia a faccia con un’istituzione ci ha fatto sentire cittadini di una democrazia, in cui ognuno ha la propria dignità sociale, che sia malato, prigioniero o migrante. Roma. In piazza per Alfredo, anarchici e non solo di Mario Di Vito Il Manifesto, 5 febbraio 2023 Non è stato il mondo di Alfredo Cospito a scendere in strada ieri a Roma. Del resto sarebbe stato difficile: lui, individualista convinto, ha sempre avuto una certa allergia per i cortei, le assemblee e chi fa cose del genere. Non è un mistero: le famose lettere dal carcere - rintracciabili nei blog di area anarchica e in alcune pubblicazioni dalla ridottissima circolazione ma certo non clandestine - erano tutte un’esortazione a non unirsi in collettivo e a non discutere delle azioni fatte. Casomai l’invito era a prendere spunto. Perché funziona così: non si danno lezioni, né si spiega cosa bisogna fare. E allora in mancanza di buoni consigli resta solo il cattivo esempio. Tra i mille che hanno sfilato da piazza Vittorio a largo Preneste, comunque, di anarchici ce n’erano abbastanza. Non solo loro, certo: c’erano anche gli studenti che hanno occupato Lettera alla Sapienza, qualche militante dei centri sociali (a titolo personale), gente venuta a vedere, solidali di estrazione politica non identificabile. Le tensioni sono arrivate tutte con il calare delle tenebre: dopo un percorso abbastanza tranquillo, arrivati sulla Prenestina un gruppo di manifestanti ha fatto esplodere petardi, tentato di buttare bidoni dell’immondizia sulla strada, lanciato oggetti contro la polizia, dato fuoco a una centralina dell’elettricità, sfondato una fermata del pullman. Poi gli agenti hanno caricato. Risultato (parziale): tre fermati e due feriti tra i manifestanti. Durata dei tafferugli: meno di dieci minuti. Il corteo, comunque, non ha rispettato il percorso annunciato nei giorni scorsi: doveva arrivare in piazza San Giovanni e invece si è diretto da subito verso Porta Maggiore e da lì fino al Pigneto, dove si è sciolto all’ora di cena. Lo Stato ha per così dire trattato in questo caso e ha accompagnato i manifestanti in un minuetto di avvicinamenti e allontanamenti: davanti alla concessionaria della Jeep all’incrocio tra via Manzoni e via di Porta Maggiore il dispiegamento di forze era ingente. Qualcuno ci ha pure provato a dare qualche mazzata alle vetrine, ma tutto si è risolto con qualche sguardo in cagnesco e poco più. Altra istantanea: al passaggio in piazzale Labicano lo schieramento di agenti in tenuta antisommossa è imponente, due file che sbarrano l’intero lato est. L’obiettivo sensibile da proteggere è il gabbiotto della polizia locale, peraltro recentemente decorato da graffiti approvati dal Comune. Gli slogan dei manifestanti, per il resto, erano quelli attesi: “Fuori Alfredo dal 41 bis”, “Fuori tutti dalle galere, dentro nessuno, solo macerie”, “La nostra azione è più forte di ogni autorità”. Il discorso di apertura l’ha fatto Lello Valitutti, “l’anarchico in carrozzina”, unico testimone civile presente nella questura di Milano la notte che Pinelli cadde giù dalla finestra, recentemente tornato all’onore delle cronache per una sua intervista in cui annunciava che “se Alfredo morisse, gli verrà sparato addosso (a quelli che lui riterrebbe i responsabili, ndr)”. Una minacciosa provocazione che ovviamente ha scatenato le ire di molti, ma in fondo sono decenni che Valitutti rilascia dichiarazioni incendiarie e molto al di là dei confini della ragionevolezza, attirandosi addosso critiche e denunce. E così, dopo aver addirittura parlato dei “partigiani che hanno fatto la Repubblica” contrapposta “agli assassini” di cui invece Giorgia Meloni e il suo governo sarebbero eredi, la chiusura dal megafono ha visto la riproposizione di uno slogan antico un bel po’: “Pagherete caro, pagherete tutto”. Valitutti, poi, si è fatto tutto il percorso davanti allo striscione di apertura. In mezzo al corteo, la riproposizione del discorso che nell’area anarchica (e non solo) si fa sul caso Cospito: dotte disquisizioni in punta di diritto sui processi subiti dall’anarchico, citazioni della Corte sulla costituzionalità del 41 bis, passaggi sulla Cedu che lo definisce “tortura”, racconti sulla durezza della vita in generale dietro le sbarre. Il tutto intervallato dagli slogan e dalla techno sparata dalle casse (“Ci arresteranno per rave”, dice un manifestante scherzando, ma solo fino a un certo punto). Immancabili, poi, le facce cattive per i giornalisti - “Infami”, come da cartellone pure esposto sul camioncino che guidava la folla - e gli inviti non gentilissimi a evitare di fare foto e riprese: è questo il motivo per cui la nutrita pattuglia di cronisti, almeno un centinaio, ha preceduto il corteo alla sua testa, evitando di avvicinarsi troppo. È finita con qualche tensione e la promessa che non è finita qui. La stessa fatta anche nelle altre città dove pure ieri si è manifestato contro il carcere duro e per Alfredo Cospito: da Milano alla Toscana, passando per L’Aquila, “città simbolo del 41 bis” secondo il volantino distribuito al presidio. A sera, percorrendo a ritroso il percorso del corteo, sembra non essere successo niente: il traffico scorreva nella sua tipica non eccessiva confusione del sabato, sull’asfalto addirittura i segni di idropulitrici passate da poco, gente a passeggio, bar e pizzerie che cominciano ad affollarsi. E sotto alle insegne della Jeep di via Manzoni i senzatetto che si preparano ad affrontare la notte. Milano. A Opera contro il 41 bis, senza troppe tensioni di Roberto Maggioni Il Manifesto, 5 febbraio 2023 Alla destra che tifava incidenti per alimentare l’allarme anarchici è andata male, i due giorni di mobilitazione milanese per Alfredo Cospito si sono conclusi senza tensioni. Venerdì sera il corteo nella zona della stazione Centrale di Milano, ieri pomeriggio il presidio fuori dal carcere di Opera dove da lunedì scorso è detenuto Alfredo Cospito. Nel parcheggio davanti all’ingresso del penitenziario sono arrivati 400 anarchici dal nord Italia, qualcuno dalla Svizzera. C’erano anche i sindacati di base Si Cobas, Adl Cobas e Sol Cobas. Una composizione meno milanese di quella che si era vista