Il riformista di Mattia Feltri La Stampa, 4 febbraio 2023 Peccato, nemmeno stavolta si riuscirà discutere di 41 bis, del carcere duro, legge di dubbia costituzionalità, dico io, e magari mi sbaglio. Ma le democrazie, quando si sentono minacciate, possono rinunciare temporaneamente alla Costituzione, e il 41 bis nacque per “casi eccezionali” e “gravi situazioni di emergenza”, e trovò ampia applicazione dopo il massacro di Falcone e Borsellino e le bombe della mafia. La nostra era effettivamente una democrazia sotto minaccia, ma le emergenze e le eccezioni non durano trent’anni, sennò non sono tali. Anche il lockdown era una misura anticostituzionale ma inevitabile, emergenziale ed eccezionale, e mi domando che diremmo se dovessimo campare trent’anni chiusi in casa. Peccato, lo sciopero della fame di Cospito servirà a nulla, al contrario di quando ottenne la grazia da Francesco Cossiga. Lo ha ricordato Giorgia Meloni in una sintesi un po’ spietata (“lo Stato lo ha graziato ed è andato a sparare alla gente”). È una storia istruttiva. Poco più che ventenne, Cospito fu condannato per renitenza alla leva. Uscito per amnistia, rifiutò di nuovo di fare il militare e di nuovo fu condannato e di nuovo portato in cella. Lì cominciò il primo sciopero della fame, e ne ricavò la grazia. Ancora oppose il rifiuto, il terzo, e ebbe il terzo processo ma, prima della terza condanna, il giudice capì che qualcosa non tornava e si rivolse alla Corte costituzionale. Quella legge irragionevole venne così cancellata, e in seguito abolita la leva obbligatoria. Lo ripeto: peccato per il 41 bis. E sarà anche un criminale, ma Cospito mi sembra uno dei pochi riformisti che ci siano rimasti. Sadico, crudele, disumano. Il 41 bis è solo vendetta di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 4 febbraio 2023 Vietata la musica. Vietato leggere. Vietato dare una carezza ai familiari, da incontrare dietro un vetro per un’ora al mese. Tutti ne parlano, ma nessuno spiega cos’è. E cosa c’entra con la “sicurezza”. Abbiamo detto mille volte che i temi della giustizia penale si discutono ormai come si parla di calcio tra curve contrapposte. Ignoranza, visceralità, totale indisponibilità all’ascolto. Il tema del 41 bis ovviamente non si sottrae a questa desolante regola, anzi la esalta, come stiamo vedendo in questi giorni. Come uscire da questo pantano, da queste sabbie mobili nelle quali annegano razionalità e civiltà del confronto di idee? È semplice: basterebbe fare della buona, onesta, documentata informazione. Chi come me - e come da sempre tutti i penalisti italiani - denuncia con forza la barbarie di questo istituto, non pensa nemmeno per un attimo che lo Stato non abbia il diritto e anzi il dovere di differenziare i regimi di detenzione a seconda della pericolosità criminale del detenuto. È ovvio che un soggetto qualificato come un pericoloso capomafia debba essere ristretto in condizioni tali da non poter continuare a esercitare il proprio potere criminale. Questa finalità preventiva del regime custodiale, a garanzia della sicurezza sociale, non può sensatamente essere messa in discussione da nessuno. Senonché il regime normativo e regolamentare dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario persegue questa legittima e giustissima finalità con modalità tali da risolversi invece nella sistematica - e in alcuni casi addirittura sadica - umiliazione delle condizioni minime di dignità della persona detenuta, senza che peraltro ciò abbia nulla a che fare con la tutela della sicurezza sociale. E questo ha una ragione storica, visto che la norma fu introdotta sull’onda delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in pieno stragismo mafioso. Lo Stato reagì con straordinaria durezza, letteralmente “murando vivi” i detenuti per mafia di più alto lignaggio e più pericolosi. Ciò fu possibile perché la norma nacque come provvedimento esplicitamente eccezionale e transitorio, così giustificandosi la ferocia delle misure. À la guerre comme à la guerre, insomma. Senonchè quella eccezionalità, proroga dopo proroga, è divenuta la regola, e da pochi mesi o forse un anno che avrebbe dovuto sopravvivere, esiste e prospera da trent’anni. Dicevo allora della buona informazione, che nessuno fa. Vorrei darvene io qualcuna. I detenuti al 41 bis hanno l’obbligo di rimanere in cella per 21 ore al giorno. Hanno diritto massimo a due ore d’aria (in cortili con alte mura) e a una di “socialità”, riducibili a una sola ora d’aria per ritenute ragioni di pericolosità. Nelle “aree riservate”, cioè di massima sorveglianza (dei veri e propri sottoscala) l’ora d’aria si fruisce in piccoli e ristretti cortili, che non permettono nemmeno di azzardare un passo di corsa. Colloqui con moglie, figli, familiari: un’ora al mese, e sempre divisi da un vetro. Un detenuto non può nemmeno sfiorare la mano di un figlio o di una moglie per anni, quando non per il resto della propria vita. Tranne un paio di eccezioni, i reparti 41 bis non sono dotati di struttura sanitaria adeguata. Salvo necessità di natura ospedaliera, le visite mediche, qualunque ne sia la natura, urologica o odontoiatrica, si svolgono nella medesima stanza, con le ovvie conseguenze in termini di igiene. Ma soprattutto - udite udite avvengono alla presenza di un agente della polizia penitenziaria, che sta addosso a medico e paziente ascoltando la conversazione ed assistendo alla visita, qualunque manovra il medico debba compiere: e qui la umiliazione della dignità della persona tocca l’apice. Lo scambio di piccola oggettistica tra soggetti dello stesso gruppo di socialità è vietato, salvo autorizzazione del Giudice di Sorveglianza, reclamabile dal Dap. Fino al 2018 era vietato cucinare in cella (è dovuta intervenire la Corte Costituzionale). Non si possono ricevere libri per studiare, non si può essere seguiti da professori o tutor. Abbigliamento e libri di lettura contingentati. Solo da pochi anni si può guardare la TV, ma i canali sono limitatissimi. Non si può ascoltare musica, per quanto incredibile questo possa essere. E molto altro ancora potrei raccontarvi. Voi pensate che tutto questo abbia a che fare con la tutela della nostra sicurezza? Io penso proprio di no. Io penso che sia una feroce, stupida, sadica volontà di annientamento della persona. E questa, qualunque sia il crimine che possa aver commesso quella persona, è una vergogna indegna di un Paese civile. Io non credo che ascoltare Chopin in un buco di cella possa mettere in pericolo la sicurezza nazionale. E nemmeno farsi controllare la prostata lontano dagli occhi di una guardia carceraria. E nemmeno baciare la guancia dei propri figli, o la mano della propria moglie. E penso che chi lo pensi, dovrebbe vergognarsene, e magari farsi visitare da un bravo psicologo. Possiamo cominciare a parlarne, finalmente, di 41 bis? *Presidente Unione Camere Penali Italiane “Nelson Mandela Rules”: l’Onu dice che il 41 bis è tortura di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 4 febbraio 2023 Chiamato così in onore del leader sudafricano che ha trascorso in carcere 27 anni della propria vita, sancisce. Oltre i 15 giorni l’isolamento è da considerare una punizione disumana: in Italia c’è chi lo subisce ininterrottamente da 30 anni. Nelle celle di isolamento del nostro “carcere duro” non vi è riconciliazione, non c’è riparazione. C’è solo separazione e punizione, cioè un carcere che nel suo significato etimologico vuol dire letteralmente coercere cioè reprimere, “carcar” cioè sotterrare, tumulare. “Sembra sempre impossibile finché non lo hai fatto” disse Nelson Mandela che pensava e agiva verso livelli sempre più elevati di tutela della dignità umana. Parole potenti, perché potente è il vissuto di chi le ha pronunciate. Un uomo costretto in carcere per 27 anni, compreso quello duro, dell’isolamento totale. Nella forza dirompente che si genera da un pensiero orientato ai valori umani, quando sorretto da un agire con essi coerenti, come è stato quello di Mandela, accade che l’intera Assemblea generale delle Nazioni Unite, parliamo dell’organismo maggiormente rappresentativo la comunità internazionale, decida di chiamare Nelson Mandela Rules proprio gli standard minimi, rivisti nel 2015, per il trattamento dei detenuti. Vi si trova per la prima volta una definizione di cosa si debba intendere per isolamento e quale sia il tempo oltre il quale ci si comporti in modo non umano. È isolamento, si legge alla regola 44, il confinamento per 22 ore o più al giorno in una cella senza significativi contatti umani. E si aggiunge che è da intendersi come isolamento prolungato quello superiore a quindici giorni consecutivi. Un trattamento questo che, insieme all’isolamento indefinito, la regola 43 considera una forma di tortura o un trattamento o punizione crudele, inumana e degradante. La regola 45 stabilisce poi che, in ogni caso, è proibito l’isolamento dei detenuti che abbiano disabilità mentali e fisiche quando le condizioni possano aggravarsi in ragione della misura applicata. Va poi abolito in ogni caso per i minorenni. Se l’Italia “culla del diritto” si guarda allo specchio di questi standard internazionali, vede riflessa l’immagine di una “tomba del diritto”. Perché nel regime di isolamento al 41bis c’è chi vi è ristretto fin dalla sua introduzione avvenuta nel 1992. Parliamo di oltre 30 anni! Se è vero come è vero che “la durata è la forma delle cose” un sistema che dura così a lungo non è un sistema democratico e di emergenza, ma un vero e proprio Regime, totalitario e di prepotenza di cui è giunta l’ora di, finalmente, liberarsi come ci siamo liberati dal regime fascista che invece è durato “solo” un ventennio. Liberarsi di un trentennio di leggi di emergenza, tribunali speciali, regimi penitenziari inumani e degradanti, distruttivi a ben vedere non solo o non tanto della vita delle sue vittime ma della vita del diritto, dello Stato di Diritto. Senza contare che in questi regimi di isolamento, da malato vi è pure morto come ha raccontato Carmelo Gallico dalle pagine di questo giornale con suo fratello Giuseppe Gallico, agonizzante e ormai incosciente, in quella tomba scavata nel cemento che è la stanza del reparto protetto penitenziario all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano dove la moglie ha potuto rubare alla morte un attimo di vita stringendo la mano del marito dopo oltre 30 anni della separazione imposta dal vetro divisorio che impedisce qualsiasi contatto fisico ai detenuti del 41 bis. A questa forza mortifera di uno Stato che in nome delle ragioni di Abele diventa esso stesso Caino risponde una forza vitale. Quella che ha portato Nelson Mandela, nel carcere duro di totale isolamento in cui si trovava, a non perdere mai la speranza e ad incarnare la speranza del cambiamento. Mandela assurto dalla condizione di detenuto a quella di leader mondiale nonviolento la cui forza arriva fino a noi con le Regole delle Nazioni Unite che portano il suo nome e che hanno indotto all’aggiornamento, nel 2020, anche delle Regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Una forza costituita da un insieme di standard che vanno letti unitamente a quelli che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa definisce sulla base delle visite che effettua nei Paesi membri. Un Comitato che, monitorando il nostro Paese fin dalla introduzione di questo regime speciale ha rivolto innumerevoli raccomandazioni, financo arrivando a pensare e scrivere che l’insieme di restrizioni che connotano il regime di detenzione “41-bis” più che volto ad interrompere i collegamenti con l’esterno sembra volto ad indurre alla cooperazione con la giustizia il che ne farebbe una pratica altamente discutibile sotto il profilo dell’articolo 27 della Costituzione italiana oltre che degli strumenti internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte. Un Comitato che ha ritenuto il ricorso all’isolamento nelle sue svariate forme, non solo il 41bis ma anche l’isolamento diurno, il 14bis, l’art 32 e via dicendo, talmente problematico da fare una visita ad hoc in Italia sull’isolamento. Ora, le Regole di Mandela, le Regole penitenziarie europee, gli standard del CPT non sono giuridicamente vincolanti ma hanno la forza morale e politica propria degli organismi sovranazionali da cui promanano. Possono dunque influenzare e influenzano le scelte delle Amministrazioni e dei Paesi. Non ci sono obblighi, non ci sono diktat ma c’è una forza più sottile, quella della persuasione che deriva dalla autorevolezza di chi indica un percorso e dalla conoscenza della natura autentica di ciò di cui si parla. Mandela allora non ha dato solo il nome a quelle regole che sulla base del suo vissuto di prigioniero hanno ispirato il diritto internazionale, diritto che di per sé è sinonimo di limite invalicabile, cioè il limite che lo Stato pone a se stesso quando deve fare i conti con il male assoluto, con il più acerrimo dei suoi nemici. Nelson Mandela è stato insieme a Desomond Tutu il fautore di un’altra visione della giustizia. È successo nel suo Paese, il Sud Africa, quando nel 1995, alla fine dell’apartheid, per sanare le ferite del passato e guarire il dolore di vittime di violenze inaudite, i padri del nuovo Sud Africa non si sono affidati al solito tribunale ma hanno concepito una commissione detta “verità e riconciliazione”. La verità volta a non dimenticare le vittime: La riconciliazione per dare un futuro al Paese. Hanno lasciato spazio a una giustizia che non punisce e separa ma riconcilia e ripara. Hanno dato vita a uno stato non spietato, ma di grazia che quel Paese ha salvato, dandogli un futuro. 41 bis, un regime italiano: abbiamo il carcere più duro d’Europa di Alfonso Bianchi europa.today.it, 4 febbraio 2023 In diversi Paesi dell’Unione esistono regimi carcerari speciali per i detenuti ritenuti più pericolosi, principalmente rivolti ai terroristi, ma il nostro resta il più rigido e quello da cui è più difficile uscire. Il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico mandato al 41 bis, ha riacceso il dibattito in Italia sull’opportunità di questa forma estrema di detenzione che per molti è equiparabile alla tortura. Isolare una persona quasi completamente dagli altri detenuti e privarla della socialità, controllarla nei casi più gravi giorno e notte anche in cella con una videosorveglianza continua, allontanarla dai luoghi in cui vive la sua famiglia, rendendo difficile il mantenimento dei rapporti personali e controllare le conversazioni che ha con i suoi cari è davvero necessario per la sicurezza della società? Ed è umanamente accettabile? Quello del 41 bis è un caso praticamente unico in Europa, con solo pochi esempi di altri regimi simili che possono essere paragonati al nostro. “Anche in altri Paesi esistono regimi speciali che sostanzialmente sottopongono persona detenuta a restrizioni superiori a quelle di altri detenuti. Questi sono molto più duri nei Paesi che hanno dovuto confrontarsi con il terrorismo o in diversi Stati dell’Europa dell’Est, che hanno regimi carcerari più severi e di derivazione sovietica. Ma quello del 41 bis resta un regime che ha delle sue unicità”, spiega a Today.it Adriano Martufi, ricercatore di Diritto penale all’Università di Pavia e Guest Reaserch Fellow all’università di Leiden, nei Paesi Bassi, che è un esperto di questioni legate ai diritti dei detenuti. In Spagna i detenuti ritenuti più pericolosi sono sottoposti al ‘regimen cerrado’, il carcere più duro che consiste nell’isolamento in cella e un massimo di tre ore di attività all’aria aperta solitamente con soltanto un altro detenuto o al massimo con altri tre. Questo regime viene utilizzato principalmente per i militanti dell’Eta, il gruppo armato indipendentista basco. Sebbene non esistano carceri speciali per questi detenuti, questi vengono inviati in strutture molto lontane dalla loro città di origine, allo scopo di rendere difficili i contatti con i propri familiari o anche con altri membri dell’organizzazione. Proprio come avviene con il 41 bis in Italia. La revisione della decisione di affidamento al ‘regimen cerrado’, viene effettuata da una specifica commissione ogni tre mesi e confermata dalla Segreteria generale degli istituti penitenziari di Madrid. Il regime è stato criticato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, un organo del Consiglio d’Europa, che ha sottolineato come questi detenuti siano spesso sottoposti a violenze e il fatto che questa misura che dovrebbe essere speciale e limitata nel tempo, mentre viene spesso prolungata per periodi troppo lunghi. Uno degli Stati che più recentemente ha introdotto regimi di carcere più duro è il Belgio. Dopo gli attentati di Parigi del 2015 il Paese ha introdotto il D-radex, un rigido regime di detenzione per i detenuti ritenuti estremisti o terroristi islamici, che dovrebbe servire innanzitutto a evitare che facciano proselitismo in prigione e poi a de-radicalizzarli. Esistono nella nazione due sezioni D-radex, a Ittre e Hasselt, ciascuna con circa 20 celle. Queste sezioni sono come prigioni all’interno della prigione. I detenuti in queste sezioni non hanno contatti con gli altri detenuti e sono soggetti a regole di confinamento più severe, restrizioni alle telefonate e hanno diritto a visite esterne solo sotto la supervisione di una guardia. Hanno diritto a solo un’ora d’aria al giorno, a gruppi di tre, sotto controllo e senza avere quasi nessun accesso ad attività, formazione e lavoro in carcere. In questo regime è ad esempio detenuto Salah Abdeslam, uno dei membri del commando responsabile degli attacchi coordinati di Parigi del 13 novembre 2015. Nel 2021 alcuni dei detenuti sottoposti a questo regime hanno vinto una causa che ha riconosciuto la disumanità delle loro condizioni di detenzione e l’assenza di una vera possibilità ricorso, concedendo loro un’indennità di 2.500 euro ciascuno per danni morali. Uno dei regimi più simili al 41 bis nell’Unione europea esiste in Polonia. Lì i detenuti ritenuti più pericolosi per aver commesso crimini di una particolare crudeltà, perché ritenuti responsabili di aver attentato alla sovranità o all’integrità della Repubblica, per aver commesso violenze contro altri detenuti o agenti o anche per, come in Italia, essere ritenuti membri della criminalità organizzata, possono essere messi nella cosiddetta sezione N. Il nome deriva dalla prima lettera della parola ‘niebezpieczny’, che in polacco significa appunto pericoloso. Questi detenuti sono sottoposti a una costante supervisione dei movimenti, all’esterno e all’interno della cella. I detenuti ‘pericolosi’ possono lavorare, studiare, pregare, fare attività sportive, educative e culturali ma solo nella sezione separata. Tutti i loro movimenti sono possibili solo sotto scorta e ogni volta che lasciano la cella sono sottoposti a severi controlli personali e alcuni denunciano che spesso sono anche troppo invasivi e violenti. Questo regime era stato condannato nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che nel caso Piechowicz ha puntato il dito contro Varsavia sostenendo che un regime del genere se non è giustificato da motivazioni valide e soprattutto se non è limitato nel tempo ma è continuativo, viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani che proibisce la tortura o i trattamenti inumani o degradanti. Da allora il Paese ha leggermente corretto il tiro ma il regime