Gli oltre 700 detenuti al 41 bis non sono tutti boss ai vertici delle organizzazioni criminali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2023 Sono 728, 12 donne: oltre il doppio rispetto al periodo delle stragi. Alcuni sono in custodia cautelare. Nel 2022 35 sono usciti dalla misura, per fine pena o declassificazione. Sulla carta, il 41 bis è una misura detentiva che va applicata esclusivamente nei confronti dei detenuti che ricoprono figure apicali di organizzazioni mafiose o terroristiche. Lo scopo di tale carcerazione differenziata è quella di creare una barriera di impermeabilità rispetto alla presenza in carcere di queste figure che devono essere messe nell’impossibilità di mandare ordini all’esterno. Ma qualcosa non torna con il numero di persone attualmente raggiunte da questa misura eccezionale. Possibile che siano tutte figure apicali? Ad oggi abbiamo gli ultimi dati aggiornati al 31 ottobre del 2022 dalla recente relazione dell’anno giudiziario. Risulta che la conta generale dei ristretti presenti è di 728 soggetti sottoposti al regime del 41 bis, di cui 12 donne, 7 internati (persone che hanno finito di scontare la pena, ma vengono raggiunte da una misura di sicurezza e rimangono al 41 bis) ed 1 detenuto sottoposto alla disciplina dell’art. 6 della L. 45/2001 (quindi in via di ammissione al programma di protezione). Di questi 728 detenuti, 242 appartengono alla camorra, 195 alla ‘ndrangheta, 232 a Cosa nostra, 20 alla Sacra Corona Unita, 3 alla Stidda, 32 ad altre mafie e 4 appartengono al terrorismo interno o a quello internazionale. Inoltre emerge che l’età anagrafica media risulta in crescita e, allo stesso tempo, è cresciuto il numero dei ristretti di età pari o superiore a 60 anni. In particolare: l’età anagrafica media è di 58 anni (nel 2021 era 56 anni); i detenuti di età pari o superiore a 60 anni sono 340 (circa il 46.7 % del totale; nel 2021 erano 299, circa il 40%). Vediamo anche un altro dato significativo e utile per capire se effettivamente ci troviamo di fronte a oltre 700 boss, numero addirittura più alto rispetto ai periodi delle stragi mafiose. L’anno scorso, 16 nuovi detenuti sono stati raggiunti dal 41 bis. Altri 5 detenuti, dopo un periodo senza tale carcerazione, sono stati nuovamente riassociati. A ben 84 detenuti è stato prorogato il 41 bis. Solo 2 detenuti sono stati declassati per inizio collaborazione con la giustizia. Quattro detenuti, su accoglimento del tribunale di Sorveglianza, sono stati declassati nel regime di alta sicurezza, altri 5 invece per mancato rinnovo ministeriale. Ben 26 detenuti sono stati scarcerati per fine pena. E infine cinque detenuti sono morti al 41 bis. Questo dato fa capire che già nell’anno 2022, almeno 35 detenuti non ricoprivano ruoli apicali e non era necessaria tale misura. Nove declassati e 26 sono stati scarcerati perché condannati a una pena di qualche anno, e ciò significa che non erano sicuramente dei Totò Riina. Senza contare, ma non abbiamo i numeri aggiornati, che c’è una parte di detenuti al 41 bis che sono in custodia cautelare, quindi ancora non condannati definitivamente. Già questo fa porre la domanda: possibile che in Italia ci siano oltre 700 detenuti capi mafia? Il fatto che, come si evince dai dati, alcuni nel frattempo vengono declassati in Alta sicurezza, ciò fa sospettare che tanti di loro sono certamente appartenenti alle organizzazioni mafiose, ma non ricoprono figure apicali. L’Alta sicurezza (As) non è esattamente un “regime detentivo”, bensì un “circuito” regolato non dalla legge, ma da una serie di circolari dell’Amministrazione penitenziaria. Per essere considerati detenuti ad “alta pericolosità” rileva il solo reato commesso per cui si è condannati o accusati. Se è uno dei reati previsti nell’elenco dell’art 4 bis dell’Ordinamento penitenziario (non solo reato mafioso, ma un elenco sempre più lungo), si entra automaticamente in questo circuito. Tali circuiti, regolati dalla circolare dell’Amministrazione penitenziaria del 2009, sono suddivisi in tre livelli AS 1, 2 e 3. Quello che ci interessa è l’AS1, il quale è dedicato alle persone detenute nei cui confronti sia stato dichiarato inefficace il 41 bis, i “declassificati”, appunto. Ma arriviamo al punto, senza perdere di vista il circuito AS1. Il magistrato antimafia Alfonso Sabella - uno che ha arrestato i latitanti stragisti corleonesi, quindi poca retorica e discorsi dietrologici, ma molti fatti -, ha denunciato l’anomalia del numero dei detenuti al 41 bis: sono il doppio rispetto agli anni in cui venivano arrestati i boss delle stragi di mafia. Come mai? Ci viene in aiuto Il segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio: spiega che ciò è dovuto alla mancanza di adeguate garanzie nei circuiti ordinari, compresi quelli dell’alta sicurezza, per quanto riguarda l’interruzione dei collegamenti con l’esterno e i traffici interni alle carceri. Ha denunciato che i rinvenimenti di smartphone e telefoni cellulari non sono affatto rari anche nell’alta sicurezza. La politica, in merito al discorso carcerario, ha un approccio approssimativo, privandolo delle risorse necessarie per garantire la sicurezza, la risocializzazione e l’umanità. Attualmente, i penitenziari non assolvono a nessuna di queste funzioni, il che è in contrasto con l’articolo 27 della Carta costituzionale. Il risultato è che molto spesso, a causa di tale approssimazione, diversi detenuti che non ricoprono figure apicali della mafia, vengono comunque raggiunti dal 41 bis. La commissione parlamentare Antimafia è stata informata di queste questioni già nell’aprile 2021. Per ridurre il ricorso al regime del 41bis, è necessario ripristinare adeguati livelli di sicurezza nei circuiti ordinari, potenziare gli organici della Polizia penitenziaria e dotarli di strumentazioni ed equipaggiamenti efficaci, nonché implementare una nuova organizzazione complessiva che richiede riforme strutturali e urgenti. Per De Fazio è evidente che il sistema penitenziario ha bisogno di un profondo cambiamento, in grado di garantire condizioni di sicurezza e risocializzazione dei detenuti. Solo in questo modo sarà possibile ridurre il ricorso al regime speciale e garantire il rispetto della dignità umana dei detenuti. La politica, quindi, deve prendere sul serio questi problemi e lavorare insieme per trovare soluzioni efficaci. Il 41 bis, già misura molto discussa per via delle sue inutili afflizioni aggiuntive, deve almeno ritornare al suo scopo originario. Il carcere duro c’è ancora. Non c’è più la mafia che brindava all’Ucciardone di Alberto Cisterna Il Dubbio, 27 febbraio 2023 Tutto quel di positivo costruito dalle stragi del 1992 in poi, rischia di finire sepolto di un colpo dall’incapacità di adattarsi ai tempi, dalla cecità nel non voler prendere atto che quella Cosa Nostra di allora non c’è più. “Una storia semplice”, avrebbe titolato il maestro siciliano. In fondo è così. Ci sono i cattivi e i cattivissimi. I peggiori e i pessimi. Ogni sistema carcerario punta a classificare i detenuti in base ai reati che hanno commesso e alla pericolosità che da questi delitti si sprigiona. Uno dei momenti più importanti della vita di un detenuto è il periodo di osservazione iniziale, quando varcate le porte del carcere se ne soppesa la personalità, se ne rintracciano le eventuali pulsioni suicide, se ne censiscono le patologie per le cure sanitarie di cui necessita. Un face to face che dovrebbe essere sempre condotto con accuratezza, professionalità, una certa dose di precisione. In quel momento la persona detenuta riafferma la propria irripetibile individualità e dovrebbe vederla custodita dallo Stato che ne diviene il responsabile. Certo 84 suicidi nel solo 2022 sono un pugno nello stomaco; che dozzine di esseri umani abbiano preferito la morte al carcere è, o dovrebbe essere, un peso insopportabile per le istituzioni di una nazione civile. Quando si parla di delitti e di pene, invece che crogiolarsi nella stantia retorica della “Costituzione più bella del mondo” (in buona parte, ormai, la causa di molti mali del paese nel terzo millennio), bisognerebbe avere la forza di metterlo da parte quel testo scritto per una società post-bellica, contadina e semianalfabeta e prender in mano altro che illumini davvero le coscienze e aiuti a uscire dalla fanfara illuministica dei proclami, Per chi voglia davvero capire questo dramma basterebbe poco. Basterebbe, per esempio, leggere la circolare 8 agosto 2022 dell’Amministrazione penitenziaria, dal titolo impegnativo e rassicurante “Iniziative per un intervento continuo in materia di prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. Un testo illuminante che, con rara cura e premura, analizza, soppesa, scruta le cause del disagio carcerario e la spinta estrema all’anticonservazione; si scoprirebbe, così, con una certa dose di meraviglia che, tra gli “eventi sentinella” predittivi di un rischio esiziale vi sia “la prossima dimissione della persona che, in alcuni casi, viene vissuta come un passaggio di grave insicurezza di precarietà, di grave preoccupazione per il futuro”; il ritorno a casa, alla vita libera come una minaccia; la segregazione come nicchia e covo da cui non potersi separare. Basterebbe questo per chiedersi come sia compatibile con un modello penitenziario civile il regime di 41-bis che, invece, non personalizza il trattamento, non ha cura dell’essere umano in vincoli, ma guarda solo al reato, alle sue modalità, alle contestazioni giudiziarie e - in base a questo - assegna il detenuto alle carceri e ai reparti speciali. Un percorso penitenziario parallelo a quello penale con centinaia di soggetti che, tante volte, per tutta la loro vita in carcere (dal primo arresto all’espiazione della pena) restano a regime speciale, isolati in una bolla di restrizioni addirittura minuziosamente codificate e burocraticamente applicate. Pochi giorni or sono la pubblicistica specializzata ha dato conto di una sentenza della Cassazione (n. 4482 del 2023) in cui si discuteva della legittimità del provvedimento del magistrato di sorveglianza che “aveva autorizzato il detenuto alla visione di files trasposti su cd-rom ovvero su dvd riproducibili sul computer, esclusivamente per esigenze di studio e non già anche per la visione di dvd musicali” (testuale). In questo caso il detenuto “lamentava la mancata consegna di un dvd musicale dal titolo “Vasco Tracks 2” acquistato presso il carcere e riproducibile sul computer portatile” (idem). Sia chiaro, la sentenza è ineccepibile, pondera le norme, tiene conto delle finalità del regime speciale e delle specifiche ragioni riguardanti il detenuto mafioso in questione; quindi, in un paese avviluppato per settimane dal Festival di Sanremo, riconosce che chi è al 41-bis possa ascoltare brani musicali ma che “la modalità “video” non attiene ad un diritto soggettivo, ma piuttosto ad una specifica forma di fruizione della musica il cui diniego non comporta alcun grave pregiudizio al detenuto trattandosi di un mero interesse del detenuto” (idem). Sui muri della facoltà di Lettere di Roma nel 1977, in piene rivolte studentesche, apparve un anatema rimasto celebre “La fantasia distruggerà il potere ed una risata vi seppellirà”; esiste anche una fantasia autodistruttiva che è quella di un legislatore occhiuto, micragnoso, esasperante, che prova angoscia per il vuoto di regole, teme la valutazione libera dei giudici, vuole svuotare l’autorità penitenziaria della sua irrinunciabile discrezionalità e copre ogni interstizio per distinguere tra dvd audio (ammessi) e dvd video (vietati). C’è poco da aggiungere, a parte la curiosità di verificare quali tracce vi fossero nel pericoloso, inguardabile dvd di Vasco Rossi? Alcuni di queste forse avrebbero potuto far bene a chi vive all’ergastolo per essersi macchiato di delitti orrendi: “Io perderò”, “Nessun pericolo... per te”, “La noia”, “Amico fragile” e, poi, “Sally”. Nulla da ridere, in effetti, ma tutto quel di positivo e di necessario si è costruito in questi duri decenni, dalle stragi del 1992 in poi, rischia di finire sepolto di un colpo dall’incapacità di adattarsi ai tempi, dalla cecità nel non voler prendere atto che quella mafia che brindava all’Ucciardone è stata cancellata dalla storia, che i suoi epigoni hanno consumato e stanno consumando le proprie esistenze in carcere. Mentre i nuovi padroni del malaffare circolano indisturbati nelle stanze di un potere privo di coraggio e, quindi, di fantasia che si balocca nella retorica delle commemorazioni e delle celebrazioni. Vi spiego io come si “vive” nell’inferno del 41 bis di Carmelo Musumeci Il Dubbio, 27 febbraio 2023 A causa di una guerra fra bande rivali, per il predominio di attività illecite sul territorio versiliese, sono stato condannato all’ergastolo e nel 1992 sottoposto al carcere duro del 41 bis, deportato in Sardegna, nell’Isola dell’Asinara. Ero arrivato all’isola con l’elicottero. Appena sceso, mi presero in consegna le guardie. Mi scaraventarono in una gabbia allestita provvisoriamente al centro del campo sportivo, davanti alla famigerata sezione “Fornelli”. Tre elicotteri volavano di continuo, facendo la spola da Porto Torres all’Asinara, per portare i detenuti nell’isola. Gli elicotteri finirono di scaricare carne umana soltanto verso sera. La gabbia era ormai piena all’inverosimile. Eravamo schiacciati come sardine. Ad un tratto le guardie si schierarono a destra e a sinistra, formando un corridoio che portava dritto dentro il carcere. Tra le mani brandivano scudi in plexiglass e manganelli. Mi guardai intorno. Ero già esperto di carcere. Immaginai subito cosa sarebbe successo. Ai prigionieri accanto a me sussurrai: “Appena aprono il cancello, correte più veloci che potete e, qualsiasi cosa accada, non fermatevi fin quando non vi trovate chiusi in una cella!”. La maggioranza di loro era formata da detenuti mafiosi alla loro prima esperienza carceraria. Non erano delinquenti abituati fin da giovanissimi all’esperienza dei riformatori e delle carceri minorili come me. In seguito capii che i prigionieri mafiosi erano forti fuori, ma deboli dentro al carcere. In galera subiscono e non si ribellano quasi mai. Accanto a me, c’era un giovanotto grande e grosso, con l’aria sveglia. Ci osservammo e ci capimmo al volo. “Come ti chiami?”. “Tiziano… so’ de Roma”. Tiziano era alto e robusto, asciutto e tonico. Dava l’impressione di essere uno scaricatore di porto. Aveva i capelli corti, un testone da cinghiale e due occhi neri. Con un lieve cenno del capo, gli indicai i detenuti che avevamo intorno. “Questi non ci saranno d’aiuto... non sono delinquenti, ma borghesi mafiosi, buoni per farci la birra. Quando usciamo dalla gabbia, stiamo vicini per coprirci entrambi. Io mi chiamo Carmelo”. Il ragazzone si gonfiò il petto. “Stai tranquillo, non è la prima volta che mi trovo coinvolto in un pestaggio”. A un tratto aprirono il cancello. Lanciai un’occhiata al percorso che dovevamo fare. E pensai che sarebbe stato molto difficile non prendere qualche manganellata in testa. I detenuti iniziarono a uscire. I loro sguardi erano terrorizzati, mentre le guardie erano gongolanti. I primi a uscire furono bersagliati di manganellate. Io e Tiziano ci demmo un’occhiata d’intesa e scattammo insieme. Corremmo come forsennati. Scavalcammo anche i nostri compagni che erano già crollati a terra. Chi cadeva era perduto. Veniva preso a calci e a pugni. Alcuni detenuti rimasero paralizzati dalla paura e preferirono restare dentro la gabbia. Sapevo che questi avrebbero preso più botte di tutti gli altri, scatenando ancor di più l’ira delle guardie. Io correvo piegato in due, con le braccia alzate per cercare di ripararmi dai colpi di manganello. Cercavo di proteggermi la testa, ma i colpi arrivavano proprio lì. Ad un tratto sentii una botta secca in testa, accompagnata da una tremenda fitta di dolore. Proprio mentre stavo per cadere, mi sentii afferrare per il collo della maglietta. Era Tiziano che mi trascinava con sé. Arrivammo finalmente nel corridoio della sezione. Le celle erano già aperte. Man mano che le celle si riempivano, le guardie chiudevano il cancello e sbattevano il blindato. Al volo mi infilai nella prima che vidi vuota. Ero talmente arrabbiato e dolorante che tremavo. Mi guardai intorno. L’aria sapeva di chiuso e di muffa. Mi accorsi che più che in una cella mi trovavo in un pozzo nero. Una vera e propria tomba. Le celle dell’Assassino dei Sogni (come chiamo io il carcere) dell’Asinara erano allocate nella parte meno illuminata della prigione. Mancavano l’aria e la luce. Dalla finestra della cella si poteva vedere solo una fetta di cielo, nella parte più alta. C’era una doppia fila di sbarre. Per completare l’opera, anche una fitta rete metallica. Tentai di non perdermi d’animo. Avevo un dolore al capo che era insopportabile. Mi accorsi che ero ferito alla testa e avevo la maglietta imbrattata di sangue. Strinsi i denti. Cercai con gli occhi il lavandino. Era vicino al gabinetto. Aprii il rubinetto. L’acqua scendeva