Nordio in Aula difende il 41 bis: “Non è trattabile” di Simona Musco Il Dubbio, 2 febbraio 2023 Il ministro rinvia la decisione in attesa del parere del Pg di Torino. “Non cediamo alle pressioni”. “Se noi dovessimo solo dare l’impressione di cedere a una qualsiasi forma di pressione esterna, le fondamenta dello Stato di diritto e della nostra stessa democrazia scricchiolerebbero”. Il caso Cospito agita il Parlamento. E il ministro della Giustizia Carlo Nordio, chiamato a spiegare alle Camere la situazione sul dibattito innescato attorno all’anarchico al 41 bis da oltre 100 giorni in sciopero della fame, decide di imboccare la via della diplomazia e di non approfondire la vicenda, schermandosi dietro l’attesa del parere del procuratore generale della Corte d’Appello di Torino, che approderà sulla scrivania del Guardasigilli soltanto oggi. In mano al ministro c’è già quello della Direzione nazionale antimafia, guidata da Giovanni Melillo. Ma per “deferenza” nei confronti del procuratore generale tutto viene rinviato di 24 ore. Nella sua informativa, Nordio ripercorre le tappe di una vicenda “estremamente complessa”, un dibattito inasprito a seguito dell’intervento del vicepresidente del Copasir, il meloniano Giovanni Donzelli, che ha riferito alcune frasi di un dialogo tra Cospito e alcuni boss al 41 bis per puntare il dito contro il Pd, reo di aver fatto visita in carcere all’anarchico. Informazioni riservate, che tali sarebbero dovute rimanere, ma così non è stato. Nordio, sul punto, è costretto a glissare: pur avendo chiesto al capo di gabinetto di ricostruire l’accaduto, l’apertura di un fascicolo da parte della procura di Roma - dopo la denuncia del leader dei Verdi Angelo Bonelli - per i reati di rivelazione e utilizzazione del segreto di ufficio, ha reso impossibile dire di più sull’accaduto, “per il doveroso rispetto del lavoro degli inquirenti”. Parole che hanno fatto rumoreggiare e non poco l’Aula, scatenando l’ira della deputata dem Debora Serracchiani. “Quello che è accaduto è di una gravità inaudita - ha tuonato -. Da questi comportamenti viene messa in pericolo la sicurezza nazionale. Basterebbe questo ad allontanare dai ruoli che ricoprono sia Delmastro e Donzelli”, ha aggiunto. L’intera informativa è dunque incentrata sul caso del detenuto al 41 bis, in attesa, da un lato, della pronuncia della Cassazione e della Corte costituzionale e dall’altro di una risposta di via Arenula sull’istanza presentata dal suo legale, Flavio Rossi Albertini. Il decreto che ha disposto il carcere duro per Cospito, ha ribadito il ministro, è stato firmato dall’ex ministra Cartabia a seguito della richiesta della Dda di Torino e della Dna, che avevano segnalato “emergenze istruttorie dalle quali risulta che il detenuto ha fornito una positiva dimostrazione di essere perfettamente in grado di collegarsi con l’esterno, anche in costanza di detenzione, inviando documenti di esortazione alla prosecuzione della lotta armata di matrice anarchica-insurrezionalista”. In attesa delle mosse della magistratura, rimane in ballo l’aspetto politico. E qui, ha sottolineato Nordio, la situazione “è più complessa, perché questa normativa è stata più volte mutata per quanto riguarda la competenza del ministero della Giustizia e l’opinione prevalente di oggi è che il ministro non possa pronunciarsi se prima non ha acquisito i pareri delle autorità giudiziarie competenti”. Una convinzione in qualche modo smentita dal presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick e dal magistrato antimafia Sebastiano Ardita, che in un confronto in diretta su Rai News hanno sostenuto il potere di revoca in capo al ministro. Anche perché la soppressione, operata dall’allora Guardasigilli Alfano, dell’esplicito richiamo, nella norma, a tale facoltà avvenne solo in quanto ultronea rispetto all’ovvio potere di revoca che un’autorità pubblica può sempre esercitare rispetto ai propri atti. Ma un altro capitolo è quello sanitario, date le condizioni di salute ormai critiche di Cospito. E solo tre giorni fa, nonostante gli appelli del medico del detenuto, il ministero ha deciso di trasferire l’anarchico nel centro sanitario del carcere di Milano Opera, più attrezzato per far fronte a situazioni di criticità. Il tutto mantenendo il regime del carcere duro. “Noi avevamo avuto un’indicazione dell’Asl di Sassari che definiva tutto sommato la situazione sanitaria accettabile, discreta - ha spiegato Nordio -. Ma essendo venuto meno un parametro elettrolitico, per tutela massima del detenuto abbiamo ritenuto di inviarlo, nello stesso giorno, nella migliore struttura carcerosanitaria italiana”. Non si tratta di un trattamento di favore, ha tenuto a precisare il ministro, secondo cui “non esiste un 41 bis di Serie A o di Serie B”. Per poi aggiungere: “Si può discutere a lungo se il 41 bis sia una norma da rivedere o da mantenere, si può discutere se possa o debba essere applicata ad autori di un certo tipo di reato o di un altro. Ma una cosa è certa: una volta che è stata stabilita una regola, una volta che è stata approvata una legge, questa legge è uguale per tutti”, ha precisato. Così come identica è l’attenzione per la salute di ogni detenuto. Da qui la risposta a chi, nei giorni scorsi, ha avvisato il governo del rischio di trasformare Cospito in un martire: “Lo stato di salute di un detenuto non può costituire elemento di pressione nei confronti dello Stato per modificarne lo status di detenzione - ha sottolineato -. Se noi accedessimo al principio che un deperimento dell’individuo sottoposto al 41 bis dovuto al destino o dovuto alla volontà di chi lo provoca, fosse seguito da un automatico o, comunque, anche da un riflettuto mutamento di questo stato di detenzione, apriremmo la porta a tutta una serie di pressioni nei confronti dello Stato da parte di altri detenuti che si trovano nella stessa condizione”. Dunque nessun cedimento, anche di fronte alla possibile morte di Cospito e di chi, come lui, è pronto ad abbracciare la stessa forma di protesta. E nessun passo indietro rispetto al 41 bis, in questo momento “un elemento normativo non trattabile”, ha concluso Nordio. “La possibilità di mutare in questo momento questa normativa è inesistente”. Ancor di più “se noi dovessimo collegare questo eventuale mutamento alla situazione di disordini che si sono creati in questi giorni nei confronti dello Stato. Solo immaginare che possa cedere al ricatto sarebbe un’offesa allo Stato di diritto, e anche alla sua sopravvivenza”. Il garantismo del “buttiamo la chiave” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 2 febbraio 2023 Non importa quante volte gonfi il petto e proclami che “lo Stato non cede ai ricatti” e che “il governo non arretra di un centimetro”, la destra ha un’idea molto misera della Repubblica che si trova disgraziatamente a governare se è convinta che lasciar morire uno sciagurato in carcere sia l’unico modo per “non far scricchiolare le fondamenta della democrazia”. Solo questo ha detto ieri in Parlamento, nella inutilmente attesa informativa sul caso Cospito, il ministro Nordio. I cui primi cento giorni dimostrano quale abisso separi l’azione concreta dal bofonchiare quotidiano sui giornali. Non ha detto altro il ministro guardasigilli. Non ha detto se muoverà un dito per impedire che Cospito si lasci morire. Né se glielo lasceranno muovere per frenare il sottosegretario che ha usato atti riservati del ministero per alimentare la propaganda di Fratelli d’Italia. Su Cospito, tre settimane dopo la richiesta della difesa di revocare il 41 bis, invece di spiegare cosa intende fare, Nordio si è perso in un patetico balletto di carte: il procuratore generale di Torino ha chiesto di dare il suo parere sulla revoca, il ministro ha risposto che aspetta quel parere, il procuratore ha replicato che non è ancora pronto. Sul sottosegretario Delmastro “la materia è complessa e delicata”, “sono possibili diverse interpretazioni”, “la procura indaga”. Un altro niente. La vicenda, però, parla da sola. Che al pupillo di Giorgia Meloni, Donzelli, sia consentito di ingrassare con carte riservate la sua misera polemica politica chiude il discorso sulla presunta classe dirigente della destra e sulla sua adeguatezza. Ma quel che più importa fa definitiva luce sulla cultura delle garanzie di questa destra, capace di strillare contro l’eccesso di intercettazioni, contro la loro diffusione e contemporaneamente di sventolarne il contenuto nell’aula parlamentare. È la stessa doppiezza del ministro Nordio che annuncia un freno al populismo penale ed esordisce con il decreto rave. Il fatto è che il garantismo si è attaccato al corpo della destra come una piuma nel vento. La sua origine da quelle parti ha il nome e cognome di un accidente storico - Silvio Berlusconi - e una motivazione, la convenienza. È il garantismo del buttiamo la chiave, la chiave delle celle che rinchiudono gli altri, quello che tiene insieme soprattutto Salvini e Meloni, la cui cultura repressiva e patibolare spunta fuori a ogni curva. D’altra parte lo stesso accidente storico ha confuso, c’è da temere una volta e per tutte, la sinistra. Che ha abbandonato trent’anni fa la capacità di critica dell’azione giudiziaria che per esempio questa vicenda richiederebbe tutta. Non c’è bisogno di parlare del Movimento 5 Stelle, i cui rappresentanti in parlamento hanno ovviamente interpretato gli eventi come una gara muscolare: “Nessun cedimento al ricatto di terroristi e mafiosi”. Ma lo stesso Pd, intimorito dall’accusa di cedevolezza, si è affrettato a giurare di non aver mai messo in discussione il 41 bis né in assoluto né per Cospito. Quando invece è precisamente lì che sta il punto. Non è infatti la disperazione suicida di Cospito a mettere in discussione il 41 bis. Ma il fatto che siano passati trent’anni da quando il regime di quasi totale isolamento è stato introdotto (e venti da quando è stato stabilizzato), che i suoi effetti importanti li abbia già prodotti, che per considerarlo compatibile con la Costituzione la Corte costituzionale abbia dovuto ripetutamente correggerlo e limitarlo, che la Corte di giustizia europea ci abbia sanzionato per il modo in cui lo applichiamo. Che, soprattutto, ne sia stato consentito un utilizzo quasi routinario, fuori dall’ambito che lo giustifica, tanto che negli ultimi quindici anni i ristretti al 41 bis sono stati stabilmente più di quanti erano negli anni Novanta del secolo scorso, quando fu introdotto come misura emergenziale antimafia. È appunto la cultura dell’emergenza dalla quale non si riesce a uscire. Vale per i rave come per il terrorismo. Per un boss della mafia come per un anarchico che non poteva parlare a nome di nessuno, trattato invece - ben oltre le sue comunque gravi responsabilità - come il capo di un’organizzazione tentacolare. Come sempre, le insidie maggiori alle leggi, anche alle migliori, se l’articolo 41 bis è mai stato una di quelle, vengono da una loro applicazione distorta. Oggi il messaggio di Cospito all’esterno non esiste o meglio è soltanto il suo digiuno suicida. Per fermarlo davvero serve salvargli la vita. Lo capisca anche Nordio. Allargare lo sguardo oltre il carcere di Opera di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 2 febbraio 2023 In primo luogo va ricordato che il codice penale in vigore, compreso il reato di cui all’articolo 285, è intriso di cultura politica illiberale. Per il delitto di strage, devastazione e saccheggio, nella sua originaria versione, era prevista addirittura la pena di morte. Cospito, anche a causa degli irrigidimenti previsti per i recidivi all’interno dell’orribile legge Cirielli del 2005, dovrebbe scontare la pena dell’ergastolo, pur non avendo ammazzato nessuno. Una vera anomalia - in pieno contrasto con quel principio di legalità in senso stretto che ci ha insegnato Luigi Ferrajoli - a cui si spera la Consulta metta riparo. Antigone depositerà un suo atto di intervento davanti alla Corte Costituzionale. Il prossimo 13 febbraio lo presenteremo alla Fondazione Basso a Roma insieme a Juan Patrone e Franco Ippolito. La legge Cirielli, già in parte smantellata da giudici e legislatore, merita il colpo finale. In secondo luogo vi è il tema dell’ergastolo, e del sotto-insieme dell’ergastolo ostativo. Era il 1998 quando il Senato votò per l’abolizione della pena perpetua. La Camera dei Deputati, però, non fece fare passi in avanti al disegno di legge. Si scatenò un inferno mediatico contro la possibile abolizione dell’ergastolo, a cui Antigone lavorava con la sua campagna “Mai dire mai”. Il successivo progetto di riforma del codice penale diretto da Giuliano Pisapia non arrivò neanche in parlamento. Bisognerebbe rileggere le pagine straordinarie di Vittorio Foa in Bisogna avere visto dove scriveva che la pena carceraria dovrebbe avere una durata non superiore ai cinque anni. Lui il carcere l’aveva vissuto e sapeva cosa significava lo scorrere del tempo in prigione. Più di recente la Corte Europea dei diritti umani e la Corte Costituzionale hanno messo in discussione l’ergastolo ostativo, ossia l’ergastolo senza speranza di uscita al quale sono oggi soggetti circa i due terzi del totale degli ergastolani. E di ieri la notizia che quattro detenuti in regime di ergastolo ostativo hanno presentato ricorso alla Corte Europea sostenendo che il recente decreto-legge n. 162 del 2022 sarebbe in contrasto con quanto disposto dalla stessa Corte con la sentenza Viola del 2019. In terzo luogo, vi è il tema del regime detentivo di cui all’articolo 41-bis, secondo comma, dell’Ordinamento Penitenziario, introdotto nel 1992. Di fronte alle sue asperità sono intervenute le Corti per ridisegnarne i contenuti vessatori, senza però mai mettere in discussione la differenziazione di regime. Esso è, per esperienza empirica, un regime che può produrre effetti devastanti dal punto di vista psico-fisico, tanto più nei casi di durata prolungata. Originariamente, nella consapevolezza della sua eccezionalità, il regime era provvisorio. Solo successivamente è stato stabilizzato. Nel tempo i numeri dei detenuti cosiddetti 41-bis sono cresciuti ingiustificatamente: erano 543 nel 1993, all’indomani dello stragismo mafioso, e sono addirittura 728 oggi. Ci sono detenuti che si sono fatti decenni di carcere in questa condizione. Il 41-bis non è stato pensato nel 1992 per recludere un detenuto come Alfredo Cospito. Aveva ben altri obiettivi. Per questo, in auto-tutela, le autorità ministeriali e giudiziarie dovrebbero revocare la misura nei suoi confronti. Una decisione che non sarebbe un cedimento al ricatto di chi usa la violenza. La forza del diritto è proprio quella di interrompere il circolo vizioso, inaccettabile e tragico, della violenza (verso le persone e le cose), differenziandosi da essa. Infine c’è il tema della tortura. 41-bis e tortura hanno trovato una sovrapposizione solo in alcuni episodi davanti ai giudici: ricordo i casi Labita e Indelicato. Eravamo a Pianosa immediatamente dopo gli arresti per le stragi e gli attentati mafiosi del 1992 e del 1993. Fu Sandro Margara a sollevare il caso delle torture subite dai due detenuti e arrivò la prima sentenza della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia per violazione dell’articolo 3 (che proibisce la tortura). Da allora le condanne per tortura (a tutti i livelli) hanno riguardato violenze commesse verso detenuti comuni o nei confronti degli attivisti presenti a Genova nel 2001. Proprio ieri ha fatto un passo in avanti l’inchiesta per le torture nel carcere di media sicurezza di Torino, dove Antigone si è costituita parte civile. *Presidente di Antigone Le parole che Nordio ha dimenticato di dire contro il modello securitario della destra di governo di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 febbraio 2023 Cospito, la fermezza, il diritto. Bene l’intervento del ministro sul 41-bis che non si tocca, ma una politica con la testa sulle spalle dovrebbe ricordare che difendere le garanzie per tutti, anche per i criminali, è un dovere non trattabile dello Stato. Sarebbe stato molto prezioso, oggi, dai banchi del governo, ascoltare dalla bocca di un ministro ultragarantista come Carlo Nordio una qualche frase su un tema che l’attuale Guardasigilli conosce bene e che, nella vita precedente, l’ex magistrato ha spesso denunciato: l’orrore di un paese che sceglie di imboccare con forza la strada del securitarismo giudiziario. C’è stato un tempo in cui Nordio ricordava spesso che è nel rapporto con il carcere che si misura la capacità della politica di rispettare lo stato di diritto. E che è proprio sul tema delle carceri che si misura la differenza tra una politica che sceglie di difendere il garantismo e una che sceglie invece di ammiccare al giustizialismo. La pena, diceva un tempo Nordio, “deve essere prima di tutto equilibrata, quindi deve essere razionale, non ci può certamente essere giustizia attraverso la richiesta di una pena esemplare e se proprio dobbiamo dirla tutta”, diceva Nordio, “il fine pena mai non è compatibile, al fondo, con il nostro stato di diritto”. Nordio sa quanto sia importante, per un paese che ha a cuore il sistema a difesa delle garanzie, evitare di soffiare sul fuoco del securitarismo, quando si parla di carceri, e per questo è stato sorprendente vederlo in Parlamento, durante la sua informativa alla Camera sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito in sciopero della fame da 105 giorni, sorvolare su una questione che il partito di cui fa parte ha scelto di abbracciare in modo totalizzante: la trasformazione in amici dei criminali di chiunque si occupi dei diritti dei carcerati. Bene ha fatto Nordio, naturalmente, a dire che il 41-bis “è una legge dello stato e costituisce un elemento normativo non trattabile”, che “la possibilità di mutare questa normativa è inesistente” e che “lo è ancora di più se dovessimo collegare questo mutamento ai disordini che si sono creati in questi giorni da parte degli anarco insurrezionalisti”, disordini che coincidono con “atti di intimidazione nei confronti dei quali lo stato deve avere la massima fermezza”. Ma male ha fatto il ministro a perdere un’occasione buona per ricordare alcuni fatti, che sarebbero stati utili anche al suo collega di partito, Giovanni Donzelli. Per esempio che non necessariamente chi si occupa degli abusi del 41-bis sta cercando di fare un favore ai terroristi. Per esempio che non necessariamente chi chiede di rivedere l’ergastolo ostativo sta chiedendo di venire incontro alle richieste dei mafiosi. Per esempio che non necessariamente chi va a trovare un carcerato deve condividere le idee di quel carcerato. Per esempio che non necessariamente chi si occupa di diritti dei carcerati sta scegliendo di indebolire il sistema della giustizia italiana. Per esempio che non necessariamente chi difende un indagato sta sposando una tesi innocentista in un processo. La deriva securitaria della giustizia italiana, che Nordio conosce bene, può apparire come un tema secondario rispetto a un tema più grande, che coincide con la necessità dello stato, di fronte alle minacce degli anarchici, di mostrare la sua fermezza. Ma una politica che sfrutta un caso come quello di Cospito per ricordare che ogni cedimento sul tema del carcere duro significa voler fare il gioco dei mafiosi, che ogni discussione sulle garanzie di un carcerato significa voler prendere le parti di quel carcerato e che ogni tentativo di ragionare sugli eventuali abusi nell’applicazione di una legge significa voler fare il gioco di chi quella legge la vuole modificare è una politica votata più alla difesa dello sciacallaggio che alla difesa del garantismo. Le garanzie per chi si trova in carcere non sono un elemento accessorio del nostro stato di diritto e di fronte alla possibilità che a un criminale, come è Cospito, possa essere riconosciuto un diritto, come quello di non trovarsi al 41-bis, una politica con la testa sulle spalle dovrebbe ricordare che la fermezza di uno stato è anche lì: nella lotta per la difesa delle garanzie per tutti, anche per quelli che la politica sogna di far marcire in galera. Cospito: “Voglio vivere”. Ma Nordio prende tempo di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 febbraio 2023 Acquisito il parere dell’antimafia, si aspetta il Pg. Che aveva già chiesto la verifica. L’anarchico “è pronto ad interrompere lo sciopero della fame se dovessero sospendergli il 41 bis”. Appello al ministro di Amnesty International, Antigone e A buon diritto. È una non-informativa, quella che Nordio presenta in Parlamento ai deputati e ai senatori che al Guardasigilli avevano chiesto di riferire sul caso Cospito e sul procedimento di revoca del 41 bis avviato a gennaio presso il suo ministero di Giustizia dal legale dell’anarchico rinchiuso nell’ala sanitaria del carcere di Opera-Milano a causa delle gravi conseguenze dello sciopero della fame intrapreso il 20 ottobre scorso. Ci si aspettava almeno qualche particolare in più rispetto alla conferenza stampa del giorno prima, e invece niente. Il parere della Direzione nazionale antimafia - “è vero”, ha ammesso ieri Nordio - è stato già acquisito, ma cosa contiene non è dato ancora sapere. Mentre il punto di vista del procuratore generale di Torino, che martedì aveva già trasmesso una lunga e dettagliata ricostruzione del caso, sarà completato oggi. E malgrado non sia prescritto da nessuna norma che quei pareri debbano essere vincolanti, come spiega l’avvocato di Cospito Flavio Rossi Albertini e ha confermato lo stesso Nordio