in città delle scorse settimane. I primi ad arrivare verso le 14 sono alcuni anarchici con qualche anno d’età in più rispetto alla media di quelli che arriveranno dopo, con loro hanno le storiche bandiere rossonere dell’anarchia. Alle 15 il presidio inizia ad animarsi, vengono appesi gli striscioni: “41 bis = tortura di Stato” era scritto su uno di questi. Viene montato un piccolo impianto audio per gli interventi dal quale viene trasmessa anche una diretta radiofonica insieme ad alcune radio antagoniste. Ai giornalisti gli anarchici chiedono subito di stare a distanza, “Non ci interessa parlare con voi”. Li accusano di essersi interessati al caso di Alfredo Cospito solo negli ultimi giorni e solo per specularci sopra e creare allarmismo. Prima che la situazione degeneri anche la Digos deve chiedere a qualche troupe particolarmente insistente di allontanarsi. Tra cori e interventi al microfono, a un certo punto dal carcere escono alcune famiglie con bambini che guardano tra l’incredulo e lo spiazzato quella folla che urla contro il carcere. Era giorno di visite ieri al carcere di Opera, avevano appena incontrato qualcuno di caro dentro al penitenziario. Per qualche minuto quei due mondi si sfiorano. A metà pomeriggio, poi, un gruppetto di anarchici si stacca e raggiunge dai campi la recinzione esterna del carcere. Cori, slogan, una battitura contro le reti, quando gli agenti oltre la cinta si avvicinano parte qualche sasso. Fin quando anarchici e polizia non indietreggiano, ciascuno verso il proprio fronte. Una ragazza della provincia di Pavia ci dice che lei il 41 bis per certi mafiosi lo terrebbe, ma la sua è una voce isolata. Qui tutti sono per l’abolizione del 41 bis e contro il carcere. Un sindacalista dei magazzini della logistica ci ricorda dalla repressione che subiscono i facchini: “Lì però i tuoi colleghi non li vedo a fare le interviste”. Al tramonto partono i fuochi d’artificio e gli ultimi slogan: “Liberi tutti, fuoco alle galere”, poi il presidio si scioglie. I prossimi saranno giorni di discussione e bilancio per chi sta portando avanti la campagna a sostegno di Alfredo Cospito. E certamente nuove mobilitazioni. Palermo. Carcere e 41 bis, manifestazione per Cospito e non solo palermotoday.it, 5 febbraio 2023 Anche a Palermo ieri, in piazza Verdi, si è svolta una manifestazione di solidarietà in centro per Alfredo Cospito, l’anarchico da più di cento giorni in sciopero della fame, per protesta contro il regime del 41 bis, con il quale è detenuto. In Sicilia si sono tenuti diversi presidi di protesta contro il regime del 41 bis, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo e in solidarietà a Cospito. Le manifestazioni sono state promosse da una rete di associazioni territoriali. Secondo i referenti delle associazioni siciliane, “Cospito con la sua lotta è riuscito ad attirare l’attenzione mediatica sul tema delle misure speciali di detenzione e più in generale sui metodi repressivi dello Stato”. “Il 41 bis - continuano le associazioni - infatti, è fondato su pratiche di dura detenzione. Chi è sottoposto a questa misura, con l’accusa di essere un grave pericolo per la società, vive in isolamento in celle di pochi metri quadri, ha diverse limitazioni all’ora d’aria e viene sottoposto a sorveglianza continua. Non finisce qui, perché è vietato anche avere dei colloqui con i familiari; la posta viene controllata e viene limitato l’uso di oggetti in cella, persino penne, quaderni e libri. Da questo punto di vista, lo strumento coercitivo provocherebbe un’alienazione totale del detenuto, alimentando dunque danni incalcolabili per le persone carcerate”. E ancora: “Chiedere la liberazione di Cospito significa, oggi, lottare contro il carcere e gli strumenti repressivi dello Stato; con la consapevolezza che data la quantità di morti che produce, quest’ultimo ha fallito in tutti i suoi aspetti. I 1.240 suicidi dal 2000 al 2020 dentro le carceri. Oltre 60 suicidi l’anno. Questi dati ci mostrano le condizioni in cui versano i detenuti all’interno delle carceri, luoghi in cui spesso non vengono garantiti i diritti fondamentali delle persone”. “Siamo scesi in piazza perché crediamo in questa battaglia, perché pensiamo che il 41 bis sia una tortura per tutti e tutte, per questo la lotta di Alfredo e la lotta di tutti i detenuti e delle loro famiglie”, concludono i manifestanti in piazza a Palermo. Cagliari. Anarchici in piazza: “No al 41 bis, la Sardegna non sia una colonia carceraria” L’Unione Sarda, 5 febbraio 2023 Anche a Cagliari gente in piazza per manifestare solidarietà ad Alfredo Cospito. Un centinaio di persone ha partecipato questa sera al sit in piazza Garibaldi “contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, contro la repressione dello Stato italiano e l’uso della Sardegna come colonia carceraria”, hanno spiegato gli organizzatori. Un presidio pacifico nel corso del quale sono stati esposti striscioni con le scritte “Dalla parte di chi lotta” e “Lo Stato uccide nelle carceri, tutti liberi, tutte libere”. “Un sistema raccapricciante - ha detto una delle manifestanti in un intervento al microfono - mi viene in mente il caso di Aldo Scardella a Cagliari, condannato al carcere prima di essere giudicato. Sappiamo come è finita (protagonista di un errore giudiziario, si suicidò in carcere, ndr). Esprimo il desiderio che le cose possano cambiare”. “Ma quale democrazia - ha rincarato Salvatore Drago, Usb - se il carcere serve per redimere, perché c’è l’ergastolo che significa fine pena mai?”