marrone. Mi avevano avvisato che non era potabile, ma non mi avevano detto che fosse così sporca. Lavai la ferita. Attraverso un pezzo di vetro murato sopra il lavandino, vidi che avevo una profonda ferita in testa e che sanguinavo anche da un sopracciglio. Pensai che avrei avuto bisogno di qualche punto in testa, ma decisi che non era il caso di chiamare nessuno. L’indomani alle otto in punto, una guardia passò per prendere i nomi di chi voleva andare al passeggio. Quando aprirono il blindato, vidi davanti a me quattro guardie con il manganello in mano. Il battito del mio cuore accelerò. Ad un tratto una guardia mi urlò: “Mafioso di merda, girati e metti le mani appoggiate al muro. Mi venne voglia di rispondergli a tono, ma sarebbe stato un suicidio. Mi avviai in fondo al corridoio”. Dopo pochi passi, mi fecero entrare in un cortile, una vera e propria gabbia di cemento armato, coperta da una rete metallica a maglie strette che assorbiva la luce del cielo. Davanti a me trovai una decina di detenuti dall’aspetto spaventato, che mi fissavano. M’informai se avevano intenzione di ribellarsi, ma mi accorsi subito che era una discussione con i sordi. Pensai subito che sarebbe stata la loro fine. Non mi sbagliai. Nel giro di poche settimane, i detenuti si sottomisero a qualsiasi angheria. E per le guardie divennero come dei giocattoli. Li torturavano, li annientavano e li umiliavano, ma loro non reagivano. Alle guardie non erano mai capitati dei detenuti così docili e ne approfittavano senza alcuna remora. Molti di loro, piuttosto di reagire, decisero di diventare “pentiti”. Anche mafiosi di un certo “spessore” arrivavano nell’isola e, dopo pochi giorni di quel trattamento, andavano via come collaboratori di giustizia. A distanza di qualche settimana dall’arrivo in quella dannata isola, mentre ero in doccia, subii un pesante pestaggio, perché c’ero stato più dei cinque minuti consentiti. E mi scaraventarono nella liscia. L’indomani mi svegliai con un mal di testa tremendo. Mi passai la mano tra i capelli e trovai ferite e grumi di sangue dappertutto. Sentii la fronte zuppa di sangue e sprofondai nell’angoscia e nella tristezza. Mi misi faticosamente in piedi. Sentivo il sapore del mio sangue in gola. Cercai a tastoni l’interruttore della luce. Si accese una fioca lampadina sul soffitto. Strizzai gli occhi per abituarli alla luce ed ebbi la forza di guardarmi intorno. Un grosso topo strofinava il muso nel sangue che avevo sputato. Provai a dargli un calcio, ma il topo fu più veloce di me e scappò da un buco della rete della finestra. Sferrai diversi pugni sulle pareti, fin quando non mi sanguinarono anche le mani. Nessuno mi rispose. Ero solo, disperato e isolato. La stanza era vuota, c’era solo una branda inchiodata al pavimento. Non c’era materasso, né lenzuola o coperte, non c’era nulla. Avevo una sete terribile. Mi rassegnai a sopportare il dolore e mi addormentai. Alla sera aprii gli occhi, cercai d’istinto di alzarmi, ma vi rinunciai. Sentivo dolore dappertutto. Non avevo avuto neppure la forza di sdraiarmi sulla branda. Mi ero addormentato per terra come un cane. Pensai che mi avrebbero potuto mordere i topi e provai un brivido di paura. Poi, però, pensai che era sciocco avere paura dei topi. C’era da avere più paura delle guardie. Sentivo tutte le ossa rotte. Sudavo freddo. Cercai di mettere ordine in testa, ma non ne fui capace. Non riuscivo a pensare. Avevo la gola secca. E avrei dato qualsiasi cosa per un bicchiere d’acqua. A un tratto sentii alcuni rumori provenire dal corridoio. Avvertii un senso di paura, riflettei se valesse la pena alzarsi. Alla fine decisi di no. Se le guardie mi volevano di nuovo picchiare, non avrei potuto opporre alcuna resistenza. Sentii girare le chiavi nella serratura del blindato. Entrarono quattro guardie e un medico con il camice bianco. Gli sbirri mi guardarono con occhi indifferenti. Il dottore mi fece sdraiare sulla branda. Vidi lo sguardo di un macellaio quando affetta la carne. Aveva i capelli bianchi, barba da capra e occhi da volpe. “Come ti senti?”. Sospirai. Poi sorrisi di disperazione. Deglutii, ma non avevo più saliva. Avevo una maledetta sete. E la bocca sapeva di sabbia. “Bene! Non mi sono mai sentito così in forma”. Il medico sogghignò. “Bravo!” Poi pensieroso aggiunse: “Sei intelligente… forse te la cavi”. Si rivolse alle guardie: “Fategli firmare un verbale che ha fatto a botte con gli altri detenuti al passeggio”. Poi mi batté la mano sulla spalla e continuò: “Dategli il materasso, lenzuola, coperte, la sua roba personale e una bottiglia d’acqua che ha le labbra riarse dalla sete”. Vidi il medico schiacciare l’occhiolino alle guardie. “Dategli pure qualcosa da mangiare e portatemelo in infermeria che gli devo dare dei punti in testa”. Il medico uscì dalla cella. Subito dopo le guardie mi misero davanti alla faccia il verbale con una penna. I loro occhi erano gelidi. Capii che se non avessi firmato quel foglio, sarei morto. Lo lessi. C’era scritto che avevo aggredito dei detenuti al passeggio e che le guardie erano dovute intervenire per riportare l’ordine. Pensai: “Figli di puttana!”. Il mio cuore non voleva firmare ma la sete e i dolori del mio corpo mi spingevano a farlo. Provai a scrivere il mio nome, ma la penna non aveva intenzione di funzionare. Il mio cuore mi fece notare che neppure la penna voleva che firmassi. Intanto mi colarono un paio di gocce di sangue dal naso, che asciugai con la manica della maglietta. Mi diedero un’altra penna. Rimasi un attimo indeciso. Il mio cuore continuò a opporre resistenza, mentre la mia mano firmava la dichiarazione. Le guardie sorrisero soddisfatte. Mi diedero subito una bottiglia d’acqua. Ne bevvi subito una buona metà, l’altra la lasciai per la sera. Mi portarono in infermeria e mi misero cinque punti da una parte della testa e sette dall’altra. Mi fecero una puntura contro il dolore e mi diedero un paio di aspirine. Quando tornai in cella, trovai la mia roba, una pagnotta di pane, delle mele e del formaggio. Una delle guardie, con i baffi folti, prima di chiudermi il blindato mi gridò: “Rimarrai in isolamento totale per sei mesi. Avevo le lacrime agli occhi, ma le ricacciai indietro. In quel momento pensai che ero stato un vigliacco a firmare quella dichiarazione. E per punizione non mi sarei dato il permesso di piangere”. Erano trascorsi un paio di mesi ed ero ancora nella cella di punizione, in isolamento totale. Non mi era consentito vedere, né parlare con nessuno. La mia cella sembrava una scatola di sardine. Un fazzoletto di cemento, con una branda piantata al pavimento. A malapena riuscivo a stare in piedi, e potevo fare solo qualche passo avanti e indietro. Probabilmente, vivendo il quel modo, un animale sarebbe morto. Una notte, era l’ultima dell’anno, era passata la mezzanotte e le guardie stavano festeggiando rumorosamente il Capodanno. Le guardie erano ubriache. Davano calci ai blindati e urlavano invettive contro i detenuti. Intuii che presto sarebbero venuti a divertirsi anche da me. Sentii l’odore della paura. Arrivarono e aprirono la cella. Entrarono. Ridevano e barcollavano, sotto l’effetto dell’alcool. Imprecai contro di loro. Iniziarono a colpirmi, prima con i pugni e, una volta finito a terra, continuarono con i calci. Per ripararmi, mi trascinai sotto la branda. Per fortuna lì sotto le guardie facevano più fatica a colpirmi. E se ne andarono presto, a divertirsi con qualche altro detenuto. Ricordare quei momenti mi provoca una profonda rabbia, è difficile ripensare a quei giorni senza provare di nuovo l’angoscia di allora, temevo che la capacità di reagire del mio fisico non fosse pari alla mia volontà. Delmastro: Cospito in condizioni gravi? “Messina Denaro sta peggio” di Annalisa Cretella agi.it, 27 febbraio 2023 Il Sottosegretario: “Il 41 bis non crollerà con il governo Meloni, sarebbe un film di fantascienza”. “Credo che le condizioni di Matteo Messina Denaro siano peggiori di quelle di Cospito e non volute”. Così il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro, commenta con l’AGI, al termine di una lunga visita nel carcere di Pavia, il caso dell’anarchico Andrea Cospito, detenuto al 41 bis, in sciopero della fame da oltre 4 mesi. Il medico che lo ha visitato ha parlato di condizioni gravissime. Ma questo, per l’esponente di Fratelli d’Italia non è sufficiente per cambiare il regime di detenzione: “Se il motivo per cui si dovesse revocare il 41 bis fossero le condizioni di salute ne revocheremmo troppi”. “È evidente che Cospito era colui che finché non era al 41 bis scriveva agli anarchici che il salto di qualità doveva essere dall’aggressione alle strutture dello Stato alle persone dello Stato. Uno - prosegue - che dice dal carcere che bisogna ammazzare i carabinieri, deve rimanere al 41 bis e se poi fa lo sciopero della fame pazienza”. Per Delmastro “Il 41 bis non c’entra con il fatto umanitario”, cioè che il detenuto stia facendo lo sciopero della fame, “ma se centrasse sarebbe anche peggio, perché Matteo Messina Denaro non ha scelto di avere il tumore. Ce l’ha. Cospito invece ha scelto di fare lo sciopero della fame. Sono due cose completamente diverse. Per questo che c’è un grande interesse della criminalità organizzata alla sua battaglia, perché se fosse crollato il 41 bis su Cospito, sarebbe crollato con la criminalità organizzata”. La Cassazione che il 25 febbraio ha respinto il ricorso della difesa di Cospito, contro la decisione del tribunale di sorveglianza di Roma, “ha confermato quello che noi avevamo detto fin da subito - prosegue il sottosegretario -, non ci sono i presupposti per revocare il 41 bis. Uno che dice ‘dovete fare un salto di qualità e non aggredire le strutture ma aggredire le persone, cioè tirare uno schioppo a uno’, devo ancora pensare che ci siano dei problemi sul fatto che stia 41 bis? Io no”. “Pensate che doveva arrivare il governo Meloni a far crollare uno strumento nato dal sangue di Falcone e Borsellino per contrastare la criminalità organizzata? È un film di fantascienza”. Cospito e la doppia violenza del ministro Nordio di Grazia Zuffa volerelaluna.it, 27 febbraio 2023 Il “caso Cospito” è oggetto di un quesito che il ministro della Giustizia ha posto al Comitato Nazionale di Bioetica. Questo concerne l’applicazione della l. 219/2017 nel caso di persone in detenzione. Come si sa, la legge n. 219/2017 regola, anche con disposizioni anticipate di trattamento DAT, la rinuncia della persona ai trattamenti sanitari, anche salvavita, ivi compresi nutrizione e idratazione artificiale (comma 5 della legge). La richiesta di parere già predispone una tesi. In sostanza il detenuto in sciopero della fame non potrebbe avvalersi della legge 219, in primis perché la rinuncia al trattamento salvavita sarebbe “subordinata al conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica”, il che renderebbe “non-libera” la rinuncia stessa. Da qui la domanda se “in regime di detenzione” si possano individuare “limiti o peculiarità” dal punto di vista etico nell’applicazione della legge 219. A partire da questo assunto (dei supposti “limiti” nel consenso ai trattamenti quando si tratti di detenute e detenuti), il ministro articola altri quesiti, basati su uno specifico inquadramento dello sciopero della fame in caso di persone in detenzione che prefigura le possibili conseguenti risposte dell’istituzione carceraria. E infatti la rinuncia a trattamenti sanitari “in condizioni di limitazione della libertà personale” è definita “una condotta auto aggressiva” per rivendicare i diritti, piuttosto che “una scelta consapevole nell’esercizio della propria libertà di cura”. Alle condizioni così definite, è “eticamente accettabile” che le istituzioni cui la persona è affidata “consentano a chi mette in atto il comportamento di lasciarsi morire”? Infine, l’ultimo sotto quesito interroga su possibili “limiti dal punto di vista etico” all’”aiuto al suicidio” (“come depenalizzato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019”). Il documento del ministro sottolinea più volte la dimensione etica della questione su cui il CNB è chiamato a rispondere, ciò non toglie però che i tre aspetti, politico/giuridico/etico siano strettamente intrecciati. Bisogna distinguerli, ma se non si chiarisce lo scenario e si disconosce il significato (politico) del gesto di Cospito, si corre il rischio di porre le domande sbagliate, proprio dal punto di vista etico. Perché di Alfredo Cospito si tratta, anche se il quesito non lo nomina mai, per aggirare il regolamento del CNB che di regola esclude pareri su casi singoli. La prima questione è inquadrare correttamente il comportamento di Cospito. Quel detenuto non vuole morire, dunque l’accenno all’aiuto al suicidio non c’entra affatto. Cospito sta facendo una battaglia politica seguendo la consolidata pratica non violenta dello sciopero della fame: affinché tutto il suo corpo testimoni dell’importanza della sua causa, per essere ascoltato, perché l’istituzione faccia un gesto di riconoscimento di lui come persona, in primo luogo. Ed è importante avere presente la condizione di chi si trova nel regime di 41 bis, in condizioni ai limiti dei “trattamenti inumani e degradanti”; mentre in generale nelle carceri italiane le persone vivono in condizioni sempre più precarie e difficili, al punto che sempre più detenuti decidono di togliersi la vita. La nota del ministro chiama in causa la responsabilità delle istituzioni nei confronti della salute e della vita dei detenuti, per suggerire l’opportunità di un trattamento forzato di alimentazione. Mi chiedo: è eticamente ammissibile chiamare in causa la responsabilità istituzionale, non per sostenere i diritti dei detenuti e migliorare le loro - spesso insostenibili - condizioni di vita, ma per limitare diritti, come quello del consenso ai trattamenti? Se è vero che è eticamente (oltre che giuridicamente) inammissibile ipotizzare un intervento sanitario coatto sul corpo di una persona libera, non è ancora di più eticamente discutibile - per non dire respingente - pensare di intervenire con la forza sul corpo imprigionato? La posizione della Conferenza dei garanti territoriali rimette “al giusto posto” le responsabilità, chiarendo che “lo Stato è responsabile delle condizioni di vita e di salute di Cospito, non certo della sua volontà di condurre lo sciopero della fame fino alle sue estreme conseguenze, che però non può essere coartata o negata”. L’accenno al rispetto della volontà è importante. Se il corpo è imprigionato, la libertà morale del detenuto è bene ancora più prezioso. Allo stesso modo, riconoscere il valore politico dello sciopero della fame di un detenuto, così come lo si riconosce a una persona libera, è atto eticamente significativo, perché restituisce dignità alla persona. Alla persona cui è stata sottratta la libertà, atto “di per sé così grave, così incisivo” per usare le parole di Aldo Moro: per questa persona, il fatto di non essere privato di diritti altri da quello della libertà di movimento è tanto più “prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (così recita a proposito la sentenza della Corte Costituzionale n. 349/1993). Al contrario, il ministro tende a squalificare la protesta di Cospito: è una violenza il suo sciopero della fame, ha dichiarato a Repubblica (11 febbraio). Sulla stessa linea, nella sua nota al CNB, la rinuncia ai trattamenti è definita “condotta autoaggressiva”, “per modificare una situazione personale”. Insomma, una pratica di disobbedienza civile, storicamente esercitata e riconosciuta come non violenta, in condizioni di detenzione muta per il ministro completamente di significato, e viene presentata come una minaccia all’istituzione: e infatti, in altre dichiarazioni alla stampa lo sciopero di Cospito è bollato come “ricatto allo Stato” (bloccando di fatto ogni possibile iniziativa di dialogo e ricerca di soluzione, come ha scritto Franco Corleone sul L’Espresso il 12 febbraio scorso). Vale la pena sottolineare ancora il rovesciamento di rappresentazione della pratica non violenta dello sciopero della fame quando è protagonista un detenuto: poiché proprio questa (supposta) violenza richiama (e giustifica) l’istituzione a “difendersi” ricorrendo a interventi coatti. In questa ottica, appare evidente il carattere punitivo dell’ipotizzato intervento forzato, squarciando il velo dell’afflato solidaristico per la salvezza del detenuto. L’alimentazione forzata assume il significato di “salvare il corpo” negando però “l’anima”, ovvero il valore della protesta del detenuto, con un ribaltamento di responsabilità: se mettere a rischio della vita è un’aggressione all’istituzione, la responsabilità dell’intervento forzato è tutta a carico del detenuto. E poiché l’intera vicenda è oscurata nel suo significato di protesta e con essa l’insieme delle “responsabilità” circa le condizioni di Cospito, l’intervento forzato può essere presentato come l’unica “via di salvezza” per il detenuto (invece che la dimostrazione della “irresponsabilità” a