in conferenza stampa, il ministro preferisce aspettare ancora. In un’impasse che, più della “fermezza”, fa trasparire imbarazzo per una situazione che, dice il Guardasigilli, “è stata aggravata dall’ondata di violenze e attentati” registrati in questi giorni in supporto al detenuto. “Noi non abbiamo mai messo in discussione la necessità di mantenere questo istituto - quasi si giustifica l’inquilino di Via Arenula - L’articolo 41bis è stato approvato a suo tempo, è una legge dello Stato, per noi costituisce in questo momento un elemento normativo non trattabile nei confronti di chi si trova nelle situazioni per le quali, secondo la normativa vigente, debba essere applicato. Quindi, la possibilità di mutare in questo momento questa normativa è inesistente. Allo stesso modo, direi che ancora di più è inesistente, se noi dovessimo collegare questo eventuale mutamento alle situazioni di disordine che si sono create in questi giorni nei confronti dello Stato”. È un fatto però, stando a quanto riferisce l’avvocato Rossi Albertini, che la procura generale di Torino lo scorso 14 dicembre ha proposto al Tribunale di sorveglianza di Sassari di “verificare la compatibilità di Alfredo Cospito con il regime detentivo” per ragioni di salute, e “il rigetto è stato notificato sabato scorso”. A proposito di pareri. Ma, avverte il difensore, Cospito “rifiuta l’ipotesi di ottenere una misura temporanea che attenui le asprezze del 41 bis per poi ripristinarle” in un secondo tempo, al migliorare delle sue condizioni di salute. Ieri però ad invocare il Guardasigilli a mostrare più coraggio e autonomia rispetto alle - pur irricevibili - minacce e intimidazioni, sono state tre organizzazioni umanitarie del calibro di Amnesty International, Antigone e A buon diritto, che chiedono a Nordio di revocare “immediatamente” con atto proprio il 41 bis all’anarchico, perché “la possibilità della morte di Cospito in custodia dello Stato è drammatica”, e “la pena - ricordano - secondo il dettame costituzionale non deve mai essere contraria al senso di umanità”. “Io voglio vivere”, avrebbe detto Cospito ieri al consigliere regionale della Lombardia di +Europa/Radicali, Michele Usuelli, che si è recato in visita al carcere di Opera. Lo conferma anche il suo avvocato: “Non ha una vocazione suicida, non vuole morire ed è pronto ad interrompere lo sciopero della fame se dovessero sospendergli il 41 bis”. “Mi è parso vigile, reattivo e respira regolarmente, mi ha detto che gli mancano moltissimo i fumetti”, ha riferito il consigliere Usuelli. “Ho chiesto a Cospito di condannare le azioni violente di questi giorni, che ci allontanano dalla possibilità di ottenere una revisione del 41bis. Non mi ha detto di approvare questi gesti, ma prevalendo il suo essere anarchico, non si sente di dire nulla a chi li sta compiendo, nemmeno di condannarli - prosegue Usuelli - Per ora non se la sente di mandare messaggi. Avverte la responsabilità della sua iniziativa sul 41 bis, anche se capisce la necessità di impedire la comunicazione tra quel tipo di detenuti e l’esterno”. Cospito, si decide tra 33 giorni ma per lui potrebbe essere troppo tardi di Luigi Manconi La Repubblica, 2 febbraio 2023 L’anarchico è al giorno numero 106 di sciopero della fame contro il 41 bis. E ha perso 45 chili e 600 grammi di peso. La Cassazione deciderà però sulla revoca di questa misura tra più di un mese. Ecco i quattro punti fermi del caso che divide l’Italia. Bollettino medico: Alfredo Cospito digiuna da 106 giorni e ha perso 45 chili e 600 grammi. La Cassazione deciderà sulla revoca del regime di 41 bis, cui è sottoposto, tra 33 giorni, quando è altamente probabile che il suo corpo già avrà ceduto. Ricordo che Bobby Sands, dirigente dell’Ira, morì in un carcere britannico dopo 66 giorni di sciopero della fame; e rammento - circostanza inaudita quanto ignota pressoché a tutti - che, all’interno del sistema penitenziario italiano, dal 2009 a oggi, hanno perso la vita a seguito di un digiuno quattro detenuti. Tra essi Salvatore Meloni, leader indipendentista sardo, in carcere per reati fiscali politicamente motivati. Ora, per Cospito, le alternative sono due: o sopravvivrà fino alla prima settimana di marzo, quando la Cassazione deciderà sulla revoca, oppure dovrà essere il ministro della Giustizia Carlo Nordio ad assumersi la responsabilità di una scelta di ora in ora più drammatica. Intanto, è opportuno indicare alcuni punti fermi. 1. Il regime speciale del 41 bis non è (non dovrebbe essere) il “carcere duro”. Secondo la legge, quella tipologia di detenzione ha una e una sola finalità: recidere i legami tra il detenuto e l’organizzazione criminale esterna cui apparterrebbe. Tutte le altre misure che non rispondano a tale scopo e che rendono la carcerazione più afflittiva, punitiva e coercitiva, non essendo previste, risulterebbero illegali. Ad esempio, proibire ad Alfredo Cospito di tenere in cella le foto dei genitori defunti, se non dopo che fossero state riconosciute dal sindaco del loro paese, a quale requisito di sicurezza risponderebbe? In realtà, l’intero affaire Cospito può ridursi a una sola domanda: il trattamento differenziato del 41 bis, nel suo caso, è coerente con la lettera e la sostanza della legge? Ed è misura adeguata e soprattutto proporzionata alla condizione giudiziaria e alla caratura criminale del detenuto? Ricordo che ben due indagini della Direzione distrettuale antimafia di Perugia e di Roma hanno escluso la sussistenza di un legame di associazione tra Cospito e gruppi anarchici armati. E che nella motivazione di una sentenza della Corte d’Assise di Roma (13 dicembre 2022), si legge: non sono “obiettivamente rintracciabili direttive che Cospito fornisca dal carcere”. 2. Se, sotto il profilo del diritto, il “caso Cospito” può essere riassunto in quella esclusiva domanda (è congruo il provvedimento applicatogli?), tutto il resto dello scenario va ricondotto alla sua giusta misura: l’ideologia sovversiva, il rifiuto delle regole della democrazia, le “cattive compagnie” e l’attività simil-terroristica di quegli sciagurati che si dichiarano suoi fan non devono alterare il giudizio. Cospito va considerato come un condannato tra gli altri al quale vanno applicate le regole generali previste dal sistema penale e dall’ordinamento penitenziario. Se così si facesse, si scoprirebbe agevolmente che “la mitizzazione” di Cospito è opera più di coloro che lo combattono che di coloro che dicono di sostenerlo. Due esempi bastano. Attribuire all’anarchico, partendo da alcune frasi smozzicate, non si sa come trascritte, sgangheratamente riferite in un’aula del Parlamento, “un ruolo di cerniera” tra Anarchia e Mafia appare davvero risibile. E presentare il suo digiuno come una macchinazione con obiettivi differenziati e sofisticata tempistica tradisce quanto sia radicata la più totale inconsapevolezza di cosa sia il carcere, i suoi meccanismi e le sue procedure. Così come appare fin troppo ovvia “la rivelazione” che Cospito vorrebbe non solo la revoca del 41 bis per sé, ma addirittura l’abrogazione di quella norma per tutti. Bella scoperta! È questo il fondamento stesso di qualsiasi azione di lotta: dall’obiettivo di un aumento salariale alla non punibilità dell’interruzione volontaria di gravidanza, battersi per il proprio interesse è sempre un battersi per un obiettivo collettivo comune. Ancora: se la persona più mite e assennata del mondo, l’ex procuratore Gherardo Colombo, ritiene incostituzionale il 41 bis, bisognerebbe accettare il fatto che l’abrogazione di tale misura possa essere oggetto di discussione pubblica. Pure se penso che in realtà, considerate le posizioni di pressoché tutto l’arco parlamentare, quello stesso regime, lungi dal venire cancellato, sia destinato a essere ulteriormente appesantito. 3. C’è qualcosa di più primitivo del comportamento della coppia Donzelli-Delmastro: ed è il senso del comunicato del governo reso noto domenica scorsa. Vi si trova una concezione puerile e rissosa del ruolo delle massime istituzioni. Il governo dichiara di non voler scendere a patti con gli anarchici che compiono attentati incendiari e di non intendere cedere al loro ricatto. Sembra di sognare. Ma il governo democratico di un Paese (pardon, di una Nazione) cosa mai ha a che fare con quei facinorosi, tanto da rivolgersi loro affermando di non voler trattare? Le istituzioni democratiche hanno l’imperativo morale di trattare, sì, ma con se stesse: di verificare costantemente, cioè, se i loro atti rispettino i principi dello Stato di diritto, i valori della Costituzione, le regole del processo e dell’esecuzione penale. 4. Questa è, per molti versi, una storia di corpi. Il corpo ferito di Roberto Adinolfi, dirigente di Ansaldo Nucleare, colpito da una pistolettata di Cospito nel 2012. Il corpo dello Stato, rappresentato in particolare dal sistema del carcere e da quella sua forma di prigionia assoluta che è il 41 bis. Un corpo dello Stato che custodisce e controlla, umilia e degrada l’organismo e la psiche, produce deprivazione sensoriale ovvero mortificazione dei sensi (vista, udito, gusto...), determina patologie, nevrosi, autolesionismo, suicidi. Infine, il corpo di Cospito, che “si autodigerisce” (parole del suo medico Angelica Milia) per sopravvivere. E per dare ciò che ne resta a sostegno di una battaglia la cui sconfitta è possibile. Alfredo Cospito e “restare umani”: Costituzione e democrazia di Alessandra Algostino Il Manifesto, 2 febbraio 2023 La Carta costituzionale pone al centro la persona, la sua dignità, i suoi diritti. Elemento primo della dignità è il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. La dignità della persona, intesa come suo “pieno sviluppo” (art. 3, c. 2, Cost.) e come pari dignità sociale (art. 3, c. 1, Cost.), è un principio imprescindibile e inviolabile: sempre e ovunque. La Costituzione pone al centro la persona, la sua dignità, i suoi diritti, la sua emancipazione, da garantire su un terreno di concretezza e di effettività, in una prospettiva di uguaglianza sostanziale e solidarietà; lo Stato e le istituzioni sono strumentali rispetto al progetto di emancipazione personale e sociale. Elemento primo della dignità è il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, quello che Bobbio definiva un diritto non bilanciabile, l’unico assoluto, ribadito con forza in tutti i trattati internazionali in tema di diritti umani, a partire dalla Convezione europea sui diritti dell’uomo (art. 3). Garantire la dignità significa rispettare l’autodeterminazione: lo Stato non può ricattare, essere punitivo o vendicativo, per il rispetto del principio personalista ma anche in coerenza con la qualificazione della forma di Stato come democratica. Si punisce il fatto, non si affligge o stigmatizza la persona. La Costituzione non lascia adito a dubbi: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art. 13, c. 4, Cost.). All’art 41 bis sono collegate afflizioni, come, per limitarsi ad un esempio, quella attinente il divieto di cuocere cibi (dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale, sent. n. 186 del 2018), che sono sproporzionate, irragionevoli, integrano trattamenti disumani o degradanti. In una democrazia non c’è alcuno spazio per “torture di Stato”. L’art. 41 bis ci racconta dei rischi della normalizzazione e della dilatazione dell’emergenza: una norma temporanea nata per fattispecie specifiche, che si stabilizza nel tempo, si estende ad altri soggetti e contempla nuove restrizioni. La sua applicazione ad Alfredo Cospito, in quanto appartenente all’area anarchica, richiama, quindi, ferma restando la punizione di specifici reati, l’utilizzo del diritto penale come strumento di criminalizzazione e repressione del dissenso, di militarizzazione della democrazia, nell’orizzonte di una neutralizzazione del conflitto e di una deriva autoritaria che cresce parallelamente ad un modello egemonico vieppiù oppressivo e diseguale. Torniamo alla Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, c. 3, Cost.). Di nuovo: la dignità, sempre, e la sua declinazione in chiave emancipante e sociale. Sia chiaro: si ragiona di “pari dignità sociale” e di “rieducazione” (termine invero non felice) non come conformazione omologante alla società ma come riconoscimento a partecipare alla vita della società. Ça va sans dire che, in una democrazia pluralista, conflittuale, emancipante, la partecipazione è nel segno del proprio “pieno sviluppo”, una partecipazione, dunque, certamente anche - se non soprattutto - dissenziente, che non prescinde dalla libertà di manifestazione del pensiero. Il discorso riguarda il 41 bis, ma anche l’ergastolo ostativo, incompatibile con la partecipazione, la dignità e l’emancipazione (profili di illegittimità sono stati rilevati in entrambi i casi dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo). Alfredo Cospito, mettendo a rischio la sua vita ci ricorda come non esistono - non devono esistere - “vite di scarto” (Bauman). È un grido tragico, quanto mai attuale, in un mondo dove domina l’espulsione e la colpevolizzazione di coloro che vivono ai margini: poveri, migranti, “fragili”; dove la risposta alla diseguaglianza sono la necropolitica e l’aparofobia. Walter Benjamin scriveva: “La legislazione è creazione di potere e. in quanto tale, un atto di manifestazione diretta della violenza”. Questa, è una parte del discorso, perché il diritto è anche altro, è la tutela della dignità di tutti e sempre, in chiave emancipante. Non lasciamo che attraverso il 41 bis e l’ergastolo ostativo si esprima una “violenza di Stato” e esigiamo la democrazia disegnata nella Costituzione: a partire dal rispetto - imprescindibile e inviolabile - della dignità della persona, di tutte le persone e sempre. Salvare la vita di Alfredo Cospito è necessario, è “restiamo umani” (Vittorio Arrigoni), è democrazia. Il valore delle visite in carcere di Marco Gervasoni Il Giornale, 2 febbraio 2023 Alla domanda se sia giusto, per un parlamentare, visitare in carcere un terrorista, la risposta l’ha già data il Guardasigilli Nordio: le missioni nei penitenziari sono non solo un diritto, ma addirittura un dovere, degli eletti. La visita del parlamentare non è infatti, assimilabile a quella dell’avvocato difensore o del sacerdote: questi vanno a incontrare il loro assistito o un’anima di peccatore che, come tale, può redimersi. Il parlamentare visita invece colui che lo Stato trattiene in prigionia, per tutelare se stesso e la collettività, sapendo che, nei sistemi liberali moderni, e nella nostra Costituzione, l’obiettivo del carcere è punitivo ma ai fini di riammettere il detenuto nella comunità - da qui la discussione sulla anti-costituzionalità dell’ergastolo. I parlamentari compiono cioè un gesto politico, verificano che in carcere non vi si verifichino episodi che ledono la dignità e, in tal modo, controllano il dettato costituzionale. La legge che introdusse le visite dei parlamentari in carcere è del 1975, proprio nel momento in cui venivano varate le prime misure straordinarie contro il terrorismo. Un paradosso, ma solo apparente; persino il terrorista, il nemico dello Stato, non perdeva, di fronte allo Stato, la sua valenza di persona. Nel corso degli anni i parlamentari di tutti gli schieramenti hanno praticato visite, certo, più spesso quelli di estrema destra si recavano a incontrare terroristi neri, quelli di estrema sinistra i rossi. Ma non solo: socialisti, ma soprattutto radicali, visitavano tutti e anzi Marco Pannella ne fece una battaglia di principio, non limitandosi ad estemporanei blitz nei confronti di detenuti “celebri”: i radicali incontravano anche i detenuti anonimi, i criminali comuni, gli stupratori, gli spacciatori. Non solo Pannella, ma anche Craxi, Moro, Berlinguer, e forse persino Almirante, avrebbero perciò alzato il sopracciglio a sentire in parlamento la tesi secondo cui, se visito un terrorista o un mafioso, vuol dire che sotto sotto simpatizzo per lui, anzi sono quasi suo complice. Un ragionamento difficilmente compatibile con i rudimenti del liberalismo e dello stato di diritto. Non si può visitare un terrorista (o un mafioso) perché tali? Ma è proprio della civiltà liberale occidentale, e in particolare di quella italiana di Cesare Beccaria e del primo paese importante ad abrogare la pena di morte, l’Italia appunto, nel 1889, riconoscere che anche il più atroce criminale possiede dei diritti. Cospito e il corpo del condannato di Marco Belpoliti La Repubblica, 2 febbraio 2023 Perché la scelta del digiuno a oltranza in carcere è una sfida al sistema penale che va oltre le idee della destra e della sinistra. Nella prima pagina di “Sorvegliare e punire” Michel Foucault racconta lo squartamento mediante cavalli da tiro di Damiens, un parricida, nel marzo del 1757. L’epoca dei Lumi è già iniziata ma nella città di Parigi il condannato a morte, dopo aver fatto pubblica confessione, viene smembrato sulla piazza. Nell’arco di qualche decina d’anni il corpo suppliziato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, sembra scomparire dalle pene capitali dei paesi europei. Come argomenta il filosofo francese nel suo libro s’interviene sui corpi dei condannati per privarli tuttalpiù del loro diritto alla libertà, e prima di tutto per farli lavorare, assoggettarli, perché i corpi stessi vanno purificati. La sofferenza fisica, scrive Foucault, e il dolore del corpo non sono più gli elementi costitutivi della pena. Il problema che Alfredo Cospito pone con il suo digiuno condotto sino al punto irreversibile è tuttavia ancora una volta quello del corpo, non però del corpo castigato solo con pene fisiche - cosa che per altro accade ancora in molti luoghi del mondo e persino nel nostro sistema carcerario, a partire dalla dimensione angusta delle celle in cui i condannati sono rinchiusi. Cospito con la sua fede anarchica, con la tenacia e la deliberata volontà di sfidare la stessa pena di morte, si lascia morire attraverso il digiuno, un’arma impropria che nei decenni passati hanno utilizzato i non violenti come Gandhi, Pannella e i resistenti di tutto il mondo. Il corpo è l’unica realtà che noi conosciamo, a cui ci riferiamo con accenti e parole che tuttavia un tempo venivano dedicate a quella che era considerata la vera sostanza dell’essere umano: l’anima. Un vero e proprio rovesciamento. Nella cultura contemporanea il corpo è al centro di un culto variegato e imprescindibile, ma la realtà cui mira il narcisismo diffuso nella società attuale non è più il corpo propriamente detto, bensì la realtà un tempo chiamata “anima”. Per questo ha perfettamente Foucault quando ci ricorda che i giudici non giudicano più i reati ma “l’anima dei criminali”. Sfidando il sistema penale, che cerca di guarire i delinquenti inveterati attraverso un sistema di discipline di rieducazione, Cospito getta il proprio corpo nella lotta, con un gesto anacronistico e tuttavia efficace. La sua sfida condotta attraverso il corpo non è più quella contro un sistema penale ingiusto, scorretto e vessatorio, ma contro l’idea stessa di un ordine sociale che vuole redimere l’anima del condannato. Cospito non vuole abiurare le proprie convinzioni politiche, ma inverarle utilizzando il proprio corpo, per questo sfida un intero universo simbolico che non ha ancora compreso che l’anima è la vera prigione del corpo. La cultura politica della destra vede in lui l’ennesima reincarnazione del “terrorista”, mentre quella della sinistra tradizionale vuole salvare il corpo dell’anarchico dalla sua dissoluzione, e quindi dalla morte, perché ritiene, per altro giustamente, che il corpo sia un valore insopprimibile e da rispettare. Ma col suo digiuno fino alle estreme conseguenze Cospito sfida entrambe le convinzioni mescolando le carte e sostenendo il diritto inoppugnabile di morire per le proprie idee, un evento a cui non siamo più abituati, se non in quella dimensione estrema e distruttrice che è la guerra. “Il 41 bis serve, ma no a mortificazioni inutili” di Manuela D’Alessandro agi.it, 2 febbraio 2023 Parla il giudice Fabio Gianfilippi che ha sollevato questioni di legittimità costituzionale sul diritto dei detenuti in regime di 41 bis a cucinare, a vedere i figli senza vetri, ad andare in bagno senza essere spiati da una telecamera Diritto a cucinare, alla privacy, a leggere libri e giornali, ad avere colloqui coi figli senza un vetro frapposto. Coi suoi provvedimenti Fabio Gianfilippi, magistrato del Tribunale della Sorveglianza di Spoleto, ha migliorato o cercato di migliorare la vita dei detenuti al 41 bis. “Il 41 bis serve ma non deve trasformarsi in vessazioni” spiega. Il suo è un punto di vista molto ‘ravvicinato’ col regime di massima sicurezza riservato anche ad Alfredo Cospito. “La quotidianità detentiva in regime differenziato è caratterizzata da forti limitazioni anche se funzionali agli scopi del regime - considera -. Una detenzione a lungo protratta, sopportandole, non è quindi sempre esente da un logoramento psico-fisico cui la Corte europea chiede sia data particolare attenzione. Nei loro reclami i detenuti in 41 bis si dolgono di molti diversi profili ma a mio modo di vedere, tra le tante problematiche, resta particolarmente importante che sia loro assicurato un contatto significativo con l’area educativa dell’istituto penitenziario, che siano ridotti gli ostacoli all’esercizio del diritto allo studio e che possa esservi un accesso tempestivo alle cure necessarie, un problema che, in realtà, non riguarda solo i detenuti in regime differenziato, e