La pena, l’inferno e la misericordia di Massimo Cacciari La Stampa, 3 febbraio 2023 C’è da augurarsi che, comunque si concluda, il caso Cospito - che questo giornale ha sollevato tra i primi all’attenzione di tutta l’opinione pubblica - serva ad aprire, come la sua gravità imporrebbe, una seria discussione sullo stato del nostro diritto penale. Dai dibattiti parlamentari non sembra proprio emergere una simile, lodevole intenzione. Lasciamo perdere il vernacoliere di qualche parlamentare. È il riflesso condizionato che mostra una destra, che si fingeva modernizzata, europea e di governo, a preoccupare. L’irrefrenabile ritorno alle “piste anarchiche”; la voglia irresistibile di spiegare proteste e conflitti sociali come espressione comunque di disordinati istinti volti ad abbattere le nostre sicurezze; l’incapacità di distinguere e analizzare i diversi casi, di far di ogni erba un fascio: anarchico appunto. Il caso di cui ci occupiamo è di solare evidenza. Si è applicata la norma del 41 bis assolutamente a sproposito. Come è possibile confondere i reati commessi da Cospito e la sua attuale pericolosità con quelli degli stragisti mafiosi (e peggio di quelli dei terroristi anni di piombo) e l’azione che questi erano in grado di compiere, dirigendo dal carcere le loro organizzazioni? Ma che cosa può dirigere dal carcere Cospito? Ha letto una riga della storia dell’anarchia la destra che ci governa? Potremmo dire che la causa fondamentale della sua stessa sostanziale scomparsa dalla politica mondiale nel corso del secolo passato è stata proprio l’assenza di ogni struttura organizzativa in qualche modo centralistica. E figurarsi oggi, due secoli quasi dopo Bakunin! È la differenza fondamentale con socialismo e soprattutto comunismo, sempre in polemica radicale con l’anarchismo anche su questo. Soltanto un folle paranoico potrebbe oggi ritenere che l’anarchia possa costituire un pericolo per la sicurezza dello Stato. Lo costituivano certo le organizzazioni terroristiche degli anni di piombo, e ancora più forse i mafiosi stragisti trent’anni fa. Lo costituiva la P2, dei cui rappresentanti nessuno, tra gli arrestati e quelli giudicati colpevoli, ha subito un carcere men che soft. Ed ecco che i signori di questo Governo scimmiottano tra l’indecente e il patetico i toni che si usarono allora, quasi si trovassero a dover affrontare le tremende scelte che si imposero negli anni di piombo e ancora con i Falcone e i Borsellino, tra cui appunto quella riguardante il regime carcerario del 41 bis: fermezza dello Stato, nessuna trattativa, nessun cedimento. Cospito come BR; Cospito come Riina. Cervello all’ammasso. Giudicare e punire è un tremendo mestiere. Guai a non esercitarlo sulla base di alcuni irrinunciabili principi. Il primo è che la pena sia sempre proporzionata alla gravità del reato, e che i margini di arbitrarietà siano ridottissimi e chiaramente circoscritti. Il secondo è che sempre alla pena più grave, il carcere, si ricorra come extrema ratio, non come “prima scelta”. La terza è che mai la pena assuma la faccia orrenda della tortura. Il che significa che la pena non può mai ledere la dignità della persona. Questo deve valere anche per le norme più dure; esse non solo andranno adottate spiegando nel modo più trasparente e razionale la loro necessità, ma in forme che consentano a chi le subisce di svolgere quelle funzioni che sono proprie dell’animale dotate di logos che siamo, tra cui parlare, leggere, scrivere, muoversi. Non si tratta di essere più o meno buoni, ma di seguire e obbedire la logica del nostro stesso ordinamento; esso proclama solennemente, infatti, che la pena debba essere finalizzata a rieducare e reinserire in quella società di cui avrebbe infranto l’ordine chi è stato giudicato colpevole. Dobbiamo arrenderci al fatto che questo principio rimanga uno spettrale dover-essere? Certo, è così, se infliggiamo pene come quella che sta colpendo Cospito. E allora, cancelliamolo definitivamente quel principio, denunciamone l’assoluta ipocrisia. E confessiamo finalmente che le nostre pene sono soltanto ipocrite eredi del dente per dente e occhio per occhio. Non si torna indietro - dichiarano i nostri eroici difensori dell’Ordine erigendosi contro le barbare orde dell’anarchia. Neppure dall’applicazione di una norma? Non si parla qui di revocare la norma stessa, ma questa sua particolare applicazione. Eppure occorrerebbe, sempre se si volesse o potesse ancora ragionare, riflettere sulla natura stessa della pena. È forse concepibile una pena che non puzzi di inferno se essa si separa assolutamente dalla possibilità stessa del perdono? O, in termini forse più semplici per i forti e duri che nulla dimenticano e nulla perdonano: è possibile una pena coerente ai principi della nostra civiltà che non preveda assolutamente la possibilità della “misericordia”? non è prevista in ogni diritto penale la “grazia”? e questa eventualità non si regge appunto sull’idea che la pena non deve in alcun modo essere applicata sine misericordia? Appello ai naviganti: evitiamo al nostro Paese, che attraversa la crisi più grave dall’epoca appunto del 41 bis e di Tangentopoli, evitiamogli il trauma di una morte per fame all’interno di un sistema carcerario che da anni è all’”attenzione” di tutta Europa per le sue condizioni di degrado e invano attende riforme, nuovi impianti, più personale. Ben altre occasioni si presenteranno presto ai nostri governanti per mostrare i muscoli e tirare dritto. Caso Cospito. Una riflessione sul 41 bis e le sue applicazioni di Michele Marchesiello micromega.net, 3 febbraio 2023 Esiste o meno nei confronti dell’anarchico Cospito, e dell’organizzazione criminale di riferimento (movimento anarchico) quella situazione di pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico che costituisce il presupposto per la sua sottoposizione al “carcere duro”? È riconosciuto da tutti i ‘tecnici’ che la disciplina in questione trae origine - storicamente - dalla specifica realtà mafiosa e dalla constatazione che molti detenuti per mafia continuavano ad ‘interagire’ con l’organizzazione esterna, approfittando della condizione relativamente ‘libera’ della carcerazione ordinaria quanto alla possibilità di comunicare con l’esterno e riceverne messaggi. Nessuno - che consideri la cosa senza pregiudizi - critica poi il fatto che quel regime sia stato esteso ad altre realtà criminali particolarmente gravi e allarmanti, di natura terroristica o eversiva. Ciò su cui si deve o si dovrebbe essere d’accordo è che le misure all’art. 41 bis non sono in nessun modo dirette ad aggravare la pena, o “punire” ulteriormente il detenuto, ma - piuttosto - a impedirgli la possibilità di comunicare con un “esterno” del tutto peculiare: vale a dire con una organizzazione criminale ancora efficiente e operativa, tale da mettere concretamente a repentaglio la sicurezza e l’ordine pubblici, oltre che l’efficacia della misura detentiva. Di conseguenza, il regime dell’art. 41 bis non è - di per sé - una caratteristica connessa necessariamente e automaticamente al fatto di avere subito la condanna per un certo tipo di reato: è, piuttosto, uno strumento “tecnico” da adottarsi nei confronti di specifiche situazioni, ben individuate, sula base di una serie di valutazioni che il Ministro della Giustizia deve fare con decreto motivato e sentite le autorità giudiziarie interessate. Ha durata fissata nel tempo (quattro anni) e può essere rinnovato di due anni in due anni nel perdurare della situazione che l’ha giustificato. Il regime ha caratteristiche ben precise e - per quanto possibile - limitate nell’afflittività. Chi ne è colpito può proporre reclamo al tribunale di sorveglianza e - di seguito - ricorrere in Cassazione. Possono visitarlo, oltre ai parlamentari e ai consiglieri regionali, i garanti dei detenuti nazionale, regionali, comunali e metropolitani. Non vi è dubbio che l’applicazione del regime più ‘duro’, anche se giustificato e coperto dalle necessarie garanzie, sostanziali e procedurali, incida in modo significativo sulla condizione carceraria di chi vi è sottoposto e sui suoi diritti fondamentali. E, tuttavia, ciò non implica necessariamente un profilo di incostituzionalità, posto che sia intervenuto - da parte del legislatore - il necessario lavoro di bilanciamento tra i diversi ‘interessi’ che la Costituzione protegge ed esprime. Questo ‘lavoro’ deve tradursi in un rapporto di proporzionalità. Nel caso in esame, il bilanciamento va effettuato tra il valore costituzionale dell’ordine e della sicurezza pubblici, e quello - egualmente protetto - della dignità della persona umana, che anche l’esperienza carceraria deve proteggere e addirittura rafforzare (la funzione “rieducativa”). In questo senso, a me pare non vi siano particolari profili di illegittimità costituzionale, né che - così come è congegnato - il meccanismo del 41 bis implichi significative e non necessarie limitazioni sul piano dei diritti della persona. Si deve piuttosto pensare a dei correttivi che ‘individualizzino’ la misura, sia per quanto riguarda i suoi presupposti, che la durata (quattro anni sembrano troppi), che la possibilità di chiederne in ogni momento la revoca essendone venuti meno i presupposti. Il problema è a questo punto - come dicono i giuristi - di merito. Esiste o meno nei confronti dell’anarchico Cospito, e dell’organizzazione criminale di riferimento (movimento anarchico) quella situazione di pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico che costituisce il presupposto per la sua sottoposizione al “carcere duro”? Non basta, evidentemente, la considerazione della gravità dei reati per cui Cospito è stato condannato all’ergastolo. Per quello è sufficiente l’entità della pena inflittagli: “fine pena mai” (o quasi). Nulla da dire - invece - sulla più che ovvia doverosità degli interventi di carattere sanitario, volti a salvaguardare il bene della vita di chi, pur mettendola a rischio, mostra di tenervi. A questo punto, mi siano consentite due rapide e conclusive considerazioni. Il modello - o format - del 41 bis è forse troppo rigido quando se ne considera la natura puramente “strumentale”. Prima di adottarlo in tutta la sua potenzialità afflittiva occorrerebbe valutare una serie di elementi, soggettivi e oggettivi, idonei a graduarne gli effetti in relazione al caso concreto. Dal punto di vista soggettivo, dovrebbe darsi il giusto rilievo alla personalità dell’imputato, alla sua condotta carceraria, alle eventuali iniziative risarcitorie nei confronti delle vittime. Oggettivamente, poi, occorrerebbe valutare la natura, l’estensione, la concreta pericolosità dell’organizzazione esterna di riferimento. Davvero pensiamo che il pericolo anarchico sia pari a quello provocato dalla mafia? Molti di noi professano simpatia per gli anarchici in genere, mentre non è concepibile un atteggiamento analogo nei confronti di mafia, ‘ndrangheta e organizzazioni similari. L’applicazione automatica e impersonale del regime del carcere duro da parte dello Stato, infine, non può che portare a un irrigidimento delle posizioni, come la sventurata vicenda di Aldo Moro non ha insegnato abbastanza. Così come Cospito sbaglia nell’agganciare la sua protesta alla pretesa di un integrale abolizione del 41 bis, così lo Stato non dovrebbe cedere alla tentazione “pavolviana” di mostrarsi a sua volta irriducibile sul punto. Col risultato - che si vede già nel caso Cospito - di provocare assurdi e micidiali cortocircuiti o improvvide alleanze tra organizzazioni di ben diverso profilo, quali l’Anarchia e la mafia. Gherardo Colombo spiega perché - oltre e meglio di Cospito e Riina - lui è contro il 41 bis di Nicola Mirenzi huffingtonpost.it, 3 febbraio 2023 “Dico le stesse cose di Cospito e Riina sul 41 bis? Non saprei. Cosa dicono Cospito e Riina?”. Gasparri lo accusa di avere le stesse posizioni dell’anarchico e del boss. “Non credo loro pongano rilievi costituzionali. Io sì. E il 41 bis non è costituzionale. Lo Stato non si preoccupi di trattare con chi lo minaccia, ma di come tratta i carcerati”. Chiamiamo Gherardo Colombo - per trent’anni magistrato, oggi scrittore e animatore della discussione pubblica sulla giustizia (il suo ultimo libro è “Anti Costituzione. Come abbiamo riscritto in peggio i principi della nostra società”) - dopo aver letto un’intervista del senatore Maurizio Gasparri sul Corriere della Sera che, nella polemica intorno alla sorte dell’anarchico Alfredo Cospito recluso al carcere duro, lo cita come riferimento di una preoccupante deriva della sinistra. Dice Gasparri: “C’è una persona perbene come Gherardo Colombo che si esprime contro il 41 bis, dicendo la stessa cosa che hanno detto Cospito e Totò Riina”. Risponde Colmbo: “Se trova le dichiarazioni di Cospito e Totò Riina sul 41 bis mi richiami e le dirò se sono le stesse cose che dico io”. Il pensiero di Alfredo Cospito sul 41 bis è facile da individuare, l’ha scritto in uno dei suoi interventi sulle riviste anarchiche. Per se stesso, lo considera una “mordacchia medievale con cui si è deciso di tapparmi la bocca”. Per gli altri, è una “violazione dei diritti umani”. Quanto a Totò Riina è più difficile, perché Riina non scriveva sui “giornali d’area” e non è detto che avesse una considerazione giuridica da avanzare nei confronti della norma. Tuttavia, durante un’ora d’aria con Alberto Lorusso, registrato, lo si sente affermare che “una sorveglianza deve pigliare massimo tre, quattro anni”, poi il detenuto - si deduce - dovrebbe uscire dall’isolamento. Il 41 bis “è una condanna, nel codice penale italiano, che non si può ingoiare mai nessuno”. Ragion per cui Riina conclude: “Se io verrò fra altri mille anni, io ci vegnu a fare guerra pe’ ‘sta leggi”, gli vengo a fare la guerra per questa legge. Rieccomi Colombo, questo è quel che dicono Cospito e Riina... Direi che Totò Riina non pone una questione di compatibilità del 41 bis al dettato costituzionale, come faccio io. È più d’accordo con Cospito sul 41 bis? Le sue parole sono diverse da quelle di Riina, perché pongono anche una questione di diritti umani. Dal suo punto di vista fondata? Faccio una premessa: è compito delle istituzioni impedire che dal carcere si possa continuare ad essere attivi nelle associazioni, nei gruppi con i quali si commettevano reati da liberi. Però credo che in parecchi non abbiano bene in mente cosa sia precisamente il 41 bis: un regime carcerario nel quale il detenuto è quasi sempre solo, costantemente videosorvegliato, con due ore d’aria al giorno da trascorrere con un gruppo di massimo quattro persone, e il diritto di ricevere una sola visita al mese, attraverso un vetro divisorio. Viola i diritti umani? Credo proprio che violi la Costituzione, secondo la quale “la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, senza escludere alcuno: per l’articolo 13 “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà” per l’articolo 27 “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Però nel nostro ordinamento è stato accolto... È stato introdotto nel nostro ordinamento una trentina di anni fa, quando su alcuni temi la sensibilità verso la Costituzione era minore. Recentemente la Corte Costituzionale è intervenuta sull’articolo, dichiarandone illegittima la parte che vietava a chi vi era sottoposto di cucinare. Il problema secondo me non riguarda soltanto i limiti previsti dall’articolo, ma anche la circostanza che consenta di aggiungere altre afflittività gratuite nella pratica applicazione Perché? Perché è davvero difficile comprendere perché si vieti a un detenuto al 41 bis di affiggere più di una foto in cella, dove non entra nessuno all’infuori del personale del carcere, se quel regime è stato pensato per tagliare i legami tra il recluso e l’organizzazione che è fuori; oppure non avere con sé più che pochi libri. È chiara la natura punitiva. Si vuole far male a chi ha fatto male. Nel caso di Cospito, il 41 bis è anche sproporzionato rispetto alla sua pericolosità? Dovrei avere una conoscenza approfondita degli elementi che hanno condotto alla richiesta del 41 bis per rispondere adeguatamente a questa domanda. Però un paradosso è evidente. Quale? Cospito è stato rinchiuso al 41 bis per impedirgli di comunicare con contatti esterni ma, nei fatti, le sue posizioni non hanno mai avuto una diffusione così vasta e capillare come ora che sono pubblicate su tutti i giornali. E mentre in precedenza un anarchico avrebbe dovuto sforzarsi di trovare le pubblicazioni in cui Cospito si esprimeva, oggi gli è sufficiente ascoltare il telegiornale. Come avrebbero potuto impedirgli di comunicare altrimenti? Se l’obiettivo era vietargli di incitare o comunque agevolare la violenza dei suoi compagni - cosa che lo stato deve certamente impedire, su questo Cospito deve convenire - sarebbe potuta bastare una censura e un controllo della corrispondenza, oltre ai controlli su eventuali colloqui, misure certamente meno afflittive del 41 bis, ma che avrebbero ottenuto il risultato. Il governo ha detto che lo Stato non può trattare con gli anarchici che lo minacciano... Ho l’impressione che la questione sia un’altra: cioè, come lo Stato deve trattare l’anarchico che ha nelle sue mani. Lei è contro la fermezza? Più semplicemente mi interrogo su quali possono essere gli effetti della linea dura. E vedo due conseguenze, entrambe deprecabili. La prima che Cospito muoia; la seconda che Cospito sia trasformato in un martire in nome del quale chiamare alla vendetta. Cosa che potrebbe aprire la strada proprio a ciò che si intendeva scongiurare: ossia, la violenza. Divieti e vessazioni gratuite: cosa c’è di illegittimo nel 41 bis di Salvatore Curreri Il Riformista, 3 febbraio 2023 Nella sentenza 349 del 1993, la Consulta ricorda che Costituzione punisce “ogni violenza fisica e morale” sui detenuti. Un regime carcerario speciale può essere ammesso: non così certe inutili crudeltà. Era prevedibile, ma non per questo inevitabile, che il dibattito sul c.d. carcere duro finisse vittima delle strumentalizzazioni politiche, radicalizzandosi tra favorevoli e contrari tout court, smarrendo così quel necessario equilibrio con cui invece si devono affrontare questioni così delicate che richiedono un costante quanto difficile bilanciamento tra interessi costituzionali di pari rango: la tutela dei diritti fondamentali del detenuto da un lato e, dall’altro, la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica. Non pare quindi inutile ritornare alla Costituzione che non è solo la fonte suprema cui il nostro ordinamento giuridico deve conformarsi ma traccia anche le coordinate entro cui il tema va affrontato e risolto. Sotto questo profilo, è