monte dell’istituzione, com’è in realtà). Dunque, la prima mossa è di accantonare, almeno per il momento, i quesiti sui “limiti” per il detenuto della legge sul consenso ai trattamenti, per ragionare su ciò che si poteva fare e si può fare prima di quella vita a rischio. Le carceri italiane hanno visto anni di dure proteste, anche violente, a cavallo degli anni ‘70 e ‘80. Ci sono anche stati scioperi della fame. Se non si è mai arrivati a casi estremi è perché perlopiù le istituzioni hanno scelto la via dell’ascolto, del dialogo alla ricerca di soluzioni possibili. Non solo ministri e responsabili politici sono andati nelle carceri a parlare, riconoscendo con ciò che di proteste e di lotte si trattava e non di tumulti e ricatti. Lo hanno fatto anche magistrati, in testa Alessandro Margara, perfino in situazioni così esasperate da far temere per la propria incolumità. Proprio questo riconoscimento è mancato e manca nel caso Cospito. Tutto ciò è bene documentato nella rappresentazione della vicenda che si evince dai quesiti “etici” del ministro, come si è visto. Certo, il magistrato di sorveglianza Alessandro Margara che va nelle carceri infiammate dalla protesta è espressione di un clima e di una scelta politica. Ma anche di una scelta etica, di chi non dimentica di avere di fronte una persona in stato di privazione della libertà: “quell’atto così grave e così incisivo” (vale la pena ripeterle ancora le parole di Moro) perché la libertà è un carattere essenziale degli umani1. Il quesito così come posto dal ministro è dunque figlio della scarsa responsabilità, se si vuole della scarsa sensibilità etica in tema di carcere. Questo è il primo punto fermo. E non è un caso che proprio questo quesito rechi in sé tante contraddizioni. Tamar Pitch osserva, a ragione, che la questione in realtà è già risolta sul piano giuridico, perché il diritto alla salute è di tutti e di tutte, senza distinzioni fra detenuti e liberi, addirittura fra cittadini e non, è un diritto delle persone che implica il diritto di essere curato, nonché il diritto complementare di rifiutare le cure. E proprio perché il detenuto resta titolare di diritti costituzionalmente garantiti, eventuali restrizioni potrebbero essere introdotte soltanto per legge. Dunque, la domanda del ministro suggerisce in realtà una scappatoia (che definire etica è veramente una forzatura) per privare il detenuto dei suoi diritti fondamentali. E cioè: il detenuto Cospito non potrebbe godere del rifiuto dei trattamenti perché non li respingerebbe in ragione della loro onerosità ma per altri fini. E dunque tale rinuncia non sarebbe libera in quanto il fine non è la libertà di cura. È singolare, e al tempo stesso agghiacciante, l’idea di libertà qui sottesa. Invece di intendere la libertà di consenso come non interferenza di altri nelle proprie scelte, si entra nel merito delle finalità e delle ragioni per cui la persona esprime la sua volontà, definendo alcune accettabili e altre no, alcune libere e altre no. Si invoca la libertà per negarla, con ardita capriola. Con una serie di ricadute: le “ragioni” di Cospito non sono buone, dunque non “merita” di rifiutare il trattamento. Cospito non è un paziente, anche se sta male, perché è il suo comportamento la causa del suo male. Anche per questo verso va censurato e punito, negandogli i diritti. E poiché questi ragionamenti sono avanzati in nome dell’etica, c’è di che riflettere su come è usata, malmenata, strumentalizzata l’etica ai giorni nostri. Proprio questo dovrebbe essere oggetto di una riflessione, da farsi al più presto. Nota - 1 Ricordiamo che proprio a partire dalla qualità della pena che giunge “laddove si coglie l’essenza della persona nella sua dignità e libertà”, Moro giunge al rifiuto dell’ergastolo, la pena perpetua (“Questo fatto agghiacciante della pena perpetua: non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena” in Anastasia, Corleone, Pugiotto (a cura di), Contro gli ergastoli, Futura, 2021). Cospito, rischio emulazione: in carcere è partito il tam tam di Felice Manti Il Giornale, 27 febbraio 2023 Con almeno un detenuto su dieci già in sciopero della fame il rischio del ricatto sanitario per emulare la protesta dell’anarchico Alfredo Cospito è altissimo. Il dato non è ufficiale, lo si fa a fine anno: al telefono il direttore del Dap Giovanni Russo declina l’invito a parlare del caso (“chiamate il ministero”, dice), a testimonianza che il cortocircuito che l’anarchico al 41bis è riuscito a innescare “giocando” con la politica rischia di mandare in blackout il disastrato pianeta carceri. Cospito è in sciopero della fame da 130 giorni ed è convinto di “morire presto”. Oggi sarà il legale a visitarlo nel reparto di Medicina penitenziaria del San Paolo a Milano dove nelle prossime ore riceverà la visita del suo avvocato dopo la decisione della Suprema Corte che ha confermato il regime di carcere duro per l’anarchico che ha gambizzato un dirigente della Ansaldo e che voleva far scoppiare una bomba alla caserma dei carabinieri di Fossano, a Cuneo. “Cospito non ha inventato niente - dice al Giornale Mimmo Nicotra, presidente della Confederazione sindacati penitenziari - la sua protesta l’hanno gonfiata un gruppo di politici che sono andati lì e i giornali dandogli voce”. L’astensione dal cibo è una forma molto comune, “chi lo attua lo fa come gesto estremo per proclamare, anche a sacrificio della vita, la sua innocenza o l’ingiustizia della sanzione - spiega l’avvocato Ivano Iai - ma c’è anche chi attenta alla propria salute al solo scopo di eludere l’espiazione di una pena legittima. Sono due cose ben distinte”. “Certo, se un detenuto percepisce che questa protesta funziona è facile che il tam tam sia partito”, conferma una fonte vicina al Dap che preferisce l’anonimato. “Di solito lo sciopero della fame dura un paio di giorni”, spiega un sindacalista di un carcere campano, i casi di chi digiuna davvero per più di tre giorni sono molto meno frequenti “e vengono subito monitorati dai medici”, spiega la fonte. Lo stesso Cospito non ha mai smesso di assumere cibo, anzi. “Ogni tanto prende zuccheri, sali... rifiuta il cibo dell’amministrazione ma poi lo compra, altrimenti nessuno durerebbe 130 giorni...”. “I detenuti non sono così coalizzati ma è vero che da sempre nelle carceri c’è chi soffia sull’ignoranza. Qualche anno fa - racconta un ex guardia carceraria ora a riposo - in un carcere ci fu un boom di suicidi. Scoprimmo che l’effetto emulazione si mescolava a una sorta di moral suasion dei detenuti con regimi più severi verso le persone più fragili, con l’obiettivo di allentare la stretta per un po’ di tempo”. E intanto alla sbarra ci è finito il 41bis: secondo l’avvocato Claudio Defilippi “è un sistema inutilmente truce che va riformato, il legittimo diritto-dovere dello Stato di interrompere i rapporti tra detenuti e clan è naufragato”. Dello stesso avviso Roberto Giachetti di Azione-Italia viva. “Con celle aperte e riduzione dei controlli i pm chiedono 41 bis anche a chi non ne avrebbe bisogno. Così il sistema salta, ha spiegato l’ex numero uno Dap Sebastiano Ardita alla Stampa. Intanto le carceri ribollono di rabbia. “Colpa di riforme sbagliate, tagli inopportuni, eliminazione della sanità penitenziaria. Chi hanno fatto questo disastro dovrebbe fare mea culpa”, dice Giovanni Battista Durante del Sappe. Ieri in un carcere del Cosentino c’erano dieci guardie con trecento detenuti. “Presto ci saranno altre evasioni eccellenti”, denuncia un dirigente. Quante delle 5mila assunzioni promesse ieri dal nuovo capo di gabinetto del ministero della Giustizia Alberto Rizzo serviranno a rafforzare gli organici della polizia penitenziaria ormai al lumicino? Citofonare Carlo Nordio. Riforma giustizia, si parte di Barbara Millucci Corriere della Sera, 27 febbraio 2023 Domani entra ufficialmente in vigore la riforma della giustizia civile firmata da Marta Cartabia. L’emendamento del governo alla legge di Bilancio 2023 ne ha anticipato l’entrata in vigore al 28 febbraio, anziché al 30 giugno come inizialmente previsto. Un anticipo di quattro mesi che ha spiazzato avvocati ed addetti ai lavorii. Molti lamentano criticità in particolare sugli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie in materia di diritto del lavoro. Uno dei punti su cui maggiormente si discute, nell’ambito della riforma del processo civile, che tra le altre cose cambierà le modalità di divorzi e separazioni, è la “negoziazione assistita”. Si tratta di un rito stragiudiziale alternativo da tempo adottato nel processo ordinario. Un accordo con il quale le parti, assistite da legali, convengono di cooperare per risolvere in via amichevole una controversia. Pro e contro - Se per alcuni, come l’ocf (Organismo congressuale forense) è inapplicabile per la mancanza di mezzi, risorse e personale per la giustizia, per altri, come l’agi (Avvocati Giuslavoristi Italiani), la manovra è utile per abbattere i tempi del processo nei termini imposti dal Pnrr (40 per cento in meno per il civile e 25 per cento per il penale) e snellire così il sistema giuridico. “Nella nuova riforma del processo civile, abbiamo contribuito con le nostre osservazioni e proposte al superamento del Rito Fornero e all’estensione della negoziazione assistita agli avvocati in materia di lavoro”, afferma Tatiana Biagioni, presidente Agi. “Il legislatore ha finalmente ampliato il ventaglio degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie in materia di lavoro, consentendo al dipendente di disporre dei propri diritti, anche al di fuori delle così dette sedi protette, purché assistito da almeno un avvocato”, dice ancora Biagioni. L’intervento legittima l’avvocato a gestire l’intero procedimento stragiudiziale, che non costituisce comunque condizione di procedibilità dell’eventuale domanda giudiziale. La negoziazione stragiudiziale delle controversie di lavoro - continua Biagioni - è strategica in chiave deflattiva ma anche nel comune interesse di imprese e lavoratori nel conseguire certezze in tempi brevi. La rapidità del procedimento per la soluzione alternativa della controversia rispetto al giudizio, previene l’inasprimento dei conflitti, e appare auspicabile in questo periodo di difficoltà e potenziale crescita delle tensioni sociali. Per Biagioni si tratta in sintesi di “uno strumento ulteriore di buona giustizia che oltretutto ridà centralità al ruolo degli avvocati, in una nuova stagione per una avvocatura che punta a una formazione di qualità”. Scettici e contrari sull’emendamento del governo il Consiglio nazionale forense e l’organismo congressuale forense che riscontrano diverse incongruenze. “L’emendamento governativo alla legge di Bilancio, con l’anticipazione delle principali novità del rito civile appare irragionevole visto il caos in cui getterà cancellerie, magistrati e avvocati”, rendono noto entrambi. Lollobrigida: “Violenza politica, pene più alte. Nessuna aggressione sarà giustificata da qualsiasi parte provenga” di Ernesto Menicucci Il Messaggero, 27 febbraio 2023 La guerra, con la ricostruzione dell’Ucraina, e le riflessioni sulla Via della Seta con la Cina. Ma anche le questioni interne dal clima di violenza politica che torna ad affacciarsi nel Paese alle nomine nelle principali aziende partecipate (“la discontinuità non è un dogma”, dice), dalla siccità ai balneari. Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare è uno degli uomini più ascoltati (qualcuno dice più influente) del governo Meloni. E, a 360 gradi, non si sottrae su nessuno degli argomenti più caldi del momento. Partiamo dal clima politico. Le aggressioni da parte di ragazzi di estrema destra a Firenze, ma anche la corona di fiori per Paolo Di Nella, giovane di destra assassinato negli anni 80, bruciata da esponenti dell’ultrasinistra. Più i rigurgiti anarchici pro-Cospito. Preoccupato che si torni agli anni 70? “Primo. Chi commette violenza, da qualunque parte provenga, non troverà mai giustificazione da parte di questo governo. E questo deve essere chiaro. La mia generazione ha ancora la memoria storica di quanto successe alla fine degli anni 60 quando si è sottovalutato l’emergere di certi fenomeni. Ora purtroppo questa memoria storica si sta perdendo. E poi, però, quando l’incendio scoppia, colpisce tutti”. Cosa fare? “Credo che, se c’è la volontà, il Parlamento potrebbe affrontare la questione, magari aggravando le pene per le aggressioni ai danni di studenti o sospensioni più lunghe per chi reitera certi reati. Qui abbiamo minacce ai parlamentari, auto dei nostri diplomatici incendiate, terroristi in assemblee ai centri sociali. La violenza politica, da qualunque parte provenga, va cancellata”. Così come andrebbe cancellata la guerra. È passato un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, mentre si cerca un negoziato di pace si comincia a pensare anche alla ricostruzione. Che ruolo avrà l’Italia? “L’Italia e le altre nazioni occidentali hanno sempre avuto una posizione netta e fino a che c’è la guerra in corso l’obiettivo è la fine del conflitto con una pace giusta che consenta agli ucraini di autodeterminarsi come popolo, secondo le regole democratiche”. E poi? “Poi l’Italia, grazie alla sua ritrovata credibilità sul piano internazionale, si è guadagnata la possibilità di poter partecipare, anche con le sue aziende partecipate e private, ad una ripresa efficace che riporti l’Ucraina ad un sistema funzionale”. Sul fronte dell’agricoltura, qual è la maggiore emergenza? “Ne ho parlato col ministro ucraino, bisogna garantire l’export del grano, modernizzare il sistema agricolo ed evitare l’abbandono del territorio. L’agricoltura è un mestiere che si tramanda di padre in figlio, con molti uomini impegnati al fronte a fare i soldati oppure sfollati, il rischio che si interrompa questa tradizione è reale”. Il viaggio di Meloni a Kiev è stato preceduto dalle frasi di Berlusconi su Zelensky. La missione del premier era anche un messaggio rivolto agli alleati della maggioranza? “Guardi, Meloni non va a Kiev per chiarire le posizioni del governo, perché da parte di Usa, Inghilterra, Germania e degli altri partner internazionali non c’è alcun dubbio in merito. Ci sono state delle dichiarazioni che potevano far percepire delle problematiche che però non ci sono, visto che non si sono concretizzate in atti. Si tratta di esternazioni, opinioni, commenti”. Quindi caso chiuso? “Ripeto, per il governo parlano gli atti. Sarebbe stato molto più grave se fosse stato il contrario: dichiarazioni a favore e votazioni contrarie. In ogni caso ci sono cose sulle quali FdI discute e altre su cui non discute. Tra queste c’è il fatto di essere al fianco dell’Occidente e della coesione in questa vicenda. È uno dei nostri paletti, uno dei punti principali del programma del centrodestra, che al contrario di quello delle sinistre, è unitario. Discuterlo porterebbe a conseguenze che non ci saranno, perché nessun atto fa pensare ad un ripensamento”. C’è una riflessione in corso sulla Via della Seta? “Agiremo con molta prudenza, quella che non c’è stata in passato, dove anzi - mi riferisco al governo Conte - ci sono state delle zone d’ombra. La Cina ha dei pro, essendo un partner commerciale molto importante, ma anche dei contro: un modello di sviluppo lontano dal nostro, regole diverse sul rispetto dei diritti dei lavoratori, un approccio diverso sul conflitto russo-ucraino, sul clima, sull’Africa. Bisognerà muoversi di concerto con gli Stati europei e anche con gli Stati Uniti, con i Paesi Nato, perché un’alleanza è un’alleanza, non solo militare. Si difende il diritto internazionale, la libertà. Per noi è un dogma a salvaguardia delle nazioni democratiche”. Sembra di percepire, da parte vostra, un rinnovato impegno sulle questioni internazionali. Ora Meloni andrà in India, poi Abu Dhabi... “Sa cosa mi ha detto un diplomatico Usa? Che se prima parlavano solo con Francia e Germania, ora sulle grandi questioni ci siamo anche noi. E questo smentisce tutti i pregiudizi che erano stati avanzati sul nostro governo. Vale anche per l’area del Mediterraneo, nei contatti con il Maghreb: Algeria, Egitto, Libia. Vogliamo riappropriarci del nostro ruolo nel Mediterraneo. Nella Prima Repubblica era un fatto consolidato, negli ultimi 15 anni di assenza si era un po’ perso”. È di ieri purtroppo, la notizia dell’ultima tragedia in mare… “Bisogna bloccare l’immigrazione irregolare, creare le condizioni di sviluppo e di sicurezza alimentare per le nazioni africane. Chi scappa dalla propria casa, dal Sahel o altre zone, lo fa per fuggire dalla fame o dalle persecuzioni dei terroristi islamizzati. Il Piano Mattei rilanciato dal premier Meloni è soprattutto questo, oltre che energia”. A proposito, un ruolo decisivo lo avrà l’Eni. E questo ci porta alle nomine delle partecipate. La Lega chiede “discontinuità” nelle scelte dei management. FdI che dice? “La discontinuità non è un dogma, come non lo è la continuità. Le scelte verranno fatte in base al merito e alla visione progettuale. Vogliamo