che impone una costante attenzione di tutte le istituzioni coinvolte”. “Telefonate, colloqui, aria”, il 41 bis travolge ogni aspetto quotidiano - Sono numerosi gli aspetti della vita quotidiana che vengono toccati talvolta di dubbia costituzionalità. “Ad esempio in materia di divieto di cottura dei cibi, la Corte Costituzionale ha poi valutato come illegittimo il divieto, consentendo ai ristretti in quel regime di prepararsi da mangiare. Più in generale la magistratura di sorveglianza ha, tra gli altri, il compito di rispondere ai reclami in materia di tutela dei diritti dei detenuti, e dunque anche di quelli in 41 bis. In questo ambito sono imposte numerose limitazioni alla quotidianità detentiva, dal numero dei colloqui e delle telefonate, al tempo che si può trascorrere fuori stanza, alla censura della corrispondenza, ma anche altre che riguardano aspetti più minuti della quotidianità”. Il principio guida della Corte Costituzionale è costante: “Ha più volte chiarito come queste limitazioni siano legittime fintanto che siano proporzionate e funzionali agli scopi del regime differenziato, che non sono punitivi, ma preventivi”. Il 41 bis è una forma di tortura? Lo scopo del 41 bis è ben preciso, “ed è impedire, o rendere estremamente più difficile, che detenuti con un ruolo di spicco in contesti associativi organizzati possano dal carcere continuare ad informarsi di fatti criminali e a dare disposizioni ai sodali in libertà” ma tutte “le eventuali limitazioni che con questo scopo non c’entrino, come era per il divieto di cucinarsi, non sembrano dunque compatibili con la Costituzione”. Il 41 bis presenta profili che possano accomunarlo alla tortura? “La CEDU e la Corte Costituzionale non hanno mai posto in discussione la legittimità del regime differenziato di 41 bis come strumento di prevenzione utile ad interrompere i legami tra un detenuto di elevata pericolosità e il suo gruppo criminale di riferimento. Ritengo anche io che si tratti di uno strumento importante per il contrasto alla criminalità organizzata. Il lavoro che svolge la magistratura di sorveglianza, e l’insegnamento della Corte Costituzionale hanno come obbiettivo proprio quello di vigilare affinché le limitazioni alla quotidianità detentiva, che sono imposte a chi vi è ristretto, siano soltanto quelle indispensabili agli scopi del regime, e non si traducano mai in afflizioni inutili e vessazioni. Sotto questo profilo è fondamentale anche che sia data pronta esecuzione da parte dell’amministrazione ai provvedimenti della magistratura di sorveglianza che accolgano eventuali reclami proposti dai detenuti”. “Il carcere duro è una tortura soft che mira a stroncare la resistenza umana” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 febbraio 2023 Pecorella: “Così si annientano le persone. È un atto di disumanità che la nostra Costituzione non prevede”. Sul caso Cospito stiamo assistendo ad una disputa virulenta, con uno scambio di accuse reciproche tra i partiti. L’avvocato Gaetano Pecorella, penalista con oltre cinquant’anni di esperienza al servizio del diritto di difesa, commenta sconsolato quanto sta accadendo negli ultimi giorni. “Purtroppo - dice al Dubbio - il nostro Parlamento non perde l’occasione per fare delle brutte figure davanti al paese. Se i parlamentari litigano, si minacciano e si diffamano, possiamo immaginare cosa pensano i cittadini rispetto al luogo in cui si dovrebbe discutere con la più alta cultura e il più alto rispetto per la controparte. Poi ci lamentiamo delle violenze che si verificano, quando la prima sede in cui si verificano violenze verbali è proprio il Parlamento”. Giorno dopo giorno assistiamo ad uno scambio di accuse tra gli esponenti delle forze politiche, perdendo di vista le questioni prettamente tecniche legate al 41bis. Insomma, uno scontro ideologico che non fa bene all’Italia. “Quello del 41bis - commenta Gaetano Pecorella - è un tema particolarmente delicato sul piano dei contenuti e delle interpretazioni e pone degli interrogativi sulla natura della disposizione normativa. Assistiamo ad uno scontro ideologico perché il politico che parla non pensa alla soluzione giusta dal punto di vista del rispetto dei diritti della persona e delle tecniche normative. Pensa alla soluzione che potrà fargli acquisire più o meno consenso nel paese. Un paese che è stato costruito in questi ultimi anni sui principi della repressione, sul principio, come si usa dire, del “buttar via la chiave”, sui principi della mancanza di considerazione dei soggetti più deboli. È chiaro che chi fa politica calcolerà quali sono gli effetti sul suo elettorato. Si è completamente stravolta quella che dovrebbe essere la funzione intellettuale del Parlamento con la presentazione di soluzioni giuste”. Sul trasferimento di Alfredo Cospito nel carcere di Opera, per garantirgli delle cure, l’avvocato Pecorella rileva alcune contraddizioni. “Intanto - afferma -, credo che si debba prendere atto che l’apparato giudiziario si è attivato in funzione della tutela della salute, dopo che ci sono stati degli atti, giustamente condannati, di violenza. È però paradossale che invece di attivarsi sulla base di quelle che erano le reali esigenze di salute di Cospito abbiamo dovuto aspettare degli attentati per renderci conto che la situazione non era la migliore per garantire la salute del detenuto. È stato detto: “Noi non siamo stati condizionati da nulla”. Non è così. Fino a ieri non è stato fatto nulla per la salute del detenuto e subito dopo alcuni fatti ci si è attivati. I casi sono due. O era giusto quello che veniva fatto prima e allora non si dovevano modificare le condizioni di detenzione oppure, se sono cambiate, ci si è accorti, sulla base di alcuni atti di violenza, che non era una condizione sufficiente per garantire la salute del detenuto. Salute che, in ogni caso, viene prima di ogni altra cosa”. Quanto sta accadendo ha sollevato un dibattito acceso sulla natura e sulle finalità del 41bis non proprio protese al recupero del detenuto. Su questo Pecorella è chiaro. “La questione centrale del 41bis - aggiunge - ruota attorno ad un tema ben preciso: capire come oggi è concepito e a che cosa serve. Se il 41bis è una norma effettivamente diretta a tutelare la sicurezza pubblica o se, così come è concepito, è una forma di “dolce tortura” con una serie di limitazioni che non hanno nulla a che vedere con i rapporti esterni. Il 41bis realizza un sistema di isolamento che aveva e ha come obiettivo non tanto quello di impedire la comunicazione all’esterno del carcere o all’interno, ma quello di stroncare la resistenza umana di chi si trova detenuto. I detenuti con 41bis stanno in una cella singola, con un solo letto, una seggiola fissata al pavimento, vengono sorvegliati 24 ore su 24. Mi pare abbastanza evidente che tutto ciò abbia ben poco a che vedere con il problema di impedire le comunicazioni. Io penso che così come è concepito il 41bis abbia più la funzione di stroncare la resistenza fisica e psicologica, piuttosto che impedire i rapporti tra interno ed esterno del carcere”. Su questo punto il penalista è chiaro: “Credo che vada fatta una riforma. Non stiamo parlando di una abolizione, ma dell’esigenza di toccare quei punti contrari al rispetto dei diritti umani e alla funzione della pena nel nostro ordinamento, come prevede la Costituzione. Mi chiedo come possa tendere alla rieducazione la pena di una persona che sta chiusa in una cella senza rapporti con i familiari, che non ha rapporti culturali, che non ha nessun modo di comprendere i propri errori”. Conciliare l’esigenza della sicurezza pubblica e il dettato costituzionale è molto impegnativo. “Il trattamento duro - conclude l’avvocato Pecorella - distacca dai familiari, dalla società, dai rapporti con gli altri detenuti. Tenere una persona isolata per tutta la sua esistenza significa annientarla. È un atto di disumanità che la nostra Costituzione non prevede. Nessuno ha il coraggio di toccare la Costituzione, però, poi, si fanno delle leggi che fanno a pugni con la Carta Costituzionale”. “Caso Cospito”, la solidarietà dei penalisti contro la “barbarie” del 41bis Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2023 L’Ucpi contro le “regole odiose, violente, non di rado irragionevolmente sadiche” e per la scelta “non violenta”. Mentre divampa la polemica sulle dichiarazioni rese ieri in aula del deputo di Fdi Donzelli che dopo aver provocatoriamente chiesto al Pd da che parte stava ha citato delle recentissime intercettazioni ambientali in carcere ottenute dal compagno di partito e Viceministro della Giustizia Del Mastro, la Giunta dell’Unione delle Camere penali italiane esprime apprezzamento, solidarietà e sostegno per la dura azione non violenta con la quale un detenuto in regime di 41 bis, il signor Alfredo Cospito, ha inteso denunziare con forza, a rischio della propria vita, l’incivile barbarie di quel regime detentivo. Da sempre i penalisti italiani hanno espresso ed esprimono, con denunce puntuali e documentate, questa indegna pagina della nostra vita civile. Lo Stato, prosegue la nota dell’Ucpi, ha certamente il diritto ed il dovere di differenziare i regimi detentivi in ragione della gravità dei reati commessi dal detenuto, e della ritenuta, accertata sua pericolosità. Ma questo elementare principio di sicurezza non ha nulla a che fare con le regole odiose, violente, non di rado irragionevolmente sadiche che connotano il regime del 41 bis. Vietare a quei detenuti di poter fisicamente abbracciare, pur con la dovuta sorveglianza, i propri familiari; di non poter scegliere liberamente i libri da leggere; di non poter cucinare in cella; di avere per tutta la durata della detenzione una sola ora di aria al giorno; di non poter appendere quadri ai muri, ed altre sadiche, stupide e violente misure di tal genere, umilia ad un tempo la dignità del detenuto e la credibilità democratica e costituzionale dello Stato. Questo tema tuttavia vale per tutti i detenuti al 41 bis, pur dovendosi riconoscere ad Alfredo Cospito il merito di questa sua clamorosa e coraggiosa azione non violenta. Siamo lieti che in tanti oggi si mobilitino su questo tema, non avendolo mai fatto prima, purchè non si pretendano cervellotiche distinzioni tra destinatari di quell’infausto regime detentivo. Al signor Cospito, infine, insieme alla nostra incondizionata solidarietà, l’auspicio che egli voglia esplicitamente rivolgere anche ai manifestanti in suo favore l’esortazione a scegliere senza esitazioni e senza eccezioni la strada civile della non violenza, condannando esplicitamente ogni forma di violenza contro cose o persone. Per il difensore di Cospito, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, quella che ha coinvolto il deputato Donzelli: “È una vicenda sulla quale la magistratura deve fare chiarezza. Bisogna accertare se c’è stata una violazione. Mi domando in quale ambito sono state fatte queste intercettazioni? Sono state fatte in tutta la sezione del penitenziario? Siamo in uno stato di diritto e ci sono autorità deputate a valutare l’eventuale commissione di un reato. Si apra un fascicolo di indagine, anche semplicemente a carico di ignoti, che fare accertamenti su quanto accaduto”. Inadatto a isolare il detenuto e a indebolirne la leadership: perché ripensare il 41 bis di Giacomo Papi Il Foglio, 2 febbraio 2023 La funzione di questo regime carcerario è impedire ai capi di avere complici e soldati. Per questo, tra i criteri per giudicarlo, l’efficacia va tenuta in considerazione quasi quanto l’umanità. E la vicenda di Cospito solleva molti dubbi sul fatto che sia utile a raggiungere lo scopo. Il regime carcerario del 41-bis non dipende dalla gravità del reato, non è cioè una pena accessoria che punisce crimini particolarmente gravi (e questo anche se i reati a cui si applica sono particolarmente gravi: associazione mafiosa, terrorismo, eversione, tratta di persone, acquisizione di schiavi e riduzione in schiavitù, induzione alla prostituzione minorile, produzione ed esibizione di materiale pedopornografico, stupro di gruppo, sequestro di persona). Il 41-bis non serve neppure a impedire che il condannato compia nuovamente i reati di cui è stato giudicato colpevole. L’obiettivo del 41-bis è unicamente isolare il detenuto o la detenuta, impedendogli ogni contatto con il mondo esterno e all’interno del carcere, in modo da rendere impossibile l’organizzazione o riorganizzazione di azioni criminali, stringendo alleanze o reclutando discepoli a cui ordinare azioni violente. In altre parole, nelle intenzioni di chi lo ha concepito e certamente semplificando, la funzione del regime carcerario del 41-bis è impedire ai capi di avere complici e soldati. Per questa ragione, tra i criteri per giudicarlo, credo che l’efficacia vada tenuta in considerazione quasi quanto l’umanità. Perché è evidente che isolare completamente un essere umano dal resto del mondo sia una forma di tortura e, anzi, che rappresenti un equivalente simbolico della condanna a morte (soltanto i morti non hanno contatti con gli altri). Ma è anche vero che, prescindendo dalle sacrosante questioni di umanità di cui si discute, la vicenda di Alfredo Cospito - l’anarchico insurrezionalista che da 106 giorni è in sciopero della fame per protestare proprio contro il 41-bis - solleva molti dubbi sul fatto che il 41-bis sia utile a raggiungere lo scopo per cui è stato creato. Come si sa, a sollevare i dubbi più diretti e gravi è stato alla Camera uno dei più accaniti sostenitore dell’efficacia del “carcere duro” in generale e nel caso di Cospito in particolare: Giovanni Donzelli, deputato e responsabile organizzativo di Fratelli d’Italia oltre che vicepresidente del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Donzelli ha detto in Parlamento, peraltro basandosi su informazioni riservate ricevute dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro: “Cospito ha incontrato mafiosi e il 12 gennaio 2023, mentre parlava coi mafiosi ha incontrato anche i parlamentari Serracchiani, Verini, Lai e Orlando che andavano a incoraggiarlo nella battaglia. Allora voglio sapere, questa sinistra sta dalla parte dello stato o dei terroristi con la mafia? Lo vogliamo sapere in quest’Aula oggi”. Ma come? Come si fa a sostenere l’efficacia e la necessità del 41-bis, se in carcere Cospito è comunque riuscito ad avere contatti con un casalese, un ‘ndranghetista e due mafiosi siciliani? Se quello che Donzelli ha detto è vero - e non c’è ragione di credere che non lo sia - è la dimostrazione lampante che il 41-bis non funziona e che per impedire che le organizzazioni criminali possano continuare a essere guidate dal carcere, sarebbe più intelligente e civile sforzarsi di immaginare una soluzione più efficace e umana. Ma c’è un altro dubbio, più indiretto e profondo, che la vicenda di Alfredo Cospito solleva. Il fatto è che esistono almeno due modalità di leadership, e il regime del 41-bis agisce, peraltro malamente, come abbiamo appena visto, soltanto sulla più superficiale, quella che si basa sugli ordini - sulla presenza del capo e sulla paura e l’amore dei seguaci - mentre può addirittura avere un effetto deleterio sul tipo di comando che si basa sull’esempio e sul martirio del capo, perché può rafforzarne la leadership e la popolarità. L’assenza del capo, la sua prigionia e la sua sofferenza sono da sempre vettori potentissimi nell’alimentare l’azione dei seguaci, la loro determinazione e coesione. Ed è quello che sta precisamente accadendo. A me non pare che la protesta di Cospito possa essere definita non violenta, come ovunque si legge. Lo sciopero della fame è una forma di violenza deliberata e a lento rilascio che si rivolge contro se stessi, e quindi, come tale, è da considerarsi violenza. Ma è innegabile che da decenni, almeno in Italia, il mondo dell’anarchia insurrezionalista non riusciva a lanciare una “campagna simpatia” più riuscita e un’azione di reclutamento più efficace. Tutto questo è avvenuto grazie al 41-bis, non nonostante il 41-bis, una misura che nella sua inutile atrocità si sta dimostrando insufficiente non soltanto a impedire i contatti del detenuto, ma anche a indebolirne la leadership, che invece rafforza. Malato e da 22 anni al 41 bis: “Restituito alla moglie ad un respiro dalla fine” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 febbraio 2023 È morto in ospedale, dove era stato ricoverato ormai in fin di vita. Lunedì all’ospedale San Paolo di Milano è morto Giuseppe Gallico, ritenuto il boss ai vertici dell’omonima cosca di ‘ndrangheta di Palmi. Non rispondeva più ai trattamenti medici. Aveva 66 anni, di cui 34 trascorsi in carcere, compresi 22 al 41 bis. Lo scorso giugno gli avvocati - Guido Contestabile e Antonio Cristallo - avevano chiesto il differimento della pena per la gravità delle sue condizioni di salute: “Cardiopatia ischemica cronica e fibrosi polmonare idiopatica, malattia rara a carattere progressivo, con sviluppo di insufficienza respiratoria”. Il paziente è a “rischio di eventi anche fatali”. “Sussistono tutti i presupposti per il differimento della pena, anche nella forma degli arresti domiciliari, per consentirgli almeno di morire dignitosamente assistito dai propri cari in un ambiente consono alle sue condizioni”, ci racconta in una lettera il fratello Carmelo Gallico che ricorda: “È in carcere dal febbraio del 1990 senza soluzione di continuità; condanna all’ergastolo ostativo, 41 bis: il valore della legge supera il valore della vita di un uomo. Per lui nessuna possibilità di salvezza: né il trapianto, né le cure, né la dignità di morire da padre, marito, fratello, nonno, uomo. Il magistrato di sorveglianza rigetta l’istanza dei difensori e trasmette gli atti al Tribunale. Intanto le sue condizioni si aggravano di giorno in giorno: respira sempre più a fatica, il supporto dell’ossigeno diventa costante; in carcere non si può che disporre delle bombolette della durata massima di due ore. Ma ha una data scritta sul calendario: 11 novembre 2022, l’udienza dinanzi al Tribunale di Sorveglianza che dovrà decidere sulla sua scarcerazione è stata finalmente fissata”, scrive Gallico. “La gravità delle sue condizioni induce gli avvocati a riproporre istanze d’urgenza al magistrato di sorveglianza. Niente da fare. Ogni richiesta, ogni sollecito, cade nel vuoto. E l’11 novembre arriva, l’udienza si tiene, il tribunale si riserva la decisione. Ma anziché decidere, sposta il limite del tempo: un’altra udienza al 25 novembre per l’asserita necessità di acquisire ulteriori notizie ed integrazioni. Un’altra corsa contro il tempo. Le informazioni richieste arrivano prima dell’udienza, confermano la gravità delle condizioni, l’imminente pericolo di vita, l’incompatibilità delle sue condizioni con la detenzione, la possibilità di accoglienza in una struttura in cui poter essere assistito dai suoi familiari. Eppure il Tribunale riesce ancora ad inventarsi un ulteriore rinvio. Questa volta il 27 gennaio”, giorno in cui finalmente accoglie la richiesta nella forma degli arresti ospedalieri. Intanto il 24 gennaio, “l’ultima grave crisi respiratoria costringe il suo ricovero nel reparto protetto penitenziario all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano. Sia chiaro: a chi immagina un ambiente simile a quello ospedaliero va subito detto che tutti i detenuti portati in quel reparto preferiscono la propria cella alla stanza ospedaliera. Una tomba scavata nel cemento: niente finestre, niente arredi e televisione, né voce umana. Il senso claustrofobico di solitudine e abbandono in quell’asettico buco, senza uscite è più temibile della paventata morte”. L’uomo il 27 gennaio stesso viene trasferito in un reparto ordinario a seguito della decisione del Tribunale di Sorveglianza. “La mattina del 28 solo la moglie riesce a rubare alla morte un attimo ancora della sua vita, un lampo di coscienza, una mano che tornava a stringersi dopo oltre 30 anni della separazione imposta dal vetro divisorio che impedisce qualsiasi contatto fisico ai detenuti del 41 bis. I figli, gli altri familiari “autorizzati”, si sono dovuti accontentare di vederlo agonizzante e ormai incosciente, o come me, attraverso uno sguardo rubato a quella porta socchiusa sul corridoio. Tra la notte del 29 e le prime ore del 30 gennaio, la morte gli ha restituito la libertà e la dignità che il cinismo umano della gente per bene gli ha negato fino al suo ultimo agonizzante respiro”. Conclude Gallico: “Lo hanno restituito così alla famiglia: agonizzante, in stato di incoscienza, ad un respiro dalla fine”. Ma questa è la prassi normale adottata per i detenuti al 41 bis. Un cinico e crudele calcolo: “Non è questione di umanità, ma di credere nei valori delle nostre leggi”, dice riprendendo una recente frase dell’ex magistrato Davigo. Ventidue anni di 41 bis, una fibrosi polmonare e le udienze rinviate di Giacomo Puletti Il Dubbio, 2 febbraio 2023 La lettera di Carmelo Gallico dopo la morte del fratello Giuseppe. “La morte gli ha restituito la libertà e la dignità che il cinismo umano della gente per bene gli ha negato fino al suo ultimo agonizzante respiro”, scrive il fratello del boss della ‘Ndrangheta morto lunedì a Milano. “Lo so già: qualcuno obietterà, non senza piglio scandalizzato ed indignato, che i morti delle camere a gas erano vittime innocenti, non certo “mafiosi” al 41 bis… io rispondo loro che gli uni e gli altri erano uomini e che la vita di nessun uomo ha valore diverso e inferiore di quella di altro uomo”. È un passaggio, uno dei più