Il caso Cospito rimette in discussione la natura eccezionale del 41 bis di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 28 febbraio 2023 Per la Costituzione le pene non sono trattamenti contrari al senso di umanità e tendono a rieducare il condannato. E punisce ogni violenza su chi è sotto restrizione di libertà. La drammatica e controversa vicenda Cospito dovrebbe indurre a ripensare i limiti di applicabilità del 41 bis alla luce della Costituzione, la quale pretende che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. E devono tendere alla rieducazione del condannato. La Costituzione punisce, inoltre, ogni violenza, non solo fisica, ma anche morale sulle persone sottoposte a restrizione di libertà. La Corte costituzionale è intervenuta più volte per dichiarare la compatibilità del cosiddetto carcere duro, reso legittimo dalla necessità di salvaguardare la sicurezza e l’ordine pubblico, ma ha condannato gli eccessi. Così anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia, per violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, rilevando non tanto l’incompatibilità della norma in sé, quanto il permanere del regime carcerario speciale per detenuti non più in grado di mettere a rischio la sicurezza pubblica. Persino la Cassazione in passato ha ritenuto alcune misure inutilmente vessatorie, interpretando in modo costituzionalmente orientato le disposizioni vigenti. Proprio il caso Cospito ha fatto emergere la necessità impellente di ridefinire i confini di una misura immaginata come eccezionale che, però, nel corso del tempo è stata utilizzata estensivamente, e ha finito per perdere i suoi connotati originari. Le incertezze sono dimostrate dai differenti giudizi espressi dalle autorità giudiziarie interpellate a diverso titolo nella vicenda. Interrogati dal Ministro Nordio, la procura generale di Torino si è espressa a favore del mantenimento del regime attuale, mentre la Direzione Nazionale Antimafia ha ipotizzato il passaggio ad un regime meno duro di “Alta sicurezza”. Infine, la procura generale della Cassazione ha chiesto alla Corte Suprema di annullare l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che aveva confermato il regime detentivo differenziato (41 bis), rinviando per un nuovo esame. La Cassazione ha invece optato per il mantenimento delle condizioni attuali. Leggeremo con attenzione le motivazioni, ma quel che può dirsi sin d’ora è che una tale difformità di opinioni in punto di diritto relative al medesimo fatto sembra rappresentino il segnale di una incertezza di fondo nell’applicazione della discussa misura detentiva. Due le possibili vie da seguire per restituire certezza nell’applicazione del 41 bis. La prima, una legge interpretativa che definisca meglio i confini e i casi in cui si può procedere a sottoporre ad un regime particolarmente duro un detenuto per determinati gravi reati. Una tale legge non potrebbe che essere rispettosa dei paletti posti dalle Corti italiane ed europee. Pertanto, non potrebbe estendere i casi senza correre il rischio di ledere i principi costituzionali e quelli europei inizialmente richiamati, semmai servirebbe per escludere queste misure in tutte le ipotesi in cui le ragioni di sicurezza e ordine pubblico possono essere perseguite in altro modo, con misure di controllo personale meno degradanti su chi è privato della libertà. Si può ragionevolmente dubitare che l’attuale maggioranza parlamentare voglia seguire tale strada. L’altra via è forse allora quella più efficace, ovvero un’interpretazione non solo costituzionalmente orientata della normativa vigente, ma anche rispettosa della ratio della norma. A quest’ultimo proposito è utile richiamare la storia e le finalità perseguite con il 41 bis. Fu introdotto in Italia nel 1986 come misura straordinaria e temporanea per impedire le rivolte nelle carceri promosse dai leader brigatisti. Nel 1992, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, si ritenne di dover adottare un’analoga misura per i capi mafia, ritenuti in grado di continuare a impartire dal carcere ordini e dirigere le proprie organizzazioni criminali. È dunque l’effettiva e permanente pericolosità del condannato appartenente a organizzazioni ad alta potenzialità eversiva (terrorismo e mafia) che legittima la drastica limitazione della socialità all’interno delle mura del carcere e l’interruzione di ogni comunicazione con l’esterno. Non incidono invece direttamente sulla valutazione della modalità di esecuzione della pena né il giudizio sul reato commesso né la relativa condanna, che sarà scontata sino al termine. Ciò è tanto vero che la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per aver prorogato il carcere duro a Bernardo Provenzano, capo riconosciuto della mafia, condannato a plurimi ergastoli, nel momento in cui, a causa del deterioramento delle sue funzioni cognitive, non poteva più essere ritenuto in grado di impartire direzioni e definire strategie. Se questa è la ratio della norma, ingiustificate appaiono le sospensioni delle normali regole di trattamento dei detenuti in tutti i casi in cui non sono rinvenibili o non sono più attuali le ragioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica. Tornando al caso Cospito, ma cercando di individuare una regola generale d’interpretazione costituzionalmente orientata nelle decisioni relative al carcere duro, c’è da chiedersi se il detenuto rappresenti attualmente un soggetto pericoloso (ancora) in grado di dirigere, indirizzare e promuovere azioni criminali da parte dell’organizzazione cui appartiene. Che azioni eversive, rivendicate dagli anarchici insurrezionalisti, vi siano state è un fatto, ma si tratta di comprendere se tali atti siano stati commessi “in nome” di Cospito, ovvero siano stati da lui organizzati e diretti. Solo nel secondo caso sarebbe giustificate le modalità particolarmente restrittive di esecuzione della pena. La tendenza, invece, all’estensione dell’applicabilità delle misure del carcere duro ai detenuti autori di gravi reati, essenzialmente perché non pentiti delle proprie azioni criminali, non sembra coerente con i principi costituzionali e le finalità rieducative, nonché con il divieto europeo di trattamenti disumani e degradanti. I detenuti per gravi reati dovrebbero comunque scontare la pena, ma a regime ordinario. Nessuno richiede infatti la libertà dei condannati, ma solo la conservazione del senso di umanità nella esecuzione della pena. Cospito “è stazionario”: torna in carcere di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 febbraio 2023 I medici del San Paolo di Milano danno il consenso per il suo trasferimento. Lui promette: “D’ora in poi solo acqua e sale, niente zucchero”. Il sottosegretario Delmastro, indagato, invia ai pm una memoria sugli atti ceduti a Donzelli. A tre giorni dalla decisione della Cassazione che ha rigettato la sua richiesta di revoca del regime di detenzione al 41 bis, le condizioni “stazionarie” di salute di Alfredo Cospito hanno indotto i medici dell’ospedale San Paolo di Milano, dove era ricoverato dall’11 febbraio, a dare il consenso per il ritorno in carcere del detenuto anarchico. Il 55enne pescarese, che il 20 ottobre scorso aveva iniziato lo sciopero della fame contro il carcere duro a cui è sottoposto dal maggio 2022, da due settimane - da quando nella requisitoria la Procura generale della Cassazione aveva chiesto di sospendergli il 41bis e rinviare gli atti al Tribunale di sorveglianza di Roma - aveva ricominciato ad assumere integratori, diverse bustine di zucchero al giorno e sali minerali sciolti nell’acqua. Poi, con il “no” della Cassazione, la scelta di sospendere gli integratori. E, da ieri mattina, da quando è stato trasferito nuovamente al Servizio assistenza intensificata del carcere milanese di Opera, Cospito avrebbe annunciato (il condizionale è d’obbligo perché le intenzioni del detenuto sono riportate da legali che lo hanno visitato ma il suo difensore, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, lo incontrerà solo oggi) l’intento di eliminare dalla propria dieta altri alimenti: “Ora andrò avanti solo ad acqua e sale, niente più zucchero”, avrebbe detto. Ieri mattina però Cospito “ha preso un po’ di zucchero ed ha deciso poi di non prenderlo più - afferma uno dei legali del pool coordinato da Rossi Albertini - da venerdì non ha più preso nemmeno orzo. Cospito riferisce di sentirsi un pochino più stanco fisicamente dopo l’interruzione del potassio da venerdì, ma il morale pare alto”. In ogni caso il nuovo trasferimento in carcere preoccupa i difensori “perché a Opera non è presente il macchinario che gli monitora il cuore costantemente”. Sabato, quando l’anarchico è stato visitato dal suo medico di parte, i suoi parametri vitali tenevano anche se, aveva avvertito il dottor Andrea Crosignani, “siamo in presenza di una grave denutrizione” e “la situazione potrebbe aggravarsi di giorno in giorno”. Da parte del governo si cerca invece di gettare acqua sul fuoco: “Il miglioramento delle condizioni dell’anarchico ha consentito il suo trasferimento nel carcere di Opera, dove sarà accuratamente seguito”, ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari. “Il regime del 41 bis non ha finalità inutilmente afflittive e lo Stato non fa passi indietro davanti ai violenti”, è il refrain ripetuto dall’esponente della Lega. A dare senz’altro una mano ad Ostellari sono i messaggi farneticanti e le minacce che riempiono allegramente i siti di area anarchica e antagonista: esortazioni a “vendicare la morte imminente”, ipotesi di complotto che vedono convergere le corti giudicanti, il governo e perfino i giornalisti, e l’evergreen “siete tutti responsabili”. Inoltre, l’esposizione di Cospito, amplificata dalle azioni e dai comunicati degli anarchici, è molto efficace per spegnere i riflettori sulla rivelazione indebita di segreto d’ufficio su cui indaga la procura di Roma, che ha iscritto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro nel registro degli indagati e lo ha interrogato per circa due ore la settimana scorsa. Ieri, l’avvocato Giuseppe Valentino, difensore dell’esponente di Fd’I, ha depositato a piazzale Clodio una memoria nella quale ha ricostruito l’intera vicenda, a cominciare da come ha ottenuto le informazioni e per quali fini le ha passate al suo coinquilino Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir, che in Aula alla Camera le ha usate come una clava contro i deputati dem che avevano visitato l’anarchico per appurare di persona le sue condizioni di salute. Donzelli potrebbe essere convocato dagli inquirenti come persona informata dei fatti, anche se il ministro Nordio ha tentato di blindare i due fratelli d’Italia sostenendo che spetta solo al suo ministero, e non alla magistratura, definire il tipo di segretezza del documento ottenuto da Dalmastro. Posizione niente affatto condivisa dall’Associazione nazionale dei magistrati. Su Alfredo Cospito il comitato di bioetica si spacca di Valentina Stella Il Dubbio, 28 febbraio 2023 Prevale l’idea di un tso per l’anarchico a digiuno. Dal 41bis è stato trasferito dall’ospedale alla prigione di Opera. Alfredo Cospito ieri è stato ritrasferito nel carcere di Opera, presso il Servizio di assistenza integrata. Il sottosegretario alla giustizia Ostellari ha garantito massima attenzione verso le sue condizioni di salute. L’anarchico, in sciopero della fame da quattro mesi per protestare contro il 41 bis, si trovava da alcuni giorni ricoverato nell’ospedale San Paolo di Milano a causa del suo peggioramento. L’uomo, dopo l’ultimo verdetto della Cassazione di venerdì scorso che ha rigettato il ricorso del suo legale, ha inasprito nuovamente il digiuno non assumendo più gli integratori. Il medico di fiducia, consulente dell’avvocato Flavio Rossi Albertini, dopo una visita sabato scorso aveva chiarito che “persiste” un quadro di “grave denutrizione” con “atrofia muscolare diffusa”. Aveva parlato di una condizione ancora stabile coi parametri vitali che tengono, “sovrapponibile” a quella dei giorni scorsi, ma che potrebbe “aggravarsi di giorno in giorno”. Intanto si resta in attesa del parere del Comitato Nazionale di Bioetica che sempre venerdì scorso ha reso noto di voler “proseguire l’analisi al fine di ottenere la massima convergenza possibile con riguardo alle delicate e complesse problematiche sottese, nel rispetto di tutte le posizioni sino a ora emerse”. La nuova data in cui si riuniranno nuovamente non è stata ancora stabilita. Il rinvio, si apprende, sarebbe stato deciso anche per attendere la decisione di Piazza Cavour che è arrivata appunto nel tardo pomeriggio di venerdì. Uno dei sentimenti che alberga all’interno del Cnb è quello di insofferenza verso questa richiesta del Governo. Secondo alcuni la risposta alla questione di Cospito deve essere prettamente giuridica e non etica. Ogni dubbio che si pone via Arenula potrebbe essere sciolto già leggendo la Costituzione - l’articolo 32 vieta trattamenti sanitari senza consenso, se non per disposizioni di legge - ; l’articolo 5 della legge 219/ 2017 sul biotestamento (Nella relazione tra paziente e medico di cui all’articolo 1, comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità); e il Codice di deontologia medica in particolare due articoli: “Art. 51 Soggetti in stato di limitata libertà personale Il medico che assiste una persona in condizioni di limitata libertà personale è tenuto al rigoroso rispetto dei suoi diritti. Il medico, nel prescrivere e attuare un trattamento sanitario obbligatorio, opera sempre nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge”. Nel caso di Cospito, ci spiegò il professor Casonato, ex membro del Cnb, “non si può pensare di applicare un Tso perché l’uomo è capace e consapevole e non presenta problemi di salute mentale”. L’altro articolo prescrive: “Art. 53 Rifiuto consapevole di alimentarsi Il medico informa la persona capace sulle conseguenze che un rifiuto protratto di alimentarsi comporta sulla sua salute, ne documenta la volontà e continua l’assistenza, non assumendo iniziative costrittive né collaborando a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale”. Dunque, si chiedono alcune fonti del Cnb, “a cosa serve il nostro parere, quanto è già tutto codificato? Potremmo solo esprimere una valutazione di tipo etico, ma la questione Cospito va risolta giuridicamente”. Da quanto emerso il comitato è comunque spaccato tra i pro- life e i pro- choice: con una maggioranza che vorrebbe imporre a Cospito l’alimentazione artificiale e una minoranza, invece, che vorrebbe veder rispettato il suo diritto all’autodeterminazione, cristallizzato nelle Dat che ha scritto e consegnate al suo avvocato. Molto probabilmente si andrà dunque verso la formulazione di due pareri, ovviamente non vincolanti per il Ministero della Giustizia che si è rivolto al Cnb. Fonti interne sostengono che la strada prevalente è quella di sostenere che lo sciopero della fame a cui si sta sottoponendo Cospito lo stia trasformando da persona sana a persona malata. Nel ventaglio delle opzioni ci sarebbe infatti anche il tentativo di imporre, attraverso un Trattamento Sanitario Obbligatorio, una perizia psichiatrica al detenuto al carcere duro per verificare le sue capacità di intendere e volere. E da lì aprire la strada per l’alimentazione forzata. Se la strada fosse davvero quella di far passare Cospito per “matto” per imporgli un trattamento sanitario che ha detto di voler rifiutare più volte, e se lo Stato accettasse questa prospettiva significherebbe violare l’unico spazio di libertà che è rimasto a Cospito ossia il suo habeas corpus. Sarebbe una vera e propria violenza di Stato. “Happy”, un progetto ben riuscito per il reinserimento dei giovani autori di reato garantedetenutilazio.it, 28 febbraio 2023 Oltre 30 laboratori di attività artistiche, culturali e