resta in vigore ed è sempre molto duro. “Di fatto questo è anche il principale problema del 41 bis in Italia, ma la nostra legislazione in materia ha avuto l’abilità di mettere in piedi un espediente per sfuggire alle condanne della Cedu. Il 41 bis viene inizialmente dato per un massimo di 4 anni, che poi sono di volta in volta rinnovabili di altri due. In questo modo si presenta come regime transitorio ma di fatto finisce per essere un regime permanente a cui vengono sottoposti gli ergastolani fino alla morte, come dimostra la vicenda di Bernardo Provenzano”, che è morto al 41 bis nonostante le sue condizioni fisiche e psicologiche non fossero più tali da permettergli di costituire un rischio per la società. La Cedu ha condannato il nostro Paese per quel caso, ma non per il 41 bis in sé. “Di fatto però quello di Provenzano non è un caso isolato perché la gran parte dei detenuti in quel regime sono ergastolani e per loro il 41 bis viene di fatto rinnovato quasi automaticamente, basta l’assenza di notizie che possano far pensare che le condizioni di legame con l’organizzazione criminale di appartenenza siano cambiate”, spiega Marfufi. Di fatto la pericolosità del detenuto non viene di nuovo realmente riesaminata, e si finisce per andare avanti con rinnovi continui. In più il regime si accoppia spesso all’ergastolo ostativo, mostrando ancora più la natura permanente del 41 bis e non solo temporanea: secondo i dati di Antigone dei detenuti al 41 bis, 298 sono ergastolani. Per Martufi quello di Cospito rischia di diventare un nuovo caso Provenzano. “Se continuerà con lo sciopero della fame, anche se ci sarà un’alimentazione forzata, quell’uomo perderà le normali capacità motorie e cognitive e, al di là della gravità o meno dei crimini per i quali è stato condannato, decadranno di fatto le condizioni per una sua detenzione al 41 bis. Se lo Stato deciderà quindi di accanirsi contro di lui questo verrebbe sicuramente ritenuto dalla Cedu una violazione dell’articolo tre, una forma di tortura”. Utilizzare il carcere duro solo per i boss mafiosi di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 4 febbraio 2023 Se l’idea fosse condivisa si dovrebbe aggiornare la normativa. E l’eventuale revoca per Cospito non suonerebbe come provvedimento ad personam. Il caso Cospito è come un prisma a più facce. C’è innanzitutto l’aspetto personale, legato al rischio per la salute e la vita del singolo soggetto (valori, non occorre dirlo, da tutelare al massimo possibile). Poi c’è l’effetto catalizzatore, ossia la capacità di portare l’attenzione dell’opinione pubblica su temi di carattere generale, come la situazione carceraria e il 41 bis. Quanto alla situazione carceraria sarebbe bello se tutti (anche gli intellettuali e gli artisti che sfornano appelli) si occupassero non solo di Cospito ma anche degli 84 suicidi del 2022, degli oltre mille tentativi di suicidio sventati e degli innumerevoli episodi di autolesionismo, dati che sono la cartina di tornasole della complessità del carcere. Prevale invece (con lodevoli eccezioni) l’indifferenza, salvo scuotersi quando c’è un caso che fa notizia. Quanto al 41 bis, sostiene Cospito che la sua lotta estrema per abolirlo è una lotta in favore di tutti i detenuti assoggettati a questo regime. Tant’è che ha dichiarato di voler continuare lo sciopero della fame anche nel caso che la misura gli fosse tolta. Tutti i detenuti al 41 bis: quindi anche i mafiosi (grati). A questo punto urge fare un po’ di chiarezza su mafia e 41 bis. Non stiamo a ripetere che si tratta di una norma approvata subito dopo e per effetto delle stragi del 1992, perciò letteralmente intrisa del sangue e del sacrificio di Falcone e Borsellino. E non ripetiamo neppure che il 41 bis, unito alla legge sui “pentiti”, ha costituito una tenaglia che ha portato a una slavina di mafiosi disposti a collaborare, disarticolando Cosa nostra che stava travolgendo la democrazia. Ricordiamo invece come il 41 bis (e i “pentiti”) sia per i mafiosi irriducibili questione di vita o di morte. Letteralmente. Dall’epoca di Riina (disposto a “giocarsi i denti”, intendendo quel che si ha di più caro) pur di togliersi di dosso questi pesantissimi e micidiali fardelli, fino ai giorni nostri (tempo di messaggi trasversali ma inequivoci, come nel caso del ventriloquo Baiardo). Chi definisce come vendetta l’istituto del 41 bis non sa bene cosa dice. Piuttosto rifletta sulla specificità della mafia, riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale. Il “doppio binario” (41 bis compreso) serve a contrastare il carrarmato mafioso non con una cerbottana ma con norme e mezzi adeguati, in quanto calibrati sulla specifica realtà della mafia, che è diversa da ogni altro fenomeno criminale. Dunque la specificità (diversità) consente di ricondurre il doppio binario e il 41 bis a quei parametri di ragionevolezza che orientano la valutazione in tema di eventuali contrasti con la Carta. In ogni caso, a quelli che invocano lo Stato di diritto o la Costituzione per perorare la causa dei detenuti al 41 bis, si può obiettare che sarebbe doveroso pretendere almeno delle scuse da chi si è “impegnato” coscienziosamente a sabotare la democrazia, altrimenti toccheremmo i vertici dell’assurdo svilendo lo Stato di diritto e la Costituzione al rango di porte girevoli o bancomat. Fatta un po’ di chiarezza, resta il caso Cospito, ormai diventato una sorta di tempesta perfetta capace di produrre danni a raggiera. La prima soluzione è lasciar cadere le richieste del detenuto (perché lo sciopero della fame è una sua scelta personale; perché le strutture di Milano-Opera assicurano un’adeguata assistenza medica; perché le controproducenti violenze degli anarchici in Italia e in Europa di fatto sono di ostacolo). L’altra soluzione è trovare una risposta praticabile. Ma quale? Si potrebbe partire confrontandosi sulla tesi se fuori del perimetro specifico della criminalità mafiosa il 41 bis non sia così indispensabile come lo è per i boss irriducibili. Se la tesi fosse condivisa si dovrebbe tradurla in un congruo aggiornamento della disciplina normativa sia dei circuiti carcerari di sicurezza sia della tipologia dei detenuti di ciascun circuito, riservando appunto ai mafiosi il regime di maggior rigore del 41 bis (blindandolo contro le ricorrenti tentazioni di rimuoverlo). In un simile contesto, l’eventuale revoca del 41 bis a Cospito non suonerebbe come provvedimento ad personam, ma piuttosto come rientrante in un disegno più ampio di carattere generale. Escamotage? Sofisma? Tempi troppo lunghi? Può darsi, ma sarebbe un modo per provare quantomeno a ridurre i danni. E comunque (volendo introdurre a margine di tanta cupezza una nota leggera) si opererebbe in sintonia col ministro Nordio che non ama chi vede mafia ovunque... Ovviamente, una soluzione del genere (o ispirata ad altro tipo di mediazione senza cedimenti) postula un minimo di concordia in Parlamento. Dove invece sembra regnare - almeno in alcuni - la propensione a utilizzare (anche quando si tratta di atti “sensibili” riservati) quel che sembra più conveniente alla propria fazione. Il famoso “bene comune”. Cospito “peggiora di ora in ora”, ma rifiuta l’alimentazione forzata di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 febbraio 2023 41bis. Visita della senatrice Ilaria Cucchi al detenuto nel carcere milanese L’anarchico scrive al Dap: anche se incosciente niente nutrizione. Alfredo Cospito non ha alcuna intenzione di interrompere il suo sciopero della fame che va avanti da 107 giorni. L’ha detto ormai in tutte le lingue del mondo e ha fatto arrivare al Dap una lettera nella quale esprime la sua volontà di non ricevere alcuna forma di alimentazione forzata anche qualora dovesse peggiorare fino al punto di non essere più cosciente. È la prima volta che al carcere milanese di Opera arriva una richiesta del genere. Attualmente, Cospito sta scontando la sua condanna in regime di 41 bis nella sezione clinica dell’istituto e condivide la sua socialità (si fa per dire) con due detenuti allettati e un terzo che però non esce mai dalla sua cella. Per il resto, le sue condizioni, assicurano anche i magistrati di Milano che sono andati a fargli visita, restano critiche ma stabili: il deperimento è evidente, le forze sono sempre meno e l’anarchico ha smesso pure di prendere gli integratori, limitandosi a bere molta acqua e assumere di tanto in tanto sale e zucchero. Dall’inizio della sua protesta, afferma l’avvocato Flavio Rossi Albertini, Cospito ha perso oltre 45 kg e per camminare ha spesso bisogno di aiutarsi con una sedia a rotelle. Nella giornata di ieri, poi, la senatrice dell’Alleanza Verdi Sinistra Italia Cucchi si è recata a Opera per incontrare il 55enne originario di Pescara. Il colloquio è durato circa un’ora e si è svolto attraverso la porta della cella. Senatrice Cucchi, la prima domanda è d’obbligo: come sta Alfredo Cospito? A mio avviso sta male. Non sono un medico, ma non occorre esserlo per rendersi conto di quali siano le sue condizioni: allarmanti, peggiora di ora in ora. Ho potuto vederlo solo attraverso la grata della porta ed era in piedi. L’ho trovato lucido, fermo ed estremamente determinato a portare avanti il suo sciopero della fame. Mi ha detto con molta chiarezza che non vuole fermarsi e sono convinta, purtroppo, che non si fermerà. Mi sembra davvero una cosa terribile e molto preoccupante. Come l’ha accolta? Mi ha detto che sarò l’ultima parlamentare che accetterà di incontrare e ha detto sì al colloquio con me solo in virtù della mia storia personale, per quello che rappresento insomma. Da quando sono diventata parlamentare ho fatto diverse visite alle carceri italiane perché il mio mandato me lo consente, anzi è un preciso compito che ci viene dato, e ritengo importante farlo. Non faccio passerelle, né le fanno gli altri parlamentari che pure entrano nei penitenziari per incontrare i detenuti e verificare il modo con cui vengono trattati. Sono andata a trovare Cospito sia per verificarne le condizioni sia perché, visto il mio vissuto, ho ritenuto importante farlo. È una forma di testimonianza. Stefano, mio fratello, è morto di carcere e nessuno dovrà mai più morire in questo modo. Cospito le è sembrato consapevole di quello che accade fuori dal carcere, cioè del dibattito pubblico che si è scatenato intorno al suo caso? In tutta onestà non saprei dirlo. Gli ho fatto diverse domande, ma lui non ha risposto a niente. Ha ripetuto varie volte di stare bene e che non c’è bisogno di preoccuparsi per lui, ma per gli altri detenuti, soprattutto quelli anziani o malati. Mi ha fatto tanti esempi di persone in condizioni gravissime e che, a mio parere, sono praticamente dei condannati a morte. Lei invece cosa pensa delle polemiche degli ultimi giorni sulle visite in carcere dei parlamentari accomunate dalla destra a “inchini” ai mafiosi e ai terroristi? Ripeto che andare a visitare gli istituti di pena è un dovere dei parlamentari: tutti dovrebbero farle. Poi mi aspetterei le dimissioni sia di Donzelli sia di Delmastro, anche se è del tutto evidente che non arriveranno mai. Quello che abbiamo visto in Parlamento, a mio avviso, è gravissimo e dimostra da parte della maggioranza un senso d’impunità che fa rabbrividire. Sono passati tre mesi dall’insediamento di questo governo e già abbiamo visto diverse cose tremende come il decreto rave e tante altre. Mi domando cosa ancora potrebbero fare in futuro. E che giudizio dà delle azioni anarchiche che pure abbiamo visto ultimamente? Io condanno tutti i gesti violenti, dal primo all’ultimo. Poi ritengo che questi comportamenti possano essere anche dannosi alla causa che si vuole sostenere, perché, lo sappiamo bene, le risposte potrebbero essere spiacevoli. Io sono convinta che una mobilitazione pacifica debba esserci: il tema è importante e l’attenzione va tenuta alta. Sostengo ogni iniziativa di questo tipo, ma sono fermamente contraria a qualsiasi violenza. ll Dap rispetterà il no formale di Cospito alla nutrizione? Zero risposte di Valentina Stella Il Dubbio, 4 febbraio 2023 Il Dap ha ricevuto e protocollato le dat firmate dall’anarchico in sciopero della fame? Ricevere una risposta significa avere la certezza che le volontà di Cospito vengano rispettate qualora non fosse più in grado di esprimersi. Questa mattina l’Ansa ha battuto questa notizia: “Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da ottobre contro il 41 bis, ha fatto pervenire al Dap una dichiarazione nella quale esprime la sua volontà perché non si proceda con l’alimentazione forzata, nel caso in cui le sue condizioni peggiorassero al tal punto e fosse incosciente. Da quanto si è saputo, è la prima volta, almeno a Milano (il 55enne si trova nel centro clinico del carcere di Opera), che arriva una dichiarazione di questo tipo da parte di un detenuto nelle sue condizioni”. Solo tre giorni fa eravamo stati i primi a scrivere che Cospito, con due lettere indirizzate al suo avvocato Flavio Rossi Albertini, aveva “espressamente dichiarato di voler rifiutare l’alimentazione forzata”. Il legale ci aveva spiegato che aveva provveduto a inoltrare i due scritti al Dap, al Provveditorato regionale quando era ancora recluso in Sardegna e al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, e che “secondo me anche in caso di incoscienza non può essere alimentato forzatamente. Io conservo questo suo documento in cassaforte qui a studio”. Letto il lancio dell’Ansa, abbiamo chiesto all’avvocato se quella fosse una ulteriore missiva di Cospito, ma ci ha risposto di no e che “tutto è fermo all’articolo che avete scritto voi”. Anche perché non esiste una sede del Dap a Milano. Sempre tre giorni fa, per saperne di più, per capire se effettivamente il Dap sia a conoscenza delle ultime volontà di Cospito, abbiamo inviato una stessa pec a due indirizzi del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (prot.dap@giustiziacert.it, che legge l’Ufficio del Capo di dipartimento Giovanni Russo, e prot.dgdt.dap@giustiziacert.it, riferito alla Direzione generale dei detenuti e del trattamento, diretto da Gianfranco De Gesu). Le nostre due richieste erano semplici: il Dap ha protocollato le lettere di Cospito trasmesse dal legale di quest’ultimo? E le ha inoltrate al centro clinico di Opera dove adesso è assistito il detenuto? Nonostante le pec siano state regolarmente consegnate dal sistema di posta elettronica, non abbiamo ricevuto risposta. Abbiamo anche chiamato per sollecitare, informato il Ministero tramite l’Ufficio stampa, ma il Dap tace. Conferma o smentisce quanto scritto dall’Ansa? E perché non risponde alle nostre semplici richieste? Ricevere una risposta a quelle domande significa avere la certezza che le volontà di Cospito vengano rispettate qualora non fosse più in grado di esprimersi. Anche perché ieri Guido Salvini, magistrato da oltre 40 anni a Milano, all’Adnkronos ha ricordato che nel 1981, da giovane uditore, si trovò di fronte a un militante di Prima linea pronto a lasciarsi morire in carcere con uno sciopero della fame a oltranza, e che nei confronti di quel detenuto, il provvedimento del giudice istruttore Pietro Forno impose l’alimentazione forzata. “Fu una scelta che provocò un vasto dibattito tra chi la condivideva e chi no, tra chi vedeva una eventuale scarcerazione come un cedimento e chi invece considerava l’alimentazione forzata una violenza nei confronti del detenuto. Potrebbe anche oggi porsi nel caso Cospito lo stesso dilemma. Aggiungo che una sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo del dicembre 2022 ha stabilito che, dovendo lo Stato salvaguardare la vita dei detenuti, l’alimentazione forzata non è un trattamento vietato o degradante purché avvenga in condizioni di pericolo imminente e con il minimo di violenza sulla persona”, ha concluso Salvini. Eppure due giorni fa vi avevamo raccontato che secondo il costituzionalista Carlo Casonato e il presidente degli Ordini dei Medici Filippo Anelli il no anticipato alla nutrizione artificiale prevale anche se il detenuto Cospito perde conoscenza. E il momento potrebbe essere vicino, secondo le parole allarmanti del suo avvocato: che ha inoltrato una richiesta al ministro della Giustizia Nordio affinché la sua risposta su Cospito “avvenga in tempi rapidissimi, qualunque essa sia. Le condizioni di Alfredo, il suo fisico provato, i quasi 110 giorni di digiuno, i 45 kilogrammi di dimagrimento non consentono più ritardi o attendismi di sorta”, ha aggiunto Rossi Albertini. E il Dap è consapevole e pronto ad affrontare quella situazione? L’istruttiva storia della grazia ad Alfredo Cospito di Federica Olivo huffingtonpost.it, 4 febbraio 2023 Meloni la racconta a metà, per cui la raccontiamo per intero noi: prima di essere graziato da Cossiga, fu ripetutamente condannato per renitenza alla leva. E così una legge senza senso venne dichiarata incostituzionale. “Nel 1991 lo Stato lo ha graziato ed è andato a sparare a della gente”, ha detto ieri la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, parlando di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da 106 giorni, contro il 41 bis. La premier, nel tentativo di legittimare la linea durissima del governo sul carcere duro al detenuto, trasferito pochi giorni fa al carcere di Opera, ripesca un episodio di cui in effetti ancora nessuno aveva parlato. Nei primi anni Novanta, Cospito - che aveva poco più di 20 anni e già una prima condanna alle spalle - fu condannato per un comportamento che al tempo era reato, ma per cui oggi non sarebbe mai arrivato neanche a processo. Siccome aveva iniziato a non alimentarsi, il padre chiese la grazia al presidente della Repubblica, il quale - ai tempi c’era Francesco Cossiga - la concesse, nel dicembre 1991. Tutto vero, dunque, anche se pare evidente che le parole di Meloni siano del tutto strumentali: non esiste, infatti, alcun nesso tra una grazia concessa a un 24enne, più di 30 anni fa, e il 41 bis cui è sottoposto mentre è in carcere per reati, ben più gravi, commessi quasi vent’anni dopo. Quello che, però, la presidente del Consiglio non racconta è perché Cospito fosse in carcere nei primi anni Novanta. Soprattutto, Meloni non racconta che quel caso è finito davanti alla Corte costituzionale e, come si dice in giuridichese, ha fatto scuola. E, in un’epoca in cui esisteva ancora la leva obbligatoria, ha fatto togliere dall’ordinamento una legge quantomeno bizzarra. Cospito, infatti, era a giudizio a causa di una legge che stabiliva che, se una persona non ottemperava alla leva obbligatoria, ma non faceva neanche obiezione di coscienza per motivi religiosi, morali o filosofici, doveva essere condannata per “mancanza alla chiamata”. Non solo. Espiata la prima condanna, se non si decideva ad adempiere all’obbligo di servizio militare, né a fare il servizio civile, la stessa persona poteva essere condannata nuovamente - due, tre, dieci volte, fino a quando non si decideva a fare la leva obbligatoria - per “diserzione aggravata”. Si creava, insomma, quella che lo stesso giudice costituzionale aveva definito una “spirale di condanne”. Una spirale lunghissima, che poteva finire solo per ragioni anagrafiche, e cioè quando il “renitente alla leva” avesse compiuto 45 anni e, quindi, l’obbligo fosse venuto meno per ragioni di età. La storia è singolare. E lo è perché il soggetto che in questi giorni viene considerato una