significativi, della lettera scritta da Carmelo Gallico, fratello di Giuseppe Gallico, boss della ‘ndrangheta morto lunedì mattina all’ospedale San Paolo di Milano. Ospedale nel quale era stato trasferito solo pochi giorni prima, in punto di morte, dopo aver passato 34 anni in carcere, di cui 22 al 41bis, e con una fibrosi polmonare che l’ha portato via in meno di dodici mesi. Da giugno dell’anno scorso i suoi legali avevano chiesto un differimento della pena, concesso solo sottoforma di detenzione ospedaliera, a poche ore dalla morte. “Sia chiaro: a chi immagina un ambiente simile a quello ospedaliero va subito detto che tutti i detenuti portati in quel reparto preferiscono la propria cella alla stanza ospedaliera - scrive ancora Carmelo Gallico - una tomba scavata nel cemento: niente finestre, niente arredi e televisione, né voce umana. Il senso claustrofobico di solitudine e abbandono in quell’asettico buco senza uscite è più temibile della paventata morte”. Una prima udienza era stata fissata l’11 novembre, “ma anziché decidere, sposta il limite del tempo: un’altra udienza al 25 novembre per l’asserita necessità di acquisire ulteriori notizie ed integrazioni”, prosegue la lettera. Ma arriva un altro rinvio al 27 gennaio. “Il sospetto, legittimo, è che la pavidità della magistratura di Sorveglianza, non priva di buona dose di calcolato cinismo, abbia delegato al tempo la “soluzione” della vicenda - aggiunge Gallico - la casistica dei decessi dei detenuti al 41 bis del carcere di Opera, in casi analoghi e in ossequio alla medesima strategia dilatoria delle decisioni sulle istanze di scarcerazione (almeno 6 nell’ultimo anno), ne dà conferma”. Solo il 27 gennaio il provvedimento viene eseguito, e Giuseppe Gallico viene portato in un reparto ordinario dello stesso ospedale San Carlo, dove muore alle prime ore del 30 gennaio. “La morte - conclude il fratello - gli ha restituito la libertà e la dignità che il cinismo umano della gente per bene gli ha negato fino al suo ultimo agonizzante respiro”. L’indipendenza della magistratura va difesa anche da certe derive mediatiche di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 2 febbraio 2023 Le spericolate teorie diffuse sull’arresto di Messina Denaro rischiano di favorire una grave delegittimazione del lavoro dei pubblici ministeri palermitani e delle forze dell’ordine. Finendo per pregiudicare o intralciare il corso delle indagini. In un articolo sul Sole 24 Ore di domenica scorsa, Giovanni Maria Flick, ex guardasigilli e presidente emerito della Corte costituzionale, ammoniva che anche l’antimafia deve operare nel rispetto della Costituzione. Un tale ammonimento prendeva spunto sia da polemiche e rischi di strumentalizzazione connessi alla cattura di Matteo Messina Denaro, sia da un recente saggio del giornalista Alessandro Barbano fortemente critico nei confronti dell’antimafia legislativa e giudiziaria (da me recensito sul Foglio, 1° dicembre 2022). Come anche Flick rilevava, l’analisi demolitrice di Barbano può peccare per eccesso, ma pone in evidenza alcuni aspetti molto problematici che invero sono stati esplicitamente riconosciuti, in un intervento svolto nell’ambito di una presentazione pubblica del libro suddetto, persino dall’attuale procuratore nazionale Giovanni Melillo (intervento poi pubblicato su giustiziainsieme.it, 8 dicembre 2022): tra questi aspetti, una perdurante autopercezione di ruolo che concepisce la magistratura penale come un baluardo contro ogni fenomeno criminale, secondo una visione che ha in sé i semi del conflitto e dell’esaltazione dei miti punitivi di una “società giudiziaria” che si nutre di ansia da complotti; e un frequente sovrapporsi di paralleli “cori mediatici famelici e strumentali” alle indagini e ai processi che si svolgono nelle canoniche sedi giudiziarie. Non a caso, proprio la tendenza a celebrare paralleli processi mediatici ha ripreso piede subito dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, insieme con l’ossessivo riemergere di tesi complottiste-trattativiste date pressoché per dimostrate pur in assenza di seri riscontri empirici: i lettori di questo giornale ne sono bene a conoscenza grazie ai ripetuti interventi in proposito di Cerasa, Sottile e Capone, i quali hanno denunciato il conseguente rischio di una grave delegittimazione del prezioso e paziente lavoro che i pubblici ministeri palermitani e le forze dell’ordine hanno svolto per sorprendere il grande boss latitante, e stanno continuando a svolgere per scoprire la fitta rete di complici e fiancheggiatori che lo hanno coperto (se dietro un arresto ufficialmente presentato come risultato di un’indagine da manuale si nascondesse davvero un retroscena fatto di consegna concordata o di nuove trattative tutte da decifrare, i magistrati e i carabinieri del Ros autori dell’operazione andrebbero bollati come ipocriti e collusi o farebbero la figura di professionisti ingenui e incapaci che non si accorgono delle trame ordite alle loro spalle!). Ma non si tratta soltanto di rischio di delegittimazione. Sollevare inquietanti dubbi sulla genuinità dell’operazione di polizia condotta a termine, e ipotizzare ben altri scenari oscuri a carattere trattativista con connesse ipotesi vaghe di scambio in termini di benefici penitenziari per capi mafiosi ancora all’ergastolo e/o in regime di carcere duro, comporta altresì un ulteriore duplice rischio, e cioè non solo di disorientare la pubblica opinione e di alimentare sfiducia nello stato e nella giustizia per effetto di una babelica proliferazione di verità contraddittorie, ma anche di pregiudicare o intralciare il corso delle indagini, compromettendo anche la serenità di giudizio di quanti in atto sono impegnati a compierle. A ben vedere, l’autonomia e l’indipendenza di giudizio della magistratura non vanno difese soltanto rispetto alle interferenze del potere politico-governativo. È necessario proteggerle anche rispetto ai condizionamenti potenzialmente negativi derivanti da modalità di dibattito pubblico e stili di comunicazione mediatica poco attenti a bilanciare tutti i diritti e i valori costituzionali bisognosi di equilibrato contemperamento (libertà di manifestazione del pensiero e di informazione, interesse al contrasto della criminalità e alla repressione dei reati, garanzia di un esercizio della funzione giurisdizionale esente da pressioni o influenze indebite, quale che sia la fonte - anche mediatica - da cui provengono ecc.). Insomma, nessuna libertà può essere esercitata senza limiti derivanti dall’esigenza ineludibile di tenere conto di interessi o esigenze concorrenti egualmente meritevoli di considerazione sul piano costituzionale. E, a maggior ragione, questa libertà non dovrebbe essere illimitata ad esempio nel caso di trasmissioni televisive che, in luogo di effettuare inchieste in grado di fornire nuovi e concreti dati di conoscenza suscettibili di valorizzazione giudiziaria, privilegiano la spettacolarità e il sensazionalismo, accreditando senza adeguato fondamento narrazioni di grandi e indeterminati scenari criminali e misteriosi complotti che vedrebbero in eterna combutta capi mafiosi, imprecisati esponenti politico-istituzionali e immancabili settori deviati dei servizi segreti. Orbene, l’esigenza di porre un freno alle ricostruzioni più spericolate potrebbe, a mio avviso, anche giustificare una esplicita pesa di posizione del Consiglio superiore della magistratura, e in primo luogo del presidente della Repubblica che lo presiede quale massimo garante della Costituzione e dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura (autonomia e indipendenza che sono, appunto, da intendere come inclusive di una libertà di convincimento e di giudizio esenti da ogni forma di indebito condizionamento esterno). Il presidente Mattarella avrebbe senz’altro il potere giuridico-costituzionale di raccomandare agli organi di stampa e alle aziende televisive maggiore prudenza e sobrietà nell’informare il pubblico, in modo da evitare di veicolare suggestive rappresentazioni della realtà criminale frutto di ipotesi prive di effettivi riscontri. Un self-restraint ancora maggiore dovrebbe, ovviamente, essere raccomandato a quelle figure di magistrati-star che sono soliti partecipare alle trasmissioni in qualità di super esperti di mafia, la cui notorietà e la cui passione combattiva non giustificano affatto forme di libertinaggio esternante che possono oltretutto nuocere al lavoro o alla reputazione professionale dei colleghi direttamente impegnati nella gestione delle indagini e dei processi. Al di là del potere giuridico-costituzionale di intervenire nel senso suddetto, esiste - è vero - anche una questione di opportunità latamente politica, cui si può accompagnare il timore di lanciare ammonimenti destinati purtroppo a rimanere lettera morta. Ma persistere in un atteggiamento omissivo, come finora il Csm ha fatto, certo non giova a quel rispetto dei valori e dei bilanciamenti costituzionali che in teoria dovrebbe essere garantito anche sul versante dell’antimafia. Diabolik di Mattia Feltri La Stampa, 2 febbraio 2023 Io non lo prenderei sottogamba, perché sentite qui che complottone. Allora, il deputato meloniano Giovanni Donzelli va in Parlamento e denuncia una saldatura fra anarchici e mafiosi per abolire il 41 bis, cioè il carcere duro. Svela che l’anarchico Cospito nell’ora d’aria parlava coi boss, che approvano la sua battaglia contro il 41 bis. Attenzione, ecco il primo congiurato: l’amministrazione penitenziaria, cioè il ministero. Infatti al 41 bis non si sceglie con chi andare all’ora d’aria, ma con chi ti impongono. E a Cospito chi hanno imposto? I mafiosi. Andiamo avanti. Il secondo congiurato è la Corte costituzionale, che non vuole abolire il 41 bis ma, guarda caso, ha spesso chiesto di risistemarlo perché fosse più aderente al senso di umanità, e spesso ce l’ha fatta. Non è finita. Il terzo congiurato è la Corte europea dei diritti umani, altrettanto perplessa sul 41 bis fino a dichiarare illegittima, per fare un esempio, l’ultima proroga inflitta nientemeno che a Bernardo Provenzano, il capo dei capi. Ecco che la saldatura fra anarchici, mafia, ministero, Consulta e Unione europea si fa inquietante. Aggiungiamo i radicali, qualche ex magistrato come Gherardo Colombo, alcuni sparuti giornalisti e il quadro è completo. Ma manca l’ultimo tassello. Da brividi. I detenuti vanno al 41 bis soprattutto per evitare che comunichino coi loro sodali a piede libero. E chi ha svelato al mondo le conversazioni fra l’anarchico e i boss, di modo che tutti gli anarchici e tutti i mafiosi ora le conoscono, e possono organizzarsi contro il 41 bis? Proprio lui: Donzelli! Il congiurato che denuncia la congiura! Diabolico. Caso Cospito, Nordio non difende Delmastro. Bagarre in Parlamento di Antonio Bravetti La Stampa, 2 febbraio 2023 Il ministro della Giustizia alle Camere: “Non ce ne laviamo le mani ma c’è un’indagine aperta”. Dopo l’informativa, Pd, sinistra, Verdi e Cinquestelle lasciano l’Aula per protesta. Zero scuse. Niente dimissioni. Nessuna tregua. Non rientra, anzi si intensifica lo scontro tra Fratelli d’Italia e Pd sul caso di Alfredo Cospito. L’informativa del ministro della Giustizia Carlo Nordio non convince nessuno tra i banchi della minoranza. E l’atteggiamento della coppia Delmastro-Donzelli, entrambi fermi al loro posto, allarga il fronte delle opposizioni. Se martedì il Pd si era difeso quasi da solo dagli attacchi del responsabile organizzazione di FdI, ieri anche il Movimento 5 stelle ha alzato la voce: “C’è la regia politica di palazzo Chigi”. In serata Meloni parla, ma sui due esponenti del partito non proferisce verbo. Prima alla Camera e poi al Senato il Guardasigilli ha illustrato punto per punto la vicenda che riguarda l’anarchico Cospito, in sciopero della fame e detenuto al 41-bis. Ma sul caso Donzelli Nordio resta vago: “Non ce ne laviamo le mani”, ma “c’è un’indagine aperta dalla procura di Roma” su esposto di Angelo Bonelli (Avs) “e per doveroso rispetto del lavoro degli inquirenti non possiamo non tenerne conto”. Le opposizioni, ovviamente, non gradiscono. Avrebbero preferito la censura di Donzelli e Delmastro. Chiedono allora un intervento di palazzo Chigi. “Dispiace che Meloni faccia finta di niente e se non interviene siamo portati a pensare che abbia approvato quanto accaduto” martedì, dice la capogruppo Pd Debora Serracchiani. Dura la pentastellata Vittoria Baldino: “Ci risulta difficile pensare che un luogotenente della presidente del Consiglio come Donzelli si sia avventurato su questo crinale senza una regia politica. Non ci fate ingenui: sappiamo che il mandato politico arriva da palazzo Chigi. E ministro Nordio la sua reticenza ha il sapore della complicità”. Entrambi i partiti alla Camera hanno presentato una mozione di censura nei confronti del sottosegretario Delmastro perché gli vengano ritirate le deleghe al Dap. Di passi indietro, a sentire entrambi, non se ne parla. “Io che sono minacciato di morte posso pensare di dimettermi?”, domanda il sottosegretario alla Giustizia. “Non ho intenzione di dimettermi”, gli fa eco Donzelli, a cui chiedono di lasciare la vicepresidenza del Copasir. Tommaso Foti, capogruppo di FdI alla Camera, li blinda: “Restano al loro posto”. Un concetto che Matteo Salvini esprime, ma a bassa voce: “Non mi appassionano le dimissioni”. Nella maggioranza, esclusa FdI, il comportamento dei due non è piaciuto praticamente a nessuno. Basta ascoltare il dibattito in Senato. Prima il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin osserva: “Maggiore prudenza nelle esternazioni sarebbe stata più opportuna”. Il capogruppo leghista Massimiliano Romeo si spinge oltre: “Quanto è successo ieri servirà anche a noi della maggioranza da lezione”, e quindi invita “tutti ad abbassare i toni”. A palazzo Madama il clima è particolarmente incandescente e a nulla valgono i richiami all’ordine del presidente Ignazio La Russa. Prima scoppia una lite tra Matteo Renzi e Roberto Scarpinato del M5S, poi un crescendo di tensione che sfocia nell’abbandono dell’aula da parte dei senatori del Pd e di altri esponenti delle forze di minoranza. A scatenare tutto è il senatore Alberto Balboni (FdI), che rivolto al Pd attacca: “Ma non vi rendete conto che andando in carcere a trovare Cospito avete aperto una voragine alla mafia? Io sono d’accordo che si possa andare in carcere a visitare un detenuto, ma perché dopo avete fatto una conferenza stampa criticando il 41-bis? Avete aperto una voragine”. I senatori democratici lasciano l’aula, protestando a gran voce. La capogruppo Simona Malpezzi spiega: “Siamo usciti dall’aula di fronte all’enormità delle parole pronunciate dal senatore Balboni che ha avuto il coraggio di dire che “il Pd ha aperto una voragine alla mafia”. Tutto questo senza una parola di censura da parte del presidente La Russa. Inaccettabile. Meloni si scusi. Ora basta”. Al fianco del Pd si schierano la sinistra, i Verdi e i Cinquestelle. Non il Terzo polo. Che pure non è morbido nei confronti di Donzelli, della maggioranza e del governo: “Ha ragione chi chiama in causa la presidente del Consiglio. Volete avere una visione dello Stato moderno, con una giustizia liberale, o pensate di rincorrere il giustizialismo forcaiolo di Donzelli e del sottosegretario Delmastro? A voi la scelta”, dice Matteo Renzi in aula. E Carlo Calenda, via social, giudica “imbarazzante e imbarazzata” l’informativa di Nordio. Delmastro imbarazza il governo: Meloni e Nordio stretti tra alibi e silenzi di Giulia Merlo Il Domani, 2 febbraio 2023 Il ministro ha detto che “in linea di principio tutti gli atti riferibili ai detenuti in regime di 41 bis sono per loro per loro natura sensibili”, smentendo quindi di fatto Delmastro che sosteneva fossero divulgabili. Poi dice che è necessario tener conto dell’indagine aperta dalla procura di Roma, ma “Non ci pareremo dietro la magistratura”. Il silenzio di Meloni è stato registrato da tutti. Un silenzio, il suo, che difende i suoi due fedelissimi ma sposta politicamente la responsabilità dell’iniziativa su palazzo Chigi. La parola che si sente più spesso nel lato destro del Transatlantico è “imbarazzo”. Nessuno dei deputati di centrodestra è disposto a commentare il caso che sta agitando il governo, ma nessuno se la sente nemmeno di difendere il duo Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli. Il primo ha ammesso di aver dato all’amico e compagno di partito le relazioni di servizio del Dap sui colloqui tra l’anarchico in sciopero della fame contro il 41 bis, Alfredo Cospito, e i mafiosi con cui condivideva l’ora d’aria. Il secondo ne ha dato pubblica lettura alla Camera e li ha usati come arma politica contro il Pd, che era andato in carcere per valutare le condizioni di salute di Cospito. Il disastro è esploso dentro il ministero della Giustizia e quindi in mano al ministro Carlo Nordio, che sarebbe dovuto intervenire alla Camera per relazionare sul caso Cospito, ma non ha potuto ignorare il fatto che si fosse aggiunto quello che ormai è diventato il caso Donzelli-Delmastro. Per entrambi i casi, Nordio ha scelto di prendere tempo, usando l’alibi della magistratura. Nel ricostruire la storia processuale dell’anarchico, ha ribadito la scelta del governo di aspettare i pareri dei magistrati e che la via maestra è quella del ricorso pendente in Cassazione, poi ha confermato che il 41bis non verrà modificato. Più delicata e imbarazzante la situazione del suo sottosegretario con delega al Dap Delmastro, che da fuori l’aula di Montecitorio ha continuato a ripetere che “era un documento non secretato” e che, a domanda, avrebbe dato le stesse informazioni a qualsiasi altro deputato. Mentre le opposizioni ne hanno chiesto le dimissioni, Nordio ha scelto la strada stretta del detto e non detto. Ha di fatto smentito il suo sottosegretario, dicendo che “in linea di principio tutti gli atti riferibili ai detenuti in regime di 41 bis sono per loro per loro natura sensibili. Ragion per cui ai fini della loro ostensione occorre una preventiva verifica e una valutazione del loro contenuto”. Tuttavia ha aggiunto che servono “approfondimenti” per capire che atti siano quelli resi pubblici da Delmastro, “quale livello di segretezza abbiano, se e chi potesse averne conoscenze e se il destinatario potesse a sua volta divulgarli o condividerli con terzi”. Ogni approfondimento è utile, tuttavia le risposte le ha già fornite Delmastro: ha rivelato le relazioni di servizio della polizia penitenziaria sui colloqui tra detenuti al 41bis in cui si parlava di mafia. Tuttavia, Delmastro è dirigente apicale del partito che ha eletto lo stesso Nordio, nonché fedelissimo della premier Meloni mandato in via Arenula proprio per controbilanciare il garantismo del ministro. Lui ha già annunciato che non si dimetterà e Nordio, non ha potuto fare altro che prendere tempo: una istruttoria interna per ricostruire quanto accaduto e “i limiti procedurali che vanno rispettati” visto che la procura di Roma ha aperto un’inchiesta a carico di Donzelli per rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio, dopo un esposto del verde Angelo Bonelli. “Non ci pareremo dietro la magistratura”, ha precisato Nordio, che ha promesso di rispondere al termine della sua istruttoria interna senza aspettare gli esiti dell’inchiesta romana, ma evitando di intralciarla. Imbarazzo filtra anche dalla maggioranza di governo. Non è passato inosservato il silenzio della premier Giorgia Meloni, nonostante al centro dello scontro ci siano due dei suoi uomini di fiducia. Il silenzio di Meloni - Il dato politico che emerge, tuttavia, è che il contrattacco della maggioranza si è trasformato in un boomerang. FdI ha tentato di uscire dall’angolo del caso Cospito accusando il Pd di connivenze con la mafia per eliminare il 41bis, ma per farlo ha ignorato il principio di riservatezza di atti ministeriali. Se via Arenula ha scansato le sue responsabilità con la parziale ammissione che gli atti fossero comunque “sensibili” e dunque non divulgabili senza un passaggio istituzionale, il silenzio di Meloni è stato registrato da tutti. Ieri ha continuato come se nulla fosse i suoi impegni istituzionali, ignorando lo scontro politico interno. Un silenzio, il suo, che difende i suoi due fedelissimi ma sposta politicamente la responsabilità dell’iniziativa su palazzo Chigi. La sua maggioranza, intanto, è tornata a dividersi. Forza Italia ha preso le distanze con il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè che ha parlato di “intervento al di sopra di una normale accusa politica”. Anche i deputati della Lega e di Noi Moderati, nei loro interventi in aula, hanno accuratamente evitato di entrare nel merito della divulgazione delle relazioni di servizio del Dap. Nell’inedita veste di pompiere è invece intervenuto Matteo Salvini, che ha detto che Delmastro e Donzelli non sono in discussione e che si tratta di una “polemica parlamentare di un pomeriggio”. Intanto, ha incassato per oggi l’approdo in cdm del disegno di legge Calderoli sulle autonomie, in tempo per le elezioni regionali. Meloni telefona in tv e Delmastro dice che Donzelli non doveva leggere l’informativa di Vanessa Ricciardi Il Foglio, 2 febbraio 2023 Le reazioni sono scomposte. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha telefonato in tv per ribadire la fermezza sul caso Alfredo Cospito e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove ha detto al Foglio che pensa di cambiare casa. Tutto è partito martedì, quando il deputato Giovanni Donzelli ha letto alla Camera alcune intercettazioni tra Cospito, l’anarchico al 41 bis che sta portando avanti lo sciopero della fame per protestare contro il carcere duro, ed esponenti delle mafie, traendo spunto da questo per attaccare il Pd, visto che una delegazione è andata a verificare le condizioni in cella dell’anarchico. In serata è emerso che le informazioni lette da Donzelli con nomi e giorni arrivano da un’informativa del ministero della Giustizia che gli ha passato Delmastro Delle Vedove, suo coinquilino ed ex avvocato della presidente del consiglio. Al Foglio, due giorni dopo, il sottosegretario ammette che “sono stati fatti degli errori” e poi “non doveva leggere testualmente l’informativa del Dap”. L’indagine - Mercoledì la procura a seguito di un esposto del deputato Angelo Bonelli (Europa Verde) ha aperto un’inchiesta per appurare se questo passaggio di informazioni sia o lecito o no. Le opposizioni hanno chiesto alternativamente le dimissioni di Donzelli da vicepresidente del Copasir, l’organismo parlamentare che vigila sui servizi segreti, e di Delmastro dal ministero. Nessuno finora ha deciso di fare un passo indietro. Delmastro nell’intervista ha spiegato che ha parlato dell’informativa a Donzelli la mattina alla Camera prima che il deputato intervenisse: “Prendeva appunti”. Il sottosegretario dice che è sicuro che la procura chiuderà l’inchiesta dopo averlo sentito. Delmastro - Il parziale dietrofront di Delmastro è arrivato dopo aver rivendicato per due giorni di aver riferito lui le informazioni riservate, ma a suo dire non segrete, a Donzelli: “Sono in ordine con la mia coscienza. Non sapevo che Giovanni avrebbe usato quell’informativa”, aggiunge adesso. Non ha intenzione di dimettersi: “No, ho chiarito la mia posizione con la premier. Mi ha creduto perché è la verità. Non erano documenti secretati né classificati”. Il ministro Carlo Nordio che è intervenuto in aula alla Camera e al Senato non è entrato nel merito. Il sottosegretario non ha parlato con il ministro, ha raccontato ancora, “ma con il suo gabinetto sì”. Dice che Nordio non lo attaccherà ma “speriamo che regga la linea”. Adesso potrebbe pensare di cambiare domicilio separandosi da Donzelli: “Ci sto pensando, è un’ipotesi. Questa sera glielo propongo”. Pronto Palombelli - La presidente del Consiglio ha chiarito a Stasera Italia su Rete4 che su Cospito “lo Stato rimane fermo”. Non ci saranno aperture su Cospito: “Perché io credo che lo Stato debba rimanere fermo di fronte alle minacce di mafiosi e terroristi”. Meloni ha ricordato i recenti fatti di cronaca che si stanno accompagnando allo sciopero della fame dell’anarchico: “Abbiamo auto di funzionari delle ambasciate italiane che saltano, continue minacce allo stato da parte di questi anarchici e la domanda è se il governo stia eccitando la piazza? Io, francamente, rimango un po’ di stucco. Dobbiamo rimettere le cose nella giusta direzione, bisogna capire chi crea il problema e chi non lo crea, perché il problema non lo ha mica creato il governo. Il problema lo hanno creato delle persone che decidono deliberatamente di sfidare lo stato italiano”, ha aggiunto Meloni, che ha criticato il titolo di Domani “Meloni è pronta a lasciar morire in carcere cospito” (senza citare il giornale). Intanto le condizioni del recluso si aggravano, e Cospito ha annunciato che non ha intenzione di farsi alimentare forzatamente qualora le circostanze precipitassero. Donzelli e la politica in stile Erasmus: il Parlamento come un reality show di Concita De Gregorio La Stampa, 2 febbraio 2023 L’ascesa del braccio destro di Meloni: lo mandano in tv con risposte già scritte perché “funziona”, ma gestire un governo non è l’occasione per fare numeri a effetto tirando fuori carte riservate. Più di tutto mi entusiasma la storia del trilocale con cucina in comune, tipo studenti fuori sede: si dividono le bollette, la spesa dei surgelati, si fa a turno, in bagno va prima chi deve uscire per primo e all’odore del caffè ci si trova spettinati lì davanti ai fornelli - in mutande, in pigiama - e si fanno due parole. Senti ma questa storia di Cospito? E niente dice che era d’accordo coi mafiosi. In che senso? Sì, ho visto le carte, le intercettazioni: due della camorra e della ‘ndrangheta amici suoi, si mettevano d’accordo. Veramente, fa’ vedere. Così, fra uomini di governo della cerchia stretta del primo ministro. Fra gente custode di segreti di Stato che maneggia i dossier come fossero gli appunti di estimo, dai che ti do i miei così fai bella figura, o gli screenshot dei messaggini della morosa, guarda che mi ha scritto, leggi leggi. (Qui, per tranquillità delle rispettive famiglie, tocca precisare che non è da intendersi in senso letterale, questo fatto delle morose che di certo i coinquilini non hanno: è un esempio di fantasia). Non si capisce niente della politica romana senza avere contezza della toponomastica degli alloggi, delle convivenze, di chi incontri la sera nell’androne: un cardinale, un portavoce, la popolarissima trans del terzo piano - come fu nel caso di una deputata veneta timorata di Dio che, un paio di legislature fa in zona Pantheon, finì per condividere le cene tardive con la Lori che di politica, per via delle frequentazioni diurne in pausa pranzo delle Camere, ne sapeva più di lei e la istruiva. Amiche del cuore, tuttora. Qui siamo invece nel rione Monti, dove aveva casa Napolitano: pieno centro di Roma a un passo dal Quirinale. Donzelli e Andrea Delmastro, già avvocato di Giorgia Meloni ora sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri (Dap, dipartimento amministrazione penitenziaria), vivono insieme nell’appartamentino ed è per questo, bisogna mettersi nei panni, che sanno tutto uno dell’altro e si danno cameratescamente, avverbio doppiamente appropriato, una mano. L’intimità dei piccoli spazi. Non lo conoscevo, Giovanni Donzelli. Non di persona, intendo: solo per le sue gesta e la sua fama. Braccio destro amatissimo da Giorgia Meloni, mandato in tv dal partito in qualsiasi occasione per le sue doti di comunicatore - svelto, logorroico nella versione accelerata del comiziante, non in quella dolente del pensatore, uno di quelli che alza il tono di voce per non mollare la parola e non la molla, difatti. Per questo lo mandano avanti, mi avevano spiegato: ha pure una faccia simpatica, un po’ da topino dei fumetti, funziona. “Funziona” è la parola definitiva che chiude ogni discussione, nel mondo della comunicazione: non c’è da chiedersi ma di cosa sa, che competenze ha. Non importa: funziona. Me lo sono trovata di fronte qualche sera fa in uno studio tv, ridente e a suo agio in dolcevita da esistenzialista francese - quella adottata da Giuseppe Conte nel suo nuovo ruolo di leader della sinistra, va molto pure a destra: anche gli estremi estetici, come gli altri, si toccano - e per prima cosa mi ha detto di avere un nonno partigiano. Chi non ha un nonno partigiano, fra i toscani e gli emiliani, ho risposto pensando ad Alessandra Borgonzoni: anche lei aveva esibito lesta al nostro primo incontro il suo quarto di nobiltà. Poi mi ha detto che quando si è iscritto al Fuan suo padre aveva pianto (in altre versioni, ho letto, è stata la madre a piangere: qualcuno avrà pianto). Il nonno si sarà rivoltato nella tomba, ho replicato. Lui ha sorriso ed è passato ai figli: due preadolescenti adorati. Terminate le informazioni familiari ha tirato fuori dalla tasca dei foglietti di appunti a cui lì per lì non ho fatto caso: in tanti si preparano i dati che non mandano a mente. Invece, ho scoperto nella successiva conversazione, gli appunti contenevano quello che Donzelli avrebbe risposto a prescindere dalla domanda. Come fanno appunto certi studenti furbi sperando che il prof sia in fase di digestione post-prandiale: le mirabili conquiste della missione in Libia di Giorgia Meloni (ma scusi, stavamo parlando di stipendi degli insegnanti, di gabbie salariali), i dati sui migranti (ma dicevamo della giustizia) fino a che non è arrivato a Cospito definendolo terrorista, così dicevano i suoi appunti. C’è stata allora qualche tensione nel dialogo al termine del quale, finita la diretta, con mia grande sorpresa per assenza di reciprocità, ha detto: grazie, mi sono trovato benissimo. Sulla vicenda politica scatenata da Donzelli e sulla sua gravità ha scritto qui ieri Annalisa Cuzzocrea e non c’è molto da aggiungere. L’inadeguatezza, l’analfabetismo istituzionale, la classe dirigente venuta giù con la piena per via del fatto che il successo elettorale è stato tale da raccattare tutti: vecchi camerati, professionisti di fiducia amici di famiglia e parenti, dirigenti locali di dubbia solidità. Ma è successo a tutti: non è che la sinistra abbia brillato per selezione della classe dirigente, negli ultimi anni, per non parlare del Movimento Cinque stelle. Quando si vince si imbarca chi si vuole, ci mancherebbe, chi c’è c’è. Quindi benissimo Donzelli, che a 47 anni ne ha già quasi trenta di militanza politica: non un novellino. Diploma di liceo scientifico, quindi uno che diciamo ha anche studiato. Rapido a capire da che parte stare, a fianco di Meloni da tempi non sospetti - uno che ha rifiutato un ministero, perbacco, pur di stare in Parlamento. Ora però resterebbe da chiarire che un conto è fare il responsabile organizzazione del partito, il commissario a Roma: l’uomo di via della Scrofa, insomma, che dalle stanze che furono di Almirante governa il caos degli arrembanti al successo insperato. Un altro è fare il vicepresidente del Copasir, invece, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, cioè di tutti quanti, compresi quelli che vanno a vedere se un detenuto è vivo o mezzo morto giacché compito dello Stato è tutelare tutti, non fare giustizia sommaria, vendicarsi o rispondere a brigante un brigante e mezzo. Gestire un governo non è un reality, non è l’occasione per fare il numero dallo scranno usando carte giudiziarie riservate (utili a qualche indagine, probabilmente, e così rese inutili) come cartucce per battute a effetto. Non è una comparsata in tv, per quanto funzioni nel circo a perdere di chi urla di più. Non è nemmeno un Erasmus, non è la versione romana dell’Appartamento spagnolo. Ma scusa, dimmi meglio: quindi questo Cospito è in combutta coi mafiosi? Eh, guarda qui, leggi. No, davvero. Non funziona così e non è un tema di scontro fra opposizioni e governi: è a tutela di tutti, garantire le regole uguali. Perché poi la ruota gira, gira sempre: non sai mai se sarai sopra o sotto domani. Meglio che ovunque tu sia nessuno ti spinga un piede sulla testa. È facile fare gli sbruffoni dall’alto. È auspicabile che nessuno lo faccia con te quando sei in basso. È così che, anche all’asilo, funziona un gioco che funziona. La rissa è su Donzelli ma del 41 bis non frega nulla a nessuno di Piero Sansonetti Il Riformista, 2 febbraio 2023 La polemica sulle scemenze dette l’altro giorno alla Camera dal deputato di FdI Giovanni Donzelli (che ha accusato il Pd di essere dalla parte della mafia e dei terroristi) ha del tutto oscurato il tema di fondo sul quale sarebbe stato giusto discutere: il carcere duro, la sua inumanità, la sua inutilità, il contrasto aperto ed evidentissimo con la Costituzione. E poi la questione specifica: la sospensione del 41 bis per Alfredo Cospito in modo da evitare la sua morte. Alfredo Cospito è in prigione perché ha commesso dei reati ma ora sta facendo lo sciopero della fame non per chiedere di essere liberato ma semplicemente per denunciare la follia del 41 bis. Da questo punto di vista - come sottolinea la nota delle Camere penali che pubblichiamo qui sotto - sta impegnandosi in una battaglia che non ha niente di infame e anzi è condivisibile da chiunque abbia a cuore il diritto e pensi che si possa fare politica senza che la politica sia fagocitata e demolita dalla demagogia. Il 41 bis è una disposizione crudele che immiserisce il ruolo e l’immagine dello Stato, e che viola il diritto internazionale e il dettato della Costituzione repubblicana la quale vieta i trattamenti inumani dei prigionieri. I quasi mille detenuti al 41 bis sono tenuti in prigione in condizioni ignobili, vengono torturati quotidianamente, afflitti con regole insensate e sadiche e tutto questo senza alcuna ragione. Il 41 bis fu concepito più di trent’anni fa come misura d’emergenza per fronteggiare l’offensiva militare della mafia. Erano stati uccisi Falcone, sua moglie, Borsellino e otto uomini e donne di scorta. Nessuno - assolutamente nessuno - ritiene oggi che sia ancora in corso quella offensiva militare, e questo rende insensato e spietato il regime di carcere duro. Possibile che nessun partito abbia il coraggio di dire queste cose? Perché il Pd continua a sostenere a spada tratta il 41 bis? Perché il ministro Nordio si comporta come un don Abbondio? Perché in tutto il dibattito parlamentare solo un deputato radicale - uno: uno solo - ha avuto il coraggio e l’onestà di dichiararsi contro il carcere duro? “Mafioso”, la parolina magica che mette in fuga i garantisti di Iuri Maria Prado Il Riformista, 2 febbraio 2023 Manconi spiega che le garanzie non si commisurano al tipo di reato commesso dal detenuto. Ma lo ricordano in pochi. Ho scritto più volte, e anche qui sul Riformista, che nei confronti del “mafioso” vige un trattamento discriminatorio che non ha pari presso nessun’altra categoria delinquenziale. E se devo mettere i piedi nel piatto dico che l’oscena vicenda di Alfredo Cospito rappresenta una riprova esemplare di quella verità. Ha ragione Luigi Manconi quando dice che l’approccio garantista non è misurato sui precedenti del detenuto, sulle sue idee, sull’efferatezza di cui egli ha dato prova, ma questa giusta osservazione si scontra con una pratica puntualmente contraria proprio quando di mezzo c’è il “mafioso” e il suo stato di detenzione: mai oggetto delle attenzioni - doverosissime, per carità - invece riservate a chi di altro tipo di illecito si sia reso responsabile. Se si è “mafiosi” - e spesso l’attribuzione della patacca è dovuta al delitto di fumo quale il concorso esterno, o solo all’appartenenza familiare - tanto basta a giustificare il calo dell’attenzione garantista anche tra molti di quelli che sfoggiano di militare nella categoria. E ricordiamo che a sinistra quanto a destra, e forse a sinistra anche con più orgoglio, si rivendica il merito di far morire in carcere il mafioso. Non è una buona ragione per cessare la debole e disperata campagna, che questo giornale conduce meritoriamente, di denuncia del trattamento carcerario che quell’anarchico sta subendo e che ormai mette a rischio concreto la sua vita. Ma deve far meditare il fatto inoppugnabile che quel regime carcerario si applica regolarmente, nel silenzio e senza scandalo, al mafioso: con privazioni e afflizioni che non sono meno ingiuste solo perché egli non vi si oppone con lo sciopero della fame. E soprattutto: per presunte esigenze sicuritarie che in realtà ricorrono assai raramente, e in ogni caso potrebbero essere soddisfatte senza i tormenti di quel regime afflittivo. Non sono sicuro che tutti i cosiddetti garantisti sottoscriverebbero queste considerazioni. Anche mafiosi e anarchici hanno diritto ad avere idee e opinioni di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 2 febbraio 2023 La logica del regime carcerario 41 bis è bloccare i messaggi, o meglio gli ordini, che possono partire dai carcerati. È ovvio che prevenire altri crimini è diritto della società e, insieme alla rieducazione, la prevenzione sta a fondamento della pena. Altrettanto ovvio è che questo tipo di meccanismo si possa estendere oltre la mafia, ad altre organizzazioni criminali e ad altri individui che possono, col loro comportamento da detenuti, essere causa di condotte criminali pericolose. In questo senso, il passato di Alfredo Cospito e la sua presunta influenza sulle azioni di alcuni gruppi anarchici possono giustificare il regime carcerario che gli è stato imposto. La questione dell’organizzazione gerarchica dei movimenti anarchici è complessa, mentre le intenzioni criminali passate di Cospito sono chiare ed esplicite. Cospito, come ha sostenuto il direttore di questo giornale, è un terrorista che non rinnega il suo passato. Ma i detenuti non comunicano solo ordini criminali. Possono esprimere idee, ideologie, manifesti politici. I detenuti, oltre che rei, sono anche esseri umani e gli esseri umani pensano e hanno opinioni. Queste opinioni possono essere sbagliate, aberranti, irricevibili, in mala fede, banali, assurde. I mafiosi hanno spesso civettato con una abborracciata ideologia della mafia, e hanno spesso cercato la coincidenza degli interessi concreti con terroristi ed eversori di varia risma (questo in maniera molto più lucida dei loro proclami ideologici zoppicanti e sgrammaticati). Il 41 bis non può estendersi alle idee. Gli interessi di sicurezza della società vanno conciliati con l’interesse che tutti abbiamo ad avere una discussione pubblica multiforme, quanto più possibile libera, animata, dove anche idee palesemente sbagliate, ovviamente immorali, si possano esprimere. Perché se le idee immorali, offensive, sbagliate non si possono esprimere liberamente non c’è occasione per confutarle, per esporre i loro autori al ludibrio della logica e del buon senso. E per alcuni queste idee diventano fascinose, attrattive, proprio perché reiette. Questo spiega il fascino del dirsi fascisti in certe frange giovanili, che senza troppa consapevolezza ideologica rincorrono la ribellione al senso comune, come ha spiegato Christian Raimo nel suo “Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra” (Piemme, 2018). Una società liberal-democratica deve lavorare sulle relazioni causali effettive e prevedibili fra parole e atti. Se, in un periodo di inflazione dei prezzi del grano, si diffonde un volantino che accusa i commercianti di grano di aumentare i prezzi dei loro prodotti a una folla vociante sotto il portone di un proprietario terriero e la folla irrompe dentro il palazzo, il volantino è la miccia, e ci sarebbero stati gli estremi per proibirlo e per punire i suoi diffusori (l’esempio è di J.S. Mill). Ma pubblicare queste idee su un giornale è un’istigazione a uccidere i commercianti di grano? Il nesso causale in questo caso è indiretto e labile e il valore della libertà di pensiero supera il piccolo rischio di comportamenti pericolosi. Il bilanciamento fra interessi diversi della società dovrebbe regolare istituti come il 41 bis. Che a Cospito si dovesse impedire di inviare i suoi testi a riviste anarchiche, con tutti i controlli del caso, non è così ovvio. Nessun anarchico ha ancora mostrato come fare a meno dello stato, come una società anarchica possa produrre certi beni pubblici come la cooperazione e la sicurezza. Ma ciò non toglie loro il diritto di godere del bene pubblico della tolleranza garantito dagli stati liberal-democratici. Nonostante la loro ingratitudine. Caso Cospito-Donzelli-Delmastro, ora è in bilico la riforma Nordio di Stefano Folli La Repubblica, 2 febbraio 2023 Si possono attendere tutte le inchieste del mondo, ma sul piano politico è già chiaro chi ha sbagliato e perché. Comunque la si pensi sul caso Cospito-Donzelli-Delmastro, è probabile che la vera vittima di questa confusa vicenda sia la riforma della giustizia. Concepita dal ministro Nordio, sia pure fra errori e incongruenze, in chiave liberale e garantista, il testo non ha ancora visto la luce ma sembra già un veliero disalberato e avviato al bacino di carenaggio. La giornata di ieri (mercoledì 1 febbraio) alla Camera ha descritto come meglio non si potrebbe uno scenario malinconico. Il Guardasigilli avrebbe dovuto dire una parola chiara sulla vicenda del giorno prima (le carte riservate la cui sostanza è stata diffusa in aula da un esponente di FdI), tuttavia è stato vago e ha rinviato la questione. Certo, c’è una procura che se ne sta occupando ed era stato annunciato anche un rapporto chiesto dal ministro al suo capo di gabinetto. Ma al dunque non è stato spiegato alcunché, lasciando un’impressione di imbarazzo. O magari si tratta del timore di prendere una posizione netta, perché implicherebbe le dimissioni di uno dei due personaggi implicati nella vicenda, probabilmente di tutti e due: il primo vicepresidente del Copasir, il secondo - quello che gli avrebbe passato le informazioni “sensibili” - sottosegretario nel ministero di via Arenula. Un esito che si risolverebbe in una sconfitta alquanto grave per il governo Meloni. In realtà l’insuccesso è già nei fatti. Può darsi che non abbia riflessi sul consenso elettorale del governo e della stessa presidente del Consiglio, ma una crisi “ibernata” per timore delle sue conseguenze è già una ferita alla credibilità dell’esecutivo. Per meglio dire, alla credibilità del ministro che più di tutti dovrebbe definirne il profilo innovativo, proteso verso una giustizia capace di offrire garanzie al cittadino, impedendo soprusi e abusi. Per questa ragione Nordio era stato chiamato dalla premier a ricoprire il ruolo più delicato. E non si capisce perché egli si trovi oggi in una simile scomoda posizione senza ricevere aiuto da chi avrebbe il dovere di dargliene: proprio per non compromettere il progetto riformatore, ammesso che fosse un disegno e non solo un’operazione strumentale. Nel frattempo Nordio si trova in una specie di tenaglia. Attaccato dall’opposizione (Pd e Cinque Stelle) che non gli offre alcuno spiraglio, tranne Renzi che ha visto la