ovvio che il detenuto, in quanto tale, vede i propri diritti limitati dalla condizione carceraria in cui è ristretto. Ma il detenuto è pur sempre una persona che vive in un luogo - il carcere - in cui comunque svolge e sviluppa la propria personalità (art. 2 Cost.). Per questo “la sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (Corte cost. 349/1993). Per questo motivo la Costituzione - scritta, è bene ricordare, da chi il carcere lo conosceva bene perché c’era stato - punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art. 13.4). Inoltre “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27.3). Il che significa che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti” (articoli 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fonti entrambe oggi cui le leggi ordinarie devono conformarsi). Disposizione che solo dopo ben trent’anni e numerose condanne da parte della Corte di Strasburgo, specie dopo i pestaggi di Bolzaneto del 2001, ha trovato attuazione con l’introduzione del reato di tortura (l. 110/2017). In tale contesto si pone il problema del regime di detenzione differenziato (c.d. carcere duro ex art. 41-bis l. 354/1975), introdotto nel 1986 in funzione di antiterrorismo, esteso nel 1992 ai condannati per mafia, dopo le stragi in Sicilia di Capaci e via D’Amelio e successivamente oggetto di plurime modifiche. Tale regime può essere disposto dal Ministro della giustizia, anche su proposta di quello dell’interno, sentita l’autorità giudiziaria, “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” nei confronti di detenuti, anche in attesa di giudizio, che si ritiene abbiano o hanno commesso specifici e gravi delitti per impedire loro ogni contatto con le organizzazioni malavitose d’appartenenza. Esso prevede per almeno quattro anni (prorogabili ogni due anni sine die) sensibili restrizioni (v. circolare d.a.p. n. 3676/6126 del 2.10.2017): rigoroso isolamento dagli altri detenuti (due ore di “socialità” con massimo altri quattro detenuti); sorveglianza più stretta; un solo colloquio al mese con familiari e conviventi - eccetto con i difensori a tutela del suo diritto di difesa in giudizio - soggetto a controllo e registrazione e svolto in appositi locali che impediscano il contatto fisico ed il passaggio di oggetti; controllo del tempo trascorso fuori dalla cella; divieto di ricevere e spedire libri e riviste dall’esterno; visto di censura sulla corrispondenza. Più volte nel tempo la Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare della costituzionalità di tale speciale regime carcerario perché ritenuto disumano e degradante. Essa però ha sempre respinto tali obiezioni in ragione della particolare pericolosità di tali detenuti e delle prevalenti legittime esigenze di prevenzione del crimine e di sicurezza pubblica. Lo stesso dicasi per la Corte europea dei diritti dell’uomo in casi specificamente riguardanti l’Italia proprio in ragione della specifica situazione criminale del nostro Paese (2.1.2010, Mole; 19.1.2010 Montani). Piuttosto i giudici sono intervenuti a garanzia di specifici diritti del detenuto, a partire da quello di poter sempre ricorrere al giudice contro simili misure (Corte EDU Grande Camera 17.9.2009 Enea c. Italia), così da permettergli di controllare l’effettiva sussistenza dei presupposti e le concrete modalità di applicazione di tale regime carcerario. Non a caso, il nostro paese è stato condannato nel 2018 dalla Corte europea per l’applicazione del 41-bis a Bernardo Provenzano nonostante fosse stato accertato il deterioramento delle sue capacità cognitive. Così la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali, ritenendoli contrari al senso di umanità della pena, il divieto di cuocere cibi in cella - che anzi costituisce “una modalità umile e dignitosa per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni, nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine” (C. cost. 186/2018) - nonché quello di scambiare oggetti purché non segnalino, anche per il valore, la supremazia del detenuto sugli altri (C. cost. 97/2020; Cass. 7939/2022). In quest’ottica costituzionalmente ispirata si è posta la I sezione penale della Cassazione secondo cui i detenuti soggetti al 41-bis: non possono vedersi ridurre le poche ore d’aria (17579/2019); possono salutarsi tra loro (35216/2020); ricevere quotidiani purché non riportino notizie d’interesse criminale (21803/2020; 21942-3/2020); sottoporsi a fisioterapia (52526/2018); effettuare videochiamate ai propri familiari (23819/2020); consegnare personalmente doni ai figli minori di dodici anni (46432/2021). Non è quindi in discussione la costituzionalità in sé del c.d. carcere duro, né tantomeno la sua efficacia o utilità, quanto piuttosto le sue specifiche modalità attuative quando inutilmente vessatorie e dunque lesive della dignità del detenuto. Esso dunque va limitato a quei casi per cui risulta effettivamente motivato ed indispensabile e scremato da tutti quei divieti che, anche in considerazione delle condizioni del detenuto e del tempo trascorso, paiono frutto di una concezione vendicativa e non rieducativa della pena. Ricordandosi sempre che lo Stato, come tale, non può mai per ritorsione scendere al livello dei suoi nemici, dai quali può e deve difendersi, con una mano utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione ma con l’altra “legata dietro la schiena”, nel più rigoroso rispetto della legalità costituzionale, senza abusare del proprio potere. Le conseguenze del “partito della fermezza” sul 41-bis della sinistra di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 febbraio 2023 “Il Pd non lo ha mai messo in discussione” dice anche oggi Serracchiani sul regime carcerario a cui è sottoposto Cospito. E la memoria va a Provenzano. La dannosa logica emergenziale (e prona all’antimafia chiodata) del Pds-Pd. Varata nel 1986 da un politico di sinistra e garantista come Mario Gozzini, la legge che intendeva essere migliorativa dell’ordinamento penitenziario conteneva anche la breve modifica “bis” all’art. 41, che introduceva la “facoltà di sospendere le normali regole di trattamento” in casi di emergenza. Dopo le stragi del 1992 il decreto “Martelli-Scotti” estese il 41-bis e nel 2002 diventò definitivo ed esteso al terrorismo. Ma già in quegli anni le (sempre rare) voci garantiste criticavano la scelta: le emergenze non erano più tali e la norma a rischio costituzionale. C’è stato però un “partito della fermezza” che ha impedito non solo di rimuovere il 41-bis ma persino di aprire il dibattito: per anni è bastata l’accusa “se sei contro sei amico dei mafiosi” per chiudere le bocche. Si iniziò con il processo a Corrado Carnevale, accusato di “esasperata ricerca dell’errore”, cioè della verifica dei fatti, e quindi amico dei mafiosi. Andreotti si difese dalle accuse di aver “coltivato amichevoli relazioni” coi boss, ricordando che le dure leggi antimafia erano del suo governo. Le stragi del 1993 servivano per far pressione sul carcere duro: non ottennero nulla, ma il farlocco processo sulla Trattativa è stato imbastito sulla balla che ci fosse un complotto per togliere il 41-bis. Persino sulla cattura di Messina Denaro è stata adombrata una “nuova trattativa”. È sempre esistito un “partito della fermezza”, segnatamente il Pds ed eredi, che non ha mai voluto discutere della revisione del 41-bis, prono alle antimafie chiodate. Ancora oggi: “Il Pd non ha mai messo in discussione il 41-bis”, ha detto Serracchiani. Così ora la (auto) giustificazione che con Cospito si tratti di questione umanitaria è tardiva e tartufesca - l’ex Guardasigilli Orlando si ricordi di come fu “umano” con Provenzano. Anche a non calcare la mano sull’annotazione di Goffredo Buccini, che ieri ricordava come la sinistra abbia su Cospito un atteggiamento che ricorda la famosa “fotografia di famiglia”, bisogna dire che se oggi Cospito è al 41-bis è anche colpa del “partito della fermezza” di sinistra. Cospito resti al 41 bis: il parere del procuratore Saluzzo al ministro Nordio di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 3 febbraio 2023 Il procuratore generale di Torino avrebbe espresso il suo parere al ministro della Giustizia Nordio. Cospito è in sciopero della fame da oltre 100 giorni; il suo avvocato ha detto che è pronto ad andare avanti anche di fronte a “conseguenze irreversibili”. Alfredo Cospito deve rimanere al 41-bis. Sarebbe questo il parere espresso dal procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo al ministro della Giustizia Carlo Nordio. È quanto filtra al termine dell’ennesima giornata segnata dalle polemiche e dallo scontro politico sulla posizione dell’anarco insurrezionalista che è in sciopero della fame da oltre 100 giorni. Aperta invece la possibilità lasciata dal parere della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo arrivato al ministro della Giustizia Carlo Nordio. La Dna conferma che fu fondata la decisione del 5 maggio del 2022 di applicargli il carcere duro, ma lascia alla valutazione dell’autorità politica la decisione: può restare al 41 bis oppure tornare al regime di alta sicurezza, con tutte però le dovute cautele. La Corte di Cassazione, a sua volta, ha anticipato al prossimo 24 febbraio l’udienza in cui discutere il ricorso di Cospito. Si tratta di una ulteriore accelerazione: la data originaria, del 20 aprile, era già stata anticipata al 7 marzo per l’aggravarsi delle condizioni di salute dell’anarchico. Lavori in corso, inoltre, per la definizione del Giurì d’onore che dovrà esaminare il “caso” Donzelli. Il Pd ha chiesto l’applicazione dell’articolo 58 del regolamento della Camera sentendosi “accusato” dal deputato di FdI di fatti “che ledono la sua onorabilità” e ora spetta al presidente Lorenzo Fontana il compito di nominare una Commissione che giudichi la fondatezza “dell’accusa”. Sulla base dei precedenti c’è chi ipotizza un format a 3 o a 5 componenti. La prassi vuole che la presidenza della commissione non vada né alla parte “offendente” né a quella offesa. Né FdI né Pd, quindi, avranno l’incarico. Il presidente andrà trovato quindi tra gli altri vicepresidenti della Camera e - seguendo il ragionamento - sarà o l’azzurro Giorgio Mulè (che però dirigeva i lavori durante i fatti ed è stato parte in causa) o, più probabilmente il deputato M5S Sergio Costa. La composizione della commissione deve in ogni caso rispettare gli equilibri tra maggioranza e opposizione e avere un limite di tempo stabilito allo scadere del quale dovrà terminare i suoi lavori. Nelle relazioni di servizio sulle sue conversazioni in carcere con boss della criminalità organizzata, Cospito parlava proprio della eliminazione del 41 bis e veniva incoraggiato ad andare avanti. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ieri ha parlato al Parlamento sul caso dell’anarchico, e ha spiegato di essere in attesa dei pareri necessari per decidere se Cospito debba rimanere al 41-bis, anche dopo essere stato trasferito da Sassari a Opera per ragioni di salute. Il difensore di Cospito, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, ha detto - dopo averlo incontrato - che “Alfredo è sempre più magro, ha perso 45 chili. La situazione si sta estremamente complicando e si sta andando oltre la soglia critica. È assolutamente determinato ad andare avanti ma è consapevole che ciò porterà a delle conseguenze irreparabili”. Uno stato di salute, continua Rossi Albertini, “estremamente critico”: “Attendiamo le determinazioni ma qualcuno faccia sapere in tempi rapidi ad Alfredo Cospito se il provvedimento verrà revocato. Non c’è più tempo”. L’avvocato ha anche detto che sarebbe accaduto un “fatto molto singolare: Alfredo Cospito aveva predisposto uno scritto da inviare alle autorità che possono riceverli per vigilare contro la tortura, contro i trattamenti inumani e degradanti. Questo foglio contenuto in un block notes gli è stato sottratto, trattenuto, sequestrato da parte del nuovo istituto di Opera. Gli hanno, inoltre, sottratto i libri che provenivano dal carcere di Bancali e quindi non ha più niente da leggere e tanto meno da scrivere”. Il legale ha anche fornito ulteriori dettagli sulle condizioni in cui versa Cospito: “È in un gruppo di socialità composto da tre persone con grandi problemi di salute e quindi è sostanzialmente da solo, 24 ore su 24 relegato all’interno della cella”. Sabato, fa sapere inoltre il difensore, gli è stato notificato il rigetto della richiesta di differimento pena da parte del magistrato di Sassari, dove Cospito era detenuto prima di essere trasferito a Opera. Poche ore dopo le dichiarazioni dell’avvocato dell’anarchico la premier Giorgia Meloni risponde ad una domanda sull’argomento durante la trasmissione “Dritto e rovescio” su Rete4: “Una cosa interessante che non si è notata - ha commentato Meloni - Cospito nel 1991, già in carcere, decise di fare lo sciopero della fame, e venne graziato. Lo Stato lo ha graziato ed è andato a sparare a della gente. Non stiamo parlando di una vittima, per come la vedo io. È possibile che oggi ritenga che tornando a fare lo sciopero della fame, potrebbe”. L’antimafia apre alla revoca del 41bis per Cospito: “Ma decida la politica” di Simona Musco Il Dubbio, 3 febbraio 2023 Per il procuratore Melillo può andare in “alta sicurezza”. Ma il pg di Torino: resti al carcere duro. “Alfredo Cospito può restare al 41 bis oppure tornare al regime di alta sicurezza, con tutte le dovute cautele”. La Direzione nazionale antimafia restituisce la palla al ministro della Giustizia Carlo Nordio, lasciando aperto uno spiraglio sulla possibilità di revocare il carcere duro all’anarchico, in sciopero della fame da oltre 100 giorni. Un’apertura, quella del procuratore Giovanni Melillo, che parte dal presupposto della correttezza della decisione presa a maggio 2022 dall’allora Guardasigilli Marta Cartabia - a seguito di emergenze istruttorie dalle quali risultava al vertice di un’associazione con finalità di terrorismo e in grado di collegarsi con l’esterno - e superata, secondo l’avvocato Flavio Rossi Albertini, dalla sentenza con la quale la Corte d’Assise di Roma ha recentemente assolto alcuni imputati anarchici dal reato di associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, rispetto ai quali, secondo l’accusa, Cospito avrebbe avuto un ruolo centrale, fornendo dal carcere direttive a quelli che erano considerati suoi consociati. Il parere di Melillo si scontra con quello del procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, che in un documento lungo 17 pagine ha invece ribadito la necessità di tenere Cospito al 41 bis. Una necessità resa attuale anche dai dialoghi in carcere tra l’anarchico e tre boss di camorra, mafia e ‘ndrangheta - resi noti dal vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli (FdI) a Montecitorio - sulla necessità di eliminare il 41 bis, senso ultimo della battaglia dello stesso Cospito, esortato dai tre ad andare fino in fondo, perché “pezzettino dopo pezzettino si arriverà al risultato”. Insomma, la partita è aperta e Nordio sarà costretto a sbilanciarsi - e, dunque, a schierare il governo -, dopo aver chiarito mercoledì di voler decidere solo sulla base delle osservazioni della magistratura: “Il ministro della Giustizia, in questo momento - ha infatti detto in Senato -, non è in grado e non ha alcuna intenzione di esprimere una decisione, se prima non ha studiato profondamente i pareri che arrivano da queste autorevolissime magistrature”. E poi ha chiarito la posizione dell’Esecutivo sul carcere duro: “La determinazione del Governo - ha sottolineato - è in generale di mantenerlo e di non modificare minimamente la normativa che lo riguarda. Lo dico per chiarezza assoluta: il 41bis non si tocca”. Un concetto che fa il paio con la scelta di non cedere di fronte alle proteste, anche estreme come quella dell’anarchico: “Se accedessimo al principio che lo stato di salute precario, anche determinato da chi lo subisce, dovesse essere una fonte di decisione di modifica del 41bis, un domani ci troveremmo davanti a tutta una serie di scioperi della fame di centinaia di mafiosi reclusi per i quali non potremmo tenere un comportamento diverso”. Il tempo a disposizione del ministro scadrà il prossimo 13 febbraio, a un mese esatto dall’istanza avanzata dall’avvocato Rossi Albertini a via Arenula. Ma la partita è aperta anche in Cassazione, dove è stata ulteriormente anticipata - dal 7 marzo al 24 febbraio - l’udienza in cui discutere il ricorso di Cospito contro il carcere duro. “Alfredo è sempre più magro, ha perso 45 chili - ha reso noto il legale dopo averlo incontrato -. La situazione si sta estremamente complicando e si sta andando oltre la soglia critica. È assolutamente determinato ad andare avanti ma è consapevole che ciò porterà a delle conseguenze irreparabili”. Cospito continua a non prendere gli integratori, scelta che potrebbe complicare ulteriormente il suo quadro di salute. Durante la visita l’anarchico ha riferito al suo avvocato anche un “fatto molto singolare: Alfredo Cospito aveva predisposto uno scritto da inviare alle autorità che possono riceverli per vigilare contro la tortura, contro i trattamenti inumani e degradanti. Questo foglio, contenuto in un block notes, gli è stato sottratto, trattenuto, sequestrato da parte del nuovo istituto di Opera. Gli hanno, inoltre, sottratto i libri che provenivano dal carcere di Bancali e quindi non ha più niente da leggere e tanto meno da scrivere”. L’anarchico si trova “in un gruppo di socialità composto da tre persone con grandi problemi di salute e quindi è sostanzialmente da solo, 24 ore su 24 relegato all’interno della cella”. Sabato, inoltre, gli è stato notificato il rigetto della richiesta di differimento pena da parte del magistrato di Sassari, dove era detenuto prima di essere trasferito a Opera. L’escalation di violenze, intanto, infiamma ancora il dibattito parlamentare, dopo la chiamata anonima arrivata martedì 31 gennaio alla portineria de Il Resto del Carlino di Bologna. “A Bologna ci sarà un grave attentato, in relazione ai fatti di Cospito”, ha detto una voce anonima. E mercoledì nella redazione dello stesso giornale è anche arrivata anche una lettera contro la premier Giorgia Meloni e il ministro della Difesa Guido Crosetto, nel mirino per la politica del Governo sull’Ucraina. “In caso di persistenza, saremo costretti a prendere dei seri provvedimenti”, si legge nella missiva. Meloni dice no: “Cospito fu già graziato nel 1991. Poi sparò” di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 febbraio 2023 La premier precede Nordio. Il Pg di Torino chiude. Dall’Antimafia mezzo sì all’alta sicurezza. La Cassazione