potenziale minaccia, perché condannato per due reati molto gravi - la gambizzazione del manager di Ansaldo Nucleare e un attentato con ordigni a bassa intensità, che non hanno fatto morti né feriti, davanti a una caserma di allievi carabinieri - e perché con il suo sciopero della fame ha dato il via a una serie di proteste contro il 41 bis, che comportano non pochi rischi di ordine pubblico, trenta anni fa aveva contribuito a cancellare una legge dello Stato. Una legge che, a guardarla con gli occhi dell’uomo contemporaneo, pare più surreale che vessatoria. Naturalmente questo contributo è stato dato inconsapevolmente da Cospito, poiché alla Corte costituzionale si può rivolgere solo il giudice e non il singolo cittadino. Ma la coincidenza è ugualmente interessante. La storia, in sintesi, è questa e si può leggere nelle poche pagine della sentenza numero 343 del 1993 della Corte costituzionale. Il giovane Cospito viene chiamato alla leva - ai tempi obbligatoria - ma non risponde alla chiamata. Già ai tempi, si poteva dichiarare di non voler partecipare al servizio militare obbligatorio per motivi religiosi, morali o filosofici: la cosiddetta obiezione di coscienza. Fuori da questi casi, se non andavi alle armi, la galera era assicurata. Cospito però, già anarchico, dichiara, “di non sentirsi vincolato in coscienza dal dovere di prestare il servizio militare o altro servizio alternativo”. I motivi politici non erano contemplati nella legge come ragione di esonero dalla leva e, in ogni caso, chi diceva no alla naja era obbligato a spiegare il perché e avrebbe comunque dovuto fare un’attività alternativa di utilità sociale. Cospito non fa né l’una né l’altra e, così, si becca una condanna a un anno per “mancanza alla chiamata”. Ne sconta solo una parte, perché interviene un’amnistia. A quel punto, però, continua a sottrarsi all’obbligo di fare il militare, ed ecco che arriva la seconda condanna, a un anno, nove mesi e dieci giorni per diserzione aggravata. Quando è in carcere per questa seconda condanna fa lo sciopero della fame e viene graziato. Storia finita? Neanche per idea, e non perché l’anarchico pescarese sia andato a sparare, come dice la Meloni - ha sparato vari anni dopo - ma perché una procura lo persegue di nuovo per il fatto che continua a sottrarsi all’obbligo di leva. Cospito viene rinviato a giudizio di nuovo per diserzione e, a quel punto, il suo giudice si rivolge alla Corte costituzionale. Perché? Perché sostiene che la legge secondo cui una persona che non adempie all’obbligo di leva debba essere condannata a ripetizione fino al compimento del quarantacinquesimo anno di età sia incostituzionale. E che il trattamento riservato a chi si dichiara “obiettore totale” sia molto più duro rispetto a chi chiama in causa motivi di morale, filosofia e religione e poi non adempie al servizio civile. La Consulta, del resto, già nel 1991 aveva detto che una pena più grave per gli obiettori totali andava anche bene, ma ciò, sostiene il giudice, che ha fatto ricorso, “non potrebbe comunque portare ad irrogare a un soggetto che rifiuti irriducibilmente di svolgere il servizio militare quella serie di condanne penali così lunga e pesante da poterne distruggere la sua intima personalità umana e la speranza di una vita normale”. “L’ipotesi di una spietata successione di condanne - si legge nella sentenza, nella parte in cui si spiegano le ragioni del giudice che ha fatto ricorso - per una condotta ontologicamente unitaria di rifiuto assoluto e incondizionato di svolgere il servizio militare appare in contrasto con il principio costituzionale della tutela della coscienza individuale, il quale costituisce esplicazione della protezione dei diritti inviolabili assicurata dall’art. 2 della Costituzione”. Vengono chiamati in causa l’articolo 3, per il principio di uguaglianza, e l’articolo 27 della Costituzione. Quest’ultimo perché, si legge: “La pena, infatti, diviene un trattamento contrario al senso di umanità nel momento in cui tende alla coartazione morale della persona”. Né, continua lo stesso giudice, “può essere ravvisata alcuna finalità rieducativa in una sorta di ‘sfida’ o di ‘prova di forza’ tra la volontà dello Stato e quella dell’individuo, che dovrebbe portare a ‘piegare’ quest’ultima volontà solo dopo averne negato il valore come persona umana”. Dopo aver fatto una serie di approfondimenti, la Corte costituzionale dice che il legislatore ha fatto un bilanciamento sbagliato, considerando l’obbligo militare più importante della libertà personale, dà ragione al giudice e, di riflesso, a Cospito. Viene, quindi, dichiarata incostituzionale una norma della legge sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza, nella parte in cui “non prevede l’esonero dalla prestazione del servizio militare di leva a favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente (..) la prestazione del servizio stesso dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati nell’art. 1 della legge n.772 del 1972 o senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la pena della reclusione in misura complessivamente non inferiore a quella del servizio militare di leva”. In altre parole: i mesi di carcere che Cospito avrebbe dovuto necessariamente scontare non avrebbero dovuto essere superiori ai mesi di leva obbligatoria. Le rimostranze, anche un po’ eclatanti, di un anarchico che non riconosce lo Stato, in quel caso hanno contribuito a migliorare le leggi dello Stato stesso. E chissà che questo schema non si ripeta ancora: difficile, allo stato, che succeda per eventuali modifiche al 41-bis. Potrebbe, però, succedere per il reato di strage aggravata, per cui Cospito è stato condannato - per la vicenda delle bombe davanti alla caserma - all’ergastolo ostativo. La corte d’Appello, invece di confermare quanto stabilito dalla Cassazione - che aveva deciso che il reato di Cospito non era una strage semplice ma una strage per attentare alla sicurezza dello Stato - si è rivolta al Giudice delle Leggi. E gli ha chiesto di stabilire se è costituzionale che per questo reato sia previsto solo ed esclusivamente l’ergastolo. Ed escluse tutte le pene minori. Anche se, come nel caso di Cospito, il reato non causa vittime, né feriti. La Consulta dovrà esprimersi nei prossimi mesi. E chissà che da una storia che al momento ha solo un caleidoscopio di connotati negativi, non venga scritta una nuova pagina per lo stato di diritto. Una pagina bella, in questo caso, perché indirizzata al rispetto della Costituzione. Meloni, Nordio e la morsa Cospito: “Ora serve unità di Errico Novi Il Dubbio, 4 febbraio 2023 Appello della premier ai partiti. Balboni (FdI): il recluso colga segnali come l’anticipo dell’udienza in Cassazione. Con i sottosegretari alla Giustizia Andrea Delmastro e Andrea Ostellari messi sotto scorta. Ma anche con una prospettiva dalle conseguenze incalcolabili: la morte di Cospito al 41 bis. E il punto, chiaro a Palazzo Chigi come a via Arenula, è innanzitutto uno: c’è margine politico per sottrarre l’anarchico al “carcere duro”? Nordio non considera implausibile, ovviamente, il discorso avanzato dalla Procura nazionale antimafia: considerato il quadro d’insieme, Cospito potrebbe anche essere riportato dal 41 bis al regime “Alta sicurezza 2”, gradino immediatamente inferiore nella gerarchia delle restrizioni penitenziarie. Il ministro della Giustizia, spiega chi ha avuto modo di parlarci dopo l’acquisizione dei pareri sull’istanza presentata dall’anarchico, ha sul tavolo tutte le questioni, tutte ben presenti: l’analisi della Dna come quella, di segno diverso, della Procura generale di Torino. Non ha pregiudizi, il guardasigilli, né ignora il rischio che un eventuale decesso di Cospito apra scenari pesantissimi. Sa meglio di tutti che esiste una dichiarazione anticipata di trattamento trasmessa dal difensore del detenuto, Flavio Rossi Albertini, al Dap. Sa naturalmente che la richiesta perentoria avanzata da Cospito di non essere sottoposto a nutrizione forzata e dunque di essere lasciato morire non esaurisce di per sé il dilemma. Perché non sarebbe del tutto vero che i medici del carcere milanese di Opera, presso cui si trova l’anarchico, dovrebbero rinunciare a qualsiasi tipo di soccorso. E va chiarito se non si possa trovare una via d’uscita nel confronto con i familiari del recluso. Ma è vero, oggettivamente, che l’ipotesi di morte al 41 bis, per Cospito, esiste. Lo ha ricordato anche la senatrice di Avs Ilaria Cucchi, che ieri gli ha fatto visita e ha confermato: “Non intende interrompere lo sciopero della fame”. E non si tratta solo di un possibile tragico epilogo per il detenuto. Ne deriverebbero conseguenze per lo Stato. Anche per la tenuta “ideologica” del 41 bis, per il consenso attorno all’istituto. Tutti argomenti che sono considerati, seppure a un livello diverso, anche da Giorgia Meloni. La quale ieri ha pronunciato da Berlino, dove ha incontrato il cancelliere Scholz, parole coerenti con la gravità della situazione: “Dobbiamo essere uniti”, serve “responsabilità” da parte di tutte le forze politiche. Frasi che lasciano cogliere lo stato di allerta a cui si è consegnata la premier. Meloni ha un “file” sempre aperto sulla vicenda dell’anarchico e un canale di comunicazione sempre attivo con il suo ministro della Giustizia. E nei colloqui fra “Carlo” e la presidente, c’è una bilancia che misura i due scenari: da una parte la ricordata valanga di conseguenze che una morte di Cospito al “carcere duro” potrebbe innescare, inclusa un’escalation delle violenze che la disaggregata e incontrollabile galassia anarchica potrebbe moltiplicare. Dall’altra, come fa notare sempre chi ha avuto modo di confrontarsi con Nordio, il rischio che un’apertura sull’istanza di revoca del 41 bis per Cospito trasformi l’”arma” dello sciopero della fame nello strumento utilizzato da chiunque, persino da Matteo Messina Denaro, per vanificare l’efficacia dell’istituto. Ecco, se c’è una rappresentazione concreta in cui Meloni, anche nel confronto con Nordio, ha tradotto il suo “nessun cedimento a minacce e violenze”, se c’è un punto di caduta di quella “fermezza”, è nel pericolo che il 41 bis sfugga completamente di mano: cedere potrebbe voler dire aprire la strada a una catena di emulazioni, ad altri Cospito, mafiosi e non, che cercherebbero lo stesso clamore e lo stesso risultato. Vuol dire che sul no alla revoca del 41 bis si è già deciso? Non esattamente. Si ragiona con prudenza, in ogni caso. E inevitabilmente si guarda a un orizzonte limitato. Adesso l’udienza in cui la Cassazione potrà rivalutare in no dei giudici di sorveglianza all’altra istanza di Cospito, quella in cui ha chiesto appunto ai magistrati di sottrarlo al carcere duro, è anticipata al 24 febbraio. Un termine comunque lontano per un detenuto in sciopero della fame da oltre cento giorni, che ha perso decine di chili, rifiuta anche gli integratori e dice no in anticipo all’alimentazione artificiale nel caso in cui perdesse conoscenza. Ma in proposito c’è un punto di vista, “personale, sia molto chiaro, e per nulla riferibile alla presidente del Consiglio”, avanzato dal vertice della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, il senatore di FdI Alberto Balboni. Il quale fa notare un risvolto: “La scelta compiuta dalla Suprema corte di Cassazione di anticipare il più possibile l’udienza potrebbe, o almeno dovrebbe segnalare a Cospito quanta attenzione vi sia, per il suo caso, da parte delle istituzioni. Anche la celerità con cui il ministro della Giustizia ha condotto l’istruttoria sull’istanza di Cospito mi pare dimostri la stessa cosa. Sarebbe sensato che il detenuto sospendesse almeno lo sciopero della fame fino all’udienza del 24”. Ma, ammette Balboni, “è difficile che una scelta simile arrivi da chi dichiara apertamente di non riconoscere né la legge né le istituzioni”. Di tempo non ce n’è quasi più, nei fatti, come ha ribadito ieri l’avvocato Rossi Albertini. Lo sa Nordio. Lo sa Meloni. Se lo sono detti, evidentemente. Il che per ò non basta, per ora, a incoraggiare una scelta che, ai vertici del governo, continua a evocare troppo da vicino l’idea del cedimento. Donzelli-Delmastro, l’exit strategy di Meloni di Ilario Lombardo La Stampa, 4 febbraio 2023 La premier potrebbe convocare il grande accusato o scegliere di revocargli le deleghe. Sul caso anche l’attenzione del Colle. La risposta in differita, a questo punto, dovrebbe arrivare oggi. E si intuisce che per l’occasione Giorgia Meloni potrebbe tirar fuori la sua agendina e dire in video cosa pensa del caso Delmastro-Donzelli. Se sceglierà il format settimanale “Gli appunti di Giorgia”, la premier dirà quello che non ha detto ieri quando La Stampa gli ha chiesto tre cose: se condivide la frase del suo sottosegretario alla Giustizia sul Pd che “si inchina alla mafia”, se ritiene istituzionalmente opportuno che sempre Delmastro, il duro di Fratelli d’Italia inviato a Via Arenula, abbia divulgato documenti sensibili su cui indaga la procura di Roma; infine: se stia pensando di chiedere un passo indietro al suo fedelissimo. Ha detto che risponderà, e c’è da credere che lo farà. Ma quale strada sceglierà? Le ipotesi, al momento, sono diverse e vanno contestualizzate nella cornice di una vicenda che sta provocando forti imbarazzi alla presidente del Consiglio. Anche solo il fatto di essere inseguita fino a Berlino dalle polemiche, costretta a deviare rispetto ai dossier internazionali che preoccupano il governo, mentre è accanto al cancelliere Olaf Scholz, l’ha convinta che va dato un segnale, che una sua iniziativa personale non è più rinviabile. È quello che in qualche modo si attendono anche al Quirinale. Il presidente della Repubblica non ha detto nulla, né sembra intenzionato a intervenire, almeno fino a quando i magistrati romani non si esprimeranno. I rapporti con Meloni, ripetono, sono buoni e vanno mantenuti così. Poi - è il ragionamento che fanno al Colle - è anche il suo ruolo di presidente del Consiglio superiore della magistratura a imporre questa cautela. Nelle triangolazioni con il Parlamento però trapela comunque un’attenzione del capo dello Stato verso il cortocircuito istituzionale e la feroce frattura politica che ha generato con l’opposizione. I toni sono arrivati a un punto insostenibile, per le regole della normale dialettica democratica. Cosa che pensano anche molti ministri e alleati di coalizione. Ed è quello che in qualche modo ha lasciato intendere Meloni ieri, da Berlino. Bisogna sanare questa ferita, ricucire i rapporti, e farlo subito. La premier sta meditando come uscirne. Delmastro e Donzelli rappresentano il dna del melonismo, sono i volti della rivalsa a destra e in qualche modo con il loro comportamento hanno coinvolto direttamente la leader. Lei lo sa, nonostante in cuor suo si dica che in tanti anni di lotta politica “si è arrivati altre volte a questi livelli di scontro”. Ma l’orgoglio storico che rende i fratelli di partito una testuggine, una famiglia che si difende sempre dagli attacchi esterni, questa volta potrebbe danneggiare la reputazione dell’esecutivo. È quello che sta cercando di capire Meloni: fino a che punto può essere trascinata in giù, con i suoi colonnelli. La premier sperava di chiuderla con l’inchiesta interna ordinata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, una ricognizione velocissima per chiarire se i documenti che Delmastro aveva passato a Donzelli fossero coperti da segreto o classificati. Non è stato così. E ora dentro FdI in tanti ricordano cosa successe con Carlo Fidanza, l’europarlamentare che si autosospese dal partito perché coinvolto nell’inchiesta sui finanziamenti della cosiddetta lobby nera. Fu Meloni a chiederglielo. E non è escluso che ora possa fare qualcosa del genere con Delmastro. Potrebbe semplicemente convocarlo a Palazzo Chigi, e mostrare a favore di telecamere di averlo strigliato. Oppure ritirargli le deleghe da sottosegretario, o ancora: arrivare a chiedere la sua sospensione in attesa delle conclusioni dell’inchiesta, per dare la dimostrazione plastica che non c’è amore di partito che tenga. Tra i ministri che le sono più vicino, nessuno crede, però, che arriverà a chiedere le sue dimissioni. Ma è comunque un’opzione, se il governo si dovesse trovare nudo, più di quanto lo sia oggi. L’uomo che non sa che lavoro fa di Michele Serra La Repubblica, 4 febbraio 2023 Come si fa a spiegare a uno come Andrea Delmastro concetti come “diritti dei detenuti”, “doveri dello Stato” e - addirittura - “Costituzione”? E come è possibile fargli capire che se un parlamentare, in carcere, incontra un mafioso al 41 bis, non si tratta di un “inchino alla mafia”, ma dell’accertamento delle condizioni di una persona detenuta, prerogativa concessa a tutti i parlamentari (ne fece ampio uso il Salvini per portare solidarietà, in carcere, a svariati sparatori di ladri?) La risposta è semplice: non è possibile spiegargli niente di tutto questo. Non gli interessa capirlo, non vuole capirlo, gli costerebbe troppo capirlo. Decidete voi quale di queste ipotesi è la più probabile. Io propendo per la terza: ci sono persone che non possono permettersi il lusso di capire quello che stanno dicendo, quello che stanno facendo. Ne sarebbero sopraffatte. Il problema è che questo signore è viceministro della Giustizia, ma l’importanza e le responsabilità del suo incarico sembrano sfuggirli. Benevolmente, possiamo supporre che intenda servirsi della sua carica per avvantaggiare la sua fazione e danneggiare l’opposizione - non sarebbe il primo. Ma è un’ipotesi fausta. Quella infausta è che Delmastro sia un uomo che non sa che lavoro fa. Crede di essere ancora il giovane e animoso fascista di Gattinara (Vercelli) che fu in gioventù. Qualcuno gli spieghi che, entrando nel governo di Roma, ha giurato fedeltà alla Costituzione, e soprattutto gli spieghi che cos’è. I suoi amici - ne avrà pure - capiscano che è una persona bisognosa di soccorso e di buoni consigli. Di qui in poi può solo peggiorare la sua posizione. “Inchino Pd alla mafia”. Affondo di Delmastro, ma Meloni glissa ancora di Emanuele Lauria La Repubblica, 4 febbraio 2023 I Dem annunciano querele, chiedono dimissioni del sottosegretario e chiamano in causa la premier. Ma lei rinvia a oggi le risposte e rilancia: “Il livello è più alto, uniti contro la minaccia anarchica”. Ne parlerò volentieri domani”. È a Berlino che Giorgia Meloni butta l’ultimo pallone in tribuna, si produce nell’estremo tentativo di fuga dal caso Donzelli-Delmastro, al tramonto di una giornata di tensione fuori e dentro i Palazzi. Fratelli d’Italia si scaglia di nuovo all’attacco del Pd, ancora con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che in un’intervista al giornale il Biellese chiede ai dem di spiegare “l’inchino ai mafiosi” di cui si sarebbero resi colpevoli quattro parlamentari Pd andando a visitare in carcere l’anarchico Alfredo Cospito, essendo stati invitati da quest’ultimo a parlare con alcuni boss interessati ad attenuare il 41 bis. Il Partito democratico va in controffensiva non solo politica. I parlamentari tutti, dopo una riunione con le capigruppo Serracchiani e Malpezzi, scrivono alla premier per chiederle di prendere le distanze. Intanto alla mozione di censura per Delmastro si aggiungono querele e citazioni per danni nei confronti del sottosegretario e di Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir. “I