sportive hanno coinvolto circa 130 giovani in carico ai servizi sociali per i minorenni. “Questo progetto sperimentale di qualificazione dell’intervento educativo nell’area penale esterna minorile rappresenta un esempio virtuoso di sinergie tra professionalità diverse, estremamente qualificate. Il nostro impegno sarà quello di sostenerne la diffusione, anche attraverso la sensibilizzazione di tutti gli attori istituzionali e non che possono essere partecipi di queste iniziative”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, al termine dell’evento conclusivo all’evento conclusivo del progetto europeo Happy (Helpful Activities Program for the Probation of Young offenders), nel Centro congressi auditorium Aurelia. Come ha spiegato in apertura dei lavori Valerio di Tommaso, presidente di Ecos, l’associazione del Terzo settore che ha promosso il progetto e coordinatore dello stesso, Happy è stato sviluppato in collaborazione con il Centro di giustizia minorile del Lazio Abruzzo e Molise, il Centro di istruzione per adulti n. 3, Next salute e servizi, ed è cofinanziato dal programma Rec (Rights, Equality and Citizenship) dell’Unione europea. “In questi tre anni - ha spiegato Di Tommaso - grazie alla proficua collaborazione con il Centro di giustizia minorile e con le assistenti sociali degli uffici dei servizi sociali dei minorenni di Roma, L’Aquila e Campobasso, sono stati attivati oltre 30 laboratori di attività artistiche, culturali e sportive, con il coinvolgimento di professionisti, che hanno coinvolto circa 130 giovani in carico ai servizi sociali per i minorenni. I laboratori hanno toccato le tematiche più varie: musica e scrittura musicale, hip hop, teatro, cucina, pizzeria, calcio, rugby, parapendio, giardinaggio, archeologia” Parallelamente il progetto ha attivato lo sportello Happy Mind, un punto di ascolto dove psicologi e psicoterapeuti esperti dell’età adolescenziale, hanno realizzato una serie di colloqui valutativi con i ragazzi sulle attività svolte durante i laboratori ed un percorso di formazione per i professionisti che hanno svolto le attività laboratoriali. Presenti numerosi giovani partecipanti al progetto, nel corso della mattinata, tra gli altri, sono intervenuti: Santo Rullo, psichiatra, responsabile scientifico del progetto, il quale ha riassunto le principali problematiche correlate alla disgregazione emotiva tipica dell’età adolescenziale; la presidente del Tribunale per i minorenni de L’Aquila, Cecilia Angrisano; il Garante Anastasìa; la dirigente del Cpia 3 di Roma, Ada Maurizio; Simone Ranieri, funzionario della professionalità di servizio sociale dell’Ufficio servizio sociale per i minorenni di Roma. Il progetto si focalizza sul concetto generale di “probation”, inteso come periodo durante il quale un giovane autore di reato può riscattarsi ed avviare un serio percorso di reinserimento sociale, scolastico e lavorativo, che possa anche diminuire la possibilità di recideva del reato, promuovendo la cittadinanza attiva e il rispetto delle regole. Proprio a tal fine è stato ideato il primo Happy Club: un nucleo operativo per la definizione di programmi integrati che prevedono attività educative in aula, laboratori ricreativi, sportivi e culturali, attività socialmente utili, nonché collegamenti specifici con il mondo del lavoro, sotto forma di tirocini formativi presso le aziende partner. Tutte le attività vengono erogate tramite professionisti, aziende ed enti no profit qualificati e selezionati in base a criteri specifici stabiliti nel progetto e illustrati nelle manifestazioni di Interesse pubblicate nelle pagine per professionisti, aziende ed enti non profit presenti nella sezione “unisciti a noi” del sito del progetto: www.progettohappy.it. Si può dare più tempo per l’arresto in flagranza: per il resto Nordio rivede in modo equilibrato la riforma Cartabia di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 28 febbraio 2023 Un mese fa esatto, in data 27 gennaio, il Ministro Carlo Nordio, nel silenzio di chi lavora onestamente e con dedizione, presentava come unico firmatario un disegno di legge finalizzato ad apportare alcuni correttivi alla riforma Cartabia (la quale - come si vedrà - non è l’unica e reale “causa” dei problemi che lo stesso ddl aspira a risolvere). Ne ha parlato e scritto diffusamente, su “Sistema penale”, uno studioso che è stato tra i principali consiglieri della ex Guardasigilli Marta Cartabia, l’ordinario di Diritto penale Gian Luigi Gatta. Occorre sin da subito premettere come il profilo squisitamente accademico del professor Gatta (e delle considerazioni che ha voluto compendiare nella recente pubblicazione) consenta di apprezzare ancor di più le riflessioni, anche critiche in alcuni punti, sulla riforma Cartabia e sul ddl Nordio. Anzitutto, v’è da apprezzare la scelta di tecnica legislativa, che trova d’accordo l’accademico dell’Università di Milano, impiegata dal ministro Nordio: si è deciso di ricorrere appunto a un ddl (sinonimo e sintomo di uniformità e chiarezza di intenti) e non al più disorganico decreto legge o a un decreto legislativo (ancora tecnicamente possibile in forza dell’ampio arco temporale della delega, esteso fino al 2024). Il testo, sulla scorta di alcuni casi di cronaca che hanno avuto forte clamore mediatico (ma non per questo appiattito su certe rivendicazioni “coram populo”) si pone due obiettivi: a) escludere la procedibilità a querela in presenza di determinate aggravanti; b) consentire l’arresto obbligatorio in flagranza, per reati procedibili a querela, anche quando questa non viene presentata immediatamente perché non si riesce a rintracciare la persona offesa. Come sottolineato dal professor Gatta, si tratta di un intervento che non mira assolutamente a frenare le finalità della riforma Cartabia su tali aspetti - fondamentalmente, di deflazione processuale - quanto del tutto confermativo di tali tendenze, ma con alcuni correttivi “chirurgici”. E, infatti, con riferimento al primo punto, il ddl prospetta l’intervento su sole due aggravanti comuni previste nella parte speciale del codice, prevedendo che, ove ricorrano quelle aggravanti, si procede sempre d’ufficio: anche, pertanto, quando per il reato cui si riferisce l’aggravante è prevista la procedibilità a querela. Si tratta delle aggravanti del metodo mafioso e della finalità di terrorismo, le quali - come sottolinea acutamente il professor Gatta - offendono interessi di natura non solamente privatistica e, soprattutto con riferimento alla prima, tali da pregiudicare la stessa scelta, da parte della persona offesa, di presentare querela. Il secondo - decisivo - intervento del ddl concerne il tentativo di risoluzione del bilanciamento tra arresto obbligatorio in flagranza e assenza di querela immediata da parte della persona offesa per i reati così procedibili; problema che - evidenzia l’accademico e ancora prima il Ministro Nordio - non nasce certo con la riforma Cartabia ma è strutturale alle fondamenta storiche del Codice di rito. Il disegno di legge Nordio tenta un “giusto mezzo”: consentire l’arresto obbligatorio in flagranza anche in assenza della querela, che però deve essere presentata entro 48 ore, pena la liberazione dell’arrestato. Dunque, se la querela non è proposta nel termine di quarantotto ore dall’arresto oppure se l’avente diritto dichiara di rinunciarvi o rimette la querela proposta, “l’arrestato è posto immediatamente in libertà”. Ovviamente, spetterà agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria che hanno proceduto all’arresto effettuare tempestivamente ogni utile ricerca della persona offesa, entro le 48 ore. Su quest’ultima introduzione il professor Gatta pone una riserva, tipica dell’accademico, che tuttavia a parere di chi scrive merita attenta e meditata analisi: l’ex consigliere di Cartabia ritiene, infatti, che coglierebbe maggiormente nel segno, per non frustrare le novità che il ddl si propone e le finalità a cui questo tenta di dare accoglimento, escludere la necessità della querela - cioè della condizione di procedibilità - entro le prime 96 ore dall’arresto, termine massimo per la limitazione eccezionale della libertà personale compatibile con l’articolo 13 della Costituzione. Entro questo arco temporale, si effettuerebbe e contestualmente si convaliderebbe l’arresto con applicazione, eventualmente, di una misura cautelare (anche non detentiva), destinata a decadere se non sopravviene la condizione di procedibilità. Questa diversa soluzione avrebbe il pregio di concedere più tempo agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria per la ricerca della persona offesa, consentendo di presentarla davanti al giudice per la convalida dell’arresto anche dopo poche ore, applicando una misura cautelare pur in assenza della querela. Nuovamente, si ritiene, l’acutezza del Ministro Nordio e del ddl che ne porta la firma consentono di apprezzare la statura e la profondità giuridica che hanno caratterizzato l’intera sua carriera, prima che in politica, nelle aule di giustizia. *Avvocato, Direttore Ispeg Con gli anarchici come per i raver: la costruzione del nemico di Livio Pepino Il Manifesto, 28 febbraio 2023 È evidente il ritorno a un sistema penale con due distinti codici, uno per “briganti” (che segna corpi e vite) e uno per “galantuomini” (dove il tempo si sostituisce al giudice). In assenza di (imprevedibili) fatti nuovi Alfredo Cospito morirà. A questo esito portano le decisioni del ministro prima e della Cassazione poi. Eppure, confermare il regime del 41 bis non era una strada obbligata. Non lo era per il Guardasigilli, come risulta dalle alternative prospettate dalla Direzione nazionale antimafia. E non lo era per la Cassazione, come dimostra l’opposta soluzione suggerita dal Procuratore generale. Al contrario, la revoca del 41 bis era supportata da solidi argomenti: l’esistenza di rapporti di Cospito con associati esterni in funzione della commissione di nuovi reati era (è) indimostrata e neppur presa in considerazione nel provvedimento applicativo della misura; le condizioni di salute dell’anarchico pescarese, dopo oltre quattro mesi di sciopero della fame, e la sua stessa esposizione mediatica rendevano (rendono) irrealistico ipotizzare il permanere (o il ripristino) di collegamenti funzionali a concrete e concordate attività eversive; la possibilità di fronteggiare la pericolosità di Cospito in un circuito meno restrittivo di quello del 41 bis era (è) sostenuta dalla stessa amministrazione penitenziaria. Quella adottata dal ministro e dai giudici è stata, dunque, una scelta E come ogni scelta è densa di significati e di messaggi, anche di carattere generale. Il primo messaggio è il disprezzo della vita umana, sacrificata sull’altare di una concezione etica dello Stato. È l’impostazione che ha ispirato, negli anni 80, le politiche di Margaret Thatcher nei confronti dei militanti dell’Ira e che ispira oggi quelle di Erdogan e di Al Sisi nei confronti dei detenuti politici: un’ideologia autoritaria e vendicativa da sempre marchio di fabbrica della destra (finanche teorizzata dal fascismo) e in netta antitesi con la lettera e lo spirito dell’articolo 2 della Costituzione, che vuole lo Stato garante dei diritti inviolabili di tutti e promotore di interventi improntati alla solidarietà. In secondo luogo la decisione mostra un approccio univoco alla drammatica situazione del carcere (di cui il caso Cospito è solo la manifestazione maggiormente eclatante): più repressione, incremento del carcere duro, costruzione di nuove prigioni. Ovviamente per i migranti, i marginali, i ribelli mentre pena e processi vanno drasticamente ridotti per i colletti bianchi. Dopo la (cauta) apertura della ministra Cartabia (peraltro corresponsabile dell’applicazione del 41 bis nel caso specifico) è evidente il pieno e incondizionato ritorno a un sistema penale caratterizzato dalla compresenza di due distinti codici, uno per i “briganti” e uno per i “galantuomini” destinati, il primo, a segnare la vita e i corpi delle persone e, il secondo, a misurare l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione. E c’è di più. La gestione complessiva della vicenda mostra che tra il governo (e la sua maggioranza) e la parte più conservatrice e retriva della magistratura e degli apparati si stanno definendo, oggettivamente, una convergenza e una alleanza sempre più strette. C’è, nelle scelte di questi giorni e nel clima che le accompagna, un ulteriore elemento denso di pericoli per le sorti del Paese: l’incessante costruzione, da parte dell’establishment, di un nemico da utilizzare come “arma di distrazione di massa”, come diversivo di fronte alle difficoltà economiche e sociali e, soprattutto, come giustificazione delle derive autoritarie che si annunciano. L’operazione era in corso da tempo, con la ripetuta proposizione di “nemici della società”: i frequentatori dei rave, considerati alla stregua di orde di barbari (tanto da richiedere interventi legislativi ad hoc); gli studenti che, invece di studiare, occupano le scuole e cercano lo scontro con le forze dell’ordine; gli ambientalisti che imbrattano con vernice (lavabile) opere d’arte e finanche l’ingresso del Senato, così “mettendo sotto attacco il cuore dello Stato” (sic!). Con il “caso Cospito” si è alzato il tiro: il “pericolo anarchico” è diventato, pur in assenza (almeno al momento) di riscontri significativi, la maggior emergenza nazionale, ripetendo un copione che il Paese ha ripetutamente e drammaticamente vissuto. Per questo la vicenda rivela l’intreccio perverso di un dramma individuale e di una stagione politica inquietante. Il sesso represso fu il vero movente della strage nel carcere di Alessandria nel 1974 di Federico Ferrero Corriere della Sera, 28 febbraio 2023 Il 9 maggio nel penitenziario scoppiò la rivolta. Per sedarla, decisa la linea interventista: morirono in tutto 7 persone. Sugli accadimenti di Alessandria del 9 maggio del 1974 le coordinate, almeno quelle, sono pacifiche. Nel gennaio più di duecento carcerati nella vetusta casa circondariale di piazza Don Soria si erano coalizzati in sciopero - per ciò che potevano - rinunciando ai momenti di socialità e dandosi a isolate resistenze passive. Destata l’attenzione pubblica, accolsero una delegazione di giornalisti e politici con una lista lunga così di desiderata. In quella prigione, a loro dire, il concetto di punizione sovrastava il dettato costituzionale su dignità e scopo rieducativo della pena: pasti scarsi, bagni e docce in condizioni orripilanti, attività lavorative e di svago insufficienti. Il responsabile degli agenti penitenziari, poi, veniva ritenuto duro, talora crudele, e così alcuni dei suoi collaboratori. Due anni prima, alcuni giovani detenuti alessandrini si erano già asserragliati sul tetto per protestare contro le disposizioni sulla detenzione e i regolamenti interni del penitenziario, ancora informati ai principi del Ventennio, ma la loro iniziativa era rimasta inascoltata. Erano mesi di fuoco. Le spinte verso la modernità, contrastate da muscolari resistenze conservatrici, tendevano la corda sociale italiana fino allo strappo: bussava la scadenza del referendum sul divorzio e scuoteva la società la prima propaganda armata delle Brigate rosse che, un mese prima di quelle maledetta storia, avevano rapito per la prima volta un rappresentante dello Stato, il pubblico ministero Mario Sossi. Cesare Concu, Domenico Di Bona (condannati per omicidio) ed Edoardo Levrero (rapina) non nutrivano, probabilmente, altrettante spinte ideali. Una volta realizzato che nessuno li avrebbe ascoltati, passarono all’azione per riprendersi con la violenza le loro libertà. Alle nove del mattino di quel giovedì, armati di pistole e coltelli entrati chissà come in cella, annunciarono la rivolta nell’aula di disegno. Stiparono nell’infermeria del carcere