anticipa l’udienza sul 41 bis. Il legale: “È un momento tragico, agite ora”. La corte di Cassazione ha ulteriormente anticipato al 24 febbraio (dal 7 marzo) l’udienza per decidere sul ricorso contro il 41 bis, cui è sottoposto l’anarchico Alfredo Cospito dal 4 maggio scorso, presentato dal suo avvocato contro il rifiuto opposto dal Tribunale di Sorveglianza di Roma. Una data però ancora non compatibile con le cattive condizioni di salute del detenuto che è in sciopero della fame dal 20 ottobre: “Non c’è più tempo”, spiega il suo legale. Eppure anche la via politica non sembra affatto facilmente percorribile. Anzi, per la premier Meloni è fuori discussione, come ha detto ieri sera a Dritto e rovescio, su Rete 4, intervistata da Paolo del Debbio: “Nel ‘91, mi sembra - ricostruisce Meloni - Cospito era già in carcere e decise di fare lo sciopero della fame e venne graziato. Lo Stato lo ha graziato e lui è uscito ed è andato a sparare. Non stiamo parlando di una vittima. Dopodiché ora gli anarchici di vario genere in tutta Europa cominciano a minacciare persone che lavorano per lo Stato italiano”, e “leggo la dichiarazione di Valitutti che dice: faremo giustizia se muore, colpiremo con le armi chi indicheremo come responsabile diretto o indiretto della sua morte. Mi aspettavo che i giornali prendessero le distanze, mi ha molto colpito quel silenzio. Se stabilisco il principio che tolgo il 41bis a chi fa lo sciopero della fame, quante ne avremo di mafiosi che lo fanno? O perché saltano le macchine? Credo che lo Stato non tratta con la mafia, e neanche con il terrorismo”. Dalla stessa parte del muro c’è il ministro Nordio, che pure qualcuno racconta come fosse ben disposto nei confronti di Cospito prima delle proteste anarchiche, e che non ha ancora comunicato la propria decisione sull’istanza di revoca del 41 bis depositata dall’avvocato Flavio Rossi Albertini sulla base di nuove evidenze processuali. Sembra però che il parere della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo arrivato già da qualche giorno nelle mani del Guardasigilli lascerebbe aperta la possibilità di trasferire il detenuto all’Alta sicurezza, circuito separato dagli altri e dunque più controllato ma che “non implica una differenza nel regime penitenziario (come nel caso del 41 bis) in relazione ai diritti e ai doveri dei detenuti ed alla possibilità di accedere alle opportunità trattamentali”, come spiega l’associazione Antigone. In un documento lungo una decina di pagine e molto articolato, l’antimafia non darebbe infatti un giudizio netto, sia pur sottolineando la “pericolosità” del soggetto, lasciando al ministro la scelta politica: il 41bis o l’Alta sicurezza. Circuito quest’ultimo definito tramite una circolare del Dap, emessa il 21 aprile 2009, e suddiviso in tre livelli a seconda della pericolosità del detenuto. In tutti i livelli la censura della corrispondenza è prevista. E questi basterebbe, nel caso di Cospito. Altro parere recapitato ieri in via Arenula - e ancora non divulgato - è quello della Direzione distrettuale antimafia di Torino, giunto dopo un vertice tra il procuratore capo Anna Maria Loreto, un procuratore aggiunto del pool antiterrorismo e un magistrato della Dna che si è tenuto il 30 gennaio al Palazzo di Giustizia. Sarebbe invece negativo il lungo parere del Procuratore generale del Piemonte, Francesco Saluzzo. “È un momento tragico - è il grido d’allarme dell’avvocato Flavio Rossi Albertini intervenuto ad un’assemblea pubblica a Milano, dopo un colloquio di oltre tre ore con il suo assistito nel carcere di Opera - se qualcuno vuol fare qualcosa per revocare il 41 bis a Cospito deve farlo ora. È sempre più magro, ha perso 45 chili. La situazione si sta estremamente complicando e si sta andando oltre la soglia critica. È assolutamente determinato ad andare avanti ma è consapevole che ciò porterà a delle conseguenze irreparabili”. La dottoressa Angelica Milia, medico personale di Cospito fino a quando era nel carcere di Sassari, non lo vede da una settimana ma conferma che il detenuto ha anche smesso di assumere integratori, mentre “gli viene ancora somministrato del potassio”. Ma, avverte, “il deficit elettrolitico rischia di bloccare un organo interno da un momento all’altro, cuore o polmoni soprattutto”. Non saranno i magistrati a sciogliere il nodo politico del 41 bis per Cospito di Giovanni Tizian e Nello Trocchia Il Domani, 3 febbraio 2023 La Direzione nazionale antimafia è favorevole a usare regimi carcerari diversi da quello contestato dall’anarchico in sciopero della fame, ma la procura generale di Torino si oppone. Nordio deve decidere. L’anarchico Alfredo Cospito potrebbe finire in alta sicurezza e uscire dal regime del 41 bis, lo spiraglio viene offerto al ministro della Giustizia Carlo Nordio dal parere fornito dalla Direzione nazionale antimafia, guidata da Giovanni Melillo, e dalla procura di Torino che non hanno chiesto, nei pareri espressi, la conferma del carcere duro. Una decisione non scontata, che rimanda al ministero della Giustizia la decisione. Ma Nordio dovrà anche considerare le osservazioni del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, che, invece, chiede la proroga del carcere duro. Valutazioni contrastanti che renderanno ancora più complessa e delicata la decisione di Nordio. Genesi di un pasticcio - Cospito era confinato al 41 bis anche perché divulgava all’esterno i suoi messaggi, “ha continuato a diffondere la sua ideologia violenta e le sue rabbiose istigazioni e colpire”, si legge nel decreto firmato, nel maggio scorso, dall’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Quel decreto ha diviso anche la magistratura. L’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini, ha impugnato il provvedimento prima davanti al tribunale di sorveglianza - che ha respinto la richiesta - e davanti alla Corte di cassazione che si esprimerà il prossimo marzo. Il legale ha presentato anche un’istanza di revoca del carcere duro al ministero che deciderà a breve, dopo aver ricevuto le osservazioni della procura nazionale antimafia che contiene un’apertura al cambio di regime. Ma anche nel massimo organismo di contrasto alle mafie e al terrorismo non è mancato un confronto sulle decisioni assunte. Il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, audito nei giorni scorsi in Senato, ha spiegato: “La procura di Perugia è una delle procure che ha emesso un’ordinanza cautelare nei confronti di Cospito, anzi la nostra ordinanza cautelare è stata valutata proprio come uno degli elementi per applicare il 41 bis perché contestavamo l’ipotesi di istigazione a delinquere fatta quando Cospito era in carcere”. Un gruppo anarchico ha pubblicato la foto del magistrato con la scritta: “Ce ne ricorderemo”. Gli atti dell’indagine dei magistrati umbri sono stati trasmessi a Torino, procura che ha preparato la richiesta di 41 bis, poi firmata dall’allora ministra della Giustizia Cartabia. Nel decreto si legge che i messaggi mandati dal carcere da Cospito “non si limitano al proselitismo, ma rappresentano un’istigazione a riproporre la commissione di delitti con finalità terroristiche”, un chiaro riferimento anche all’inchiesta di Perugia. La prima bocciatura - Il decreto di 41 bis è stato emesso il 5 maggio 2022, ma l’ordinanza della procura di Perugia alla quale si fa riferimento aveva subito una bocciatura da parte del tribunale del riesame umbro il 14 dicembre 2021. “Il tribunale evidenzia che si tratta di espressioni essenzialmente finalizzate a creare un dibattito interno al movimento anarchico, che non individuano degli obiettivi specifici e determinati e che lo stesso autore si mostra consapevole della sostanziale assenza di un humus favorevole a simili proposte. Gli ulteriori capi di imputazione, nell’ottica seguita dal Tribunale, nulla aggiungono alla portata concretamente istigatoria degli scritti”, si legge in una sentenza della Cassazione. La Suprema corte ha accolto il ricorso della procura e chiesto al riesame un nuovo pronunciamento perché la decisione è “carente sotto il profilo del necessario confronto con talune evidenze probatorie”. In pratica il decreto che ha comminato il 41 bis ha usato materiale e ipotesi contenute in una misura cautelare del tribunale di Perugia, bocciata da altri giudici, quelli del riesame umbro. Un dettaglio rilevante che avrebbe potuto suggerire l’adozione di altri strumenti e di altri regimi carceri per fermare la comunicazione con l’esterno di Cospito senza applicare il 41 bis. “Il decreto del 41 bis è ben motivato, si tratta di una misura di prevenzione, ma in linea teorica si potevano adottare altri strumenti per Cospito come il visto di censura, spostare il detenuto in un reparto diverso, disporre la videoregistrazione dei colloqui e la registrazione delle telefonate, il regime più indicato è quello di alta sicurezza (As2)”, dice il magistrato Sebastiano Ardita, per anni a capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le sensibilità diverse sulla questione riguardano anche i pareri forniti dalla direzione nazionale antimafia, quello che ha portato all’irrogazione del 41 bis è stato espresso mentre era in corso il cambio di procuratore. Il nuovo parere, invece, apre alla modifica del regime carcerario. Ma evidenzia una divergenza con la procura generale, che invece insiste sulla linea dura. I parlamentari possono veicolare all’esterno le parole di Cospito di Giulia Merlo Il Domani, 3 febbraio 2023 I parlamentari e i consiglieri regionali possono visitare le carceri e parlare con i detenuti anche al 41bis, alla presenza della Polizia penitenziaria. Poi hanno il diritto di riferirlo. Il presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, ha detto che “la legge, infatti, non può impedire a soggetti liberi che hanno l’autorizzazione a incontrare il detenuto di riferire poi all’esterno ciò che viene detto durante la visita”. La visita e anche il colloquio con lui e con gli altri detenuti al 41bis è avvenuta alla presenza del direttore del carcere, dell’ufficiale della polizia penitenziaria e del responsabile medico, che per legge hanno il compito di interrompere qualsiasi dialogo esuli rispetto ai limiti La voce di Alfredo Cospito, l’anarchico al 41bis in sciopero della fame dal 106 giorni, è arrivata fuori dal carcere milanese di Opera grazie al consigliere regionale di Più Europa/radicali, Michele Usuelli. Usuelli, infatti, ha effettuato una visita nel reparto di degenza, dove ha incontrato Cospito ma anche altri detenuti al 41bis ricoverati nella struttura. All’uscita, ha riferito di aver parlato con lui delle sue condizioni di detenzione ma anche della sua decisione di portare avanti lo sciopero della fame “per un 41 bis più umano, tanto è che ci teneva a specificare che ha paura che gli altri detenuti possano pensare che riceva trattamenti di favore a Opera in quanto detenuto noto” e del fatto che “Cospito ha scelto una lotta non violenta contro il regime di carcere duro”. Inoltre, il consigliere ha detto di avergli chiesto di condannare le azioni violente di questi giorni e che Cospito gli ha detto che “prevalendo il suo essere anarchico, non si sente di dire nulla a chi questi gesti sta compiendo, nemmeno di condannarli”. Il regime di 41bis ha proprio come obiettivo quello di limitare i contatti e il passaggio di informazioni tra l’interno e l’esterno delle carceri, tuttavia Usuelli ha potuto riferire liberamente le riflessioni di Cospito. Come funzionano le visite - La sua visita, infatti, è avvenuta nel rispetto delle sue prerogative di consigliere regionale, che può visitare le carceri della sua regione accompagnato, come in questo caso, dalla sua collaboratrice stabile. “Ho incontrato il direttore del carcere e chiesto di visitare il centro clinico, dove ho parlato con il responsabile medico, di cui sono collega. Poi ho visitato i piani di degenza e nell’ultimo, al terzo piano, ci sono i detenuti malati gravi al 41bis tra cui anche Cospito”, ha spiegato Usuelli, che ha raccontato di averlo trovato in piedi, lucido e vigile e di avergli parlato per mezz’ora attraverso un vetro. La visita e anche il colloquio con lui e con gli altri detenuti al 41bis è avvenuta alla presenza del direttore del carcere, dell’ufficiale della polizia penitenziaria e del responsabile medico, che per legge hanno il compito di interrompere qualsiasi dialogo esuli rispetto ai limiti imposti dalla legge: chi visita questi detenuti, infatti, non può parlare in una lingua diversa dall’italiano, non può fornire informazioni sensibili dall’esterno e non può parlare di ciò che riguarda i processi. “Possiamo parlare della situazione sanitaria e delle condizioni di vita all’interno del carcere. Ma anche, come del resto abbiamo fatto, di valutazioni di carattere generale. Il tutto avviene comunque alla presenza di operatori del carcere ed è registrato”, ha detto Usuelli. I detenuti al 41bis, infatti, possono incontrare un numero molto ristretto di persone e con diversi livelli di controllo. I colloqui riservati in senso tecnico avvengono solo con il garante nazionale dei detenuti, con l’avvocato difensore e con il magistrato di sorveglianza e non sono registrati. I colloqui con i familiari, invece, vengono registrati e controllati. Infine, esistono le visite da parte dei parlamentari e dei consiglieri regionali, che tecnicamente visitano le strutture detentive e in questo ambito possono parlare con i detenuti, alla presenza del personale del carcere e registrati. la divulgazione esterna - Quanto alla divulgazione esterna di quanto un detenuto al 41bis dice alle persone che incontra, non esistono invece limitazioni. “Per tutti gli altri esterni autorizzati, come i consiglieri regionali nelle carceri delle loro regioni e i parlamentari il diritto di visita ex articolo 67 ordinamento penitenziario non impedisce a rivelare il contenuto delle dichiarazioni ricevute che avvengono sempre alla presenza del personale del carcere, che non è oggetto di segreto”, ha spiegato il presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, “la legge, infatti, non può impedire a soggetti liberi che hanno l’autorizzazione a incontrare il detenuto di riferire poi all’esterno ciò che viene detto durante la visita”. Tradotto: la verifica che quel che viene detto dal detenuto sia divulgabile all’esterno viene garantita dalla presenza della polizia penitenziaria durante i colloqui e le visite. Con la specificazione che i parlamentari non entrano nelle carceri per incontrare un singolo detenuto ma per verificare le condizioni degli istituti e, contestualmente, possono parlare con chi sta scontando lì la pena. Caso Cospito. Salvargli la vita evitando di soffiare sul fuoco di Massimiliano Smeriglio* Il Manifesto, 3 febbraio 2023 Lettera dell’europarlamentare del Gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici a Giorgia Meloni sul caso dell’anarchico detenuto in regime di 41bis. Gentile presidente del Consiglio, Le scrivo perché spero in un suo gesto risoluto e immediato capace di salvare la vita ad una persona. Alfredo Cospito sta morendo e lo Stato e il governo dovrebbero, a mio parere, dimostrare forza e lungimiranza. Il ministro della Giustizia può disporre il riesame del provvedimento ministeriale sulla base di un’istanza di revoca del decreto applicativo presentata il 13 gennaio, senza attendere la Cassazione. In tal modo il ministro Nordio può assumersi la responsabilità di revocare il 41bis. In una democrazia matura lo Stato di diritto si misura con il trattamento riservato ai colpevoli. Con la certezza della pena rispetto ai reati commessi. Non voglio, Presidente, fare polemiche, né richiamare i tratti di incostituzionalità del 41 bis, se ne discuterà in altra sede, né dimostrare quanto sia ingiusto il regime carcerario applicato a Cospito. In questo momento la cosa più importante è salvare la vita di un uomo e fermare la spirale di violenza. Non condivido nulla delle cose dette, scritte e fatte dal detenuto. Ritengo importante agire con fermezza e velocità per identificare gli eventuali responsabili di attentati e azioni che mettono in pericolo le vite delle persone. Tuttavia penso che uno Stato robusto, consapevole della propria forza, debba reagire con determinazione, nel rispetto delle regole di cui si è dotato. La cosiddetta tolleranza zero di cui si parla in queste ore non può prevedere vendette o extra pene per chi è già stato incarcerato e condannato. Sarebbe un fatto di straordinaria importanza e coraggio una sua diretta iniziativa che sottragga Cospito dal maglio del 41bis. Soprattutto perché verrebbe da una leader di destra capace di riconciliazione. L’accanimento non porterà nulla di buono. Al nostro Paese non servono capri espiatori, rappresaglie, né martiri. Non torniamo indietro, evitiamo che qualcuno accenda fuochi sbagliati riportando le lancette dell’orologio a trenta, quaranta anni fa. Presidente, so che nel tempo della militanza, come me e come tanti altri, da opposte barricate, si è battuta per ricordare la lenta morte di Bobby Sands, patriota e rivoluzionario irlandese che si è lasciato morire nelle prigioni inglesi con uno sciopero della fame a oltranza contro il regime carcerario cui era sottoposto. Quella morte ha segnato più di ogni altra il conflitto nordirlandese e rimane una macchia indelebile sulle persone e le istituzioni che ne portano la responsabilità. Noi non siamo in quella situazione e neanche al centro di una nuova stagione di lotte antagoniste che possano in qualche modo somigliare alla “guerra civile” di fine anni settanta inizio ottanta. E proprio per questo servirebbe un gesto, servirebbe misurare la nostra civiltà giuridica partendo dal punto più lontano, quello di un militante anarchico che deve pagare per i suoi reati, senza pene aggiuntive che sanno di rappresaglia e paura. La Repubblica italiana dovrebbe affrontare questo caso con la consapevolezza di chi sceglie di sminare e sottrarsi alla logica dello scontro frontale perché forte, solida, capace di resistere al corpo a corpo ed evitare torsioni autoritarie. Capisco la tentazione di utilizzare il nemico interno, l’uomo nero, per lucrare consenso a buon mercato. Chi aizza gli animi da posizioni di potere commette un errore clamoroso. Mi creda, non ne vale la pena. Farei davvero molta attenzione a non alimentare una escalation che può diventare la profezia che si auto avvera, uno scontro sociale simulato, cercato dai media, che potrebbe trovare qualche cattivo interprete capace di trasformarlo in qualcosa di reale. A favore di telecamera. Servirebbe governare con mano ferma e saggezza questa fase. Lavorare ad abbassare i toni, sottrarsi alla caccia