contraddizione nel centro-destra e si sforza di allargarla. Messo all’angolo dall’uscita di Donzelli, con il suo sapore rétro da campagna elettorale permanente; deluso dal suo sottosegretario Delmastro. Si possono attendere tutte le inchieste del mondo, ma sul piano politico è purtroppo già chiaro chi ha sbagliato e perché. Ed è altrettanto chiaro, sempre sul terreno politico, il motivo per cui non si sono prese le decisioni che sarebbero necessarie. Ecco la ragione per cui la riforma della giustizia è probabilmente già compromessa. Prima il pasticcio delle intercettazioni, adesso questo scivolone molto più grave. Il governo si è sforzato di portare la discussione sul 41bis, con il sottinteso di rendere più coeso il fronte del centro-destra e suggerire che la sinistra non lo è abbastanza. Ma pochi pensano che le violenze degli anarchici e gli appelli di Cospito avranno l’effetto di cambiare la legislazione. Il punto politico delle ultime ore è un altro: lo scontro trasversale tra giustizialisti e garantisti e l’affare delle carte segrete. Con il partito della premier che non ha voluto o non è riuscito a sostenere fino in fondo Nordio. Una sorta di opposizione interna si è ritrovata, pur nel conflitto, alleata dell’opposizione esterna per esprimere diffidenza verso la riforma promessa e non ancora definita. Così il ministro esce indebolito dalla due giorni parlamentare. Può risalire la china, ma avrà bisogno di coraggio. E qualcuno dovrà, se vorrà, coprirgli le spalle. Liquidare Delmastro: il sogno impossibile di Nordio di Federica Olivo huffingtonpost.it, 2 febbraio 2023 Dopo una mattinata di nervosismi, Meloni blinda tutto. Il ministro va in Parlamento e (per ora) salva il sottosegretario che ha passato a Donzelli le conversazioni di Cospito coi boss. Prova a liquidare la questione Delmastro-Donzelli con una manciata di parole, giustificandosi con il fatto che i tempi non sono maturi per dare una risposta definitiva. Che al ministero è in corso un approfondimento e che anche la procura di Roma ha aperto un’inchiesta. Ma, così facendo, Carlo Nordio ottiene l’effetto contrario. Perché l’opposizione - che lo aveva chiamato alla Camera per riferire del caso Cospito, ma anche per spiegare che tipo di atti fossero quelli di cui il sottosegretario con delega alle carceri, Andrea Delmastro, aveva parlato con il vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli, il quale ne aveva spiattellato il contenuto in Parlamento - se la prende con lui. E lo accusa di essere stato reticente. Dietro le sembianze del Ponzio Pilato a Montecitorio, che si lava le mani di una questione che solo lui può redimere, c’è però il grande imbarazzo di un ministro che sa di avere le mani legate. Di essere, come ha commentato sarcastico qualche parlamentare in Transatlantico, considerato dalla premier meno importante del suo sottosegretario. Di Delmastro, per l’appunto, che con Nordio non va esattamente d’accordo. Soprattutto dopo che per due settimane l’avvocato biellese fedelissimo di Meloni ha fatto da controcanto al ministro sulla riforma delle intercettazioni. Che i due non si prendano è ormai il segreto di Pulcinella, anche se in via Arenula raccontano che Nordio si sforzi di trattare il suo sottosegretario sempre con grande cortesia e “grande umanità”. Nella frenetica mattinata di via Arenula - condita, peraltro, da quattro blackout parziali in poche ore, che hanno spazientito non poco i dipendenti - non è passato inosservato che il Guardasigilli fosse irritato, per non dire arrabbiato, per il fatto che il suo sottosegretario avesse raccontato all’amico-coinquilino Donzelli il contenuto di atti quantomeno molto delicati. Eppure, irritazione a parte, Nordio ha potuto fare ben poco. E non tanto perché sulla vicenda c’è un’istruttoria interna in corso, quanto perché sa bene di avere poco margine di azione. Ritirare le deleghe a Delmastro sarebbe stato un gesto troppo forte, che lo avrebbe messo in contrapposizione con FdI e anche con la premier tanto più che già dalla mattinata fonti di FdI assicuravano che il ruolo del sottosegretario era blindato. Chiedergli, con il sorriso sulla bocca, di fare un passo indietro per il bene della coalizione forse sarebbe stato un gesto meno forte, ma che Nordio non si è sentito di fare. Sarebbe stato solo contro tutti e non se l’è sentita: l’effetto è stato quello di prestare il fianco al melonianissimo sottosegretario. Dal canto suo la premier è stata molto silente, ma allo stesso modo molto interessata alla vicenda, per tutto il giorno, fino a quando non ha telefonato in diretta in prima serata su Rete4, per dire che “la sfida (degli anarchici, ndr) non è al governo, la sfida è allo Stato e lo Stato ci riguarda tutti, non è un tema politico, di destra e sinistra”. Così, in Aula, il Guardasigilli poco ha potuto fare se non soffermarsi a lungo sulla storia dell’anarchico che è da 105 giorni in sciopero della fame e accennare appena qualche frase sulla querelle che da due giorni agita il Parlamento. In sostanza, ieri Donzelli alla Camera ha citato atti riservati del Dap che riguardavano le conversazioni di Cospito con altri detenuti al 41 bis, a Sassari, mafiosi. Atti il cui contenuto, per sua stessa ammissione, gli è stato riferito da Delmastro. Ma di che atti si parla? Erano atti secretati o solo riservati? È molto probabile che si tratti di carte della seconda categoria, ma a questa domanda Nordio non risponde: “Gli atti che riguardano detenuti al 41 bis sono in via generale di natura sensibile. A partire da questo dato esiste però una pluralità di aspetti che meritano approfondimenti: bisogna vedere di che tipo di atti si tratti, quale livello di segretezza essi abbiano, se e chi potesse averne conoscenza e se il destinatario potesse divulgarli e condividerli con terzi”, premette il ministro. E in queste parole, pronunciate con il solito garbo, si nasconde tutto l’imbarazzo che prova in questo momento. “Già nella giornata di ieri, come è noto, ho chiesto al mio Capo di Gabinetto di ricostruire quanto accaduto. Questi quesiti attengono ad una materia complessa, delicata, suscettibile per alcuni aspetti di diverse interpretazioni. A questo quadro si aggiunge l’indagine aperta dalla procura di Roma per rivelazione del segreto d’ufficio. Questa notizia è un elemento di novità, di cui per il doveroso rispetto del lavoro degli inquirenti non possiamo non tener conto”, ha concluso il ministro, attirandosi i boati dell’opposizione. Debora Serracchiani, parlamentare del Pd, gli chiede di ritirare le deleghe a Delmastro - opzione che, come dicevamo, non è neanche sul tavolo al momento - e si rammarica del silenzio della premier. Riccardo Magi, deputato di +Europa nonché autore dell’espressione “analfabeti istituzionali” che, indirizzata a Delmastro e Donzelli, ha monopolizzato ieri la discussione parlamentare, accusa il ministro di essere stato elusivo: “Se la finalità del 41-bis è impedire la comunicazione tra detenuti ed esterno, ieri quelle comunicazioni sono state garantite dall’onorevole Donzelli. Lei si assume la responsabilità di non intervenire ma si deve assumere anche la responsabilità di dirci cosa è accaduto rispetto alle dichiarazioni di Donzelli. Lei non ha voluto o non ha potuto prendere delle decisioni rispetto alle deleghe del sottosegretario né dirci parole chiare, a questo punto quella responsabilità ricade direttamente su di lei e sul presidente Meloni”. Nordio ascolta in silenzio, non si scompone, parlotta per pochi secondi con Francesco Paolo Sisto, unico dei suoi vice in via Arenula presente in Aula: Delmastro non c’era, eppure meno di un’ora prima aveva abbondantemente parlato ai giornalisti per dire che non si sarebbe mai e poi mai dimesso, perché riteneva non ci fosse motivo. Anche Donzelli è assente. “Ha la riunione del Copasir”, viene giustificato il deputato dai suoi, eppure quello scranno vuoto viene notato da tutti. L’espressione tra l’impassibile e l’imbarazzato di Nordio, visibilmente stanco, cambia solo verso la fine, quando interviene Davide Faraone di Italia Viva: “Ministro - gli dice il deputato - FdI è garantista quanto io e lei abbiamo una folta chioma”. La battuta è gustosa e lo sa anche il Guardasigilli. Che, pur essendo stato eletto nelle file di Fratelli d’Italia, proprio non riesce a trattenere il sorriso. L’unico, probabilmente, di questa giornata complicata. “Dobbiamo sostenere Cospito”: così i mafiosi puntano a infiltrare i cortei in favore dell’anarchico di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 2 febbraio 2023 In tre penitenziari di massima sicurezza sono stati ascoltati dei boss camorristi discutere su come alimentare la protesta contro il 41 bis. L’allerta dell’intelligence: “Rischio saldatura con gli anarco-insurrezionalisti”. I mafiosi al 41 bis stanno puntando su Alfredo Cospito e sulla sua battaglia per interrompere il carcere duro. “Dobbiamo sostenerlo”, vanno ripetendo i camorristi (e non solo loro) nelle carceri di massima sicurezza d’Italia: a Sassari, dove Cospito era detenuto e ha cominciato lo sciopero della fame, ma anche a Novara e Spoleto, come raccontano le relazioni del Gruppo operativo mobile (Gom) della Polizia penitenziaria arrivate di recente sui tavoli della Direzione nazionale antimafia e del ministero della Giustizia. Il contenuto di quelle carte è in parte finito, senza alcun benestare della Penitenziaria e dei magistrati antimafia, alla Camera dei deputati, nell’intervento di martedì scorso dell’onorevole di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli. E da lì al centro dello scontro politico tra maggioranza e opposizione. Un esito imprevedibile: mai un parlamentare era andato in Aula a declamare conversazioni raccolte negli istituti detentivi del 41 bis, ancora segrete. Prevedibile, invece, che i mafiosi finissero per sostenere, in qualche modo, la protesta del detenuto anarchico, giunto al 106 esimo giorno di sciopero della fame. La battaglia di uno degli esponenti più carismatici della Federazione anarchica informale (Fai), condannato per la gambizzazione dell’dirigente di Ansaldo Nucelare Roberto Adinolfi e per i due ordigni piazzati all’ingresso della Scuola allievi carabinieri di Fossano, ha aperto infatti, e fatto fare un salto di qualità, al dibattito pubblico sul 41 bis, il regime del carcere duro. Nonostante le parole di chiusura del ministro della Giustizia, Carlo Nordio (“mai pensato di cambiare le norme che lo regolano”), i boss sperano di poter raccogliere i frutti della lotta di Cospito. “Sarebbe importante che la questione arrivasse a livello europeo e magari ci levassero l’ergastolo ostativo” gli diceva il boss mafioso Francesco Presta, durante i passeggi di socialità nel carcere sassarese di Bancali. “Pezzetto dopo pezzetto si arriverà al risultato”, ragionava poi Francesco di Maio, un uomo di primo piano del clan dei Casalesi. Ma chiacchiere di questo tipo sono state scambiate da Cospito anche con Pietro Rampulla (l’uomo che confezionò le bombe per la strage di Capaci nella quale morì il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e egli uomini della scorta) e con l’altro siciliano Pino Cammarata. Che questa comunità di intenti esista, Cospito lo sa. Tanto che negli ultimi giorni - questo per lo meno ricostruisce la Penitenziaria nelle informative - avrebbe chiesto al suo avvocato di non prendere posizioni pubbliche che possano essere strumentalizzate dalla criminalità organizzata. E di concentrarsi invece sulla sua situazione clinica, sull’enormità della condanna ricevuta (30 anni) e sul regime carcerario cui è sottoposto. I servizi della nostra intelligence già durante la pandemia avevano segnalato il pericolo di un avvicinamento tra gruppi eversivi, sia di sinistra sia di destra, e appunto ambienti della criminalità organizzata. Ne erano state trovate evidenze con le prime manifestazioni di piazza dopo il lockdown e i rapporti - documentano alcune indagini della magistratura - sono continuati nel tempo. Ora l’occasione è ghiotta, motivo per cui la polizia di Prevenzione sta seguendo con attenzione quello che succede all’interno dei movimenti anarchici per verificare chi e se qualcuno si infiltra. Ed è anche su questo rischio di contiguità tra eversione, anarco-insurrezionalismo e mafie, che si fonda il nuovo parere dato dalla Direzione nazionale antimafia sulla prosecuzione 41 bis a Cospito: pur confermando quanto già detto mesi fa sul suo carisma e sulla sua capacità di istigazione, ragioni alla base della decisione del maggio scroso di spostare l’anarchico nel circuito del carcere duro, i magistrati antimafia segnalano anche elementi che lasciano spiragli alla possibilità della revoca. Sarà il ministro Nordio ad avere l’ultima parola. L’ex attaccante della Juve Padovano assolto dopo 17 anni: “Ho subito il pregiudizio di tutti” di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 febbraio 2023 La corte d’appello di Torino ha assolto l’ex calciatore dall’accusa di traffico di droga. A causa dell’inchiesta, Padovano ha trascorso tre mesi in carcere e nove ai domiciliari, mentre suo padre è morto. Al Foglio racconta il suo calvario: “Scrissero che avevo ceduto droga a Vialli. Ma vi rendete conto?” “È un’emozione veramente molto forte. Io e la mia famiglia abbiamo smesso di piangere poco fa, perché era una notizia che aspettavamo da tempo. Dopo 17 anni finalmente abbiamo rivisto la luce. E le assicuro che 17 anni, sapendoti innocente, sono tanti”. E’ con queste parole che, intervistato dal Foglio, Michele Padovano, ex calciatore della Juventus e della Nazionale italiana, commenta la sentenza con cui è stato assolto dalla corte d’appello di Torino dall’accusa di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. L’ex attaccante simbolo della Juventus campione d’Europa nel 1996, con un passato anche nella Reggiana e nel Genoa, venne arrestato nel 2006 con l’accusa di aver prestato soldi a un suo amico, ritenuto capo di un gruppo dedito al traffico internazionale di droga. In primo grado Padovano venne condannato alla pena di 8 anni e 8 mesi di reclusione, ridotti a 6 anni e 8 mesi in appello. Nel gennaio 2021 la Cassazione annullò le condanne, disponendo un nuovo giudizio d’appello, giunto ieri a distanza di 17 anni dall’arresto: assoluzione. “Venni arrestato il 10 maggio 2006 - racconta Padovano, assistito al processo dagli avvocati Michele Galasso e Giacomo Francini -. Un arresto in flagranza, con tre macchine della polizia, nove persone, le manette ai polsi. In quel frangente sinceramente pensai di essere su ‘Scherzi a parte’. Poi col passare dei minuti mi sono reso conto che non era uno scherzo. Mi portarono prima in caserma, poi al carcere di Cuneo, dove stetti per dieci giorni in isolamento. Poi da lì mi trasferirono nel carcere di Bergamo, reparto speciale. Ci sono rimasto altri due mesi e mezzo, per un totale di tre mesi di carcere”. Poi ci furono i domiciliari. “In seguito ci furono nove mesi di arresti domiciliari e altri tre mesi di obbligo di firma presso la caserma dei Carabinieri”. Il coinvolgimento nella vicenda di Padovano si basò su un prestito fatto a un amico di infanzia, poi coinvolto nell’operazione antidroga: “Non ho mai rinnegato l’amicizia con questa persona e non la rinnego certo adesso - spiega Padovano - Gli feci un prestito in maniera molto tranquilla, perché mi venne motivata: gli servivano soldi per comprare dei cavalli. Noi al processo abbiamo dimostrato che l’acquisto dei cavalli avvenne. Ma sia in tribunale che in appello non siamo stati creduti. Ci sono serviti 17 anni”. La vicenda, nel frattempo, ha avuto pesanti ripercussioni sulla vita dell’ex calciatore. “A livello sociale ho percepito il pregiudizio di tutti, ma sono sempre stato molto fermo nei miei atteggiamenti e consapevole del fatto che ero innocente. Ho avuto la fortuna di avere vicino a me la mia famiglia, in primis mia moglie e mio figlio, che hanno sempre creduto in me. Mi sono sempre di più avvicinato ai valori quelli veri e sinceri della vita. Non ho più voglia di rapporti superficiali e leggeri. Purtroppo ho perso mio padre, che proprio in quell’occasione si ammalò di tumore ed è morto un anno e mezzo dopo. Sicuramente la ‘botta’ di avere un figlio che viene trattato come un trafficante di droga non lo ha aiutato”. Ci sono poi i danni causati dall’inchiesta sul piano professionale. “La mia carriera è stata distrutta - afferma Padovano -. All’epoca avevo molte proprietà, un lavoro che mi permetteva di essere in rampa di lancio per una carriera importante da dirigente. Ma quando ti succede una cosa del genere ti voltano tutti le spalle. Non colpevolizzo nessuno, anche se io nei confronti di un mio ex collega mi sarei comportato diversamente. È andata così, da oggi mi devo riprendere in mano ciò che mi è stato tolto con tanta forza”. All’epoca uno dei principali quotidiani italiani riportò la notizia dell’indagine con questo titolo: “Ex juventino in carcere per traffico di hashish. ‘Cocaina ceduta a Vialli’”. Un articolo che, alla luce della recente scomparsa del compagno di squadra nel club bianconero, oggi colpisce nel profondo Padovano: “Ma vi rendete conto? Pazzesco… Provo tanta amarezza, perché era una falsità sotto tutti i punti di vista, come poi è emerso anche a livello processuale. Non c’entravo niente io, figuriamoci Vialli. Lui poi è stato uno dei pochissimi a starmi sempre vicino durante questa vicenda giudiziaria. Di Gianluca ho un ricordo meraviglioso e non c’è giorno in cui io non gli dedichi un pensiero”. Sardegna. Nomina del Garante, un primo passo per carceri più umane di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2023 C’è sempre stata una certa diffidenza intorno alla figura del garante per i detenuti. Da una parte i magistrati di sorveglianza perché rivendicavano il loro compito istituzionale di vigilanza sull’organizzazione degli istituti penitenziari e dall’altra gli addetti ai lavori che intravvedevano in questa figura una sorta di ulteriore controllo al difficile lavoro da svolgere con i detenuti. Dal 2013, anno di costituzione della figura del garante nazionale dei detenuti, le strade si sono lentamente incrociate e tutti hanno cominciato a comprendere che questa figura era necessaria per mantenere alta l’attenzione sul carcere. L’interesse del garante si muove all’interno di una collaborazione con le direzioni degli istituti penitenziari e deve favorire anche i rapporti e la collaborazione con i garanti territoriali. La Sardegna non aveva mai nominato un garante regionale e finalmente il Presidente del consiglio regionale Pais ha nominato Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale e originaria di Sorgono, garante regionale dei detenuti. Da oggi, dunque, sulla piattaforma penitenziaria isolana si accende un nuovo, importante e necessario riflettore. Non sarò certo io a dover suggerire come muoversi in un mondo che Testa ben conosce, in quanto ha lavorato per l’istituzione di questa figura, ha visitato le carceri e ha dimostrato estrema sensibilità sulle problematiche della politica penitenziaria. Posso però, attraverso alcuni piccoli consigli, suggerire alcune priorità che negli anni, soprattutto in Sardegna, sono divenute strutturali e la figura del garante può essere il volano per smuovere alcuni meccanismi ormai arrugginiti. I dieci istituti penitenziari presenti sull’isola vivono una crisi d’identità dovuta alla mancanza cronica dei direttori e i nuovi concorsi non credo possano risolvere questa carenza se non ci sarà una chiara presa di posizione amministrativa da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per assegnare in maniera stabile un dirigente per ogni Istituto. È un problema serio, necessario, fondamentale, perché l’organizzazione di un carcere passa attraverso la presenza costante di uno staff altamente specializzato e motivato a lavorare per un periodo di tempo sulla struttura. Il direttore necessita di un comandante, di un responsabile di area educativa, di un numero sufficiente di funzionari giuridico pedagogici, del giusto numero di poliziotti penitenziari a garantire la sicurezza e il trattamento rieducativo. Irene Testa dovrà partire necessariamente da questa criticità che il garante nazionale e quelli locali conoscono bene. In Sardegna, oltre alla presenza di detenuti sottoposti all’articolo 41 bis, ci sono i circuiti di alta sicurezza ma esistono soprattutto detenuti di “media sicurezza” che attendono alcuni interventi sulla rieducazione, sul lavoro e sullo studio. Ci sono tre colonie penali (unico caso in Italia) che hanno una potenzialità enorme e mai sfruttata se non in piccoli e interessanti progetti (ricordo, su tutti il progetto Galeghiotto dove i prodotti delle colonie venivano confezionati e venduti nel libero mercato). Il garante regionale ha a disposizione persone disposte ad ascoltarla: sono i pochi dirigenti penitenziari, i comandanti, gli educatori, la polizia penitenziaria, i medici, i volontari che quotidianamente e con enorme spirito di sacrificio lavorano e scommettono sulle persone. Irene Testa osservi ciò che è stato costruito (ed è tanto) e ciò che si potrebbe costruire. Non accenda i riflettori solo sulle problematiche dei detenuti “eccellenti”. Pensi anche agli ultimi, a coloro i quali vogliono rimettersi in gioco. Sarà un lavoro difficile ma esaltante. La Sardegna ha bisogno di ripartire anche restituendo dignità ai detenuti e ai lavoratori dei penitenziari. Come direbbero i naviganti davanti ad un mare tempestoso ma affascinante: “buon vento!”