tredici ostaggi, compreso un collega detenuto che, ormai a fine pena, si era detto contrario alla sommossa. Scattato l’allarme grazie a un detenuto che informò un appuntato, il trio si chiuse nell’infermeria e mandò all’esterno una generica richiesta di libertà mentre i carabinieri si ammassavano nel cortile del carcere e, fuori dalle mura, lievitava il parterre: i procuratori di Alessandria, il questore, il procuratore generale di Torino, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, cronisti locali, giornalisti nazionali. A metà pomeriggio, i colloqui - a pistole spianate - prima con il pubblico ministero Buzio, poi con tre giornalisti noti a Levrero tra cui Emma Camagna, ai tempi corrispondente del Corriere. Le richieste: duecento milioni e un pulmino parcheggiato nel cortile, a disposizione per la fuga. L’opinione dominante sembrava accomodarsi dal lato della trattativa finché, alle sette di sera, i sequestratori notarono strani preparativi, intravidero una putrella adatta a fare da ariete e mandarono a parlamentare con l’esterno il dottor Roberto Gandolfi, anni quarantotto, due figli adolescenti ginnasiali, medico del carcere. “Fermatevi, questi sono pronti a tutto”. Invece il procuratore generale diede il via libera. Lacrimogeni nei corridoi, porte sfondate, spari: nel caos di urla, lettighe che accorrevano, agenti che entravano e uscivano dal braccio del carcere. Dissolta la nube del gas, a terra giacevano i corpi del professor Pier Luigi Campi - quarantadue anni, padre di due bambini di sei e tre anni, insegnante di estimo per i detenuti e colpevole di aver tentato di far desistere i tre dalla loro azione - e di Gandolfi. Il secondo, morto sul colpo per un proiettile alla testa. Il primo, nonostante la medesima dinamica da esecuzione sommaria, moribondo e deceduto dopo dieci giorni di cure disperate. Neanche la prima velleità di sfondamento, fallita, fece desistere l’ala interventista della legge. Ci provarono ancora due sacerdoti, personalità locali, i pubblici ministeri della città ma il pomeriggio successivo, confidenti nella stanchezza dei tre, scattò una seconda irruzione, ancora più possente e decisa a risolvere una volta per tutte lo stallo. Cosa che, in effetti, fu: solo che Di Bona fece in tempo a freddare il brigadiere Gennaro Cantiello e l’appuntato Sebastiano Gaeta, raggiungere nel bagno Concu e sparare in testa alla povera assistente sociale Graziella Giarola, volontaria tra gli ostaggi nella convinzione di poterli ricondurre alla ragione. Concu tentò di uccidere un altro prigioniero, don Martinengo, ma l’arma si inceppò e venne falciato da una raffica di mitra. Di Bona si sparò un attimo prima d’essere acciuffato e, in Assise, a prendersi un quarto di secolo ulteriore di galera arrivò il solo Levrero, l’unico privo di pistola. In tutto, cinque morti più due dei tre detenuti responsabili del guaio. Il sindaco di Alessandria presentò un esposto, presto archiviato, contro il procuratore generale e pure contro Carlo Alberto Dalla Chiesa come “ideatori e responsabili dell’azione” che, si leggeva, era stata concepita “con leggerezza e sprezzo delle vite umane”. L’argomento poggiava sull’opinione dei magistrati cittadini che avevano cercato, inutilmente, di trattare con i rivoltosi per poi vedersi scavalcare da chi scelse per due volte di sbrogliare l’impiccio con la forza. Da parte di chi agì, si provò a giustificare il secondo assalto con una serie di spari avvertiti dall’interno che, però, vennero negati da tutti i sopravvissuti e pure dalle sentenze. Il capo della cronaca del Corriere, Arnaldo Giuliani, se n’era tornato dal Piemonte già nel primo fine settimana post strage con una notizia clamorosa, poi tumulata dalle polemiche sull’esito della rivolta: sì, certo, Concu era il capobanda, il carismatico, l’uomo coi contatti con la sinistra extraparlamentare e armata, quella del sequestro Sossi. Sì, la protesta di gennaio era stata in minima parte assecondata con qualche concessione ma nulla di sostanziale e la rabbia pervadeva le celle dell’istituto. Ma il movente del capo non era politico né sindacale: “Non so per gli altri due, che forse lo hanno seguito, ma il gesto di Concu è un’esplosione di sesso represso”, gli confidò un funzionario. “Il suo chiodo fisso è quello: un giorno mi ha detto che non ne poteva più, che voleva una donna”. A parlare a Giuliani, “una signora che ha fatto recentemente visita all’uxoricida”, suggerendo come causa autentica gli effetti collaterali dell’amor che move il sole e l’altre stelle. Che follia tirare in ballo Renato Curcio a cinquant’anni dai fatti di Tiziana Maiolo Il Riformista, 28 febbraio 2023 Ha 81 anni, ma il procuratore di Torino lo ha indagato per la sparatoria a Cascina Spiotta dove morì un appuntato e un brigatista riuscì a fuggire. Ora Curcio vuol sapere chi sparò alla fidanzata Mara Cagol. Sarà stato per quel gruppo musicale che si chiamava “P 38-La Gang” che pareva inneggiare alle Brigate rosse, che aveva dedicato un brano alla Renault rossa in cui fu trovato il corpo di Aldo Moro, e che diffondeva magliette con il nome del capo Br Renato Curcio. O sarà anche stato il fatto che certi lutti non passano mai, quando hai subito la tragedia da bambino e poi devi spiegarla ai tuoi figli, nella speranza che possano capire, loro millennial, che cosa sono stati gli anni settanta del novecento. Fatto sta che Bruno D’Alfonso, ex carabiniere andato in pensione giovanissimo come molti suoi colleghi, e figlio di quell’appuntato Giovanni che il riposo dal lavoro non fece in tempo a sognarlo perché lo ammazzarono a 45 anni, l’anno scorso di esposti alla magistratura ne ha presentati due. Uno nei confronti del gruppo musicale, che nel frattempo comunque si è sciolto. Il secondo è ben più impegnativo e costringe alla memoria del tempo in cui Bruno D’Alfonso era un bambino e in Italia c’era il terrorismo che lo ha privato del padre. Così, per via di quel secondo esposto, a dolore si somma dolore. Anche perché non c’è un pubblico ministero che abbia la forza di dire che non esiste giustizia a cinquant’anni dai fatti, e poi agire di conseguenza, cioè lasciar perdere anche l’esposto di un figlio che vuol sapere anche l’ultimo nome di coloro che erano presenti all’omicidio di suo padre. Se non lo ha saputo nel corso di cinquant’anni, non sarà certo quel nome a dare soddisfazione al suo bisogno di giustizia. Né crediamo possa dare piacere il fatto che Renato Curcio, ex capo delle Br, un signore anziano di 81 anni sconosciuto ai più, tranne forse tra i giovani, a quei quattro che avevano costituito il gruppo che inneggiava alla P 38, sia oggi indagato addirittura per concorso in omicidio. La preistoria di 48 anni fa segnala le prime attività delle Brigate Rosse, quelle di cui Renato Curcio fu fondatore e capo e il giorno tragico che porta la data del 5 giugno 1975. Il giorno precedente il nucleo torinese delle Br aveva realizzato il sequestro-lampo dell’amministratore delegato di una importante azienda di spumanti, Vittorio Vallarino Gancia. L’intenzione era di chiedere un miliardo di lire per il riscatto e di finanziare l’attività del gruppo terroristico. Che evidentemente, per lo meno all’inizio, non aveva ancora sviluppato le capacità di azione e mimesi che mostrerà solo tre anni dopo con il sequestro del presidente della Dc Ado Moro e l’uccisione della scorta in via Fani a Roma. Fatto sta che il luogo della prigionia di Vallarino Gancia fu individuato ventiquattro ore dopo il rapimento, alla cascina Spiotta nell’alessandrino. L’irruzione fu fulminea, il sequestrato fu liberato e nello scontro tra terroristi e forze dell’ordine furono uccisi l’appuntato D’Alfonso e Margherita Cagol, moglie del capo Br Renato Curcio. Un altro carabiniere rimase ferito e un terrorista riuscì a scappare e non sarà mai individuato. Qualcuno dice che potesse essere Mario Moretti, colui che dopo l’arresto di Curcio, avvenuto un anno dopo, divenne il numero uno delle Br e organizzò il rapimento e l’uccisione di Moro. Ma non si sa. Ora i magistrati vogliono sapere da Curcio quel nome, e per cavarglielo di bocca lo imputano di “concorso” nell’omicidio dell’appuntato. Si mobilita persino la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. A questo punto si risveglia però anche lo spirito battagliero dell’ottantunenne Renato Curcio, a chiedere pure lui giustizia. Per sua moglie Margherita, che era una terrorista, ma che fu probabilmente, così si intuì allora sulla base dei risultati dell’autopsia, uccisa a freddo mentre si era arresa e stava con le braccia alzate. E quindi? Signor Bruno D’Esposito è così sicuro di voler riaprire il caso cinquant’anni dopo? Niente permessi all’ergastolano non collaboratore con la giustizia, anche se il clan non esiste più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 febbraio 2023 Non basta che il clan di appartenenza non esista più per concedere il permesso premio all’ergastolano non collaboratore con la giustizia. Così ha stabilito una recente sentenza della cassazione, la numero 6750. Quando nel 2019 la Consulta fece decadere l’ostatività del permesso premio agli ergastolani non collaboranti con la giustizia, diversi movimenti politici e una parte della magistratura, hanno creato allarmismo inducendo l’opinione pubblica a pensare che fosse una specie di “tana libera tutti” per i mafiosi, compresi quelli stragisti. In realtà le cose non stanno così. Finora i permessi premio sono stati concessi con il contagocce, perché i requisiti sono estremamente rigidi e vanno rispettati tutti. Prendiamo in esame l’ultimo caso di rigetto. Accade che il tribunale di Sorveglianza di L’Aquila ha rigettato il reclamo di Francesco Martinese, condannato all’ergastolo (e in più recluso al 41 bis) per reati legati alla criminalità organizzata, contro la decisione del Magistrato di Sorveglianza di respingere il permesso premio da lui richiesto. Il Tribunale ha ritenuto che, nonostante la buona condotta del detenuto, non si poteva escludere la sua pericolosità sociale e che era prematuro concedere il permesso premio. L’ergastolano ha quindi presentato ricorso per cassazione, sostenendo che il Tribunale di Sorveglianza non ha tenuto conto del fatto che il “clan Martinese”, di cui faceva parte, si era smembrato, e che non vi erano nuove incriminazioni o evidenze di contatti con la criminalità organizzata. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che le censure sollevate dal detenuto fossero infondate e che la decisione del Tribunale di Sorveglianza fosse corretta. Il permesso premio è una misura prevista dalla legge per consentire ai detenuti che hanno tenuto una regolare condotta di coltivare interessi affettivi, culturali o lavorativi. Come scrive la Corte suprema, tale istituto è volto a soddisfare una pluralità di concorrenti esigenze, in quanto caratterizzato dalla specifica funzione pedagogico propulsiva - quale parte integrante del trattamento, di cui costituisce uno strumento cruciale, secondo quanto indicato dalla Corte costituzionale già con la sentenza n. 504 del 1995 - che si accompagna a quella premiale, strettamente connessa all’osservanza di una regolare condotta da parte del detenuto ed all’assenza, nel beneficiario, di pericolosità sociale, anche se orientata alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro. Il giudice, pertanto, a fronte dell’istanza intesa alla concessione dei permessi premio, deve accertare, acquisendo le informazioni necessarie a valutare la coerenza del permesso con il trattamento complessivo e con le sue finalità di risocializzazione, la sussistenza di tre requisiti, integranti altrettanti presupposti logico- giuridici della concedibilità del beneficio e costituiti, rispettivamente, dalla regolare condotta del detenuto, dall’assenza di sua pericolosità sociale e dalla funzionalità del permesso premio alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro Tuttavia, la concessione di tale misura dipende da vari fattori che il Magistrato di Sorveglianza deve valutare. Come recita la sentenza della Consulta del 2019 che ha fatto decadere l’ostatività, la valutazione per concedere o meno tale permesso, deve rispondere a criteri “di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo”, e quindi gli oneri dimostrativi imposti al richiedente il permesso premio non possono basarsi, in misura decisiva, sul suo atteggiamento soggettivo. Nel caso di Francesco Martinese, il Tribunale di Sorveglianza ha ritenuto che, nonostante la buona condotta dimostrata in carcere, la sua partecipazione passata alla criminalità organizzata fosse ancora motivo di preoccupazione per la sua pericolosità sociale e che fosse prematuro concedere tale permesso. La Cassazione ha ritenuto che la decisione del Tribunale di Sorveglianza fosse corretta. In particolare, la Corte ha osservato che la valutazione della pericolosità sociale del detenuto deve essere basata non solo sulla sua condotta in carcere. Inoltre ha sottolineato che Martinese, pur descritto dagli organi del trattamento come protagonista di un corretto comportamento inframurario, non ha allegato elementi sintomatici del suo definitivo allontanamento dagli ambienti delinquenziali di appartenenza, onde ineccepibile appare, alla luce dei criteri enunciati dalla Corte costituzionale, il rigetto della richiesta di permesso premio, sancita dal Magistrato di sorveglianza. I giudici supremi scrivono che “a fronte di una decisione che si palesa frutto della complessiva, equilibrata delibazione delle evidenze disponibili, il ricorrente si pone in una prospettiva di mera confutazione, imperniata su una premessa da ritenersi senz’altro fallace perché trascura l’esistenza della presunzione, relativa, di pericolosità sociale che, nel caso in esame, è pienamente operativa in quanto non contraddetta da qualsivoglia elemento di segno contrario”. In conclusione, il caso di Francesco Martinese evidenzia l’importanza della valutazione della pericolosità sociale dei detenuti nella concessione dei permessi premio e la necessità di valutare non solo la condotta in carcere o l’estinzione del clan di appartenenza, ma tanti altri requisiti. La Corte di Cassazione ha confermato che la decisione del Tribunale di Sorveglianza era giusta e che le censure sollevate dall’ergastolano Martinese erano infondate. Com’è detto i sostenitori dell’ergastolo ostativo - introdotto attraverso il 4 bis nei primi anni 90, quando la mafia costituiva un’emergenza e lo stato cercava di dispiegare ogni sua forza per contrastarla - accusavano chi ne metteva in dubbio la costituzionalità di voler, in buona sostanza, fare un favore alla mafia. Un clima infuocato che poi si è ripresentato quando la corte costituzionale doveva pronunciarsi sull’ostatività alla liberazione condizionale. Eppure, se pensassimo solo alla fine dell’ostatività del permesso premio permessi avvenuto nel 2019 con la sentenza della Consulta, tale concessione agli ergastolani non collaboranti raggiunge numeri da prefisso telefonico. Sì, perché ci sono rigidi paletti. E sono legittime e condivisibili, le rigorose cautele imposte nella valutazione del percorso riabilitativo di un condannato per mafia. Quello che non è costituzionalmente sostenibile è l’automatismo preclusivo nei confronti di un non collaborante. Come ha detto il giurista Glauco Giostra in una intervista di due anni fa all’huffingtonpost, “non possiamo leggere nell’articolo 27 della Costituzione ‘le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, salvo che si tratti di mafioso non collaborante’“. Marche. Il mondo dello sport e le ricette per “evadere” dal carcere Avvenire, 28 febbraio 2023 Per chi vive in carcere, la partita di calcetto è un’occasione per compattare lo spirito di squadra, rapportarsi con l’allenatore e rispettare le decisioni dell’arbitro. E l’allenamento di ginnastica può divenire uno spazio dove, oltre