. Tanti i cori per l’anarchico: “Fuori Alfredo dal 41 bis” il più urlato. “Lo Stato - spiegano in una nota gli organizzatori del presidio - non accetta di essere messo in discussione: le perquisizioni di qualche giorno fa a Nuoro a carico di tre compagni accusati di istigazione a delinquere per uno striscione in solidarietà alla lotta di Alfredo sono solo l’esempio più vicino a noi. Intanto, nel tribunale di Cagliari prosegue il processo per chi ha lottato contro l’occupazione militare negli scorsi anni”. Volterra (Pi). Detenuti lavorano sottopagati: lo Stato dovrà risarcirli di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 5 febbraio 2023 Dopo la causa il ministero dovrà versare in tutto 20mila euro. Due detenuti battono lo Stato e ottengono la condanna del ministero a versare la differenza tra quanto avrebbero dovuto essere pagati e l’effettiva retribuzione per il lavoro svolto nelle carceri in cui sono stati reclusi. Sono un 42enne tunisino, a Volterra per scontare una condanna per l’omicidio di un connazionale avvenuto a Rimini - fine pena 2024 - e un albanese di 52 anni - fine pena 2034 - che nel 2014 uccise la moglie nel genovese. Entrambi dovranno ricevere dal ministero della Giustizia quasi 10mila euro a testa. Durante la detenzione tra Ferrara, Prato, San Gimignano e da tempo Volterra, il nordafricano dal gennaio 2012 al settembre 2017 ha lavorato come scopino, inserviente di cucina, aiuto cuciniere, spesino e muratore qualificato. Tutte mansioni per le quali è stato retribuito dall’amministrazione penitenziaria. Solo che le somme non erano quelle che gli sarebbero spettate per effetto del mancato adeguamento delle retribuzioni (mercede, ndr) dal 1992 al 2017. “Nel caso di specie risultano corretti e condivisibili i conteggi prodotti da parte ricorrente in allegato al ricorso, in quanto predisposti sulla scorta dei dati fattuali dell’attività lavorativa prestata, risultanti dalle buste paga versate in atti, e delle tabelle retributive del Ccnl di riferimento - scrive il giudice del Tribunale di Roma, sezione lavoro. Pertanto, sulla scorta delle incontestabili mansioni svolte, dei giorni e degli orari indicati in busta paga, ben possono prendersi a riferimento, per il calcolo delle spettanze, i criteri indicati dalla difesa del ricorrente ed i relativi parametri”. E il ministero della Giustizia deve versagli quasi 10mila euro con tanto di interessi. Stesso importo per il detenuto albanese per le mansioni sottopagate svolte tra Genova e Volterra. Scrive il giudice nella sentenza che dà ragione al 52enne: “Il ministero della Giustizia non ha adempiuto all’obbligo di procedere agli aggiornamenti dei parametri retributivi utilizzati ai fini del calcolo della mercede per il periodo dedotto in ricorso con la conseguenza che risulta fondata la pretesa creditoria”. Lucca. “Il carcere è vivo” e si apre alla società civile di Irene Decorte Gazzetta di Lucca, 5 febbraio 2023 “Il carcere di Lucca è vivo”. Con questa pregnante affermazione Alessandro Maionchi, avvocato e responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Lucca, ha aperto il convegno che si è tenuto questa mattina 4 febbraio presso la Casa circondariale San Giorgio. Ha voluto così sottolineare l’importanza che ha tenere discussioni del genere entro lo stesso ambiente del carcere. “Riteniamo che l’unico vero modo per accendere i riflettori sul carcere sia aprirlo alla società civile, per costringerla a spogliarsi di quell’abito mentale per cui si tratterebbe un luogo di oblio dove le persone si gettano senza più recuperarle.”, ha affermato l’avvocato. L’incontro di oggi ha avuto al suo centro una tematica delicata e di cui, come ha avuto modo di sottolineare la direttrice del carcere Santina Savoca, proprio in funzione di questa delicatezza si tende a parlare poco: il rapporto tra la donna e il carcere. “Il carcere non è per le donne”, ha asserito Giulia Mantovani, professoressa associata di diritto processuale penale presso l’università di Torino, riportando parole raccolte fra le detenute della casa circondariale di Lecce. E si tratta di parole pregne di verità: in virtù della loro condizione di minoranza numerica (sul totale dei detenuti negli istituti penitenziari, le donne costituiscono poco più del 4 per cento, come ha ricordato l’assessore Giovanni Minniti), le donne detenute si trovano in una condizione di assoluta marginalità, che si manifesta tanto relativemente a temi grandi e complessi quanto a quelli solo apparentemente piccoli e quotidiani. A riguardo, la dottoressa Sofia Ciuffoletti, direttrice del centro di documentazione sul carcere, devianza e marginalità, associazione “Altro diritto”, ha ricordato il suo stupore nello scoprire che, in un’istituzione carceraria femminile da lei seguita, alle detenute non era permesso di tenere in cella una lametta per radersi; cosa che agli uomini è non solo permessa, ma ritenuta necessaria. “Se il carcere per la società ha una considerazione residuale e marginale, la condizione della detenzione femminile lo è ancor di più” ha osservato Gianpaolo Catanzariti, avvocato e responsabile nazionale dell’Osservatorio carcere - camere penali. Nell’affrontare questa tematica, è fondamentale menzionare le Regole di Bangkok; adottate nel 2010 dall’ONU, costituiscono il primo documento internazionale che tratta nello specifico la detenzione femminile. Ne ha parlato ampiamente la professoressa Mantovani. Le regole mirano a fornire delle linee guida perché gli ordinamenti nazionali adottino un’esecuzione penale adatta alla particolare situazione delle donne. Gli elementi centrali su cui insistono sono quelli della non-discriminazione e della formazione (ad esempio, l’articolo 33 stabilisce che tutto il personale che lavora con le detenute debba ricevere una formazione sui bisogni specifici delle donne e sui diritti umani delle detenute). Naturalmente, quando si parla di donne e carcere è una la tematica che salta subito all’attenzione: quella del rapporto tra la madre detenuta e i figli. Drammatica è la situazione quando la madre, in carcere, viene separata dai figli; per rendere la cruda concretezza di questa problematica, ha presentato la propria testimonianza Michele Stepich, detenuto presso il carcere di Lucca che circa 10 anni fa visse l’incarceramento della compagna. “Una mattina sono venuti e l’hanno portata in carcere”, ha ricordato “I bambini mi chiedevano perché avevano portato via la mamma. Ho detto che aveva fatto una cosa che non doveva fare. La sera mi hanno chiesto quando tornava la mamma. Che dovevo dirgli?” Ancora più tragica è la condizione dei bambini sotto i tre anni che vivono in prigione insieme alla mamma, che ad oggi, nel nostro contesto penitenziario, sono circa 30. Maria Brucale, avvocato del foro di Roma, ha ricordato l’incontro con una bambina