. Santa Maria Capua Vetere. Violenze in carcere: no a Draghi, Cartabia e Bonafede testimoni ansa.it, 2 febbraio 2023 Per evitare “spettacolarizzazione” processo. No all’ammissione come testimoni al processo per i pestaggi dei detenuti al carcere di Santa Maria Capua Vetere dell’ex premier Draghi e degli ex Guardasigilli Cartabia e Bonafede. Lo ha stabilito con ordinanza la Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), che ha motivato la decisione con la necessità di “evitare una contaminazione di natura politica del processo con una sua indebita spettacolarizzazione”. Era stato il legale Michele Passione, che assiste il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma costituitosi parte civile nel processo, a presentare una lista testi in cui chiedeva di sentire i tre ex componenti del Governo, in quanto in carica al momento in cui sono avvenuti i fatti il 6 aprile 2020 (Bonafede) o quando l’indagine è “esplosa” - era il 28 giugno 2021 (Draghi e Cartabia) - con l’emissione delle ordinanze di custodia cautelare. Ma la Corte presieduta da Roberto Donatiello ha escluso tali testimonianze distinguendo nettamente, come fa la legge, tra parte politica e parte amministrativa della pubblica amministrazione, e ritenendo, anche a tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, che per ricostruire dal punto di vista giuridico i fatti basterà sentire i dirigenti di vertice del Ministero di Giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, come il capo del Dap nell’aprile 2020, Francesco Basentini, che sarà ascoltato come richiesto sempre da Passione. Roma. Il pescatore di (veri) ultimi di Marianna Aprile Oggi, 2 febbraio 2023 Don Antonio Coluccia offre ai ragazzi di strada di San Basilio un’alternativa al crimine. Per questo è minacciato. E ora la scorta gli è stata rafforzata. È dal 2014 che Don Antonio Coluccia, fondatore dell’Opera Don Giustino, si occupa di San Basilio, con ronde notturne antidroga (armato di megafono attraverso il quale diffonde il suo messaggio di legalità): “All’inizio andavo lì, pescavo i ragazzi per strapparli allo spaccio e alla malavita organizzata calabrese, romana e albanese che controlla il territorio e si è sostituita allo Stato. Gruppi criminali pronti a tutto che hanno militarizzato il territorio con tanto di vedette, anche sui tetti. Tre anni fa ho capito che andare lì non bastava, bisognava starci, occupare il territorio con un messaggio positivo, metterci la faccia”. E l’ha fatto. “Cerchiamo di far capire che c’è un’alternativa all’assistenzialismo criminale, che sembra aiutarti ma ti toglie la libertà. Ti dà casa e stipendio ma ti chiede in cambio la vita. A San Basilio vedi ragazzi che magari vivono in tuguri e case popolari piene di infiltrazioni, ma sono griffati dalla testa ai piedi e prendono le Ferrari in leasing, si vantano su Tik Tok, aderendo anche al modello estetico dei ragazzi di malavita. Cerchiamo di insegnare loro che l’obiettivo non è la bella vita ma la vita bella”. Da 25 anni Coluccia si occupa di periferie, da tempo per questo è sotto scorta e da quando sta a San Basilio se l’è vista raddoppiare: ora ci sono due auto e quattro persone a proteggerlo dopo minacce di morte e intimidazioni. Che continuano: “Sono arrivati a dirmi: “Sei un morto che cammina, prima o poi ti spariamo”, davanti a degli agenti di Polizia, con un senso incredibile di impunità”. Rivendica però il percorso virtuoso fatto dal quartiere: “Iniziano a notarsi dei cambiamenti. Noi abbiamo attuato la politica delle 3 “P”: Pochi Piccoli Passi e i risultati si vedono. Abbiamo iniziato a trattare questi ragazzi come i loro coetanei dei quartieri più fortunati, abbiamo iniziato a fargli capire, anche grazie all’allora sindaca Raggi, che se hanno bisogno di qualcosa, se hanno un problema, è al Comune che devono rivolgersi, alle istituzioni”. Per strappare i ragazzi ai “brutti giri” Coluccia ha usato anche l’arma dello sport, con una palestra in cui i ragazzi hanno trovato un’alternativa alla violenza in strada. Ora quel progetto è diventato una palestra vera, la Palestra della legalità, voluta dall’Opera Don Giustino e inaugurata il 23 gennaio scorso. È in un immobile del Comune di Roma che era occupato e da anni adibito a piazza di spaccio. Il Comune l’ha sgomberato, Sport e Salute Spa l’ha ristrutturato e la Polizia ha messo a disposizione gli insegnanti. “Lo sport deve arrivare anche nelle zone dello spaccio e della criminalità organizzata. Porta valori al posto dei disvalori. Noi abbiamo progetti per far arrivare lo sport a 12 mila società e enti del terzo settore, a un milione di persone e anche nelle carceri”, dice Vito Cozzoli, Ad di Sport e Salute. “Questa palestra fa parte di una riappropriazione del territorio. I ragazzi li salvi con la bellezza e le opportunità”, dice Don Coluccia. Prima di tornare tra i suoi (veri) ultimi. Roma. “Non tutti lo sanno”: una voce di speranza nella durezza del carcere di Roberto Monteforte strisciarossa.it, 2 febbraio 2023 A volte si cambia nella vita. Dopo oltre trentacinque anni passati a l’Unità, gli ultimi tra Vaticano e impegno sindacale e dal 2015 la pensione ora mi ritrovo a Rebibbia, volontario alla Casa di reclusione di Rebibbia. Un paio di volte a settimana - ma quando serve anche più spesso - varco i cancelli del carcere per raggiungere la terza sezione e raggiungere la redazione di “Non Tutti Sanno”, il notiziario sulla vita del carcere realizzato con i detenuti del “penale” tutti con sentenza definitiva e con pene medio-lunghe da scontare. Ho deciso di mettere al servizio le mie competenze professionali per realizzare un periodico che dia voce alla realtà dei detenuti. In fondo, come credo ogni giornalista dell’Unità, ho vissuto la professione come impegno culturale e politico per cambiare la società e per combattere le ingiustizie. Ora mi trovo dentro una realtà di particolare sofferenza e disagio, di riscatto e di umanità, di sensibilità e coraggio, di resilienza che oltre le sbarre si ignora. E non sono io a descriverla, ma aiuto chi la vive ogni giorno a trovare le parole più efficaci per comunicarla. La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere è stato per ragioni professionali. Era il 18 dicembre del 2011 e da vaticanista seguivo la visita di papa Benedetto XVI ai detenuti del Nuovo Complesso di Rebibbia. Ricordo ancora l’emozione e forse anche il timore che ho provato all’ingresso del carcere. Dover lasciare il cellullare all’ingresso e poi attraversare i lunghi corridoi, sotto lo sguardo attento degli agenti della polizia penitenziaria, con i cancelli blindati che si aprivano per poi rinchiudersi al nostro passaggio. Ricordo ancora il rumore secco dello scatto metallico di apertura e chiusura. Era un viaggio all’interno di un altro mondo. Controllo dopo controllo ci lasciava alle spalle la vita “di fuori” e ci si doveva misurare, solo per poche ore, con limiti e regole severe. Mi appariva una realtà cupa, intrisa di sofferenza e dolore. Eppure già allora, sentendo le testimonianze dei detenuti al pontefice, incontrando i loro sguardi e la loro commozione ho pensato a quanta umanità e speranza ci fossero tra quelle mura. Ora è una realtà che da volontario ho iniziato a conoscere e che è bene sia conosciuta andando oltre i drammatici fatti di cronaca. Se non altro perché il carcere ci riguarda, è parte di noi, perché è il segno di quanto sia labile la soglia tra ciò che è lecito e il reato. Basta uno scatto d’ira non controllato, una distrazione alla guida, un gesto violento o una vita sbandata per arrivare a delinquere e trovarsi “dentro”, insieme a chi ha scelto il delitto, ma che può cambiare profondamente vita, provare rimorso per le vittime, diventare persona nuova. E poi è un luogo duro, ma anche di straordinaria sensibilità e umanità. Ho conosciuto ergastolani in semilibertà che hanno dedicato la loro vita a educare i giovani al rispetto delle regole, alla legalità. Per questo abbiamo intitolato il notiziario “Non Tutti Sanno”. Intanto in carcere è diversa la dinamica del tempo. La giornata è scandita dalle rigide regole del regolamento. Con le fasce orarie da passare nella “camera detentiva” e il tempo destinato alle attività comportamentali o al lavoro. Vi è poi e il tempo “libero” per il passeggio che nella Casa di reclusione è possibile anche utilizzare all’aperto, negli ampi spazi a disposizione dei detenuti. È un tempo che scorre inesorabilmente sempre uguale. Un tempo “vuoto”, che porta alla passività e alla regressione i reclusi se non fosse “riempito” dalla scuola e dalle attività dei volontari con i loro laboratori e progetti. Sono attività fondamentali perché il tempo senza valore, senza futuro, senza dignità, senza adeguati sostegni medici e psichiatrici, porta alla depressione, alla disperazione e troppo spesso, drammaticamente, al suicidio. Di questo tratta il notiziario. Vi presento la redazione - Per incontrare la redazione, varcati cancelli e attraversati corridoi, raggiungo un ambiente al piano terra di uno dei padiglioni della Casa di reclusione. Siamo al massimo una decina di persone. E si discute. La redazione sono Federico, Danilo, Antonio, Marcello e Marco. Li coordino, li aiuto ad individuare i temi da trattare, ad impostare gli articoli, che poi io “passo” e titolo. Ma il giornale è fatto da loro. Anche la grafica e l’impaginazione è tutta “interna”, con gli scarsi mezzi a disposizione e nei ritagli di tempo che la vita reclusa offre. Si lavora su un pc senza connessione con l’esterno, con un programma di grafica degli anni 90 che non viene letto dai pc fuori. Il notiziario ora lo fotocopiamo per farlo girare all’interno del carcere. All’esterno è più facile. Basta affidarsi ai social. Ma questo è compito mio e di tutti gli amici che ci sostengono da fuori. Mentre stiamo cercando sostegni e collaborazioni per migliorare la situazione stiamo lavorando al terzo numero di “Non Tutti Sanno”, la scaletta dei temi è pronta. Abbiamo appena chiuso il secondo numero. Decisamente impegnativo: sono ben 24 pagine a colori che raccontano ciò che di positivo si realizza nella vita “reclusa” e che denunciano le tante criticità che rendono disumana la carcerazione. La redazione ne è soddisfatta. C’è molto da raccontare perché i problemi sono tanti in un carcere. Quelli che ai nostri occhi sembrano piccole cose dietro le sbarre hanno tutto un altro peso. Si capisce ad esempio quanto al recluso pesino le tante “pene aggiuntive” a quella inflitta dal tribunale, a partire dalla lontananza dei propri cari. Poi ci sono le disfunzioni causate dal sovraffollamento e dalla carenza in organico del personale: dagli agenti di polizia penitenziaria al personale tecnico, agli operatori sino ai medici e agli psicologi. Una carenza che vuol dire meno attività e mano assistenza. E questo pesa nella vita “reclusa”. A volte basta un cavillo, un ritardo nel disbrigo di una pratica, una semplice svista burocratica, apparentemente insignificante, per determinare ritardi sulla richiesta di benefici cui il recluso avrebbe diritto. Può saltare un permesso già programmato da passare in famiglia o se manca la “scorta” degli agenti della polizia penitenziaria può saltare a chissà quando la visita medica urgente o la tesi da discutere all’università. Una suora generosa - Così ora sto imparando cosa sia la vita reclusa. Sono capitato per caso al “penale” di Rebibbia. Mi ha coinvolto una suora combattiva e generosa, Suor Emma Zordan che da quasi dieci anni coordina un gruppo di scrittura creativa e che ogni anno raccoglie in una pubblicazione le testimonianze dei reclusi sul tema che hanno deciso. La religiosa prima mi ha chiesto di collaborare alla pubblicazione dell’ultimo libro. Così, da “esterno”, attraverso le testimonianze ho iniziato a conoscere questa realtà dal punto di vista del detenuto. Poi, una volta entrato a Rebibbia ho incontrato gli autori delle testimonianze. Da circa tre anni sono la mia redazione. Non ho mai chiesto a nessuno quale reato avesse commesso. L’incontro era ed è con le persone. Poi, con la confidenza, è arrivato il racconto delle storie e ho iniziato a conoscere meglio le persone. Anche se alcuni mi erano già noti per i fatti di cronaca di cui sono stati protagonisti. Ora vi è un legame di stima e vicinanza che sento profondo. Si lavora ad un progetto che mette in gioco anche le vite, il desiderio di riscatto, la solidarietà verso la comunità, l’esigenza di una giustizia che non sia vendetta ma che consenta di sperare un futuro da costruire. Questa speranza è la risposta più efficace alla domanda sociale di sicurezza. Il detenuto che sconta la pena e che durante la detenzione ha avuto modo di formarsi ad un lavoro e che fuori riesce a trovare, è molto difficile che torni a delinquere. Bisogna superare però il clima di sospetto o indifferenza. Per questo è necessario far conoscere. Per questo può essere utile “Non Tutti Sanno”. Brescia. Con la “biblioteca vivente” si può ascoltare la storia dei detenuti quibrescia.it, 2 febbraio 2023 A partire da giovedì 9 marzo sarà possibile partecipare a uno dei cinque incontri che si terranno nella biblioteca della Casa circondariale Nerio Fischione dalle 14 alle 16. Basta prenotarsi. Nell’ambito del progetto “Carcere per i diritti umani”, laboratorio di idee attivo ormai da più di sei anni negli istituti di pena bresciani, è nato fra i detenuti il desiderio di impegnarsi nella narrazione delle vicende che portano al carcere e delle conseguenze che tali scelte negative determinano, per far conoscere alla collettività il mondo penitenziario e le difficoltà dei detenuti nella ricostruzione di una vita rispettosa delle regole del vivere comune, ma anche di abbattere alcuni dei pregiudizi che frequentemente si frappongono alla buona riuscita di un programma rieducativo. Per raggiungere questo obiettivo è stato preso a modello il progetto della “Biblioteca Vivente” grazie al quale i lettori, anziché sfogliare libri, possono entrare in contatto con persone con le quali nella quotidianità non avrebbero occasione di confrontarsi. A partire da giovedì 9 marzo, per cinque appuntamenti, sarà possibile partecipare agli incontri che si terranno nella biblioteca della casa circondariale Nerio Fischione (Canton Mombello) dalle 14 alle 16. Gli interessati potranno fare richiesta di partecipazione inviando una mail, entro mercoledì 15 febbraio, all’indirizzo p4hr@act-bs.it, corredata di copia del documento di identità per consentire le necessarie verifiche precedenti al rilascio dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione penitenziaria. Durante gli incontri, a cui potranno partecipare massimo due persone per volta, i detenuti racconteranno la propria storia, le ragioni che li hanno portati a entrare in carcere, le tappe fondamentali vissute dal momento dell’ingresso all’arrivo della condanna definitiva e le principali difficoltà incontrate nella fase di reinserimento nella società esterna. I partecipanti potranno liberamente interagire con i detenuti e un mediatore garantirà che il dialogo avvenga nel rispetto reciproco e senza la condivisione di dati sensibili. Alla fine del percorso, tutti gli interventi rilevanti, emersi dal confronto fra detenuti e cittadini, verranno raccolti in un documento finale (libro, dispensa, in base al materiale raccolto) da condividere con la cittadinanza. La speranza è quella di poter contare sulla partecipazione di persone non solo interessate a conoscere da vicino il mondo dell’esecuzione della pena ma anche disponibili a superare pregiudizi e luoghi comuni a favore di un confronto autentico. Cos’è la Biblioteca Vivente? Nata in Danimarca negli anni Ottanta è un metodo innovativo per promuovere il dialogo, ridurre i pregiudizi e favorire la comprensione reciproca. È riconosciuta dal Consiglio d’Europa come buona prassi per il dialogo interculturale e come strumento di promozione dei diritti umani. Consente di affrontare gli stereotipi e sfidare i pregiudizi più comuni in modo positivo e costruttivo. Nella realtà, infatti, le categorie non esistono, esistono solo le persone con le loro storie personali, le loro scelte e i motivi che le hanno determinate. Grazie a Biblioteca Vivente, i “lettori” possono entrare in contatto con persone con le quali nella quotidianità non avrebbero occasione di confrontarsi. www.bibliotecavivente.org). Modena. Il Teatro dei Venti e il carcere: “Arte e lavoro per ripartire” di Stefano Luppi Il Resto del Carlino, 2 febbraio 2023 I teatri modenesi ieri si sono idealmente, attraverso i responsabili, riuniti in municipio a Modena per firmare una intesa che dà sempre più ‘sostanza’ alle attività teatrali nel carcere di Sant’Anna e nella casa di reclusione di Castelfranco. Inutile ricordare i benefici sociali, legati al reinserimento nella società degli ex detenuti, che ha questa operazione legata alla professionalizzazione delle persone in ambito culturale. Tutto nasce dal teatro modenese dei Venti che ha vinto il bando di Creative Europe con il progetto “Ahos All Hands On Stage - Theatre as a tool for professionalisation of inmates”, legato a teatri e carceri di Italia, Germania, Polonia, Romania e Serbia. “Questo progetto europeo partito formalmente il primo febbraio - spiega il direttore del Teatro dei Venti Stefano Tè - ufficializza quel che facciamo da tempo, ovvero il teatro in carcere. Attenzione, non parliamo solo di arte, di detenuti-attori sul palcoscenico, ma di lavoro su tante professioni del nostro settore, tecnici audio, luci, movimentatori di palcoscenico. Figure indispensabili che cerchiamo anche tra detenuti ed ex detenuti, persone che vivono un momento delicato nel passaggio tra il carcere la successiva vita fuori”. La prima occasione teatrale sarà proprio al Sant’anna, domani e sabato, dove alle 17 andrà in scena il “Giulio Cesare” con attori e tecnici proprio i detenuti. Ieri, non a caso, in Comune c’erano anche le due direttrici delle carceri modenesi, Anna Albano, numero uno a Modena e Simona Pugliese che si occupa di Castelfranco. “Al Sant’Anna - spiega la prima - abbiamo appena ristrutturato la sala teatro che dal 2014 ospita il Teatro del Venti che fa un grande lavoro e ha il merito di aprire uno sguardo sulle tante potenzialità dei detenuti. Oltre a questi spazi per le professioni teatrali ci dedichiamo alle attività agricole mentre presto in un vecchio capannone metteremo un call center inoltre lavoriamo con alcune cooperative”. Integra Pugliese: “Le attività teatrali sono fondamentali per il reinserimento sociale e presto speriamo di potere anche costruire una officina nei nostri spazi”. Il progetto europeo dal titolo “All Hands on Stage”, è ispirato al detto marinaresco inglese “all hands on deck” che letteralmente significa “tutte le mani sul ponte” inteso come la necessità dell’aiuto di tutti per raggiungere un obiettivo come ha spiegato Holger Syrbe, partner tedesco del progetto. Gli assessori comunali Andrea Bortolamasi e Roberta Pinelli hanno rimarcato l’importanza dell’arte e dei suoi linguaggi nell’ambito del progetto dalla chiara valenza sociale. I protagonisti, insieme anche a Giuliano Barbolini, presidente di Ert, Aldo Sisillo, direttore del Comunale e Roberto De Lellis di Ater, hanno poi firmato il protocollo. Baby gang e gioventù bruciata: anche la giustizia ha le sue colpe di Bruno Ferraro* Libero, 2 febbraio 2023 Le “prodezze” delle baby gang si sono moltiplicate negli ultimi tempi e quello che era un fenomeno isolato, caratteristico di qualche zona periferica, si va estendendo a macchia d’olio: a scuola, con alunni delle elementari in possesso di coltelli di ceramica “per uccidere la maestra”; in strada, con minori che torturano un disabile o tentano un assalto alla polizia; come stile e abitudini di vita, con minori dediti a moleste sessuali o consumatori abituali di superalcoolici. Persino il caso di bottiglie molotov costruite sulla base delle istruzioni sul web. A Ladispoli in agosto 2022 un quindicenne è stato pestato a sangue, colpito più volte con un tirapugni e mandato in ospedale con naso e polso fratturati, ad opera di un branco di sette ragazzi che volevano “vendicarsi” per una discussione avvenuta il giorno prima. Solo pochi giorni addietro l’individuazione dei minorenni responsabili di rapine a Roma e l’inqualificabile episodio di Seregno, con un ragazzino spinto da coetanei contro un treno in transito e l’incriminazione per tentato omicidio. Si tratta di soggetti che sono il prodotto di una comunicazione di massa senza limiti, con scene di violenza gratuita pubblicizzate e quasi rese normali da film, telefilm, video game: una gioventù definita in passato bruciata ma che ora va spesso alla ricerca di emozioni forti per sentirsi importante, per farsi accettare da coetanei cresciuti allo stesso modo, per vincere la monotonia di un’esistenza vuota e priva di ideali. E così ciò che sembrava patrimonio della grande America è sbarcato anche in Europa e nella nostra Italia! Troppo facile cavarsela scrollando le spalle o reagendo con un gesto di rassegnazione. Occorre prendere coscienza del fenomeno, combatterlo ad ogni livello, abbandonare ogni atteggiamento di pregiudiziale rinunzia e rimettere i punti sugli i, evitando di confondere la violenza con il disagio, l’aggressività con la voglia di essere al passo dei tempi, la violazione delle regole con la fragilità dell’età evolutiva. Ma da chi e dove i ragazzi (più di una volta anche le ragazze) dovrebbero apprendere le modalità per un giusto inserimento nel mondo dei coetanei e nella società civile degli adulti? Troppo facile rispondere richiamando alle rispettive responsabilità i genitori, i maestri, gli educatori: i primi spesso fin troppo accomodanti e permissivi, gli altri resi deboli e comprensivi anche solo per convenienza, famiglia e scuola non più alleate nello svolgimento della funzione educativa. Il problema si aggrava considerando che le norme penali nei confronti dei minori sono piuttosto blande e che i giudici minorili sono inclini al perdono, salvo irrigidirsi nel momento in cui i minori oltrepassano la fatidica soglia dei 18 anni e si ritrovano a rispondere di reati laddove gli stessi fatti erano stati in precedenza trattati come semplici ragazzate. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Migranti. Il Consiglio d’Europa scrive a Piantedosi: “Il decreto anti-Ong va ritirato” di Marco Bresolin La Stampa, 2 febbraio 2023 La lettera della commissaria Dunja Mijatovic: “Ostacola le operazioni di ricerca”. “Il decreto e la prassi di assegnare porti lontani per lo sbarco delle persone soccorse in mare rischiano di privare le persone in difficoltà dell’assistenza salva-vita delle Ong sulla rotta migratoria più mortale del Mediterraneo”. Con queste motivazioni la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha scritto una lettera al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi chiedendogli di ritirare il decreto anti-Ong adottato dal governo Meloni che, tra le altre cose, prevede il divieto di salvataggi multipli. Secondo il Consiglio d’Europa, queste disposizioni “potrebbero ostacolare le operazione di ricerca e soccorso delle Ong e quindi essere in contrasto con gli obblighi dell’Italia ai sensi dei diritti umani e del diritto internazionale”. Anche perché “rispettando questa disposizione, i comandanti delle Ong verrebbero di fatto meno ai loro obblighi di salvataggio sanciti dal diritto internazionale”. Per quanto riguarda la prassi di indicare come porti di sbarco le località del Centro-Nord Italia, Mijatovic rileva che “l’obiettivo di assicurare una migliore ridistribuzione dei migranti e dei richiedenti asilo sul territorio nazionale potrebbe essere raggiunto sbarcando rapidamente le persone soccorse e assicurandosi che ci siano accordi pratici alternativi per ridistribuirle in altre zone del Paese”. L’organo che ha sede a Strasburgo, e che non ha nulla a che vedere con le istituzioni Ue, ribadisce inoltre il suo invito al governo a “sospendere la cooperazione con il governo libico” per intercettare le navi in mare, cooperazione che è stata recentemente rinnovata. C’è poi un altro terzo punto sul quale il Consiglio d’Europa chiede ulteriori a Roma: ci sarebbero stati “presunti rimpatri di persone dall’Italia alla Grecia su navi private” e queste persone “sarebbero state private della libertà in condizioni preoccupanti”. Droghe. Piantedosi, Gratteri e il cortocircuito proibizionista di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 2 febbraio 2023 “50 milioni di tonnellate di cocaina sequestrate dalla sola Guardia di Finanza”. Partiamo da qui, dal lapsus del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi l’altra settimana a Piazza Pulita. 50 tonnellate - comunque troppe - evidentemente gli sembravano poche, e così fra nervosismo da studio televisivo e coda di paglia, ha annunciato una quantità abnorme di sequestri di cocaina, pari a 1700 volte le confische annuali di coca nel pianeta. “L’80% dei tossicodipendenti usa cocaina”. Sempre a Piazza Pulita, la settimana scorsa, è stato il turno di Nicola Gratteri. Il magistrato, interrogato da Formigli sulla sua opinione sulla “liberalizzazione” (sigh!) della cannabis, ha prima evitato di rispondere - invitando il giornalista a chiederlo ai “tossicodipendenti nelle comunità” - e poi trasformatosi in medico ha inanellato una serie di miti, dagli effetti sul cervello alle schizofrenie, degni del miglior Serpelloni, braccio armato di Fini e Giovanardi facendo intendere che chiunque la usi debba essere classificabile come “tossicodipendente”. Gratteri è convinto, lo ribadisce ad ogni incontro, che la legalizzazione della cannabis non avrebbe effetti sulle narcomafie e mistifica clamorosamente. Prima sui dati del consumo perché se in effetti è vero che la gran parte delle persone usano una sostanza, questa è proprio la cannabis. Poi sul prezzo di vendita di hashish e marijuana nel mercato illegale, che non è di 4 euro al grammo, come detto dal Gratteri aspirante analista, ma più del doppio (fra gli 8 e i 10 euro secondo la Relazione del Dipartimento antidroga). Infine sul possibile prezzo legale, fissato dal Gratteri pseudo economista in 12 euro al grammo, quando la cannabis terapeutica italiana costa 7,5 e il prezzo della cannabis legale in Canada è ormai sceso intorno ai 3,5. Sappiamo benissimo quali comunità visita Gratteri: sono per fortuna una piccola minoranza fra quelle che si occupano dell’uso problematico delle sostanze in Italia. Conosciamo anche il curriculum da Prefetto di Piantedosi, basti ricordare i mini Daspo per spaccio a Bologna. Quindi non ci aspettiamo certo da loro un’improvvisa illuminazione sulla via di Damasco. Ma visti i ruoli che ricoprono ci aspetteremmo almeno la precisione dei dati nel sostenere le loro posizioni. Proprio qui è il punto: nel 2023, con metà degli Stati Uniti che hanno legalizzato la cannabis e migliaia di studi pubblicati, quelli che un tempo potevano essere slogan funzionali al messaggio proibizionista - soprattutto perché inverificabili - oggi suonano talmente vuoti e fuori tempo che è necessario ricorrere all’iperbole, anche quando questa sposta il tutto nell’area del ridicolo. Nel frattempo abbiamo assistito, per fortuna, ad un vero e proprio cortocircuito proibizionista, che ha fatto esplodere utili contraddizioni. “Un buon bicchiere di vino non ha mai fatto male a nessuno. Anzi, è dimostrato che faccia bene alla salute, lo sapevano anche i nostri nonni”. Di fronte alle linee guida dell’OMS sull’alcol, e alla decisione dell’Irlanda di inserire sulle bottiglie di vino messaggi di allerta sui danni provocati, c’è stata una levata di scudi, guidata dall’eurodeputato leghista Da Re. Scelta che ignora la differenza tra consumo moderato e l’abuso di alcol” ha chiosato il Ministro degli Esteri Tajani. Finalmente pare condiviso un approccio di autoregolazione nei confronti di una sostanza che - pur legale - l’importante rivista The Lancet classifica seconda per pericolosità. Del resto il vino - come la canapa - fa parte della nostra cultura, e gli studi di Franca Beccaria sul modello mediterraneo di consumo e il volume Droghe e autoregolazione di Grazia Zuffa e Susanna Ronconi dimostrano che un approccio di regolazione sociale è molto più efficace rispetto alla proibizione, limitando l’uso problematico. Ovviamente se l’autoregolazione vale per l’alcol deve valere anche per le altre sostanze. Ucraina. Riflessioni impolitiche sulla banalità della guerra di Enzo Scandurra Il Manifesto, 2 febbraio 2023 Fermiamola questa guerra, dimostriamo di essere ancora umani o perderemo per sempre la nostra innocenza schierandoci a favore di un martirio che per alcuni può essere anche affascinate, almeno finché a massacrarsi sono altri e lontani da noi. La torretta col cannone che ruota velocemente mentre la base è ferma, la carlinga dell’aereo che sembra l’ultima versione di un’auto avveniristica. Queste sono le immagini che la Tv ci propina ogni sera: gioielli della dinamica e della meccanica che fanno acrobazie come animali addestrati sulla piattaforma di un circo equestre. A vederle quelle immagini, isolate dal contesto bellico, appaiono affascinanti, dimostrano la creatività dell’uomo per superare qualsiasi ostacolo materiale e per vincere l’attrito. Una creatività impazzita. Ma sono destinate a uccidere molti nemici, a distruggere manufatti (non importa se chiese o ospedali o scuole), a seminare terrore. Si nascondono tra la vegetazione o sibilano nell’aria velocissimi. Non si vedono ma se ne attendono i boati che arrivano puntuali sugli obiettivi e che distruggono beni, oltreché persone, edificati con tanti sforzi collettivi. L’immagine seguente è terribile: palazzi sventrati e sfigurati, auto ridotte a carcasse, alberi sradicati, persone disperate (almeno i sopravvissuti) che vagano inebetite per le strade o fissano attonite quel che rimane delle loro case. È la guerra. Chi mai potrebbe essere d’accordo con simili scene apocalittiche fino a ieri viste soltanto nei film e ora inaspettatamente reali? Da una parte si invoca la causa dell’accerchiamento delle potenze occidentali della Nato, dall’altra la giusta causa della resistenza all’invasione. E di queste “ragioni” che se ne fanno i morti, i corpi straziati, quelli avvolti impietosamente nella plastica come fossero rifiuti, smembrati, sfigurati; non più corpi né persone, scarti, oggetti, residuali bellici? Dietro quelle immagini ci sono i veri mandanti invisibili: i cinici costruttori di armi, i fabbricatori di morte che vedono lievitare i loro profitti: ogni morto una percentuale di Pil che cresce e così per ogni carro inviato. La guerra è un grande affare per loro (e la ricostruzione pure) e la tecnica con cui si costruiscono questi “gioielli”, quella tecnica che alcuni ancora ritengono essere neutra (“dipende”, dicono, “dall’uso che se ne fa”) schierata e appiattita per rendere più efficiente la potenza di fuoco, ovvero il numero di vittime che seguono ad ogni colpo. Un modo per resistere alla guerra, diceva Leiss, (il manifesto del 31 gennaio), è anche discuterne senza rinunciare al garbo e ascoltando della buona musica. A qualche malpensante potrebbe sembrare un atteggiamento cinico, mentre invece, come è nelle intenzioni dell’autore, è l’ultima speranza di riacquistare la ragione perduta. Contrapporre la forza dell’utopia che in passato qualche volta ha cambiato il mondo (il Sessantotto, Cuba, Allende, la guerra del Vietnam), contro la brutalità dell’insensato, e di quell’irrazionale dei media che vuole un capo di stato in conflitto intervenire a Sanremo, il festival delle canzonette che, magari, inneggiano innocentemente alla pace. Il mondo è fuori squadra, diceva Amleto come quei quadri appesi che provocano fastidio per essere sghembi sulla parete. Il mondo è fuori di ragione, ha abbracciato l’istinto di morte che è altrettanto, anzi, più forte di quello dell’amore e della vita. La stampa macina queste immagini, illustra i “vantaggi” degli ultimi carri confrontandoli con i vecchi: tutti ormai conosciamo i famosi “Leopard”; come da bambini eravamo affascinati da quei giocattoli innocenti. Ne arriveranno dieci, cento e forse mille e, insieme a loro, “giocattoli” ancora più sofisticati per distruggere il mondo: non giocavamo così all’età di sette o otto anni? Perché anche la guerra è ancora un gioco, una perversione maschile, non più innocente, ma sempre un gioco di morte tra potenze. Per anni abbiamo assistito, nei film, all’arrivo dei “nostri” contro quei barbari indiani che pretendevano di scorrazzare per le praterie a caccia di bisonti. Ora il gioco si ripete mille volte più potente con l’umanità schierata da una parte o dall’altra, con tanto di generale Custer eroe ma, in realtà, crudele massacratore. Fermiamola questa guerra, dimostriamo di essere ancora umani o perderemo per sempre la nostra innocenza schierandoci a favore di un martirio che per alcuni può essere anche affascinate, almeno finché a massacrarsi sono altri e lontani da noi. I sondaggi ci dicono che la maggior parte degli italiani (ma direi di tutti gli europei) sono contrari alla guerra e allora chi ha dato l’”ordine” ai nostri governati di farla e persino di continuarla? Attenzione, diceva Hannah Arendt, il male può invadere e devastare il mondo perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Stati Uniti. Alla vigilia dei funerali di Nichols, la polizia uccide un altro afroamericano di Marina Catucci Il Manifesto, 2 febbraio 2023 In California a morire è stato un 36enne sulla sedia a rotelle e con le gambe amputate, Anthony Lowe. La famiglia chiede giustizia. Alla commemorazione per Tyre si chiede ancora una riforma delle forze di sicurezza. Negli Stati uniti febbraio è il mese dedicato alla storia afroamericana e quest’anno non si è cominciato bene. A pochi giorni dall’omicidio di Tyre Nichols, gli agenti di polizia di Huntington Park, cittadina nel distretto di Gateway Cities nel sud-est della contea di Los Angeles, in California, hanno sparato e ucciso un uomo afroamericano che brandiva un coltello da macellaio. A fare scalpore è il fatto che il 36enne Anthony Lowe era sulla sedia a rotelle: aveva entrambe le gambe amputate. La polizia afferma che Lowe è sceso dalla sedia a rotelle e ha accoltellato un passante e minacciato di avanzare e lanciare il coltello verso gli agenti. La famiglia dell’uomo, invece, sostiene che è stato colpito alla schiena e che le sue condizioni non avrebbero potuto rappresentare una vera minaccia per agenti armati di pistole. La Coalition for Community Control Over the Police e la famiglia di Lowe hanno tenuto una conferenza stampa per dare la loro versione e chiedere giustizia. La notizia dell’ennesimo omicidio della polizia è arrivata il giorno precedente al funerale di Nichols, anche lui ucciso da agenti in servizio. Ai funerali hanno partecipato anche i parenti di altre vittime della violenza della polizia, Tamika Palmer, madre di Breonna Taylor, Philonise Floyd, fratello di George Floyd, e figure istituzionali come la vice presidente Kamala Harris. La commemorazione è stato un insieme di dolore e consapevolezza politica, con l’elogio funebre affidato al reverendo e attivista Al Sharpton, mentre l’avvocato per i diritti civili Ben Crump ha letto la “richiesta di giustizia”, documento scritto per chiedere giustizia sociale e civile per gli afroamericani. “Persone da tutto il mondo hanno visto il video di un uomo disarmato, picchiato a morte da agenti della legge - ha detto Sharpton in una conferenza stampa alla Mississippi Boulevard Christian Church, dove si è svolta la funzione - Tyre sarà conosciuto come una di quelle vittime della brutalità della polizia che costringe l’intera nazione, se non l’intero mondo occidentale, a fermarsi e ad affrontare la questione degli abusi della polizia. Sono stati fatti progressi ma la strada davanti a noi è lunga. Pensiamo a cosa ha fatto funzionare il movimento per i diritti civili degli anni ‘60: ha fatto nascere il Civil Rights Act del ‘64 e il Voting Rights Act del ‘65. Sulla violenza della polizia siamo stati in grado di far approvare leggi statali. Abbiamo il movimento per la riforma della polizia, ma non ancora una legge a livello federale. È come se il reverendo King avesse convinto l’Alabama e la Georgia a fare qualcosa sull’integrazione, ma non il Civil Rights Act”. Islanda. Isolamento per 22 ore al giorno in carcere, anche di persone con disabilità mentali La Repubblica, 2 febbraio 2023 La denuncia di Amnesty International. Una misura utilizzata in modi che violano i diritti di coloro che sono in attesa di giudizio. Alcuni sospetti tenuti in segregazione totale per due mesi, in violazione di fondamentali diritti umani. L’Islanda sta abusando ampiamente dell’isolamento durante la detenzione preventiva, violando il divieto di tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, con gravi conseguenze per gli accusati e per il loro diritto a un processo equo. Lo denuncia Amnesty International in un nuovo rapporto pubblicato oggi. Amnesty chiede al governo islandese, che attualmente presiede il Consiglio d’Europa, di intraprendere riforme immediate e significative. Nel 2021, il 61% dei detenuti in custodia cautelare è stato posto in isolamento. Nei dieci anni precedenti, novantanove persone sono state sottoposte a “isolamento prolungato” per più di 15 giorni, violando il divieto internazionale di tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Ottanta persone in cella per 22 ore al giorno. “Le autorità islandesi - ha detto Simon Crowther, consigliere legale di Amnesty International - sono consapevoli dei danni causati dall’isolamento e del loro uso eccessivo da anni. Eppure, ogni anno in media oltre 80 persone, compresi i bambini e alcune persone con disabilità intellettive, sono rinchiuse in celle da sole per oltre 22 ore al giorno. Le autorità devono affrontare i fatti. L’Islanda - ha aggiunto - sta violando il divieto di tortura e altri maltrattamenti, durante la sua presidenza dell’organismo responsabile della prevenzione e dell’eliminazione della tortura in Europa. Ha urgente bisogno di apportare cambiamenti significativi per prevenirlo”. Isolati senza che il giudice lo sappia prima. Sebbene il ricorso all’isolamento possa essere consentito dal diritto internazionale, esso deve essere eccezionale, per il minor tempo possibile, ed essere soggetto a garanzie adeguate per garantirne l’uso. Niente di tutto questo è il caso in Islanda, dove le richieste della polizia di isolamento in custodia cautelare sono accettate quasi senza domande dai giudici. Il famigerato caso, di Guðmundur e Geirfinnur, in cui due uomini scomparvero a diversi mesi di distanza nel 1974, portò ad anni di indagini e revisioni, prima che sei persone confessassero e alla fine fossero condannate per il loro omicidio. Tutti i condannati erano stati tenuti in isolamento preventivo per periodi prolungati e sottoposti a pressioni e, in alcuni casi, a trattamenti abusivi. Cinque dei sei sono stati infine assolti nel 2018. Nel 2022 la sesta persona ha ricevuto le scuse del primo ministro per il trattamento che aveva subito. La giustificazione: “Proteggiamo le indagini”. La relazione suggerisce che, sebbene questo grave errore giudiziario abbia messo in moto un allontanamento da periodi eccessivamente lunghi di isolamento, non è cambiato abbastanza e le persone sono ancora soggette a danni. Tenere una persona in isolamento prima del processo può essere considerata una forma di coercizione. La principale giustificazione addotta dalle autorità per l’uso dell’isolamento in Islanda è la “protezione delle indagini”, che Amnesty International non accetta. Un procuratore ha detto ad Amnesty International che l’isolamento era l’unico modo per garantire che i sospetti non avessero accesso a un telefono. Tuttavia, questa è una logica inaccettabile e non giustifica né spiega il suo uso nella custodia cautelare. Sono disponibili altre opzioni, tra cui la separazione dei detenuti da determinati individui e la limitazione dell’uso del telefono o il blocco di numeri specifici. Bambini e persone con disabilità. Non ci sono garanzie per proteggere coloro che sono ad alto rischio di danni dall’essere posti in isolamento. Ciò include quelli con disabilità fisiche o intellettuali che potrebbero essere esacerbate dall’isolamento. Questo includerà alcune persone con condizioni neurodiverse. La polizia non controlla le persone per le condizioni di salute prima di richiedere l’isolamento. Anche le garanzie per proteggere i bambini dall’isolamento sono tristemente inadeguate. I giudici si fidano in modo schiacciante della polizia e approvano le richieste di isolare i sospetti con poco controllo. Un giudice ha detto ad Amnesty International che le decisioni serie sono state prese “troppo alla leggera” con troppo margine di manovra dato alla polizia. Alcuni casi con testimonianze dirette. “Attraverso interviste ad avvocati e detenuti, Amnesty International è stata in grado di documentare numerosi casi in cui la fiducia solitaria è stata utilizzata su individui ad alto rischio di danni, in violazione delle leggi e degli standard internazionali sui diritti umani. Un avvocato ha detto all’Organizzazione per la difesa dei diritti umani che il suo cliente era così angosciato che gli sono stati “somministrati farmaci per rilassarlo”. Un ex detenuto che è stato messo in isolamento ha detto ad Amnesty International: “Ho un disturbo ossessivo-compulsivo ed è molto difficile per me stare da solo con la mia testa... Non credo che il team di salute mentale sappia che ce l’ho”. I rischi dell’isolamento. Mettere in isolamento persone con disabilità psicosociali e bambini è contrario al divieto internazionale di tortura e altri maltrattamenti. Questo deve essere fermato immediatamente. I gravi effetti psicologici e fisiologici dell’uso dell’isolamento sono stati ben documentati. Può indurre insonnia, confusione, allucinazioni e psicosi, così come altri problemi di salute. Questi possono verificarsi dopo solo pochi giorni e i detenuti in attesa di giudizio hanno un aumento del tasso di suicidio e autolesionismo entro le prime due settimane di isolamento. I rischi per la salute aumentano con ogni giorno aggiuntivo trascorso in tali condizioni. Il sospetto che tutto ciò sia riservato a gruppi minoritari o a stranieri. In violazione degli standard internazionali, le autorità islandesi attualmente non riescono a raccogliere dati sull’etnia delle persone detenute in isolamento. Amnesty International teme che possa essere applicata in modo sproporzionato a determinati gruppi di persone, compresi quelli appartenenti a gruppi etnici minoritari o cittadini stranieri. “L’isolamento in Islanda - ha aggiunto ancora Simon Crowther - viene abusato su vasta scala, compresi bambini e persone con disabilità. Il governo islandese deve garantire una riforma radicale del codice penale, e di fatto della cultura nel sistema giudiziario, per porre fine a questa violazione dei diritti umani delle persone. Le alternative esistono già e dovrebbero essere utilizzate”.