nostri deputati sono sotto un deliberato linciaggio”“, chiosa il segretario Enrico Letta. La sfida, insomma, finisce in tribunale, in un clima generale che si arroventa tra manifestazioni pro-Cospito (in sciopero della fame da 107 giorni) e manifesti con la parola “assassini” davanti alle foto di alte autorità dello Stato. FdI denuncia intimidazioni e minacce a propri esponenti e sale il livello di attenzione degli apparati di sicurezza per prevenire possibili azioni violente degli anarco-insurrezionalisti. A Delmastro e Donzelli, all’altro sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, viene assegnato un servizio di tutela. La lista dei politici sotto scorta si potrebbe allungare. Il tutto in vista di una decisione, quella sulla revoca del carcere duro a Cospito, che il ministro della Giustizia Carlo Nordio dovrà prendente entro il 12 febbraio. Davanti a questa escalation, Giorgia Meloni prosegue nel suo silenzio sulla diffusione di informazioni riservate su mafia e terrorismo fatta da Donzelli e Delmastro. Viene incalzata dal Pd ma anche da Giuseppe Conte, che la accusano di scappare davanti alle domande. A Berlino per un incontro ufficiale con il cancelliere Olaf Scholz, la premier dice che la questione della rivelazione di documenti riservati, definiti “sensibili” da Nordio e contenenti intercettazioni ambientali di colloqui tra Cospito e due boss, “non interessa alla stampa internazionale”. Su questo, precisa, “risponderò volentieri domani”. E dice, per giustificarsi, che “bisogna ragionare su un livello più alto”. Torna a lanciare un appello all’unità: “In Italia abbiamo un problema che molti stanno sottovalutando. Lo Stato è oggetto degli attacchi degli anarchici con l’obiettivo di rimuovere il carcere duro, obiettivo a cui punta la mafia. Dobbiamo trovare il modo per non dividerci”, avverte Meloni. Ed è un invito, precisa, che “faccio a me stessa e a tutti”. Quando “nuove persone” finiscono sotto scorta “non è mai una vittoria”, scandisce. Un monito ad abbassare i toni che, ribattono i Dem, nasconde il tentativo di eludere le domande. Un monito che evidentemente anche in FdI non ascoltano, vista l’escalation di attacchi ad alzo zero al Pd: dal primo intervento di Donzelli a quello del senatore Alberto Balboni (“Il Pd ha aperto una voragine alla mafia”), fino - appunto - alle ultime dichiarazioni di Delmastro che non sono piaciute né alla premier né a molti del suo entourage. Ecco perché l’ultimo rinvio della presidente del Consiglio contiene anche la decisione di prendere finalmente in mano la situazione. Ed esprimersi oggi, in vista dell’esito dell’indagine della Procura di Roma e anche del Giurì d’onore chiesto dal Pd contro Donzelli: l’organismo è stato istituito ieri e sarà presieduto dal 5S Sergio Costa, dopo il passo indietro del vicepresidente della Camera Giorgio Mulé, per ragioni di opportunità che celano il no di Donzelli alla designazione del forzista, “reo” di averlo criticato in tv. Ma il giurì si è preso oltre un mese di tempo per decidere. Forse troppo, in una scena di crescente nervosismo. Indagini su Donzelli e Delmastro. Parte l’inchiesta: le prime acquisizioni al ministero di Andrea Ossino La Repubblica, 4 febbraio 2023 A breve inoltre potrebbero essere ascoltati diversi dipendenti del Dap e del Gom, il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Non solo persone che potrebbero essere informate sui fatti, ma anche funzionari in grado di chiarire le procedure. Prima le acquisizioni documentali, poi le testimonianze. Procede a ritmo spedito il fascicolo nato dopo l’esposto presentato dal parlamentare dei Verdi Angelo Bonelli sulla vicenda che ha coinvolto Giovanni Donzelli. Il deputato di Fratelli d’Italia, in aula ha “reso pubbliche intercettazioni ambientali del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) tra esponenti della ‘ndrangheta e della camorra con Alfredo Cospito”, ha scritto Bonelli dando di fatto l’input all’indagine. L’inchiesta adesso è nelle mani del procuratore aggiunto Paolo Ielo e ha già portato gli investigatori tra le stanze del ministero di Giustizia, dove sono stati acquisiti alcuni documenti utili per approfondire la vicenda. A breve inoltre potrebbero essere ascoltati diversi dipendenti del Dap e del Gom, il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Non solo persone che potrebbero essere informate sui fatti, ma anche funzionari in grado di chiarire le procedure. L’obiettivo è duplice. Da un lato occorre fare chiarezza sull’accaduto e dall’altro bisogna verificare le norme che regolano la divulgazione dei documenti che Donzelli ha ritenuto di poter sbandierare in aula per supportare la provocatoria richiesta che ha dato il via al coro di proteste: “Voglio sapere se la sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi”. Mentre dall’opposizione si solleva un coro di critiche, dalle parti di piazzale Clodio si lavora per appurare se siano stati commessi reati. Difficilmente infatti i magistrati si accontenteranno delle parole pronunciate dal ministro Carlo Nordio, che in una nota ha affermato di aver concluso “rapidamente la ricostruzione dei fatti richiesta dopo il dibattito parlamentare del 31 gennaio 2023” e di aver accertato che Donzelli si sarebbe riferito a documenti non coperti da segreto: “Non risultano apposizioni formali di segretezza e neppure ulteriori diverse classificazioni sulla scheda”, dice Nordio. Tuttavia lo scopo dell’indagine romana non è solo quello di verificare se quei documenti fossero o meno coperti da segreto e il tipo di classificazione a cui fossero sottoposti. Occorrerà capire se le procedure sono state rispettate. Segreti o meno, si tratta infatti di atti d’ufficio e la rivelazione è regolamentata da modalità specifiche che adesso verranno analizzate dagli investigatori. Una verifica da cui dipende non solo il futuro di Donzelli, ma anche quello del suo coinquilino, il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro, che a Repubblica ha dichiarato di “aver solo sintetizzato alcuni fatti” al parlamentare con cui condivide l’appartamento romano, mentre in realtà avrebbe passato integralmente gli atti al collega di partito per aiutarlo ad attaccare l’opposizione a discapito delle informazioni sensibili rivelate. Il caso Cospito mostra il volto peggiore dell’Italia modello Forc News di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 febbraio 2023 Sputtanamenti legittimati e segreti violati. In Italia il garantismo funziona bene solo quando riguarda le casacche dei partiti amati. Benvenuti su Forc News. La feroce ondata di indignazione che ha accompagnato l’evolversi del caso Cospito è stata costellata da una serie di incredibili ipocrisie che, a uno sguardo attento, potrebbero offrire qualche gustoso elemento di riflessione. La prima ipocrisia, intorno alla quale ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere, riguarda un duro monito arrivato da molti giornali progressisti, visibilmente adirati per un atteggiamento invero censurabile adottato dalla premiata ditta Delmastro-Donzelli: la vergognosa rivelazione di documenti riservati e il vergognoso utilizzo degli stessi documenti a fini meramente politici. Un atteggiamento censurabile, non c’è dubbio, ma che, verrebbe da dire, coincide con un atteggiamento di cui la stessa stampa progressista avrà sentito parlare: l’utilizzo, sulle pagine dei giornali, di documenti riservati e il vergognoso utilizzo degli stessi documenti a fini meramente politici. Fa piacere oggi leggere sui giornali che per molto tempo hanno usato un metodo non troppo diverso da quello scelto da Donzelli e Delmastro un profondo moto di indignazione contro i metodi utilizzati dalla suddetta coppia (giusto!). Ci auguriamo però che la stessa indignazione, un giorno, verrà utilizzata contro ogni pubblico ufficiale, come può essere per esempio un magistrato desideroso di far conoscere in anticipo elementi delle proprie inchieste, “che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, riveli notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza” (articolo 326 del codice penale). Una seconda ipocrisia, che costituisce un ulteriore elemento di interesse all’interno della stagione di Forc News, riguarda invece il governo di cui fa parte l’onorevole Delmastro, insieme al suo capo ufficio Carlo Nordio, e quell’ipocrisia è legata a un incredibile autogol sulle intercettazioni. Per molte settimane, il garantista Nordio ha sfidato l’opinione pubblica italiana sul tema degli abusi delle intercettazioni e il ministro ha giurato di essere pronto a fare qualsiasi cosa per evitare che le intercettazioni possano diventare ancora un’arma a servizio di una parte politica. Per uno strano scherzo del destino, invece, il tema dell’utilizzo improprio delle intercettazioni è divenuto un argomento imbarazzante per il governo considerando il fatto che l’onorevole Donzelli ha spifferato in Parlamento il contenuto di alcune registrazioni riservate, quelle tra Cospito e due esponenti della ‘ndrangheta e della camorra e che Donzelli ha scelto di rivelare per dare ancora più peso all’altra rivelazione che Donzelli non avrebbe potuto fare se non avesse avuto accesso a informazioni anch’esse riservate: gli incontri innocui ma politicamente interessanti di alcuni parlamentari Pd con Alfredo Cospito. La terza forma di ipocrisia che emerge con forza leggendo alcuni giornali appartenenti alla galassia più vicina alla destra è l’utilizzo di una chiave di lettura che molti giornali di destra hanno sempre combattuto: scommettere sulla cultura del sospetto per evocare l’esistenza di una qualche forma di trattativa fra la politica e la mafia. E così succede che giornali teoricamente distanti l’uno dall’altro, giornali come la Verità e come il Fatto, si ritrovino invece improvvisamente vicini, mossi dalla volontà di dimostrare che gli incontri avuti in carcere da alcuni deputati del Pd con Alfredo Cospito e con alcuni boss mafiosi presenti nello stesso reparto dell’esponente anarchico fossero stati organizzati per prendere ordini dai boss mafiosi contro il 41-bis (“Quella delegazione del Pd si è prestata al gioco di cosa nostra”, è la sobria annotazione fatta ieri dal direttore della Verità). Tre storie diverse, tre sfumature, tre elementi di riflessione tutti uniti da un unico filo conduttore: la consapevolezza che in Italia il garantismo funziona bene solo quando la difesa delle garanzie riguarda le casacche dei partiti amati. Da Forc News è tutto, a voi studio. Intercettazioni preventive, azione politica e diritto a informare: il caso Cospito di Giovanni Doria e Felice Maurizio D’Ettore L’Opinione, 4 febbraio 2023 I fatti venuti all’evidenza della cronaca politica in questi ultimi giorni richiedono una pacata, puntuale riflessione giuridica, senza la quale il pericolo di assumere posizioni errate rischia di crescere in modo esponenziale. L’articolo 41 bis del nostro ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, numero 354), nell’attuale versione vigente dal 30 dicembre 2022, prevede che quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. Ciò può avvenire nei confronti dei detenuti o internati per uno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis della stessa legge, o, comunque, per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. La norma prevede che i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione debbano essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati o, comunque, all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della Polizia penitenziaria, in modo da prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione o ad altre ad essa alleate. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, in applicazione del protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, sottoscritto a New York il 18 dicembre 2002, ratificato e reso esecutivo in Italia ai sensi della legge 9 novembre 2012, numero 195, accede senza limitazione all’interno delle sezioni speciali degli istituti, incontrando detenuti e internati sottoposti al regime speciale, svolgendo con essi colloqui visivi riservati senza limiti di tempo, non sottoposti a controllo auditivo o a videoregistrazione. Pari facoltà hanno i Garanti regionali dei diritti dei detenuti, ma i colloqui visivi in tal caso sono videoregistrati, mentre i Garanti comunali, provinciali o delle aree metropolitane accedono esclusivamente in visita accompagnata agli istituti, al solo fine di verificare le condizioni di vita dei detenuti. La Corte costituzionale è intervenuta più volte sull’istituto, soggetto a varie interpolazioni normative dal momento della sua introduzione. In particolare, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41 bis: con sentenza 17-20 giugno 2013, numero 143, limitatamente ai colloqui; con sentenza 26 settembre-12 ottobre 2018, numero 186, limitatamente alla cottura dei cibi; con sentenza 5-22 maggio 2020, numero 97, relativamente alla possibilità di conferire con detenuti; e infine, con sentenza 2 dicembre 2021-24 gennaio 2022, numero 18, è intervenuta sul visto avente a oggetto la corrispondenza intrattenuta con i difensori. Tali interventi sono stati improntati via via a un affievolimento delle asperità dell’Istituto, la cui funzione tuttavia resta decisiva e insostituibile ai fini del contenimento del fenomeno criminale nelle forme sopra descritte, sul presupposto che la carcerazione, attuata nelle forme ordinarie, spesso è strumento preventivo necessario ma insufficiente al raggiungimento dell’obiettivo. Poste le necessarie (se pur brevi) premesse, va fatta chiarezza sulla tematica delle intercettazioni in carcere. Esse sono ben diverse da quelle previste dal codice di procedura penale, che costituiscono mezzi di ricerca della prova in relazione a un reato, purché inserito tra quelli per cui sono ammesse, sul quale l’autorità giudiziaria sta indagando, essendo stato aperto un fascicolo in Procura, e sempre che vi siano la richiesta del pubblico ministero e l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari. Le intercettazioni dei colloqui di Alfredo Cospito, nel regime di cui all’articolo 41 bis, si inquadrano, invece, tra le intercettazioni preventive. Esse sono state disciplinate per la prima volta dall’articolo 25 ter del decreto legge dell’8 giugno 1992, numero 306. A esse si fa ricorso prima dell’apertura di un fascicolo per le indagini preliminari, quando siano necessarie per prevenire reati di terrorismo interno e internazionale e i reati di criminalità organizzata di cui all’articolo 51, comma 3 bis del codice di procedura penale. Laddove disposte in ambito carcerario, esse hanno la specifica finalità di verificare se il contesto criminogeno, rilevante ai sensi dell’articolo 416 bis del codice penale, in cui i detenuti si muovono, sia ancora attuale. Il che è utile proprio per le decisioni che l’Amministrazione penitenziaria deve assumere sul mantenimento o l’affievolimento della misura esecutiva di carattere più afflittivo nota, appunto, come regime del 41 bis. In ambito carcerario le intercettazioni preventive, in altri termini, rientrano tra i servizi di vigilanza diretti a “cucire addosso al detenuto” la misura in concreto più adeguata a garantire il trattamento penitenziario più idoneo, sempre in omaggio ai principi costituzionali che regolano la finalità della pena, frutto del contemperamento tra esigenze punitive, rieducative e preventive. Per la giurisprudenza della Corte di Cassazione, tuttavia, è legittima l’utilizzazione delle informazioni assunte nel corso delle intercettazioni preventive, come notizia di reato su cui fondare una richiesta al gip di emissione del decreto autorizzativo di intercettazioni a fini probatori, giacché il divieto di utilizzazione posto dall’articolo 25 ter suddetto concerne la prova del reato, ma non già la funzione di mera fonte della relativa notizia. In ciò - ha precisato la nostra Corte di Cassazione - “non è configurabile un contrasto della norma citata con l’articolo 15 della Costituzione nella parte in cui essa non prevede espressamente anche il divieto di utilizzazione delle suddette intercettazioni preventive quali notizie di reato, atteso che il rispetto dell’articolo 15 della Carta costituzionale è garantito dal fatto che il pubblico ministero, ottenuta la notizia, deve ricercare gli elementi necessari al fine di determinarsi all’esercizio dell’azione penale. E perciò deve, in ogni caso, fare ricorso ad una fonte diversa, ancorché, eventualmente, omologa (sezione 5, sentenza numero 11500 del 27 settembre 2000; sezione 5, sentenza numero 4977 del 18 agosto 1998)”. Di natura processuale, invece, restano le intercettazioni ambientali tra presenti disposte in carcere dal pubblico ministero (articolo 266 del codice di procedura penale). A tal proposito la Cassazione, ai fini dell’ammissibilità e utilizzabilità delle stesse, ha chiarito che la cella di un carcere non può essere considerata luogo di privata dimora, dovendosi intendere come tale quello adibito all’esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza turbativa da parte di estranei, mentre è evidente che la cella è nel possesso e nella completa disponibilità dell’amministrazione penitenziaria, che ne può disporre ad ogni ora del giorno e della notte per qualsiasi necessità (sezione 1, sentenza numero 32851 del 6 maggio 2008). E, anzi, la stessa Corte ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione d’illegittimità costituzionale relativa all’articolo 266, comma secondo, del codice di procedura penale, nella parte in cui consente, diversamente da quanto previsto per la captazione dei colloqui del soggetto in stato di detenzione o custodia domiciliare, l’intercettazione delle conversazioni dei detenuti, anche se non sussiste il fondato timore che all’interno della cella si stia svolgendo un’attività criminosa, in applicazione della norma di cui all’articolo 13 dl numero 152 del 1991 (sezione 6, sentenza numero 36273, del 23 febbraio 2004). Ciò detto, deve essere precisato che il divieto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto previsto dall’articolo 114 del codice di procedura penale, non si applica alle intercettazioni preventive ma solo a quelle di carattere procedimentale inquadrabili tra i mezzi di ricerca della prova. Ciò per il semplice motivo che le intercettazioni preventive non sono coperte dal segreto, mentre lo sono esclusivamente quelle procedimentali ai sensi dell’articolo 329 del codice di procedura penale, per effetto del quale “gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”. In altri termini, in ambito di intercettazioni gli unici atti coperti dal segreto sono solo gli atti di indagine preliminare, vale a dire le intercettazioni procedimentali disposte dal gip in relazione ad un fascicolo di indagine aperto. Ma non gli atti di vigilanza e di intelligence, che hanno un carattere preventivo e possono essere sia portatrici di un contenuto che può fungere da notizia di reato, sia utilizzate dall’amministrazione penitenziaria per calibrare in concreto sul singolo detenuto il trattamento penitenziario più idoneo nella scelta tra regime 41 bis, alta sicurezza o misure più affievolite se non ordinarie. Ciò comporta che le intercettazioni preventive, in quanto non coperte dal segreto, sono divulgabili e pubblicabili. Tale situazione non cambia, allorquando l’amministrazione