all’uomo. Non enfatizzare. Lascerei fare alle forze dell’ordine e alla magistratura il proprio lavoro. Ma il primo passo per non sporcare la storia repubblicana è evitare che un uomo muoia mentre è nelle mani dello Stato. E per fare questo bisogna sottrarlo al 41bis. Non c’è altro da dire. La forza si può dimostrare in tanti modi, in questo caso il modo migliore è evitare l’irreparabile. *Parlamentare europeo Salvare Cospito se perde conoscenza? Pure il Codice medico lo vieta: prevale il no anticipato dal recluso di Valentina Stella Il Dubbio, 3 febbraio 2023 Il costituzionalista Casonato e il presidente dei camici bianchi, Anelli: la “Dat” va rispettata. Due lettere scritte a penna: una il 12 novembre, l’altra il 17 gennaio. Alfredo Cospito le indirizza al suo avvocato Flavio Rossi Albertini dal carcere di Sassari. Ribadisce la propria volontà di rifiutare l’alimentazione forzata e qualsiasi altro trattamento sanitario finalizzato ad interrompere lo sciopero della fame. Ma l’uomo non vuole morire, come ha ribadito ieri il suo stesso legale: “Cospito non ha una vocazione suicida, non vuole morire ed è pronto ad interrompere lo sciopero della fame se dovessero sospendergli il 41 bis. Lui ha deciso di attuare questa forma di protesta contro la misura che gli è stata applicata ma, considerate le sue convinzioni di anarchico, la sua non è solo una battaglia personale: non si limita a denunciare la illegittimità della misura a cui è sottoposto ma denuncia contestualmente il regime del 41 bis come violazione dei diritti umani”. Ma al momento lo Stato sembra non voler affatto cedere alla richiesta di Cospito. Parola d’ordine: non arretrare. “Apriremmo una diga a tutta una serie di pressioni da parte di detenuti che si trovano nello stesso stato di detenzione”, qualora “lo stato di salute” dell’anarchico finisse per essere un condizionamento rispetto a un’eventuale decisione di allentare il 41bis, ha detto il ministro Carlo Nordio ieri nella propria informativa alla Camera. “Lo stato di salute di un detenuto non può costituire un elemento di pressione” sul governo, ha aggiunto il responsabile della Giustizia. Ma il guardasigilli e la magistratura sono consapevoli del fatto che Cospito andrà avanti fino alla fine e che il diritto gli consente di morire senza che possano agire interferenze esterne in funzione “salvavita”, nonostante si tratti di una persona affidata alla custodia dello Stato? Hanno messo in conto, Nordio e le toghe, il fatto che proprio lo Stato finirebbe per trovarsi “disarmato”, inerme, dinanzi alla lotta dell’anarchico? Come ci spiega il professore Carlo Casonato, ordinario di Diritto costituzionale comparato e responsabile scientifico del progetto BioDiritto all’Università di Trento, “sia per quanto previsto dalla Costituzione sia per il contenuto della legge 219/ 2017 è ormai un principio assodato quello del rispetto della volontà di rifiutare cure salvavita da parte di una persona capace, consapevole, informata. La persona ha diritto a rinunciare ad un trattamento e può esercitare tale diritto con una disposizione anticipata anche per quando non sarà più capace di farlo”. Secondo il professore “non ci sono eccezioni dal punto di vista legislativo al rispetto di questo diritto della volontà anche laddove la persona sia soggetta a misure limitative della libertà personale. Quindi credo che il principio generale prima enunciato debba applicarsi anche al caso specifico” di Cospito. “Affermo questo”, prosegue il professor Casonato, “perché il codice di deontologia medica, su tale questione, è molto preciso: e mi riferisco in particolare agli articoli 51 e 53”. Il primo recita: “Art. 51 - Soggetti in stato di limitata libertà personale. Il medico che assiste una persona in condizioni di limitata libertà personale è tenuto al rigoroso rispetto dei suoi diritti. Il medico, nel prescrivere e attuare un trattamento sanitario obbligatorio, opera sempre nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge”. Nel caso di Cospito, spiega Casonato, “non si può pensare di applicare un Tso perché l’uomo è capace e consapevole e non presenta problemi di salute mentale”. L’altro articolo prescrive: “Art. 53 - Rifiuto consapevole di alimentarsi. Il medico informa la persona capace sulle conseguenze che un rifiuto protratto di alimentarsi comporta sulla sua salute, ne documenta la volontà e continua l’assistenza, non assumendo iniziative costrittive né collaborando a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale”. “Quindi - conclude il professore - anche qualora qualcuno ordinasse una alimentazione artificiale con un Cospito divenuto incapace, il medico, secondo me, non potrebbe assumere iniziative costrittive né collaborare a procedure coattive in tal senso”. Anche Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, ribadisce: “Non posso entrare nel merito del caso specifico, perché non ne conosco tutti i dettagli. In linea generale il diritto all’autodeterminazione è regolato dalla legge 219 del 2017 che fa prevalere la volontà espressa dal cittadino nel momento in cui è capace di intendere e di volere”. Pertanto Cospito non potrebbe essere salvato. Durante tutta la giornata di ieri abbiamo cercato di sapere dal ministero della Giustizia e dal Dap se le volontà di Cospito espresse in quelle lettere, inviate a largo Luigi Daga dal suo avvocato Flavio Rossi Albertini, sono state protocollate e se sono state trasmesse alla struttura milanese di Opera. Non sono serviti a nulla messaggi whatsapp, telefonate e pec. Nessuna risposta ma ci riproveremo. Gian Domenico Caiazza: “Il 41bis è sadico e violento, la politica adesso rifletta...” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 febbraio 2023 “La Giunta Ucpi esprime apprezzamento, solidarietà e sostegno per la dura azione non violenta con la quale un detenuto in regime di 41 bis, il signor Alfredo Cospito, ha inteso denunziare con forza, a rischio della propria vita, l’incivile barbarie di quel regime detentivo”: inizia così il documento dei penalisti italiani. Ne parliamo con il loro presidente Gian Domenico Caiazza. “Apriremmo una diga a tutta una serie di pressioni da parte di detenuti che si trovano nello stesso stato” di detenzione se “lo stato di salute” di Cospito finisse per essere un condizionamento nell’allentamento del 41bis, ha detto il ministro Carlo Nordio due giorni fa nella sua informativa alla Camera sul caso dell’anarchico. Cosa ne pensa di questa affermazione? In astratto questa risposta ha un senso. Non si tratta di riconsiderare una posizione perché il detenuto sta facendo lo sciopero della fame. Semmai occorre valutare se permangono le condizioni e le esigenze che hanno giustificato il 41 bis. Se c’è una persona che mette in atto una protesta nonviolenta non significa che bisogna accogliere necessariamente la sua richiesta ma che la si possa valutare certamente. Sarebbe singolare se per il fatto che Cospito fa lo sciopero della fame non si valutasse nuovamente il suo regime detentivo. Lei parlava di protesta “nonviolenta”. Ma forse è diversa dai digiuni nonviolenti di Marco Pannella: mai assenza totale di cibo, una forma di dialogo con le istituzioni, in quanto tale lontana anni luce da ogni ipotesi di “prendere o lasciare”... C’è sicuramente una differenza che Pannella rivendicava sempre: la nonviolenza è per la vita e non per la morte. Allora si discuteva se gli scioperi di Pannella fossero come quelli di Bobby Sands: è ovvio fossero diversi. Tuttavia quello di Cospito è innegabilmente nonviolento perché mette in discussione la propria salute, la propria vita. Fino a poco tempo fa prendeva gli integratori. Ha deciso di rinunciarvi... Questo non lo condivido. Mi sembra un modello non accettabile. Come Giunta Ucpi avete espresso apprezzamento e solidarietà per l’iniziativa di Cospito... Perché ha dichiarato di farne una questione di carattere generale per tutti quelli rinchiusi al 41bis. È deprimente che la politica non abbia la forza per cogliere questa occasione per una riflessione seria sull’istituto. Lo Stato ha certamente il diritto ed il dovere di differenziare i regimi detentivi in ragione della gravità dei reati commessi dal detenuto, e della ritenuta, accertata sua pericolosità. Ma questo elementare principio di sicurezza non ha nulla a che fare con le regole odiose, violente, non di rado irragionevolmente sadiche che connotano il regime del 41 bis, strumento chiarissimamente finalizzato alla collaborazione. In questo senso è concettualmente pari alla tortura e questo potrebbe essere il momento per discutere di una forma di umanizzazione dello stesso. Impedire all’essere umano detenuto, quale che siano le colpe di cui si è macchiato, di non poter per decenni o per tutta la vita mai più abbracciare un figlio o un familiare che cosa ha a che fare con la sicurezza? Però su questo l’onorevole Rita Dalla Chiesa in una recente intervista ha detto: “I boss incontrano i figli raramente? Io mio padre soltanto al cimitero”... Ho letto l’intervista. Chi formula queste frasi, ossia un familiare con un dolore irreparabile verso cui nutro il massimo rispetto, dovrebbe rendersi conto che queste affermazioni sono una rivendicazione della legge del taglione. Se il parametro dell’afflittività della pena dovesse essere l’equivalenza del dolore che ha provato la vittima o i suoi familiari allora ci troveremmo nella condizione di occhio per occhio, dente per dente. Queste frasi che raccolgono facili consensi in realtà sono irresponsabili perché non ci si rende conto che si alimenta nell’opinione pubblica la cultura della vendetta. Questa non può essere la regola che ispira la vita di uno Stato di Diritto. Voi scrivete: Cospito, 41 bis e la doppia morale delle anime belle. Intendete dire che non si sono fatte campagne simili quando ad esempio si trattava di Provenzano? Ci sono 41bis di seria A e 41bis di serie B? Assolutamente sì. Questo conferma quello che dicevo: c’è una connotazione ideologica nell’affrontare questo tema. O si affronta quantomeno il tema della umanizzazione di questo regime per tutti o non lo si affronta per nessuno. La demagogia da stato etico uccide lo stato di diritto di Roberto Rampi Il Riformista, 3 febbraio 2023 La discussione in corso, si fa per dire, sulla carcerazione “dura”, il cosiddetto 41 bis, l’ergastolo “ostativo”, le intercettazioni e la carcerazione preventiva, si sviluppa tutta sul filo dell’ipocrisia demagogica di una politica che ha rinunciato al ruolo di guida, di proposta, e di pedagogia di massa. Di reati associativi e associazione esterna poi nemmeno si fa più finta di discutere. Eppure, si tratta di un abominio se si ragiona in termini di democrazia liberale, dove la responsabilità non può che essere individuale, legata a fatti specifici e condotte costituenti reato del singolo, accertati oltre ogni ragionevole dubbio e con la prospettiva costituzionalmente sancita di una trasformazione della condotta che possa portare a una diversa valuta-* zione delle proprie azioni e a un pieno reintegro nella società. Quando la Politica era dominata dal Pensiero, dopo la tragedia della dittatura, pur nelle profonde differenze di progetto antropologico e di società, i costituenti svilupparono un sistema di valori che, sebbene linguisticamente sofferente di una certa tendenza allo stato etico, garantiva tutti gli spazi di tutela e di sviluppo della vita del cittadino, anche se la sua condotta infrange in modo grave la legislazione data. Perché di questo dovrebbe occuparsi lo stato (con la “s” necessariamente minuscola) nella sua versione contemporanea: definire forme di tutela della convivenza dei cittadini, tutela della vita, dell’agibilità politica ed economica, e intervenire in modo proporzionato in caso di violazione delle norme con il solo obiettivo, pratico, di impedire la reiterazione della violazione, tutelando il prossimo e se possibile risarcendo il danno. Senza Giudizio, che appartiene al campo della morale, da cui lo stato dovrebbe tenersi ben lontano. E senza darsi il non raggiungibile obiettivo di fare Giustizia, che anch’essa, nel caso, appartiene a ben altre sfere, ma più praticamente garantire legittimità e legalità, che per propria natura devono essere sempre mutevoli e discutibili. Il non detto dietro a ogni discussione sul carcere e sui modelli detentivi, invece, è l’errata ma diffusa e prevalente convinzione che allo Stato (maiuscolo) spetti la punizione dei cattivi, per fare Giustizia e risarcire moralmente le vittime. È questa la convinzione della stragrande maggioranza dei cittadini che non si ha il coraggio di confutare. E se non si affronta questo nodo tutto il resto del necessario percorso riformatore è azzoppato in partenza. La funzione dello stato, la funzione e il limite della legge, la tutela dei cittadini da ogni pretesa morale di stato. A questo si aggiunge la moderna consapevolezza della mutabilità delle persone, che non possono essere definite una volta per tutte in base a un comportamento che hanno sviluppato in un determinato momento della propria vita, e la possibilità di cambiare insita nella natura umana. Non di tratta di perdono, perché non si tratta di colpa. Parole che non dovrebbero appartenere alla discussione su legalità e illegalità. Il carcere non è la punizione, giusta o sbagliata. Perché lo stato non ha il compito di punire. Uno sforzo, tutto politico, per affermare questi principi anti-intuitivi è necessaria. Più facile quando le dittature mostrano la violenza e l’ingiustizia che lo Stato può compiere ergendosi a garante della morale, della Giustizia e della condotta, come si può vedere palesemente in Iran, ma anche in Cina e in diversi altri Paesi del mondo. Come chi usciva dalla dittatura lo aveva misurato sulla propria pelle anche in Italia e per questo ne aveva consapevolezza. Se non si riparte da qui, tutta la discussione, ammesso che discussione si possa definire la superficiale e demagogica trattazione in corso di questi argomenti nel tristemente asfittico dibattito pubblico del nostro Paese, è priva di fondamento. Nel percorso, mai compiuto, di fondazione di una vera dimensione europea della Politica questo dovrà essere il primo fondamento. Lo dovrà portare avanti un movimento nuovo che deve ancora nascere: transnazionale, transpartitico, capace di partire dal concetto di stato come sviluppato nella modernità e ridefinirne le ragioni e i confini. Uno strumento degli uomini per gli uomini, limitato e rispettoso della vita di tutti e di ciascuno. Non si fa scontro politico sulla pelle dei detenuti di Roberto Cota Il Riformista, 3 febbraio 2023 L’altro giorno alla Camera c’è stata l’ennesima bagarre sulla giustizia. Durante la discussione sul caso Cospito, il deputato Donzelli ha rivelato il contenuto di una conversazione captata in carcere tra Cospito ed esponenti della ‘ndrangheta e della camorra. Donzelli ha citato documenti reperiti presso il ministero della Giustizia e ha anche riferito di un incontro che Cospito ha avuto in carcere a Sassari con i parlamentari del Pd Serracchiani, Verini, Lai e Orlando che gli avevano fatto visita per sincerarsi delle sue condizioni di salute. Si è scatenato il finimondo da parte delle opposizioni perché Donzelli avrebbe rivelato il contenuto (appreso dal sottosegretario Delmastro) di documenti da considerarsi riservati. Questa vicenda crea non pochi imbarazzi al ministro Nordio che oggi si trova a dover gestire uno scivolone proprio di quella parte del suo partito che avrebbe dovuto aiutarlo a districarsi nel labirinto del palazzo in quanto “neofita” della politica. Scene come quella dell’altro giorno, purtroppo, allontanano la speranza di arrivare a una vera riforma della giustizia. Il 41bis è un argomento molto delicato e se lo si affronta: a) con le solite contrapposizioni destra/sinistra, b) guardando alla ricerca del consenso immediato, cioè dicendo soltanto quello che al momento può piacere all’opinione pubblica, non c’è alcuna possibilità di produrre qualcosa di buono. La sinistra per anni ha raccontato la favoletta che chi stava a destra era mafioso o comunque sempre pronto a difendere i criminali e che loro stavano sempre dalla parte giusta, quella della legalità e delle procure. La destra oggi, dopo anni di queste strumentalizzazioni, giustamente reagisce, ma in maniera scomposta. Il popolo è facilmente suggestionabile, basta una campagna mediatica ben orchestrata e il gioco è fatto. Ad esempio, in nome della lotta alla mafia si è detto tutto e il contrario di tutto e si sono giustificate posizioni giustizialiste inaccettabili (da ultimo, quella sulle intercettazioni che nulla hanno a che fare con i reati di mafia) e anche oggettive incapacità, errori o personalismi di pm sempre pronti a salire in cattedra. Allora, ecco che parlare serenamente di una riforma del 41 bis è impossibile, perché è impossibile entrare nel merito in quanto i giustizialisti chiamano a soccorso la piazza e poi, in generale, un po’ tutti hanno paura ad andare controcorrente. Bisognerebbe iniziare a raccontare le cose correttamente. L’altro giorno un componente del governo ha dichiarato che sul 41 bis la decisione è del magistrato e non del governo: non è proprio così, in quanto l’applicazione la decide il ministro della Giustizia con la possibilità per il detenuto di fare ricorso al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Poi, si dovrebbero affrontare le cose con equilibrio, bilanciando gli interessi in gioco (esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali della persona) e usando i principi del diritto. Ad esempio, non abolendo il 41 bis, ma applicandolo in concreto solo dopo un’attenta e approfondita valutazione delle caratteristiche del detenuto e consentendo un prolungamento soltanto in base a una rivalutazione della stessa pericolosità nell’ attualità. Occorre ricordare che il 41 bis esclude l’applicazione del trattamento rieducativo che può portare anche a dei risultati. Allo stato, parlare di tutto questo è impossibile. Fine pena 31-12-9999. Reportage dal carcere di Rebibbia tra i condannati all’ergastolo ostativo di Lucio Luca La Repubblica, 3 febbraio 2023 Mafiosi, trafficanti e assassini. Abbiamo incontrato i detenuti al 4-bis, quelli che non possono sperare in alcun beneficio di legge. Per capire, ora che di loro molto si parla, cosa significa essere sepolti vivi. La casa dei sepolti vivi è in un supercarcere di periferia. Ha un nome secco, gelido, AS1, la sigla che indica il livello massimo di sicurezza per gente che ha commesso crimini indicibili e merita di scontare condanne pesantissime. Ci sono mafiosi e camorristi, boss della ‘ndrangheta e trafficanti internazionali di droga, estortori