aziende che facciano squadra tra di loro, per far ripartire il sistema Italia”. Torniamo alle vicende di casa nostra. L’emergenza siccità… “Serviva, in tutti questi anni, una strategia che non c’è stata. E poi dispersione idrica, le acque di fiumi, laghi, mari gestite da troppi enti. Il primo marzo avremo una cabina di regia con Meloni, il sottoscritto, i ministri Salvini, Fitto, Musumeci, Pichetto. Valuteremo se introdurre un commissario che gestisca questa fase di emergenza”. Superbonus e balneari? “Non entro nel merito dei provvedimenti, ma sicuramente su entrambi i fronti vanno rispettate le regole e naturalmente le indicazioni del Quirinale, salvaguardando anche il tessuto produttivo e chi ha fatto sacrifici ed investimenti in questi due settori”. Manca un anno alle Europee. Cosa vorrebbe realizzare? Il Presidenzialismo, e magari anche da soli? “Stiamo andando avanti, cercando di coinvolgere tutte le forze politiche. Se sono disponibili a discuterne, bene. Altrimenti andremo avanti. Non ci gireremo indietro rispetto a quello che è il nostro programma”. Io, anarchico libertario, vi dico la vera lotta non è mai violenta di Maurizio Maggiani La Stampa, 27 febbraio 2023 Mi vergogno di chi ha rubato il nome e ne ha fatto un’informale federazione di dediti alla delinquenza. Le armi devono essere intelligenza, conoscenza, perseveranza e coraggio, la battaglia è politica. “Eppur la nostra idea è solo idea d’amor”. Eh, sì, sono uno di quelli lì. Difficile oggi a dirlo, mai stato così difficile, ma eccomi qua, io sono un anarchico, un libertario, e se non bastasse, persino un mazziniano. Sono nato nell’enclave del sovversivismo apuano, cresciuto tra gente affetta da una sorta di anarchismo genetico, discendente da un popolo che resistette due secoli alle legioni di Roma senza alcun motivo valido - Roma offriva il meglio, ius e lex, libertà di culto, cultura eccelsa, gabinetti pubblici, a chi ne accettava il dominio sulla storia - ma nella folle convinzione che l’unico bene non cedibile era la facoltà sul proprio destino. Del resto non avevano nient’altro da difendere, Incrocio tra uomini e lupi, scriveva Strabone, senza niente da offrire come bottino di guerra. E questo è rimasto, e allora mio nonno, contadino semianalfabeta con non più di una manciata di parole in bocca, mi spiegò l’anarchia così, l’anarchia a vo dir che a san tuti uguali no perché a san tuti servi, ma perché a san tuti signori. La signorilità dei miserabili, dei vinti, degli oppressi, degli irredenti che non si consegnano al potere della storia, la signorilità di Don Quijote. E così, ero ancora un ragazzo, quando ho chiesto cosa fosse l’anarchia al più eminente tra gli anarchici del paese, detto il Bakunin, combattente nella brigata internazionale in Spagna, eroe della resistenza, tutto quello che ebbe da dirmi fu, l’anarchia, né ‘gno, an se po’ dire. Qualcosa che ha a che fare con il dio di Mosè, Ehyeh asher ehyeh, io sono colui che sarò; chissà, forse è per questo che don Giussani ebbe a scrivere che l’anarchico è il più vicino a Dio. Ci ho messo un bel po’ a capirlo, a farmi una ragione di un’idea che prefigura un’altra storia da questa, e un’altra umanità, non solo la futura, ma la nuova umanità. Il vecchio Bakunin non l’avrebbe vista, né io la vedrò, ma la sua e la mia signorilità sono mattoni che si aggiungono ad infiniti altri nella sua costruzione, e questo è il nostro orgoglio, l’irriducibile amore. E la nostra follia, benigna follia, perché la u di utopia può essere in greco sia ou che eu, e quindi il luogo che non esiste e il luogo buono. Per questo mi ripugnano e provo infinita vergogna per i ladri che si sono impadroniti del nome santo d’Anarchia per farne un’informale federazione di dediti alla delinquenza che non mi riesce di immaginarla politica. Tanto per essere chiari, ho la serena certezza che applicare il regime 41 bis a Alfredo Cospito, uno tra loro, sia inumano, e questo semplicemente perché allo Stato è proibito vendicarsi, perché la comunità che si riconosce nella convinzione di un’umana giustizia riparatrice non può rispondere all’orrore con l’orrore. Infatti provo orrore per i crimini che quell’uomo ha commesso, orribile e insensata l’idea di rendere giustizia per voi sfruttati per voi lavoratori piazzando bombe alle porte di una caserma o sparare a un dirigente d’azienda. Per il male che fanno alla pace tra gli oppressi, per l’inetta e stolida idea che si son fatti della guerra agli oppressor, in un giusto processo proletario il movente politico sarebbe considerato un’aggravante piuttosto che un’attenuante; per la disgraziata occasione di Alfredo Cospito, alla tanto agognata giustizia proletaria non sarebbe bastato il 41 bis, ma avrebbe elaborato all’uopo un 41 tris. Ne ho avuto a basta già quarant’anni fa della proterva “geometrica potenza di fuoco” delle avanguardie armate. Ho pianto ai funerali di Aldo Moro, e non solo e non soprattutto per l’uomo; non so piangere i morti, so solo piangere i vivi, e piangevo per me, piangevo la definitiva sconfitta di tutte le mie attese, di tutto ciò in cui avevo sperato e per cui avevo lottato spendendoci la mia giovinezza, piangevo per ciò che sarebbe venuto a seppellire la promettenza di quegli anni. Come puntualmente è accaduto, persino peggio di come la mia disperata fantasia sapeva immaginare allora; furono due le esecuzioni capitali comminate da Mario Moretti e compagni, quella al presidente della Democrazia Cristiana e quella a un Paese progressivo e speranzoso. Per fortuna, per grazia di Iddio o per legge della storia, oggi gli informali in armi non sanno che replicare i maestri in allucinata farsa, i loro sparuti sostenitori non sono nuclei ma noduli, non si possono neppure definire come portatori di un ideale pervertito, non ne conoscono le fondamenta di quell’ideale; hanno sentito qualche ballata e gli deve essere così piaciuta da impararne un paio di strofe, qualcuno gli ha parlato di Gaetano Bresci ma si sono ben guardati dal conoscerne davvero la storia. Sono talmente informali gli informali, che pur negando lo stesso diritto ad esistere dello Stato, ora intavolano a muso duro trattative con lo Stato che non riconoscono intorno all’applicazione delle sue leggi. Alfredo Cospito a costo della sua vita, quelli che si dicono i suoi compagni a costo della vita di Alfredo Cospito. Perché è evidente che gli informali lo vogliono morto, vogliono il suo corpo cadavere per farne il prezioso martire con cui trastullarsi tra una birretta e una cannetta nella sete di vendetta. Mi piacerebbe a tal proposito sapere quanti tra i vendicatori sono onesti e capaci lavoratori, al netto naturalmente degli agenti infiltrati sotto copertura; c’è questa cosa strana che gli anarchici si sono sempre distinti per la dedizione al lavoro, per l’inappuntabilità del loro portamento, al cospetto della foto segnaletica persino per il lindore del loro abbigliamento anche nell’assoluta miseria. Gaetano Bresci infatti lo era, ed era molto apprezzato per la sua arte di setaiolo dai sui compagni di lavoro e persino dai padroni del suo lavoro. Se ne tornò dall’America in Italia per vendicare le operaie e gli operai in sciopero per il pane nel fosco fin del secolo morente XIX, ammazzati dai cannoni del generale Bava Beccaris su ordine diretto del Re Buono Umberto I. Ci riuscì a vendicarsi con tre colpi di revolver, non tentò di fuggire, ma si consegnò, perché questa era la regola dei tirannicidi in quel tempo di furori, testa per testa. Fu chiuso e incatenato in una tana del carcere di Ventotene in attesa di venire ammazzato nel modo più doloroso possibile dai suoi custodi. E questa fu la vendetta dei Savoia e dello Stato a loro ossequiente, che non si fermò finché non distrusse la vita dei membri della famiglia di Bresci fino al terzo grado. Il gesto dell’ultimo dei regicidi ha lasciato una lezione definitiva alle mille e mille facce ischeletrite che urlan l’odio, la fame ed il dolore, al movimento anarchico, ai resistenti alla tirannia in generale. Non fosse bastata la lezione di Felice Orsini, il mazziniano che cinquant’anni prima aveva attentato al tiranno Napoleone III e fallì uccidendo dodici innocenti, perché se lui inventò l’efficace bomba al fulminato di mercurio, la bomba sferica che da quel momento divenne l’accessorio prediletto dai caricaturisti di anarchici, il giorno prima Napoleone s’era inventato la ancor più efficace vettura corazzata. La lezione davvero importante lasciata da Bresci è che la vendetta è prima di tutto inutile, è morto il re, viva il re. E il re vivrà in eterno finché potrà sedersi sul suo trono; è il trono, non chi ci sta sopra l’obiettivo, l’obiettivo è il regno e il sistema su cui si fonda. E questa allora è lotta politica non vendetta. Lotta armata sì, ma di intelligenza, conoscenza, determinazione, coraggio, perseveranza, empatia per la vita e rifiuto della morte, è il regno che semina morte, i giusti seminano vita. Amici che restate le verità sociali da forti propagate, è questa la vendetta che noi vi domandiam. Un mio amico, un uomo di infinita dignità e dolcezza, ha ricevuto pochi anni or sono una lettera dagli informali federati siglati Fai. Quell’uomo vive da cinquant’anni con ancora in corpo una delle pallottole con cui le Br vollero punire un grande dirigente d’azienda iscritto al Partito Comunista. Nella lettera si legge tra l’altro, “... al vecchio zoppo non è bastato l’attentato scorso quando era padrone dell’... questa volta non avrà modo di rialzarsi né lui né l’unico impotente uomo armato che l’accompagna sempre...” (segue modello e numero di targa dell’automobile). Ecco, questo è l’alto pensiero, questa la tempra morale dei ladri d’anarchia. Napoli. Morire di pena: “Campagna contro 41bis a oltranza” di Veronica Bencivenga Il Riformista, 27 febbraio 2023 Si è svolta sabato mattina 25 febbraio, all’Istituto per gli studi filosofici di Napoli, la presentazione della campagna “Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41bis”. Una iniziativa che doveva essere di lancio della piattaforma - parallela a un’altra svoltasi a Roma il 7 febbraio scorso e a quelle che si svolgeranno a breve a Torino e a Milano - ma che è diventata inevitabilmente, alla luce dei recentissimi accadimenti, un momento di riflessione rispetto allo scenario con cui la rete di attivisti e attiviste, giuristi, intellettuali, personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo deve fare i conti in questo complesso percorso. È notizia di venerdì pomeriggio, infatti, il rigetto da parte della Corte di Cassazione del ricorso con cui la difesa di Alfredo Cospito chiedeva la revoca del regime di 41bis per il detenuto anarchico, in sciopero della fame da oltre quattro mesi, per protesta non solo contro l’applicazione del provvedimento al suo singolo caso, ma contro l’esistenza stessa del cosiddetto “carcere duro” e dell’ergastolo ostativo. Una battaglia che la piattaforma ha rilanciato a partire dallo scorso gennaio, pubblicando un documento sottoscritto da circa cinquecento persone e trecento gruppi e associazioni, e attivandosi per sensibilizzare l’opinione pubblica e rivendicare l’abolizione di questi due istituti: il primo, considerato anche da varie istituzioni internazionali come torturatorio e lesivo della dignità umana; il secondo, contrario persino ai dettami costituzionali, che stabiliscono il reinserimento nel consesso sociale come l’unico fine della pena, che quindi non può essere “a vita”. “L’iniziativa - spiega Riccardo Rosa, del comitato promotore della piattaforma - era organizzata da tempo, ma è arrivata proprio nei giorni in cui la Cassazione si è presa la responsabilità, dopo che già il ministro Nordio si era mosso chiaramente su queste coordinate, di decretare la morte di Cospito: un tragico epilogo che si avvicina irrimediabilmente se, come pare, il detenuto continuerà il suo sciopero della fame. La battaglia di Cospito sta facendo emergere le fragilità e le contraddizioni che i poteri dello Stato si portano dietro su questi temi: l’indisponibilità a scavalcare gli ostacoli normativi da parte della magistratura, l’ottusità della politica che si rifiuta di prendere atto di questa barbarie, le barricate di chi utilizza lo spauracchio di “nemici pubblici”, come la mafia e gli anarchici, per giustificare pratiche di tortura e annientamento che niente hanno a che vedere con lo Stato di diritto”. All’iniziativa napoletana hanno partecipato, tra gli altri, la direttrice dell’associazione A Buon Diritto Valentina Calderone, l’attrice India Santella, che ha letto alcune lettere dall’ergastolo di Luigi Settembrini, e lo scrittore Maurizio Braucci, che ha riflettuto sulla dirompenza, anche simbolica, della battaglia di Cospito: “L’autonarrazione è una pratica estremamente difficile per chi vive in una situazione di reclusione o di attesa della morte: accade con i detenuti e accade per esempio anche con i malati terminali. Lo sciopero della fame di Cospito è il tentativo di sottrarre il corpo al circolo vizioso e all’annichilimento, di rompere la gabbia ed è al contempo un seme gettato perché si apra un dibattito reale sul necessario superamento dell’ergastolo e del 41bis”. Tra i “tecnici”, gli interventi degli avvocati Caterina Calia, Bruno Larosa e Domenico Ciruzzi, già vicepresidente dell’Unione delle Camere penali italiane: “Il percorso di Morire di pena - ha spiegato quest’ultimo - è un percorso fondamentale, e l’intervento della società civile, che chiede con forza l’abolizione di questi due istituti, ci fa pensare che qualcosa si è mosso, e che la battaglia si può vincere. Ora però tocca alla politica: non può essere la magistratura a prendere queste decisioni, ci vuole una presa di responsabilità e un’azione concreta per il superamento di questa vergogna”. Sulla gestione prettamente politica del caso Cospito, il comitato ha rilasciato un comunicato, denunciando come la decisione della Cassazione abbia ignorato i pareri favorevoli alla revoca del 41bis per il detenuto rilasciati dalla Procura antimafia e antiterrorismo, dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino e del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Sulla pelle di Cospito - spiega la nota - si sta giocando una pericolosissima partita, che può avere come risultato la creazione di una tensione capace di giustificare interventi “eccezionali”; su un più largo respiro, tuttavia, questi posizionamenti così inutilmente intransigenti sono legati alla ferma indisponibilità da parte della politica e di una parte della magistratura a mettere in discussione la barbarie del 41bis”. Le prossima iniziative della piattaforma sono previste a Torino (domani) e per fine marzo a Milano, con la partecipazione, tra gli altri, di Gherardo Colombo, Gad Lerner e Daria Bignardi. “Se la campagna per abolire ergastolo e 41bis andrà avanti a oltranza - spiegano gli organizzatori - per salvare la vita di Alfredo, invece, potrebbe essere troppo tardi”. Roma. Cospito, il legale in classe. La protesta degli agenti: “A lezione di anarchia” di Lorena Lo Iacono e Alessia Muragli Il Messaggero, 27 febbraio 2023 Polemiche sulla decisione degli studenti del liceo Mamiani: oggi l’assemblea. La preside: “Previsto il contraddittorio”. L’ira dei poliziotti: “Sono altri i personaggi dai quali prendere esempio e di cui parlare. Ai giovani va insegnato che chi sbaglia paga”. Bufera sull’assemblea di stamani al liceo classico Mamiani di Roma, alla quale è stata invitata a parlare la penalista Ludovica Formoso, legale dell’anarchico Alfredo Cospito, da quattro mesi in sciopero della fame contro il regime del 41bis. L’incontro arriva ad appena tre giorni dalla decisione della Corte di Cassazione di rigettare fi ricorso contro l’applicazione del “carcere duro” presentato dalla difesa e proprio nel momento in cui il fronte dalla A cerchiata ha lanciato un nuovo appello per una stagione di minacce e violenze. “Singolare che nei licei della Capitale si discutano le vicende di Cospito con l’intento, nemmeno nascosto, di criticare il 41 bis e le misure di massima fermezza per stroncare la mafia e il terrorismo”, tuona il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri. Ma ad alzare gli scudi sono soprattutto i poliziotti romani - uno di loro è rimasto ferito negli scontri con gli anarchici del 28 gennaio a Trastevere - per voce dei sindacati. “Sembra di trovarsi a scuola di anarchia - afferma Fabio Conestà, segretario generale del Mosap. Anziché insegnare la legalità si va in cattedra a insegnare agli alunni come fregarsene delle regole e della democrazia, attraverso falsi idoli. Sono altri i personaggi dai quali prendere esempio e di cui parlare. Ai giovani va insegnato che chi sbaglia paga”. Proprio gli uomini e le donne in divisa, insieme a magistrati e manager delle multinazionali sarebbero nel mirino del movimento anarchico. Così come declarato nella nuova “Campagna internazionale d’attacco allo Stato e al capitale italiano” lanciata ieri sulle piattaforme d’area e all’indomani di una