di due anni che viveva in carcere con la madre. “Tutta la sua vita era conosciuta con le parole del carcere”, ha detto ad esprimere la drammaticità della situazione sua e dei bambini come lei. “La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia del 1989 richiede che ogni decisione che abbia un impatto su un minore tenga conto del suo interesse preminente.” ha spiegato la professoressa Mantovani “Tutti gli attori del sistema penitenziario sono chiamati a pensare al bambino, che non va considerato come qualcosa di accessorio, ma come centrale in ogni momento decisionale”. Naturale che il carcere non possa essere un luogo adeguato per la crescita di un bambino. Come fare, allora, per evitare che tali situazioni continuino a verificarsi? “Dalla seconda metà degli anni Ottanta, in Italia si è fatto molto a livello normativo per evitare la carcerazione delle donne con bambini” ha detto ancora la professoressa Mantovani “e oggi una delle soluzioni migliori sembra essere la detenzione domiciliare presso case famiglia protette. Nel 2011, la legge 62 le ha inserite tra i possibili luoghi dell’arresto domiciliare; il problema è che stabilì anche il disimpegno finanziario dello stato per queste strutture. Per fortuna, nel 2020 la legge di bilancio per il triennio 21-23 ha previsto un fondo per il loro finanziamento”. E ha concluso: “Queste norme danno l’idea di un nuovo volto dell’esecuzione penale, riportante le caratteristiche dei servizi alla persona, che potrebbe in futuro essere implementata nei confronti di tutti. Le case famiglia protette possono raccogliere la scommessa di un’esecuzione penale esterna integrata nella rete dei servizi al territorio, che accompagni le donne nel ritorno alla comunità”. Riflessioni di quest’ordine sono importanti anche perché, come ha affermato l’avvocato Catanzariti, “parlare di carcere e donne può essere la chiave di volta per affrontare problematicità generali del pianeta carcere, e migliorare la condizione di tutti i detenuti”. I temi trattati finora possono quindi essere colti come punti di partenza per riflettere su temi macroscopici, quali le finalità del sistema carcerario e una sua possibile riforma per garantirne la messa in pratica. “La necessità di una riforma del sistema carcerario è quasi insita nel concetto stesso che sta alla base della sua istituzione, il mito dell’isolamento come tecnica punitiva primaria” ha spiegato Luca Bresciani, professore di diritto penitenziario all’università di Pisa “È un paradosso riabilitativo- come si può insegnare a degli esseri umani in cattività a vivere la vita da liberi? Ma è questo che sostenevano gli illuministi, che la personalità del detenuto vada annullata per poter ridisegnare su di lui come su di una pagina bianca; che l’individuo vada ridisegnato. Ancora oggi, il sistema carcerario è fondato su un paradigma medico-terapeutico, che vede l’obiettivo della carcerazione come la cura, o la correzione dell’individuo macchiatosi di colpa”. Ha affrontato la stessa tematica anche l’avvocato Brucale, concentrandosi in particolare sulla problematicità dei vocaboli stessi adottati nel contesto carcerario. “Dovremmo modificare del tutto il linguaggio del carcere, a partire dalla Costituzione. Rieducazione e trattamento mi sembrano due parole oscene;” ha affermato l’avvocato “il concetto di rieducazione implica che la persona sia affetta da una minorità sociale, che sia una persona piccola. E per quanto riguarda il trattamento- il detenuto non va trattato. Va orientato, guidato, seguito prima di tutto come una persona, che ha i suoi principi, i suoi desideri, le sue motivazioni”. Ci dobbiamo - e possiamo - dunque auspicare un nuovo volto del sistema carcerario, che abbia come obiettivi primari il reinserimento, la rieducazione, la risocializzazione dei detenuti. “Si deve impedire che, all’uscita dal carcere, i detenuti e le detenute si sentano afflitti, bloccati da un’assenza di prospettive” ha detto Roberta Careddu, in rappresentanza dell’UEPE di Lucca “La cosa fondamentale è che tutti gli operatori che lavorano nel settore cerchino di creare opportunità all’esterno, concrete, in modo che si realizzi concretamente quanto previsto a livello legislativo”. Un auspicio che, per ritornare alla tematica centrale del convegno, incontra criticità particolari in relazione all’universo femminile. La professoressa Mantovani ha sottolineato l’importanza di educare le detenute ad attività che, una volta uscite dal carcere, possano garantirne l’emancipazione economica: visto che non è raro che le donne restino l’unico adulto a sostenere, anche economicamente, i figli, aiutare una donna a raggiungere delle competenze lavorative adeguate equivale ad aiutare l’intero nucleo familiare. Per questo, le già nominate regole di Bangkok stabiliscono che le detenute abbiano accesso ad una serie di attività equilibrate e diversificate, che tengano conto dei bisogni specifici del loro genere. Tuttavia, la stessa formulazione di questo principio rischia di prestarsi a interpretazioni fuorvianti e potenzialmente nocive. “Nel 2017 è stato condotto uno studio per verificare quanto le regole venissero applicate nei vari paesi” ha iniziato la professoressa “Ciò che è emerso è che in diversi paesi l’indicazione di tenere conto dei bisogni specifici delle donne si è tradotta nell’offerta di attività ritenute tradizionalmente femminili: pulizia, cucito e così via. Naturalmente, non è questo ciò che si richiede - ma un’offerta di formazione professionale che sia adeguata alla reale domanda nel mercato del lavoro”. Nell’ambito di una risocializzazione del detenuto, soprattutto che affronti pene di lunghezza notevole, un’importanza fondamentale ha il mantenimento dei legami affettivi, anche da un punto di vista spesso taciuto, addirittura ostacolato- quello sessuale. “Il sesso è un’espressione del nostro essere, della nostra identità”, ha sostenuto l’avvocato Brucale. Anche la dottoressa Valeria Marino, magistrato di sorveglianza di Livorno, ha insistito sull’affettività come momento importante del percorso rieducativo. “Impedire il rapporto umano per un periodo di tempo lungo ha fortissime conseguenze