e rapinatori seriali. E assassini, certo, che sono rinchiusi qui a Rebibbia da venti, trenta, anche quarant’anni e in questo tempo non hanno mai usufruito di un permesso premio, una giornata da passare con la famiglia o qualche ora di semilibertà perché hanno perso tutto, anche il diritto alla speranza. Da qualche tempo la politica si è accorta di loro. Sono i detenuti “ostativi”, quelli che non hanno mai collaborato con lo Stato e pur dissociandosi dalla loro precedente vita e dimostrando di essere persone diverse, lontane dal contesto criminale, non hanno mai potuto sperare in un beneficio di legge. Possono ottenerlo gli ergastolani che hanno ucciso, anche più di una volta. Ma non chi, nella sua cartella personale, si ritrova scritta una data inverosimile: fine pena 31-12-9999. Che non è un refuso ma un macabro scherzo della burocrazia. Tecnicamente si definiscono detenuti al 4-bis, un articolo modificato dopo le stragi di Palermo del 1992: legislazione emergenziale, si disse, per costringere i mafiosi, una volta arrestati, a diventare testimoni di giustizia ed evitare così di passare tutta la vita dietro le sbarre. Carcere ostativo che è cosa ben diversa dal cosiddetto carcere duro, il 41-bis, riservato ai grandi boss delle organizzazioni criminali. L’ultimo dei quali, Matteo Messina Denaro, è finito in galera qualche settimana fa, dopo più di trent’anni di latitanza. Il 41-bis è quello inflitto anche all’anarchico Alfredo Cospito, condannato a dieci anni per la gambizzazione del dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi, e accusato di aver piazzato un paio di bombe davanti a una scuola per carabinieri: dopo sei anni di carcere in regime di alta sicurezza, Cospito, primo e unico anarchico della storia al 41-bis, ha cominciato uno sciopero della fame e nel momento in cui scriviamo le sue condizioni sono gravi. Chi ha una pena ostativa può vivere insieme agli altri detenuti e partecipare alle attività all’interno del penitenziario. Ma per ottenere un permesso, fino a non molto tempo fa, doveva pentirsi e fare nomi e cognomi dei componenti del suo clan. Nel 2021 la Suprema Corte aveva definito il 4-bis incompatibile con la Costituzione, il governo Meloni ha rimandato la palla alla Cassazione che, chiamata a decidere qualche giorno fa, ha rinviato tutto, ancora una volta, al prossimo 8 marzo. In ogni caso, il centrodestra ha già irrobustito i parametri per accedere ai benefici e così il miraggio di un premio, anche dopo venti o trent’anni di “branda”, come dicono i detenuti, sembra sempre più lontano. “Non stupitevi se ci si impicca” - Di ergastolo ostativo, fine pena mai e voglia di ricominciare si è parlato dentro le mura di Rebibbia in occasione della presentazione di un libro scritto da Carmelo Sardo, giornalista del Tg5 attento a questi temi. Il romanzo si intitola Dove non batte il sole e racconta la storia di un giovane universitario finito, al termine di un’inchiesta piena di errori, proprio al 4-bis. Nel piccolo teatro della casa circondariale romana si sono ritrovati un centinaio di detenuti, alcuni dei quali in regime “Alta Sicurezza 1”, AS1, appunto, e per molti di loro c’è stata la possibilità di sfogare l’impotenza di fronte a un provvedimento che non riescono ad accettare. Fabio, detto “l’avvocato”, Giuseppe, che dietro le sbarre si è già preso quattro lauree, Paolo, che ha sbagliato a 16 anni e da allora non conosce cosa sia la libertà, Alessandro che continua a gridare la sua innocenza. Uomini che sembravano perduti ma che, da quando hanno messo piede qui dentro, hanno dimostrato che cambiare si può. Fabio Falbo è “lo scrivano” di Rebibbia. Ha una cinquantina di anni ed è accusato di avere partecipato a tre omicidi di ‘ndrangheta. Lo chiamano “avvocato” perché si è messo a studiare e si è laureato in giurisprudenza con una tesi sul concorso esterno in associazione mafiosa. Ha pure partecipato a un film dei fratelli Taviani premiato al Festival di Berlino ma mai, da quando è stato arrestato, ha messo piede all’esterno: “Ho chiesto un permesso per discutere la tesi nella sede della Camera Penale di Roma, ma niente. E le scene per il film le ho dovute girare qui a Rebibbia, il giudice di sorveglianza non si è intenerito. Capisco che lo Stato dopo le stragi di mafia abbia deciso di usare il pugno di ferro. Ma noi mica abbiamo fatto stragi, possibile che ormai tutti i reati o quasi rientrino nel 4-bis? Perché trent’anni dopo l’“emergenza” paghiamo noi che con quelle storie non c’entriamo nulla? Io ho quattordici anni di branda e devo arrivare a ventidue”. Il tribunale continua a rigettare le istanze in cui lui sostiene di non avere a che fare neppure con quei tre omicidi. “Nel frattempo mi pare di aver comunque dimostrato di aver intrapreso un percorso di recupero. Ma mi rispondono che, poiché non ammetto le mie colpe, non ho avviato un processo di revisione psicologica. Di più, sai cosa ha scritto il giudice? Che è vero, mi sono laureato, ho partecipato ad alcuni film, gli altri detenuti mi considerano un punto di riferimento. Ma, tutto questo, ha spiegato rigettando la mia richiesta, l’avrei fatto soltanto per edonismo personale. Edonismo personale, non scherzo. E io, pur essendo al carcere ostativo, ho comunque una data di fine pena. E chi il fine pena non ce l’ha? Poi ci stupiamo se in galera la gente si impicca”. Già. Il 2022 è stato l’anno record dei suicidi dietro le sbarre: 84, mai si era arrivati a una cifra così alta. Praticamente uno ogni quattro giorni. Negli ultimi dieci anni, secondo l’associazione Antigone, si sono uccisi 583 carcerati. Quasi la metà erano uomini e donne con particolari fragilità personali o sociali. “Meglio la pena capitale” - Giuseppe Perrone è un ergastolano salentino accusato di aver fatto parte della Sacra Corona Unita. L’ultima delle sue quattro lauree l’ha conseguita a Tor Vergata con una tesi in Editoria, informazione e comunicazione dal titolo Gli abissi di una pena: a partire da Primo Levi: voto 110 e lode e commissione in piedi per un detenuto modello che si trova in galera da trent’anni esatti per l’omicidio di uno studente. Anche lui dice di essere innocente, che c’è stato uno scambio di persona, che prima o poi la verità verrà a galla. Nel frattempo sconta il suo fine pena mai: “L’errore più grande è credere che l’uomo che sbaglia è, e sarà sempre, il suo reato” dice. “Lo Stato ci chiede un baratto: tu mi dai un tuo complice e io ti regalo la libertà. Poi, però, spesso i pentiti sono i primi a tornare a delinquere. Perché i giudici non valutano invece il percorso che una persona fa dietro le sbarre? Eppure tutte le statistiche lo dicono: quando c’è la cultura o il lavoro, la recidiva si abbassa notevolmente. Date ai detenuti cultura e lavoro, solo così potrete recuperarli come chiede la Costituzione. Io ho studiato, mi sono laureato, ma per voi non merito nemmeno un’ora di permesso. Mi spiegate, allora, che se ne fa lo Stato di uno come me?”. Per molti l’ostativo è come una condanna a morte. “Anzi peggio” racconta Paolo, una vita perduta tra i vicoli di Napoli, la madre morta quand’era bambino, il padre sparito. “Sono cresciuto in un contesto maledetto, ho sbagliato e non chiedo sconti. Davanti a me ho ancora trent’anni di branda, mi sono messo a leggere, oggi credo di aver capito il vero valore della vita. Ma non chiedetemi di collaborare: se accuso qualcuno ed esco, dopo che ne sarà di me? Piuttosto, mi chiedo se l’arresto di Messina Denaro cambierà ancora una volta le carte in tavola: magari qualcuno non se la sentirà di concedere sconti, e a rimetterci saremo tutti”. Una sigaretta sotto gli occhi dei secondini prima di rientrare in cella, il piacere di scambiare qualche parola “con uno di fuori”, la voglia di far sentire la propria voce. Alessandro sa che, se le cose non cambiano, a Rebibbia ci resterà fino all’ultimo giorno. Fine pena 9999 anche per lui, possibilità di benefici zero: “L’ergastolo ostativo” dice schiacciando il tabacco in una cartina improvvisata “è una condanna a morte. E in un Paese democratico non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Eppure siamo qui e questi pensano pure a come inasprirlo. Meglio la pena capitale, allora. Meglio. Molto meglio che morire ogni giorno qui, dietro le sbarre, senza nemmeno una speranza di futuro”. Al 41 bis e con un tumore in fase terminale, ma non può accedere alle cure sperimentali di Valentina Stella Il Dubbio, 3 febbraio 2023 Il legale di Ernesto Fazzalari, condannato per ‘ndrangheta e recluso a Parma: “Così lo Stato si fa Leviatano e impone una sofferenza eticamente e giuridicamente inaccettabile”. “La tutela della salute di ogni detenuto costituisce un’assoluta priorità”, questo è il pensiero del ministro della Giustizia Carlo Nordio. E così, in effetti, dovrebbe essere perché il diritto alla salute, che discende dal più generale diritto alla dignità, è un bene fondamentale per l’uomo, ancor prima di quello retributivo, teso ad infliggere una sofferenza al reo quale compenso per il male commesso”. Così dice al Dubbio l’avvocato Antonino Napoli, difensore di Ernesto Fazzalari. L’uomo, ex numero due dopo Matteo Messina Denaro, era tra i ricercati più pericolosi d’Italia ed è stato arrestato il 26 giugno 2016. Deve scontare 30 anni al 41 bis. Al momento è detenuto presso il carcere di Parma ed è sottoposto a cicli di chemioterapia in quanto affetto da “adenocarcinoma duttale di tipo a cellule chiare: una forma di tumore al pancreas aggressiva e dalla prevedibile prognosi infausta. Il suo generale stato di salute - prosegue il legale - appare già molto compromesso, rilevandosi dall’analisi della cartella clinica la vascolarizzazione della neoplasia unitamente alla presenza di metastasi linfonodali”. L’ospedale civile di Parma “ha ritenuto che il suo tumore di cinque centimetri è inoperabile”. Invece “noi abbiamo chiesto o il differimento pena, tra cui la detenzione domiciliare con l’autorizzazione per curarsi, o la collazione in detenzione ospedaliera presso i centri Irscc o altri specializzati per il tumore al pancreas, dove sono attuate anche metodiche sperimentali per operare anche quei tipi di tumore”. Al contrario “secondo i magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Bologna il mio assistito, fuori dal circuito carcerario, non potrebbe ricevere cure diverse o migliori di quelle praticate in regime detentivo attraverso il continuo monitoraggio effettuato dai sanitari e la ininterrotta vigilanza del personale di Polizia penitenziaria, in grado di allertare in qualunque momento l’ausilio medico occorrente”. In pratica la “mancata concessione del differimento di pena lede il diritto alla salute del condannato, nella misura in cui gli nega la facoltà di scegliere di curarsi presso la struttura sanitaria da lui ritenuta più conforme alle sue esigenze e alla sua specifica condizione individuale”. Inoltre “non è seguito neanche da uno psicologo come dovrebbe”. Ma l’aspetto “più grave” per l’avvocato Napoli “è che più volte ho chiesto per valutare la compatibilità con il regime carcerario e persino l’accesso in carcere la visita da parte di un consulente di parte. Stiamo parlando di un oncologo di Bologna, professore universitario, che nessun legame ha con il territorio da cui proviene Fazzalari, ossia la Calabria. Il magistrato di sorveglianza la prima volta ha rigettato l’istanza, perché non agganciata ad esempio ad un’altra di liberazione. Ripresento la richiesta insieme ad una istanza di concessione dei domiciliari o ospedalizzazione in un centro specifico. Il magistrato di sorveglianza mi risponde che non è di sua competenza ma del direttore del carcere. Presento istanza a quest’ultimo e la comunico anche al Dap ma da più di un mese nessuno mi risponde”. In conclusione, per l’avvocato “non vi è dubbio che una persona affetta da cancro non curabile può morire da solo in una cella in regime di 41 bis, lontano dall’affetto e dal sostegno dei propri cari, e che la chemioterapia può essere praticata in regime di day hospital ma questa impostazione culturale è insensibile e disumana, oltre che di tipo vendicativo”. Ma lo Stato “non accordandogli il diritto di sottoporsi a cure e trattamenti, anche sperimentali, praticati presso centri d’eccellenza si trasforma in un dispotico, feroce e insensibile Leviatano, che impone a un suo cittadino - in nome di una medievale concezione di giustizia retributiva, che rasenta la vendetta - una sofferenza che, varcando i confini dell’umana tollerabilità, diviene, eticamente e giuridicamente, inaccettabile e non condivisibile”. Non solo Cospito. Altri 32 i detenuti attualmente in sciopero della fame di Claudio Sebastiani ansa.it, 3 febbraio 2023 Una forma di protesta “autolesionista e abbastanza diffusa”, spiega Daniela De Robert, dell’ufficio del Garante dei detenuti, sottolineando che la quasi totalità degli scioperi durano “per un periodo limitato”. Nello stesso periodo dell’anno scorso, i detenuti in sciopero della fame erano uno in meno rispetto ad oggi, a conferma che si tratta di una modalità diffusa e ripetuta nel tempo, anche prima che la vicenda dell’anarchico in sciopero da 105 giorni finisse sulle prime pagine. Quando un detenuto inizia lo sciopero, dice ancora De Robert, “bisogna intervenire in maniera adeguata, ad esempio i detenuti devono essere pesati tutti i giorni. E al di là della tutela della salute, bisogna capire le motivazioni, capire se si può dare una risposta e quale, capire se si può intervenire senza cedere”. Che sia una forma di protesta diffusa tra i detenuti per rivendicare quelli che considerano loro diritti, anche se si trovano al 41 bis, lo ribadisce anche il garante dell’Umbria Giuseppe Caforio “Quello allo sciopero della fame è un diritto e come tale va rispettato - dice - ma purché non metta in pericolo la vita del detenuto. Lo Stato non può consentirgli di arrivare fino alla morte e ha gli strumenti per intervenire. Il trattamento sanitario obbligatorio alimentare è uno di questi”. In Umbria ci sono circa 150 detenuti al 41 bis, reclusi negli istituti penitenziari di Spoleto e Terni. E diversi di loro chiedono l’intervento del Garante. “Si rivolgono a noi - spiega Caforio - soprattutto per questioni sanitarie e le istanze sono cresciute nel post pandemia. È difficile curare patologie importanti come può essere un tumore in quel regime di detenzione e altrettanto complicato è un trasferimento in ospedale”. Secondo Caforio il carcere duro “è una forma di detenzione che ha funzionato per certi reati. Ma ha sollevato diversi dubbi e critiche, da organizzazioni umanitarie internazionali, in termini di civiltà giuridica. È stata fatta usa scelta, di usarlo per debellare certi fenomeni criminali gravi come mafie e terrorismo”. Ecco perché, conclude Caforio che è avvocato e giurista, il 41 bis “portato all’eccesso in termini di durata, confligge con la funzione rieducativa che deve avere la pena”. “Ci sono dei correttivi che potrebbero essere attuati - ha concluso - magari introducendo sistemi di verifica dopo lunghi periodi di applicazione” del carcere duro. “Nessun segreto sugli atti citati in Aula”. Nordio “scagiona” Donzelli di Errico Novi Il Dubbio, 3 febbraio 2023 Il ministro: la relazione del Dap sui colloqui tra Cospito e altri reclusi al 41bis poteva essere resa pubblica. Ma per giuristi e magistrati restano incertezze. Non erano atti segreti. E neppure la dicitura stampigliata sul fascicolo, “limitata divulgazione”, avrebbe dovuto dissuadere il deputato Giovanni Donzelli dal renderli pubblici. Sono le “conclusioni” riferite questa sera dal guardasigilli Carlo Nordio nel comunicato stampa che, almeno dal punto di vista del ministro, mette la parola fine al caso degli ultimi giorni: i richiami fatti martedì, nell’aula di Montecitorio, dal parlamentare di FdI alla relazione sui colloqui del dicembre scorso fra Alfredo Cospito e tre suoi “compagni di socialità” al 41 bis, nel carcere di Sassari. Il ministro, si legge nella nota, “conclusa rapidamente la ricostruzione richiesta dopo il dibattito parlamentare del 31 gennaio, ritiene doveroso riferire in sintesi le seguenti conclusioni: la comparazione tra le dichiarazioni rilasciate dall’onorevole Donzelli e la documentazione in atti disvela che l’affermazione testuale dell’onorevole - “dai documenti che sono presenti al ministero della Giustizia” - è da riferirsi ad una scheda di sintesi del Nic non coperta da segreto. Non risultano apposizioni formali di segretezza”, osserva Nordio, “e neppure ulteriori diverse classificazioni sulla scheda”. Quanto al contenuto dei “colloqui” tra Cospito e altri detenuti, “riferiti dall’onorevole Donzelli”, il guardasigilli nota che “non sono stati oggetto di un’attività di intercettazione ma frutto di mera attività di vigilanza amministrativa. In conclusione, la natura del documento non rileva e disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati”. E il ministro della Giustizia aggiunge, appunto, che “la rilevata apposizione della dicitura “limitata divulgazione”, presente sulla nota di trasmissione della scheda, rappresenta una formulazione che esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classifiche di segretezza, disciplinate dalla legge 124/07 e dai Dpcm di attuazione, ed esclude che la trasmissione sia assimilabile ad un atto classificato, trattandosi di una mera prassi amministrativa interna in uso al Dap a partire dall’anno 2019, non disciplinata a livello di normazione primaria”. Nordio assicura che “tutta la documentazione idonea a spiegare queste conclusioni sarà illustrata in dettaglio, quando le Camere riterranno opportuno”. Vicenda chiusa? Probabile. Anche se la materia è, dal punto di vista dei giuristi, controversa. Secondo alcuni, non si è neppure avuto il tempo di capire se era il caso di “secretarli”, quegli atti. Alla domanda se la relazione su Cospito trasmessa nei giorni scorsi al Dap dal “Gom” della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Sassari, potesse essere resa pubblica da Donzelli, un alto magistrato interpellato dal Dubbio replica così: le relazioni “possono anche non essere tecnicamente segrete nel momento in cui il Dap le riceve e a propria volta le invia al ministro della Giustizia e al sottosegretario con delega alle carceri”, cioè Andrea Delmastro. “Ma considerata la natura di quelle informazioni”, prosegue il magistrato con preghiera di lasciarne coperto il nome, “la loro segretezza sarebbe stata magari imposta dal ministro della Giustizia se solo gliene fosse stato dato il tempo”. In che senso? “Bastava presentare una richiesta di accesso agli atti: nel valutarla, il guardasigilli avrebbe potuto verificare se, come