a stimolare i muscoli, si condivide il benessere con altre persone. Ma secondo l’ultimo rapporto Antigone, negli istituti detentivi italiani il 36,5% dei detenuti non ha accesso al campo sportivo e per il 30,2% le palestre sono precluse. Ecco perché, in un contesto ancora con tante carenze, spicca l’impegno di enti e associazioni che portano lo sport tra le mura carcerarie. Ne è un esempio l’Us Acli - Unione sportiva Associazioni cristiane lavoratori italiani - di Ascoli Piceno e Fermo che, grazie al progetto “Una comunità in movimento”, ha attivato in tre istituti penitenziari marchigiani centinaia di ore di sport, 300 solo nel 2022, coinvolgendo professori di educazione fisica o allenatori nel ruolo d’istruttori. “Crediamo nell’attività fisica come elemento essenziale per l’equilibrio di una persona. Per questo l’abbiamo portata con convinzione fra i detenuti”, racconta il presidente della Us Acli Marche e coordinatore del progetto, Giulio Lucidi. Diversi i corsi che l’associazione dal 2018, anche in piena pandemia, realizza negli istituti penitenziari di Ascoli Piceno, Fermo e Fossombrone. Partitelle di pallone, allenamenti a corpo libero, ma anche yoga, calciobalilla e scacchi, per accendere la mente e l’entusiasmo e guardare alla vita con aria fresca nei polmoni. Il progetto si è sviluppato in seguito al protocollo del ministero della Giustizia, stipulato dal 2016 con le associazioni sportive per favorire l’attività fisica negli istituti penitenziari. “La sedentarietà è un grave problema per i carcerati, provoca malattie cardiovascolari o il diabete. Non solo. Lo sport favorisce benessere psicologico, pulsioni aggregative vitali”, spiega Lucidi. L’Us Acli di Ascoli e Fermo è riuscita in questi anni a dotare gli istituti penitenziari dove è entrata di nuove attrezzature, creare attività aggregativa e animazione. “I club di Torino e Napoli ci hanno regalato casacche e palloni nuovi - dice Lucidi. Abbiamo invitato in un incontro i calciatori dell’Ascoli e della Sambenedettese”. I corsi sono settimanali e per detenuti d’ogni età, organizzati seguendo le indicazioni delle aree educative penitenziarie. Gli allenamenti di calcio, per esempio, coinvolgono maggiormente tossicodipendenti e condannati per piccoli furti, con l’obiettivo di rafforzare fiducia ed entusiasmo. La ginnastica è rivolta alle persone con condanne lunghe, così da affrontare la sedentarietà con strumenti più adeguati. La partecipazione dei reclusi è intensa perché il lavoro dei volontari colma un grande vuoto. Se accessibili, nelle carceri italiane le palestre sono sguarnite di attrezzi e lo sport, quando concesso, si vive non in gruppo ma come pratica individuale, senza abbattere quell’isolamento che complica ogni percorso educativo. Nuoro. Badu e Carros, un supercarcere esplosivo tra sommosse e omicidi di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 28 febbraio 2023 Inaugurato nel 1969, divenne la Cajenna delle Brigate Rosse. È successo esattamente quarant’anni fa: 1983. Era il mese di dicembre. A Roma Papa Giovanni Paolo II entrava a Rebibbia per incontrare Mehmet Alì Agca, il fanatico terrorista turco che gli aveva sparato il 13 maggio di due anni prima. A Nuoro, invece, il cappellano don Salvatore Bussu usciva dal supercarcere di Badu e Carros sbattendo clamorosamente i cancelli. L’umile prete di Ollolai si era schierato con i brigatisti rinchiusi in Barbagia in sciopero della fame per denunciare le condizioni disumane cui erano sottoposti dal regime di massima sorveglianza. Dopo tanti anni di sommosse, rivolte e persino omicidi, quella era la prima manifestazione pacifica dei detenuti in Italia. Le parole di don Bussu esplosero, i riflettori vennero puntati su Badu e Carros. Da lì parti il dibattito parlamentare che portò alla riforma Gozzini. I fatti del 1983 fecero da spartiacque. Nel sistema penitenziario italiano c’è un prima e un dopo Badu ‘e Carros. Un penitenziario nato già con i riflettori puntati. Considerato “un modello di edilizia carceraria”, così nel 1966 lo definì l’architetto Bruno Zevi mentre erano ancora in corso i lavori di costruzione, il penitenziario nuorese era moderno, all’avanguardia in tutta Europa, fuori dalla città e quindi isolato e facilmente controllabile dalle camionette a prova di proiettile in servizio di perlustrazione. Inaugurato nel settembre 1969, Badu ‘e Carros era stato progettato nel 1953, su commissione del ministero dei Lavori pubblici. Saloni spaziosi, vari laboratori, celle riscaldate, luminose, con i servizi igienici, fornite persino di apparecchi radio e di televisori. Una svolta rispetto alle vecchie carceri nuoresi di via Roma, la Rotonda, una fortezza borbonica demolita nel 1975. Ciò nonostante, il nuovissimo carcere fu da subito teatro di diverse rivolte, ben tre nei primi sei anni. Nel 1973 i detenuti salirono sul tetto e ci restarono per due giorni e due notti, poi si arresero. Nulla a che vedere con le sommosse dei terroristi degli anni seguenti e neppure con l’assalto fallito del 1979. Badu e Carros, ormai supercarcere per volontà del generale dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa, era finito nel mirino della colonna sarda delle Brigate Rosse, Barbagia Rossa, un gruppo militante che alla sottocultura criminale barbaricina coniugava la teoria e la prassi rivoluzionaria di matrice marxista-leninista. Una deriva che prendeva forma, esattamente come aveva già paventato l’allora cappellano don Giovanni Farris. Il prete di Lodè mise in guardia Nuoro dai molteplici rischi di natura giuridica, ma anche e soprattutto psico-sociologici, ambientali, culturali. “Le conseguenze possono essere disastrose, è una spinta alla guerriglia da cui, almeno in parte, eravamo immuni”. Lo stesso procuratore della Repubblica di Nuoro, Francesco Marcello, era stato chiaro: “Noi giudici di Nuoro - disse - siamo contrari alla presenza della sezione differenziata a Badu e Carros, perché riteniamo estremamente pericolosa la commistione tra delinquenti politici e delinquenti comuni”. Il bollettino di guerra arrivò di lì a poco: da carcere di massima sicurezza, Badu e Carros, la Cajenna delle Brigate Rosse, divenne un vero e proprio mattatoio. Nel 1980 vennero trucidati Biagio Jaquinta, di Cosenza, e Francesco Zarrillo, di Caserta. Nel 1981 fu la volta di Claudio Olivati, di Cervicara, strangolato. È di pochi mesi dopo, invece, il massacro di Francis Turatello “Faccia d’angelo”, boss della mala milanese, squartato in un cortile interno del carcere durante l’ora d’aria. Milano. Il limbo degli invisibili: una notte davanti alla caserma dove i migranti chiedono asilo di Monica Serra La Stampa, 28 febbraio 2023 Bambini e genitori accampati per giorni, tensione e scontri con la polizia. Juan e Luis giocano con un ombrello nel fango. Hanno 12 anni a testa, i pantaloni della tuta inzuppati. Sono le 23, il termometro segna 3 gradi, piove dal mattino e l’umidità non dà tregua a chi è fermo ad aspettare da ore. O anche da giorni, accampato in una tenda di fortuna. La piccola Carmen, 2 anni, è crollata sulla spalla del papà, che la protegge con una coperta a pois. Già in testa alla fila c’è Ana, che di anni ne ha 5, e gli occhi esausti di chi è grande abbastanza per capire che - se va bene - dovrà stare in piedi al gelo, per tutta la notte. Nel parco, c’è chi si scalda con un falò di rami secchi. Una coppia si abbraccia sui cartoni distesi sulla terra bagnata. Un anziano fissa il vuoto e si aggrappa alle stampelle per cercare le forze su una panchina. Via Cagni è la Lampedusa di Milano. L’ultima frontiera dell’Italia. In questa strada anonima della periferia nord, dove non c’è traccia delle luci del Duomo o dei party della Fashion week, centinaia di persone sognano un varco alla disperata ricerca di un futuro. Chi arriva coi barchini dal mare o con un volo che gli è costato tutto quel che poteva vendere in Sri Lanka o in Sudamerica, e sfugge a ogni censimento, ai circuiti istituzionali dei Cas, per chiedere asilo o protezione internazionale deve passare da qui. Dallo spazio stretto che si apre tra le transenne e i poliziotti in tenuta antisommossa dopo la mezzanotte della domenica. Ogni domenica. Questa notte sono in pochi: 400, 500 al massimo, divisi per etnia. In genere sono molti di più, anche il doppio. Solo 120 alla settimana, però, ce la fanno a vincere questa lotteria. A entrare nella caserma Annarumma, sede del reparto mobile, che la Questura ha trasformato in una succursale dell’ufficio immigrazione. Per rispondere, nell’unico modo consentito dalla legge, a una richiesta incessante e invisibile agli occhi della politica che pontifica nei talk show. Qui, dalle sette del mattino del lunedì, si fa solo la prima identificazione per prendere un appuntamento. Che in un paio di mesi porterà a ottenere lo status di richiedente asilo, valido fino alla pronuncia della commissione territoriale, e poi all’eventuale ricorso. Anche se dovesse andare male, significa vivere in Italia da regolari per almeno due o tre anni. Una via crucis di pochi metri che diventano infiniti, necessaria a chi scappa dalla guerra, da persecuzioni politiche e religiose. Alcuni sono costretti a giocare la carta dell’omosessualità condannata in tanti Paesi. Non tutti lo sono davvero, ma non c’è altro modo per tenere accesa la speranza. Dinesh, srilankese di 26 anni, in Italia da 10, tiene il posto a un amico: “Era un oppositore perseguitato dal governo, per scappare ha venduto ogni cosa: il ristorante, il tuk-tuk. Ora si spacca la schiena come lavapiatti in un locale, finisce a mezzanotte e si precipita qui”. Pochi passi più avanti c’è Maria, peruviana di 50 anni che abbraccia la nipote: “Non è giusto, siamo qui da mercoledì, la niña non mangia da colazione. Siamo accampati in quella tenda da cinque notti per prendere il posto. Come bestie. Che poi non è detto serva a qualcosa, ci proviamo da un mese ma non si sa mai se ci faranno passare”. Un altro modo per prenotare l’appuntamento non esiste: le regole del ministero sono chiare perché prima, con le prenotazioni online, accadeva di tutto. C’era chi arrivava sui barconi a Porto Empedocle col ticket in mano, che aveva pagato agli sfruttatori centinaia di euro. I truffatori si agitano anche qui, pronti a vendere documenti falsi e dichiarazioni di ospitalità, in mezzo a questa massa stanca e arrabbiata che spinge per entrare. A mezzanotte e venti si apre un buco tra i blindati davanti al gruppo degli egiziani. Sono in tanti. Si accalcano e battono forte sugli scudi dei poliziotti, per saltare la fila, per provare a sfondare. Ci sono grida, spintoni. Un volontario dell’associazione Naga, che dà una mano coi colleghi della comunità di Sant’Egidio, urla: “Qui c’è una famiglia con un bambino”. “Venite”. E quel piccoletto avvolto in una coperta tra le braccia del papà, si perde ingoiato dalla folla che gli fa spazio. Ce l’ha fatta, è nel corridoio al di là delle transenne con altri 120. Ma per l’arrivo dei mediatori e l’installazione delle tensostrutture dentro i muri alti della caserma, c’è da aspettare l’alba. Alcuni agenti fanno una colletta per offrire una bevanda calda. Altri, fuori, provano a tranquillizzare la folla impazzita. I modi sono bruschi e duri: “È chiuso, andate via. Next week”. Dall’altro lato georgiani, bengalesi e pakistani si mescolano ai sudamericani. Nella calca c’è una ragazza di 13 anni con un giubbotto rosso. È spaventata. In lacrime, si rassegna e si allontana, seguita dalla famiglia. Schiacciato dalla folla, il piccolo Carlos, 8 anni, perde la mano del papà Jorge, meno di 30. Urla il suo nome, lo ritrova in fretta: “Viviamo a Legnano, il prossimo treno è alle 5, non so neanche dove andare ora”. È triste Carlos, seduto su uno sgabello al bordo della strada: “E domani ho anche la scuola”, si preoccupa, sfoggiando un italiano perfetto imparato in meno di tre mesi, che fa brillare gli occhi al padre: “È il mio orgoglio, il mio cuore. Questo è l’unico modo per provare, davvero, a dargli un futuro”. Bologna. Università in carcere, una scommessa aperta e non ancora vinta di Fabrizio Pomes campusnews.it, 28 febbraio 2023 La situazione degli studi universitari in carcere: molte buone idee, ma anche molte criticità ancora da risolvere. L’ordinamento penitenziario italiano considera l’istruzione un mezzo fondamentale di rieducazione e dal 2000 prevede altresì che possano essere organizzati in carcere corsi di scuola secondaria superiore e che i detenuti possano frequentare corsi di studio universitari. Solo così anche coloro che conoscono nel proprio percorso di vita situazioni marginalizzanti - come quelle detentive - possono provare a riprendersi il proprio progetto di vita. Il tempo del carcere non può essere un tempo vuoto o un tempo di attesa della fine della pena, ma luogo dove il tempo assume dei significati attraverso le cose che si fanno: è questo il valore dell’istruzione. Le opportunità di formazione universitaria fornite in modo continuativo, accessibili, flessibili, garantite allo stesso livello di qualità di quelle offerte all’esterno, hanno il loro fondamento nella democratizzazione, nell’uguaglianza e nell’inclusione, ovvero nella garanzia del diritto. Le esperienze italiane di studi universitari in carcere iniziano a costituirsi intorno agli anni Sessanta, prima della riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Da allora, per i detenuti, si sono moltiplicate le possibilità di poter accedere ai corsi universitari, anche grazie alle facilitazioni economiche messe a disposizione da alcuni atenei ai cambiamenti introdotti dall’attuale Ordinamento Penitenziario. È però solo con la nascita dei Poli Universitari Penitenziari (PUP), il cui primo è stato istituito nel 1998 con l’Università degli studi di Torino, che si dà piena attuazione a quanto detto. Università e carcere a Bologna - A Bologna un po’ di anni più tardi è il prof. Giorgio Basevi che volle promuovere l’incontro tra l’Università e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e addivenire, con la sottoscrizione di un protocollo d’intesa, alla creazione strutturata di un PUP. Lo stesso Basevi diventò delegato del rettore per il diritto allo studio delle persone private della libertà e si individuò nella Dott.ssa Santangelo il referente amministrativo che aveva il compito di sostenere e collaborare con il delegato nei rapporti con i diversi uffici dell’amministrazione di ateneo mentre l’educatore Pirani era il referente della Direzione della Casa circondariale. Si è arrivati ad individuare nel 1°D della casa Circondariale di Bologna la sezione detentiva in cui si poteva offrire idonea sistemazione agli studenti in camere singole e che potesse favorire le attività di studio e i rapporti con i docenti e in cui ci fossero spazi adeguati alla didattica e che favorissero nel contempo l’accesso degli studenti a biblioteche o altri strumenti didattici necessari. Nella sezione, che attualmente gli universitari condividono con la squadra del rugby, sono altresì garantiti e agevolati gli accessi dei tutor, dei docenti e di altro personale amministrativo, i quali svolgono funzioni inerenti la didattica universitaria e seguono i percorsi di studi. È anche garantito il collegamento intranet che renda fruibile l’accesso ai siti dell’Università. L’importanza di questo aspetto è evidente, in quanto consente il reperimento di tutte le informazioni sui corsi di studio e sui programmi degli insegnamenti, possibilità di gestire la propria carriera di studente, fruizione degli insegnamenti a distanza e delle varie forme di didattica on line. Limiti, criticità, tentativi di soluzione - Ma, su una sessantina di detenuti iscritti all’Università nel carcere di Bologna, solo una quindicina sono allocati nella sezione dedicata al PUP mentre gli altri dividono le altre sezioni di detenzione. Per questi altri detenuti diventa veramente difficile