pesante rivendicazione dell’ordigno lasciato davanti a un portone del tribunale di Pisa, firmata dal sedicente - Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria - Consegne a domicilio”. “A colpi di esplosivi saranno colpite le strutture e mutilati gli uomini del potere”, si legge tra l’altro nel documento. “Vorremmo che i giovani e i dirigenti scolastici invitassero anche Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare gambizzato da Cospito, giusto per favorirne, nel contraddittorio, la conoscenza critica - sostiene Andrea Cecchini, di Italia Celere - Sarebbe bello, poi, che i dirigenti scolastici e i giovani invitassero anche i poliziotti che vengono presi a bastonate per Far rispettare la legalità”. Anche a Roma è stato innalzato il livello di allena e sono stati disposti controlli costanti sugli obiettivi sensibili: tribunali e caserme in primis. L’assemblea al Mamiani si svolgerà dalle 9.30 alle 12.30, e non saranno ammessi esterni all’interno dell’istituto. Quindi tutto si svolgerà con i cancelli chiusi con i docenti a vigilare, come accade per tutte le assemblee. La questione legata al “41 bis” dì fatto terrà banco per la maggior parte del tempo, seguono poi “problemi interni” e varie ed eventuali. L’argomento principale dell’assemblea è stato proposto dagli studenti alla dirigente scolastica “L’assemblea è uno spazio degli studenti - spiega la preside Tiziana Sallusti - e, visto che l’opinione pubblica si sta occupando dell’argomento, i ragazzi mi hanno chiesto di poter invitare la rappresentate legale di Alfredo Cospito. Ci sarà la controparte e in questo caso si tratta del giornalista antimafia Lirio Abbate. Senza un contraddittorio, non avrei dato l’autorizzazione”. Sul caso è intervenuto Mario Rusconi dell’Associazione nazionale presidi: “Mai fare parlare una voce sola, ma auspico che nelle scuole non ci siano argomenti così fortemente divisivi. capaci di portare a situazioni difficili da gestire anche sorto il profilo dell’ordine pubblico”. Lecce. “Made in carcere”, il presidente della Repubblica premia Luciana Delle Donne lecceprima.it, 27 febbraio 2023 Onorificenza al merito della Repubblica italiana alla creatrice del progetto con il riconoscimento conferito direttamente dal Capo dello Stato. “Ringrazio il Presidente Mattarella per il riconoscimento che mi sarà conferito il giorno 24 di marzo, presso la sede del Quirinale. Dedico questo importante momento a mia madre Carmen per la sua tenacia e perseveranza”. Luciana Delle Donne, Ceo di Made in Carcere, è tra i trenta “esempi civili” insigniti dal presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, cittadine e cittadini che si sono distinti per un’imprenditoria etica, per l’impegno a favore dei detenuti, per la solidarietà, per il volontariato. A loro il presidente, motu proprio, ha conferito l’onorificenza al Merito della Repubblica italiana. “Mia madre - continua Luciana Delle Donne - ha cresciuto da sola, dopo l’incidente mortale di mio padre, cinque figli fantastici. Non ha mai approvato la mia scelta di lasciare la gabbia dorata del mondo della finanza per dedicarmi totalmente ad aiutare la gente più bisognosa lavorando gratuitamente da oltre 17 anni”. Luciana delle Donne, già meritevole di altri importanti riconoscimenti come “Change Maker” di Ashoka nel mondo, Green Heroes del Kyoto Club, ha semplicemente seguito il sogno e la sua visione di vita. Grazie al suo istinto ha imparato il valore e la ricchezza dell’umiltà: “Essere al servizio degli altri - spiega -, facendomi attraversare dal bisogno delle persone, e non solo quelle in stato di detenzione, è il mio lavoro di ogni giorno. Aiutiamo sempre tutti quelli che bussano alla nostra porta. Soprattutto i giovani che spesso non hanno ancora consapevolezza delle loro potenzialità e non sanno più sognare e desiderare nulla per il loro futuro personale e sociale”. Il motto di Made in Carcere è “trasformare le debolezze della vita in punti di forza” con amore, impegno e ingegno. Delle Donne continua il suo percorso per trasformare in modo creativo ogni potenziale umano, raddrizzando le cuciture storte della vita. Un modello di economia rigenerativa, circolare e trasformativa che ha creato un cambiamento sistemico italiano capace di generare bene comune. “Dedico questo riconoscimento - conclude - anche a tutte le colleghe e colleghi, partner, ambassador, imprenditori, manager e altri stakeholder di questo lungo viaggio che continua con tanti prossimi progetti. La prossima destinazione? Bil: Benessere interno lordo, un indicatore del benessere e non più del profitto”. Milano. Una scuola edile dentro il carcere. Don Rigoldi: “Le aziende formeranno i futuri dipendenti” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 27 febbraio 2023 Il progetto vede collaborare la Casa di reclusione di Opera, Assimpredil Ance e i sindacati. Si parte con la formazione di 600 detenuti che hanno già scontato un terzo della pena e sono in un percorso trattamentale avanzato. L’idea è di don Gino Rigoldi che da decenni si occupa di persone in cammino per recuperare con dignità il proprio futuro. L’alleanza è con la casa di reclusione di Opera, Assimpredil Ance, i sindacati. Il progetto pilota, “rivoluzionario e di portata nazionale, replicabile in molti altri mondi dell’universo carcerario e anche, si spera, al minorile Beccaria, con qualcosa di analogo”, spiega don Gino che non è solito parlare con enfasi ma stavolta riflette con la sensazione di essere arrivato a una svolta concreta. Il mercato formerà dentro le mura il personale di cui ha bisogno fuori, favorendo il reinserimento sociale dei detenuti, circa 600, che hanno già scontato un terzo della pena e sono in un percorso trattamentale avanzato. “È dando lavoro che si svuotano le carceri - spiega Rigoldi. Solo così si abbatte il tasso di recidiva, si formano le competenze che servono davvero, si crea un punto d’incontro tra forza lavoro e aziende. Si trasforma il carcere da tempo “punitivo” a tempo “opportuno”“. Grazie al protocollo appena siglato si crea per la prima volta una scuola edile dentro la casa di reclusione: c’è un vero e proprio laboratorio gestito da Esem-Cpt (Ente unificato Formazione e sicurezza). Lì le aziende (70 quelle contattate) insegneranno le competenze per iniziare a lavorare entro tre mesi nei cantieri. “A turno le persone potranno partecipare ai corsi e accedere poco dopo ai progetti di reinserimento lavorativo. C’è concreto bisogno di mano d’opera - prosegue don Gino -. Il punto di vista si capovolge: è il datore di lavoro che forma i suoi collaboratori e poi li assume”. Il modello ben si adatta, oltre che all’edilizia, alla ristorazione e alla meccanica. Se - come dice l’articolo 27 della Costituzione - le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, “ad un certo punto della pena si deve offrire la possibilità di avere scambi dignitosi con il mondo esterno. Altrimenti come si trova il proprio ruolo utile alla società? - provoca don Gino. Il pensiero del futuro è quello che anima ogni processo di cambiamento”. Sempre ad Opera è stato inaugurato anche uno sportello per la ricerca di impiego gestito da Galdus, ma l’inclusione non è scontata. I detenuti che accedono a percorsi di lavoro, soprattutto all’esterno, sono soltanto un terzo sul totale che ne avrebbe diritto. E di questi l’86% è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, senza contatti lavorativi strutturati e continuativi con il mondo esterno. “Per fare lavorare tutti quelli che vorrebbero non ci sono spazi sufficienti all’interno della struttura”, dice il direttore di Opera, Silvio Di Gregorio. Aziende come Sky hanno già assunto 16 detenuti e anche i cantieri sono pronti ad aprirsi: “Crediamo fermamente nella responsabilità sociale d’impresa e dare un’opportunità a categorie svantaggiate come i detenuti rientra in questo nostro percorso”, dice la presidente di Assimpredil Ance, Regina De Albertis, seguita dai sindacati dell’edilizia. L’altra barriera da superare sono i tempi burocratici per avere le autorizzazioni e fare rientrare le attività esterne nei piani trattamentali. Infatti, precisa Di Gregorio, “le modalità di inserimento lavorativo verranno definite in base alle opportunità di lavoro secondo le esigenze delle aziende e le possibilità dei singoli detenuti, nell’ambito dei programmi di trattamento predisposti dalla Direzione dell’istituto e sottoposti alla Magistratura di sorveglianza per l’approvazione”. Nuoro. Badu e Carros, i segreti della fuga: aveva la chiave di Mauro Pili L’Unione Sarda, 27 febbraio 2023 Della “porcilaia”, le celle malfamate del carcere nuorese, ne aveva solo sentito parlare. Qualche volta c’era passato lì davanti. Ne percepiva muffa e buio, spranghe inamovibili e tanfo a sufficienza. Gli è bastato per pianificare una fuga senza precedenti dal carcere, una volta di massima sicurezza, di Badu ‘e Carros, periferia estrema della capitale della Barbagia. Il solo pensiero che da lì a poco i magistrati potessero spedirlo dritto al 41 bis, con tanto di isolamento nella latrina storica destinata ai più riottosi, gli è bastato per pianificare ogni minimo dettaglio di un’evasione destinata a passare alla storia del penitenziario nuorese. Salto nel vuoto - La cronaca di quel salto nel vuoto è racchiusa in fotogrammi che le telecamere incustodite hanno impresso nella memoria di una regia a quell’ora abbandonata a se stessa. Le immagini sono quelle esterne, con tanto di gesto atletico compiuto con la rapidità della luce, senza nemmeno sfruttare a pieno i nodi delle lenzuola sistemati come scalini, prima per salire e poi per scendere. È una cronaca che si commenta da sola, con tanto di caduta rovinosa ma indolore, sino a quella corsa forsennata verso il primo angolo utile per sparire verso l’innesto con la strada che porta dritti sulla diramazione centrale nuorese. Sono i fotogrammi di una fuga impressionata dall’esterno, documentata per dieci metri d’altezza e venti di lunghezza, sino al buio, quello che è calato dopo le 18 di venerdì intorno a quel carcere che fu di Francis Turatello, Renato Vallanzasca, Luciano Liggio, Antonio Iovine, Pierluigi Concutelli e Graziano Mesina. Le primule rosse finivano tutte lì, a smaltire ergastoli e “fine pena mai”. Ora il carcere dei mafiosi, camorristi, delle ‘ndrine, della Sacra Corona unita e dei terroristi più efferati non è più inviolabile. Anzi, di colpo, il terrore dei detenuti è diventato un colabrodo, con varchi inimmaginabili per detenuti rinchiusi nel braccio in teoria più blindato, quello dell’Alta Sicurezza. Quello che stiamo per raccontarvi è il dietro le quinte di una fuga con tanti segreti e mille misteri, tutti racchiusi all’interno di quelle mura di granito che avrebbero dovuto evitare qualsiasi azzardo. Puzza di “porcilaia” - Eppure Marco Raduano, trentanove anni all’anagrafe, ma già venti da scontare nelle patrie galere, boss mafioso incallito, numero uno del clan dei Montanari della mafia garganica, non voleva correre il pericolo di passare la vita dietro le sbarre della quinta sezione del carcere nuorese, il più tosto di tutti. In arte delinquenziale soprannominato “Pallone”, originario di San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia, sapeva che non aveva molto tempo per mettere a segno il colpaccio. I giudici da lì a poco avrebbero potuto assestargli il colpo finale. Dal reparto dell’Alta Sicurezza, già oppressivo, poteva passare in un attimo al carcere duro, quello del 41 bis, venti metri più avanti della stanza d’hotel con le sbarre che lo custodiva sul versante sud della città. Le finestre, non più bocche di lupo, erano uno sguardo perenne sulla via Dessanay, quella della fuga. Per arrivare a quell’ultima rete, prima della strada, però, c’erano almeno tre ostacoli, apparentemente insormontabili: la porta blindata della cella, le sbarre del reparto, l’accesso inviolabile nel cortile verso il muro di cinta. Per le prime due conosceva orari e regole. A quell’ora celle aperte per tutti. Comprese quelle che collegavano un reparto con l’altro. L’ostacolo era quella porta sigillata con tanto di chiave d’ottone, pesante come un randello, varco finale tra le mura interne e quelle perimetrali. “Pallone”, però, aveva studiato ogni dettaglio, forse con largo anticipo. Aveva quasi tutto scolpito in testa, ogni minimo passaggio di quella fuga che solo nei film poteva essere gestita con un copione senza intoppi. Le immagini dello scavalcamento del muro di cinta sono ormai un best seller per social e media, quelle interne, invece, quelle che raccontano il trapasso dalle mura di granito al cortile, sono top secret. Tutte le falle - È in quei fotogrammi, quelli registrati dalle telecamere piazzate un po’ ovunque dentro il carcere, che si cela il mistero della fuga di questo capomafia, finito non per caso nella Cayenna sarda. I soloni di Stato, qualche anno fa, imposero anche nelle carceri di massima sicurezza la vigilanza passiva, telecamere e regia, per sostituire uomini e agenti penitenziari. Lui, “Pallone” lo sapeva perfettamente. Aveva cronometrato varchi temporali, buchi di guardiania nella regia televisiva del grande fratello del carcere. Sapeva che a quell’ora poteva osare, dove mai nessuno aveva nemmeno tentato. Il video impressionato intorno alle 17 lo racconta sereno, come se quella rampa di scale che sta percorrendo all’interno della quinta sezione lo stesse portando dritto verso il paradiso della libertà. Quando sale al piano superiore sa cosa sta cercando. Gli manca il “passepartout” per aprire la porta finale. Se l’è andata a prendere, proprio dove sapeva che fosse nascosta. I fotogrammi lo immortalano mentre preleva la chiave. Gli zoom lo seguono mentre scende, lo cristallizzano nel frangente in cui, una volta arrivato al piano inferiore, si accorge che la chiave è quella sbagliata. Non si perde d’animo. Con la flemma di chi sogna quel prato verde all’esterno dove ruzzolare rovinosamente, risale per le scale, sempre seguito dalle telecamere passive, preleva la chiave giusta e riconquista la porta del paradiso, quella che gli consente di lasciarsi alle spalle il penultimo muro della sua segregazione. A quel punto, nascosto chissà quando, prende da un lato della porta quel rotolo di lenzuola, con un gancio d’acciaio sagomato per avvinghiare la vetta del muro perimetrale. Un gancio prodotto all’interno del carcere, in un unico reparto capace di quei lavori, quello dei detenuti Mof, Manutenzione ordinaria fabbricati. All’estremità degli otto metri di lenzuola il gancio ha la forza di una cima per agganciare la vetta del muro. L’operazione è fulminea. Un lancio, una rapidissima scalata, un attimo per posarsi a cavalcioni sopra il muro di cinta, ribaltare sul fronte esterno il gancio e le lenzuola e gettarsi oltre il confine del carcere. Trenta passi veloci. Tutto sotto gli occhi vigili di una telecamera che nessuno, però, sta guardando. Ad attenderlo c’è sicuramente un basista. Sono le 18. In tempo per gettarsi nel buio della 131 dcn, con una meta segreta e una variabile di non poco conto, il mare, da attraversare entro la notte, prima che l’allerta possa scattare anche oltre il Tirreno. Ultimo dettaglio, il capo clan aveva in carcere una disponibilità finanziaria evidente. Una fuga che non poteva realizzare da solo. Lo cercano ovunque, ma per adesso non lo trovano. Pisa. La classe pirata di Arturo Checchi La Repubblica, 27 febbraio 2023 Ottobre 2022, carcere di Pisa. Tredici studenti dell’istituto superiore “Arturo Checchi” di Fucecchio (Fi), insieme al loro professore Tommaso Giani, si presentano alla portineria della casa circondariale. Sono di età diverse e di indirizzi diversi della stessa scuola (chi del liceo scientifico, chi del linguistico, chi del professionale), ma a partire da oggi, con la cadenza di due pomeriggi al mese, tutti e 13 comporranno il 50 per cento della “classe pirata” del Checchi. Una classe fuori ordinanza per il fatto di riunirsi dietro le sbarre: formata per metà da studenti adolescenti e per l’altra metà da detenuti. La direzione del carcere di Pisa ci ha approvato un ciclo di 15 incontri disseminati lungo l’arco dell’intero anno scolastico: sempre con gli stessi studenti e sempre con gli stessi detenuti, per favorire una continuità, un approfondimento delle relazioni, un progredire continuo nel percorso didattico. Ma per l’appunto, alla classe pirata di preciso che cosa si impara? Prima di tutto, si impara a raccontare. Materia di studio infatti sono i racconti di vita in prima persona di studenti e detenuti; racconti che in ogni incontro si dipanano a partire da una parola chiave sempre diversa proposta dal professore. Da ottobre a febbraio abbiamo utilizzato le parole “infanzia”, “amicizia”, “paure”, “passioni”, “maestri”, “bugie”, “coppia”. Ma altre ne seguiranno nei successivi 10 incontri, l’ultimo dei quali sarà non in carcere ma a scuola, con alcuni detenuti del nostro gruppo che, avendo raggiunto il fine pena, si recheranno a Fucecchio a trovare i loro “compagni di classe pirata” nelle