sembra, le conversazioni tra Cospito e altri detenuti al 41 bis potessero essere meritevoli di approfondimenti da parte dei pm e di essere dunque coperte dal segreto”. Il magistrato interpellato dal Dubbio si riferisce alle “convergenze ideali” captate appunto, nel dicembre scorso, dagli agenti del “Gom” fra l’anarchico Cospito, assurto ormai a epicentro della politica italiana, e tre esponenti della criminalità organizzata detenuti con lui al 41 bis di Sassari: il camorrista casalese Francesco Di Maio, lo ‘ndranghetista Francesco Presta e il mafioso siciliano Pietro Rampulla. L’attuale deputato M5S Federico Cafiero de Raho, ex procuratore nazionale Antimafia, e altri esponenti politici tra i quali l’ex guardasigilli Andrea Orlando sostengono si tratti di materiale potenzialmente assoggettabile a un’indagine della magistratura. Non lo si sarebbe dovuto rendere pubblico, dunque. Ed ecco perché, secondo l’alto magistrato sentito dal Dubbio, “sarebbe stato necessario rispettare la procedura canonica prevista per qualsiasi atto amministrativo, ovvero la presentazione di un’istanza di accesso: tale procedura è necessaria proprio per consentire all’autorità che detiene determinate informazioni di decidere sull’opportunità di trasferirle a chicchessia”. Di certo, la rivelazione di un segreto d’ufficio è un reato, previsto all’articolo 326 del codice penale, che non riguarda solo il segreto istruttorio, cioè gli atti dei procedimenti penali. Atti d’ufficio, come ricorda al Dubbio Giovanni Maria Flick, sono tutti quelli prodotti da una qualsiasi amministrazione, inclusa naturalmente l’amministrazione delle carceri. E la loro eventuale segretezza è presidiata da sanzioni penali, come stabilisce il citato articolo 326. Ma segnala ancora Flick prima che Nordio divulghi il proprio comunicato, la valutazione sull’accessibilità e divulgabilità degli atti richiamati in Aula da Donzelli, può essere fatta dalla magistratura sulla base del contenuto di quegli atti. Meglio se Donzelli, che pure, in quanto vicepresidente del Copasir, poteva avere una legittimazione funzionale ad acquisire quegli atti, avesse chiesto i documenti in modo più formale, anziché acquisirli informalmente da Delmastro. Ma qui siamo dinanzi all’errore riconosciuto come tale persino dal sottosegretario alla Giustizia. E che comunque Nordio ha del tutto “emendato” con la dichiarazione diffusa in serata. Da riservati a non divulgabili, il balletto dei documenti e le bugie del sottosegretario di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 3 febbraio 2023 “A divulgazione limitata”. Il futuro del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro dipende dall’interpretazione che ministero e procura di Roma intenderanno dare alla dicitura apposta sulla nota che accompagnava le carte riguardanti la detenzione di Alfredo Cospito. Quelle che Delmastro, al contrario di quanto ha sostenuto con Repubblica (“gli ho solo sintetizzato alcuni fatti”) ha passato integralmente al deputato Giovanni Donzelli, coinquilino e collega di partito in Fratelli D’Italia, perché le brandisse in Aula contro l’opposizione. Fregandosene delle informazioni sensibili che contenevano. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che quelle carte ha protocollato e spedito in via Arenula lunedì scorso, non ha dubbi: “Non sono divulgabili né cedibili a terzi, pur non essendo secretate “. Si comprende, dunque, perché il ministro Carlo Nordio, nel tentativo di salvare il sottosegretario meloniano, sia costretto a buttarsi sul giuridichese, prima sottolineando che tali documenti non sono coperti da segreto di Stato (nessuno lo ha mai detto o ipotizzato) poi spiegando che “a divulgazione limitata” è in realtà “una mera prassi amministrativa interna in uso al Dap a partire dal 2019, non disciplinata a livello di normazione primaria”. L’arzigogolo, però, serve solo a prendere tempo. Anche perché Delmastro non ha mai detto niente al riguardo, anzi ha negato che si trattasse di documentazione sensibile. Ma i colloqui tra boss mafiosi e un anarco- insurrezionalista relegati al 41 bis, oltrettutto al centro di un caso politico nazionale, per loro natura lo sono. A maggior ragione se l’iter di quelle carte è partito con il protocollo “riservato”. Repubblica è in grado di ricostruire le fasi del viaggio del plico, dal carcere sassarese di Bancali fino alla scrivania del ministro Nordio. Dunque: lunedì mattina presso la sede romana del Gruppo operativo mobile (Gom), che sono i poliziotti che gestiscono i detenuti al 41 bis, viene raccolta la documentazione relativa a Cospito. È il ministro che la vuole con urgenza, perché deve riferire in Aula. Il plico è composto da una nota introduttiva del generale Mauro D’Amico, capo del Gom, e dagli allegati con le relazioni di servizio checontengono le conversazioni dell’anarchico durante l’ora di socialità con altri tre reclusi: il boss dei Casalesi Francesco Di Maio, il killer della ‘ndrangheta Francesco Presti e il mafioso di Cosa Nostra Pietro Rampulla, l’uomo che avrebbe dovuto azionare l’esplosivo della strage di Capaci al posto di Brusca. D’Amico, vista la delicatezza della vicenda, decide di protocollare l’incartamento come “riservato” e di farlo portare al Dap da un suo collaboratore di fiducia in motocicletta. Sarà la segreteria generale del Dap a spedirlo poi al ministero. Ma c’è un intoppo. Al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria hanno fretta, da via Arenula continuano a chiamare perché la moto tarda ad arrivare. Quindi accade che dagli uffici del Gom, per velocizzare le cose, parta una mail diretta al capo segreteria del Dap con la sola nota introduttiva del generale D’Amico. A quel punto, però, i responsabili del protocollo suggeriscono di declassificare il plico cartaceo da “riservato” (visibile solo ai destinatari) a “a divulgazione limitata” (quindi con l’obbligo di rimanere all’interno dell’amministrazione che lo riceve). Il motivo è semplice: niente di riservato può essere trasmesso via email ordinaria. Ecco perché Nordio, Delmastro e il capo di Gabinetto Alberto Rizzo lo ricevono con la scritta “riservato” in testa e in calce alle pagine iniziali, ma con una nota di trasmissione che riporta “a divulgazione limitata”. Ma che c’è nel plico? Le annotazioni danno conto di come Cospito - che soltanto a metà dicembre aveva cominciato i passaggi di socialità con i tre mafiosi - scambiasse opinioni sul suo sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis. Ce n’è una particolarmente interessante. Siamo al 23 dicembre quando un agente del Gom applicato alla terza sezione del carcere sassarese viene chiamato “per portare Cospito a colloquio con il proprio difensore”, si legge nella relazione di servizio. Mentre lo accompagna, l’anarchico si rivolge a Presta e dice: “Bisogna creare conflitti, serve un movimento sociale progressista, bisogna cambiare la società tanto a livello politico non si fa nulla e il parlamento non serve”. Lo ‘ndranghetista lo incoraggia: “Devi mantenere l’andamento altrimenti poi si dimenticano. Bisogna attirare l’attenzione”. L’agente del Gom annota la risposta di Cospito: “Sì ma ormai un colpo di Stato non serve neanche più, neppure con il fascismo si otterrebbe qualcosa, bisogna proprio cambiare la società. Sto male fisicamente, ma psicologicamente sono contento di ciò che sto facendo, gliela faccio pagare, perché se mi succede qualcosa, questi qualcosa dovranno pur pagare. Fuori non si stanno muovendo solo gli anarchici, ma anche altre associazioni. Adesso vediamo che succede a Roma tra qualche giorno”. Prima che Cospito si allontani, Presta aggiunge: “Sarebbe importante che la questione arrivasse a livello europeo e ci levassero l’ergastolo ostativo”. Ecco la parte citata, parola per parola, da Donzelli alla Camera durante il suo intervento di martedì. Dimostrando, quindi, di avere avuto accesso diretto alla documentazione che doveva essere “a limitata divulgazione”. Caso Cospito, il Dap smentisce Delmastro: “Informazioni che non dovevano essere diffuse” di Grazia Longo La Stampa, 3 febbraio 2023 Il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria aveva raccomandato “il massimo riserbo”. La Procura di Roma è al lavoro: la violazione del segreto d’ufficio è punibile con la reclusione. Notizie riservate. Di più, riservatissime. Al punto da essere definite “non divulgabili e non cedibili a terzi, pur non essendo secretate”. In questo modo il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) aveva definito le conversazioni tra l’anarco-insurrezionalista Alfredo Cospito e i boss mafiosi, tutti al 41 bis nel carcere di Sassari. Il documento del Dap è stato spedito lunedì scorso al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, di Fratelli d’Italia, in risposta alla sua richiesta di informazioni sul detenuto Cospito. Ma nonostante la precisazione del Dap circa il riserbo da mantenere in merito ai dati comunicati, Delmastro li ha riferiti al compagno di partito e amico (i due condividono anche un appartamento nella capitale) Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir. E come non bastasse, Giovanni Donzelli ha riferito quanto appreso in Parlamento, usando ciò che aveva appurato per accusare il Pd di complicità con la mafia. “Cospito è un terrorista e lo rivendicava con orgoglio dal carcere - ha affermato il vicepresidente del Copasir -. Dai documenti che si trovano al Ministero della Giustizia, Francesco Di Maio del clan dei casalesi diceva, incontrando Cospito: “Pezzetto dopo pezzetto si arriverà al risultato”. Ma lo stesso giorno, il 12 gennaio 2023, mentre parlava con i mafiosi, Cospito incontrava anche i parlamentari Serracchiani, Verini, Lai e Orlando. Io voglio sapere se la sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi”. Ma quelle parole Donzelli non avrebbe potuto pronunciarle, e lo stesso vale per Delmastro che si sarebbe dovuto attenere alla riservatezza suggerita dal Dap. Così però non è stato e ne è scaturito da un lato un terremoto politico, a partire dalla richiesta di dimissioni dei due esponenti di Fratelli d’Italia dai loro incarichi istituzionali, dall’altro un’inchiesta della Procura di Roma per violazione di segreto d’ufficio dopo l’esposto del co-portavoce di Europa Verde e deputato di Verdi e Sinistra Bonelli. Per ottenere le notizie su Cospito al 41 bis, il sottosegretario alla giustizia Delmastro aveva sollecitato il Dap di acquisire le informative dei due nuclei della polizia penitenziaria Gom (Gruppo operativo mobile) e Nic (Nucleo investigativo centrale) che si occupano, rispettivamente, della gestione dei detenuti pericoloso e delle intercettazioni. Il Dap, raccolte tutte le notifiche (che non sono intercettazioni ma dialoghi ascoltati) le ha poi trasmesse al sottosegretario, invitandolo a non divulgarle nonostante non fossero coperte dal segreto. Ma non è andata così. Il presidente della Camera Lorenzo Fontana, accogliendo il sollecito del dem Federico Fornaro, ha istituito un giurì d’onore e ha dichiarato: “È stata richiesta la nomina di una commissione incaricata di verificare quanto accaduto e la correttezza delle affermazioni”. E non finisce qui. Sul caso ora indaga anche la Procura di Roma, diretta da Francesco Lo Voi, che ha già indagato Delmastro e Donzelli. Il reato di violazione e utilizzazione del segreto d’ufficio non è cosa da poco e si rischiano come pena la reclusione da 6 mesi a 3 anni. L’inchiesta è ai primi passi, ma è presumibile che i magistrati acquisiscano la relazione del Dap che vincolava a non rivelare e a non cedere ad altri le informazioni fornite. Intanto prosegue la bagarre politica. La presidente dei senatori del Pd Simona Malpezzi incalza: “Apprendiamo che il DAP ha chiarito formalmente a Delmastro che le informative in merito a Cospito non potevano essere divulgate. È scritto nero su bianco. In un Paese normale, Delmastro e Donzelli si dovrebbero dimettersi subito e la premier dovrebbe chiedere scusa”. In serata il ministro della Giustizia Carlo Nordio precisa che “sulla nota del Dap su Cospito inviata a Delmastro era presente la dicitura “limitata divulgazione”, che esula dal segreto di Stato ed esclude che la trasmissione sia assimilabile a un atto classificato”. Ma il fatto che la nota non fosse secretata, non dava comunque il via libera alla sua diffusione. Tant’è che si sottolineava che dovesse attenersi a una “limitata divulgazione”. Precetto che né Delmastro né Donzelli hanno in alcun modo seguito. Le tappe della vicenda L’inizio del caos. Martedì scorso il vicepresidente del Copasir Donzelli, citando documenti imprecisati, imprime una svolta al dibattito su Cospito. L’accusa. Donzelli conclude la sua invettiva dicendo: “Io voglio sapere se la sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi con la mafia”. Scoppia la polemica. I documenti. Il sottosegretario alla Giustizia Delmastro ammette di aver girato lui le informazioni del Dap, che erano però “non secretate”. Le indagini. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo ipotizzando il reato di rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio dopo un esposto del parlamentare dei Verdi Bonelli. La frase di Cospito ai boss: “Fuori la devono pagare, non si muovono solo gli anarchici” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 febbraio 2023 Il detenuto sottoposto al 41 bis parla della diffusione dei dialoghi: “Mi hanno teso una trappola”. Il “41 bis” è e deve restare una misura preventiva per impedire altri reati, non afflittiva per rendere più pesante la detenzione. In quest’ottica bisogna valutare se sia opportuno mantenere questo provvedimento nei confronti di Alfredo Cospito, oppure farlo rientrare nel circuito - sempre differenziato, ma meno restrittivo - dell’Alta sicurezza di secondo livello. Anche in considerazione del fatto che il contatto con i reclusi per mafia (la totalità dei sottoposti al “carcere duro”, a parte tre brigatisti dell’ultima leva) ha messo in evidenza altri problemi. Come dimostrano le relazioni sui colloqui tra l’anarchico e i compagni di socialità appartenenti a camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra. Ci sono anche queste considerazioni nel lungo e articolato parere della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, analogo a quello redatto dalla Procura distrettuale di Torino ma parzialmente diverso da quello della Procura generale piemontese. Le frasi tra l’anarchico in sciopero della fame e gli esponenti della criminalità organizzata detenuti nello stesso reparto della prigione di Sassari, ascoltate e riferite in due diverse occasioni dagli agenti penitenziari, dimostrano che i contatti tra quei due mondi possono avere effetti controproducenti nella tenuta di uno strumento che gli inquirenti continuano a ritenere fondamentale nel contrasto alla mafia. Riservandolo però ai casi in cui risulta indispensabile. Ed è questa l’analisi che va fatta nel caso di Cospito. Avendo cura, in ogni caso, di evitare ulteriori interrelazioni tra un soggetto considerato comunque “altamente pericoloso” e detenuti appartenenti a gruppi criminali di rango medio-alto. “Attirare l’attenzione” - Nelle conversazioni ascoltate dagli agenti del Gruppo operativo mobile nel carcere di Sassari, oltre a quelle riferite nell’aula di Montecitorio dal deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, ci sono altre affermazioni attribuite a Cospito mentre parlava con lo ‘ndranghetista Presta. A quest’ultimo che lo incitava a “mantenere sempre l’andamento, altrimenti poi si dimenticano, bisogna sempre attirare l’attenzione, non è più come negli anni Ottanta”, l’anarchico avrebbe risposto: “Sì, ma ormai un colpo di Stato non serve neanche più, neppure con il fascismo si otterrebbe qualcosa, bisogna proprio cambiare la società”. Escludendo che l’anarchico abbia tendenze golpiste o fasciste, è presumibile che simili opinioni di tipo politico, se pronunciate in questi termini, possano riferirsi ad altre precedentemente espresse dal suo interlocutore. Del resto, un altro dei compagni di socialità a Sassari era Pietro Rampulla, condannato per la strage mafiosa di Capaci del 1992 ma in precedenza aderente al movimento neofascista Ordine nuovo. Il resto - dal cambiamento alla “lotta contro il 41 bis e contro l’ergastolo ostativo che non deve essere solo per me, noi 41 bis siamo tutti uguali”, agli altri brani rivelati pubblicamente quasi alla lettera da Donzelli alla Camera - sono cose che Cospito aveva detto e scritto pubblicamente fin dall’inizio della sua protesta. “La vendetta” - Nelle due relazioni inviate dal Gom è riportata anche un’altra frase che l’anarchico avrebbe detto a Presta, anch’essa in linea con le idee più volte espresse pubblicamente: “Io sto male fisicamente, ma psicologicamente sono contento di quello che sto facendo; gliela faccio pagare, anche perché se nella situazione che sono mi succede qualcosa, questi qualcosa dovranno pur pagare”. Pure al camorrista Francesco Di Maio Cospito ha ribadito “non deve essere una lotta solo per me”, ricevendo l’invito a insistere: “Questa miccia non deve esser spenta, noi ti siamo solidali”. Poi Di Maio, stupito perché “mai per nessuno aveva visto tali manifestazioni di solidarietà”, ha aggiunto (“ridendo”, sottolinea l’agente): “Nel caso anche noi faremo lo sciopero della fame”. Cospito gli avrebbe risposto che lui non poteva perché per digiunare “bisogna essere in salute”. E ancora: “Per vedere qualche risultato ci vorranno altri due mesi”. Il sospetto - Nel colloquio avuto ieri nel carcere milanese di Opera con il suo avvocato Flavio Rossi Albertini, l’anarchico ha discusso anche della diffusione di queste frasi: “Mi hanno teso una trappola”, ha commentato. Escludendo qualsiasi patto d’azione con i boss. Il suo digiuno è cominciato a fine ottobre (in occasione della prima udienza dove ha potuto spiegare a un giudice le ragioni dello sciopero della fame), e per due mesi la “socialità” non l’ha praticamente fatta perché dei compagni di detenzione uno era in isolamento diurno, un altro stava male e quasi non usciva dalla cella, e con il terzo non aveva un buon rapporto. Solo a fine dicembre, quando il digiuno andava avanti ormai da due mesi e dall’esterno del carcere cominciavano ad arrivare le prime reazioni dell’opinione pubblica e del mondo anarchico, c’è stato il cambio di compagnia con un mafioso, uno ‘ndranghetista e un camorrista. Nomi ritenuti abbastanza importanti nella gerarchia delle rispettive organizzazioni, che Cospito non conosceva prima. Con i quali c’è stata - com’era prevedibile, e forse inevitabile - l’interlocuzione sulle ragioni della sua protesta. Naturalmente condivisa da chi subisce il “carcere