desocializzanti” ha sostenuto “Bisogna dare la possibilità al carcere di agevolare i luoghi d’affettività, sia per gli uomini che per le donne”. Napoli. “Gli anelli di Saturno”, spettacolo nel carcere di ?Secondigliano di Giuliana Covella Il Mattino, 5 febbraio 2023 Il riscatto dei detenuti tra violoncello, pianoforte e chitarre. Cambiare si può e se lo si fa attraverso il recupero e la rieducazione di chi ha commesso un reato, obiettivi primari del carcere, allora il risultato è un concreto ed efficace esempio di inclusione. Questo lo scopo della lunga mattinata all’insegna della musica e del canto nell’istituto penitenziario di Secondigliano con i detenuti dell’Alta e media sicurezza. Nella Casa circondariale di Napoli si è svolto ieri lo spettacolo musicale de Gli anelli di Saturno, l’ensemble nata dieci anni fa e diretta da Antonio Saturno, che si avvale della collaborazione di diversi professionisti con l’intento di creare occasioni di concerti per giovani artisti. Il gruppo, composto prevalentemente da strumenti a corde pizzicate, ha portato in scena pezzi di repertorio dal 500 al 900 e brani cameristici, con la partecipazione di soprani e tenori. Nello spettacolo, destinato al pubblico dei ristretti del reparto di Alta sicurezza, in particolare, hanno suonato un pianista, un violoncellista, due chitarristi e un flautista che hanno calamitato l’attenzione del pubblico suonando e intonando la musica e i testi di Ortolani, Cohen, Di Capua, Bovio, Morricone, Schubert, Verdi, Sant’Alfonso de Liguori e tanti altri. Gli artisti speciali hanno emozionato e si sono emozionati insieme a educatori e operatori dell’istituto di pena, nel corso dell’esibizione, che ha visto sul palco tra gli altri i componenti dell’ensemble che annovera nomi come Antonio Saturno (chitarra), Angelo Spinelli (violoncello), Anna Paola Troiano (soprano), Aniello Rossi (flauto), Enrico Volpe (chitarra), Paola Volpe (pianoforte). Artisti ai quali si sono affiancati i carcerati, tra cui un altro violoncellista che è tra i reclusi, Maria Francesco Volpe, ex maestro del Conservatorio. All’evento ha partecipato il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, che così ha commentato l’iniziativa: “Il gruppo Gli anelli di Saturno ha già calpestato le tavole del palcoscenico di un altro teatro del carcere di Secondigliano, nell’ambito del Luglio musicale 2022. La loro musica rigenera l’animo e lo spirito. Vederli in scena è stata un’emozione forte per tutti noi spettatori, per questo ho chiesto loro di esibirsi nuovamente, questa volta davanti ai detenuti di Alta sicurezza. Giornate come quella di ieri - ha concluso Ciambriello - restituiscono attimi di libertà e infondono speranza”. Brescia. Progetto carcere, con l’Uisp lo sport è inclusione di Alessandro Carini giornaledibrescia.it, 5 febbraio 2023 Si chiama “Progetto carcere” e da trentasei anni porta lo sport oltre le sbarre, contribuendo in maniera sostanziale al percorso di rieducazione del condannato. Ad organizzarlo è il comitato bresciano dell’Uisp, l’Unione italiana sport per tutti, che anche quest’anno si spende convintamente nella promozione di svariate attività tra il “Fischione” e Verziano. Come spiegato ieri mattina in Loggia, nel corso della presentazione del progetto, dalla presidente Paola Vasta, “per l’Uisp l’attività all’interno del carcere è uno dei punti fondamentali del proprio agire. Siamo nati 75 anni fa come Unione sport popolari, per far praticare sport a chi non può permetterselo, e successivamente ci siamo connotati come ente di promozione sociale. Chiaro dunque che il carcere è uno dei campi d’azione prediletti, dove lo sport significa inclusione, aggregazione e rieducazione, una delle basi della convivenza civile insieme all’educazione data dalle famiglie e dalla scuola”. Il “Progetto carcere” gode del patrocino del Comune di Brescia, per i motivi ricordati dal consigliere delegato del sindaco agli eventi sportivi, Fabrizio Benzoni: “Negli anni - ha ricordato - grazie ad Alberto Saldi ho potuto capire l’importanza che lo sport in carcere riveste per detenuti ed agenti di polizia penitenziaria. In particolare per chi sta scontando la pena è uno stimolo per migliorare la propria qualità di vita e per procedere nel percorso di rieducazione e di costruzione di un futuro diverso fuori dal carcere. Certo a Verziano, struttura più moderna, è più facile che al “Fischione”: a questo proposito, ben venga l’ampiamento del carcere all’ingresso della città, ma attenzione a non sacrificare spazi dove i detenuti svolgono attività così importanti”. Tante discipline - Nel dettaglio delle iniziative in programma è sceso Paolo Manini, nuovo responsabile del “Progetto carcere” dell’Uisp Brescia, il quale ha voluto ribadire che “il connubio sport-inclusione è nel nostro Dna, come quello tra sport e salute, tra sport e benessere. Trova applicazione grazie alla grande collaborazione con la direzione delle due strutture detentive, l’ufficio educatori e gli agenti di Polizia penitenziaria. E poi c’è l’altra “gamba” del progetto, i nostri volontari, che svolgono un compito non sempre facile ed hanno anche pagato un po’ lo scotto del Covid. A Proposito, un appello: se qualcuno vuole avvicinarsi per darci una mano, ben venga”. Le attività sportive - soprattutto a Verziano, struttura con spazi più adatti, ma anche a Canton Mombello - sono molteplici, dal calcio (anche femminile) alla pallavolo, dai corsi di scacchi a quelli di attività motoria, meditazione, attrezzistica, pesistica, ma anche di pilates e danze popolari. Alcune attività sono dedicate anche agli esterni, così da instaurare proficui rapporti tra dentro e fuori il carcere. “I nostri fiori all’occhiello - ha sottolineato Manini - sono il Vivicittà, manifestazione podistica quest’anno in calendario il 1° aprile (ci saranno circa 300 ragazzi delle scuole all’interno del carcere), e l’incontro formativo sulle realtà carcerarie cittadine aperto agli studenti degli istituti scolastici partecipanti al Vivicittà. Non mancano poi piccoli momenti di festa, con intrattenimento musicale e rinfresco, che danno grande serenità ai detenuti ed ai volontari”. Anna Politkovskaja, un’eredità