studiare: sono costretti ad arrangiamenti per ricavare spazi fisici e mentali utili alla concentrazione; leggere quando gli altri sono all’ora d’aria, quando i compagni di cella scendono per lavorare o quando si recano alle altre attività trattamentali; ciò significa spesso dover rinunciare alle altre occasioni per uscire dalla cella o per partecipare al trattamento. Spesso i detenuti sono costretti a rinchiudersi nel bagno della cella per potersi sottrarre, nelle ore di convivenza forzata, alla televisione perennemente accesa o alle conversazioni. Eppure gli spazi detentivi nominati Poli Universitari Penitenziari coincidono di fatto con quelli che dovrebbero essere garantiti, per standard e caratteristiche di vivibilità, a tutti detenuti comuni. Invece, data la loro eccezionalità, vengono configurati, nella percezione comune di tutti gli attori del campo penitenziario, come destinazioni “premiali”. Un altro carcere dentro il carcere, le cui condizioni di accesso sono definite in modo nebuloso e mai formalizzato e i cui meccanismi di permanenza non appaiono mai definitivamente sanciti. Insomma, ampi margini di indeterminazione che costituiscono i presupposti per le assegnazioni e gli spostamenti discrezionali (premiali e punitivi). Le facoltà più gettonate dai detenuti sono ovviamente quella di Giurisprudenza - e ciò è dovuto all’interesse predominante di capire e seguire meglio il proprio status giuridico e la sua evoluzione - ma anche quella di Agraria, Lettere, Sociologia, Scienze Politiche, Scienza della Comunicazione, Storia. Un altro aspetto non secondario della difficoltà incontrata dal PUP di Bologna è stata quella di poter disporre di un numero di tutor che potessero affiancare i detenuti nello studio. Il lungimirante prof. Basevi inventò l’Associazione Liberi di studiare che ha offerto in questi anni un utilissimo e quanto mai necessario supporto al percorso di studio di tantissimi studenti, soprattutto della Facoltà di Giurisprudenza. Un’associazione formata da studenti Unibo che hanno voluto trasmettere le proprie competenze agli studenti detenuti. Un’esperienza unica, una delle migliori pratiche messe in campo, in grado di creare occasioni di incontro e di scambio tra la popolazione privata della libertà personale con il mondo esterno. Ora l’Università di Bologna su questa scia ha voluto direttamente formare tra i suoi studenti un gruppo di tutor per andare a colmare il vuoto che si creava per qualche facoltà. Il prof. Paolo Zurla, nuovo delegato del rettore, che ha raccolto l’eredità di Basevi e che è affiancato dalla dott.ssa Coralli come funzionario giuridico pedagogico delegato dalla Direzione del carcere, l’ha annunciato nel corso della giornata di orientamento universitario svoltasi nella sala cinema del carcere. Un altro aspetto che gioca un ruolo non secondario nel percorso di studio del detenuto è rappresentato dalle scarse risorse investite dall’Università nel materiale di studio e che spesso sono oggetto di un continuo processo di contrattazione. Infatti in carcere nulla è garantito, ma solo consentito, quindi in compenso tutto può essere ritirato o vietato in qualsiasi momento. Un’altra lacuna che può essere evidenziata è la timidezza dell’Università di Bologna nell’affrontare il problema del post-carcere. Nonostante una serie di facilitazioni normative e fiscali, che dovrebbero incentivare l’impiego dei detenuti nel mondo produttivo oltre che sociale, la società è refrattaria, se non avversa, al loro reinserimento. E l’università non è da meno. E allora val bene raccogliere l’invito e la sfida lanciata dal prof. Basevi che auspicava la creazione delle sezioni tecnico-amministrative nelle carceri, in cui i detenuti iscritti all’università potessero formarsi e lavorare come se fossero parte integrante del personale amministrativo delle università. Certo un’idea visionaria che incontrerebbe resistenze tanto burocratiche quanto sindacali. Ma solo andando a sbattere contro dei muri si può sperare di incrinarli e gradualmente farli cedere. Milano. “Io, come legno”. Ex detenuto diventa liutaio di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 28 febbraio 2023 La metafora di Erjugen: “Nasciamo informi ma con la cura possiamo portare gioia”. Dal carcere ai violini al lavoro in bottega. Quando va nelle scuole a raccontare la sua storia Erjugen Meta usa una metafora: “Noi nasciamo come pezzi di legno informi che attraverso il lavoro, la cura, la dedizione e la passione possono diventare uno strumento in grado di portare gioia agli altri”. Il legno, del resto, è l’elemento con cui Erjugen, maestro liutaio, lavora ogni giorno. Il diploma di liutaio arriva per lui nei lunghi anni trascorsi da detenuto nel carcere milanese di Opera grazie ai maestri dell’Istituto Stradivari di Cremona che gli trasmettono passione e segreti e ad un progetto della Fondazione Casa dello Spirito e dell’arte, presieduta da Arnoldo Mosca Mondadori: “Mai avrei pensato di intraprendere questa strada - racconta Erjugen - ma quando mi hanno proposto di seguire un corso di liuteria, ho subito sentito che era un modo per far entrare la bellezza nella mia vita”. Nella sua carriera di liutaio ha già firmato quaranta strumenti: “Non c’è un violino uguale all’altro perché una venatura del legno, una fiammata li rende unici come gli esseri umani. Il momento della firma è pura poesia: lascio il mio nome in fondo alla cassa armonica, nell’anima del violino ed in fondo c’è un po’ la mia anima in ogni strumento che realizzo”. Alcuni dei violini che ha modellato insieme ad altri compagni di strada sono finiti in mani eccellenti: Franco Battiato ed Eugenio Finardi si sono esibiti con i violini del carcere così come i giovani talenti del conservatorio di Milano. Da pochi mesi Erjugen è fuori dal carcere, ha un lavoro a tempo pieno presso la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ed è lui a tenere un corso di lavorazione del legno presso la falegnameria della Casa Circondariale di Monza a tre giovani detenuti, grazie al contributo della Fondazione Cariplo e della Fondazione della Comunità di Monza e Brianza. I legni che ha sul banco di lavoro sono però legni speciali: vengono dal mare, sono stati recuperati dai barconi dei migranti e sono destinati a diventare rosari. “A volte nei pezzi di legno trovo ancora sabbia e sale - racconta - e mentre li lavoro mi sorprendo a pensare che questi legni siano anche impregnati del sangue e del sudore di uomini e donne che cercavano una nuova vita altrove”. C’è emozione nel suo racconto perché lui sa cosa significa trovarsi su un barcone in balia del mare, “so cosa vuol dire vedere le luci della costa dall’acqua”. La vita di questo giovane uomo di 40 anni non è stata facile: “Sono partito da Tirana da solo a 15 anni - racconta - la mia famiglia non mi ha mai fatto mancare nulla, ma sognavo l’Italia e sono venuto a raggiungere dei parenti. Purtroppo ho percorso strade sbagliate e ne ho pagato il prezzo, però gli anni in carcere mi hanno fatto incontrare persone che si sono prese cura di me. Ho imparato un mestiere, ho scoperto l’amore per la poesia (ha pubblicato la raccolta Ridare l’anima. Redenzione in carcere, ndr), adesso racconto la mia storia ai detenuti che seguono il mio corso, voglio dare loro fiducia, invitarli a studiare”. Quella di Erjugen è una storia di riscatto di cui parla anche Mosca Mondadori la cui Fondazione ha assunto finora 30 persone in sei carceri italiane e 70 all’estero: “Il nostro obiettivo è seguirli nel loro percorso lavorativo e abitativo fuori dal carcere - spiega - oggi Erjugen ha un lavoro a tempo pieno, insegna ad altri detenuti come trasformare i legni recuperati in mare in oggetti sacri come i rosari”. Bolzano. Stefano Accorsi incontra i detenuti nell’ambito del progetto “Art of Freedom” ansa.it, 28 febbraio 2023 Stefano Accorsi, attore, regista e produttore cinematografico e televisivo, ha fatto visita alla Casa Circondariale di Bolzano per incontrare i partecipanti dei laboratori teatrali proposti dal Teatro Stabile bolzanino nell’ambito del progetto di innovazione sociale “Art of Freedom”, volto al reinserimento sociale e culturale di detenuti ed ex detenuti attraverso la partecipazione e il coinvolgimento in percorsi e iniziative culturali. “È stato un incontro molto coinvolgente”, ha commentato l’attore al termine della sua partecipazione ad “Art of Freedom” per il Teatro Stabile di Bolzano. “Soprattutto è bello che il carcere di Bolzano - grazie ai suoi dirigenti e alla collaborazione di tutto il personale - preveda questo tipo di attività, infatti i corsi proposti sono tanti e possono essere molto utili. In alcuni casi potrebbero servire anche a trovare un lavoro nel momento in cui le persone finiranno di scontare la loro pena. Penso sia importante che un carcere diventi un’opportunità per chi ha fatto cose sbagliate di capirlo e magari anche di avere un’altra occasione quando uscirà”. “Art of Freedom” è realizzato nell’ambito del Programma Operativo FSE 2014-2020. Punto di forza del progetto è la collaborazione tra istituzioni pubbliche, culturali e del privato sociale: “Art of freedom” è coordinato da Biblioteca Culture del Mondo e Alpha&Beta Piccadilly, in partnership con Comune di Bolzano, Caritas (servizi Odos e Centro per la Pace), UEPE, USSM, Magistratura di Sorveglianza e La Strada - der Weg, Casa Circondariale di Bolzano, Centro di tutela contro le discriminazioni, Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Cristallo, Fondazione Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, e Cooperativa sociale Rorhof. Eboli (Sa). Detenuti-attori sul palco, a conclusione di un laboratorio nell’Icat ansa.it, 28 febbraio 2023 Uno spettacolo teatrale promosso dalla Cooperativa Sociale Fili D’Erba è andato in scena oggi nell’Istituto di Custodia Attenuata per Tossicodipendenti di Eboli. In scena la storia di un piccolo ladruncolo che ruba un anello di San Gennaro e pur di non essere denunciato mette in atto una truffa, dando voce al Santo che accetta i miracoli dei fedeli. Il laboratorio teatrale è stato promosso dalla Cooperativa Fili D’Erba, con la regia di Bruno di Donato che insieme ai detenuti ha scritto la sceneggiatura: “Gli uomini si giudicano per il potenziale che hanno, non per quello che hanno fatto. Il teatro e la bellezza salveranno il mondo”, ha dichiarato il regista alla conclusione dello spettacolo. Sono state dieci le persone detenute che hanno preso parte al laboratorio durato un centinaio di ore, persone che quotidianamente cercano di riscattarsi. Presente anche il direttore dell’Istituto, Paolo Pastena, che ha ringraziato il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, definendolo il primo amico tra gli amici con cui cooperare per realizzare progetti simili. “Davanti ai familiari e ai figli - ha sottolineato il garante - oggi i detenuti devono ricordarsi delle responsabilità che hanno. Non importa quante volte si cade, perché l’importante è avere il coraggio di rialzarsi sempre. Il teatro, come la musica, crea emozioni, libera energie, promuove relazioni”. “Su 6.804 detenuti in Campania, i 44 detenuti dell’ICAT sono dei privilegiati, perché stanno avendo una possibilità concreta. Ci muoveremo per continuare i laboratori ed iniziare nuovi progetti verso l’esterno”, ha assicurato Ciambriello. Napoli. “Maternità in gabbia”: quando sono anche i bambini ad essere detenuti, l’evento del Rotary vesuviolive.it, 28 febbraio 2023 “Maternità in gabbia” è un evento curato da Rosina Casertano, avvocato cassazionista e presidente commissione giustizia Rotary Napoli. Si terrà oggi martedì 28 febbraio alle ore 18.30 all’Hotel Royal. Dopo i saluti istituzionali di Antonio Ascione, Presidente Rotary Club Napoli, interverranno la giornalista e saggista Rosaria Capacchione, Samuele Ciambriello garante detenuti Regione Campania, Marco Puglia magistrato sorveglianza Tribunale di Napoli e Raffaello Magi, consigliere sezione penale Cassazione. “Maternità in gabbia vuole evidenziare quanto la condizione carceraria femminile impatti sull’esercizio della maternità condizionandola, reprimendola recidendola”, dichiara Rosina Casertano. “La maternità - prosegue - quale esercizio della genitorialità intramura carcerarie viene vista come ossimoro (incompatibilità con il contesto carcerario). Lo stato da padre diventa padrone, sovverte vestendolo di legalità un principio pacifico, quello secondo cui le colpe dei genitori non possono ricadere sui figli; entra a gamba tesa nella gestione di diritti irrinunciabili dell’individuo quale la gestione della maternità e frange un legame ancestrale. In allineamento con paesi in cui il regime carcerario è ontologicamente diverso l’Italia ha previsto la permanenza del minore con la madre detenuta nel periodo di vita da 0 a 3 anni. E nonostante l’unione europea dica il bambino non è un detenuto di fatto lo diventa; intramura carcerarie il minore subisce danni allo sviluppo intellettivo cognitivo psicomotorio, al linguaggio allo sviluppo affettivo e relazionale”. “Al compimento del terzo anno (nel periodo di vita in cui cordone ombelicale ancora saldo secondo le regole della psichiatria infantile) si recide il legame con disturbi reattivi da deprivazione. Se la detenuta ha sostrato familiare di appoggio esterno il minore ivi ripara, diversamente intervengono i servizi sociali con deprivazione con gravi disturbi reattivi. Su questo argomento intendiamo offrire spaccato fotografico con un dibattito con giornalisti esperti di cronaca giudiziaria e carceraria, con operatori del sistema e magistrati di esecuzione penale e sorveglianza oltreché di Cassazione per le continue sanzioni Cedu alla violazione dei diritti umani Raccomandazione n. 5 del 2018 del Comitato dei Ministri degli Stati membri dell’Unione Europea: “I bambini possono restare in carcere solo se soddisfa il loro interesse”. La corte costituzionale più volte ha stabilito che la tutela del minore è un prius a raffronto dell’interesse dello stato all’esecuzione immediata della pena. Ma quale è in concreto la tutela del minore”, conclude. Allarme Ocse: presto sarà impossibile garantire cure mediche a tutti di Sergio Harari Corriere della Sera, 28 febbraio 2023 I sistemi sanitari stanno implodendo: non perdere tempo prezioso, abbiamo i fondi del Pnrr e la grande responsabilità di salvare uno dei pilastri fondamentali del Paese L’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che non è esattamente un covo di sognatori socialisti, lancia un grido di allarme ai 36 Stati membri (tra i quali il nostro): i sistemi sanitari sono in serio pericolo e con essi la stabilità sociale. Sottofinanziati da anni, rischiano di pagare un costo altissimo per l’assistenza durante la pandemia e per quello che tuttora comporta in termini di ritardi di attività e liste di attesa da smaltire, oltre al progressivo aumento dei bisogni di salute in una popolazione che invecchia sempre di più. L’organizzazione internazionale di studi economici stima che in questi ultimi tre anni la spesa sanitaria nell’area OCSE sia aumentata mediamente di un punto percentuale di PIL, e valuta in 1,4% di PIL il fabbisogno minimo per fare fronte alle nuove necessità di salute, agli investimenti per ristabilire l’efficienza dei servizi, e per potenziare tutte quelle attività che possano creare un argine a nuove possibili emergenze sanitarie (dall’aumento delle attività di prevenzione e controllo, all’incremento dei letti di terapia intensiva). L’OCSE in una precedente analisi del 2017 aveva già evidenziato una serie di criticità che purtroppo non sono mai state affrontate e che così sono andate crescendo e amplificandosi, complice la recente emergenza sanitaria. In estrema sintesi il messaggio è chiaro: i sistemi sanitari stanno implodendo e rischiano a breve di non potere più garantire cure a tutti, o si aumenta il loro finanziamento o si ricorre a drastiche razionalizzazioni delle prestazioni, compartecipazioni alla spesa, sistemi misti pubblico-privato. Con una attenzione: se salta la sanità rischia di saltare la pace sociale. L’OCSE non si limita a denunciare la gravità della situazione ma in modo pragmatico delinea possibili scelte politiche strategiche, ognuna con i pro e i contro, ma, quale che sia la strada che si vuole prendere, il tema non può essere ignorato. L’Italia è cresciuta nel solco tracciato dall’articolo 32 della Costituzione (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”) e grazie a un Servizio sanitario equanime e di buon livello ha fatto fronte ai bisogni di salute degli italiani e all’emergenza pandemica, ma le difficoltà sono ormai evidenti in tutte le Regioni, qualsiasi sia il colore politico di chi le governa: una scelta strategica va fatta e spetta all’attuale governo. Si dice che il meglio è nemico del bene, qualsiasi strategia si sceglierà sarà un compromesso, ma bisogna non perdere tempo prezioso, abbiamo i fondi del Pnrr da gestire e la grande responsabilità di salvare uno dei pilastri fondamentali del Paese. Migranti. “Non dovevano partire”. Piantedosi dà la colpa ai sopravvissuti, scoppia la polemica di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 febbraio 2023 Ancora da chiarire la catena dei soccorsi. Il Viminale minaccia il medico Amodeo che ribadisce: “Strage evitabile”. È polemica sulle parole del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, volato domenica a Crotone per una riunione in prefettura dopo la strage di Steccato di Curto costata la vita ad almeno 63 persone (ma si temono 100 morti). Il titolare del Viminale da un lato ha dato tutta la colpa agli scafisti e agli stessi migranti, dall’altro ha respinto le domande che chiedevano maggiori dettagli sulla catena dei soccorsi. “L’unica cosa che va affermata è che non devono partire. Quando ci sono queste condizioni non devono partire”, ha detto secco il ministro. Lui, ha dichiarato provando a mettersi nei panni di un migrante, non prenderebbe il mare neanche se disperato perché “educato alla responsabilità verso quello che si può dare al proprio paese”. Pazienza che la situazione italiana non sia comparabile a quelle di Siria, Afghanistan o Iran, alcuni dei paesi di provenienza di morti e superstiti. Il victim blaming, cioè la colpevolizzazione delle vittime, in campo migratorio non è una prerogativa di Piantedosi: in Grecia ci sono rifugiati imputati per la morte dei figli che viaggiavano con loro. In alcuni casi sono stati condannati a decine di anni di carcere. “Parole inaccettabili, Piantedosi si vergogni”, attacca la deputata Pd Rachele Scarpa. “Le dichiarazioni del ministro sono scandalose: un misto di cinismo e assenza di rispetto”, afferma il co-portavoce di Europa Verde e deputato Angelo Bonelli. “C’è da inorridire davanti a quelle frasi. Si dimetta”, attacca il segretario e deputato di +Europa Riccardo Magi. Per i 5S il capogruppo alla Camera Francesco Silvestri: “Parlare di irresponsabilità delle persone che rischiano la vita nelle traversate significa non avere contezza del fenomeno migratorio”. Contro Piantedosi anche Azione-Italia Viva: “scandaloso”. Dalla maggioranza non si alzano voci particolari a sua difesa. A contestare le parole del ministro anche le organizzazioni umanitarie, con Msf in testa. Suor Loredana Pisani, impegnata con la Caritas-Migrantes di Crotone nell’assistenza dei superstiti, afferma: “Chi si mette sui barconi sa di rischiare la vita, se lo fa è perché a casa corre rischi ancora maggiori”. L’altra polemica ruota intorno alla gestione dei soccorsi. È scoppiata dopo le parole del medico Orlando Amodeo che domenica sera a Non è l’arena ha criticato le autorità: “Quella tragedia si poteva evitare. Se so che c’è una nave in difficoltà le vado incontro. Perché non si è fatto?”. Praticamente in diretta è arrivata la replica del Viminale: sottoporremo queste dichiarazioni all’Avvocatura dello Stato. Amodeo ha lavorato come medico della polizia di Stato, con il grado di colonnello, per 32 anni e dal 1993 si occupa di sbarchi e soccorsi. “Altro che scafisti - ribadisce al manifesto - ci sono precise responsabilità istituzionali. Forse qualcuno pensava si sarebbero arenati e ci sarebbe stato solo uno sbarco clandestino in più. Invece è avvenuta una strage. Non ho paura delle minacce di Piantedosi”. Per il segretario di Si Nicola Fratoianni è inaccettabile intimidire “trasmissioni televisive e ospiti che chiedono spiegazioni su ritardi e dinamica nei soccorsi”. Il procuratore di Crotone Giuseppe Caccia fa sapere che sono in corso le ricostruzioni della catena dei soccorsi “ma non ci sono indagini su questo”. Almeno per adesso, perché nella vicenda rimangono punti da chiarire. Finora si sa che intorno alle 22.30 di sabato l’aereo Eagle di Frontex ha avvistato il barcone a circa 40 miglia dalle coste calabresi. A quel punto, comunica la guardia di finanza, “è stato immediatamente attivato il dispositivo per intercettarlo con la vedetta V.5006 e il Pattugliatore Veloce P.V. 6 Barbarisi”. I mezzi sono però rientrati per le proibitive condizioni del mare senza trovare il target. Da notare che il comunicato delle fiamme gialle non parla di un barcone in pericolo, ma di “un’imbarcazione che presumibilmente poteva essere coinvolta nel traffico di migranti”. Lessico che afferisce più alle operazioni di law enforcement che a quelle di ricerca e soccorso (Sar). “Le motovedette buone per ogni condizione meteomarina sono le 300 e 800 della guardia costiera che hanno il compito specifico del soccorso. Quelle della Gdf sono vedette di polizia: magari più veloci ma senza la stessa capacità di tenuta del mare grosso”, spiega Gregorio De Falco, ex senatore e ufficiale di marina. La guardia costiera ha fatto sapere di aver impiegato due mezzi navali ma senza specificare a che ora siano partiti. Dal tracciato della Cp 321, l’unica menzionata esplicitamente, si vede che si è mossa poco prima delle 4.30 di domenica mattina dirigendosi direttamente verso la spiaggia del naufragio, dunque non al largo. È arrivata circa un’ora dopo, quando verosimilmente il barcone si era già infranto contro una secca. Il Manifesto ha chiesto per iscritto alla guardia costiera il dettaglio orario dell’intervento e il numero di caso Sar a esso associato. Nessuna risposta. Sono due delle dieci domande che il deputato di Si Marco Grimaldi ha inserito in un’interpellanza a Piantedosi, con in copia il titolare delle Infrastrutture Matteo Salvini. Intanto il Pd ha richiesto un’informativa urgente alla Camera del ministro dell’Interno per chiarire tutti i dettagli della vicenda. Migranti. Aiutiamoli (a morire) a casa loro di Tonino Perna Il Manifesto, 28 febbraio 2023 Commenti. Cosa significa “dobbiamo bloccare le partenze”? Significa che milioni di profughi che fuggono dalle guerre, dalla fame, dalla miseria, dalla siccità, dalle inondazioni, devono restare a morire nella propria terra. L’ennesima tragedia dei migranti che muoiono davanti alle nostre coste, che potevano tranquillamente essere salvati prima, ha provocato una reazione unanime nel governo italiano che è stato ben espresso dalla premier addoloratissima per questo ennesimo naufragio: “Basta. Dobbiamo impedire le partenze”. Le ha fatto da megafono il ministro Piantedosi: “Non dovevano partire”. Giusto, logico e pragmatico, non fa una grinza. Se nessuno parte su un barcone, gommone o altro mezzo, nessuno muore. Per questa intuizione dovrebbe essere conferito alla presidente del Consiglio, unitamente al suo Ministro degli Interni, uno speciale Nobel per pace, magari con una piccola specificazione: “Per la pace eterna”. Cosa significa “dobbiamo bloccare le partenze”? Significa che milioni di profughi che fuggono dalle guerre, dalla fame, dalla miseria, dalla siccità, dalle inondazioni, devono restare a morire nella propria terra. Ma, stia tranquilla, signora presidente del Consiglio: il 94% dei rifugiati, dei cosiddetti “diplaced people” si spostano all’interno dei loro paesi o in paesi confinanti, come Niger, Congo, Sud Sudan, ecc. Solo il 6% emigra verso altri continenti, non necessariamente in Europa. Quelli che s’imbarcano per raggiungere le coste del Sud Europa sono quelli che non hanno più niente da perdere. Sono una piccola parte del’1,3 milioni di siriani rimasti intrappolati in Libano in una spaventosa crisi economica che ha generato una forte pressione per rimandarli in Siria dove li attende a braccia aperte Bashar Assad, per dargli l’estrema unzione. Sono i curdi bombardati quotidianamente dal grande “mediatore pacifista” Erdogan, che ricatta persino la Nato per poter giustiziare quei leader curdi che sono rifugiati politici nei paesi scandinavi. Sono tunisini che fuggono dalla miseria che dilaga in questo paese dove le grandi speranza accese dalla Primavera araba stanno definitivamente tramontando. Chi sale, pagando, su un barcone sovraffollato per venire in Italia, sa perfettamente che rischia la vita, ma non ha alternative, non ha una prospettiva diversa, una piccola fiammella di speranza. Bene. Volete farli morire a casa loro in modo da poter dire “abbiamo salvato tante vite umane da quando abbiamo impedito le partenze verso l’Europa”? Avete ragione: occhio non vede cuore non duole. Infatti, quanti europei o nordamericani sanno che gli ultimi 20 paesi del mondo per reddito pro-capite, aspettativa di vita, livello di istruzione, ecc., i cosiddetti Last Twenty, sono per oltre i 2/3 paesi attraversati da guerre e conflitti. Guerre alimentate dalle nostre industrie delle armi, fomentate da chi vuole prendersi le risorse di questi paesi, guerre dimenticate che producono fame, devastazione ambientale e migrazioni di massa. Non è la mancanza di investimenti, di risparmio, di know how, di tecnologia, che hanno provocato l’impoverimento di questi paesi, ma le guerre di lunga durata. E noi cosa facciamo? Aumentiamo la spesa per armamenti fino al 2% del nostro Pil, in modo tale che possiamo continuare ad aiutare questi popoli a casa loro. Se solo spendessimo una piccola parte di questi miliardi per i corridoi umanitari molti rinuncerebbero a rischiare la vita puntando su una futura possibilità di arrivare dignitosamente nel nostro paese. Come già avviene grazie alla Caritas, a Sant’Egidio e alla Federazione delle Chiese Evangeliche, che finanziano i corridoi umanitari dal Libano, dalla Libia, dall’Afghanistan ecc. Si tratta, purtroppo, di piccoli numeri che hanno un grande valore umano - ogni vita salvata ha un valore - ma non possono offrire una risposta adeguata come potrebbe offrirla lo Stato. Ed invece il nostro governo pensa a murare le frontiere, a fare morire in mare i profughi impedendo alla Ong di salvarli, spostando verso Nord i porti autorizzati in modo tale che queste navi umanitarie possano salvare il meno possibile; intanto le nostre industrie cercano disperatamente manodopera che non trovano più, devono ridurre le attività per mancanza di personale. Ma, neanche i richiami di Confindustria riescono a incidere su un governo così spietato, cinico, crudele, come non l’avevamo mai visto. Se non ci sarà una ribellione di massa, se la maggioranza degli italiani resterà indifferente rispetto a queste stragi di migranti, allora avremo perso definitivamente la nostra umanità. Migranti. Avevano diritto d’asilo: impedirgli di partire equivale a una condanna a morte di Gianfranco Schiavone Il Riformista, 28 febbraio 2023 Afghani, iraniani, somali. Bloccarli nei loro paesi significa lasciarli nelle mani di talebani e integralisti islamici. Partiti dalla Turchia, dove in centinaia di migliaia sono intrappolati a causa dell’accordo con l’Ue, hanno scelto il mare per evitare le atrocità della rotta balcanica. Non sappiamo quali fossero i progetti, le aspettative, i sogni, delle molte decine di bambini, donne e uomini che sono morti a poche centinaia di metri dall’arrivo sulle spiagge di Cutro. Sappiamo però da dove venivano e quindi da cosa fuggivano: quei morti provenivano, al pari dei sopravvissuti, dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Somalia, dal Pakistan, paesi lacerati da violenze, conflitti, regimi autoritari. Erano dunque rifugiati che avevano diritto all’asilo come previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dal diritto dell’Unione Europa e, va ricordato, dalla Costituzione italiana. All’art. 10 terzo comma la nostra Carta riconosce l’asilo come un diritto fondamentale della persona che fugge da una situazione nella quale gli è impedito “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” stessa che funge da parametro di riferimento di tali violazioni. Qual è dunque, mi chiedo, il significato dell’invocazione della signora Meloni di “impedirne le partenze anche per evitare tragedie simili”? Significa che le persone dovevano restare nei loro Paesi per essere lapidati dai talebani, impiccati dagli integralisti islamici, arruolati nelle milizie delle tante guerre in corso? Mi auguro solo che la signora Meloni non intendesse questo, ma non ne sono affatto sicuro. Il barcone era, come molti altri, partito dalla Turchia, un paese che è rapidamente diventato nell’ultimo decennio il primo paese al mondo per numero di rifugiati: 3,8 milioni (UNHCR, Global Trends 2022). Questo numero abnorme non è frutto solo della condizione geografica di un paese posto lungo le rotte di fuga dal Medio Oriente e dall’Asia centrale, ma deriva da precise scelte attuate dall’Unione Europea: da sette anni infatti la Turchia è stata scelta come privilegiato paese di confinamento di milioni di rifugiati che vi vengono ammassati a seguito di una dichiarazione a margine del Consiglio europeo del 18 marzo 2016 quando i capi di Stato o di governo dell’Unione europea e la Turchia hanno concordato una serie di misure dirette a fermare la cosiddetta migrazione irregolare in transito dalla Turchia verso l’Unione (ovvero bloccare i rifugiati, prima siriani, poi gli altri). Non si trattò affatto, in senso giuridico, di un Accordo tra l’UE e la Turchia concluso secondo le procedure previste dall’articolo 218 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), come ha chiarito la Corte di Giustizia (causa T-257/16) ma da una semplice dichiarazione di intenti imputabile ai singoli capi di Stato e di governo degli Stati membri grazie alla quale sono state eluse tutte le procedure previste dal Trattato. Il prezzo concordato con la Turchia per tutto ciò è stato di 6 miliardi di euro da inviare in due tranche (2016-17 e 2018-19). Scegliere la Turchia come paese di confinamento dove bloccare i rifugiati (una strategia di esternalizzazione del diritto d’asilo che l’Unione Europea persegue con ottusa tenacia da anni) è stata una scelta scellerata che ritengo abbia violato il divieto di non respingimento sancito all’art. 33 della Convenzione di Ginevra; la Turchia infatti ha ratificato la Convenzione e il suo Protocollo del 1967, ma ha mantenuto una limitazione geografica per cui lo status di protezione è riconosciuto solo a chi proviene da un Paese membro del Consiglio d’Europa, mentre chi proviene da un paese non europeo, come accade per tutti i rifugiati presenti nel paese, può solo temporaneamente risiedere in Turchia e accedere a diritti molto limitati. L’Unione aveva allora promesso dei reinsediamenti dalla Turchia verso l’Europa ma si trattava di una finzione: essi non ci sono stati (secondo i dati della Commissione UE nel 2021 solo circa 22.500 persone bisognose di protezione internazionale sono state reinsediate in Stati membri dell’UE da paesi extra UE). Così la Turchia è diventata un maxi deposito o un’immensa trappola per milioni di persone che non possono tornare nei loro paesi di origine, ma neppure possono rimanere in Turchia perché non vi hanno né diritto d’asilo, né possibilità di ricostruirsi una vita in quanto nessun programma socio-economico può realisticamente porsi l’obiettivo di trovare un inserimento a un numero così abnorme di persone. I rifugiati intrappolati in Turchia (al pari di quelli confinati in altri Paesi) possono dunque solo andare avanti, ad ogni modo e a ogni costo, o via terra, attraverso la rotta balcanica, o via mare. Di fronte a questo scenario nel quale le responsabilità italiane ed europee nell’aver scelto il confinamento di milioni di rifugiati sono enormi, l’unica cosa che il ministro dell’Interno Piantedosi sembra in grado di dire è che “è fondamentale proseguire in ogni possibile iniziativa per fermare le partenze”; un’odiosa litania che pretende che le persone rimangano a vivere, o meglio a morire, dove si trovano, senza disturbare, invece di rischiare la vita che gli rimane nel tentativo estremo di trovare un luogo dove poter realmente vivere. La scelta di intraprendere un lunghissimo e pericoloso viaggio via mare dalla Turchia all’Italia invece di intraprendere un percorso via terra può sembrare anomala, ma è probabilmente almeno in parte una conseguenza del tentativo di evitare le violenze di polizia e i respingimenti illegali lungo la rotta balcanica, ovvero che accadono dentro l’Europa e persino alle frontiere esterne dell’Unione stessa. Si tratta di quei respingimenti illegali a catena la cui finalità è impedire ai rifugiati di presentare la domanda di asilo, e che talvolta vengono mascherati dal termine “riammissioni”, anche dall’Italia, pratica che viene magistralmente descritta nel film Trieste è bella di notte dei registi Andrea Segre, Stefano Collizzoli e Matteo Calore. La tragedia che si è consumata sulle spiagge calabresi colpisce per le sue dimensioni e per il suo orrore, ma la strage nel mar Mediterraneo e lungo i confini terrestri europei è permanente anche se invisibile e rimossa dalla coscienza collettiva. Bisogna ridurre le partenze pericolose dalla Turchia, come dalla Libia e da altri Paesi terzi e dunque sottrarre merce ai trafficanti il cui mercato oggi gode di ottima prosperità grazie alle scelte dell’Europa; per raggiungere l’obiettivo di ridurre le partenze pericolose e contrastare il traffico internazionale di essere umani in conformità con il Protocollo di Palermo del dicembre 2000, che impone di tutelare le vittime, bisogna innanzitutto tornare a rispettare quel diritto internazionale ed europeo in materia di asilo che è oggi è stato stracciato. Significa dunque cessare le politiche di esternalizzazione delle frontiere in paesi terzi e porre fine ai respingimenti illegali alle frontiere europee, sia marittime che terrestri, poiché nessuno pagherà mai un trafficante se può esercitare realmente il suo diritto a chiedere protezione a una frontiera europea. All’esatto contrario di ciò che dovrebbe fare, il 5 dicembre 2022 la Commissione Europea ha presentato un Piano d’azione dell’UE sui Balcani occidentali che ha come principali soluzioni “il rafforzamento della gestione delle frontiere” con conseguente fornitura di attrezzature per la sorveglianza a tutti i paesi dell’area e un rafforzamento dei “dispiegamenti congiunti di Frontex”. Nel medesimo documento nulla si dice della necessità di evitare quanto avvenuto con la Turchia, ovvero che anche i paesi balcanici extra UE, diventino, come già in parte sono, paesi di confinamento dei rifugiati che l’Europa non vuole ammettere sul suo territorio. Non una parola quindi viene spesa sulla necessità di supportare questi paesi per consolidarvi sistemi di asilo adeguati dentro un percorso di cambiamento sociale e culturale inevitabilmente lungo e che dovrebbe prevedere come sua parte fondamentale la realizzazione di programmi di ingresso protetto verso i paesi UE con quote vincolanti. Una strategia analoga va attuata per affrontare l’immenso problema che abbiamo creato in Turchia, dando dunque vita a un programma reale di ingressi protetti pianificati verso la UE. Uso volutamente l’espressione “ingressi protetti” perché non intendo fare riferimento più solo ai tradizionali programmi di reinsediamento che vanno superati ma a un complesso di riforme legislative o mai intraprese o morte sul nascere di cui l’Unione ha piena competenza ai sensi dell’art. 78 del TFUE che abbiano lo scopo di avvicinare la protezione ai rifugiati in maggior pericolo che ancora si trovino in paesi terzi: che si tratti di programmi di evacuazione urgente per motivi umanitari o di rilascio di visti individuali di ingresso per accedere al diritto d’asilo nella UE, vanno previsti criteri equi e procedure trasparenti che tengano comunque conto dei legami significativi che molti rifugiati possono avere con paesi dell’Unione. A chi obietta che si tratta di numeri enormi rispondo che è vero ma non abbiamo altra scelta che farlo, rimediando agli errori gravissimi fatti finora. Accettare che sul territorio dell’Unione europea entrino, anche in modo protetto, un numero di rifugiati ben maggiore di quelli che ci sono finora è accettare la realtà di un contesto internazionale nel quale il numero delle persone in fuga è in costante e forte aumento da almeno un decennio. Ciò che possiamo fare non è dunque impedire ciò che non può essere impedito ma gestire, almeno in parte, gli ingressi. Avendo la consapevolezza che finora abbiamo solo negato la più grande questione politica del nostro tempo. Migranti. Piantedosi: “Ma quale disumano, io voglio evitare queste stragi” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 28 febbraio 2023 L’intervista al ministro dell’Interno Piantedosi, dopo la frase sul naufragio vicino a Crotone che lo ha fatto finire al centro delle polemiche: “Io subito tra i superstiti, combatteremo gli scafisti”. Prima la reazione durissima contro chi accusava i soccorritori di essere intervenuti in ritardo causando la morte di decine di adulti e bambini, ieri la frase che lo ha fatto finire al centro delle polemiche: “La disperazione non giustifica viaggi che mettono in pericolo i figli”. Ministro Piantedosi, ma lei davvero pensa questo? “Io penso che il messaggio debba essere chiaro: chi scappa da una guerra non deve affidarsi a scafisti senza scrupoli, devono essere politiche responsabili e solidali degli Stati ad offrire la via di uscita al loro dramma”. Ma si tratta di persone che non hanno nulla oppure che hanno perso tutto... “Sono andato subito sul luogo della tragedia per testimoniare il cordoglio per le vittime e la vicinanza ai superstiti a nome mio e di tutto il governo. E per questo dico che per occuparci concretamente della disperazione delle persone, e non a chiacchiere, così anche da evitare simili naufragi, ci siamo mossi sin dal nostro insediamento intensificando i corridoi umanitari con numeri (617 persone) che mai si erano registrati in un così breve lasso di tempo. In soli due mesi abbiamo anche approvato il decreto flussi che consentirà l’ingresso regolare di 83.000 persone”. Le opposizioni la accusano di disumanità. Crede realmente di bloccare chi parte? “I nostri sono fatti, e non dichiarazioni ipocrite, con cui intendiamo fare il possibile per fermare le partenze ed evitare altre tragedie”. Lo ripeterà anche in Parlamento dove chiedono che riferisca? “Rispondere in Parlamento sarà l’occasione per illustrare ancora una volta una linea politica chiara che intende contrastare i flussi incontrollati e la rete dei trafficanti. Il resto sono vuote strumentalizzazioni di chi non è riuscito finora ad offrire reali alternative ad illusori viaggi della speranza che mettono in pericolo vite umane”. A Cutro c’è stato ritardo nei soccorsi? “Non c’è stato alcun ritardo. Ho presieduto la riunione a Crotone e so che sono stati fatti tutti gli sforzi possibili in condizioni del mare assolutamente proibitive. Per questo voglio ringraziare il personale che, mettendo a rischio la propria vita, interviene quotidianamente per salvare i migranti in difficoltà su barchini alla deriva e che navigano in condizioni di grave pericolo. È estremamente offensivo anche solo adombrare che abbiano derogato agli obblighi e alla innata vocazione”. Il presidente Mattarella, la presidente Meloni e lei avete rivolto un appello all’Europa. Sinceramente crede che l’Ue possa trovare un accordo? “Esiste sempre di più la consapevolezza che la cooperazione internazionale deve essere di comune interesse di tutti i Paesi membri e non solo di quelli di primo ingresso. Anche grazie alle pressioni che stiamo facendo si può intravvedere un primo segnale di cambiamento di linguaggio e prospettiva. Il giudizio definitivo lo daranno i fatti, ma io mi auguro possano essere tangibili al più presto”. E intanto? “Confidiamo di ottenere al più presto risultati positivi dalle molteplici iniziative bilaterali che abbiamo avviato con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, di origine e transito dei flussi. E poi stiamo considerando un riallineamento normativo ad altre legislazioni europee su settori importanti come quello dell’asilo e dei rimpatri”. Quest’anno gli sbarchi sono raddoppiati, ma pochissimi migranti sono arrivati grazie alle Ong. Si può dire che il Codice non serve, anzi contribuisce ad aumentare il numero delle vittime? “Tutt’altro. Nessuno ha mai pensato né affermato che l’applicazione di un quadro durevole di regole sui comportamenti in mare di navi private esaurisca la portata delle iniziative per mettere sotto controllo i flussi nel Mediterraneo. Il Codice serve eccome perché, proprio in un quadro di numeri crescenti, la percentuale degli sbarchi sulle nostre coste determinati da assetti navali di ong si è sensibilmente abbassata. Non c’è alcun legame tra le nuove regole e il possibile aumento di morti in mare. Nella rotta presidiata dalle ong non si è verificato alcun evento che non sia stato adeguatamente fronteggiato da Capitaneria e Guardia di finanza”. E il naufragio di Cutro? “Chi mette questa tragedia in connessione con le nuove regole dice il falso, per ignoranza o malafede. È una rotta dove le Ong non ci sono mai state. In ogni caso la nuova legge non prevede alcun divieto di presenza sugli scenari o di interventi di recupero, li abbiamo semplicemente assoggettati a un quadro normativo anche di rilievo internazionale”. Lei si trova in Francia. Pace fatta tra Roma e Parigi? “Non c’è stata mai nessuna guerra e quindi nessuna necessità di fare pace. La Francia è un partner naturale al quale ci accomunano la storia e i valori. Per il rafforzamento di alcune iniziative in cui crediamo fortemente la comunione di intendimenti con Parigi è assolutamente fondamentale. L’incontro di oggi con il ministro Darmanin me lo ha fortemente confermato”. Quanto è concreta la minaccia degli anarco-insurrezionalisti? “La vicenda Cospito ha ridato visibilità e portato alla grande attenzione mediatica una minaccia che da sempre si alimenta della contrapposizione a ogni forma di affermazione della sovranità dello Stato, in una logica antisistema”. Migranti. Di Dato (Msf): “Un uomo ha perso moglie e tre figli. Fuggiva dai talebani” di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 febbraio 2023 Medici senza frontiere sta sostenendo con un team di psicologi e mediatori i sopravvissuti alla strage di Steccato di Cutro. Il responsabile dell’intervento racconta l’impatto con il dramma dei sopravvissuti. “In Italia non abbiamo mai visto nulla di simile”, hanno dichiarato gli operatori di Medici senza frontiere (Msf) impegnati nell’assistenza ai sopravvissuti della strage di Steccato di Cutro. Sergio Di Dato è il responsabile dell’intervento. Ha 44 anni e una lunga esperienza con l’organizzazione umanitaria: sia nel nostro paese in progetti legati alle migrazioni, che all’estero in scenari di emergenza particolarmente complessi. Tra questi: Sud Sudan, Siria, Venezuela, Sud Africa, Filippine. Come stanno i sopravvissuti il giorno dopo la strage? Continuano a essere molto provati. La perdita di conoscenti o familiari deve ancora essere interiorizzata. Stanno cercando di capire dove si trovano. Il secondo giorno è stato un po’ più semplice parlarci grazie al legame che si sta creando con il nostro team composto da psicologi e mediatori culturali. Domenica abbiamo trovato persone chiuse in un silenzio catatonico, altre perse in un pianto continuo ed estremo. Notizie dei dispersi? Abbiamo cercato di fare delle stime perché numeri esatti non ce ne sono. Incrociando le testimonianze e le informazioni delle altre organizzazioni presenti sul campo crediamo che sul barcone viaggiassero 180 persone. 82 sono state salvate. I cadaveri recuperati sono 63. Ne mancano 35. Tra i superstiti ci sono minori? Cinque minori con meno di 12 anni si trovano nel reparto pediatrico dell’ospedale di Crotone. Un sedicenne era finito in terapia intensiva ma successivamente è stato spostato in reparto. Altri minori sono nel Cara di Crotone, dove stiamo realizzando il nostro intervento. Lì le persone sono in attesa di identificazione. Un ragazzo di 16 anni ritenuto particolarmente vulnerabile perché ha perso la sorella di 28 anni, invece, è stato trasferito in un centro dedicato della provincia di Cosenza. Soprattutto grazie all’impegno della Croce rossa e di organizzazioni come la nostra. Un uomo ha perso la moglie e tre figli. Vi ha raccontato da cosa fuggiva? È una delle prime persone che abbiamo incontrato. Uno dei casi più delicati. Della sua famiglia sono rimasti in vita lui e un figlio di 13 anni. È morta la moglie e altri tre figli di 11, 9 e 5 anni. Venivano tutti dall’Afghanistan. L’uomo ha lavorato per delle organizzazioni occidentali e dopo la presa del potere da parte dei Talebani rischiava la vita. Per questo ha deciso di partire. Adesso è bloccato in un grande senso di colpa: ritiene di aver messo in pericolo e causato la perdita dei familiari per proteggere la sua vita. Piantedosi dice che è irresponsabile salire su quei barconi. Che ne pensa? Personalmente sono padre di due figlie e vivo in un paese ad alto rischio sismico. Se ci fosse un terremoto e le mie figlie rimanessero boccate sotto un soffitto che crolla farei di tutto per tirarle fuori. È una metafora, ma molte persone in altre zone del mondo si trovano ogni giorno in condizioni di questo tipo. Non si tratta di essere incoscienti ma di tutelare l’affetto e l’amore per i propri familiari. Credo siano questi sentimenti a distinguerci dagli animali. I migranti vi hanno riferito se nelle ore precedenti al naufragio hanno incrociato o visto da lontano altri mezzi navali? No, ma questo non fa parte della tipologia di intervento che realizziamo e si concentra nelle prime 48 ore. In questa fase le persone sono concentrate sul trauma. Simili dettagli, eventualmente, verranno fuori nelle prossime settimane quando i sopravvissuti inizieranno a interiorizzare l’accaduto e ricomporre il puzzle. In quel momento potrebbero ricordare nuove informazioni. Le prime richieste verso di noi sono state semplicemente di chiamare i conoscenti nel paese d’origine. In un articolo del Corriere della sera è riportata una testimonianza secondo cui gli scafisti avrebbero buttato in mare delle persone, forse addirittura venti, per alleggerire il mezzo. Vi risulta dalle voci che avete raccolto? No. Arrivati al centro questa mattina (ieri per chi legge, ndr) abbiamo appreso che circolava questa notizia ma le persone che abbiamo incontrato durante i colloqui non erano a conoscenza di questa informazione. Noi abbiamo parlato con le 60 che sono al Cara. Altre 22 si trovano in ospedale e le vedremo solo nei prossimi giorni. Magari da lì potrebbe emergere qualche nuovo dettaglio. Ma visto l’alto numero di sopravvissuti con cui abbiamo parlato non ritengo affidabile questa informazione. Migranti. Le morti silenziose al confine tra Polonia e Bielorussia di Alessandra Fabbretti Il Manifesto, 28 febbraio 2023 In Polonia, al confine con la Bielorussia, migranti africani e mediorientali continuano a morire. Risalgono al 16 febbraio le ultime 3 morti accertate: un etiope di circa 25 anni trovato nella foresta di Bia?owieza, poi un uomo e una donna senza documenti rinvenuti nel fiume Swis?ocz. La polizia ha aperto un’inchiesta ma per i volontari impegnati nei soccorsi dei migranti come Nina Zió?kowska di Podlasie Voluntary Humanitarian Rescue, la dinamica è chiara: “Anche se in difficoltà le persone non chiamano i soccorsi. Temono che la polizia le respingerà e allora, ci raccontano, in Bielorussia la polizia le picchierà e gli aizzerà contro i cani per costringerle verso le cosiddette ‘zone della morte’”, dove nessun volontario può arrivare. Dall’estate 2021 i decessi confermati ammontano a 39, ma i numeri riguardano solo la Polonia e secondo le ong sono sottodimensionati, avendo stimato diverse centinaia di “dispersi”. Quanto ai respingimenti, vietati dalla Convenzione di Ginevra e dal diritto europeo, la stessa polizia polacca ha confermato di aver “restituito alla linea di frontiera” oltre 50mila persone in un report citato a gennaio anche da Gazeta Wyborcza, tra i principali quotidiani polacchi. “Sicuramente alcune persone sono state contate più volte - chiarisce Zió?kowska - ma di certo in tanti continuano a cercare di entrare in Polonia, accettando un ping pong mortale”. A novembre la Polonia ha sigillato i 186 km di frontiera con la Bielorussia tramite una barriera di pali metallici lisci alta 5,5 metri, dove è in fase di completamento l’installazione di un sistema di telecamere e sensori di movimento sull’ultimo tratto di 25 km. Il sistema, per l’attuale governo di destra guidato dal primo ministro Mateusz Morawiecki “sta funzionando. Ovviamente, ci sono meno attraversamenti - chiarisce Zió?kowska - ma ciò non significa che siano finiti. Se prima registravamo uomini, donne, bambini e anziani, ora incontriamo per lo più giovani uomini. La sola differenza sta nel fatto che troviamo più persone con le ossa rotte: si feriscono cadendo dalla barriera”. Il 23 febbraio la polizia riferiva di aver prevenuto alla frontiera “1.047 tentativi illegali di attraversamento” e che l’ultimo gruppo era composto da 31 persone, di cui 16 di nazionalità afghana. Il giorno precedente gli afghani - che col ritorno dei talebani scappano per non subire violenze e ritorsioni- erano stati 26. Il 20 febbraio, di 97 stranieri intercettati, oltre agli afghani la polizia ha registrato iraniani, egiziani e iracheni. Coloro che vengono portati nei centri per migranti trascorrono mesi nel limbo della burocrazia, spesso anche esposti al rischio di essere rimpatriati, come è stato più volte denunciato dalle ong. Per gli Ucraini che arrivano da sud, invece, la protezione umanitaria temporanea scatta in pochi giorni. La risposta alle due crisi da parte di Varsavia e dell’Ue è stata infatti diametralmente opposta: dallo scoppio della guerra la Polonia è diventata il principale punto di ingresso per gli ucraini, con oltre 9 milioni di arrivi secondo l’Unhcr. Di questi, 1,5 milioni ha scelto di restare ottenendo la protezione temporanea europea. Il governo offre poi servizi per alloggio, lavoro, istruzione, tutela legale e sanitaria, anche grazie ai fondi ottenuti dalle istituzioni Ue. Un approccio, dice Zió?kowska, “più umano, che vorremmo vedere anche per i non europei, lasciati morire senza che nessuno li cerchi. Noi volontari siamo esausti eppure il governo ci incolpa, ma è assurdo: sapendo quanto è rischioso, non suggeriremmo mai ai migranti di attraversare questo confine”. Tunisia. Nemici in cella e guerra ai migranti. La deriva autoritaria di Saied di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 28 febbraio 2023 Il presidente Kais Saied fa arrestare i principali leader politici dell’opposizione E attribuisce agli immigrati subsahariani un complotto per la “sostituzione etnica”. La Tunisia colpita da una profonda crisi economico sociale sta sprofondando verso un regime autoritario incarnato dal presidente Kais Saied. Quest’ultimo ha spazzato via le speranze suscitate dalla rivoluzione del 2011 che, al pari di altre nazioni nordafricane, vedevano il paese avviarsi verso una strada democratica. Saied infatti ha sospeso il parlamento e licenziato il governo nel luglio 2021, in seguito si è mosso per prendere il controllo del sistema giudiziario e concentrare il potere nelle sue mani. Assumendo il controllo della magistratura Saied ha avuto campo libero per avviare una repressione contro tutta l’opposizione politica che si è frapposta alla riscrittura della Costituzione organizzando continue manifestazione che stanno raggiungendo l’apice nelle ultime due settimane. Più di una dozzina di persone, tra cui politici, giudici, avvocati e personaggi dei media, sono state arrestate. Dietro le sbarre sono finiti un importante leader aziendale con stretti legami in tutto lo spettro politico, un ex ministro delle finanze, un altro ex alto funzionario di Ennahdha (il partito di tendenza islamica), due magistrati e un ex diplomatico. Secondo gli avvocati l’accusa e la stessa per tutti: aver attaccato la sicurezza dello stato. Il caso più recente due giorni fa quando la polizia ha circondato la sua casa per trarre in prigione Ben Mbarek, un esperto di diritto costituzionale come Saied stesso. Mbarek aveva sostenuto il presidente nella sua candidatura elettorale del 2019, ma da allora è diventato uno dei suoi principali critici. In seguito si è unito insieme ad altre figure di spicco dell’opposizione alla FNST (Fronte di salvezza nazionale) L’organizzazione è caduta nelle maglie della repressione subendo una lunga sequela di arresti. Mercoledì sono finiti in galera Chaima Aissa, il leader del FNST e l’altra figura di spicco Issam Chebbi. Aissa ha guidato le proteste contro Saied ed è stata accusata ai sensi di una legge sulla criminalità informatica dopo aver criticato il presidente in un’intervista radiofonica. Chebbi invece, capo del Partito Repubblicano, è stato arrestato vicino a un centro commerciale con sua moglie mentre la polizia perquisiva la sua abitazione. Secondo Salsabil Chellali, direttore tunisino del gruppo di monitoraggio internazionale Human Rights Watch: “Il messaggio in questi arresti è che se osi parlare, il presidente può farti arrestare e denunciare pubblicamente mentre i suoi scagnozzi cercano di costruire un file contro di te basato su osservazioni che hai fatto o su chi hai incontrato”. Saied ha attribuito agli arrestati la responsabilità della carenza di cibo e carburante scaturita dalla crisi delle finanze pubbliche, per questo sta tentando di ottenere un prestito dal FMI, cosa che ha scatenato ulteriori proteste di piazza. Ma il presidente sta giocando anche un’altra carta per trovare un capro espiatorio: i migranti africani. La Tunisia è un punto di partenza chiave per i rifugiati che cercano di raggiungere l’Europa su quella che per le Nazioni Unite e la rotta migratoria più mortale del mondo. Più di 21mila africani sub- sahariani vivono nel paese nord africano, compresi quelli con visti per studenti e altre residenze legali. Molti sono impiegati nell’economia informale segnata dallo sfruttamento. In una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale martedì scorso Saied ha affermato che orde di migranti stanno causando crimini e rappresentano una minaccia demografica per la Tunisia invocando misure urgenti. Sabato centinaia di persone sono scese in strada al grido di Abbasso il fascismo. Alla manifestazione hanno preso parte artisti, attivisti per i diritti umani e membri di gruppi della società civile. Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti sociali ed economici, ha poi confermato che a seguito delle affermazioni del presidente il numero di aggressioni razziste contro gli africani è aumentato con tentativi di cacciarli dalle loro case. Congo. Nel carcere di Kinshasa, l’inferno ordinario di Fabrizio Floris Il Manifesto, 28 febbraio 2023 Tra i dimenticati della prigione centrale della capitale congolese, dove se non hai i soldi sei condannato ai più degradanti abusi fisici e giuridici. La lotta per la sopravvivenza dei detenuti “ordinaires”. Makala è la prigione centrale di Kinshasa, Repubblica democratica del Congo. Fondata nel 1957 per accogliere 1.500 detenuti ne ospita, al momento, 10.500. Su una superficie di circa 13 ettari vengono ospitati sia i detenuti in custodia cautelare che quelli condannati in via definitiva, siano essi adulti o minori. In tutto sono undici padiglioni (9 per uomini adulti, uno per i minori e uno per le donne - attualmente 300, con 30 bambini, in uno spazio che potrebbe ospitare poco più di 100 persone). “Non tutti vivono a Makala allo stesso modo” spiega la persona che ha facilitato questa visita e che chiameremo R.M. per proteggere la sua incolumità. “Tutto dipende dalle tue possibilità economiche - prosegue. Ci sono capannoni con centinaia di persone accatastate a terra su delle piccole stuoie, alcuni sono così rannicchiati che non riescono più a muovere le gambe e ormai non escono neanche quando c’è - ogni tanto - l’ora d’aria. Vi sono tuttavia anche stanze singole, con tv, materasso, cibo di qualità, telefono…”. A Makala c’è una gerarchia detentiva ben precisa. “Qui c’è stato per un giorno anche un famoso deputato - prosegue la nostra guida - condannato a vent’anni per corruzione che aveva così tanti soldi che è arrivato ed è praticamente subito uscito. Se ne sono accorti per primi i detenuti, da quella cella non arrivava nessun rumore, nessun cenno di vita, nessuno che entrava e usciva, ma il direttore diceva che il detenuto era dentro. Poi abbiamo scoperto che si trovava in Sudafrica: dopo pochi mesi è tornato e oggi è pronto a ricandidarsi”. Il riferimento è con ogni probabilità a Vital Kamerhe, membro dell’Unione per la nazione congolese (Unc) ed ex braccio destro del presidente Felix Tshisekedi: condannato nel 2020, ha avuto la pena ridotta in appello e la libertà provvisoria nel 2021, per poi essere prosciolto nel giugno scorso. Ma a parte queste eccezioni il carcere è sempre al di sopra della sua capienza perché la giustizia è lentissima, le pratiche non vengono esaminate per anni, soprattutto quelle dei detenuti meno abbienti, quindi succede che una persona condannata ad esempio a 6 mesi di carcere, sta dentro 30 mesi, poi non esce lo stesso perché non ha i soldi per mandare avanti la pratica (anche se hai vinto la causa, ti vengono addebitati non meno di 2.000 dollari per farti uscire di prigione), i famigliari a volte pensano che è morto, soprattutto per chi viene da dove ci possono volere settimane di viaggio per raggiungere la capitale. Nella maggioranza dei casi i residenti di Makala sono detenuti ordinaires: persone che non hanno una famiglia in grado di mantenerli, che non possono pagare la retta di ingresso (25 dollari), né la quota di collecte per le spese settimanali (1,5 dollari). Sono, pertanto, sottoposti alle fatiche più umilianti e faticose, come pulire le fosse settiche a mani nude. Questi detenuti sopravvivono solo grazie alla piccola razione di cibo concessa dall’amministrazione penitenziaria e, a volte, con quello che riescono a passare le associazioni di volontariato. Non mancano i casi di malnutrizione. Escono raramente in cortile e dormono ammassati nelle camere, nei corridoi, nelle docce, nei bagni. Gli effetti di questo trattamento sono evidenti sulla salute dei detenuti: l’assistenza sanitaria è lenta e di bassa qualità, il personale medico è poco motivato a fornire cure ai pazienti che non sono in grado di pagare toli ya kopesa (la mancia). C’e un settore apposito per i malati, “tutti gli ammalati senza distinzione di patologie - spiega R. M. -, per cui è facile che le malattie vengano trasmesse. Ci sono persone affette da aids, tbc, piaghe infette, infezioni intestinali… Uno entra per curare una piaga, si prende la tubercolosi e muore. Penuria di acqua - poca e sporca - e mancanza d’igiene sono le prime cause di propagazione di malattie e di morte”. I detenuti “ordinari” riescono a cavarsela se trovano detenuti più abbienti per cui lavorare: fare pulizie, cucinare, lavare i piatti. I detenuti vip hanno a disposizione una camera singola in padiglioni riservati a cui si accede pagando tra i 100 e i 300 dollari. Hanno telefoni cellulari e sono esentati da ogni tipo di mansione, se necessario possono essere trasferiti in ospedali di lusso senza difficoltà. Da ultimo è importante notare che i trattamenti diversi arrivano fino a quelli che vengono chiamati detenuti “speciali”, che affiancano o addirittura soppiantano l’amministrazione penitenziaria. Sono i detenuti-governatori, responsabili dei vari padiglioni. E c’è anche un governatore generale. Si tratta di un’organizzazione parallela e fortemente gerarchica, vengono nominati dalla direzione del carcere sulla base di vari criteri mutevoli. Il loro compito è sopperire all’assenza del personale penitenziario addetto al controllo e al mantenimento dell’ordine all’interno del carcere. Sono autorizzati a infliggere punizioni ai prigionieri recalcitranti (reclusione nei sotterranei, lavori domestici ecc.) e a perquisire i visitatori. In cambio godono di una serie di privilegi: riscuotono gli “affitti” e le altre “collette” pagate dai loro compagni di reclusione. Vivono in stanze migliori, non affollate, dispongono di telefoni e hanno accesso a cibo di migliore qualità. Il carcere non ha un sistema di controllo elettronico, quindi entrano regolarmente alcol, stupefacenti, telefoni. Dai dati risulta che nel carcere di Makala ci sono più detenuti in custodia cautelare che condannati. Con l’arrivo di papa Francesco, all’inizio dello scorso febbraio, i volontari che lavorano nel carcere hanno presentato al pontefice una lista di 600 detenuti la cui pena è già scaduta e che dovrebbero solo essere scarcerati. L’ordinamento penitenziario in teoria prevede che, ogni mese, un magistrato visiti le carceri per accertarsi che nessun detenuto vi sia “trattenuto oltre il tempo necessario per essere condotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente”. Ma spesso anche chi avrebbe diritto alla libertà condizionale non ne usufruisce e resta in carcere. Confinato in un angolo del cortile c’è un gruppo di 30 donne (con quattro bambini) arrivate da pochi giorni dalla prigione di Beni, nel Kivu. Le hanno portate a Kinshasa con un aereo dell’Onu. Sono tutte sotto shock, spaventate e si vede che “la loro testa non funziona più bene - racconta un volontario -. hanno vissuto 6 anni nelle mani dei miliziani dell’M23 nella foresta, poi sono finite in prigione”. Solo 3 sono congolesi le altre 27 sono vengono da Kenya, Uganda, Burundi, Ruanda, Tanzania, sono state catturate nei loro villaggi e poi portate al seguito dei miliziani. Nei loro volti non c’è nessuna espressione, il viso è impietrito e gli occhi sbarrati. Una è completamente assente, ha un bimbo di 3 anni, ma non sa che è suo, non se ne cura; un’altra ha un bimbo di 4 anni gravemente denutrito. “L’altro giorno ho sentito delle urla più forti del solito, mi sono precipitata - racconta Louise - e ho visto quattro uomini forti che hanno tirato fuori Marie perché dava fastidio, gridava, si lamentava e alle guardie non andava bene perché lì vicino c’era la sala delle visite. Così l’hanno presa per legarla ai ferri delle sbarre, ma lei lottava quindi l’hanno gettata a terra, legata in maniera orribile… È rimasta nuda. Le altre donne gridavano e piangevano. Alla fine hanno smesso di picchiarla lasciandola a terra mezza morta. Sono andata nell’ufficio del direttore gridando tutta la mia rabbia, poi ho pianto per tutta la sofferenza di questa parte di umanità, per queste donne confinate alle periferie dell’esistenza”. Makala è un micro-cosmo che riflette molti dai mali della società congolese e in questo caso se vuoi fare qualcosa dentro devi partire da fuori.