duro”. Cospito, il 41 bis, i boss mafiosi e il pericolo dell’incompetenza di Roberto Saviano Corriere della Sera, 3 febbraio 2023 I padrini in carcere cercano di usare l’anarchico come quando Riina paragonò se stesso a Enzo Tortora. Ciò che spaventa della vicenda Donzelli è la scarsa competenza, calata in un contesto quanto mai pericoloso. Donzelli riporta pubblicamente le informazioni dei Gom, che racconterebbero di rapporti tra Alfredo Cospito e membri della criminalità organizzata campana, calabrese e siciliana. In questi incontri, gli affiliati di potenti cosche criminali avrebbero incoraggiato Alfredo Cospito a proseguire la sua lotta contro il 41 bis. Se Donzelli avesse avuto esperienza di criminalità organizzata e di carceri avrebbe dedotto che proprio quella relazione dei Gom è la prova regina che mandare Cospito al 41 bis è stato un errore della ministra Cartabia. Un errore a cui andava immediatamente posto rimedio perché le organizzazioni usano queste falle per rinsaldare il loro potere e ottenere risultati. L’affiliato che direbbe (riporto le affermazioni diffuse): “Pezzetto dopo pezzetto, si arriverà al risultato” ovvero l’abolizione del 41 bis, è Francesco Di Maio detto “Ciccio ‘o luongo”, ras (ma non è un capo) del clan dei casalesi afferente alla fazione Bidognetti. Lo conosco bene. Francesco Bidognetti, il boss che lo ha scelto come suo killer fidato, è stato condannato per minacce camorristiche nei miei confronti (e nei confronti di Rosaria Capacchione, Raffaele Cantone e Federico Cafiero De Raho): è l’uomo che mi ha condannato a una vita sotto scorta 17 anni fa. Ebbene, Di Maio ‘o luongo è ovvio che cerchi strade per uscire dal 41 bis e per indebolirlo; quale occasione migliore se non appoggiarsi proprio a chi sta vivendo il regime di carcere duro illegittimamente? Questa è la prova che Alfredo Cospito al 41 bis non doveva starci, e la mia è una valutazione tecnica, non politica e nemmeno medica. Alfredo Cospito non c’entra nulla con il regime di carcere duro, e proprio per questa ragione viene avvicinato, perché può mostrare le contraddizioni del 41 bis lontane dalle motivazioni mafiose. Aver trasferito Cospito al 41 bis significa far perdere al 41 bis per reati di mafia la sua ragion d’essere. L’aver diffuso la relazione dei Gom, poi, ha dato la prova agli affiliati fuori dal carcere che esiste una via per demolire il 41 bis, e che i loro capi la stanno battendo dall’interno. La pena deve essere proporzionata al reato; del resto, non è che stupratori seriali, pluriassassini, torturatori scontino il carcere al 41 bis che è una eccezione presente nel nostro codice e nell’ordinamento penitenziario che serve esclusivamente a interrompere i rapporti con l’organizzazione criminale di stampo mafioso e impedire di egemonizzare le carceri dove si è detenuti. Cospito non ha alcuna organizzazione che risponda a lui e non ha alcuna risorsa per poter egemonizzare chicchessia in carcere. Sempre basando questa mia riflessione sulle informazioni diffuse da Donzelli, Cospito non avrebbe incontrato, nel passeggio, solo Di Maio, ma anche il killer di ‘ndrangheta Francesco Presta. Uomo delle cosche cosentine, ma con un comportamento militare aspromontano, anche Presta avrebbe esortato Cospito a continuare la sua protesta nonviolenta contro il 41 bis. In ultimo Cospito avrebbe incontrato anche Pietro Rampulla, detto “l’artificiere”, capomandamento di Mistretta. Fu militante neofascista di Ordine Nuovo e confezionò il tritolo che fece esplodere l’autostrada di Capaci per uccidere Giovanni Falcone. Non sappiamo cosa si sarebbero detti, ma chiaramente i mafiosi sono consapevoli che il 41 bis è un regime d’emergenza contraddittorio e possono farlo saltare solo se viene usato male. Il caso Cospito è l’occasione che, come inconsapevolmente rivelano Donzelli e Delmastro, aspettavano. Vale la pena raccontare come i mafiosi approfittino di ogni errore dello Stato. Riina utilizzò il clamoroso errore giudiziario che portò all’arresto e ai crimini di Stato perpetrati contro Enzo Tortora per dichiararsi perseguitato: “Mi avete fatto finire come Enzo Tortora”. Più lo Stato rispetta i diritti, più lo Stato è nella condizione di demolire il potere mafioso. Sapete cosa vogliono le organizzazioni? Che il carcere sia miseria, fame, abbandono. Vogliono poliziotti frustrati e violenti che costituiscano una minaccia per chiunque entri in carcere. Sapete cosa vogliono quando un borseggiatore, un topo d’appartamento o uno spacciatore vengono arrestati? Che siano riempiti di botte e maltrattati, che gli avvocati d’ufficio siano pessimi e i magistrati arraffoni e distratti. Perché così le organizzazioni criminali diventano l’unica garanzia possibile. Perché per essere protetti, avere dignità, ricevere difesa, bisogna passare per loro. Entri che hai rubato un motorino o hai spacciato un po’ di fumo ed esci affiliato, questo accade nel sistema carcerario italiano. I detenuti stranieri, poi, non li affiliano nemmeno, li arruolano e li rendono soldati. Sapete cosa è accaduto dopo il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020? Pestaggio in cui gli agenti violenti si sono ben guardati dal pestare affiliati alle organizzazioni di rilievo? È accaduto che ogni singolo detenuto è andato a cercarsi una protezione sotto cui vivere in carcere. Il 41 bis è in contraddizione con la vocazione della nostra Costituzione che prevede che ci sia il recupero del detenuto, la sua educazione e trasformazione; condivido quanto afferma la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e cioè che il 41 bis e l’ergastolo ostativo violino la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma sono allo stesso tempo consapevole che l’unico modo per interrompere i rapporti di potere con l’organizzazione criminale sia congelare le comunicazioni con l’esterno. Il 41 bis è un provvedimento eccezionale, al limite con la tortura, se si è deciso che, nonostante vada contro il dettato costituzionale, la sua applicazione in determinati casi può essere necessaria, è evidente che debba essere maneggiato con grande cura e con grandissima consapevolezza. Lo Stato deve essere autorevole, ed è autorevole quando è giusto. Concludo, perciò, smontando un’illusione diffusa, ossia che il 41 bis sia la soluzione, che attraverso il carcere duro si riesca a isolare il potere delle mafie o a disarticolarlo: magari fosse così. Mai dimenticare che le organizzazioni criminali, cito dati di Banca d’Italia, muovono oltre cento milioni di euro al giorno, e questo è solo il segmento illegale. Sanno esattamente come tutelarsi e come fare in modo che gli affiliati possano aggirare le pene. Con le collaborazioni di giustizia false o parziali, a cui possono porre un argine solo magistrati competenti e procure attente. La falsa collaborazione di giustizia è lo strumento primo dei boss per avere sconti di pena e far contenti tutti. Lo Stato è così fragile che un affiliato può pentirsi riportando poche e vecchissime circostanze e ottenere sconti di pena; ci sono in Italia addirittura figli di boss che collaborano con la giustizia i cui padri ancora comandano... incredibile, ma vero. Lo Stato, debolissimo di fronte a tutto questo, sbandiera spesso vittorie inesistenti, consente che si costruiscano carriere sul niente e lascia che l’opinione pubblica pensi, quando un boss viene arrestato o un affiliato decide di pentirsi, che si stia vincendo la battaglia. Sovente non è così perché la grande alleata delle mafie rimane l’incompetenza. Anche i magistrati chiedono regole per il trojan di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 3 febbraio 2023 Intercettazioni. L’indagine della Commissione giustizia del Senato. In un angolo rimasto al riparo dalle furiose polemiche sulla giustizia, la seconda commissione del senato continua il suo lavoro di indagine sulle intercettazioni. Le audizioni stanno portando alla luce soprattutto due cose. La prima: l’ultima riforma - Orlando 2017, entrata in vigore nel 2020 con modifiche di Bonafede - funziona abbastanza bene. Il meccanismo dell’archivio informatico segreto sotto la responsabilità del procuratore e la distinzione tra ascolti rilevanti e irrilevanti - solo i primi nella fase in cui gli atti diventano pubblici possono essere conosciuti - ha bisogno al più di piccoli correttivi, non di stravolgimenti. La seconda e più preoccupante scoperta è invece che proprio lo strumento più invasivo della privacy e potenzialmente più minaccioso dei diritti degli intercettati è sostanzialmente privo di regole adeguate e aggiornate. Si tratta ovviamente del “captatore informatico”, il famoso Trojan horse che può essere introdotto dalla polizia giudiziaria tramite società private in quello che per la legislazione tedesca è ormai riconosciuto come il “domicilio informatico” della persona. Un domicilio che in Italia è senza tutele. A dirlo ai senatori della commissione giustizia non sono solo i professori di diritto penale o i tecnici chiamati in audizione, ma anche i magistrati inquirenti e i giudici. Anche quelli che esordiscono rivendicando la necessità di confermare il trojan anche nelle indagini sui reati contro la pubblica amministrazione (insieme a quelli di mafia e terrorismo). Ripresa da molti è stata a segnalazione del procuratore nazionale antimafia Melillo: tutto quello che è diverso dall’intercettazione ambientale fatta mediante l’attivazione del microfono, ma è altrettanto o più sensibile come chat, mail, foto, video o come il sequestro dell’intero smartphone, non è oggi soggetto al filtro dell’archivio segreto. “Il captatore non è disciplinato dal punto di vista tecnico” ha detto ieri l’ingegnere informatico Giovanni Nazzaro. “La legge non si occupa di altro che di come vada acceso e spento il microfono”, ha aggiunto il professor Mitja Gialuz. Mentre per il presidente del tribunale di Palermo Antonio Balsamo “serve un sistema di garanzie adeguato alle potenzialità invasive del mezzo, oggi non c’è”. Anche il procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco ha segnalato dei problemi, specie per il ruolo totalizzante e senza possibilità di controllo delle società private alle quali le procure e la polizia giudiziaria si affidano. Durante la sua audizione i senatori di destra sono ricaduti nella tentazione, già vista con alcuni tecnici nelle settimane passate, di trasformare la commissione giustizia in un’aula del processo al processo Palamara, la prima e più illustre vittima del trojan a giudizio a Perugia per corruzione. In ogni caso Turco ha confermato: la procura di Firenze sta ancora indagando, da due anni, sul cattivo uso del trojan da parte della società Rcs che lo installò sul telefono di Palamara. “Indubbiamente il contratto con la procura di Perugia non è stato rispettato. Verifichiamo se ci sono risvolti penali”. Milano. Dal carcere di Opera una nuova occasione per i detenuti di Chiara Manetti lasvolta.it, 3 febbraio 2023 Diego Montrone, presidente della scuola di formazione Galdus, racconta del nuovo padiglione dedicato al reinserimento lavorativo: “Può dare indipendenza, dignità”. “Non ci piace chiamarlo “Sportello”: preferiamo immaginarlo come un servizio”. Montrone definisce così il nuovo progetto partito lunedì 30 gennaio tra le mura della Casa di Reclusione di Milano Opera. La struttura, aperta nel 1987, si trova una decina di km a sud di Milano e ospita circa 1.300 detenuti, ma un nuovo padiglione per altri 400 posti letto è in fase di realizzazione. In questi giorni si è parlato molto del carcere milanese, dopo la notizia del trasferimento di Alfredo Cospito, anarchico detenuto a Sassari e sottoposto al regime del 41-bis, in una stanza del Servizio assistenza intensificata per via delle sue condizioni di salute. È successo proprio nelle ore in cui veniva inaugurato il nuovo spazio nato dalla collaborazione tra la scuola di formazione di Galdus, l’Agenzia Metropolitana per la formazione, l’orientamento e il lavoro Afol Metropolitana e Regione Lombardia. Ne abbiamo parlato con Diego Montrone. In che cosa consiste questo servizio? Da esperti della formazione, ma anche delle politiche attive del lavoro, con le nostre attività garantiamo sostanzialmente un diritto del cittadino: avere servizi pubblici che ti aiutano a transitare da una situazione di difficoltà lavorativa o professionale fino ad arrivare a essere occupabile o addirittura inserito. Ecco, questo diritto e questa attività non raggiungevano ancora questa fetta di popolazione, ma sappiamo che il lavoro è un tassello fondamentale per il recupero e la ricostruzione della persona. Così, abbiamo messo insieme la nostra esperienza e quella di altri attori, maturata in 30 anni di attività nel territorio lombardo, e l’abbiamo portata anche a chi non ne fruiva, in un momento in cui il fabbisogno di personale competente o anche semplicemente di disposto a fare una professione è altissimo. Molte aziende o rappresentanze di aziende ci manifestano la necessità di professionalità e di lavoratori che poi non trovano. Da quali settori arriva questa richiesta? L’edilizia, alcuni aspetti della ristorazione come la panificazione, ma non solo, e tutti i servizi di back office: in particolare, stiamo lavorando con una società che ha diverse attività legate alla digitalizzazione. È evidente che lavorare con detenuti pone dei vincoli aggiuntivi, ma alcune strutture hanno già manifestato l’adesione non solo al loro inserimento, ma anche alla valutazione di queste persone da un punto di vista delle competenze, delle abilità e della motivazione al lavoro. La logica non è generare dei luoghi dove lavorano sono ex detenuti, ma partecipare anche al loro inserimento sociale, mettendoli in condizioni dove vivono una normalità che è solo positiva per loro. Avevate già collaborato con il carcere di Milano Opera? Svolgiamo attività dentro il carcere da più di 20 anni, ma mai prima d’ora avevamo realizzato un servizio permanente. Realizzavamo sporadici progetti che avevano un inizio e una fine, tutti più che dignitosi, belli, che hanno anche marginato dei grandi risultati, ma che coinvolgevano solo alcuni e solo in alcuni momenti. In questo caso, invece, l’attività è sempre disponibile e potenzialmente rivolta a tutti, perché ciascun detenuto può fruirne, a prescindere dalla propria condizione. È chiaro che questa può ridimensionare obiettivi e tipologie di intervento: se sono detenuti che tendenzialmente non usciranno mai dalla struttura penitenziaria, con loro si può fare un ragionamento di professionalizzazione per servizi che servono all’interno della struttura penitenziaria, quindi per un lavoro interno. Per le persone che invece possono uscire e avvalersi di permessi o particolari situazioni che gli consentono di uscire a lavorare, evidentemente si fa un altro tipo di ragionamento. Chiaro è che poi c’è una mediazione tra educatori interni che devono individuare le persone per cui il lavoro rappresenta un tassello positivo del proprio percorso: non è sempre la principale urgenza, e in quel caso sono persone che, magari, arriveranno ai nostri servizi in un secondo momento. Il carcere di Milano Opera ospita un centinaio di detenuti in regime di 41-bis. Per loro è previsto anche qualche attività inerente alla formazione? Ancora no, ma ci stiamo ragionando: in merito a questo progetto non è ancora stato avviato nulla, ma ci vogliamo e ci dobbiamo pensare. In qual caso, parlare di lavoro esterno è evidentemente impossibile. Però fornire le competenze, appassionarsi a un mestiere e al lavoro, che come dicevamo partecipa alla ricostruzione della persona, in alcuni casi è necessario. E rende ancora più urgente un servizio ad hoc. L’obiettivo è quello di rieducare per reinserire nella società. Ma la società, le aziende… Come rispondono? Ci si avvicina a chi decide di avvicinarsi: è innegabile che in alcuni contesti, anche magari per rispondere a dei precisi vincoli normativi, per alcuni c’è una preclusione iniziale. E di questo si prende atto, sostanzialmente. Per le aziende che aprono almeno alla riflessione, avviamo dei percorsi di conoscenza che possono verificarsi all’interno della struttura penitenziaria, oppure attraverso percorsi di tirocinio e stage che non coinvolgono formalmente l’impresa da subito, ma fanno scattare quella parte di “umanità” nel rapporto che poi, spesso, fa la differenza. E servono a misurare quanto sia superiore la motivazione di un detenuto: chi è nella parte conclusiva del suo percorso non solo detentivo, ma di riacquisizione del suo destino, vede nel lavoro il punto d’inizio di una nuova vita. Il lavoro è ciò che lo può portare fuori, che gli può dare un’indipendenza, una dignità. Su questo poggia tutta la sua speranza, diventa decisamente più motivato, attento e voglioso di dare il meglio nella professione. Mediamente chi arriva a quel punto del percorso ha un grado di motivazione e di apprezzamento da parte delle imprese che è molto alto. Avete anche attivato degli interventi formativi dedicati alla polizia penitenziaria? Quando si parla di comunità educante nella struttura penitenziaria, non si può immaginare che non coinvolga anche gli agenti: su alcuni aspetti, a favore dei detenuti, è fondamentale che partecipino. È una cosa analoga a quello che accade in diverse altre professioni, ed è importante che siano coinvolti perché hanno una relazione costante e continua con i detenuti, anche maggiore della nostra, e la loro presenza sul progetto di recupero è essenziale. Il carcere di Milano Opera è stato scelto per un discorso di continuità con i progetti precedenti, come il panificio che avete rilevato l’anno scorso, oppure c’è qualche altro motivo? Prevalentemente la ragione è quella: nelle strutture penitenziarie la presenza di una collaborazione e di un rapporto fiduciario con la direzione, gli educatori, e con tutto l’impianto di sicurezza, compresi gli agenti, è fondamentale. Non che non si possa costruire ex novo, però è anche un percorso inevitabilmente di esperienza e di attività svolte. La direzione svolge un ruolo determinante: non si può fare nulla senza il suo avvallo, ma ritengo che il direttore (Silvio Di Gregorio, ndr) non sia solo molto disponibile, ma abbia una passione nel tema del recupero e una tale convinzione che la detenzione deve rappresentare un’occasione per tutti per ricostruirsi, che ha generato, in questi 20 anni che siamo lì, tantissimi progetti e altrettante iniziative. Volterra, eletto carcere modello “Merito di una città che ci aiuta” di Ilenia Pistolesi La Nazione, 3 febbraio 2023 La direttrice Maria Grazia Giampiccolo: “Qui interlocutori e compagni di viaggio attenti al nostro lavoro”. Nessuna vita è vuota a perdere. Il