scomoda di Guido Caldiron Il Manifesto, 5 febbraio 2023 Per Bur, “Un piccolo angolo d’inferno”, prefazione di Francesca Mannocchi. L’attualità degli scritti sulla Cecenia della cronista della “Novaya Gazeta” uccisa il 7 ottobre del 2006. “La cronaca di un avvertimento inascoltato” per come quel conflitto ha plasmato la società russa e il sistema di potere di Vladimir Putin fino all’invasione dell’Ucraina. Dopo Maidan annota che molti a Mosca invidiano la piazza di Kiev. “Quanto accaduto ha segnato la fine della Grande Depressione politica russa. Siamo così simili... eppure”. Nel mondo anglosassone, e ormai non più solo in quello, con il termine whistleblower, derivato dall’espressione “blow the whistle” (soffiare nel fischietto) che indica l’azione di un arbitro in una competizione sportiva che vuole fermare un comportamento irregolare o pericoloso, si identifica un “lanciatore di allerta”: chi, in base alle proprie ricerche o analisi è in grado di individuare la china pericolosa che stanno prendendo determinate vicende, processi tecnologici, scientifici o economici o, per estensione, gli esiti catastrofici verso cui possono condurre le scelte di questo o quel leader. Una categoria che sembra essere stata inventata per descrivere la traiettoria di Anna Politkovskaja, la giornalista russa che di allarmi e ammonimenti ne aveva lanciati molti attraverso il proprio lavoro, senza essere davvero ascoltata né in patria né all’estero, ma tanto da finire ammazzata a 48 anni il 7 ottobre del 2006 a Mosca. Perché, come ricorda Francesca Mannocchi nella prefazione agli scritti di Politkovskaja dedicati alla seconda guerra cecena (1999-2009) e al modo in cui quel conflitto ha plasmato la società russa e il sistema di potere al cui vertice siede Vladimir Putin, che tornano oggi in libreria per Bur, (Un piccolo angolo d’inferno, postfazione di Georgi M. Derluguian, pp. 274, euro 15), di fronte all’invasione dell’Ucraina e all’ulteriore svolta nazionalista e repressiva del regime di Mosca, quelle pagine rappresentano “la cronaca di un avvertimento inascoltato”. Figlia di due diplomatici sovietici di stanza all’Onu a New York, Anna Politkovskaja arriva alla Novaya Gazeta, il giornale che nel 1993 aveva avuto tra i suoi cofondatori Gorbaciov e che era contraddistinto da una linea di indagine rigorosa e lontana da ogni soggezione verso il potere, alla fine degli anni Novanta dopo un decennio di lavoro da cronista in varie testate moscovite. L’ex funzionario del Kgb Vladimir Putin e al debutto della propria carriera politica nazionale, nel 1999 è stato nominato primo ministro da Eltsin e un anno più tardi sarà eletto, per la prima volta, presidente della Federazione russa. Per poco più di sei anni Politkovskaja segue il conflitto sanguinoso che ha luogo nel Caucaso - le stime più attendibili parlano di circa 200mila vittime lungo un ventennio, senza contare la distruzione pressoché totale della città di Grozny, rasa al suolo dai bombardamenti -, recandosi decine di volte nei luoghi dove infuria la battaglia e dove hanno luogo reciproche e crudeli rappresaglie fatte di prigionieri decapitati e torture sistematiche, e che fa sentire la sua tragica eco anche nelle grandi città russe con le azioni del terrorismo e le campagne e le violenze xenofobe che si abbattono sui rifugiati. Quella che è nata dalla volontà di indipendenza di un popolo al momento del crollo dell’Urss si trasforma in un conflitto sanguinoso che conosce ogni sorta di deriva, “estremismo islamico e lotta allo stesso sono un’unica e sola tragedia”, scriverà la giornalista nei suoi appunti. Politkovskaja racconta i crimini dei signori della guerra locali, l’emergere del fondamentalismo islamico, ma anche il modo in cui il Cremlino e i vertici delle forze armate, e una parte almeno della società russa, considerano normali le atrocità che i soldati di Mosca compiono ogni giorno contro la popolazione civile: emblematica la vicenda del colonnello Yuri Budanov responsabile di un battaglione corazzato i cui uomini rapirono, stuprarono e fecero a pezzi una giovane cecena e che diventerà, una volta sotto processo a Mosca, un simbolo dei nazionalisti russi. Una storia terribile che Politkovskaja racconta in La Russia di Putin (Adelphi, 2005), uno dei molti libri dedicati al modo in cui quel conflitto ha segnato la realtà russa di oggi, spiegando come, “offuscata dalla propaganda, la Russia ha pensato che quanto successo fosse giusto: Budanov aveva strangolato la ragazza vendicandosi su di lei, magari ingiustamente, dei guerriglieri ceceni”. Sul fondo, per la giornalista, emergeva il modo in cui il Cremlino stesse conducendo “dei giochi estremamente pericolosi”, sfruttando la paura, il razzismo e la richiesta di sicurezza per rafforzare il proprio potere e mettere a tacere di volta in volta oppositori, giornalisti scomodi e proteste di piazza. E senza arretrare di fronte a niente: oltre a Politkovskaja nella sola redazione di Novaja Gazeta si sono contati cinque reporter uccisi e il giornale è stato chiuso definitivamente dalle autorità lo scorso settembre per aver voluto raccontare la verità sull’invasione dell’Ucraina”. Il lavoro della coraggiosa cronista non si limitava però solo al turbine violento della guerra del Caucaso, nei suoi articoli dava voce ogni giorno alle proteste contro gli abusi delle forze dell’ordine, alla denuncia dei casi di corruzione che lambivano i vertici stessi del Paese o del ruolo crescente dell’intelligence del Fsb, l’ex Kgb, nel limitare le libertà civili. Nel 2005 avrebbe raccontato la protesta delle “restituenti”: “Le madri dei soldati caduti in Cecenia (che), private dei sussidi, hanno rispedito a Putin i 150 rubli (4,50 euro) della compensazione in denaro: l’equivalente di venti biglietti dell’autobus”. In altre occasioni avrebbe descritto le mobilitazioni per l’aumento di stipendi e pensioni o la crisi sociale derivante dalla diffusione dell’alcolismo. Eppure, si legge al termine del suo Diario russo (Adelphi, 2007), “il potere rimane sordo a ogni “segnale d’allarme” che viene dall’esterno, dalla gente. Vive solo per se stesso. Con stampato in faccia il marchio dell’avidità