rispettive aule. In ogni incontro svolto in carcere, gli studenti e i detenuti si dispongono in cerchio e regalano agli altri una pagina di diario, un vissuto, un aneddoto a partire dalla parola chiave del giorno. Buona parte di questi racconti sono molto intimi, quindi sia i ragazzi sia i detenuti preferiscono che non vengano pubblicati. Tutti però sono favorevoli al fatto che questi racconti vengano utilizzati in forma anonima dagli studenti della classe pirata per animare delle ore di lezione con i loro compagni di scuola a Fucecchio: in questo modo la portata del progetto si allarga; a partire dai 13 studenti della classe pirata, i racconti di vita nati in carcere arrivano a decine di altri studenti, per portare nelle classi la vita quotidiana di un detenuto, ma anche temi legati all’affettività e alla gestione delle emozioni, alla cura delle fragilità… tutti argomenti che da questi racconti a cuore aperto emergono con forza e con delicatezza allo stesso tempo, cercando di riempire di senso e di autenticità il cammino formativo degli studenti e quello rieducativo di chi sta scontando una pena. Verbania. Dieci detenuti protagonisti della Via Crucis al Sacro Monte Calvario ossolanews.it, 27 febbraio 2023 Leggeranno le riflessioni che hanno scritto con l’aiuto di due volontarie e del cappellano del carcere don Giovanni Antoniazzi. Dieci persone detenute nel carcere di Verbania hanno meditato sulla passione di Gesù rendendola attuale nelle loro esistenze. Saranno loro, il 5 marzo, lungo la via Crucis che sale al Sacro Monte Calvario, a leggere le riflessioni che hanno scritto con l’aiuto di due volontarie e del cappellano del carcere don Giovanni Antoniazzi. Convinta che l’elemento spirituale sia una componente importante in qualunque persona e quindi anche nelle persone detenute, la direttrice della casa circondariale di Verbania, Stefania Mussio, con il vice presidente dell’ente di gestione dei Sacri Monti del Piemonte Maurizio De Paoli, raccogliendo l’invito del rettore del Calvario don Michele Botto, si è impegnata nell’organizzare la partecipazione con le persone detenute a una domenica delle vie Crucis Quaresimali al Sacro Monte Calvario. Da circa un mese i detenuti stanno preparando le meditazioni. “Abbiamo pensato che sarebbe stato importante esprimere le riflessioni secondo i sentimenti che si provano nella detenzione - ha spiegato la direttrice del carcere - ; la realizzazione del progetto è possibile grazie anche alla sensibilità e all’attenzione della polizia penitenziaria”. “Per i detenuti è stato un momento molto importante - ha detto il cappellano don Giovannni -. Si sono immedesimati nel Salvatore del mondo, per noi cristiani. Gesù attraverso la sofferenza ha portato qualcosa di migliore nel mondo. Così anche chi soffre può sentire vicino a lui la presenza del Signore. Si tratta di detenuti che già possono uscire per il percorso riabilitativo. Hanno aderito anche persone non credenti o di altre religioni”. Alla conferenza di presentazione era presente un detenuto che ha scritto una meditazione. “Grazie alla direttrice che ci dà l’opportunità di fare tante cose, alle volontarie che ci sostengono moralmente e al cappellano. È stata una bella emozione, nuova, la fede - ha ammesso - mi è stata trasmessa dalla mia famiglia, da bambino seguivo il catechismo e frequentavo l’oratorio”. “Grazie alla direttrice del carcere - ha detto il comandante del reparto ispettore superiore della casa circondariale di Verbania Simone Paolucci - Senza una figura che dia uno stimolo a mantenere i rapporti con l’esterno non potremmo mai realizzare queste iniziative. Il carcere è visto come un mondo a sé, sta nella capacità di chi dirige l’istituto di creare un ponte con l’esterno e concretizzarlo”. Un appuntamento quello del 5 marzo, che il rettore invita a vivere andando oltre la curiosità spingendosi ad una riflessione sulla realtà della detenzione. “Che non è la realtà della punizione per ciò che hai fatto -ha detto don Botto- ma un cammino dove ti prepari a capire che nella vita si può sbagliare e si può ricominciare. I detenuti non si devono sentire soli, c’è una comunità che li sostiene e li incoraggia a vivere il tempo della detenzione, come un tempo della speranza”. La voglia di pace dallo spirito pacifista sbiadito di Enzo Risso Il Domani, 27 febbraio 2023 L’80 per cento degli italiani è particolarmente sensibile e attento al tema della pace e il 17 per cento ha una posizione di disinteresse verso i conflitti. Tra i giovani under trenta anni troviamo la quota più alta di soggetti disinteressati ai conflitti e a quanto succede nelle altre parti del mondo (33 per cento). Il 42 per cento dell’opinione pubblica spinge per una politica e delle scelte nazionali e globali che favoriscano l’eliminazione completa e totale dei conflitti e delle guerre dalla mappa del globo. Le vicende della guerra in Ucraina e le reazioni che attraversano l’opinione pubblica italiana consentono di riflettere sul valore della pace e sul tono dello spirito pacifista che è presente nel nostro paese. La guerra scatenata dall’invasione russa ha già avuto tra i civili, secondo i dati Onu, oltre settemila morti e undicimila feriti, mentre le vittime militari, tra russi e ucraini, assommano a circa 100mila persone. In base ai dati dell’Atlante delle guerre e dei conflitti, nel mondo, sono in corso 34 guerre. Dallo Yemen, alla Siria, dalla Repubblica democratica del Congo al Myanmar, ad Haiti. Nel solo Sahel, tra Mali, Burkina Faso, Niger occidentale, nel 2022, ci sono stati 2800 attacchi orchestrati da gruppi estremistici islamici. Ci sono i conflitti latenti come in Kosovo, Nagorno-Karabakh, Taiwan. Senza dimenticare il conflitto in Etiopia, con i suoi 600mila morti civili e 2 milioni e mezzo di sfollati dal Tigray. Il mondo è infiammato dalle armi e la bandiera della pace ha toni e colori sempre più sbiaditi. Sul bisogno e sul concetto di pace gli italiani hanno sensibilità polarizzate. Per il 63 per cento pace vuol dire assenza di conflitti e guerre in tutto il pianeta e tra tutti i paesi. Non solo. L’80 per cento degli italiani è particolarmente sensibile e attento al tema della pace e il 17 per cento ha una posizione di disinteresse verso i conflitti, ritenendoli un problema limitato che riguarda solo paesi lontani da noi. Un dato, quest’ultimo, che raddoppia tra i giovani under trenta anni, in cui riscontriamo una quota più alta di soggetti disinteressati ai conflitti e a quanto succede nelle altre parti del mondo (33 per cento). Tra i baby boomer, invece, l’attenzione e l’apprensione per i conflitti è molto alta e arriva al 91 per cento. Per la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, nel corso degli ultimi dieci anni, il mondo è diventato tristemente meno pacifico e sono lievitate le guerre e i conflitti. Una dinamica che non sembra destinata a regredire. Il 47 per cento dell’opinione pubblica pensa che per il futuro ci dobbiamo aspettare una recrudescenza dei conflitti locali e, il 41 per cento, ritiene che aumenteranno le guerre e gli scontri tra stati. Ad avvertire la possibilità dello sviluppo di nuovi episodi bellici sono, innanzitutto, i ceti medio-bassi e popolari (45 per cento). L’opinione pubblica nazionale, nel suo complesso, è spaccata in due di fronte all’adagio latino “se vuoi la pace, prepara la guerra” (si vis pacem, para bellum). Nettamente avversi a questa visione è il 53 per cento dell’opinione pubblica, in particolare i cinquanta-sessantenni (56 per cento) e gli over sessanta (58 per cento). La necessità di essere ben armati per creare un deterrente alla guerra convince, invece, il 38 per cento della popolazione (la restante quota è incerta e non si esprime), con una punta del 42 per cento tra le persone di età compresa tra i 31 e i 50 anni. Se il no alla guerra e alla corsa al riarmo convince la maggioranza del paese, il 42 per cento dell’opinione pubblica spinge anche per una politica e delle scelte nazionali e globali che favoriscano l’eliminazione completa e totale dei conflitti e delle guerre dalla mappa del globo. Oltre a ciò sono auspicati nuovi interventi a sostegno della cooperazione internazionale (39 per cento) e strategie politiche volte a dare stabilità alle relazioni tra gli stati e dentro le nazioni (37 per cento). Per fermare le guerre ed evitare i conflitti, inoltre, il 32 per cento degli italiani è favorevole alla completa eliminazione delle armi nucleari; il 31 per cento spinge per politiche volte a eliminare la povertà e la fame nel mondo, mentre il 30 per cento auspica una forte ripresa della lotta alle discriminazioni e alle oppressioni dei diritti umani. Sempre per bloccare l’insorgere di conflitti un quarto dell’opinione pubblica si dice favorevole e ritiene necessarie azioni volte a ridurre il gap tra paesi ricchi e poveri, mentre il 14 per cento auspica interventi volti a ridurre i cambiamenti climatici. La spinta verso la pace, il bisogno di pace, è certamente uno dei valori collante dell’opinione pubblica nazionale, anche se con tonalità differenti rispetto al passato. Alcune intensità sono mutate nel corso degli ultimi trent’anni e siamo di fronte al permanere della voglia di pace, ma allo stesso tempo siamo alla presenza di uno spirito pacifista scolorito. La tensione incarnata nella frase “l’Italia ripudia la guerra”, stampata a fuoco nell’articolo 11 della nostra Costituzione mantiene tutto il suo valore, ma il portato di sdegno e rigetto totale che trasuda dalle parole della nostra Carta appare oggi meno vigoroso. Migranti. Il naufragio dell’umanità di Rossana Caccavo e Silvio Messinetti Il Manifesto, 27 febbraio 2023 Strage di migranti al largo delle coste crotonesi. Il bilancio provvisorio è di 43 morti e 80 superstiti, ma si cercano ancora i dispersi. Tra i superstiti tanti ragazzi, minorenni, ma non bambini. I più piccoli sono infatti morti annegati. Mimmo Lucano da Riace: “Una tragedia immane che mi riempie di tristezza. E non bisogna definirli clandestini. Si tratta di gente in fuga dai loro paesi in cerca di un futuro migliore”. Un “carico residuale” giace in fondo al mar Jonio e non sarà mai più recuperato. Un tappeto di teli bianchi plastificati copre decine di cadaveri. Giacciono adagiati davanti una serie di villette bianche a schiera vista mare. Le canne di bambù nascondono dalla statale Jonica la visuale dell’ennesima tragedia dell’umanità migrante. Le margherite fiorite sul prato prospiciente l’arenile incorniciano i corpi recuperati ma vivi. Il bilancio del naufragio del barcone colmo di migranti sulla spiaggia di Steccato di Cutro, venti chilometri a sud di Crotone, fa impressione. Sono rimasti solo i brandelli dell’imbarcazione probabilmente partita da Izimir e affondata tra i flutti del mare di Calabria. Una ecatombe nel silenzio delle spiagge d’inverno. Mentre scriviamo le vittime accertate sono 43, i migranti salvati una ottantina. Ma il motopeschereccio partito dalla Turchia conteneva forse 200 persone. Il comitato di soccorso straordinario riunitosi in Prefettura ha comunicato che dagli elicotteri sono visibili circa trenta corpi non ancora recuperati a causa delle condizioni meteo. Per cui si teme un centinaio di vittime. È una strage purtroppo attesa. Da quando la rotta levantina con destinazione lo Jonio calabrese è diventata una direttrice molto battuta dalle “navi della speranza” era chiaro che prima o poi una siffatta tragedia si sarebbe verificata. Da inizio anno sono un centinaio gli sbarchi e migliaia i migranti approdati nel tratto di costa tra Crotone e Roccella Jonica. Nel disinteresse generale della politica locale e nazionale che oggi versa urticanti lacrime di coccodrillo. In attesa di essere portati al Cara di Isola di Capo Rizzuto gli scampati alla tragedia sono accovacciati tra le dune basse di sabbia e la vegetazione mediterranea, avvolti nelle coperte termiche fornite dai soccorritori. I volti terrei scrutano a pochi metri di distanza la battigia e il mare dove galleggiano i pezzi di legno che rimangono della vecchia imbarcazione andata in frantumi. Tra i superstiti tanti ragazzi, minorenni, ma non bambini. I più piccoli sono infatti morti annegati quando il barcone si è spezzato in due dopo essersi incagliato nelle secche di un mare in burrasca. Il grecale forza 8 fa da contorno alla tragedia. Il cielo plumbeo sovrasta le onde alte 2 metri. Un bambino di 7 anni e un infante di pochi mesi finora risultano nell’elenco delle vittime travolte dalla forza delle acque. Ma la conta dei cadaveri è destinata ad allungarsi. Al momento la macchina dei soccorsi, carabinieri, polizia di stato, prociv, vigili del fuoco, personale del 118, è impegnata a recuperare altri cadaveri dalle acque vicino alla riva. I pickup della Guardia costiera si riempiono di corpi. Non sono nuovi, agli sbarchi, gli uomini e le donne delle forze dell’ordine, né i volontari della Croce Rossa. Ma sono abituati ad abbracciare, ad accogliere. Ora invece i loro sguardi sono di terrore. Richiamano l’attenzione l’uno dell’altro, in silenzio per rispetto. Le vittime sono state trasportate al Palamilone del capoluogo. Mentre proseguono incessantemente le ricerche dei dispersi. Due corpi sono stati ritrovati a Botricello, dieci km a sud di Steccato. Un altro a Le Castella. Intanto si succede il florilegio di reazioni della politica locale. È imbarazzante. Il sindaco di Crotone Vincenzo Voce dice di provare “dolore per il naufragio”. È lo stesso personaggio che, dopo aver imbarcato nelle sue liste vecchi arnesi del neofascismo crotonese, lascia marcire al freddo sotto il cavalcavia della statale jonica centinaia di migranti nella favela nei pressi della stazione ferroviaria pitagorica. C’è poi il presidente di regione Roberto Occhiuto (Fi) che chiede “aiuto all’Europa che non può far finta di niente” tacendo sulle nefaste politiche xenofobe del governo Meloni. In mezzo a tante parole vuote e ipocrite spiccano le riflessioni di Mimmo Lucano. L’ex primo cittadino di Riace è nel suo borgo dove proprio oggi si sono dati appuntamento centinaia di militanti in sua solidarietà alla vigilia della sentenza d’appello del processo Xenia: “Una tragedia immane che mi riempie di tristezza. E non bisogna definirli clandestini che è un termine discriminatorio. Si tratta piuttosto di gente in fuga dai loro paesi in cerca di un futuro migliore. E per Riace, diventato paese simbolo conosciuto in tutto il mondo, sono stati preziosi cittadini”. E c’è infine il saggio monito dell’Anpi Calabria. “Rifletta la politica, lo faccia il governo con le sue direttive disumane sui soccorsi, sulle Ong, sull’accoglienza diventata un miraggio per tantissimi migranti”, ha affermato il coordinatore Mario Vallone. Basta parlare di migrazioni: sono deportazioni indotte di Luigi Ciotti* La Stampa, 27 febbraio 2023 Nessuno lascia di sua spontanea volontà gli affetti, la casa, affrontando viaggi rischiosi in mano a organizzazioni criminali e in balia degli eventi atmosferici. La tragedia avvenuta al largo delle coste calabresi ci dice che quella barca che dovrebbe farci sentire con-sorti, accomunati da una simile sorte, resta per ora una speranza: il mondo continua a essere diviso in transatlantici e zattere, benestanti e disperati, stanziali e migranti per forza. Sì, perché bisognerebbe smetterla di chiamarle migrazioni: sono deportazioni indotte! Nessuno lascia di sua spontanea volontà gli affetti, la casa, affrontando viaggi rischiosi in mano a organizzazioni criminali e in balia degli eventi atmosferici. Lo fa solo perché costretto da un sistema economico intrinsecamente violento, sistema che colonizza, sfrutta e impoverisce vaste regioni del mondo. Lo fa perché l’Occidente globalizzato, in nome dell’idolo profitto, gli fa terra bruciata attorno offrendogli in alternativa sfruttamento, se non schiavitù. Ed ecco la silenziosa carneficina che si sta consumando da almeno trent’anni sotto gli occhi di un ricco Occidente che finge di non vedere e che, quando non può farlo perché le dimensioni della tragedia lo impedisce, si palleggia responsabilità per poi tornare, passato il clamore, alla sola attività che sembra davvero interessarlo: il conflitto per la gestione del potere. Gestione dalla quale sono derivate distinzioni ipocrite, disoneste, come quella tra “profugo” e “migrante economico” - come se la ferita economica e quella bellica avessero una diversa radice - o espressioni disumane come “carico residuale”, dove l’essere umano è equiparato una volta per tutte a merce, a valore di scambio. Per fermare le deportazioni indotte chiamate “migrazioni” non basta allora stabilire accordi economici con Paesi di provenienza, il più delle volte complici o addirittura agenti della logica di sfruttamento occidentale. Occorre ripartire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti umani, occorre ripartire dal valore inviolabile della persona, dal suo diritto a una vita dignitosa, libera e anche liberamente nomade: nomadismo del sentirsi ovunque a casa su una Terra dove abbiamo davvero