criminale riabilitato, dati alla mano, ha l’80% di probabilità di annientare la recidiva del reato. Anche nel più duro degli orizzonti, e nel più spietato inferno che la pena infligge. A Volterra la rivoluzione copernicana del castigo si trasla nel’encomio partorito all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Firenze dove, scripta manent, i report sull’attività degli uffici requirenti del distretto di Firenze forniscono l’ultima istantanea dalla Fortezza. Un carcere-modello a livello toscano per la costellazione di progetti di trattamento e reinserimento. La relazione cita in particolare ‘Le Cene Galeotte’ e l’ultra trentennale esperienza teatrale della Compagnia della Fortezza. “Aspetti positivi del territorio toscano sono rappresentati dalla Casa di reclusione di Volterra, lodevole esempio di sinergia tra amministrazione penitenziaria e enti territoriali che fa del carcere, che pure presenta anch’esso rilevanti problemi di natura edilizia, una struttura viva del sul territorio e non un’area separata - si legge nel report sull’attività degli Uffici requirenti del Distretto di Firenze - in particolare offrendo ai detenuti continue e rinnovate occasioni di inserimento esterno: un elevato numero di programmi di trattamento insieme ai corsi scolastici di vario indirizzo superiore, al progetto ‘Cene galeotte’, e all’oramai nota a livello internazionale attività teatrale condotta dall’associazione Carte Bianche. Si segnala anche il progetto che prevede visite alla Torre della Fortezza con l’assunzione di 2 detenuti da parte della cooperativa ‘La Torre’ e anche quello relativo all’Orto urbano’ della Fortezza Medicea con 12 detenuti impiegati”. Maria Grazia Giampiccolo, direttrice del carcere di Volterra, arriva un altro e alto riconoscimento a una struttura carceraria dove la detenzione punta alla riabilitazione... “Siamo veramente felici. Qui ci sono progetti portati avanti da anni arricchiti dall’offerta scolastica, basti pensare al corso alberghiero. Al suo avvio, fu il primo in Italia di tipo misto, con studenti interni e esterni. È la soddisfazione di aver creato una sinergia con la città e percorsi individuali con i detenuti, ossia attenzione, ascolto e volontà nel risolvere i problemi del singolo”. Quali sono i punti di forza del carcere? “La città, Volterra: abbiamo trovato interlocutori e compagni di viaggio attenti al nostro lavoro e il personale carcerario, che porta avanti in maniera straordinaria i progetti”. Qual è la giornata tipo di un detenuto? “La mattina è dedicata alle attività lavorative, il pomeriggio alla scuola o a altri laboratori realizzati all’interno del carcere”. Le Cene Galeotte rappresentano una delle grandi chance di reinserimento nel lavoro: da inizio progetto, quanti sono i detenuti che hanno trovato un impiego nel mondo della ristorazione? “Una quarantina. Le ‘Cene’ sono un progetto che ha una grandissima rilevanza e che ha preso ancor più forza con l’avvio del corso alberghiero in carcere”. “Lettere dall’inferno. Per una pedagogia della detenzione”, il libro dell’ex Garante dei detenuti recensione di Giorgio Tabani ithacaeditoriale.it, 3 febbraio 2023 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” disse Voltaire. E, se aveva ragione, non potrà che far riflettere il libro scritto da Italo Tanoni, ripercorrendo i suoi cinque anni da Garante dei diritti dei detenuti per le Marche: lo ha presentato, insieme a Pietro Frenquellucci, presso la libreria Rinascita di Ascoli Piceno. “C’è un caso che umanamente pesa sulla mia coscienza, anche se feci tutto il possibile… Un senza tetto venne fermato alla stazione di Ancona, tornava da un pellegrinaggio a Pietralcina da Padre Pio. La polizia ferroviaria gli chiede i documenti, lui cerca nel suo borsone ma non li trova. Poco dopo, però, riesce a ripescare la carta d’identità: troppo tardi. Viene arrestato con l’accusa di false dichiarazioni. Si rivolse a me e, di fronte all’assurdità della situazione, mi attivai con alcuni avvocati di strada per ottenerne la liberazione. La ottenni in pochi giorni, ma troppo tardi: si era suicidato in carcere”. Il libro offre un’interpretazione dell’esperienza del carcere anche grazie alle centinaia di lettere, biglietti e testimonianze dirette dei detenuti ottenute per il particolare osservatorio di cui ha goduto l’autore. “Il Garante si rivolge a tutte le persone, italiane e straniere, detenute negli istituti penitenziari della Regione Marche o sottoposte a misure restrittive alternative alla detenzione. Opera per assicurare agli stessi soggetti l’erogazione delle prestazioni sanitarie a tutela della salute, l’istruzione, la formazione professionale, il miglioramento della qualità della vita, la conservazione del legame affettivo e familiare, il recupero e la reintegrazione sociale e l’inserimento nel mondo del lavoro. Fornisce inoltre al detenuto supporto nell’esercizio del diritto di accesso ad atti e documenti amministrativi. Segnala agli organi regionali e nazionali eventuali fattori di rischio o di danno dei diritti delle persone ristrette nella libertà personale e si attiva nei confronti dell’amministrazione interessata affinché questa assuma le necessarie iniziative al riguardo. Visita gli istituti di pena ed effettua colloqui con i detenuti”. La riflessione parte dalla nostra Costituzione che, all’art. 27 comma 3, dispone che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In questo l’autore è favorito dall’essere docente universitario di pedagogia e di sociologia, oltre che giornalista professionista. “La questione centrale risiede nel divario fra il carattere rieducativo richiesto dalla Costituzione e la realtà afflittivo-retributiva che la pena ha oggi. Insomma, bisogna pagare soffrendo, ma poi il risultato è che chi termina la sua pena esce e torna a commettere reati: il tasso di recidiva è al 70%!”. E questo lo si capisce con i numeri: “C’è in carcere un educatore ogni 80 detenuti e si tratta, perlopiù, di figure opache e burocratiche: si limitano a stendere relazioni”. Inoltre, dei “154 euro al giorno che ogni detenuto costa allo Stato, solo 35 centesimi sono destinati all’attività rieducativa”. Tutto resta sulle spalle dei volontari, che fanno comunque tanto, nonostante “siano sopportati a fatica, invece che vivamente sostenuti”. Sono loro a rendere possibili “le attività per il riscatto, per cambiare il modo di concepire la vita: sono attività catartiche, liberatorie (varie forme d’arte, cineforum, teatro). Penso ad esempio a Vito Minoia, esperto di teatro educativo inclusivo, che fa linguaggio teatrale diventa uno strumento privilegiato di intervento, grazie alle sue peculiarità creative e artistico espressive: si può così fuoriuscire dagli schemi imposti e individuare forme di conoscenza che aiutino considerevolmente il percorso interiore del detenuto”. Secondo Tanoni, occorre un diverso orientamento della pedagogia che rivalorizzi la figura dell’educatore (ancora di più nel minorile), formi adeguatamente la polizia penitenziaria e abbia il proprio baricentro nella persona del detenuto che, attraverso razionalità riflessiva, dovrà reinterpretare i comportamenti del suo passato. “Bisogna farla finita con la sottomissione degli internati, bisogna aprire gli istituti di pena verso l’esterno: le scuole dovrebbero avere un’importanza fortissima. Le esperienze che ho favorito (fra tante resistenze), quando sono continuative, riescono a dare moltissimo sia ai detenuti sia agli studenti coinvolti”. Il tema più presente negli scambi con i detenuti dell’allora Garante è quello degli affetti: “non ci sono più amici, familiari, amori. C’è poi la difficoltà di rendere agibile il diritto alla salute. Quindi lo spazio ristretto e sovraffollato (mi ricordo al carcere di Camerino c’erano 12 detenuti con un unico gabinetto): su 57mila detenuti i posti regolamentari sono 51mila, anche se sappiamo che di quelli conteggiati circa 4.000 sono indisponibili. In carcere c’è inoltre il problema del tempo, si ozia soltanto: sul totale, circa 10-15mila lavorano dentro il carcere e solo altri 2.500 fuori”. La questione del lavoro è centrale sia durante che dopo la pena, per il reinserimento nella società. A tutto questo occorre aggiungere la questione della violenza. Violenza fra detenuti, violenza fra detenuti e polizia penitenziaria. Il 2022 verrà ricordato come l’anno in cui ci sono stati più suicidi nelle carceri italiane: sono stati 84. Quasi tutti avvengono nei primi giorni della privazione di libertà: il trauma è troppo forte. Ci sono frequentissimi episodi di autolesionismo: “ci si cuce le labbra, si ingeriscono lamette”. Quello che fuori si fa fatica a capire è che: “Il detenuto non nega di dover scontare la pena, ma vorrebbe solo farlo in modo più umano”. Invece noi, oggi, ci limitiamo a scartare l’emarginazione e a confinarla nei luoghi di detenzione. “Oggi non ci vogliono nuove carceri ma la depenalizzazione di molti reati lievi, per i quali si mettono dietro le sbarre perlopiù stranieri; per il resto le celle sono troppo piene di imputati in attesa di giudizio”. Per il penitenziario di Marino del Tronto, Tanoni cita una visita dell’associazione Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale: “Un’unica direttrice per Ascoli e Fermo che viene in città due volte a settimana. Essere detenuti nel carcere di Ascoli equivale a una morte civile: non ci sono attività, gli spazio sono angusti, l’igiene è scarsa”. Il problema dei direttori, nonostante le immissioni in ruolo, è endemico. E la figura del direttore è la chiave di volta di tutto, se non ci sono numeri adeguati e con una formazione adeguata, la realtà del carcere è destinata a rimanere la stessa. “Su di me ha avuto un impatto fortissimo l’ingresso in carcere. E da lì ce l’ho messa tutta per scalfire questo sistema: migliorare la qualità della vita dei detenuti. Ho avuto davvero dei brutti momenti coi magistrati di sorveglianza… Ma le mie denunce non hanno sortito effetti, se non una volta nel caso del figlio di un poliziotto. Nel caso di un istituto di pena racconto un aneddoto: il presidente della Repubblica Napolitano riunì tutti noi Garanti e chiedendo cosa volessimo io risposi: ‘Far uscire i detenuti per lavorare’. E siamo riusciti a farlo in quel caso grazie alla sua intercessione, si tratta di detenuti che si trovano quasi a fine pena. Dopo di che ricordo le tante iniziative, in particolare con le scuole, che ho promosso. Sono riuscito a far realizzare i giornali dal carcere: progetti importantissimi per i detenuti e non solo. Far uscire dalle carceri le notizie e al cercare di coinvolgere la società esterna”. Per essere consapevoli, tutti. “Il ragazzo smarrito. Una storia vera”, di Ornella Giordano recensione di Roberto Dutto laguida.it, 3 febbraio 2023 Il cammino per ritrovarsi dietro le sbarre del carcere: dalla rottura con la famiglia e con la scuola all’approdo al crimine, l’analisi interiore di un ragazzo diventato presto adulto. Nel libro di Ornella Giordano la vita irrompe e si impone con crudezza trasformando le pagine in testimonianza sentita e incalzante di un percorso verso l’abisso con ritorno cercato con fermezza. Scritto in prima persona, il libro dà voce a un giovane, verrebbe da dire uno dei tanti perché non ha nome. C’è solo il suo smarrimento che è anzitutto, confessa, perdita dell’orizzonte giusto. Smarrito perché nel 1976 la sua vita si consegna a un viaggio pericoloso che lo conduce al crimine poi al carcere. Insieme è un’analisi interiore con cui questo ragazzo, presto diventato adulto, compie su di sé. Descrive le tappe della sua storia “da brivido”. Rilegge i suoi primi comportamenti di rottura con la famiglia, con la scuola. Atteggiamenti di rifiuto che nel crimine, dapprima sperimentato quasi come gioco esaltante, trova uno sfogo. Non si sottrae a una lettura dei propri passi. Ne riconosce gli errori. Ne sente il peso. Il carcere viene descritto con analoga immediatezza. Luogo duro, spietato, dove lui cerca di non deragliare ulteriormente. Non è facile: più di una volta ricorda quanto il fine pena coincida con l’ennesima ricaduta, fino all’ergastolo. Allo stesso tempo deve accorgersi quanto la solitudine, la chiusura nell’ingiustificato rancore, sia un pericolo. L’affetto, le attenzioni di altre persone gli restituiscono la consapevolezza di non essere abbandonato. Forse i suoi crimini non hanno spezzato definitivamente quei legami che lo uniscono a chi gli può voler bene. Ancora una volta è facendo appello alle sue forze, aprendo gli occhi su questa rete di relazioni che il giovane può ritrovare la strada giusta, tornare ad amare la vita. Stile diretto, privo di ogni ricercatezza formale, il libro lascia affiorare la vita e le riflessioni su di essa con quell’immediatezza che si respira nella consapevolezza del proprio naufragio congiunto all’urgenza di un possibile salvataggio. Il ragazzo smarrito, Ornella Giordano, ArabaFenice, 16 euro. Francia. Italiano 20enne “ufficialmente” suicida in cella. Ma i documenti raccontano un’altra storia di Simone Alliva L’Espresso, 3 febbraio 2023 Zone d’ombra nelle carceri francesi. La morte sospetta di un giovane sotto custodia cautelare nella prigione di Grasse. Che viene trovato impiccato. Ma gli audio e le lettere in nostro possesso, che pubblichiamo, fanno emergere omissioni, segreti e silenzi. “Non è possibile che Daniel si sia suicidato”. Proprio partendo da questa convinzione Branka Mikenkovic madre di Daniel Radosavljevic cittadino italiano di 20 anni, trovato impiccato nel carcere di Grasse in Costa Azzurra, porta avanti la sua battaglia per “la verità”. Non è la suggestione di una madre. Sono decine i carteggi, le telefonate clandestine, le videochat che L’Espresso ha esaminato e che raccontano una storia che sembra svelare un finale bugiardo. Ripercorriamo le tappe dell’arresto di Daniel fino alla morte-e anche dopo- seguendo i documenti, finora inediti. L’8 ottobre Daniele viene arrestato a Grasse, dopo un inseguimento dovuto al mancato rispetto di un ordine di fermata a un posto di blocco della gendarmeria. Ha 20 anni, un’adolescenza con precedenti per reati contro il patrimonio ma nessuna condanna da maggiorenne. Viene messo in custodia cautelare. Le accuse: inottemperanza all’ordine di fermo e tentato omicidio, a causa delle manovre pericolose durante la forzatura del posto di blocco. Ricostruzione contestata sin da principio dall’indagato. La scrittura per Daniel è terapia, da sempre. E quindi dalla cella scrive. Lunghissime missive alla famiglia, pensieri, annotazioni. “Uscito da qui voglio studiare per diventare educatore minorile”. Una calligrafia chiara e rotonda. Il 15 gennaio chiama per l’ultima volta la madre. È sereno. Il 18 gennaio il cellulare della madre squilla di nuovo. Dall’altro lato del telefono la direzione del carcere: Daniel è morto in mattinata. “Il detenuto Daniel Radosavljevic è suicidato per impiccagione durante il regime dell’isolamento, applicato più volte dal 16 gennaio, se pur in diverse sezioni”. Fine della comunicazione. “Daniel è stato ammazzato: chiedi le telecamere nel corridoio”. La videochiamata dal carcere - Poco dopo il telefono però squilla ancora. Daniel comunicava con la sua famiglia tramite un account Instagram “in comune” con i detenuti. È Daniel? Forse non è morto. Si sono sbagliati. Invece no, non è così: è un pensiero magico, questo. Daniel è morto. La conferma arriva da dietro le sbarre di Grasse: dall’altro lato del telefono un detenuto invita parenti a investigare: potrebbero esserci delle responsabilità in capo alla polizia penitenziaria. Ma non solo. Indica anche le telecamere che potrebbero aver ripreso la scena. È il 24 gennaio quando la signora Branka Milenkovic arriva al carcere di Grasse e ritira i beni personali del figlio. Chiede di poter visionare la salma. Sul corpo i segni che rimandano a un pestaggio. Chiede spiegazioni. Nessuna risposta. “Vogliamo la verità” dichiara la famiglia. Fonti e circostanze raccolte su L’Espresso in edicola, raccontano una storia di omissioni, segreti e silenzi. La famiglia ripete: l’indifferenza è un’offesa a chi crede nella Giustizia, a tutti i cittadini italiani che chiedono la verità sul caso di Giulio Regeni. Daniel Radosavljevic è un altro Giulio Regeni: morto in Francia. Morto in quel paese condannato 18 volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per le condizioni di detenzione degradante dei detenuti. Nel 2010, nello stesso carcere la morte un altro italiano, anche lui in circostanze mai del tutto chiarite e riconsegnato all’Italia senza organi. Si chiamava Daniele Franceschi. Daniele evoca Daniel. Nei nomi l’eco di un destino. Iran. Panahi annuncia lo sciopero della fame “fino a che non sarò libero” di Cristina Piccino Il Manifesto, 3 febbraio 2023 Il regista iraniano è detenuto dallo scorso 20 luglio, secondo i familiari il suo stato è critico. “Con amore per la mia terra e per il popolo dell’Iran”. Si chiude con queste parole la lunga dichiarazione con cui Jafar Panahi, pubblicata sul suo profilo IG dalla moglie, ha annunciato di avere iniziato lo sciopero della fame nella prigione di Evin dove è detenuto dallo scorso luglio. Il regista, che era già stato ripetutamente condannato per la sua vicinanza all’Onda verde, nel 2009, e per questo non poteva più uscire dal Paese, era stato arrestato per avere protestato contro l’arresto di due altri registi, Mohammad Rasulof e Mostafa Al-Ahmad che era seguito a quelli di molti artisti nei giorni precedenti. Panahi mentre stava parlando con alcuni esponenti delle autorità insieme ai legali dei detenuti è stato arrestato con riferimento a una sentenza pendente in modo illegale visto che ormai dall’accusa erano passati più di dieci anni. Il regista sperava di essere liberato su cauzione, come vuole la procedura legale, il regista avrebbe infatti avuto diritto a uscire di prigione in maniera provvisoria, fino a nuovi aggiornamenti sul processo. Le autorità, però, hanno negato tutto, portando avanti un trattamento privo di umanità e legalità. Da qui lo sciopero. “Oggi, come molte persone intrappolate in Iran, non ho altra scelta se non protestare contro questo comportamento illegale e inumano con quanto più caro è in mio possesso: la mia stessa vita. Rifiuterò di mangiare e di bere, e non accetterò alcuna cura fino alla mia liberazione. Forse almeno il mio corpo senza vita uscirà libero dalla prigione”. Il regista del magnifico “Gli orsi non esistono” si definisce “ostaggio del banditismo di regime e di una giustizia che capitola completamente a leggi arbitrarie”. Malato da qualche tempo, secondo i famigliari Panahi è oggi in una situazione psicologica sempre più critica.