e del fastidio che qualcuno possa ostacolare la sua voglia di arricchirsi. Lo scopo è far sì che nessuno glielo impedisca: la società civile va calpestata e la gente convinta giorno dopo giorno che opposizione e opinione pubblica si nutrono al piatto della Cia, dello spionaggio inglese, israeliano e finanche marziano”. Ma, in quella stagione, Politkovskaja coglie un altro elemento destinato ad illuminare di nuova luce anche il presente. Siamo all’indomani della rivolta di Maidan a Kiev e la giornalista annota: “Quanto accaduto in Ucraina ha segnato la fine della Grande Depressione politica russa: è storia. L’opinione pubblica si è svegliata dal torpore e ha invidiato con tutte le forze la piazza di Kiev. “Perché non facciamo come loro, accidenti?” ci si ripeteva l’un l’altro. “Siamo così simili, eppure…”. E anche se la passione politica ucraina non ha contagiato Mosca, aggiungeva Politkovskaja, “ci è servita comunque da sprone per un Rinascimento di protesta, ha buttato giù i russi dal divano e li ha costretti a guardare per strada”. Molto più di una semplice sottolineatura: quella rivolta parlava anche ai russi. Forse in pochi se ne sarebbero accorti a livello internazionale, ma c’è da credere che qualcuno al Cremlino stava cominciando a preoccuparsi di una possibile diffusione di quei fermenti. Non a caso, scrive oggi Francesca Mannocchi, “molti hanno paragonato l’invasione russa dell’Ucraina alla seconda guerra cecena e in effetti le guerre in Cecenia raccontate da Politkovskaja possono essere lette come l’avvertimento di quello che sarebbe accaduto altrove, l’allarme inascoltato di una Cassandra che tanto più denunciava e descriveva gli orrori che si consumavano nella piccola repubblica, quanto più si sentiva allontanata, messa ai margini da una società che rifiutava di vedere”. Se quelle guerre hanno definito “la strategia della terra bruciata” che il Cremlino ha poi messo in atto in ogni scenario nel quale le sue forze sono state impegnate, sono tali vicende ad aver “cominciato a modellare la Russia moderna per come la conosciamo ora, un Paese che ha spento la libertà d’opinione, che punisce i dissidenti, incarcera gli oppositori politici, vieta le manifestazioni di dissenso, che ha ucciso e continua a uccidere giornalisti leali alla verità”. Dopo aver subito ogni sorta di minaccia, un tentativo di avvelenamento, più d’un arresto, e aver trascorso nel 2001 alcuni mesi “al sicuro” a Vienna, Anna Politkovskaja fu uccisa nel pomeriggio del 7 ottobre del 2006 mentre rientrava con le borse della spesa. Il suo assassino, che conosceva il codice per aprire il portone le ha sparato alla testa con una pistola silenziata mentre apriva la porta dell’ascensore. Per quel crimine, a otto anni dai fatti, sarebbero stati condannati alcuni malavitosi ceceni, già informatori del Fsb, e un ex poliziotto, senza che sia fatta mai luce sul motivo e i mandanti dell’omicidio. La giornalista fu uccisa il giorno del 54esimo compleanno di Putin, nessun rappresentante del governo russo prese parte ai suoi funerali. Del resto, il suo lavoro l’aveva resa oggetto di un odio sordo e determinato negli ambienti del potere moscovita come presso i signori della guerra del Caucaso, di volta in volta avversari, complici o subalterni al Cremlimo. Eppure, al di là della difesa di qualunque “causa”, ciò che rivendicava era la possibilità di svolgere, e bene, il proprio lavoro. “Ma, alla fine, che cosa avrei combinato? - spiega in uno dei testi raccolti in Per questo (Adelphi, 2009) dopo la sua scomparsa - Ho scritto ciò di cui sono stata testimone. E basta. L’importante è avere l’opportunità di fare qualcosa di necessario. Descrivere la vita, parlare con chi ogni giorno viene a cercarmi in redazione e che non saprebbe a chi altri rivolgersi. Dalle autorità ricevono solo porte in faccia: per l’ideologia al potere le loro disgrazie non esistono, di conseguenza neanche la storia delle loro sventure può trovare spazio sulle pagine dei giornali. Solo sulla Novaja Gazeta”. L’articolo che conteneva questo brano fu pubblicato il 26 ottobre 2006, Anna Politkovskaja era già morta da qualche giorno. Medico di base ai senzatetto, una battaglia di civiltà. L’intervista ad Antonio Mumolo di Leonardo Cecchi L’Espresso, 5 febbraio 2023 Antonio, di cosa si occupa esattamente “Avvocato di strada”? Avvocato di strada è una organizzazione di volontariato, nata a dicembre del 2000 e composta prevalentemente da avvocati, per offrire tutela giuridica gratuita a tutte le persone senza dimora, che certamente non avrebbero la possibilità di pagare un avvocato. Siamo partiti in pochissimi oltre 20 anni fa. Oggi siamo più di mille volontari, siamo presenti in 59 città italiane, siamo diventati lo studio legale più grande d’Italia ed anche quello che fattura meno, praticamente niente. Ma quanti sono oggi i senzatetto in Italia? Ad oggi, i cosiddetti “invisibili” in Italia ammontano a circa 100.000 persone, secondo le ultime stime effettuate da Istat e Caritas. Chi sono? Cittadini che per i più svariati motivi sono diventati poveri. Lavoratori licenziati a 50 anni che non sono più riusciti a trovare lavoro, piccoli imprenditori falliti, pensionati al minimo, padri separati. Hanno perso lavoro, casa, sostegno e sono finiti in mezzo a una strada. E quando finiscono in mezzo a una strada cosa succede? Succede che si viene cancellati dall’anagrafe e quindi si perde le residenza. Purtroppo in Italia senza residenza si diventa invisibili perché alla residenza sono collegati una serie di diritti fondamentali, tra cui il diritto ad usufruire del welfare locale, il diritto al reddito di cittadinanza, il diritto al lavoro, il diritto al voto ed anche il diritto alla salute Perché avviene questo? Tutto si basa su una stortura della nostra legge: molti diritti sono legati al possesso di una residenza. Se la perdi, decadono quei diritti. Relativamente a quello sanitario, mi riferisco alla legge 833 del 1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale. Questa norma, all’art. 19 ci dice che “Gli utenti del servizio sanitario nazionale sono iscritti in appositi elenchi periodicamente aggiornati presso l’unita’ sanitaria