imparato tutti a sentirci e ad agire come passeggeri di un’unica barca che procede verso il bene comune, a cominciare da quello di chi, ancora naufrago, chiede di essere riconosciuto e accolto come persona. *Fondatore di Libera e Gruppo Abele Il carico residuale di Andrea Malaguti La Stampa, 27 febbraio 2023 Questo sì che era un bel carico residuale. Venti bambini, due gemelli, un neonato, almeno cento persone crepate in mare a poche bracciate dalle coste calabresi. Ma, appunto, gente da poco. Dunque, chissenefrega. Chissenefrega del terrore che avevano negli occhi quando onde alte come grattacieli hanno spezzato la loro barchetta di legno marcio e il gorgo della corrente li ha risucchiati nell’abisso mentre annaspavano, chiedevano aiuto, aggrappandosi con inutile disperazione agli ultimi istanti della loro brevissima vita. Cosa interessa a noi del freddo, del buio, della paura, che ha strisciato nelle loro pance, nei loro occhi, nel loro cuore, e li ha fatti gridare di terrore prima che l’acqua gli entrasse nel naso, in gola e nei polmoni, fino a cavargli l’ultima bava di fiato? Perché dovrebbe importarci? Che cosa c’entriamo noi con quella gente là (esattamente “quella gente là”, lontana, distante, altra, disumanizzata)? Sono solo nuovi numeri di una statistica buona per i litigi da cortile della nostra politica, che per bocca della premier, di Giorgia Meloni (che deve essere per forza meglio di quello che ha dimostrato ieri, che è sembrata ieri, che ci ha raccontato ieri), con questa distesa di cadaveri appena sigillati in sacchi bianchi sulla spiaggia, non ha saputo fare altro che dire: “Esprimo dolore per tante vite stroncate dai trafficanti di uomini, esigiamo il massimo di collaborazione dagli Stati di partenza e di provenienza”. Sarebbe stato meglio tacere. Non tanto. Ventiquattro ore per risistemare le idee, onorare il lutto, riprendere fiato e provare a uscire dalla propaganda. Invece Palazzo Chigi esige. Alza la voce, perché quello lo sa fare bene. Sbraita e batte i pugni come ragazzini. Rivendica l’amor patrio, l’intangibilità dei confini, il rispetto della nostra storia e tutta l’arcinota enciclopedia del prima gli italiani. Facciamolo pure, da uomini e donne cristiani (non suona ridicolo?). Esigiamo. Ma da chi? Dai talebani dell’Afghanistan? Dai banditi libici e turchi? Dagli ayatollah iraniani che torturano e ammazzano le donne per una ciocca di capelli che esce dal velo? Andiamo a parlare con loro? Gli diciamo: “Scusate fratelli, potreste fare un filo in più di attenzione con questi straccioni in fuga dalla dittatura, dalla guerra, dalla violenza, dai terremoti, dagli sconvolgimenti climatici e persino, pensa che impudenti, dalla povertà?”. Bella idea. Chissà perché non ci aveva pensato nessuno. Stupidi noi, stupidi tutti. Che da anni aspettiamo l’accordo definitivo del buonsenso. Quello che dice: regoliamo i flussi e ciascun governo delle nazioni felici si fa carico della sua parte. Organizziamo campi di accoglienza in Libia e in Turchia. Parliamo coi capitribù, i rais, i capi di Stato e convertiamo i dittatorelli e gli aguzzini di ogni latitudine, rivediamo Dublino, aiutiamoli a casa loro e festa finita. Le soluzioni non mancano. Non sono mai mancate. Magari, a essere incomprensibilmente ottimisti, un giorno (tra molti decenni e un numero tanto incalcolabile quanto irrilevante di migranti disossati nei viaggi della speranza) tutto questo smetterà di essere solo un autoassolutorio, inutile, stucchevole, farisaico esercizio retorico e magicamente funzionerà. Nel frattempo che cosa facciamo? Mentre Von der Leyen chiede di raddoppiare i nostri sforzi (qualunque cosa voglia dire) e Bruxelles si interroga su come, e dove, alzare trumpianamente altri muri, l’Italia si accanisce con le Ong, con le Geo Barents e le Sea Watch (che la Sorella d’Italia si riprometteva di affondare in un memorabile tweet), perché è ovvio che se vanno per mare cercando quegli scappati di casa, quegli scappati di casa avranno un motivo in più per lasciare le loro porcilaie. Puniamo questi finti profeti di speranza, questi comunisti trinariciuti, questi buonisti di pessimo conio, queste ingenue anime belle, questi speculatori camuffati da San Francesco, e tra una legge sui rave party e un condono travestito, impediamo loro di prendere il largo, multiamoli, allontaniamo i loro porti di approdo. Allora vedi come cambiano le cose. E invece le cose non cambiano. Non possono cambiare. Anche se governa la destra più destra di sempre. Se fa la voce grossa. La faccia dura. La gente scappa. Che ci piaccia o no. E rischia di morire, perché è sempre meglio che fare finta di vivere. Benedette le Ong. Benedette davvero. La verità, e basterebbe avere il coraggio di dirlo, è che al di là di quegli idealisti che prendono il mare, a noi elegantissima gente perbene non piacciono i diversi, i fragili, i profughi, quelli che non ce la fanno, non piacciono gli arabi, i nordafricani, i neri. E i pakistani e gli afghani li apprezziamo solo sulle fotografie del National Geographic. Per non parlare dei siriani, che ci fanno pena quando se li inghiotte un terremoto o se si spiaggiano sulle coste greche col profilo bambino di Aylan Curdi. Ve lo ricordate Aylan? Il corpo minuscolo, la faccia bianco latte spiaccicata sulla battigia, la risacca che gli bagna i capelli, la maglietta rossa a scoprire la schiena, le mani rovesciate, i pantaloncini blu, le ciglia lunghe a modellare palpebre chiuse per sempre? Quanto ci hai fatto piangere Aylan, con la tua innocenza? Quanto è stato inutile. Continuiamo a guardare questa massa di disperati con la stessa curiosità che un aristocratico del Settecento aveva per i suoi servi e di questo naufragio calabrese parleremo per qualche giorno ancora, poi tutto sarà come prima, peggio di prima. Sarà semplicemente come se quei cento esseri umani, quei bambini, quei neonati, non fossero mai esistiti. E in fondo è davvero così. La strage dei migranti è una chiamata in correità di Elena Stancanelli La Repubblica, 27 febbraio 2023 Possiamo fermare questi disperati che scappano dall’orrore? No, non possiamo. È solo un dispendio di denaro ed energie. Dobbiamo assolutamente uscire dall’irrazionale, dai “chiudiamo i porti”, dai “sono tutti terroristi”. Questo naufragio è ineludibile. I morti sono sdraiati sulla spiaggia uno accanto all’altro, coperti dai lenzuoli bianchi. Uomini, donne, bambini. Le urla dei superstiti che cercano i parenti le sentiamo, le immagini della barca che si è spezzata nel mare in tempesta ed è andata a fondo sono state riprese dalle telecamere, di fronte alle coste della Calabria. Da dove erano partiti, da quanto tempo navigavano in condizioni precarie, scopriremo quasi tutto. Riusciremo, forse, a dare addirittura un nome a ognuna di quelle persone morte nel tentativo di salvarsi la vita fuggendo da guerra, carestie, crisi climatiche. Pregheremo stavolta per ognuno di loro, come chiede papa Francesco. Ma nessuno di noi saprà mai il coraggio e insieme la paura di chi sale su quelle barche. Nessuno di noi, neanche lontanamente. Per questo ci permettiamo di dire cose senza senso, ci permettiamo di pensare che non avrebbero dovuto partire, se sapevano che era così pericoloso. Perché Alessandro Leogrande potesse scrivere dei 57 morti del venerdì santo del 1997, affogati nel canale di Otranto dopo che la loro nave, la Kater i Rades, era stata speronata da un’imbarcazione della Marina Militare italiana, erano dovuti passare quasi vent’anni. Vent’anni perché la verità fosse finalmente raggiungibile perché fosse evidente non solo il modo in cui quel naufragio era accaduto, ma addirittura che fosse accaduto. Il mare Mediterraneo è una tomba per molti, ma invisibile. Si richiude sulle vite che inghiotte e le fa sparire per sempre, permette l’orrore della mistificazione politica che abbiamo dovuto ascoltare in questi anni. I morti non esistono, gli scafisti si accordano con le navi umanitarie, il traffico è una linea di crociera che trasporta viaggiatori pagati da una parte all’altra delle coste che affacciano sul nostro mare. Spesso la fatica di dover ribadire l’ovvio ci rende pigri, vacilliamo di fronte alla propaganda massiccia, lasciamo perdere. A volte, a forza di saperlo finiamo per dimenticarlo. I morti di ieri servano almeno a questo, a darci di nuovo la spinta per contrastare con tutti i mezzi che abbiamo la disumanità di certe decisioni politiche. Quei decreti contro il salvataggio in mare che ci fanno vergognare. Come italiani, come essere umani testimoni di questa infinita carneficina. Cos’altro ancora deve accadere prima che chiunque senta il bisogno di gridare che questa non è una catastrofe naturale ma il frutto di decisioni dissennate? Quanti altri morti prima che non sia più possibile dire io non lo sapevo, come i tedeschi che vedevano passare i treni piombati? Lo sappiamo, lo sappiamo benissimo. Nel Mediterraneo si muore, da anni. Affondano troppo spesso queste barche di disperati che scappano dall’orrore. Possiamo fermarli? No, non possiamo. È solo un dispendio di denaro ed energie. Dobbiamo assolutamente uscire dall’irrazionale, dai “chiudiamo i porti”, dai “sono tutti terroristi”. Per anni abbiamo cercato di limitare i morti salvando i naufraghi. Lo facevamo noi, la guardia costiera italiana. Quando le leggi sono cambiate hanno iniziato a farlo le navi delle organizzazioni umanitarie. Abbiamo fermato anche loro, almeno, ci stiamo provando in tutti i modi. Con la ridicola copertura morale di quello che è stato chiamato pull factor (fattore di attrazione): se nel mare ci sono i salvatori, aumentano le partenze, diciamo. Falso, falsissimo, smentito da tutti i dati. Smentito oggi da tutti questi morti sdraiati uno accanto all’altro sulla spiaggia, coperti da un lenzuolo bianco. Con un’evidenza ineludibile che è, anche, una chiamata in correità. Il governo dà la colpa ai trafficanti e tace sulla richiesta di una missione di soccorso europea di Giansandro Merli Il Dubbio, 27 febbraio 2023 Una strage di queste dimensioni in acque italiane non avveniva da anni. Cordoglio da Mattarella e dal Papa. Piantedosi e Meloni continuano a ripetere lo slogan “fermare le partenze”. Opposizioni all’attacco. Le Ong: adesso una missione di ricerca e soccorso europea. Una strage di queste dimensioni in acque italiane non avveniva da anni. Il bilancio provvisorio del naufragio davanti alle coste crotonesi di Steccato di Cutro è di 43 morti. Ma all’appello mancano ancora molte persone. Secondo il governo la colpa è solo dei trafficanti. Neanche una parola sull’assenza di soccorsi che siano in grado, nelle diverse aree del Mediterraneo, di evitare le tragedie. Intanto continua la ricerca dei dispersi. Le prime testimonianze avevano raccontato di 250 migranti presenti sul barcone, che non è ancora chiaro se sia esploso oppure finito contro gli scogli a causa del mare agitato. L’ultimo comunicato della guardia costiera parla invece di “circa 120” persone partite dalle coste turche di Izmir quattro giorni fa. Mentre i soccorritori sono ancora impegnati tra le onde si moltiplicano le reazioni istituzionali e infuria la polemica politica. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso “cordoglio” per “l’ennesima tragedia nel Mediterraneo che non può lasciare indifferente nessuno”. Mattarella chiede che “l’Unione Europea assuma finalmente in concreto la responsabilità di governare il fenomeno migratorio per sottrarlo ai trafficanti di esseri umani”. La notizia è arrivata anche in piazza San Pietro dove Papa Francesco, al termine dell’Angelus, ha espresso il suo dolore: “Sono stati recuperati già 40 morti tra cui molti bambini, prego per ognuno di loro, per i dispersi e per gli altri migranti sopravvissuti”. Il pontefice ha poi espresso gratitudine per chi sta portando soccorso e accoglienza. Tra i primi ad arrivare sulla spiaggia di Steccato di Cutro c’è stato il parroco del paese. A don Pasquale Squillacioti la scena è sembrata “un’apocalisse”. “I corpi erano coperti da lenzuola bianche, ho potuto vedere il corpo senza vita di un ragazzino che avrà avuto circa 10 anni. L’apocalisse. E non è la prima”, ha dichiarato. Mentre l’arcivescovo di Crotone monsignor Angelo Raffaele Panzetta ha invitato la politica “a prendere sul serio il dolore di chi lascia la propria terra”. E proprio sul fronte politico infuria la polemica. Tra le prime dichiarazioni è arrivata quella del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha parlato di “tragedia immane” ribadendo che l’obiettivo è “fermare le partenze”. Uno slogan più che una possibilità concreta. Soprattutto in assenza di canali di ingresso legale. Lo testimoniano i numeri: dall’inizio di un 2023 all’insegna del governo più a destra della storia della Repubblica, che in campagna elettorale prometteva di fermare gli sbarchi, gli arrivi via mare si sono moltiplicati per tre. Quasi 15mila a fronte dei circa 5mila dello stesso periodo 2022. Non solo: il barcone naufragato oggi era partito dalla città turca di Izmir. Proprio Piantedosi è stato in missione ad Ankara un mese fa stringendo un patto con il suo omologo Suleyman Soylu. Obiettivo: un maggiore controllo delle frontiere e una più intensa cooperazione di polizia. Alla fine di una trasferta oscurata dalla simultanea cattura del boss Matteo Messina Denaro lo stesso Piantedosi aveva esultato per i risultati raggiunti dichiarando che la Turchia è un partner affidabile, sia nel contrasto dei movimenti illegali che nel rispetto dei diritti umani. Anche la premier Giorgia Meloni ha ribadito l’impegno a impedire le partenze collaborando con gli Stati di origine e transito. Un commento paradossale visto che molte delle vittime venivano da Iran, Siria e Afghanistan. È in paesi governati da regimi dispotici o segnati da anni di guerra che questo governo vorrebbe bloccare le persone? Meloni non ha detto una parola sulla richiesta che viene dalle organizzazioni umanitarie di una missione di ricerca e soccorso europea ed è invece passata all’attacco delle opposizioni: “Si commenta da sé l’azione di chi oggi specula su questi morti, dopo aver esaltato l’illusione di una immigrazione senza regole”. Singolare per la leader di una parte politica che sugli episodi di cronaca, in particolare quando i migranti non sono vittime ma presunti responsabili, ha costruito una larga parte del proprio discorso politico. Evidentemente il governo ha la coda di paglia. Non tanto per il decreto anti-Ong, che generalmente non operano lungo la rotta orientale che arriva da Turchia e Grecia, ma perché gli sbarchi aumentano e in un mare sguarnito di soccorsi, civili o istituzionali, le vittime del Mediterraneo rischiano di moltiplicarsi. “Ora serve mettere da parte gli slogan e far sì che l’Europa sia davvero presente, solidale e compatta nel gestire e controllare i flussi migratori”, ha dichiarato il leader 5 Stelle Giuseppe Conte. Senza chiarire se l’Ue debba occuparsi di soccorsi oppure di respingimenti e rimpatri, come vogliono le destre. Dai gazebo dove si sta votando per le primarie piovono le dichiarazioni dei candidati dem. Stefano Bonaccini risponde alla leader di Fratelli d’Italia: “Cara presidente Meloni, nessuna polemica mentre ci sono morti e dispersi in mare. Ma visto che lei entra nel merito, ribadisco quel che penso: fermare gli scafisti è una priorità, come priorità assoluta deve essere salvare le vite in mare”. Per Elly Schlein “non è accettabile che il Mediterraneo sia diventato un grande cimitero a cielo aperto: questo fa capire quanto sia disumano e contro ogni diritto fondamentale fare dei decreti che hanno il solo scopo di rendere più difficile salvare le vite in mare”. Durissimo il commento del segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni che chiede al governo se quei morti fossero un “carico residuale”, citando l’espressione utilizzata dal ministro dell’Interno mentre a novembre scorso impediva gli sbarchi dei migranti salvati dalla Humanity 1 e dalla Geo Barents. “Siamo stanchi di piangere i morti. Una missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo dovrebbe essere una priorità per l’Italia e per l’Europa”, afferma Fratoianni. Se Oim e Unhcr esprimono dolore per l’ennesima strage e chiedono un più ampio accesso ai canali sicuri, le Ong impegnate nei salvataggi nel Mediterraneo centrale alzano la voce. “Non sono tragedie, sono il risultato di precise scelte politiche. Chi oggi esprime cordoglio, dopo aver voluto un decreto che ferma i soccorsi, non ha alcun rispetto per la vita di queste persone vulnerabili”, attacca Open Arms. Anche Mediterranea punta il dito contro il governo: “Chi, al governo, chiude le frontiere e non apre canali legali e sicuri d’ingresso in Europa, dovrebbe solo tacere. Per rispetto”. Mentre Sea-Watch dichiara: “Intollerabile che l’unica via d’accesso all’Europa sia il mare. L’assenza di una missione di ricerca e soccorso europea è un crimine che si ripete ogni giorno”. Intanto Medici senza frontiere ha messo a disposizione il suo team per attivare un primo soccorso psicologico per i sopravvissuti. Il cordoglio della premier cozza con le sue politiche migratorie noncuranti della vita umana di Vitalba Azzollini* Il Domani, 27 febbraio 2023 In occasione del naufragio di decine di migranti dinanzi alle coste del crotonese, le autorità italiane hanno espresso messaggi di cordoglio, e non poteva essere diversamente. Ma c’è più di una nota stonata in quei messaggi. Le politiche sull’immigrazione del governo, infatti, formulate in spregio alle regole contenute in una serie di convenzioni internazionali, rappresentano la concreta manifestazione sul piano giuridico di un atteggiamento di noncuranza per la vita umana che non solo viola qualunque principio di diritto, ma che contrasta anche con il fondamento della società civile. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in un comunicato ufficiale ha espresso “il suo profondo dolore per le tante vite umane stroncate dai trafficanti di uomini”, aggiungendo che “il governo è impegnato a impedire le partenze, e con esse il consumarsi di queste tragedie”. Peccato che Meloni abbia omesso di chiarire cosa significhi “impedire le partenze”. In termini astratti, ciò significa collaborare con le autorità dei paesi di partenza dei migranti per fermare chi provasse a uscirne. In termini concreti, l’azione si traduce nel sovvenzionare le guardie costiere di quei paesi affinché operino un controllo dei confini, quindi dei flussi migratori, con qualunque mezzo. Ciò comporta, innanzitutto, delegare a tali Paesi eventuali respingimenti - non si fa distinzione tra chi avrebbe diritto a protezione internazionale e chi invece no, in violazione della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (art. 33) - con le connesse violazioni dei diritti umani. Insomma, la collaborazione con quegli Stati è un modo per non “sporcarsi le mani”. Impedire le partenze significa anche consentire, come nel caso della Libia, di intercettare i migranti che si apprestano a prendere il mare per portarli nei centri definiti “di accoglienza”. Negli ultimi anni sono state documentate dall’Onu violazioni dei diritti umani da parte delle autorità libiche, con detenzioni arbitrarie in condizioni disumane all’interno di quei centri ove, peraltro, le organizzazioni internazionali hanno accesso limitato e non possono monitorare la situazione e fornire assistenza come servirebbe. Centri nei quali avvengono orrori inimmaginabili: così il segretario generale per i Diritti umani dell’Onu, Andrew Gilmour, definì le atrocità commesse nei confronti dei migranti. Ma di questo la presidente del Consiglio non parla. Anzi, in occasione dell’ultimo viaggio in Libia, Meloni ha chiesto alle autorità del paese di “fare più sforzi contro migrazioni irregolari” e promesso cinque motovedette per consentire alla Libia di svolgere in modo ancora più efficace l’attività di controllo delle frontiere. Del resto, l’Italia segue la strada della “esternalizzazione delle frontiere” a partire dal memorandum di intesa Italia-Libia, siglato nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, poi rinnovato in seguito, con la finalità esplicita di tenere i migranti al di fuori dei confini italiani. Ma la responsabilità non è solo italiana. Dal luglio 2017, l’Unione europea provvede a formazione e supporto delle autorità costiere libiche per contrastare l’immigrazione irregolare. E nel piano d’azione della Commissione europea per le migrazioni del 2020 si prevedono “finanziamenti esterni per affrontare le sfide migratorie” al fine, tra l’altro, di “rafforzare le capacità di Tunisia, Egitto e Libia, in particolare, di sviluppare azioni mirate congiunte per prevenire le partenze irregolari”. Sarebbe ipocrita negare che ci sia una sorta di “complicità” ufficializzata rispetto alle attività più o meno legali poste in essere dagli organismi libici per fermare chi volesse partire. Ed è una forma di ipocrisia parlare della necessità di impedire le partenze, e non invece di quella di allestire una qualche forma di azione di soccorso coordinata a livello europeo - una sorta di operazione Mare Nostrum - per evitare che le persone continuino a morire in mare. Le politiche di Piantedosi - Anche il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha espresso con un comunicato il proprio “profondo cordoglio per le vite umane spezzate”, manifestando come Meloni la necessità di “fermare le partenze” alimentate dal “miraggio illusorio di una vita migliore”. Al ministro sembra sfuggire che, in assenza di vie di immigrazione legale, il bisogno di fuggire dal proprio paese per aspirare a condizioni di vita migliori per sé e per la propria famiglia viene comunque perseguito attraverso altre vie; e che l’Italia non prevede forme di entrata regolare, salvo qualche migliaio di migranti che, a seguito di un lungo iter burocratico, possono entrare attraverso il cosiddetto decreto flussi. Detto questo, nel mentre esprime dolore per i morti nel naufragio, Piantedosi pare non tenere in considerazione il fatto che le sue politiche non tutelano la vita in mare come servirebbe, e non solo per un principio di umanità, ma per espressa previsione delle convenzioni internazionali. Appena insediatosi al Viminale, il ministro vietò a due navi di organizzazioni non governative (ong), che avevano effettuato il salvataggio di migranti, di entrare nelle acque territoriali. Ciò nel presupposto che certi interventi da parte di imbarcazioni private non siano mere operazioni di salvataggio, ma possano costituire favoreggiamento di immigrazione irregolare, cioè un preventivato e intenzionale trasporto di migranti per favorirne l’ingresso illegale sul territorio nazionale. Abbiamo più volte sottolineato come questa “presunzione di colpevolezza” sollevi molti dubbi in punto di diritto. Poi il ministro ha proseguito con un decreto che consentiva solo sbarchi selettivi, cioè di persone fragili. Il tribunale di Catania ha ritenuto illegittimo tale decreto poiché in violazione dell’obbligo previsto da convenzioni internazionali di far sbarcare tutti i naufraghi, sollecitamente e senza distinzioni. Piantedosi è successivamente passato alla pratica di assegnare alle navi di soccorso un porto di sbarco lontano. Pratica che lo stesso tribunale di Catania ha indirettamente criticato, escludendo la legittimità di una prolungata permanenza a bordo delle persone recuperate in mare in situazioni di pericolo. L’assegnazione di un porto di sbarco distante molte miglia di navigazione è stata stigmatizzata, peraltro, anche dal Consiglio d’Europa, che ha sottolineato come essa prolunghi la sofferenza dei migranti, ritardandone la discesa a terra, aggravando il loro stato di salute spesso già compromesso ed esponendoli ai potenziali pericoli delle avverse condizioni meteo. Piantedosi, peraltro, potrebbe soddisfare l’esigenza di ridistribuzione dei migranti sul territorio nazionale anche dopo lo sbarco. Il ministro ha continuato la sua opera attraverso il decreto sulle navi delle ong (d.l. n. 1/2023). La disciplina prevede, tra le altre cose, che dopo la prima operazione di soccorso le navi debbano raggiungere senza ritardo il porto indicato dall’autorità competente, non potendo procedere a salvataggi multipli. È palese l’intento di ostacolare le attività delle imbarcazioni delle ong, costringendole dopo il primo intervento ad abbandonare al loro destino ulteriori natanti in difficoltà, salvo specifica autorizzazione dell’autorità. Ciò è in palese violazione del diritto internazionale: tutte le persone in mare devono essere salvate senza ritardo. È inutile continuare a ripetere, come fa Piantedosi, insieme ad altri esponenti di governo, che non si può entrare in Italia senza permesso di soggiorno, quasi a voler giustificare le proprie azioni nei riguardi delle navi di soccorso. Sia il Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998, art. 10-ter) sia il Regolamento di Dublino (art. 13) prevedono proprio il caso di entrata irregolare, disciplinando le procedure da seguire anche ai fini dell’esame della domanda di asilo, che devono svolgersi necessariamente a terra. Detto tutto questo, appare palese quanto ipocrita suoni oggi il cordoglio per la perdita di vite umane da parte di chi vuole fermare le partenze attraverso politiche e norme che non tutelano la vita umana. *Giurista Don Panizza, dalla gioia per il premio alla rabbia per la strage dei migranti: “Colpa di una politica cieca” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 27 febbraio 2023 Don Giacomo Panizza, all’indomani dell’onorificenza consegnatagli da Mattarella per l’impegno di accoglienza sostenuto nella sua comunità in Calabria, sfoga la sua “rabbia” verso una “politica cieca ancor più che cattiva” per la strage dei migranti davanti alle coste del Crotonese. “Non è che ci vuole la bacchetta magica. ci vuole la politica. È con quella che si evitano le stragi del mare. Invece anche oggi siamo qui davanti ai morti sull’ennesima spiaggia, che questa volta è in Calabria come altre è stata o sarà altrove, e ci tocca ripetere: ancora? Ancora?” Non so se provo più tristezza o più rabbia”. Don Giacomo Panizza, il prete bresciano che ormai negli Anni Settanta venne a Lamezia per fondare la comunità di Progetto Sud, in meno di ventiquattro ore è passato dal sorriso per le telefonate di felicitazioni e complimenti a qualcosa che “non so se è più rabbia o tristezza... ma forse in questo momento più rabbia”. Giusto sabato aveva ricevuto dal presidente Sergio Mattarella l’onorificenza di Commendatore al Merito per il suo impegno sociale dedicato - tra l’altro - proprio all’accoglienza e inclusione dei migranti: in questo periodo tra comunità e appartamenti ne ha “circa 150, come sempre”. E il giorno dopo si è svegliato con le immagini del naufragio di Steccato su tutti i tg. D’accordo, ovviamente rispetto a Lamezia è l’altra costa, quella ionica: “Ma è sempre casa mia, e mi fa male”. E la ragione del suo star male, insiste, va oltre il dolore per quelle morti disperate: “È rabbia per la stupidità, la cecità, l’ottusità, l’irragionevolezza di una politica che va oltre la cattiveria. Basterebbe guardare la realtà e agire di conseguenza”. Cioè? “Basterebbe partire dal fatto che la politica è preoccupata solo di mettere le sbarre a persone che in realtà... ci servono! Qui nella mia Calabria fra tre o quattro anni, con i pensionamenti che arriveranno, non ci sarà più gente per fare i lavori essenziali. Ma neanche nella mia Lombardia. Invece l’unico problema che la politica si pone è come tenerli fuori. Questo da un punto di vista del nostro semplice interesse, che non è quello per me più importante ma capisco che per molti possa esserlo. Qui arriva gente che sa tre lingue, è laureata, sa scrivere, ha mille competenze, invece li mettiamo a raccogliere le olive. Dopodiché , anzi prima, ma ci siamo capiti, c’è il lato umano che non dovrebbe neanche rendere necessari questi discorsi”. E don Giacomo continua per concludere: “La politica non dovrebbe dedicare neanche cinque minuti a porsi il problema di separare i buoni dai cattivi. Di questo si devono occupare altri. La politica piuttosto deve chiedersi perché partono o fuggono da casa, e magari affrontare anche quel problema, non come impedirgli di arrivare. Altrimenti il risultato saranno sempre altri morti su una spiaggia. O in fondo al mare, dove nessuno saprà mai neppure che sono morti”. Giappone. Trentacinque anni nel braccio della morte di Luca Sofri ilpost.it, 27 febbraio 2023 Iwao Hakamada ha atteso per decenni di essere ucciso e ora aspetta la revisione del processo, a 86 anni. L’Alta Corte di Tokyo, in Giappone, deciderà fra meno di un mese, il 13 marzo, se Iwao Hakamada merita una revisione del processo con cui è stato condannato a morte, la prima volta nel 1968 e definitivamente nel 1980, o se la sua condanna alla pena capitale debba essere considerata valida e quindi, in linea di principio, eseguibile. Hakamada è un uomo giapponese condannato per un quadruplo omicidio avvenuto nel 1966. Oggi Hakamada ha 86 anni ed è affetto da problemi mentali causati da una detenzione solitaria durata per quasi mezzo secolo. Si è sempre dichiarato innocente e nel 2014 la sua lunghissima battaglia legale gli aveva garantito un nuovo processo e un’immediata scarcerazione: nel 2018 però l’Alta Corte di Tokyo aveva ribaltato questo verdetto, e il caso è tornato alla Corte Suprema (il quarto grado di giudizio nel sistema legale giapponese), che lo ha rimandato all’Alta Corte: quest’ultima dovrà decidere se fare un nuovo processo. Viste le sue cattive condizioni di salute, gli è stato permesso di attendere il verdetto in libertà. Nel 2011 era considerato il detenuto rimasto per più tempo al mondo in attesa dell’esecuzione della propria condanna a morte (considerando la prima condanna, avvenuta nel 1968, come inizio della sua detenzione). Hakamada è stato ritenuto colpevole dell’omicidio dell’intera famiglia di quello che allora era il suo capo: nel giugno 1966 l’uomo, sua moglie e i loro due figli furono trovati accoltellati a morte a Shizuoka, nel Giappone centrale. Hakamada era un ex pugile, era divorziato e aveva attirato subito le attenzioni della polizia, che dopo un primo interrogatorio lo aveva rilasciato, non trovando prove o possibili moventi. Un mese dopo, con le indagini bloccate, gli investigatori lo avevano convocato di nuovo: gli interrogatori non prevedevano per legge la presenza di un avvocato, ma secondo quanto denunciato dagli avvocati e dalle ong erano durati oltre 240 ore complessive durante 20 giorni, con sessioni anche di 15 ore. Hakamada oggi non è più in grado di esprimersi, né pare comprendere dove si trovi, ma in passato ha detto di essere stato torturato e obbligato a firmare una confessione. Una prima teoria della polizia era che avesse una relazione con la moglie del capo, quella definitiva diventò un tentativo di furto di denaro. Alla confessione estorta si aggiunsero alcuni indumenti insanguinati che la polizia annunciò di aver trovato - ma solo 14 mesi dopo l’omicidio - nella fabbrica di miso (un condimento a base di soia fermentata) dove Hakamada lavorava. Secondo la polizia gli indumenti sarebbero stati immersi in una cisterna di soia per tutto quel tempo, ma nonostante questo avrebbero mantenuto le macchie di sangue. Inoltre i vestiti erano più piccoli della taglia portata da Hakamada, ma l’accusa disse che si erano ristretti perché immersi nel liquido della cisterna. Hakamada fu condannato a morte nel settembre 1968, nonostante le accuse fossero piene di incongruenze. Non ci furono mai altre persone sospettate. Il Giappone ha un tasso di criminalità molto basso e ha un tasso di incarcerazione notevolmente minore rispetto ai paesi occidentali: 36 condannati ogni 100.000 abitanti, contro i 505 degli Stati Uniti o i 96 dell’Italia. Il tasso di condanne però è vicino al 99 per cento dei processi: in parte perché vengono portati in aula quasi unicamente casi in cui il colpevole sia piuttosto chiaro, ma l’abitudine culturale a considerare gli imputati quasi certamente colpevoli provoca enormi storture nel sistema giudiziario, sempre più denunciate negli ultimi decenni e a cui si sta cercando di mettere riparo. La storia di Hakamada è diventata un esempio di queste storture e dei loro effetti: la sua condanna fu ratificata in secondo grado dall’Alta Corte di Tokyo e infine dalla Corte Suprema nel 1980. Subito dopo il verdetto definitivo, Hakamada venne trasferito nel braccio della morte. In Giappone l’esecuzione della condanna a morte può avvenire senza preavviso per il condannato, la famiglia o i suoi legali. Il detenuto viene a sapere della sua prossima uccisione solo poche ore prima della stessa e vive prevalentemente in una cella singola, in quasi totale isolamento. Per oltre 40 anni per Hakamada ogni giorno poteva essere l’ultimo, cosa che ha con ogni probabilità contribuito alla degenerazione delle sue condizioni mentali. Subito dopo la condanna definitiva cominciò la battaglia legale per ottenere un nuovo processo, divenuta più intensa e sostenuta a livello internazionale negli anni Duemila. Nel 2008 i suoi legali ottennero infine che il sangue ritrovato sugli indumenti fosse sottoposto a un test del DNA: risultò non compatibile con quello del condannato e delle vittime. Hakamada fu scarcerato in attesa di un nuovo processo nel 2014, ma nel 2018 l’Alta Corte di Tokyo dichiarò il test del DNA non ammissibile. La Corte Suprema ha accolto l’appello della difesa nel 2020, invitando l’Alta Corte di Tokyo a valutare se celebrare un nuovo processo: indipendentemente dagli esiti del test del DNA, bisogna stabilire se è possibile che le macchie di sangue siano rimaste intatte dopo l’immersione nella soia per 14 mesi. Hakamada attende la decisione finale in compagnia della sorella maggiore Hideko, oggi novantenne: quest’ultima sostiene che dopo la liberazione le sue condizioni di salute siano lievemente migliorate, anche se “vive nel suo mondo e non sembra rendersi conto di quanto accade intorno a lui”.