penitenziaria abbia limitato - come nel cosiddetto “caso Cospito” - la divulgazione del dato carpito attraverso le intercettazioni preventive, posto che tale limitazione, generalmente apposta con timbri e diciture standard, costituisce un atto amministrativo interno, modificabile, revocabile in ogni tempo e pur sempre comunque totalmente ispirato a logiche di opportunità valutate sotto il profilo della discrezionalità amministrativa. Orbene, è evidente che tale atto dell’organo interno non possa avere un’efficacia giuridica tale da condizionare, limitare o addirittura precludere la scelta politica di un diverso utilizzo del dato medesimo, ivi compresa la sua divulgazione, tanto più in ambito parlamentare, essendo inconcepibile che l’alta discrezionalità che deve guidare l’azione politica governativa possa cedere il passo o risultare subvalente al cospetto di valutazioni, pur esse discrezionali, ma ad un livello ben minore, operate dagli interna corporis. La dicitura “limitata divulgazione” apposta sulla scheda dall’amministrazione penitenziaria, inoltre, esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classifiche di segretezza che sono disciplinate dalla legge 3 dell’agosto 2007, numero 124, che ha riformato la struttura e l’organizzazione dei servizi segreti e del segreto di Stato in Italia. L’assenza di un vincolo giuridico di segretezza o di divulgabilità apre, dunque, al pieno dispiegarsi del diritto a informare e a essere informati; del diritto a ricevere informazioni e a ricercare informazioni. Posizioni giuridiche, queste, che taluno riconduce all’articolo 21 della Costituzione, anche sulla base di una costante giurisprudenza costituzionale che ha considerato questo diritto un “risvolto passivo della libertà di manifestazione del pensiero”. E che altri, poi, configurano “come una conseguenza del principio democratico, poiché un regime democratico necessita sempre di una pubblica opinione vigile e informata: esigenza di pubblicità, che, ulteriormente specificantesi nel principio di accesso ai documenti delle pubbliche amministrazioni (legge numero 349/1986; legge numero 241/1990; decreto legislativo 267/2000; legge numero 15/2005), trova un limite soltanto nella tutela del segreto”. Ma, nel “nostro” caso, il segreto è invocato come una immagine distorta, per sviare l’attenzione - avvalendosi di armamentari giuridici in realtà inesistenti - dall’insopprimibile esigenza di conoscere fatti e situazioni che il cittadino ha diritto di sapere, e che soprattutto la classe politica, in funzione del proprio mandato elettivo, ha il diritto (intersecandosi con il dovere) di riferire. Rosy Bindi: “Nordio si schiera con chi è indifendibile, così questa destra incendia il Paese” di Carlo Bertini La Stampa, 4 febbraio 2023 L’ex presidente della commissione Antimafia contro “lo spregio delle istituzioni e l’incultura parlamentare”. “Questa volta, senza se e senza ma, difendo il Pd e apprezzo la solidarietà dei 5stelle verso i dem e spero che le opposizioni non si fermino. Come si permette questa destra di usare strumenti intimidatori? Non vorrei che dietro vi fosse altro...”. Lo sdegno di Rosy Bindi, definita ai tempi dei governi Prodi, la “pasionaria” del Pd, è incontenibile. L’ex presidente della commissione Antimafia si scaglia contro “lo spregio delle istituzioni e l’incultura parlamentare”, contro “questo grande strumento di distrazione di massa rispetto ad un’azione di governo dannosa sul piano economico e sociale”. C’è un disegno, una strategia della tensione, dietro gli attacchi alle opposizioni? “Guardi, concedo solo una breve parentesi alla dietrologia: noto che in questi giorni non si parla di energia, di benzina, di conflitto tra lavoratori autonomi e dipendenti dovuto alle sciagurate norme sulla flat tax in finanziaria, del lavoro sottopagato e dell’Autonomia differenziata. Insomma di tutti i problemi del Paese”. A proposito, lei che ne pensa di questa Autonomia? “Una riforma incostituzionale nel merito e nel metodo, distruggerà scuola e sanità, aumenterà le disuguaglianze. Invece di cedere i poteri all’Europa, su energia e altro, trasferiamo sovranità alle regioni e spacchiamo l’unità del paese. Un disastro”. Quindi fa bene il Pd con Bonaccini ad alzare barricate? “Bonaccini critica ma gli ha dato il via libera all’inizio. Io, come elettore di centrosinistra, mi sarei aspettata da subito le barricate, non la collaborazione con la destra seguendo la teoria della riduzione del danno. Questa Autonomia è anche propaganda elettorale alla vigilia delle elezioni in Lombardia. Meloni la accetta come merce di scambio col presidenzialismo, due riforme che stravolgono la Costituzione, vanno fermate con decisione”. Torniamo a Cospito. Che effetti avrà questa vicenda? “La maggioranza lanciando quelle accuse incendia il Paese e indebolisce la lotta alla mafia. Un fronte sul quale, la politica non può dividersi”. Nordio dovrebbe dimettersi? “Beh, il fatto che si stia esponendo lui per difendere due soggetti indifendibili, dà l’idea che la premier abbia più a cuore le sorti di Delmastro e Donzelli che quelle del suo Guardasigilli. Il quale si era fatto già male da solo con le affermazioni sulle intercettazioni dopo la cattura di Messina Denaro e con quelle contro i giudici che vedono mafia dappertutto. E ora è più indebolito dopo essersi arrampicato sugli specchi per difendere Delmastro, che ha diffuso notizie non divulgabili”. Come finirà sul piano istituzionale? Delmastro e il vicepresidente del Copasir Donzelli si dimetteranno? “Dubito, se Nordio e la premier fanno quadrato, facile prevedere il finale. L’opposizione fa bene a chiedere le dimissioni, ha tutte le ragioni per farlo. Ma temo che Meloni li coprirà in ogni modo”. È il primo scivolone vero della premier? “Non è il primo, ma è serio, anche se lei pensa di gestirla con furbizia restando silente. La realtà è che politicamente è un fatto molto grave, perché dimostra una inciviltà parlamentare di Donzelli, mentre sul piano istituzionale il comportamento più censurabile è del sottosegretario: erano dati che poteva conoscere per il suo incarico, ma non erano divulgabili. E lo dico per esperienza: quando in commissione Antimafia è stato fondamentale avere notizie dal Dap, noi potevamo avervi accesso, ma le abbiamo secretate, proprio perché non potevamo portarle a conoscenza di altri”. Su Cospito, l’ex ministro Orlando dice che bisogna riflettere se le sue condanne valgano un 41 bis. “Sul caso non posso esprimermi, ci sono pareri della magistratura difformi, dovrà decidere il ministro. Sul piano generale, il 41 bis è ineliminabile dal nostro ordinamento, è strumento fondamentale per combattere la mafia. Ma la sua applicazione va assunta con molta attenzione e va riservata ai casi davvero gravi e pericolosi. La visita fatta da noi come commissione Antimafia a Totò Riina ci confermò che era assistito meglio della maggioranza degli anziani del nostro paese e allo stesso tempo era lucido e in grado di esercitare ancora la sua funzione di capo mafia”. E quindi? “È sbagliato definire il 41 bis carcere duro. È una misura che come tutte le altre pene deve puntare alla riabilitazione del soggetto. Non è una misura per costringere il detenuto alla collaborazione, ma grazie alla quale la persona in solitudine può ripensare alla sua vita e magari pentirsi. Va poi detto che le condizioni di molti carcerati in Italia sono decisamente peggiori di chi si trova al 41 bis, per via della situazione ambientale e per la qualità della vita. Un detenuto al 41 bis non subisce per esempio il sovraffollamento delle celle. E l’obiettivo non è accanirsi sul detenuto, ma isolarlo dalla sua organizzazione criminale. È assistito, ha dei gruppi di socialità, persino Riina aveva persone con cui poteva parlare. Relazioni osservate, che consentono di capire molte cose”. Per la sua esperienza, è anomalo che siano andati quattro esponenti dem in delegazione, accettando di colloquiare con i mafiosi come chiesto da Cospito? “No, i parlamentari hanno il diritto dovere di farlo e pure quando noi andammo a visitare Riina lui era diventato un caso politico e noi andammo a verificare le sue condizioni. Non ci si può meravigliare se i parlamentari esercitano le loro prerogative quando vi sia motivo di preoccupazione, sia per gli anarchici, sia per i mafiosi”. Il Pd è diviso tra chi mette in dubbio il 41 bis in casi come quello di Cospito e chi invoca fermezza. Giusto? “È inutile dividersi su questo punto, poiché caso per caso la decisione spetta alla magistratura e al ministro. Piuttosto, il Pd non desista dall’opporsi, non può far passare liscia alla maggioranza questa provocazione”. Cospito, weekend di tensione in tutta Italia. Blindate le piazze della protesta da Milano a Roma di Massimo Pisa La Repubblica, 4 febbraio 2023 Corteo non autorizzato nel capoluogo lombardo, bombe carta a Napoli, proteste davanti al carcere a Bologna. Occupata La Sapienza a Roma. Occhi puntati sui prossimi eventi previsti. Un corteo improvvisato intorno alla Stazione Centrale milanese, in duecento dietro a due striscioni neri ad invocare l’abolizione del 41 bis. Altri cinquanta anarchici che sfilano sotto il carcere del minorile del Pratello a Bologna, in protesta con cori contro lo Stato e “il regime di tortura” e un sit-in pacifico. Infine una bomba carta che esplode a Napoli in via Monteoliveto, a metà strada tra il Comando provinciale dei carabinieri e la Questura: non c’è rivendicazione, per ora, e la matrice rimane incerta, ma il timing appare più che sospetto. Ed è soltanto il primo tempo del weekend di manifestazioni di solidarietà ad Alfredo Cospito, l’ideologo anarchico in regime di isolamento che toccherà oggi il giorno 108 di sciopero della fame all’interno del carcere di Opera. Sarà lì fuori, oggi pomeriggio, che anarchici e militanti dei centri sociali di tutto il nord Italia - da Trento e Genova, passando per Bologna e Pisa - arriveranno per far sentire la loro voce fin dentro le sbarre della casa di detenzione più grande d’Italia. Mentre a Roma (dove l’occupazione della Sapienza, con i provocatori manifesti che sono arrivati ad accusare il presidente Mattarella, è stata sospesa ieri) convergeranno le altre anime di una battaglia diventata trasversale a sinistra della sinistra, capace di saldare l’intera galassia dell’antagonismo in un unico fronte. Altre manifestazioni di piazza sono previste a L’Aquila, a Cosenza, ad Alba e a Latina. La soglia di attenzione, che si tradurrà in una presenza massiccia di polizia e carabinieri in assetto antisommossa, resta altissima. Come la tensione, che a Milano è andata crescendo con il calare della sera e l’arrivo in Piazza Duca d’Aosta delle realtà anarchiche più combattive di Milano e provincia, rafforzate da studenti dei collettivi universitari e liceali, sindacalisti di base, vetero-femministe, squatter, un paio di centri sociali. Per un’ora, davanti ai turisti incuriositi che andavano e venivano dalla stazione, si sono alternati al microfono in una sorta di speaker’s corner all’inglese, di staffetta oratoria con i soliti bersagli: il regime carcerario tutto, lo Stato, la stampa (la pattuglia di cronisti e telecamere era nutritissima), la Giustizia, il capitale, in un unico calderone. Poi è arrivato il momento di occupare la strada, di bloccare il traffico di auto e tram e cominciare a sfilare dietro i due drappi neri con gli slogan di serata per Cospito e per “un mondo senza galere”. Gli slogan arrivano ad offendere (“boia”) il Guardasigilli Carlo Nordio e il questore di Milano Giuseppe Petronzi, che da dirigente della Digos di Torino firmò l’indagine che portò all’arresto di Alfredo Cospito e Nicola Gai per gli spari alle gambe di Roberto Adinolfi, ad di Ansaldo Nucleare. Dal mucchio partono insulti ai giornalisti e fumogeni in direzione di cameramen e fotografi, finché un operatore della trasmissione Fuori dal coro, di Rete 4, non viene colpito alla fronte: se la cava con un taglio tamponato da un cerotto, prima di riprendere il suo lavoro. I manifestanti provano a raggiungere il trafficatissimo piazzale Loreto ma vengono arginati dai cordoni di polizia e carabinieri e rientrano senza ulteriori violenze verso la Stazione. E danno appuntamento a sabato pomeriggio. Gli studenti de La Sapienza contro il 41 bis: breccia nel muro giustizialista di Errico Novi Il Dubbio, 4 febbraio 2023 Una mobilitazione universitaria per il garantismo non ha precedenti. E ci sarebbe da dire sulla capacità di Cospito di creare consenso attorno alla disumanità del carcere duro. Come spiegarselo? Con uno sdoganamento della stessa matrice di quello che ha portato all’occupazione della Sapienza. Sarà solo un segno di contiguità ideale. Magari alla Sapienza di Roma, gli studenti di Lettere, facoltà in cui per tradizione il movimentismo di sinistra è più radicato, simpatizzano innanzitutto con i peraltro pochi anarchici scesi in piazza contro il 41 bis. Resta il fatto che, a memoria di cronista, una mobilitazione universitaria per il garantismo non ha precedenti. Non se ne ricordano altre che fossero nate contro misure e norme restrittive riguardanti anche la criminalità organizzata. È un piccolo segnale, magari. E già il riscontro delle prossime ore ci dirà se l’onda è capace di propagarsi o l’episodio di Roma resterà isolato. Eppure è difficile non cogliere la novità del garantismo che sfonda il muro del mainstream, che si sdogana dal ristretto circuito dell’avvocatura, della galassia radicale, dell’accademia e dei pochi giornali in trincea come questo. Cospito, si dirà, è riuscito anche nel miracolo di fare uscire il garantiamo e i diritti dei detenuti dal loro inesorabile cono d’ombra. A voler essere perfidi con l’amico Roberto Saviano - che va solo ringraziato per il coraggio con cui, nel corso della sua traiettoria intellettuale, ha abbracciato la causa dei diritti nelle carceri -, si direbbe che Cospito arriva dove non era riuscito l’autore di Gomorra. E qui ci sarebbe da dire, sulla capacità dell’anarchico di creare consenso, e certamente attenzione, attorno alla disumanità del 41 bis. Come spiegarselo? Con uno sdoganamento della stessa matrice di quello che ha portato all’occupazione romana di Lettere: Cospito ha avuto il coraggio di battersi anche per i mafiosi, altra cosa francamente insolita nell’area dell’antagonismo. Lui ci è arrivato. Ha avuto il coraggio di infrangere il tabù. Nella sua durezza, nel suo estremismo, l’intransigenza di Cospito ha fatto breccia proprio perché non ha fatto eccezioni. Arriva a mettere in gioco la propria vita come Pannella, e lo fa al punto da schierarsi in difesa dei diritti di tutti, mafiosi compresi. Oltre al muro dell’indifferenza, ha infranto il solito tabù dell’eccezionalismo, la clausola ideologica che esclude la mafia dal dibattito sui diritti, e che tiene vivo, da oltre un quarto di secolo, il doppio binario. Non sarà una lotta facile. Non si arriverà al risultato in fretta. Ma una volta aperto quel varco, anche grazie al coraggio anticonformista del detenuto anarchico Cospito, è difficile che si torni indietro. Tra gli studenti della Sapienza “al fianco di Alfredo”: paura, rabbia e tanti distinguo di Paolo Di Paolo La Repubblica, 4 febbraio 2023 Più di uno vuole prendere le distanze dall’uomo divenuto un simbolo. “Ma sta morendo in carcere, è inammissibile”. Tre o quattro studenti, tolte le scarpe, lavorano con cura al grande striscione: “Al fianco di Alfredo”. Quello che dice “Lettere occupata” sventola da giovedì sera contro la facciata della facoltà, smosso da un vento che a metà pomeriggio - mentre sulla scalinata arriva l’ombra - fa quasi battere i denti dal freddo. L’occupazione lampo alla Sapienza si è praticamente già sciolta per immettere le sue energie nel corteo romano. Ed è lì che sarà forse possibile cogliere quanto composito, frastagliato, anche contraddittorio sia il movimento che alza la voce sul caso Cospito e sul 41 bis. Stavolta non basta un colpo d’occhio: c’è da capire, da chiarire. O anche solo intuire: in pochi hanno voglia di parlare con le “testate nazionali” - quelle che hanno polemicamente sfogliato e discusso nella rassegna stampa autogestita di mezzogiorno e mezza. Avvertono il pregiudizio, gli schemi, il rischio di incasellamenti e di strumentalizzazioni. Respingono ogni accusa di ambiguità. La dialettica con i movimenti anarchici non appare né lineare né pacifica: c’è chi racconta di discussioni estenuanti fra militanti dei collettivi studenteschi intorno alle scelte da fare, alla coincidenza di istanze. Ma se l’anarchismo apre agli studenti, o ne accetta la sponda nella specifica emergenza, non apre però ad altri soggetti politici: rifiuta parecchi testimonial delle ultime ore, quasi tutti, taglia i ponti con aree di partito, pezzi di società civil-intellettuale, per quanto accorata rispetto alle condizioni di salute di Cospito. Gli anarchici non accettano intestazioni indebite della loro battaglia, si chiudono per evitare confusioni di ruoli e di discorsi. Gli studenti lo sanno; e vanno avanti per una strada parallela: “al fianco di Alfredo”, sì, ma anche tenendo il punto su questioni che vanno oltre l’uomo-simbolo. Da cui qualche studente assicura di voler prendere le distanze: o quantomeno, chiarisce Pietro, da una biografia discutibile - quella storia personale, le strategie di lotta attuate. “Ma non è questo il punto: c’è un uomo che sta morendo in carcere, e questo è inammissibile da ogni punto di vista”. Al momento del “microfono aperto”, chi prende la parola per primo usa lo schwa inclusivo e cita Zerocalcare. Insiste sì su quel corpo messo a rischio da uno Stato “che confonde giudicare e punire”, poi però allarga subito ad altri corpi. “Il caso di un singolo ne illumina molti altri”. I corpi invisibili abbandonati nella realtà di un sistema carcerario pensato “come una discarica sociale”. Arriva l’applauso convinto dei partecipanti - non sono un gran numero. Nemmeno nelle prime ore dell’occupazione della facoltà c’era una gran folla. Una ragazza me lo spiega con la paura. Richiamando la questione delle questioni: la morsa repressiva. Avvertita in sempre più occasioni: dalle cariche della polizia a ottobre davanti a Scienze politiche (per cui è scattata l’immediata occupazione della facoltà) alle perquisizioni, ai fermi in commissariato. Sentono “il pugno di ferro” e la criminalizzazione della solidarietà: “Si gioca a individuarne una buona e una cattiva, si stabiliscono zone rosse e si schiera la celere”. Per questo - dice Miriam - è più il momento della pancia che della testa. C’è un malessere, una insofferenza ai livelli di guardia: studentesse e studenti non si sentono tutelati fino in fondo nemmeno nel luogo in cui studiano, chiedono alla rettrice una parola netta (“ha rafforzato il muro di silenzio”), e al governo di smetterla di soffiare sul fuoco con reprimende, intimidazioni, con i proclami sulle presunte minacce alla sicurezza dello Stato. Il clima “poliziesco” soffoca gli spazi di discussione politica. E Nina, studentessa di Fisica, sostiene che è vitale anche e soprattutto per riflettere - tanto più in queste ore - sull’equilibrio effettivo di una giustizia che, se non è anche rieducazione, diventa vendetta. A quel punto la violenza più scandalosa “non è quella di una macchina incendiata”. Uno Stato-Leviatano che assolve le funzioni di un dio in terra è un incubo da rigettare, dice al microfono uno studente attore; e poi evoca il Pasolini di Salò: l’immagine truce di una collettività costretta a “mangiare merda” servita su piatti d’argento. C’è chi mi assicura che da questa scintilla sta nascendo un nuovo movimento studentesco, compatto nelle proprie istanze, nel rigettare un’idea di istruzione fondata sul merito come competizione agonistica, coeso nell’opposizione a un governo che mette nella sua agenda “emergenze irreali” (i rave, i bulli) e non vede, o non vuole vedere, quelle concrete. Oggi in piazza - intorno al nome di Cospito - si intrupperanno anime diverse, una galassia eterogenea - pezzi di società civile, militanti di partito, autonomi, mondo sindacale, diversi movimenti anarchici. E gli studenti. Che, mi dice uno di loro, “hanno cominciato a incazzarsi sul serio”. Donatella Di Cesare: “Sto con i miei studenti in rivolta contro il 41bis” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 4 febbraio 2023 La docente di Filosofia teoretica de La Sapienza: “I ragazzi combattono contro un regime che è tortura, non si può murare viva una persona. Ma questo governo specula sugli anarchici. Perché il Pd non alza la voce?”. “Sto con i miei studenti”. Donatella Di Cesare, titolare della cattedra di filosofia teoretica a La Sapienza, plaude all’occupazione di Lettere a La Sapienza di Roma e affida al Riformista un appello alle opposizioni, perché tornino a far sentire la loro voce contro l’anacronismo odioso del 41bis. Veniamo alla sua Sapienza, alla sua facoltà. Cosa sta succedendo? Gli studenti stanno occupando la facoltà di Lettere. E io sono con loro. Protestano per come lo Stato sta trattando Alfredo Cospito e hanno ragione. Stanno dando un segnale molto positivo, stanno rispondendo con la loro mobilitazione e la loro sensibilità a uno Stato che fa giustizia con l’ingiustizia. E con loro dico: non si fa giustizia in questo modo. Una occupazione episodica o tutto è destinato a diventare un movimento? È una partecipazione diffusa, un desiderio di farsi ascoltare di questa generazione che nello spazio pubblico non ha possibilità di esprimersi. Sento un fermento, una energia che fanno ben sperare. Va abolito il 41bis? Basta con queste sigle: con 41bis le persone non sanno bene cosa si intende. Murare viva una persona, seppellirla, ridurla a oggetto deumanizzato è una forma di tortura bianca. Una forma di tortura violentissima e ignominiosa per lo Stato che la esercita. Va detto chiaro e tondo: con 41bis non si parla di carcere ma di un modo di deumanizzare i detenuti che è inconcepibile nell’Italia del 21mo secolo. Ed è una misura eccezionale, nata come provvedimento temporaneo per contrastare le stragi di mafia del 1992. E siamo nel 2023. Anche se la mafia non fa stragi, è ancora viva e vegeta. Come si conciliano diritti e contrasto alla criminalità organizzata? A proposito di mafia: io penso che questo modo di combattere la mafia, pensando che il 41 bis sia uno strumento, è sbagliatissimo. A mafia e ‘ndrangheta non si deve fare la guerra con il carcere duro ma con l’educazione, la cultura e il lavoro. I modelli repressivi non hanno mai portato a nulla di buono. E nel caso specifico di Alfredo Cospito? Cospito non merita in nessun modo il 41bis. È assurdo che sia stato messo in quel regime, chi può lo revochi con urgenza. Altrimenti dobbiamo pensare che Cospito viene punito in questo modo non perché è pericoloso ma perché è anarchico. Non vorrei pensare che si voglia alzare solo un polverone contro la galassia anarchica, che si voglia fare degli anarchici il nuovo mostro. Lei ha scritto tanto sulla polarizzazione necessaria a mantenere il potere. È il caso del governo Meloni? Questo governo a me sembra che voglia polarizzare moltissimo, spaccare l’opinione pubblica, radicalizzare le posizioni dividendo in bene e male. Anziché affrontare i tanti problemi veri del Paese cosa si fa? Si parla di fantomatici nemici, di pericoli immaginari, perfino mettendo in una unica alleanza anarchici e mafiosi. Grottesco. E irricevibile. Il nuovo nemico pubblico, diceva, sono i gruppi anarchici? Sì, oggi gli anarchici sono il nemico pubblico. Come i migranti. Sono una incarnazione del nemico che serve a rinsaldare il consenso di chi ha il potere. Ed è molto inquietante, tenendo presente anche il precedente che va dalla fine degli anni Sessanta agli anni Settanta. Per questo ritengo che Cospito vada liberato dal 41bis e che venga ricondotta la dialettica alla civiltà dello stato di diritto. In questo Cospito sta compiendo un gesto politico, perché protestando per l’ingiusto 41bis solleva un caso che riguarda molti. Il disegno politico quale sarebbe? A chi giova il martire Cospito, se non a esacerbare i toni dello scontro? Credo che si sia sottovalutata la spietatezza e una certa dose di sfrontatezza di questo centrodestra e del partito che sostiene Giorgia Meloni in particolare. Non hanno la finezza politica di capire che se rinfocolano la rabbia è difficile tenerla sotto controllo. Viene da chiedersi se in fondo non credano in questo modo di avere un ritorno di consenso, facendo leva sulla paura in chiave di repressione di un pericolo immaginario. Un problema che le opposizioni affrontano con debolezza? Sono sconfortata in particolare dalla tiepida reazione del Pd. Che sul 41bis non riesce a far apprezzare una differenza sostanziale dalla destra. Ed è una cosa che mi dispiace molto. Spero che vogliano farsi sentire, che Pd e opposizioni vogliano unire le loro voci a chi chiede diritti e giustizia vera. Non è questa, in fondo, la ragion d’essere della sinistra? Milano si scalda, fumogeni e slogan. Oggi appuntamento davanti a Opera di Roberto Maggioni Il Manifesto, 4 febbraio 2023 Attesi anarchici anche da fuori Lombardia: Torino, Genova, Rovereto. Un’ora di presidio fuori dalla stazione Centrale di Milano, un’ora in corteo nelle vie vicine. 300 persone in tutto, perlopiù giovani dell’area anarchica milanese insieme a una parte di quella rete allargata di solidali con la lotta di Alfredo Cospito contro il 41 bis che si era vista anche nelle scorse mobilitazioni milanesi. Il mosaico della galassia anarchica milanese si è ricomposto attorno alla lotta di Alfredo Cospito e nei testi fatti circolare negli ultimi giorni sono stati citati alcuni episodi che hanno fatto da collante: la condanna di primo grado per “associazione a delinquere” agli attivisti per la casa del quartiere popolare Giambellino, le imputazioni toccate ai sindacati di base del Si Cobas e dell’Usb per le lotte nel settore della logistica, i maxi controlli di polizia alla stazione Centrale di Milano, le tensioni sfociate nei giorni scorsi nel lancio di lacrimogeni da parte della polizia contro gli immigrati in coda a Milano in via Cagni per il permesso di soggiorno e la richiesta d’asilo. In stazione Centrale ad attendere i manifestanti c’era un ingente schieramento di polizia, giornalisti, fotografi e cameramen, uno di loro colpito da un fumogeno alla partenza del corteo. “Contro il 41 bis per un mondo senza galere” lo striscione sorretto dalla prima fila. Slogan contro il carcere, contro il 41 bis, di sostegno a Cospito, contro polizia e politici. Lungo il corteo e durante il presidio si sono susseguiti interventi al microfono attaccato a una piccola cassa. “Spostare Alfredo Cospito a Opera è stata una mossa subdola perché usano la scusa dell’assistenza sanitaria d’eccellenza”, ha detto una manifestante, “ma quello di Opera è un centro clinico che serve solo a non farti trovare morto in cella da solo ma su un lettino con a fianco un infermiere”. I cori più urlati sono stati “fuori tutti dalle galere” e “Isolamento, tortura e lutto, pagherete caro pagherete tutto”. Corteo selvaggio, tra le auto bloccate nel traffico e la polizia rimasta sempre a una certa distanza. I manifestanti hanno lasciato volantini con sopra raccontata la lotta di Alfredo Cospito contro il 41 bis e il carcere. “Cospito”, un nome oggi più conosciuto rispetto a qualche settimana fa. “È quello in sciopero della fame di cui parlano in televisione” diceva un signore alla persona che insieme a lui guardava passare il corteo. “Faremo sentire forte la nostra voce” hanno promesso gli anarchici. A partire da oggi alle 14.30 quando ci sarà un presidio fuori dal carcere di Opera. L’attenzione dell’ordine pubblico milanese oggi è tutta lì dove lunedì mattina è stato trasferito Alfredo Cospito. Sono attesi anarchici anche da fuori Lombardia: Torino, Genova, Rovereto. Per la Questura di Milano è un pomeriggio a rischio, nei giorni scorsi se n’è discusso in un Comitato per l’ordine e la sicurezza dedicato alle mobilitazioni anarchiche. Lo schieramento di polizia attorno al carcere si annuncia imponente. Già lunedì sera, poche ore dopo l’arrivo di Cospito a Opera, un gruppetto di anarchici si era fatto sentire dai campi che affacciano sul penitenziario. Qualche petardo, il fuoco di qualche torcia, una sassaiola verso due auto della polizia con in mezzo una troupe del Tg2. Il trasferimento di Cospito a Opera consegna a Milano e all’area anarchica che gravita attorno al capoluogo lombardo un’ulteriore centralità. Le mobilitazioni e le azioni nei prossimi giorni, annunciate o meno, sono destinate a crescere se Cospito resterà rinchiuso al 41 bis. La battaglia per la vita di Cospito e l’orrore per lo slogan “Alfredo libero” di Stefano Cappellini La Repubblica, 4 febbraio 2023 La differenza tra una battaglia per lo Stato di diritto e una pericolosa e ambigua campagna che dipinge l’anarchico come un prigioniero politico. Nel dibattito su Cospito c’è una prima fondamentale discriminante: quelli che lo chiamano Cospito e quelli che lo chiamano Alfredo. I primi sono interessati a dirimere la questione se sia o no giusta l’applicazione del regime carcerario 41 bis rispetto alla sua personale vicenda giudiziaria e se sia o no doveroso che lo Stato impedisca la morte di un detenuto in prolungato sciopero della fame, anche se è quasi incredibile dover constatare che in quest’ultimo caso possa esserci qualcuno che sostiene che sì, Cospito muoia pure se crede, perché, come dice uno non a caso, l’ex pm Piercamillo Davigo, “per lo Stato viene prima il rispetto delle regole”. Ma è dei secondi che vorrei parlare qui, e non di quelle poche decine di anarchici cosiddetti insurrezionalisti, che con Cospito condividono idee e obiettivi, bensì di quell’area un po’ più ampia - movimenti, centri sociali, collettivi universitari, intellettuali, artisti - che non si limita a manifestargli solidarietà sulla lotta contro il 41 bis e tende pericolosamente a rappresentarlo come una specie di prigioniero politico. “Libertà per Alfredo”, così recitano i manifesti appesi in molte città italiane, è uno slogan sbagliato e ambiguo, perché Cospito non è in cella per un errore giudiziario. Ai sinceri garantisti fa impressione la sproporzione tra il fatto per cui oggi è detenuto (due ordigni a basso potenziale nei pressi di una caserma dei carabinieri che non hanno provocato morti né feriti, però avrebbero potuto) e il capo di imputazione che gli è valso una condanna a 20 anni per “strage contro la sicurezza dello Stato”. Ma Cospito era e resta un terrorista. Non un antagonista, un idealista, un figlio di Bakunin o una testa calda. Un terrorista. Uno che praticava e rivendica tuttora la lotta armata, peraltro già condannato, come è noto, anche per aver sparato alle gambe di un dirigente di Ansaldo-Finmeccanica, attentato da lui stesso rivendicato con una agghiacciante lettera comparsa anni fa nella rete dei siti di area: “Quel sette maggio del 2012 - scriveva Cospito - per un momento ho gettato sabbia nell’ingranaggio di questa megamacchina, per un momento ho vissuto a pieno facendo la differenza. Quel giorno non ero una vecchia Tokaref, la mia arma migliore, ma l’odio profondo, feroce che provo contro la società tecno-industriale”. In quella lettera Cospito rivendicava il suo essere “anti-sociale”, il suo disprezzo per la società che lo circonda e per la “civilizzazione”. Della sua vittima, il dirigente di Ansaldo-Finmeccanica Roberto Adinolfi, diceva: “Lo abbiamo visto sorridere sornione dagli schermi televisivi atteggiandosi a vittima. Lo abbiamo visto dare lezioni nelle scuole contro il “terrorismo”. Ma io mi chiedo cos’è il terrorismo? Un colpo sparato, un dolore intenso, una ferita aperta o la minaccia incessante continua, di una morte lenta che ti divora da dentro?”. La colpa di Adinolfi? Essere capo di una società con progetti sul nucleare: “A me - è sempre Cospito a scrivere - venne di colpire il maggiore responsabile di questo scempio in Italia: Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Ci volle poco a scoprire dove abitava, cinque appostamenti bastavano. Non c’è bisogno di una struttura militare, di un’associazione sovversiva o di una banda armata per colpire, chiunque, armato di una salda volontà può pensare l’impensabile e agire di conseguenza”. Questo è Cospito e gli anni di detenzione non lo hanno cambiato. Il 41 bis gli è stato applicato perché dal carcere teneva contatti con l’esterno giudicati pericolosi. Le battaglia a difesa dello Stato di diritto sono sempre condivisibili e vanno sostenute. Il fumettista Zerocalcare ha prodotto un fumetto sul caso Cospito che, a mio giudizio, coglie il cuore della faccenda, e cioè un punto caro ai liberali quanto ai “radicali”: fino che punto lo Stato è in diritto di imporre un regime carcerario che contrasta con il fine rieducativo della pena, previsto dalla Costituzione, oltre che con i principi di umanità? Fino a che punto è giusto farlo anche davanti ai “mostri” (l’iperbole è di Zerocalcare)? E non è proprio verso di loro che lo Stato ha il dovere di applicare regole giuste, a garanzia di tutti, visto che domani può essere un’autorità perversa e deviata a stabilire a suo arbitrio chi è “mostro” e chi no? Ben diverso è occupare un’aula della facoltà di Lettere dell’università La Sapienza a Roma, come è accaduto ieri, vestendo di fatto a Cospito i panni del “compagno di lotta”. Ben diverso è lo scentrato appello firmato da alcuni artisti (Jasmine Trinca, Valerio Mastandrea, Michele Riondino, Paolo Calabresi, 99 Posse), dove il curriculum criminale di Cospito è riassunto con grave superficialità (“Lo accusano di un attentato che però non ha causato né morti né feriti”) e lui viene definito “detenuto anarchico”, quasi a suggerire che sia in cella per le sue idee anziché per i suoi reati. Ben diverso è invocare “Alfredo libero”, come ha fatto tra gli altri l’ineffabile professoressa di Filosofia alla Sapienza di Roma, Donatella Di Cesare, già famigerata per la tesi secondo cui i confini delle nazioni sono un rottame novecentesco e dunque perché tanto preoccuparsi se la Russia invade l’Ucraina e la smembra (le crisi esistenziali e anagrafiche di molti reduci degli anni Settanta si decidono sempre a un bivio: c’è chi compra il Porsche e chi si reiscrive ad Avanguardia operaia). Cominciamo dalle basi, dunque: chiamiamolo Cospito e salviamogli la vita. “Alfredo” non può diventare un simbolo dei democratici e, soprattutto, non può essere libero. Errori e allarmi ignorati: così la galassia pro Cospito è diventata una polveriera di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 4 febbraio 2023 Si è arrivati al punto dove non si doveva arrivare: un fine settimana di tensione in nome di Alfredo Cospito. Col timore che in decine di piazze d’Italia, da Milano a Palermo, ogni alito di vento possa trasformarsi in tempesta. Anche perché non si sa neanche con precisione chi ci sarà a riempirle, quelle piazze: oltre ad anarchici, antagonisti e studenti, pare che parteciperanno anche i movimenti di estrema destra che hanno cavalcato le proteste dei No Vax e No Pass. E c’è da scommettere che si affaccerà, come accaduto nei giorni scorsi, qualche vecchio arnese che un tempo gravitava attorno (senza mai aderirvi) alle Br. Non si doveva arrivare a questo punto perché le forze di polizia che si occupano di Prevenzione avevano avvertito il governo Meloni già due mesi e mezzo fa, con un’allerta lasciata cadere nel vuoto. Era la fine di novembre e da Milwaukee, Oregon, era arrivata questa segnalazione: la notte del 21 un camion della ditta di trasporti Kone era stato dato alle fiamme. Poche ore dopo, una sigla anarchica aveva rivendicato il rogo in solidarietà col “detenuto italiano Cospito”, recluso al 41 bis. Non è rimasto un caso isolato. Dopo si sono susseguiti gli attentati a simboli italiani in Spagna e in Cile, poi l’auto della console Schlein incendiata in Grecia e lo stesso tipo di azione all’ambasciata di Berlino. Tutti accomunati dalla matrice “per Cospito”. Segnali su segnali anche in Italia, dove, però, la Federazione anarchica informale (Fai) di cui Cospito fa parte è numericamente esigua: non più di 150 anarco-insurrezionalisti, secondo la recente ricognizione dell’Antiterrorismo. Il governo di Giorgia Meloni poteva dunque muoversi in tempo e provare a raffreddare la brace che covava sotto la cenere del risentimento dell’anti-Stato, eccitato dal decreto ministeriale firmato da Cartabia che a maggio ha messo Cospito, condannato a trent’anni ma senza alcun omicidio alle spalle, nel carcere duro. Anche perché il piano dell’anarchico era stato scoperto mesi fa. “A giugno, luglio e settembre - si legge nella relazione del Gruppo operativo mobile, che accompagnava il plico inviato al ministero della Giustizia e finito nella disponibilità del deputato meloniano Giovanni Donzelli - Cospito lo aveva preannunciato ai familiari nei colloqui: aveva iniziato a mangiare molto di più per rinforzare il fisico e prendere peso in vista di una “dieta” da iniziare nel mese di ottobre. All’inizio temeva di non avere seguito e risonanza mediatica, poi ha assunto un atteggiamento spavaldo, annunciando che non si fermerà fino a quando il regime differenziato non sarà abolito”. Era questo il momento in cui, se avesse voluto, la politica avrebbe potuto intervenire. Ancora all’inizio di gennaio si era presentata l’occasione: l’avvocato Flavio Rossi Albertini aveva depositato un’ulteriore istanza di revoca del 41 bis, sulla base di una sentenza della Corte di Assise di Roma che aveva assolto gli imputati anarchici dall’accusa di associazione con finalità di terrorismo, rimarcando il tratto orizzontale della Fai dove non è possibile individuare un capo. Né, a maggior ragione, lo si può individuare in Cospito. Pure l’invito del Garante dei detenuti al trasferimento per motivi sanitari è stato ignorato per settimane: mentre Cospito girava per la cella con tre pantaloni e tre maglioni per il freddo (la perdita di peso gli aveva provocato uno choc termico), svenendo sotto la doccia bollente, gli operatori del carcere scrivevano “situazione non critica”, specificando: “Il detenuto afferma che grazie allo sciopero della fame ha notato un grande miglioramento dell’asma cronica”. La preoccupazione per questo weekend è il frutto di un lungo elenco di errori e di omissioni, che rende oggi la situazione di complessa gestione. Volantini che chiamano alle manifestazioni di Roma, Palermo, Taranto stanno girando nelle chat di chi protesta per il caro bollette e sono di questo tenore: “Non lasciamo che Alfredo esaurisca i colpi nel suo caricatore”, “Siamo sicuri che ogni colpo ben assestato crei una breccia nei muri che il potere erige per contenerci dentro e fuori le sue gabbie”. Sui muri di alcune città sono apparse le foto di magistrati e politici, bollati come “gli assassini” di Cospito. “Ma dal movimento anarchico non insurrezionalista - ragionava ieri sera una fonte dell’Antiterrorismo - non ci aspettiamo disordini programmati a tavolino. La questione è capire però se tra i manifestanti qualcuno ha interesse che ci siano”. Non soltanto tra i manifestanti, probabilmente. Padova. Ostellari, prima uscita scortato: “Cospito resta con il 41 bis” di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 4 febbraio 2023 Il sottosegretario alla Giustizia in visita al carcere di Padova: “Le intercettazioni? Utili per i reati gravi”. Prima uscita sotto scorta del sottosegretario alla Giustizia leghista Ostellari, minacciato dagli anarchici: “Non torniamo indietro, Cospito resta al 41 bis perché lo dice la legge e non per vendetta”. Nessun passo indietro sul 41 bis inflitto ad Alfredo Cospito, il leader anarchico detenuto prima a Sassari e dal 30 gennaio a Opera e che da 108 giorni fa lo sciopero della fame per protestare contro il carcere duro. Nonostante gli attacchi sferrati dagli anarchici alle sedi diplomatiche italiane di Berlino e Barcellona, il proiettile inviato al direttore del quotidiano Il Tirreno, Luciano Tancredi, gli scontri con le forze dell’ordine a Roma, dove sono anche comparsi manifesti contro Mattarella, Meloni e Nordio all’Università La Sapienza, il governo tira dritto. Lo ha ribadito il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari (Lega), ieri a Padova, dopo la visita al carcere Due Palazzi. La prima uscita ufficiale con la scorta, assegnata dal governo Meloni dopo le scritte minacciose contro l’avvocato padovano comparse sui muri della sua e di altre città. “La nostra posizione è molto netta: il 41 bis è fondamentale per tagliare i collegamenti tra un soggetto pericoloso e l’esterno - ha dichiarato il sottosegretario, finito nel mirino perché si occupa anche della salute psicofisica dei detenuti -. Non l’abbiamo applicato noi a Cospito, ma l’ex ministro della Giustizia, Marta Cartabia, in base a una relazione molto dettagliata degli organi competenti. Non vedo perché oggi qualcuno possa pensare di fare marcia indietro solo perché uno minaccia di mettere delle bombe. È inaccettabile. Nessuna vendetta da parte dello Stato, Cospito è seguito nel rispetto della legge, lo curiamo con il Sistema sanitario nazionale interno ed esterno al carcere, si trova in una struttura adeguata. Nessuna violenza nei suoi confronti, anzi. Il 41 bis non è una punizione eccessiva rispetto alla condotta di chi evidentemente ha contatti con l’esterno che provocano tensioni, pericolo - ha aggiunto Ostellari. Questo regime di reclusione è stato pensato proprio per le situazioni di grave crisi, di emergenza del Paese, riferite non solo alla mafia ma anche al terrorismo e ad altri atti violenti. L’Italia non dev’essere ostaggio dei violenti, della mafia, di tutti quei fenomeni che nulla hanno a che fare con uno Stato di diritto. Bisogna dire chi è Cospito, cosa ha fatto, perché si trova in quella condizione e stabilire se è ancora utile il 41 bis. Io lo ritengo indispensabile, la violenza va combattuta con fermezza”. Quanto alla scorta, l’esponente del governo ha glissato: “Preferisco non parlarne, sono abituato a lavorare guardando il cuore delle questioni, non mi piacciono le polemiche. Meglio concentrarsi sulla reale dimensione del problema: c’è uno Stato che deve agire e reagire di fronte a condotte violente che non sono accettabili. E io continuo a fare il mio lavoro”. Un mestiere che passa pure per le ricognizioni agli istituti di pena, iniziate con Trento, Opera e appunto Padova, dove Ostellari è stato accompagnato da Claudio Mazzeo, direttore della casa di reclusione, e da Maria Milano Franco D’Aragona, provveditore alle carceri del Triveneto. “Dal Due Palazzi può partire un progetto di rieducazione dei detenuti che coinvolga tutto il personale, dalla polizia penitenziaria agli amministrativi, dagli educatori agli psicologi - ha detto il sottosegretario -. Dobbiamo investire molto e lo faremo, perché un reale percorso di reinserimento dà una risposta anche in termini di sicurezza: chi impara un lavoro si toglie dal circuito di illegalità e criminalità”. Evitare le “recidive”, che ora vedono tornare in cella il 62% dei reclusi (rapporto Antigone 2022), significa pure contrastare la piaga del sovraffollamento. “Una battaglia che non si vince solo creando nuovi spazi di detenzione - ha convenuto Ostellari - ma anche con le nuove assunzioni di agenti da noi appena disposte e facendo funzionare le pene alternative, che già ci sono”. Inevitabile, infine, un passaggio sulle intercettazioni: “Sono molto utili, soprattutto rispetto ai reati gravi, come la corruzione e quelli che attengono al 41 bis. Però nel rispetto della privacy di persone estranee alle indagini”. Padova. Ostellari: “Carceri, la svolta parte da qui. Investiremo su recuperi e rieducazione” di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 4 febbraio 2023 Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, ieri mattina, 3 febbraio, ha fatto visita alla Casa di reclusione Due Palazzi. È arrivato con la scorta. Un provvedimento assunto per proteggere la sua incolumità, dopo le minacce ricevute dagli anarco insurrezionalisti. Il loro leader è Alfredo Cospito, l’anarchico pescarese rinchiuso nel penitenziario di Sassari da dove sta attuando lo sciopero della fame contro il 41 bis, il carcere duro. “Si tratta di un momento delicato, ma non si devono alimentare polemiche bensì è necessario combattere la violenza e concentrarci sul tema: uno Stato che deve agire e reagire - ha spiegato Ostellari - non credo che il cittadino sia appassionato alla questione giudiziaria che coinvolge solo il dibattito parlamentare, credo si debba parlare di chi è Cospito, di quello che ha fatto. Condotte violente non sono e non possono essere accettabili nel nostro Paese. Il 41 bis non è una vendetta nè una punizione eccessiva rispetto a chi ha contatti con l’esterno e provoca insicurezza”. E ancora: “Il 41 bis non è solo per i reati di mafia, ma anche per il terrorismo o per chi ha compiuto atti particolarmente violenti. Nel caso di Cospito il 41 Bis l’ha deciso il precedente Governo dopo una regolare disamina compiuta dagli organi competenti. Noi non facciamo collegamenti fra anarchici e mafia ma solo contro i violenti. Si tratta di uno strumento fondamentale per eliminare ogni tipo di collegamento - ha proseguito - tra un soggetto pericoloso e l’esterno, non vedo perchè oggi si dovrebbe fare marcia indietro solo perché all’esterno ci sono soggetti che minacciano bombe, è inaccettabile”. Ostellari arrivato al carcere cittadino, tappa del giro degli istituti di pena che sta compiendo, tocca anche il tema delle intercettazioni. “Siamo tutti sulla stessa linea le intercettazioni sono uno strumento utilissimo non solo per i reati che portano a comminare il 41 bis, ma anche in altri casi come ad esempio la corruzione che è un reato grave - ha sottolineato - ma non devono più essere strumenti di prova bensì di indagine, abbiamo visto tanti casi di persone coinvolte nelle intercettazioni risultare poi estranee e quindi va garantita la privacy”. Il sottosegretario ha poi sottolineato: “Il carcere di Padova è un punto di partenza per il sistema Italia e da Padova, dove è già in atto, può partire un progetto con tutto il personale e con le associazioni esterne che lavorano, per un percorso di rieducazione e reinserimento e su questo faremo investimenti consistenti, si deve parlare meno e agire di più, intendiamo attuare alcuni provvedimenti da subito per dare segnali forti partendo da nuove assunzioni per la polizia penitenziaria - ha puntualizzato - il sovraffollamento delle carceri è un problema da affrontare e questo Governo è in grado di dare garanzie sotto questo profilo. Servono percorsi di reinserimento e rieducazione, una politica del recupero del soggetto, ma non siamo qui per distribuire premi a chi deve scontare una pena”. Lauro (Av). Ciambriello: “Mai più bambini in carcere”, l’appello del garante dei detenuti di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 4 febbraio 2023 Occorre mettere fine a condizioni inaccettabili per bambini e bambine figli di detenuti. Oggi nell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri a Lauro, nell’Avellinese, dove attualmente sono ristrette 10 detenute e 11 bambini, il Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello, accompagnato dal suo staff, dalla direttrice del carcere Concetta Felaco, ha promosso una giornata particolare. La visita ha dato la possibilità di incontrare singolarmente, durante la mattinata, le detenute per farsi raccontare i loro problemi. Poi c’ è stata la celebrazione eucaristica presieduta dal cappellano Don Vincenzo Miranda ed ancora l’organizzazione del pranzo offerto dal Garante e consumato tutti insieme, detenute, figli, volontari, personale educativo, agenti. Dopo i dolci sono stati consegnati dei doni ai figli delle detenute tra cui il libro “Favolette” regalato al Garante per questi bambini dalla fondazione Giancarlo Siani. “Una giornata particolare dal valore non quantificabile. Favolette che ho regalato ai bambini è molto più di un libro di favole, è un libro magico per bambini a metà. Per bambini che non vivono la loro infanzia in un luogo ideale pieno di affetto e di servizi, di relazioni e di umanità. Sono contento che la proposta di legge “mai più bambini in carcere” che era stata promossa nella scorsa legislatura da Paolo Siani, potrà essere di nuovo esaminata in questa legislatura avendo ottenuto in aula la deliberazione sull’urgenza. Occorre mettere fine a condizioni inaccettabili per bambini e bambine figli di detenuti”. Torino. Il rettor maggiore nel carcere minorile: “C’è del bene in ogni ragazzo e ragazza” di Marina Lomunno Avvenire, 4 febbraio 2023 Al riformatorio “La Generala”, oggi l’istituto penale minorile (Ipm) “Ferrante Aporti”, don Giovanni Bosco inventò il suo sistema preventivo e gli oratori visitando, su invito del suo padre spirituale don Giuseppe Cafasso, i ragazzi “discoli e pericolanti” della Torino dell’Ottocento. “Se questi giovanetti avessero fuori un amico che si prendesse cura di loro chissà che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro che ritornano in carcere?” scriveva nel 1855 nelle sue “Memorie dell’oratorio”. Parole che possono essere prese a prestito per raccontare i 34 giovani “pericolanti” detenuti oggi al “Ferrante Aporti”, per la maggior parte stranieri, alcuni figli di immigrati di seconda generazione, altri non accompagnati. Come ai tempi di don Bosco, le presenze nel carcere sono lo specchio del disagio giovanile. Ma come nell’Ottocento la soluzione all’emarginazione e alla recidiva anche oggi sono le opportunità di reinserimento nella società “sana” dopo aver scontato la pena. Ed ecco perché non c’è luogo più significativo del carcere minorile torinese per capire l’attualità della mission di don Bosco: “Mi basta che siate giovani perché io vi ami assai”. Lo sa bene il rettor maggiore dei salesiani, don Ángel Fernàdez Ártime, che nella mattinata di mercoledì 1 febbraio, ha voluto concludere le celebrazioni della festa del santo proprio al “Ferrante Aporti”. Una visita storica perché mai, dopo don Bosco, era entrato nell’Ipm torinese un suo successore (don Ángel è il 10°), anche se il carisma salesiano tra queste mura non è mai venuto meno: una targa ricorda le sue visite alla “Generala” e qui è tradizione che i cappellani siano salesiani perché il “Ferrante” per i figli di don Bosco è un “oratorio dietro le sbarre”. Tra i cappellani storici, è stato ricordato dal rettor maggiore don Domenico Ricca, andato in pensione lo scorso anno dopo oltre 40 anni di servizio, che ha riaperto la cappella del “Ferrante” a cui alcuni benefattori hanno donato le statue di don Bosco e di Maria Ausiliatrice. A don Ricca è subentrato il confratello don Silvano Oni, che ha organizzato la visita del rettor maggiore in collaborazione con la vicedirettrice Gabriella Picco, i formatori, gli insegnanti e gli educatori. “In questi giorni spediremo una lettera a papa Francesco - annuncia don Silvano - con le foto del presepe che a Natale abbiamo allestito con i ragazzi, la maggior parte musulmani: è una natività in cui i personaggi di cartone non hanno volto: sopra Gesù Bambino una luce illumina la notte e un soccorritore e un medico attendono un barcone carico di giovani migranti come alcuni dei nostri giovani che hanno lasciato la loro terra e qui sono soli e preda dell’illegalità. Il loro salvagente per ora siamo noi”. Don Ángel, salutando uno per uno i ragazzi, si è informato sulla loro storia e provenienza: “io sono rumeno”, “io egiziano” “io di Tangeri”. “Sono stato nei vostri bellissimi Paesi a visitare le nostre comunità e i nostri oratori. Conosco qualche parola delle vostre lingue: io sono spagnolo, sono nato in Galizia, figlio di un pescatore. Ho studiato teologia e filosofia ma so molto di più della pesca che mi ha insegnato mio papà”. Così si è presentato il rettor maggiore ai ragazzi radunati nel salone della ricreazione, dopo una danza e una scenetta su don Bosco animate dai novizi salesiani che ogni venerdì, accompagnati dal loro maestro don Enrico Ponte, animano l’oratorio del “Ferrante”. “È per questo che ho scelto di diventare salesiano, 43 anni fa - ha continuato don Ángel -. Volevo fare il medico ma poi ho capito che don Bosco mi chiamava a curare le anime dei più giovani perché non ci sono buoni e cattivi ma ragazzi e ragazze che hanno avuto di meno e, come diceva il nostro santo, “in ogni giovane, anche il più disgraziato, c’è un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto”. Tutti possiamo sbagliare ma se credete in voi stessi, vi fidate dei vostri educatori uscirete di qui migliori. Il mio sogno è di incontrarvi tutti a Valdocco con i giovani che ho incontrato ieri alla festa del nostro santo”. Quando la visita è finita, i ragazzi commossi hanno chiesto a don Ángel: “Quando torni?”. Milano. Dal carcere al palcoscenico: c’è Blue Voice degli agenti. “Il nostro canto libero” di Silvia Morosi Corriere della Sera, 4 febbraio 2023 La Polizia penitenziaria di Opera ha dato vita a una band (in uniforme) di musica leggera. Concerti benefici per malati, anziani e in generale per chi vive momenti di sofferenza. Compagni di lavoro e anche di passione: per il canto. A fine 2017 è nata l’idea di mettere a frutto il talento e la preparazione di alcuni membri della Polizia penitenziaria del carcere di Opera per dare vita a una band musicale. In occasione di una delle tante iniziative promosse per Natale, destinate al personale e alle famiglie, al Conservatorio, “ho chiesto che al concerto dei musicisti professionisti potesse essere affiancato, in coda, qualche brano eseguito dai colleghi in uniforme”, racconta Amerigo Fusco, comandante della casa di reclusione di Milano Opera. Da allora sono nati i Blue Voice, un gruppo di uomini e donne in divisa che si incontrano nei momenti liberi, dopo il lavoro, per cantare insieme e preparare dei concerti da offrire per beneficenza, nella sala musica della caserma. “Nel corso del tempo qualcuno dei colleghi è stato trasferito in altre città e l’organico è cambiato. Resta comunque un nucleo fisso di tre/quattro elementi”, continua Fusco, ideatore del progetto e “primo fan della band”, come lo chiamano i colleghi. Tra gli spunti che - è il caso di dire - hanno dato il la all’impegno extra-carcerario degli agenti l’aver ascoltato “Celentano cantare davanti a papa Giovanni Paolo II, al Congresso eucaristico di Bologna, nel 1997, Pregherò, un brano che parla della speranza che noi per primi dobbiamo dare. Senza dimenticare il video in rete dei giocatori della Juventus che intonano Il mio canto libero di Lucio Battisti. Certo, all’inizio siamo stati criticati per la scelta di cantare in divisa, poi è prevalso l’apprezzamento. E la nostra iniziativa ha conquistato anche colleghi di Esercito, Carabinieri, Polizia, Vigili del fuoco”, aggiunge. Con estro e anche un po’ di incoscienza, “pensai di mettere in piedi qualcosa di diverso: un gruppo musicale, non una banda istituzionale che i corpi dello Stato già hanno. È stato anche utile prendere spunto da esperienze della polizia americana e di Paesi del nord Europa. Con i Blue Voice abbiamo portato anche in Italia una novità; il cantare musica leggera in uniforme. Un’esperienza - sottolinea - che permette di superare il pregiudizio legato alla divisa e anche di sensibilizzare su alcune espressioni utilizzate per raccontare la nostra professione. Un esempio? Siamo agenti, non “guardie” come troppo spesso ancora veniamo definiti”. Molti i momenti emozionanti che hanno visto protagonista la band: “La nostra è un’emozione prolungata nel tempo. Voglio ricordare il concerto organizzato nel dicembre 2018 all’Istituto nazionale tumori di Milano. Eravamo in possesso di un carico di giocattoli, frutto di un sequestro. Non li abbiamo consegnati in pediatria, perché - ci fecero notare - sotto Natale ai piccoli pazienti arrivano già molti doni. Li abbiamo portati, invece, in altri reparti, perché i degenti li dessero a loro volta ai figli, o ai nipoti che andavano a trovarli durante le feste”. All’Epifania del 2019 la band si è, poi, esibita con Pregherò anche in televisione su Rai 1 a La Prima Volta, condotto da Cristina Parodi, e in venti giorni il video ha raccolto 6 milioni di visualizzazioni in Rete. Regalare un sorriso - Non è sempre facile far capire all’opinione pubblica che dietro a un’uniforme che rappresenta lo Stato “c’è sempre una persona che vive emozioni. Per questo è stato per me un onore aderire all’iniziativa proposta dal comandante Fusco”, spiega Francesco P., assistente capo coordinatore della Polizia penitenziaria in servizio a Opera e componente dei Blue Voice. “Un’occasione per descrivere la figura della Polizia penitenziaria anche a chi, talvolta, cade nell’errore del pregiudizio o non ha la curiosità di comprendere il nostro mondo. Il tutto facendo ciò che ci viene meglio: del bene, per regalare un sorriso a chi vive la sofferenza”. E così, con un gruppo fatto di amici, prima che di colleghi, mossi dalla passione per la musica, “abbiamo realizzato qualcosa che nella sua normalità è straordinario. Pensavamo di poter regalare agli altri, ma siamo noi a esserci arricchiti”. “Io, convertito in carcere da don Roberto Malgesini” di Eugenio Arcidiacono Famiglia Cristiana, 4 febbraio 2023 Esce il 9 febbraio “Don Roberto Malgesini. Non c’è pace senza perdono” (San Paolo), il libro dell’ex detenuto Zef Karaci in cui racconta come gli incontri con il sacerdote ucciso a Como nel 2021 gli abbiano cambiato la vita. Il processo d’appello per l’omicidio di don Roberto Malgesini, il sacerdote di Como ucciso a coltellate il 15 settembre 2020 mentre, davanti alla sua chiesa, si preparava alla consueta distribuzione di un pasto caldo, si è concluso lo scorso novembre con la condanna dell’assassino: il senza fissa dimora di origini tunisine Ridha Mahmoudi, uno dei tantissimi disperati che don Roberto aiutava, dovrà scontare 25 anni di carcere, dopo che in primo grado era stato condannato all’ergastolo. Ma se la vicenda giudiziaria appare definita, molto resta ancora da sapere sulla parabola umana e di fede di quest’uomo morto a soli 51 anni: la sua estrema riservatezza ha fatto sì che di lui si sapesse ben poco. Chi scrive ha cercato di ricostruirne la vita nel libro Asciugava lacrime con mitezza (San Paolo), raccogliendo le testimonianze di persone che lo hanno conosciuto. Ed è proprio questa la chiave di “Don Roberto Malgesini. Non c’è inizio senza perdono”, un nuovo libro, sempre edito da San Paolo che racconta una vita tanto eccezionale quanto rimasta, per sua scelta, nell’ombra. L’autore, Zak Karaci, ha conosciuto il sacerdote nel carcere di Como e, attraverso il contatto con lui, ha avviato un percorso di redenzione che dura anche adesso che ha da poco finito di scontare la pena. “È un libro grazie al quale l’incontro con il tema del perdono può darti una preziosa occasione per metterti in contatto con quel punto di debolezza che abita in ciascuno di noi e che tutti nascondiamo, agli altri, e forse prima ancora a noi stessi”, scrive nelll’introduzione don Alberto Erba, aiuto cappellano nel carcere. Don Roberto, come faceva sempre, arrivava anche lì sempre in punta di piedi. Spesso diceva ai detenuti poche parole, a volte nemmeno quelle. Eppure, riusciva sempre a scalfire la corazza di rabbia e dolore che ricopriva quegli uomini. Karaci, per esempio, racconta che un giorno don Roberto intervenne per sedare una lite tra due detenuti: ci riuscì, ma si prese anche un pugno involontario nello stomaco da uno di loro: “Il pugno non era rivolto a lui, ma il male lo sentiva eccome. Dopo tanto penare, terminata la rissa, intervenne anche un agente che era di turno e chiese a don Roby come stava, perché lo aveva visto piegato in due dal pugno carico di rabbia che aveva preso un attimo prima. Mi avvicinai anch’io e mi misi accanto al don. L’agente accompagnò i detenuti in due camere separate, così da evitare che si riaccendesse il confronto. Subito dopo, chiese a don Roby se avesse bisogno di andare in infermeria, di medicarsi, di fare una visita, visto che aveva appena preso un pugno abbastanza pesante. Con la sua consueta tranquillità, don Roby rispose: “Guardi, io non voglio nulla, il male passa. Sono certo che il ragazzo non voleva farmi del male. Nella colluttazione non ha visto niente e ha preso anche me, involontariamente. Ma è meglio così, perché se quel pugno l’avesse preso quell’altro lo avrebbe ridotto male. Quindi è meglio così, che lo abbia preso io”. Questo era don Roberto e queste pagine, scrive ancora l’autore, “saranno un vero incontro con don Roby, ma saranno anche un incontro con il perdono che ho ricevuto io, quello che ho incontrato in un luo-go dove sembrava impossibile incontrarlo, come questo, che è il carcere. Perciò, racconterò anche di come l’ho avuto io per primo, di come mi sono accorto di averlo ricevuto, in situazioni in cui sembra non esserci più nulla da fare. Proprio lì nasce il cuore dell’uomo, il desiderio, la voglia di vivere dell’uomo e la coscienza che uno è fatto solo per essere felice... e che senza il perdono questo è impossibile”. Migranti. Alla deriva senza acqua, dieci morti su un barcone di Adriana Pollice Il Manifesto, 4 febbraio 2023 La tragedia nel Canale di Sicilia. La Guardia costiera ne salva 42 in zona Sar maltese: in viaggio da sabato senza viveri. Il dramma della donna che, morendo, ha lasciato scivolare in mare il suo neonato. L’ong tedesca Sea eye ne intercetta 109 ma per due migranti è tardi. Il Viminale prima li indirizza a Pesaro e poi a Napoli. Il salvataggio della Guardia costiera - Un peschereccio tunisino li ha incrociati giovedì mattina e ha fatto la segnalazione a La Valletta: erano in 52 in zona Sar maltese su un barchino di 6 metri, un guscio che rischiava di affondare a ogni onda. Ad andarli a prendere alla fine è stata è stata la Guardia costiera italiana, su richiesta del governo maltese: era l’una di notte quando la motovedetta si è avvicinata all’imbarcazione pericolosamente inclinata sul fianco sinistro, a circa 40 miglia da Lampedusa. A bordo i soccorritori hanno trovato otto cadaveri, dieci in totale i morti. I 42 sopravvissuti, originari di Mali, Costa d’Avorio, Guinea, Camerun, Burkina Faso e Niger, sbarcati sull’isola delle Pelagie sfiniti e disidratati, hanno raccontato di essere partiti sabato scorso da Sfax, in Tunisia, dopo essere stati per mesi rinchiusi in una safe house di Mahdia. Viveri finiti, avevano iniziato a bere l’acqua di mare. Tra i cadaveri arrivati a Lampedusa c’è la mamma che stringeva il suo neonato: quando è spirata il bimbo è scivolato in mare perdendosi tra le onde. Il secondo disperso era sul bordo dell’imbarcazione: si è accasciato ed è finito in mare. La Procura di Agrigento ha aperto un fascicolo: ipotesi di reato, a carico di ignoti, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte quale conseguenza di altro reato. Tra giovedì notte e ieri a Lampedusa ci sono stati 9 sbarchi di migranti, 376 persone in totale. Una donna è stata recuperata in mare in serata davanti la costa di Lampedusa: a tenerla a galla solo un salvagente. Chi è partito da Sfax ha raccontato di aver pagato gli scafisti tra i 1.500 e i 3.500 dinari tunisini. Nella camera mortuaria del cimitero di Cala Pisana, una stanza senza refrigerazione, i cadaveri erano diventati 12, ieri sera 4 sono stati messi sul traghetto per essere tumulati: “I documenti erano pronti - ha spiegato il sindaco - non riuscivamo però a trovare disponibilità affinché queste bare venissero accolte nei cimiteri agrigentini”. All’hotspot di Lampedusa in contrada Imbriacola le presenze sono salite a 459. Per evitare che la struttura di primissima accoglienza si ingolfi, la Prefettura di Agrigento ha disposto il trasferimento di 80 persone. Stamattina arriveranno a Porto Empedocle: 33 verranno trasferiti a Bari e 47 a Crotone. È stata invece l’ong tedesca Sea Eye a salvare 109 naufraghi, tra cui almeno 35 bambini, in due operazioni. Giovedì notte sono state recuperate prima 32 persone, ma purtroppo due erano già morte. Quindi sono stati intercettati in 77. Il primo gruppo era su un barchino di acciaio, inadatto alla navigazione in mare aperto, in viaggio da sei giorni. A dare l’allarme è stato l’aereo da ricognizione Seabird della ong Sea Watch nel tardo pomeriggio di giovedì. La Sea eye ha impiegato sei ore per raggiungerli: quando sono arrivati due dei 34 migranti erano morti. Molti dei sopravvissuti hanno avuto bisogno del personale medico di bordo. Uno di loro era in condizioni gravi ed è stato evacuato dalle autorità maltesi con l’elisoccorso ieri mattina. “Siamo sempre arrivati in tempo per evitare la perdita di vite umane. Ma questa volta siamo arrivati troppo tardi per due persone - ha raccontato Gorden Isler, presidente di Sea eye -. Per sei giorni sono stati in balia del brutale regime di frontiera europeo. Questo è imperdonabile. Una madre ha perso la vita prima ancora che potessimo raggiungere la barca. Un bambino è ora orfano. Un uomo ha perso la moglie”. La nave dell’ong è in viaggio verso Pesaro: l’Italia solo in tarda mattinata, ieri, ha comunicato il porto di approdo, a cinque giorni di distanza dall’ultimo salvataggio. Il Sindaco Matteo Ricci: “Mi chiedo se sia normale che l’imbarcazione, che era davanti la costa libica, debba fare oltre 2mila chilometri per raggiungere Pesaro”. Poi in serata il contrordine: “Il ministero dell’Interno ha annullato l’approdo a Pesaro - l’annuncio di Ricci -. Eravamo e rimaniamo pronti per un’accoglienza seria e diffusa. Spero che abbiamo deciso di far attraccare la nave in un porto più vicino e sicuro. È disumano tenere in nave bambini e persone in condizioni psico sociosanitarie precarie per tanti giorni e tante miglia”. La nuova destinazione è Napoli, come Pesaro amministrata dal centrosinistra. In Veneto, ieri pomeriggio, sono stati salvati due siriani: li hanno trovati semisommersi dentro una cisterna piena di cereali, all’interno di un treno merci che si era fermato a uno dei terminal di Portogruaro. Il convoglio proveniva dalla Serbia via Trieste. Ad avvisare i Vigili del fuoco è stato il macchinista che ha sentito le grida d’aiuto. I due, esausti, hanno raccontato di essere in viaggio da 35 ore. Migranti. Il neonato annegato mentre Roma regala motovedette a Tripoli di Karima Moual La Stampa, 4 febbraio 2023 Sono morti di fame e di freddo, mentre nel buio abissale della notte speravano di trovare la salvezza, pregando in direzione di qualche lontanissima stella. Soli davanti all’immensità del mare, davanti a un’Europa avida e distante che sulla tragedia che continua a segnare i suoi confini continua a tenere spente le luci della speranza. Una madre che sembrava svenuta stava in realtà morendo. Abbandonandosi ha lasciato scivolare in mare il suo bambino, un fagotto di quattro mesi. “Lo hanno portato via le onde, era ancora vivo”, raccontano i superstiti. Che a Lampedusa sono arrivati ieri con i loro racconti disperati e 8 cadaveri al seguito. Erano tutti partiti da Sfax, in Tunisia, la notte di sabato scorso, dopo essere stati per mesi rinchiusi in una safe house di Mahdia. Questa è la cornice dietro alla politica che va avanti. Mentre la guardia costiera portava a riva quei corpi, mentre a Lampedusa c’è un padre che non si dà pace per aver visto morire davanti ai suoi occhi la moglie e il figlio, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, nell’incontro con Giorgia Meloni, ha dichiarato che “per contrastare l’immigrazione illegale servono accordi con i Paesi d’origine”. Chi non ha il diritto di restare “deve poter tornare al proprio Paese - dice - ma ci devono essere vie legali per entrare nell’Ue perché abbiamo bisogno di forza lavoro in Europa”. Scholz è forse uno dei pochi che dice una verità (la Germania ha anche aperto ai flussi quest’estate) che pochi hanno il coraggio di dire, a partire dalla nostra Meloni. Perché a parte il giro in Africa in cambio di gas, la questione del viaggio legale per gli africani è una porta che dovrà essere prima o poi aperta, anche per rispondere al contrasto del lavoro nero e allo sfruttamento che esiste ed è sempre sul corpo dei migranti. Molte le note e i buoni propositi in politichese, ma quello che è sempre più concreto sul terreno è l’innalzamento dei muri e l’esternalizzazione delle frontiere, nella sempre più visibile consapevolezza che nessuno è interessato al riconoscimento di un fenomeno epocale e umano che andrebbe gestito in modo razionale. Il ministro dell’Interno Piantedosi ha iniziato questa legislatura preferendo prolungare l’agonia dei profughi mandandoli in porti sempre più lontani e facendo la guerra alle navi Ong. Il risultato sono meno aiuti in mare, e quindi più tragedie. Così, nelle stesse ore in cui si scopriva la tragedia di quella barca e di quel neonato, è arrivata la nota del Viminale a ricordarci che lunedì si svolgerà la cerimonia di consegna alle autorità libiche di una motovedetta “classe 300” di nuova fabbricazione, nell’ambito del progetto europeo Sibmmil. Non so se è chiaro: una cerimonia per una motovedetta da consegnare a quella stessa guardia costiera libica accusata con filmati e prove schiaccianti di crudeltà inammissibili e aberranti verso i profughi. In 6 anni abbiamo speso 124 milioni di euro per fermare i migranti, riportarli indietro nell’inferno libico e tenerli nei centri di detenzione che - abbiano scoperto - sono veri e propri lager. E mentre per la motovedetta si organizza una cerimonia in pompa magna, attendiamo che qualcuno del governo sia sfiorato da un sentimento di compassione e pietà per queste ennesime vite spezzate, magari concedendo loro un funerale e una sepoltura degni. Ma si sa, sono esseri disumanizzati. Corpi estranei che valgono meno di un pezzo di ferro. Meno di una motovedetta da celebrare. Regeni, la rabbia dei genitori: “Abbiamo i nomi, ma chi va al Cairo è incapace di farsi dare quattro indirizzi” La Stampa, 4 febbraio 2023 “Parlano di collaborazione, ma tornano sempre a mani vuote”. “Sette anni. Chissà cos’hanno tutti da nascondere per ostacolare la verità con tanta oltraggiosa determinazione. Abbiamo i nomi, abbiamo i volti di quattro tra i molti artefici di ‘tutto il male del mondo’. Ci manca la loro elezione di domicilio per celebrare finalmente un processo in Italia”. È quanto scrivono in una nota i genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, e l’avvocato Alessandra Ballerini. “Chi, ad ogni gita al Cairo, dopo i selfie e i salamelecchi di rito, si riempie la bocca di ‘collaborazione’ dovrebbe spiegare agli italiani perché tornano a casa sempre a mani vuote, incapaci di farsi dare anche solo 4 indirizzi - aggiunge - Sarebbe più dignitoso tacere. A furia di stringere le mani (e vendere armi) ai dittatori si rischia di trovarsi insanguinate anche le proprie. E di offendere la nostra dignità”. Giulio Regeni venne ritrovato, il 3 febbraio del 2016, nove giorni dopo il suo sequestro, in Egitto: un cadavere irriconoscibile per le torture subite, era abbandonato nei pressi della strada che collega Il Cairo ad Alessandria. Nelle prime settimane dopo l’omicidio, tante false piste si susseguirono: prima si parlò di un incidente stradale, poi di una rapina finita male, successivamente si insinuò che il giovane fosse stato ucciso perché ritenuto una spia, poi che fosse finito in un giro di spaccio di droga, di festini gay, di malaffare che l’aveva portato a farsi dei nemici. A un mese dalla morte di Giulio alcuni testimoniarono di averlo visto litigare con un vicino che gli aveva giurato morte. Il 24 marzo del 2016 arrivò l’ennesima ricostruzione non credibile e questa volta c’erano di mezzo cinque morti: criminali comuni uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security egiziana, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane. Dalle indagini italiane emerse che il ricercatore era attenzionato da polizia e servizi segreti già settimane prima del rapimento. Le analisi sui tabulati misero in luce i numerosi contatti telefonici tra gli agenti che si erano occupati di tenere sotto controllo Giulio tra dicembre 2015 e gennaio 2016, e gli ufficiali dei servizi segreti coinvolti nella sparatoria con la presunta banda di criminali uccisi nel marzo 2016 a cui gli egiziani provarono ad attribuire l’omicidio. Chi indaga a piazzale Clodio è convinto che Giulio sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi. Sotto accusa sono Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Rispondono tutti di sequestro di persona, e Abdelal Sharif anche di lesioni e concorso nell’omicidio. Il processo ai quattro è sospeso: il nodo restano le mancate notifiche agli imputati, dei quali le autorità egiziane non hanno mai fornito gli indirizzi di domicilio, bloccando, di fatto, il procedimento. Iran. Rilasciato Jafar Panahi: il regista aveva iniziato lo sciopero della fame di Fabiana Magrì La Stampa, 4 febbraio 2023 Scarcerato su cauzione dopo oltre 200 giorni di cella, era condannato a sei anni. Jafar Panahi sorride emozionato, stretto nell’abbraccio dei suoi cari all’uscita dal carcere di Evin a Teheran, nella foto twittata dal quotidiano riformista Sharagh. Quarantotto ore dopo aver iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua condanna a sei anni, dopo oltre 200 giorni in cella, il regista iraniano è stato rilasciato e appare in buona salute. Non ci sono stati commenti immediati da parte della magistratura ma il Centro indipendente per i diritti umani in Iran (l’Ong con sede a New York) e gli avvocati di Panahi, Yusef Moulai e Saleh Nikbakht hanno fatto sapere che si tratta di libertà su cauzione. Poco dopo, Tahereh Saidi ha postato su Instagram una foto con il marito, a bordo dell’automobile con cui sono tornati a casa insieme. La notizia è stata accolta con gioia dalla comunità cinematografica globale che da mesi si batteva per la liberazione di Panahi, tanto che anche il mensile francese Cahiers du cinéma, ricevuto lo scatto da Panah, il figlio del regista, divulgato su Twitter l’immagine che immortala il sollievo di una famiglia che si ricongiunge. L’incarcerazione di Panahi è una delle storie di escalation nei tentativi del regime iraniano di imbavagliare gli intellettuali in generale e i professionisti dell’industria cinematografica nazionale in particolare. Gli artisti persiani erano nel mirino dei mullah già prima della nuova ondata di manifestazioni, generata dalla morte di Mahsa Amini. Su Panahi pendeva una condanna a sei anni di reclusione risalente al 2010, collegata alla sua partecipazione al funerale - nel 2009 - di uno studente ucciso durante la Rivoluzione Verde e al suo progetto di girare un lungometraggio ambientato sullo sfondo della rivolta. All’epoca la sentenza era stata negoziata con il divieto di produrre film e di viaggiare all’estero nei successivi vent’anni. Una pena severa per un regista abituato a calcare i red carpet di festival come Cannes, Berlino e Venezia. Ma da quando la voce delle celebrità iraniane si è levata forte e chiara a sostegno delle continue proteste anti governative, la macchina della repressione si è rimessa in moto puntando ancora di più l’attenzione sul mondo della cultura libera e riformista. Così il regista era stato arrestato all’inizio di luglio, e la sua sentenza rispolverata, per aver sfidato le autorità con la sua richiesta di informazioni sulla situazione dei colleghi Mohammad Rasoulof e Mostafa Al-Ahmad, imprigionati qualche giorno prima a Evin. Il caso Panahi, soprattutto dopo la lettera aperta dal carcere in cui annunciava lo sciopero della fame e l’intenzione di interromperlo solo all’uscita del penitenziario, che fosse da vivo o da morto, è stato seguito da vicino dalle rassegne cinematografiche internazionali. La Biennale di Venezia aveva rinnovato proprio ieri l’appello per l’immediata liberazione di Jafar Panahi e di tutti i dissidenti “immotivatamente arrestati in seguito alle pacifiche proteste pubbliche di tante giovani donne e uomini in corso da mesi”. La Biennale e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica hanno anche ribadito in una nota che “proseguiranno fermamente nell’impegno di sensibilizzare i media, i governi e le organizzazioni umanitarie, unendo la propria voce alle tante che nel mondo si levano, in difesa del popolo iraniano oppresso in modo violento”. L’agenzia degli attivisti iraniani per i diritti umani Hrana ha divulgato un comunicato dell’Unione dei sindacati iraniani del Cinema “Khaneh Cinema” che, sempre ieri, esprimeva preoccupazione per le condizioni di salute di Panahi e della regista Mojgan Ilanlu, arrestata in ottobre per avere manifestato sostegno alle proteste anti governative. Il comportamento della magistratura iraniana resta per lo più imperscrutabile ed è difficile attribuire la decisione di rilasciare Panahi alla sollevazione di voci internazionale. L’avvocato del regista dissidente, Saleh Nikbakht, ha dichiarato di essere soddisfatto nonostante “il rilascio del signor Panahi avrebbe dovuto avvenire tre mesi fa, a seguito dell’accettazione della nostra opposizione alla precedente decisione del tribunale”. Intanto ancora ieri, come accade quasi ogni venerdì da quattro mesi, un gruppo di manifestanti si è radunato a Zahedan inneggiando “Morte a Khamenei”, come si vede nel video diffuso sui social dall’agenzia degli attivisti dei diritti umani Hrana. L’Ong ha fatto sapere che dimostrazioni anti governative si sono svolte anche nel villaggio di Nanaleh, nei pressi di Sanandaj, la capitale del Kurdistan iraniano.