locale nel cui territorio hanno la residenza”. Ergo, senza residenza non ci si può iscrivere. Ergo, senza residenza non hai quel diritto. Tu hai lavorato a livello regionale affinché questa stortura venisse sanata, è corretto? Sì, in Emilia-Romagna, dove sono consigliere regionale, sono stato il primo a proporre una legge regionale (detta legge Mumolo) che potesse sanare questa ingiustizia. Una legge che potesse risolvere il problema, quantomeno in questo territorio, per irdare a queste persone un medico di base. E, insieme al medico, ridare loro dignità ed anche una possibilità in più di uscire dalla strada. Per fare questo occorreva una legge ad hoc ed è stata fatta. Una legge che garantisse nuovamente quel diritto a chi aveva perso tutto. Sono ormai due anni che è stata approvata e i risultati hanno iniziato a mostrarsi in maniera chiara. E nel resto d’Italia? Sono stato molto contento di sapere che in altre regioni d’Italia alcuni consiglieri regionali hanno presentato lo stesso testo accolto in Emilia Romagna. La regione Puglia l’ha già approvata e se ne sta discutendo in tante regioni. Come procede sul piano nazionale? Con difficoltà, ma ci stiamo muovendo. Nelle scorse legislature erano già state presentate modifiche alla legge per consentire che il medico di base venisse riconosciuto anche ai senzatetto. Ma per un motivo o per un altro non sono andate a buon fine. Nel 2022, però, il mio partito, il Pd, ha deciso di sposare convintamente questa causa, ripresentando nuovamente un’iniziativa parlamentare e, forse ancora più importante, rendendo centrale il tema sul fronte politico dei diritti. È stata appena presentata in Parlamento dall’onorevole Marco Furfaro, una legge per garantire il medico di base alle persone senza dimora... Confido quindi che anche grazie a questa accelerata il problema possa essere finalmente sanato a livello nazionale. Problema “umano”, ma anche “economico”, debbo dire. Ecco, ci spieghi anche questo aspetto... Non dare alle persone la possibilità di andare dal medico di base quando hanno bisogno si traduce in una cosa: l’affollamento del Pronto Soccorso. Tradotto: costi maggiori per lo Stato, che deve far fronte ad una gestione più complicata - giacché più numerosa - di quello che dovrebbe essere un servizio d’emergenza/urgenza, ma che per chi non ha il medico di base diventa, di fatto, l’unica possibilità per ricevere assistenza medica. Per comprendere il volume di risparmio, si pensi che ogni accesso al Pronto Soccorso comporta per ogni utente una spesa per l’erario da 150 a 400 euro, mentre il medico di base costa alla collettività, per ogni persona, solo 90 euro all’anno. Si può ben immaginare dunque quanto si risparmierebbe se si allentasse la pressione sul Pronto Soccorso. Si può anche immaginare quanto si guadagnerebbe in diritti e dignità delle persone. Dovremmo ricordarci che difendere i diritti degli ultimi significa, alla fine tutelare i diritti di tutti quanti noi. “Assassinii e stupri di gruppo”. Sud Sudan, le testimonianze delle violenze di Antonella Napoli La Repubblica, 5 febbraio 2023 Il racconto di Amal Ahmadi, meno di vent’anni, che dal 2016 vive in un campo profughi della capitale. Uno spaccato delle violenze denunciate da papa Francesco. Amal Ahmadi ha poco meno di 20 anni, nello sguardo e sulla pelle i segni delle violenze che da sopravvissuta mostra al mondo affinché il “mai più” tante volte declamato, non sia più uno slogan vuoto. Amal, costretta a fuggire dallo stato del Great Upper Nile, ha perso quasi tutta la sua famiglia nel 2016, quando un gruppo armato ha fatto irruzione nel suo villaggio. Lei e sua madre, sopravvissute insieme a un fratello, sono ora ospitate nel campo per sfollati di Malakal, a Juba, insieme a oltre 30 mila profughi interni. Nonostante la presenza della missione delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana, l’escalation di violenze che insanguinano il paese continua a causare perdite di vite umane. “Siamo nel campo dal 9 luglio del 2016 - dice Amal - siamo al sicuro ma questa per noi non è vita. Nel 2011 eravamo felici dell’indipendenza, ma poi è diventata una tragedia: abbiamo rimpianto quello che c’era prima della separazione per il disordine che è seguito”. Cosa ricordi, chiediamo, del giorno della fuga dal vostro villaggio? “Ricordo le urla della gente, gli uomini ci hanno detto di scappare. Abbiamo camminato per due settimane. Abbiamo saputo che alcune donne rimaste al villaggio perché non avevano voluto lasciare i figli sono state violentate. Ma anche qui nel campo è successo. Questa è una delle cose che noi donne soffriamo di più. Della guerra non so nulla, so solo che c’è”. Accanto ad Amal c’è suo fratello, Adam, che racconta: “Quando le milizie arrivano nei villaggi cominciano a sparare, la gente viene massacrata. I ribelli attaccano anche scuole, chiese, ospedali. Bruciano le case, non uccidono solo gli uomini ma anche donne, anziani e bambini. In un villaggio li hanno appesi agli alberi”. Racconti terribili, che parlano di orrori che sono stati documentati in un rapporto delle Nazioni Unite che ha chiesto al governo di Juba di indagare su ufficiali dell’esercito accusati di avere organizzato stupri di gruppo sistematici nel Paese, anche di bambine di soli nove anni. La violenza sessuale è utilizzata come arma di guerra, da tutte le parti nel conflitto civile del Sud Sudan scoppiato nel 2013, ha denunciato lo scorso novembre la Commissione per i diritti umani sud sudanese che - si legge nel documento diffuso alla stampa - ha acquisito prove che un commissario di contea nello Stato settentrionale di Unity abbia orchestrato stupri di gruppo in un campo militare. “Gli abusi documentati vanno dalle decapitazioni, ai roghi di persone ancora vive, oltre a innumerevoli e brutali aggressioni sessuali”, ha rivelato un Rapporto Onu pubblicato lo scorso 21 marzo. Orrori di una guerra che sembra destinata a non finire nonostante gli sforzi di Papa Francesco, che con questo viaggio apostolico in Sud Sudan ha portato con sé l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, e il moderatore della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields.