Ministro Nordio, ecco cosa va cambiato nel 41 bis di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 26 febbraio 2023 La Cassazione ributta la palla nel campo della sfera politica. Molto di ciò che potrebbe (o non) accadere di tragico è nelle mani e nella coscienza del Guardasigilli. La decisione della Cassazione su Alfredo Cospito ributta la palla nel campo della sfera politica, dove sin dall’inizio essa vagava. Molto di quello che potrebbe accadere (o non accadere) di tragico nei prossimi giorni è nelle mani e nella coscienza del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Potrà sempre in autotutela decidere di revocare il regime di cui all’articolo 41 bis, secondo comma, dell’Ordinamento Penitenziario e determinare lo spostamento di Cospito nel regime di AS1 dove ci sono i soli detenuti declassificati dal regime durissimo di 41 bis. L’ho qualificato durissimo per distinguerlo dal regime penitenziario AS1 che è a sua volta duro. Tutto il dibattito pubblico sul 41 bis sembra spingere verso la narrazione di una vita in carcere che sia solitamente ben poco afflittiva e che giustifichi l’adozione di misure particolarmente severe in un caso come quello del detenuto anarchico. Non è così. Affermarlo significa non conoscere la realtà penitenziaria. Dall’inizio dell’anno sono già morte venti persone nelle prigioni italiane ed è dovere morale, prima ancora che giuridico, evitare che a breve ne arrivi una ventunesima. Nelle mani del Ministro è anche il tema più generale del regime 41 bis visto che, nei numeri (aumentati addirittura rispetto al 1992) e nelle pratiche, ha esondato rispetto alle finalità originarie e ai contenuti voluti trent’anni addietro per contrastare lo stragismo mafioso. Il regime, così come oggi funziona, è il frutto di norme e circolari del Dap che si sono stratificate negli anni, andando a modificare un impianto originario che aveva l’obiettivo di ridurre i contatti dei capimafia con il loro mondo all’esterno del carcere. Dunque è nelle mani del Guardasigilli riportare il regime 41 bis nei confini suggeriti dalle Corti interne e internazionali, dal Garante Nazionale delle persone detenute, dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. In alcuni casi sarebbe necessario intervenire legislativamente, in altri con atto amministrativo. Vediamo in cosa potrebbero consistere alcune di queste necessarie e indifferibili modifiche: restringere l’area dei reati per i quali è prevista la possibile applicazione del regime; introdurre un limite massimo di durata della misura evitando che si muoia in quelle sezioni o che si passi direttamente dal 41 bis alla libertà; prevedere l’espressa non cumulabilità del regime con altre forme di isolamento (disciplinare o diurno); non prevedere sotto-insiemi del regime ancora più rigidi del 41 bis; aumentare il numero dei colloqui e delle telefonate, affidando la funzione di prevenzione alle modalità di fruizione; assegnare, nel rispetto del principio del giudice naturale precostituito per legge, la competenza sul reclamo contro la decisione del ministro al Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente in base al luogo di detenzione della persona reclusa e non a quello di Roma come è oggi; assicurare una socialità degna di questo nome, seppur con le adeguate attenzioni ai profili criminali; rispettare senza eccezioni le decisioni assunte dalla magistratura di sorveglianza in sede di accoglimento dei reclami presentati dai detenuti; garantire non meno di quattro ore fuori dalla cella a contatto con altre persone, comprese le due ore di permanenza all’aria. È questo un piccolo breviario per riportare il regime dentro i confini della legalità internazionale e interna. Cambiando tema, è sempre nel potere del Ministro ridisegnare quel codice Rocco che è la madre di molti dei problemi che affliggono il nostro sistema penale e penitenziario. Una parte dei delitti contro la personalità dello Stato presenti nel codice del 1930 è un residuo di quella cultura illiberale e fascista di cui il codice Rocco trasuda. Così come spetterà al Ministro Nordio scegliere di non costituirsi davanti alla Corte Costituzionale quando questa, speriamo a breve, dovrà decidere se abrogare un altro tassello della legge Cirielli sulla recidiva, ossia quello la cui applicazione ha determinato la pena dell’ergastolo per Cospito, pur in assenza di persone morte. Cosa che invece il Ministro non potrà fare è trasformare in scelta etica la questione dell’alimentazione forzata. In questo caso il tema è solo ed esclusivamente legale e giuridico. La scelta di Cospito di non mangiare è nella sua sfera di auto-determinazione ed è già giuridicamente protetta. *Presidente di Antigone “Troppi detenuti al 41 bis, così il sistema rischia di saltare” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 26 febbraio 2023 Sebastiano Ardita, pm antimafia per anni al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Dovremmo smetterla con questo dibattito da strada sul 41 bis, rimettendo le cose in ordine, distinguendo compiti e responsabilità tra politica e magistratura, e ragionando sulle conseguenze sistemiche delle scelte su singole vicende come il caso Cospito”. Sorpreso della decisione della Cassazione? “No. E mi stupisco degli addetti ai lavori che lo sono”. Perché? “La Cassazione era chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento su Cospito. E il provvedimento è legittimo, perché è scritto bene e rispetta i due parametri sul 41 bis: tipologia di reato (mafia o terrorismo) e grado di pericolosità delle comunicazioni esterne”. Dunque la questione non è di legittimità? “A mio parere no, ed è stato un errore enfatizzare questa dimensione del problema, caricando il giudizio della Cassazione di un’aspettativa salvifica e risolutiva”. Qual è dunque la dimensione centrale del problema? “La questione di opportunità, ovvero la valutazione discrezionale sull’utilizzo dello strumento del 41 bis nel caso concreto. Una valutazione che non può essere né scaricata, né rivendicata dalla magistratura”. A chi appartiene? “Al ministro. Non a caso la legge attribuisce a lui, e solo a lui, il potere di disporre il 41 bis. La magistratura non ha questo potere. Può solo sindacarne l’eventuale illegittimità, non l’inopportunità su cui entrano in gioco valutazioni di politica criminale più ampie, se non strategiche”. Lei come si sarebbe comportato? “Guardi, voglio essere sincero. Dipende dal ruolo”. Che intende dire? “Se fossi stato il pubblico ministero del processo in cui Cospito è imputato per strage, avrei espresso parere favorevole alla misura. Se fossi stato al Dap, avrei ragionato diversamente”. Perché in modo diverso? “Perché il pm ragiona nell’ambito di un perimetro giudiziario, con un obiettivo immediato e non deve occuparsi di questioni di politica criminale”. Invece il ministero? “Deve porsi anche altre domande: come incide il caso concreto sul sistema penitenziario in generale? Che tipo di conseguenze comporta l’applicazione del 41 bis a una particolare tipologia di detenuto come Cospito? Siamo in grado, e come, di gestire l’onda di reazioni che suscita?”. Nordio sarebbe potuto giungere a conclusioni diverse dalla linea dura? “Non credo. Il suo predecessore ha ritenuto di applicare il 41 bis a Cospito. Come avrebbe potuto non confermarlo, senza passare come un ministro lassista nei confronti della violenza politica organizzata, tanto più in questo contesto politico?”. Come giudica le polemiche politiche di queste ore? “Sterili. Su un tema così delicato, lo Stato non può essere in balia della pubblica opinione: un giorno buonisti, un giorno inflessibili. In un Paese serio si stabilisce una linea e la si difende”. E ora? Se la salute di Cospito peggiorasse ulteriormente? “In questa materia è difficile riannodare i fili dopo averli srotolati. Bisognava pensarci prima”. Quando? “Secondo lei, se non fosse stato dato il 41 bis a Cospito se ne sarebbe accorto qualcuno?”. È un argomento decisivo? “È una valutazione costi-benefici da fare sempre. Tanto più nei confronti di un anarchico. Conviene sovraesporre uno strumento così strategico nella lotta alle mafie per un detenuto di questo tipo?”. Il regime di alta sicurezza non è una soluzione praticabile? “Lo sarebbe, se non fosse stato svuotato di senso. Con le celle aperte e la riduzione dei controlli, di fatto è bassa sicurezza. Per cui i pm chiedono 41 bis anche a chi non ne avrebbe bisogno”. Il 41 bis rischia di saltare? “Sta già saltando, e non da oggi. Questo caso mostra una crisi che viene da lontano”. Che tipo di crisi? “La spia è il numero di detenuti al 41 bis. Oltre 700: troppi. Il numero fisiologico sarebbe intorno a 500”. Perché? “Si ricorre al 41 bis con troppa leggerezza, esponendolo a rischi di tenuta. Come si è fatto estendendo ai reati di pubblica amministrazione il regime che condiziona i benefici penitenziari a chi recide i legami criminali. Ma trattare un boss mafioso come un vigile urbano condannato per peculato ha creato contraddizioni normative e alla fine indebolito lo strumento”. Il 41 bis va ripensato? “No, va usato bene. Nel 2002 il sistema stava saltando: in un anno furono annullati dai tribunali di sorveglianza ben 72 decreti ministeriali. Si lavorò sia a livello organizzativo che normativo per metterlo in sicurezza, riuscendo nell’intento con la riforma del 2009. Quelle regole sono ancora valide. È il cattivo uso che lo corrompe”. Si rischia un cedimento? “Questo dipende, ancora una volta, dalla politica. Da quanto ci crede, dall’uso che vuole farne. E dalla consapevolezza che ogni singola scelta ha un effetto di sistema”. Cospito, il punto di non ritorno di Carlo Bonini La Repubblica, 26 febbraio 2023 Dopo la sentenza della Cassazione, Alfredo Cospito ha deciso di continuare lo sciopero della fame. E gli anarchici minacciano di colpire duro. Lo Stato potrebbe essere superiore e trovare una soluzione. In meno di quarantotto ore, il caso di Alfredo Cospito ha compiuto un ennesimo, drammatico, salto di qualità, avvicinandosi pericolosamente a un punto di non ritorno. Per il destino infausto cui l’anarchico detenuto al 41 bis e condannato all’ergastolo ostativo ha ribadito di non volersi sottrarre, perché fermo nella prosecuzione dello sciopero della fame (ieri, il suo avvocato Flavio Rossi Albertini ha parlato di “una speranza di salvargli la vita ormai ridotta al lumicino”). Per un lungo documento con cui un sedicente “Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria - Consegne a domicilio”, inscritto nella galassia della Federazione anarchica informale (Fai), nel rivendicare un ordigno incendiario inesploso nei giorni scorsi negli uffici del Tribunale di Pisa, annuncia una stagione di “necessaria violenza rivoluzionaria”. La lettura del documento, la truculenza verbale di suoi alcuni passaggi chiave, la definizione degli obiettivi, lasciano addosso la raggelante sensazione prodotta da fantasmi di un altro tempo pronti a irrompere sul proscenio della nostra vita pubblica. “A colpi di esplosivi - si legge - saranno colpite le strutture e mutilati gli uomini del potere. Per ogni morto in mare, in carcere, di lavoro, nei Cpr, non una ma 100 bombe al padronato. Non basteranno mai le vostre telecamere e le vostre guardie a setaccio delle città a impedire di penetrare nei vostri palazzi”. E ancora: “Non saremo frettolosi. Ma, anzi, cauti e lucidi nell’affinare le nostre tecniche per colpire sempre più forte il potere. Arriviamo. Questa non è una minaccia, ma una promessa che abbiamo fatto innanzitutto a noi stessi”. Nella dinamica del piano inclinato, la sorte di Cospito, la sua morte per fame, non sembra più una variabile da scongiurare da parte di chi dichiara guerra allo Stato, ma un sacrificio umano ormai solo atteso per potersi così abbandonare alla vendetta, colpendo un obiettivo accessibile in quegli indistinti chiamati “Stato” e “padronato”. Per questo quel sacrificio umano deve e può ancora essere evitato. Con un atto che non sia di resa, ma che faccia parlare allo Stato il linguaggio della nostra Costituzione, dei suoi principi democratici. Impedendo dunque che un uomo affidato alla sua custodia possa morirne, quali che siano le sue responsabilità accertate in giudizio. Non si tratta evidentemente di sconfessare la pronuncia di venerdì scorso della Cassazione sulla legittimità del 41-bis disposto per Cospito, per altro risultante di una dialettica all’interno della magistratura che ha visto autorevoli pareri di segno opposto (dalla Procura generale, al procuratore nazionale antiterrorismo). Si tratta, nell’autonomia che la politica rivendica legittimamente a se stessa, di trovare uno spazio che metta in sicurezza la vita di Cospito, disinnescando la dinamica dell’odio. Che dimostri a chi predica e promette violenza che lo Stato non uccide nelle sue carceri e non concepisce la pena detentiva come una condanna a morte. Per farlo serve coraggio. Serve un atto di lungimiranza politica che, pur garantendo un regime di sorveglianza adeguato a Cospito (non esiste solo il 41-bis), dismetta la retorica dello scontro. Perché la fermezza democratica, il rispetto delle leggi e delle sentenze, non hanno nulla a che vedere con il florilegio di dichiarazioni che, ancora ieri, in modo irresponsabile, hanno segnato la giornata politica. Dire, come ha fatto il sottosegretario di Fdi alla giustizia Delmastro, che “c’è chi, come Messina Denaro, sta peggio di Cospito”, o, come ha fatto il deputato di Forza Italia Flavio Tosi, che “lo Stato non cede ai ricatti e non sentirà la mancanza di un delinquente come Cospito”, è un atto di violenza verbale che chiama soltanto altro odio. Di cui nessuno avverte il bisogno. A meno di non ritenere, nella logica del tanto peggio tanto meglio, che il ribollire di rancore e violenza verbale di cui il documento dal “Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria - Consegne a domicilio” è testimone sia una cornice politica auspicabile in cui precipitare il Paese e la sua opinione pubblica. E dove ogni genere di mano può essere tentata dal mettersi al lavoro. Coraggio: “La legittimità del 41 bis non si discute ma lo Stato deve evitare la tragedia” di Liana Milella La Repubblica, 26 febbraio 2023 “Il caso Cospito scuote le coscienze di chi, come me, crede nella sacralità della vita”. E ancora: “Lo Stato faccia il possibile per evitare una drammatica conclusione”. Gli attentati anarchici? “Sono un danno per Cospito e lo fanno apparire come un capo”. Parole dell’ex presidente della Consulta Giancarlo Coraggio. La Cassazione spegne le speranze di togliere il 41bis a Cospito. Che ha interrotto gli integratori, e rischia di morire in tempi brevi. Lei vede una via d’uscita? “Mettiamo innanzitutto due punti fermi. Il primo è che la legittimità in astratto del 41bis non è in discussione né da parte della Corte costituzionale, né della Corte di Strasburgo. Il secondo è che non è neppure in discussione la correttezza dell’estensione del 41bis ai gravi reati di cui è imputato Cospito. Allora sul tavolo restano due questioni di fatto. La prima è se per Cospito esistono le condizioni previste dal 41bis. La seconda è se le misure del carcere duro siano giustificabili in generale per un detenuto che ha commesso gravi reati”. Due magistrati autorevoli, il procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo e il Pg della Cassazione Piero Gaeta, hanno ipotizzato, in modi e tempi diversi, che il 41bis non sia del tutto giustificato e che possa essere sostituito dall’Alta sicurezza, una sorta di 41bis attenuato. Non sarebbe una buona via di uscita? “In punto di fatto io non ho sottomano gli elementi di cui sono in possesso i giudici e il Pg. Ma debbo constatare che, sotto questo 41bis, c’è la firma di Marta Cartabia, che nessuno può accusare di essere una feroce giustizialista. Tutti abbiamo potuto constatare la sua sensibilità umana rispetto alla situazione dei detenuti durante il viaggio nelle carceri”. Certo a chiedere il 41bis erano stati i pm... “Infatti nel caso Cospito ci sono stati plurimi gradi di giudizio e mi pare si possa dire con certezza che i principi fondamentali del giusto processo sono stati rispettati. In queste condizioni, oggi, non possiamo che attenerci al dictum della Cassazione. E qui viene fuori il secondo problema, e cioè se tutte le misure previste dal 41bis siano giustificabili”. Su Repubblica il costituzionalista Azzariti dice che il 41bis va rivisto. Lei non pensa che questa sarebbe l’occasione giusta? “In effetti, se il 41bis nel suo complesso non è in discussione, le singole misure possono ben essere riesaminate. È stato fatto ripetutamente in passato, davanti alla Corte di Strasburgo è stato sollevato il caso Provenzano, e cioè l’applicazione del 41bis in presenza di una malattia, e la Corte dei diritti ha accolto l’istanza. Analogamente la nostra Consulta ha dichiarato incostituzionali varie misure, nel 2013 il numero troppo limitato di colloqui con i difensori, nel 2018 l’impossibilità di cuocere i cibi in cella, nel 2022 la censura della corrispondenza con gli avvocati, mentre ha respinto la richiesta di poter prendere i libri dall’esterno”. Ma è mai possibile che uno sciopero della fame per 130 giorni non possa smuovere nulla e lo Stato decida che quel detenuto può morire? “Lei pone una domanda che non può non scuotere le coscienze di ognuno di noi. E specialmente in chi, come me, crede nella sacralità della vita. Ma come tecnico mi debbo porre il problema dell’inevitabile portata generale di qualsiasi intervento. Se si ritiene che alcune misure siano “disumane”, ciò vale per Cospito come per qualsiasi altro. La sua vicenda può essere l’occasione giusta per riesaminare dalle fondamenta il regime del carcere duro. Ma resta sempre la possibilità di denunciare singole norme alla nostra Consulta”. Beh, alla Consulta c’è già il ricorso della Corte di Assiste di Appello di Torino sulla possibilità di applicare l’attenuante della lieve entità per le bombe, messe da Cospito, ma non esplose nella caserma di Fossano. Questo dimostra che la stessa magistratura è divisa sul caso tra una linea durissima e una più sfumata... “Io non posso di certo anticipare una decisione della Corte, ma la questione è seria. Proprio tenendo conto della sproporzione tra la pena e l’effetto concreto dell’attentato”. La dura manifestazione degli anarchici in piazza Cavour, mentre i giudici decidevano, dimostra che l’eventuale fine di Cospito potrebbe scatenare reazioni violente. Per garantire la sicurezza dei cittadini cosa non sarebbe utile passare dal 41bis all’Alta sicurezza? “Io temo che queste manifestazioni minacciose siano di per sé un danno per Cospito perché producono un irrigidimento della risposta dello Stato. Non solo, ma fanno apparire Cospito come un indiscusso leader anarchico”. Più di un esponente della Chiesa suggerisce riservatamente un gesto di mitezza nei suoi confronti. Il garantista Nordio potrebbe permetterselo? “Proprio a causa di queste aperte minacce il passo sarebbe percepito non come un gesto di mitezza, ma di debolezza. Probabilmente deve passare un po’ di tempo e si devono calmare le acque per affrontare la questione in modo più sereno”. E non pensa al grosso rischio che nel frattempo Cospito se ne vada per sempre? “Certo deve essere massimo l’impegno dello Stato a tutela della sua salute per evitare una simile conclusione”. Cospito, ultime chance. Ma al 41bis rimane pure il boss in fin di vita di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 febbraio 2023 L’avvocato dell’anarchico pensa ad un differimento della pena per motivi di salute. La Cassazione però la rifiuta ad un mafioso 88enne che ha rifiutato le cure. Alfredo Cospito è determinato ad andare “fino in fondo” con lo sciopero della fame e rischia il tracollo ogni giorno. Dopo che la Cassazione ha rigettato il suo ricorso contro la conferma del 41bis decisa dal Tribunale di Sorveglianza, il suo avvocato Flavio Rossi Albertini vede a questo punto “solo vie residuali: la Corte europea dei diritti dell’uomo o il Tribunale della Sorveglianza che potrebbe concedere il differimento della pena per incompatibilità con le condizioni di salute”. Caso vuole però che proprio ieri la Cassazione ha emesso una nuova sentenza dichiarando inammissibile il ricorso presentato dal boss ergastolano Benedetto Spera, di 88 anni, contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Milano di differimento dell’esecuzione della pena, che sta scontando al 41 bis, per motivi di salute. Il boss, fedelissimo di Provenzano, avrebbe rifiutato di sottoporsi a interventi salvavita ritenendoli inutili ai fini di una migliore qualità della vita, data la sua condizione di detenzione. D’altronde, come spiega l’avvocato penalista cassazionista Francesco Petrelli, già segretario dell’Unione delle camere penali italiane, la Corte di Legittimità “si confronta con la motivazione dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, non con il merito del caso”, anche se a volte ci può essere qualche sbavatura. Nelle motivazioni della sentenza che la Cassazione presenterà, a questo punto “ci aspettiamo - prosegue Petrelli - che dica che quella decisione del Tds contro cui Cospito ha presentato ricorso è in effetti congrua, non è affetta da vizi di illogicità manifesta o da contraddizioni, e che ha rispettato le norme di riferimento”. Per Cospito dunque le vie d’uscita non sono molte. Per il momento, il medico che lo ha visitato ieri all’ospedale San Paolo di Milano ha valutato la sua situazione clinica come “sovrapponibile a quella della scorsa settimana”. Ma il detenuto anarchico ha sospeso gli integratori venerdì sera, dopo il “no” degli Ermellini. “I parametri vitali tengono ma siamo in presenza di una grave denutrizione”, ha riferito il dottor Andrea Crosignani, consulente dell’avvocato difensore. Il detenuto 55enne “in questo momento assume acqua, zucchero e sale”, motivo per cui ancora cammina autonomamente e, secondo il medico, le sue condizioni appaiono “stabili”. Ma la situazione “potrebbe aggravarsi di giorno in giorno, perché partiamo da un fisico pesantemente deteriorato con riserva funzionale molto ridotta”. Ma se il nome di Alfredo Cospito rischia di diventare un simbolo che travalica addirittura il mondo dell’anarchismo - in suo supporto ieri sventolavano bandiere e si sono levati slogan perfino nelle manifestazioni contro la guerra a Genova, a Milano, a Bologna e a Torino - lo si deve anche ad una campagna di odio sollevata con calcolo da esponenti della maggioranza di governo che sperano così di ricompattare il fronte malmesso del centrodestra e distrarre le masse. È il caso ad esempio del deputato di Forza Italia, Flavio Tosi: “Lui sciopera per la fame contro il 41 bis? Faccia pure, libero di farlo, non cediamo ai ricatti e non sentiremo la sua mancanza”, arriva a dire l’ex sindaco pistolero di Verona di cui la città scaligera si è infine liberata. Lo stesso dicasi della rivendicazione giunta via mail dell’ordigno artigianale trovato inesploso il 23 mattina davanti al tribunale di Pisa. Nella rivendicazione firmata Fai/Fri gli “anarchici” sbagliano la data della collocazione - il 21 febbraio, scrivono, e non il 22 notte come appurato dagli inquirenti - e ammettono di non sapere “se la deflagrazione sia avvenuta”. La Lega però non perde l’occasione per rilanciare l’allarme “terrorismo” e attaccare l’opposizione, a suo dire troppo silente. Braucci: “Con il suo corpo Cospito farà capire a tutti che cosa è il 41 bis” di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2023 Avvocati e intellettuali a Palazzo Serra di Cassano, incontro sul carcere duro. L’incontro si è tenuto all’indomani della notizia che la Cassazione ha respinto la richiesta di Alfredo Cospito di revoca del 41 bis, il regime del carcere duro contro il quale l’anarchico è in sciopero della fame da quasi quattro mesi. Ieri mattina a Palazzo Serra di Cassano, dunque, si respirava delusione tra i partecipanti alla tappa napoletana della campagna per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo promossa da “Morire di Pena”. La decisione della Cassazione, però, non ha indebolito la volontà di proseguire nella battaglia per Cospito e per gli altri detenuti. L’avvocato Caterina Calia ha sottolineato che il carcere duro è applicato anche a persone le quali non hanno alcuna organizzazione di riferimento fuori dal penitenziario, come tre ex militanti delle Nuove Br, ed a detenuti molto anziani. Valentina Calderone, dell’associazione “Buon Diritto”, ha portato la sua esperienza di quando, da assistente di un senatore, ebbe occasione di entrare nei reparti del 41 bis. “I detenuti - ha riferito - sembravano fantasmi. Vivono sotto terra, con la luce artificiale accesa 24 ore su 24. Nell’ora di socialità passeggiano in un cubicolo di cemento”. E ha ricordato: “La Corte europea dei diritti umani ha sancito che il 41 bis viola la Convenzione euro”Uno pea dei diritti dell’uomo”. L’avvocato Bruno Larosa ha riferito i racconti di alcuni detenuti in regime di carcere duro: mi ha detto che si sveglia alle 5, ma non può neppure prepararsi un caffè, perché gli agenti penitenziari portano il fornelletto in cella alle sette ed alle 19 lo portano via. Un altro mi ha raccontato della privazione dei libri e della foto inviatagli dalla figlia insieme ad una lettera. Il 41 bis è un abominio che si applica, tra l’altro, anche a persone in attesa di giudizio”. E aggiunge: “Il ministro Nordio è in malafede perché proprio lui, anni fa scriveva in merito agli aspetti di disumanità del nostro sistema carcerario”. Un altro avvocato, Domenico Ciruzzi, ha ricordato a tutti che “la barbarie attuale viene dalle leggi speciali degli anni Settanta che furono giustificate in nome della lotta al terrorismo. All’epoca non esisteva il 41 bis, ma c’era l’articolo 90”. Ricordando anche che “dopo Capaci e via D’Amelio il 41 bis fu introdotto in nome della lotta alla mafia. Successivamente è stato ampliato ad altre categorie di detenuti. Nacque come misura - sbagliata ed incostituzionale - temporanea ed emergenziale. Ora la politica si assuma la responsabilità di dire che è cessata l’emergenza”. Maurizio Braucci, scrittore e sceneggiatore: “Cospito ha trasformato il suo corpo in uno strumento che farà capire a tutti cosa sono il carcere ed il 41 bis”. Il carcere duro e le contraddizioni dei finti buonisti di Iuri Maria Prado Libero, 26 febbraio 2023 Su questa faccenda di Cospito, e in generale sul regime carcerario del 41 bis, i destri almeno sono stati netti: quell’anarchico doveva rimanerci, punto e basta; terroristi e mafiosi devono stare in cella ventidue ore al giorno, con due ore d’aria, fine; devono vedere i familiari una volta al mese, chiuso il discorso; possono leggere e ascoltare musica se la cosa garba all’amministrazione penitenziaria, e se no buonanotte. Tu puoi rispondergli che tutta quella roba non ha nulla a che fare con l’esigenza di impedire al detenuto di dar fuori pizzini, che è l’esigenza per cui fu apparecchiato quel dispositivo carcerario: quelli fanno spallucce, ti dicono che non gliene frega niente e la questione è risolta. Puoi essere d’accordo o no, ma c’è una specie di coerenza in quell’impassibilità. A sinistra, invece, cambiano idea quando fa comodo. Siccome devono esibire la patacca antimafia ti dicono che “Il 41-bis non si tocca!”, come ha fatto l’altro giorno il candidato segretario del Pd, ma poi si ingarbugliano sull’appropriatezza della misura quando odorano il caso specifico che magari non compromette troppo i rapporti di servaggio con le procure della Repubblica e con gli influencer togati. E così vanno in delegazione al carcere, guarda caso durante l’imperio del governo fascista, mentre quando al potere ci sono loro i medesimi detenuti possono democraticamente marcire lì dentro e chi se ne fotte. Che è poi quel che succede coi migranti, con la spedizione progressista che va in gommone a misurargli la febbre a patto che a tenerli a mollo ci sia il sovranista, mentre se la carretta del mare va a picco in regime democratico ti saluto. La politica carceraria a norma del codice paraculo. Cospito, allerta massima, l’intelligence: rischio attentati dopo il verdetto della Cassazione di Grazia Longo La Stampa, 26 febbraio 2023 Volantino degli anarchici a Roma: “Se muore, intimidazione a mano armata”. Sale la tensione sul rischio attentati da parte degli anarco-insurrezionalisti. Dopo la sentenza della Cassazione, venerdì sera, che ha stabilito di mantenere l’anarchico Alfredo Cospito al 41 bis, cresce l’allarme sull’escalation di violenza nei confronti di rappresentanti dello Stato e dell’Economia. Il timore è che nei prossimi giorni si possa assistere a un salto di qualità delle rivendicazioni, con il passaggio da episodi incendiari contro automobili o tralicci a quelli ben più gravi contro le persone. Ieri, tuttavia, tutti i cortei a cui hanno partecipato gli anarchici si sono svolti senza particolari disordini. Milano, Torino, Bologna, Genova: quattro diverse piazze in cui gli striscioni in difesa di Cospito si sono confusi con le bandiere per la pace, a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina. Ma l’allarme resta alto. In queste ore le parole d’ordine di forze dell’ordine e intelligence sono “massima allerta” e “consapevolezza del rischio imminente”. Il verdetto della Suprema Corte è infatti ritenuto “altamente innescante”, nel senso che la realtà che si prefigura lascia immaginare scenari non proprio pacifici. Anzi, grande è la preoccupazione che qualcosa di grave possa succedere da un momento all’altro. Dal Viminale trapelano parole rassicuranti perché “vige la massima attenzione ma non un allarmismo”, ma nonostante ciò la macchina organizzativa è concentrata attivamente a prevenire attentati e a monitorare le frange più estremiste della galassia anarchica. Basti pensare al testo del volantino diffuso a Roma che minaccia atti concreti. Si legge: “Una cosa è chiara, l’eventuale morte del rivoluzionario Cospito, già in gravi condizioni di salute ed in rapido peggioramento, segnerà il punto di svolta tra un “prima e un dopo” nella lotta politica tra le classi in questo Paese. Da quel punto, però, non è detto che la piega degli eventi andrà nella direzione auspicata dagli apologeti della tortura del 41 bis”. E non finisce qui, si arriva a pronosticare “un’intimidazione “a mano armata” rivolta innanzitutto contro quei settori di classe rivoluzionari che, nella situazione imposta, decidessero in qualche modo di accelerare il processo di “costruzione delle condizioni dell’offensiva” che da più parti sta facendo capolino tra le maglie di una classe proletaria immiserita e frastornata, sempre più sacrificata all’altare del Profitto, ma sempre meno disponibile a sacrificarsi per l’arricchimento dei padroni”. Tanto basta per incendiare gli animi, perché si teme che il pericolo sia davvero dietro l’angolo. Elevata quindi l’attenzione degli investigatori e degli 007, non solo nei confronti dei gruppi che rivendicano la loro posizione contro il 41 bis, ma anche e soprattutto rispetto ai cosiddetti “cani sciolti”. Singoli militanti che agiscono in maniera del tutto imprevedibile e incontrollata. Non si deve dimenticare che per loro natura sia il Fai (Federazione anarchica italiana), sia il Fri (Fronte rivoluzionario internazionale) non hanno una struttura piramidale con una leadership chiara. Si monitorano quindi i gruppi di militanti sia attraverso la loro partecipazione a cortei e manifestazioni, tipo quelle di ieri pomeriggio, sia nella loro attività di comunicazioni attraverso, appunto, volantini, social media, siti online, compreso quello più complesso da controllare e cioè il dark web per cui è in atto un intenso intervento della polizia postale. Sotto sorveglianza anche sedi significative dello Stato, dai ministeri e Csm a caserme e tribunali, ma anche simboli del mondo economico come l’Eni e le banche. Oltre alla polizia, anche carabinieri e intelligence non abbassano la guardia, consci del fatto che mentre prima della decisione degli ermellini la protesta anarchica era in una fase “attendista”, ora potrebbe puntare più alla “vendetta” e potrebbe quindi diventare decisamente più aggressiva e insidiosa. Sconti e libertà vigilata, la sentenza che fa sperare gli ergastolani di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2023 La Consulta dovrà decidere se la durata della misura di sicurezza (5 anni) può essere ridotta. A giorni arriva la decisione. C’è un caso del quale si sta discutendo alla Corte costituzionale e che potrebbe condizionare le sorti di molti ergastolani. Di certo di quelli condannati prima della strage di Capaci, ma potrebbe riguardare anche altri detenuti. La questione ora al vaglio dei giudici infatti riguarda la legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze sull’istituto della libertà vigilata applicata a quella condizionale, beneficio al quale possono accedere anche gli ergastolani ma solo se ravveduti e dopo aver scontato 26 anni di carcere. Ed è questo il caso di Bruno Ventura, detenuto dal 1993, condannato per associazione mafiosa e per un duplice omicidio commesso negli anni 90. Da tempo Ventura ha un lavoro, ha conseguito due lauree, ha già avuto accesso a permessi e alla semilibertà e non ha più commesso reati. Il Tribunale di sorveglianza di Firenze nell’ottobre 2020 gli ha concesso la libertà condizionale e dopo un anno il suo legale, l’avvocato Michele Passione, si è rivolto al giudice monocratico per chiedere, in sostanza, di riesaminare la pericolosità del proprio assistito in modo da revocare la misura e renderlo libero. Il giudice ha respinto l’istanza e l’avvocato ha fatto appello al Tribunale di Sorveglianza che invece ha portato il caso davanti alla Corte costituzionale. In sostanza il Tribunale - in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione - ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli articoli 177 secondo comma e 230 primo comma del codice penale: sono le norme che regolano l’istituto della libertà vigilata applicata al condannato all’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale. Le questioni sollevate riguardano due aspetti: l’obbligatorietà dell’applicazione della libertà vigilata al condannato all’ergastolo; la durata della libertà vigilata in misura fissa e predeterminata (ossia 5 anni), non essendo prevista per il giudice la facoltà di una sua determinazione in concreto. Del caso si è discusso lunedì 21 febbraio scorso alla Consulta. Davanti alla Corte, sia l’avvocato Passione sia Maurizio Greco, che rappresenta l’Avvocatura dello Stato, hanno spiegato come il caso in esame non riguardi un ergastolano ostativo in quanto i fatti per i quali è stato condannato sono avvenuti prima della strage di Capaci e dunque non è possibile applicare le norme introdotte nel 1992. L’avvocato Passione nel suo intervento ha spiegato come il suo assistito ora sia un’altra persona, avendo anche incontrato i familiari delle vittime dei suoi omicidi, e poi ha elencato, a supporto delle sue tesi, una serie di sentenze che hanno eliminato i meccanismi di rigidità di altre norme. Come pure potrebbe avvenire in questa occasione, se la Consulta dovesse decidere che i 5 anni previsti per la libertà vigilata non rappresentino una durata fissa e prestabilita, ma possa essere comunque valutata caso per caso dai giudici. Un indirizzo che andrebbe in senso contrario alla riforma Meloni che invece ha previsto un innalzamento della durata del periodo di pena da espiare per l’accesso alla liberazione condizionale e l’allungamento della durata della libertà vigilata (dieci anni anziché cinque) in caso di condanna all’ergastolo. Per l’avvocato Passione però “la legge (sulla libertà vigilata, ndr) adotta un modello che esclude ogni apprezzamento della situazione da parte del giudice per imporgli un’unica scelta, che si rivela lesiva del necessario equilibrio fra le diverse esigenze da apprezzare”. E dunque - prosegue nella sua memoria depositata in udienza - “emerge un prepotente dubbio di legittimità costituzionale” rispetto alla misura di sicurezza della libertà vigilata “per suo contrasto logico insanabile con l’accertata cessata pericolosità sociale”. Sono principi non condivisi dall’Avvocatura dello Stato: “Il legislatore ha stabilito che dopo 26 anni esci… - ha infatti detto in udienza l’avvocato Greco -. Se mettiamo in discussione anche questi cinque anni cade tutto il modello. Allora è come se la Corte costituzionale si sostituisse al legislatore. (…) Non si può stabilire se cinque anni siano congrui o meno perché altrimenti ci sarebbe un doppio beneficio: quello perché non si sconta l’ergastolo e si passano in carcere 26 anni; e poi c’è un altro beneficio perché invece di fare 5 anni in libertà vigilata dopo la liberazione condizionale se ne scontano ‘X’ di meno. Questo appartiene al legislatore e la Corte non può intervenire”. Adesso sarà la Consulta a definire la questione con una sentenza: è attesa da qui a pochi giorni e, in base ai termini che porranno i giudici, potrebbe coinvolgere anche altri ergastolani, che così potranno sperare di avere maggiori benefici. Scarcerato perché sordomuto. “Ha diritto a una vita di relazione” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 26 febbraio 2023 Di origini siciliane sconta condanne per furti aggravati e stupefacenti. L’uomo è divenuto un simbolo di giustizia, di un carcere alleggerito dalle afflizioni supplementari che somigliano tanto alla crudeltà gratuita. La storia di F.F., 42 anni, detenuto per una sfilza di furti aggravati, sordomuto dalla nascita e oggi scarcerato perché possa ritrovare il contatto con i suoi simili, comincia a Rebibbia qualche anno fa. Figlio di una famiglia siciliana che lo avvia all’attività criminale, racconta (tramite il linguaggio dei segni) che il padre e lo zio lo spingevano a rubare. Non finisce le elementari, si dedica a piccoli traffici illeciti, conosce una donna con la quale fa un figlio ma che lo tradisce e dalla quale, umiliato, si allontana. Accumula una condanna per stupefacenti prima e altre per furto aggravato poi. In carcere la sua solitudine si converte al linguaggio della rabbia contro sé e contro gli altri. Dà fuoco agli arredi, arriva a tentare di impiccarsi, litiga. Il rapporto con il prossimo è scandito solo da ragioni opportunistiche: una piccola pensione che ha a disposizione lo colloca tra i soggetti di cui approfittare. Paga per tutti il poco che un penitenziario può offrire sotto il profilo degli acquisti. È lui stesso a raccontarlo a padre Savino Graziano Castiglione, il solo che conosca il linguaggio dei sordomuti e dunque l’unico in grado di capire e mediare con la realtà. Il suo caparbio avvocato Ivan Vaccari cerca soluzioni. È pericoloso per la società, certo, ma deve proprio essere confinato? Qualcuno decide di dargli un compito: gli mette un camice e una scopa in mano. F.F. diventa addetto alle pulizie del carcere. È una piccola svolta. Lui indossa quel nuovo indumento con orgoglio. Finalmente ha un ruolo in quella comunità imperfetta che è il carcere. L’uomo che non sente è divenuto degno di rispetto e attenzione. Molti problemi, tuttavia, restano irrisolti: “Il percorso detentivo è vissuto con solitudine ed esclusione”, si legge nella relazione del magistrato di sorveglianza. Lui, intanto, si strugge per ritrovare suo figlio che vive in un altro Paese. Non ha un domicilio che non sia il penitenziario, quindi anche le alternative diventano improbabili. Di nuovo la soluzione appare per caso. Padre Castiglione si rende disponibile a ospitarlo una volta a settimana nella sua missione dove vivono altri sordomuti come lui. È un esperimento. Ma funziona. Il sabato, dalle 12 alle 19, F.F. trova degli amici in quella comunità. La vera svolta, però, arriverà più avanti, quando Vittoria Stefanelli, magistrato di sorveglianza, firmerà l’ordinanza di scarcerazione: F.F. sconterà l’anno residuo di condanna nella missione di padre Castiglione. Una frase di quel documento restituisce al detenuto i suoi diritti e una qualche prospettiva di felicità: “Si ritiene di poter ammettere F. all’esecuzione della pena presso il domicilio (la missione, ndr) in considerazione del fatto che la disponibilità all’accoglienza da parte del citato studentato appare una risorsa da non sprecare e si ritiene che, in questo ambito, possa essere contenuta la pericolosità del condannato e possa essere avviato un reale percorso di recupero garantendogli una reciprocità relazionale con persone sordomute che conoscono il linguaggio dei segni”. Il boss al 41 bis rifiuta le cure per lasciare il carcere duro di Valentina Raffa Il Giornale, 26 febbraio 2023 Benedetto Spera si è rivolto alla Cassazione. Che però ha detto no. Nuovi Alfredo Cospito crescono. Ed ecco che Benedetto Spera, lo storico boss di Belmonte Mezzagno (Palermo), fedelissimo di Bernardo Provenzano, per “gravi motivi di salute” voleva la revoca del 41 bis che sta scontando nel carcere di Opera, a Milano, per essere uno dei responsabili della stagione stragista palermitana del ‘92. “Non accetta cure salvavita” è la motivazione a monte dell’istanza dell’avvocato. Ma per la Corte di Cassazione deve continuare a scontare il carcere duro a vita in quanto, proprio come è accaduto per l’anarchico Cospito, viene sancito che rifiutare le cure o i benefici di cui si potrebbe godere non deve incidere sulla condanna, perché non si tratta di una privazione punitiva imposta al carcerato, ma viene auto inflitta. La Cassazione sottolinea anche il principio di “non strumentalizzare la patologia”. Il legale di Spera ha fatto leva sulle condizioni di salute “di notevole gravità” e sul fatto che il “grave stato di decadimento che affligge il condannato non gli consente di comprendere la necessità di sottoporsi ai trattamenti salvavita”. Tant’è che il boss ha rifiutato un pacemaker. Insomma, non sarebbe in grado di discernere ciò che è per lui vitale anche per il grado di depressione da cui è afflitto. Una tesi che contrasta, però, con gli esiti delle perizie effettuate nei mesi scorsi in carcere, che attestano la lucidità dello stragista e la sua capacità di vigilanza. La Corte di Cassazione ha tenuto conto del parere dei medici e, esprimendosi a seguito del ricorso del legale di Spera contro il parere negativo del tribunale di sorveglianza di Milano alla revoca dell’ergastolo, ha dato anch’essa parere negativo. Il fedelissimo di Provenzano per la Cassazione è anziano, ma lucido e la sua è una scelta consapevole. È il sunto della decisione del collegio giudicante, presieduto da Stefano Mogini, che ricalca il parere espresso per Cospito, sottolineando come, se una persona “lucida” non consente di farsi curare è una sua decisione assunta in consapevolezza. Non può essere una motivazione valida al differimento dell’esecuzione della pena, ossia alla sospensione temporanea dell’ergastolo, il fatto che il boss abbia espresso palesemente di ritenere che gli interventi non cambiano la sua qualità di vita in carcere. Il rifiuto, per i giudici, non è “attribuibile ad ulteriore patologia mentale specifica di Spera, tale da non potersi considerare una scelta consapevole”. Anzi, si aggiunge la condanna al boss a pagare le spese processuali e un’ammenda di 3mila euro. Il nuovo Csm s’impegni per ristabilire la credibilità della magistratura italiana di Nicola Graziano L’Espresso, 26 febbraio 2023 L’organo di autogoverno delle toghe è chiamato a risolvere molte situazioni critiche che si trascinano da tempo. Dalle relazioni con la politica fino alla separazione delle carriere, dovrà dire la sua e muoversi per una maggiore efficienza del sistema giustizia. Non vi è dubbio che le vicende che negli ultimi anni hanno caratterizzato lo svolgimento delle attività del Consiglio superiore della magistratura abbiano minato, e non poco, la credibilità dei magistrati italiani, tanto è vero che con questo dichiarato intento è stato riformato il sistema elettorale. Il tentativo era quello di superare l’egemonia delle correnti ed il sistema di relazione politica-magistratura che ne è alla base, attraverso l’occupazione di ruoli chiave e apicali da parte dei magistrati ordinari, specie nel ministero della Giustizia, così a volte confondendosi ruoli e responsabilità. Ma il sistema elettorale ha prodotto risultati deludenti, presentando una composizione, quanto ai magistrati togati eletti, tra magistrati moderati e magistrati democratici che in sostanza si è concretizzata in due blocchi in contrapposizione. Ancora più deludente è stata la scelta del Parlamento che, ignorando del tutto l’elenco di quanti spontaneamente hanno proposto la loro candidatura secondo le nuove disposizioni normative, ha provveduto a scegliere i componenti cosiddetti laici, al di là della loro indiscussa alta professionalità, secondo un chiaro sistema basato sul riflesso delle forze politiche parlamentari. Si è aperta quindi la votazione del vicepresidente secondo una sorta di ballottaggio tra due candidati, esponenti dei due blocchi in Consiglio, ed è stato eletto l’avvocato Fabio Pinelli, vicino alle posizioni della Lega ma con capacità di relazioni trasversali visto che è socio con Luciano Violante della Fondazione Leonardo e di ItaliaDecide. Il neo eletto ha immediatamente raccolto l’invito del presidente della Repubblica dichiarando di voler prestare sempre ascolto a tutti per auspicabili scelte condivise e meditate. Questa in sintesi la cronaca a margine della quale resta da vedere quali azioni in concreto porrà in essere il nuovo Csm per recuperare autorevolezza e credibilità. Non certamente continuando sulla falsariga di un’azione posta in essere negli ultimi anni dal gruppo di maggioranza che, con protervia e chiusura al dialogo, ha compiuto decisioni a volte troppo partigiane e con il sistema dei due pesi e due misure. Intanto si è dichiarata la necessità di superare la notevole mole di arretrato nei procedimenti di nomina dei direttivi e semidirettivi, non nascondendosi nemmeno che troppe valutazione di professionalità languono davanti a irrisolte situazioni critiche. Sarà questo il Consiglio della trasparenza e dell’efficienza? Sarà questo il Consiglio che con determinazione e senza passi incerti porterà avanti una azione senza compromessi per il bene della magistratura e quindi della giustizia? È presto per dirlo ma è davvero auspicabile perché un cambio di passo rispetto al passato è del tutto necessario. Intanto divampa la polemica su proposte di legge che riguardano l’ordinamento giudiziario, a cominciare dal possibile disegno di legge costituzionale sulla effettiva e reale separazione delle carriere. Anche in questo, e con riferimento a tutti gli atti che attengono all’esercizio della funzione giurisdizionale, il Csm è chiamato a svolgere, con propri pareri, un importante ruolo di interlocuzione. Intanto va sottolineato che per la prima volta nella storia della magistratura italiana, è stata scelta, all’unanimità, una donna come primo presidente della Corte di Cassazione. Curcio indagato 48 anni dopo la sparatoria di cascina Spiotta, l’inchiesta basata su un opuscolo di Carmine Di Niro Il Riformista, 26 febbraio 2023 A quasi mezzo secolo dai tragici fatti di cascina Spiotta, nell’Alessandrino, dove nel 1975 morirono in uno scontro a fuoco Mara Cagol, e un appuntato dei carabinieri, Giovanni D’Alfonso, il nome di Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse e marito della stessa Cagol, è stato inserito nel registro degli indagati dalla procura di Torino. La notizia, anticipata dalla Gazzetta di Reggio e dal Messaggero, è stata confermata all’Ansa da ambienti investigativi. Curcio è stato interrogato a Roma alla presenza del suo avvocature difensore Vainer Burani. Le indagini, svolte dai carabinieri del Ros, sono state aperte dopo un esposto di Bruno D’Alfonso, figlio del militare ucciso. Curcio, secondo quanto appreso dall’agenzia stampa, ha risposto a tutte le domande dei magistrati e ha negato il suo coinvolgimento nell’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso. Curcio, secondo quanto si apprende, era stato convocato come testimone assistito ma a pochi giorni dall’interrogatorio è diventato indagato per concorso nell’omicidio dell’appuntato. Non solo: il fondatore delle Brigate Rosse ha anche chiesto agli inquirenti di chiarire le circostanze della morte della moglie, che in quel periodo era latitante dopo l’evasione dal carcere di Casale Monferrato. In occasione della sparatoria alla cascina Spiotta, avvenuta il 5 giugno 1975, morirono appunto Cagol e il carabiniere Giovanni D’Alfonso. Un’altro carabiniere rimase ferito nello sconto a fuoco e un brigatista riuscì a sfuggire. Nella cascina i brigatisti tenevano in ostaggio l’imprenditore piemontese Vittorio Vallarino Gancia, catturato il 4 giugno dia un commando delle Br. Il caso è stato riaperto dopo un esposto di Bruno D’Alfonso proprio per accertare l’identità del secondo brigatista sul posto. Indagini, quelle di Procura e carabinieri del Ros, fondate anche sull’ascolto di numerosi ex brigatisti, tra cui Alberto Franceschini, che con Curcio e Mara Cagol è stato tra i fondatori delle Br. Curcio nel suo interrogatorio ha fatto riferimento in particolare all’autopsia della moglie, da cui risulta che sia stata trafitta da un proiettile sotto l’ascella: elemento che dimostrerebbe secondo Curcio come in quel momento si fosse già arresa e avesse le mani alzate. Le accuse invece nei confronti dell’ex fondatore delle Br, indagato per concorso nell’omicidio del carabiniere D’Alfonso, farebbero riferimento a delle espressioni contenute in un opuscolo propagandistico sequestrato nell’ottobre del 1975. L’opuscolo, secondo quanto scrive l’Ansa, è intitolato ‘Lotta armata per il comunismo’. In particolare gli investigatori si sono interessati a un paio di indicazioni ai militanti: “se il nemico vi avvista, sganciatevi” e se questo non è possibile “rompete l’accerchiamento sparando”. A Curcio la procura attribuisce un ‘ruolo apicale’ nelle Brigate Rosse e, quindi, di avere deciso e organizzato il sequestro di Vittorio Vallarino Gancia. Curcio però ha ricordato che nei mesi precedenti, a seguito della sua evasione dal carcere di Casale Monferrato del 18 febbraio 1975, viveva nascosto e aveva pochissimi contatti con l’esterno. Di diverso avviso il legale di Curcio, l’avvocato Vainer Burani, che parla delle nuove indagini come di “una anomalia assoluta”. Naturalmente - aggiunge Burani - non è sbagliato cercare di chiarire cosa successe allora. Ma a distanza di 48 anni un’indagine è problematica di per sé, e questo mi sembra il modo peggiore di ricostruire una vicenda così lontana nel tempo. Attribuire a Curcio un ruolo diretto o indiretto su queste basi è una forzatura priva di logica giuridica”. Oristano. Il giallo di Stefano, detenuto romano morto in carcere. La famiglia chiede l’autopsia di Emilio Orlando leggo.it, 26 febbraio 2023 Sono tanti gli elementi che lasciano pensare che la morte in carcere di Stefano Dal Corso sia avvolta dal mistero e che le vada approfondita. Ne sono convinti il medico legale Cristina Cattaneo, il consulente forense che ha risolto enigmi legati ai delitti più conosciuti in Italia, l’avvocato Armida Decina, legale della vittima e la mamma del trentaduenne, che il 12 ottobre scorso è stato trovato cadavere nella sua cella a Massama. Da allora le indagini sul decesso hanno portato più dubbi che certezze e la procura di Oristano, a distanza di mesi non ha ancora disposto l’autopsia. Il ritrovamento del cadavere di Dal Corso, originario di Roma del quartiere Tufello, è toccato agli agenti della Polizia penitenziaria, che quando hanno aperto la cella lo hanno trovato impiccato alla grata davanti la finestra, proprio sopra il letto. Una striscia di stoffa, ricavata da un lenzuolo era stretta a cappio intorno al collo, e sul corpo c’erano alcuni segni emostatici poco chiari. Nessun detenuto, ha visto o sentito nulla nelle ore in cui, si presume possa essere avvenuto il fatto. La professoressa Cattaneo, dell’istituto di medicina legale di Milano, nota per aver fatto riaprire il caso dell’omicidio di Serena Mollicone ed il caso di Stefano Cucchi, evidenzia nella sua relazione presentata al sostituto procuratore Armando Mammone, titolare dell’inchiesta, come sia necessaria: “l’assoluta e indiscutibile rilevanza nel disporre l’autopsia giudiziaria, sul corpo della vittima, al fine di poter escludere con certezza che la morte di Stefano Dal Corso sia derivata o meno da un gesto autolesionista quale impiccagione”. Ma ad alimentare ancora di più l’ipotesi della morte violenta, nella richiesta urgente di effettuare l’autopsia, presentata dall’ avvocato Armida Decina, il fatto che le lenzuola erano infilate nel letto e che nessuna presentava ritagli dai quali poteva essere stata ricavata la striscia utilizzata come laccio. Inoltre il detenuto Dal Corso, avrebbe finito di scontare la pena, derivante da una condanna passata in giudicato e divenuta definitiva, a dicembre prossimo. Pochi mesi quindi lo separavano dal poter riabbracciare la figlia Lavinia e la nuova compagna con la quale voleva rifarsi una vita. “Non si tratta soltanto di una vicenda drammatica o di una storia strappalacrime - sottolinea il legale Armida Decina - ma di una vicenda di giustizia e verità fino ad ora negate”. Sulla vicenda si è espressa anche la Senatrice Ilaria Cucchi che ha dichiarato: Sarebbe a mio avviso opportuno, anzi doveroso, mettere in essere tutte le iniziative per dare risposta ai legittimi dubbi che questo caso solleva. Va fatta l’autopsia, a garanzia di tutti. O forse qualcuno ritiene che non ne valga la pena per quel detenuto?”. Nuoro. Fuga da Badu e Carros: il Dap manda gli ispettori di Giuliano Foschini La Repubblica, 26 febbraio 2023 Di Marco Raduano detto Pallone, capomafia del Gargano, pericoloso e ai più sconosciuto come la sua organizzazione criminale, le inchieste giudiziarie, le sentenze di condanna, raccontano molto ma non tutto: giovane sanguinario, intelligente imprenditore pronto sempre a stupire, come quando i poliziotti trovarono un suo arsenale e un boa constrictor a proteggerlo. Ma, come per tutti, per sapere ogni cosa bisogna andare non negli archivi giudiziari. Ma da sua madre che, in una vecchia registrazione, di Marco diceva: “Vede quello che deve ancora succedere”. È così che Marco Raduano è scappato dal supercarcere di Badu e Carros in Sardegna. Ha visto oltre: ha creato contatti e visto le falle di un sistema bucato, ha calcolato ogni centimetro e ci ha provato. Mettendo in pratica la più clamorosa fuga della nostra storia recente: ieri il video di quelle cinque lenzuola legate una all’altra, a penzoloni fuori dal muro di cinta della prigione inespugnabile, un ragazzo appeso che si teneva a quella corda di cotone e saltava, per poi sparire nel nulla, era tradotto in tutte le lingue del mondo, tra i più visti su TikTok. Anche perché Raduano non è scappato per caso. Ma legate a quelle lenzuola ci sono un lungo elenco di complicità, errori, buchi, sottovalutazioni. Questi. Marco Raduano scontava una condanna definitiva per associazione a delinquere e traffico di droga aggravato dal metodo mafioso. Leader degli scissionisti di Vieste, fu lui a dare - secondo la Direzione nazionale antimafia - il via alla stagione più nera della mafia del Gargano: una ventina di omicidi, realizzati e tentati, nel giro di pochi mesi. A breve sarebbero arrivate le prime condanne nei processi che lo vedono accusato di aver preso parte agli omicidi di Giuseppe Silvestri e Omar Trotta e al tentato omicidio di Giovanni Caterino, il presunto basista della strage di San Marco in Lamis. Raduano è anche però l’Immortale: è scampato a un agguato a colpi di kalashnikov e c’è ancora chi si chiede come. Da qualche mese era finito in carcere in Sardegna, per ragioni di sicurezza. Non a caso la Dda di Bari, con il parere positivo della Dna, aveva chiesto per lui il 41 bis. Il carcere duro. “Necessario limitare i contatti con l’esterno”, avevano detto. Ma non gli avevano creduto. E così, seppur in un carcere di alta di sicurezza, era un detenuto comune. Raduano in carcere aveva chiesto e ottenuto di lavorare, come era suo diritto. Scegliendo di trascorrere gran parte della giornata nella biblioteca del carcere motivandolo con una passione per i libri. Mentiva. Le sale della biblioteca sono al piano più alto dell’istituto. E dall’alto, si sa, le cose si vedono più chiare. Da quelle finestre con vista panoramica da settimane Raduano aveva studiato i movimenti delle guardie. Si era così accorto, come hanno denunciato gli agenti della Polizia penitenziaria, che anche l’inespugnabile istituto di Badu e Carros - che rappresenta un pezzo di storia criminale di questo paese: ha ospitato mafiosi e terroristi dagli anni 80, qui è stato ucciso Francis Turatello, qui è morto Luciano Liggio - soffre di carenze di personale: e così un pezzo del muro di cinta, nel pomeriggio, non era sorvegliato da alcun agente. Sapeva quindi che al cambio turno, dopo le 16, avrebbero potuto non vederlo, se avesse provato a fuggire. Per raggiungere, però, il muro di cinta dalla biblioteca era necessario superare alcune porte ferrate. Non è stata segata alcuna grata. Nessun agente è stato rapito. È assai probabile, quindi, che Raduano avesse le chiavi. Così come all’esterno qualcuno lo aspettava: dal video si vede chiaramente che dopo il salto, scappa in una direzione precisa. All’esterno quindi sapevano. Ed è quasi certo che sia stato lui ad avvisare che stava per fuggire grazie a uno delle centinaia di micro cellulari che ogni giorno si accendono e si spengono nelle prigioni italiane. Dunque, c’era chi lo aspettava fuori. E probabilmente chi lo ha aiutato a scappare dentro: della fuga se ne sono resi conto soltanto alle 19, due ore dopo, quando non lo hanno visto rientrare in cella. Ora si indaga sui compagni, a conferma di una saldatura tra la criminalità foggiana e quella sarda. E su chi lavora a Badu e Carros. Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) ha avviato un’indagine interna. La Penitenziaria e la Mobile di Nuoro lo cercano nell’isola ma è possibile che sia già altrove: troppo tempo è passato, e Raduano ancora non appare. Il procuratore antimafia di Bari, Roberto Rossi, ha alzato il livello massimo di allerta a Foggia e sul Gargano in particolare: a Vieste hanno sparato i fuochi di artificio, ma il sindaco ha giurato che fosse soltanto per festeggiare un compleanno. E non un fuggitivo. Certo è che un anno fa dai domiciliari era scappato anche uno degli uomini più vicini a Raduano, Gianluigi Troiano, detto U minorenn. Nessuno sa dov’è. Nemmeno lui. Novara. Città aperta ai detenuti: un progetto per favorirne il reinserimento sociale dopo la pena di Marco Benvenuti La Stampa, 26 febbraio 2023 Detenuti impegnati in progetti e azioni di recupero del patrimonio ambientale e del decoro urbano, oltre che nella manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici comunali e degli alloggi dell’Atc destinati alle persone bisognose. Interrotta nel 2020 a causa della pandemia, riprende la collaborazione fra Comune, carcere e società cittadine per consentire ad alcune persone che stanno scontando la pena alla casa circondariale di Novara di essere utili alla collettività e al tempo stesso sperimentare opportunità lavorative in vista del futuro reinserimento. La ripartenza dell’iniziativa è stata ufficializzata in Comune con una nuova firma del “Protocollo d’intesa per la realizzazione di percorsi di inclusione sociale dedicati al recupero del patrimonio ambientale, del decoro urbano, dell’edilizia sociale attraverso il coinvolgimento di soggetti detenuti”: vi hanno partecipato il sindaco Alessandro Canelli, la direttrice del carcere Rosalia Marino, il magistrato di Sorveglianza Marta Criscuolo, il direttore dell’Assa Alessandro Battaglino, il presidente dell’Atc Piemonte Nord Marco Marchioni e Francesca D’Aquino dell’ufficio distrettuale esecuzione penale esterna. La prima uscita esterna dei detenuti per le strade novaresi - i gruppi sono di 8 persone al massimo - risale al lontano 2005. Si tratta di attività settimanali per un numero di 8 detenuti, variabili a seconda del periodo dell’anno. Solo per dare un’idea del lavoro svolto: nel 2014 e 2015 sono state realizzate 350 giornate impegnando 57 detenuti; fra il 2016 e il 2019, prima dello stop per la pandemia, e da quando la collaborazione si è allargata coinvolgendo anche l’Atc oltre che l’Assa, 1.000 giornate con 140 persone. “Il Protocollo - spiega il sindaco Canelli - fa parte di un progetto noto: impieghiamo risorse umane nella cura e nel decoro della città, ma anche e soprattutto un’ulteriore sperimentazione di quelle forme di “giustizia riparativa” su cui il Comune sta lavorando da anni, grazie al prezioso supporto del Centro giustizia riparativa e delle associazioni che aderiscono a questo percorso. Azioni di tipo curativo peraltro ampiamente previste dall’ordinamento penitenziario. È bello poter ricominciare”. Novara, ha aggiunto la direttrice della casa circondariale Rosalia Marino, “è stata fra le prime città ad avviare questo progetto che ha una doppia valenza: da una parte la restituzione sociale e dall’altra i benefici che il territorio ne trae”. Un progetto “cresciuto negli anni - ha sottolineato il giudice Marta Crisaiolo - e che, grazie all’attuale partecipazione attiva di Assa e Atc, consente ai detenuti di condurre un’attività riparativa rendendosi utili e creando successivamente le premesse per un reinserimento nella società con il vantaggio, per i firmatari del protocollo, di avere a disposizione nuova forza lavoro”. Come hanno detto i rappresentanti degli enti coinvolti, i detenuti si occuperanno della pulizia dei parchi, della sistemazione del verde urbano, della manutenzione nelle scuole e negli alloggi popolari, soprattutto quelli che devono essere sgomberati, ritinteggiati e messi a disposizione di nuovi fruitori. Napoli. Mattarella premia la coop Lazzarelle. “È eroismo civile” di Paola Cacace Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2023 Per l’impegno nella valorizzazione del lavoro delle detenute all’interno del carcere, offrendo loro un’opportunità di riscatto dopo la detenzione. Chi produce caffè in carcere e chi crea progetti di solidarietà circolare tra i 30 eroi civili a cui il presidente Sergio Mattarella ha conferito le onorificenze al Merito della Repubblica Italiana. Una di questa è la napoletana, Imma Carpiniello, 49 anni e fondatrice e presidente della cooperativa sociale “Lazzarelle”, realtà che produce caffè, rigorosamente secondo la tradizione partenopea, nel carcere femminile di Pozzuoli. Un altro è l’attore Davide Devenuto, che i napoletani sentono un po’ loro in quanto è stato tra i protagonisti di Un posto al sole (nella fiction vestiva i panni di Andrea Pergolesi) ed è il compagno di Serena Rossi, e fondatore di Lab00 Onlus, che è diventato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. “Per aver promosso iniziative di solidarietà sociale - è la motivazione - anche attraverso la sua immagine pubblica, con progetti di aiuti economici e disponibilità di tempo a favore di persone in situazione di disagio”. Davide sui social ha raccontato lo stupore. “Pensavo - ha detto - fossero quelli di Scherzi a parte, invece è tutto vero. Condivido questo riconoscimento immenso con tutto il team di Spesasospesa”. Sorpresa anche per Imma Carpiniello. “Quando ho avuto la notizia dal Quirinale, mi sono dovuta sedere - ha ricordato -. Ero un po’ frastornata. Poi ho sentito una gioia immensa”. Anche per lei motivazione onorevole: “Per il suo impegno nella valorizzazione del lavoro delle detenute all’interno del carcere offrendo loro una opportunità di riscatto per una vita diversa dopo la detenzione”. Imma è diventata Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica. “Si può dire Cavaliera, in quanto donna? - commenta - O forse potremmo usare Cavaliere al femminile plurale perché da oggi tutte noi Lazzarelle siamo un po’ Cavaliere”. Laureata in scienze politiche con un master in diritti umani e un altro in studi di genere, la Carpiniello ha avuto un’intuizione all’origine della cooperativa Lazzarelle, dopo esser venuta a contatto con la realtà detentiva per motivi di studio e aver scoperto quanto sia “costoso vivere in carcere. Sono tante le spese che si devono sostenere: dal posto letto agli assorbenti. Così alla fine chi esce dal carcere deve affrontare sia lo stigma sociale sia quello economico perché non riuscendo a trovar lavoro, quei debiti diventeranno cartelle esattoriali”. Di qui l’idea di creare un lavoro per queste detenute “vero e contrattualizzato come se fosse aldilà delle porte del carcere”. Idea che si incontra la fissazione tutta partenopea per il caffè. Nel 2012 poi il lancio della prima miscela delle Lazzarelle, con tanto di confezione in scoppiettante color magenta. “Magenta è il colore pantone dell’anno - scherza Imma - il che mi fa pensare che questo 2023 sia veramente l’anno delle Lazzarelle”. E nonostante il successo economico come mostra anche l’ecommerce, che aiuta le Lazzarelle ad arrivare all’estero, il vero valore di questa cooperativa resta il dare a queste ragazze la possibilità di rifarsi una vita a partire da un lavoro che imparano sul campo. “L’onore concessoci ci riempie d’orgoglio e ci spinge a dare ancora di più. Se mai ce ne fosse bisogno. Perché a dire il vero il vero sprone viene dai risultati”. Infatti, non è rientrato nei circuiti criminali ben il 90% delle donne che hanno fatto parte della coop. Imma riceverà l’onorificenza assieme agli altri 30 esempi civili il prossimo 24 marzo alle 11 e 30 al Quirinale. “Non so ancora tutti i dettagli - spiega la neo-Cavaliera - ma ho tutta l’intenzione di portare un po’ del nostro caffè al presidente Mattarella”. Napoli. Chi è Imma Carpiniello, la volontaria del carcere premiata da Mattarella di Pasquale Raicaldo La Repubblica, 26 febbraio 2023 Il caffè come strumento di rieducazione. Per strappare le donne detenute alla criminalità. E favorire la rieducazione. C’è il volto di Imma Carpiniello, amministratrice della cooperativa sociale “Lazzarelle”, tra i nuovi cavalieri dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, scelti dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Una storia virtuosa che affonda le radici nel carcere femminile di Pozzuoli, dove la cooperativa di sole donne, nata nel 2010, produce caffè artigianale secondo l’antica tradizione partenopea. Imma, napoletana, 49 anni, è tra le fondatrici: sarà lei a ritirare l’onoreficenza al Quirinale il prossimo 24 marzo. “Un riconoscimento importante, che conferma la bontà di un percorso avviato ormai tredici anni fa, una gioia che condivido con tutte le socie perché il nostro è un progetto corale, e soprattutto con le Lazzarelle, le circa ottanta detenute che abbiamo incontrato. - spiega a Repubblica - Sono storie straordinarie di riscatto, donne in grado di ricostruirsi e di comprendere che il destino non è sempre segnato, come pure deve apparire loro nel momento in cui entrano in carcere. La percentuale di chi riesce a riscattarsi è alta (intorno al 90%, ndr), il che conferma la bontà di un lavoro, il nostro, complesso: si tratta di persone che hanno un vissuto particolare, sono spesso vittime indifesa del sistema in cui si trovano, a bassa scolarizzazione, dalla forte matrice maschilista”. Spaccati di realtà sempre più attuali, complice il successo di film come “Ariaferma” e, più di recente, della serie televisiva come “Mare fuori”, efficaci megafoni per raccontare le mille sfumature di percorsi complessi. “Accendere i riflettori su queste storie aiuta, da quando siamo partite sono stati fatti molti passi in avanti. - spiega Imma - Fondamentale è stata la progressiva apertura all’esterno delle direzioni degli istituti penali minorili e del provveditorato”. Il caffè delle Lazzarelle è nato proprio mettendo insieme due realtà: le donne detenute e i produttori di caffè del Sud del mondo. “L’idea di fondo - spiega ancora Carpiniello - è quella di investire risorse umane ed economiche in un percorso di formazione e produzione. L’obiettivo è duplice: da un lato favorire il rapporto con l’esterno per evitare il rischio buco nero della detenzione; dall’altro costruire un’impresa capace di stare sul mercato con un prodotto artigianale, etico e legato al territorio”. Ma la cooperativa ha anche altri progetti: il “Bistrot Lazzarelle” nella Galleria Principe di Napoli, la sartoria “Tessuti dentro” e la “Pasticceria Lazzarelle”. E poi un percorso di ricerca in sinergia con l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. “Oggi - chiosa Imma, il cui telefono è diventato in queste ore rovente - la nostra soddisfazione è nell’aver fatto comprendere a tante ragazze che ricostruirsi è possibile: molte, una volta uscite, sono oggi regolarmente impiegate nel settore del beverage e della ristorazione. Non tutto è semplice: ogni tanto vacilliamo anche noi, ma la caparbietà della nostra cooperativa è un valore aggiunto. E il riconoscimento del presidente Mattarella, che accende ancor di più i riflettori su quel che facciamo, rappresenta senz’altro un ulteriore incentivo ad andare avanti convinte”. Venezia. Il carcere femminile ha un circolo di lettrici. Perché i libri sono una finestra sulla libertà di Marco De Vidi L’Espresso, 26 febbraio 2023 Nella prigione della Giudecca le detenute incontrano e interrogano scrittrici e scrittori. E mentre si appassionano ai libri suggeriti, condividono pensieri, emozioni, vita. Sulla copertina del libro si vedono due gambe nude, una mano che tiene una sigaretta tra due dita, un posacenere pieno, una guida di Berlino. Non per tutti è chiaro se si tratti di una donna o di un uomo. “Come mai hai scelto di rappresentare una figura umana così ambigua? Volevi farlo o ti è venuto solo un po’ male il disegno?”, chiede l’intervistatrice all’autore. “È una donna la protagonista”, spiega l’illustratore Manuele Fior, aiutando a interpretare la copertina del suo ultimo lavoro, “Hypericon”. “Ma la prossima volta mi impegnerò di più”, aggiunge sorridendo. Ci troviamo nella sala colloqui della Casa di reclusione della Giudecca, il carcere femminile di Venezia. I presenti, una cinquantina di persone, sono concentrati, attenti, partecipi in un modo che forse molti avevano dimenticato. Tre o quattro guardie in divisa assistono in piedi all’incontro. A condurre l’intervista all’autore sono Daiana e Georgiana, due detenute, coinvolte nel gruppo di lettura di Closer. L’associazione ha inventato un format, “Interrogatorio alla Scrittura”, in cui sono le ospiti della casa di reclusione a interrogare scrittrici e scrittori. Per più di un mese, grazie alle visite settimanali dei volontari di Closer, hanno lavorato alla preparazione di questo incontro. Il numero delle partecipanti varia ogni volta, come agli incontri, dove qualsiasi detenuta può partecipare, dopo aver chiesto l’autorizzazione. I volontari propongono un libro, ne portano alcune copie da lasciare in biblioteca, mentre le detenute lo leggono, se lo passano, danno forma a dubbi e curiosità. Preparare un’intervista, dal carcere, è più complicato: le detenute non hanno accesso a internet, dunque non c’è modo di avere informazioni sugli autori. Accade che qualcuna si appassioni talmente a un libro da non volerlo più restituire. “A me non piace tanto leggere, ma mi piace molto scrivere”, confessa Daiana. “Scrivo delle lettere, alla mia famiglia, a mia figlia, a mio marito. Tengo anche un diario e quando scrivo mi commuovo”. Fin dall’inizio, l’intento di Closer, associazione nata tra alcuni studenti universitari nel 2016, è stato quello di creare un dialogo tra l’interno e l’esterno del carcere, tra le detenute del carcere femminile e la città di Venezia. Tra i progetti più recenti, c’è stato il laboratorio musicale con il cantautore Jack Jaselli, che ha realizzato una canzone scritta assieme alle donne del carcere, esperienza diventata un documentario televisivo. Poi c’è Piombi (dal nome delle antiche carceri di Palazzo Ducale), newsletter ideata durante la pandemia, quando l’ingresso nelle carceri da parte di persone esterne è stato molto limitato. Il lavoro di Closer è andato a inserirsi nel solco già tracciato da alcune realtà che portano avanti progetti all’interno dei due istituti penitenziari di Venezia, il carcere femminile e quello maschile di Santa Maria Maggiore. La cooperativa Il Cerchio gestisce la lavanderia che ha come clienti molti hotel in città e un laboratorio di sartoria, mentre Rio Terà dei Pensieri ha avviato l’Orto delle Meraviglie negli spazi della casa di reclusione della Giudecca e un laboratorio di cosmetica; nel carcere maschile produce borse riciclando pvc, accessori e stampe su tessuto nella serigrafia. C’è un’associazione di volontariato, Il Granello di Senape, che da metà anni Novanta opera in questi spazi, gestendo la biblioteca, collaborando alla spesa alimentare per le detenute, aiutando chi esce dal carcere a trovare un’occupazione. Poi c’è Balamos, che in carcere porta dei laboratori teatrali. “Diamo la possibilità di entrare in carcere a dei cittadini che normalmente non hanno neanche idea di dove si trovi”, riflette Giulia Ribaudo, socia fondatrice di Closer. Dal 2016, almeno un migliaio di persone è entrato nella Casa di reclusione che si trova nell’isola della Giudecca, negli spazi dell’ex convento delle Convertite. Tra gli ospiti di Interrogatorio alla Scrittura ci sono stati Giorgio Fontana, Violetta Bellocchio, Melania Mazzucco, Vanessa Roghi, Eraldo Affinati, Veronica Raimo, Vera Gheno e molti altri. Alcuni degli incontri sono stati organizzati in collaborazione con Incroci di Civiltà, festival letterario promosso dall’università Ca’ Foscari. Sono moltissime le relazioni avviate in città, l’ultima è quella con il museo Guggenheim, che ha offerto biglietti per le sue mostre. Nel libro illustrato da Fior, che da un paio d’anni vive proprio a Venezia, si sovrappongono le storie di Teresa, archeologa che si trasferisce a Berlino dopo aver vinto una borsa di studio, Ruben, giovane scapestrato (e mantenuto) che vive in una casa occupata, e la vicenda di Howard Carter, l’egittologo britannico a capo della spedizione che scoprì la tomba di Tutankhamon: collante della narrazione è il fiore d’iperico, pianta curativa che ha attraversato i secoli. Teresa a un certo punto spiega la concezione del tempo che sosteneva la civiltà dell’antico Egitto: a differenza nostra, per gli Egizi il futuro è ignoto e dunque si trova alle nostre spalle, mentre c’è il passato davanti a noi, lo conosciamo già, è sempre visibile. “Per noi sarebbe un incubo”, afferma Daiana. La protagonista del libro, durante una notte insonne, si chiede: “Cosa ci faccio io qui?”. “Anche noi ci facciamo questa domanda costantemente”, racconta Daiana. Nessuno sa quali reati abbiano commesso le detenute che si trovano qui dentro. E Georgiana domanda ai presenti: “E voi perché siete qui?”. Il pubblico si apre, risponde in modo schietto. Una signora, venuta qui da una città vicino, si confida: “Io non ero mai stata in carcere prima, ma la mia vita è stata a volte come un carcere”. C’è chi in carcere insegna, chi sta lavorando per portarvi dei progetti artistici, chi è qui perché vuole scoprire com’è la vita di chi si trova al di là delle finestre sbarrate della casa di reclusione. Come rifletterà più tardi Manuele Fior, “in queste occasioni il dialogo è provare a creare un ponte tra cose molto distanti, tra vite forse inconciliabili, ma cerchiamo di far sì che queste due visioni guardino per un momento nello stesso punto. Come nel libro, sembra che delle cose siano lontane e invece in realtà sono vicinissime”. Perché questi sono scambi che creano legami, assottigliano la barriera con una realtà carceraria nella quale, nel 2022, ci sono stati 84 suicidi. A incontro terminato, ci si dà appuntamento alla prossima presentazione. Le detenute tornano alle loro celle, dove dormono in quattro, in sei, in nove. Tutti gli altri, in pochi minuti si ritroveranno fuori, sulla Fondamenta de le Convertite. Nessuno sembra avere fretta di andarsene. La pena non è sofferenza e segregazione, alziamo il sipario sul mondo dei carcerati di Donatella Stasio La Stampa, 26 febbraio 2023 “Mare fuori”, la serie tv sul carcere minorile, ha saputo raccontare i detenuti invisibili a milioni di persone. Esplorare il mondo della marginalità sociale è necessario e coraggioso, crea una breccia nelle coscienze. Da settimane cerchiamo di saperne di più sui detenuti al 41 bis o all’ergastolo ostativo, duemila persone circa. Poco si parla degli altri, di quei 54 mila “clienti abituali” che entrano ed escono dalle patrie galere, compresi i 385 “ospiti” degli Istituti penali minorili, Ipm, 193 dei quali non hanno ancora 18 anni e 29 neanche 15. Mare fuori, la serie tv appena rilanciata da Rai fiction, ci ha svegliato dal torpore, accendendo i riflettori e i nostri sguardi su quello scorcio di realtà che è il carcere minorile. Qualche millennio fa, un grande intellettuale diceva “So di non sapere” e a questo pensavo mentre divoravo con avidità gli episodi della terza serie. Dev’esserci un gran bisogno di conoscenza se è vero, come è vero, che milioni di persone, ed io tra loro, si sono chiuse in casa e hanno fatto notte fonda con quelle storie di galera, al plurale, perché di questo si tratta, di storie, anzitutto di figli, nati in luoghi infami e da famiglie maledette, assenti ma anche no. Figli reclusi in un Ipm, dove fuori ci sta il mare, che è tante cose per chi sta dentro: libertà, amicizia, amore, riscatto. Non sono storie di reati, che restano fuori dal carcere, ci hanno insegnato fiumi di inchiostro della Corte costituzionale e ci insegnano i migliori operatori del carcere, non tutti per carità, solo quelli capaci di sopportare il dolore altrui, che poi è anche il loro, le sconfitte e le delusioni in cui non puoi non inciampare se rispetti la dignità della persona, la funzione rieducativa della pena e se hai un’etica professionale. Il rischio fa parte del gioco che, in questo caso, vale la candela. Il condannato non è il suo reato; il reato resta fuori; in carcere entra la persona e lì comincia un’altra storia, che guarda avanti, al futuro, e che, certo, deve fare i conti anche con la storia passata, spesso ancora presente, per emanciparsi e diventare liberi. Lotta titanica per chi ha poche manciate di anni di vita e per chi ne condivide il percorso. Mare fuori è tutto questo: non una fiction sul carcere ma molto di più, un racconto del carcere attraverso la sua umanità. Il paradosso socratico sta lì a ricordarci che l’ignoranza, intesa come consapevolezza di non sapere tutto di tutto, è la molla del desiderio di conoscere, su cui crescono le democrazie. Ebbene, l’umanità reclusa, compresa quella che ne subisce “l’effetto ombra”, ci racconta sempre qualcosa di più di quanto già pensiamo di conoscere. Spesso ci spiazza. Perciò non condivido alcune stroncature social su Mare fuori, provenienti per lo più da chi “il carcere lo conosce”, e quindi guai a rappresentarlo in modo diverso dalla propria idea o esperienza. “Surrealtà ad effetto”, ha scritto qualcuno, perché non si vedono psicologi né insegnanti, tutto è troppo pulito, quando mai ragazze e ragazzi stanno tanto tempo insieme, e manca questo e manca quello, per cui basta, fine della trasmissione. E invece bisogna guardare. E chi ha continuato a farlo - dalla tv, dall’Ipad o dallo smartphone - ha comunque respirato un po’ di carcere e soprattutto del mondo che lo abita, di solito invisibile allo sguardo perché è il mondo della marginalità sociale. Al netto degli stereotipi, dei luoghi comuni, degli eccessi di enfasi e di retorica che purtroppo abbondano nelle narrazioni galeotte - siano libri, fiction, documentari, inchieste giornalistiche - è necessario, e coraggioso, alzare il sipario sulla quotidianità della detenzione, raccontarla, mostrarla a chi, per le più svariate ragioni, non vuole saperne del mondo recluso, dei diritti negati, dello stillicidio del tempo della pena che ruba il tempo della vita, nega il futuro, trasforma i giovani in vecchi, spesso in cadaveri. Desiderio di vendetta, paura e ignoranza (non in senso socratico) hanno avuto più voce nella cultura e nella politica degli ultimi trent’anni, in Italia e nel mondo, e hanno prodotto - come spiega Stefano Anastasia nel libro “Le pene e il carcere” - castighi senza diritti e umanità, prassi punitive lontanissime dal volto costituzionale della pena, che nella realtà è sofferenza e segregazione. Altrimenti, che pena è? È a queste persone che bisogna parlare; è questo muro che bisogna bucare affinché il desiderio di conoscere (non il voyeurismo) faccia breccia nelle coscienze. E questo fa Mare fuori. L’Ipm della fiction di Carmine Elia si ispira al carcere minorile di Nisida. Affacciato sul mare di Napoli, è gestito da operatori illuminati, ospita ragazze e ragazzi per lo più napoletani, che giocano a pallone, impastano pizze, condividono attività musicali e artigiane. “Questa è una comunità in cui esistono regole che tutti devono rispettare”, spiega la direttrice a Sofia, presunta educatrice che ha appena rotto il naso al giovanissimo e ingestibile Micciarella. “Devi chiedergli scusa” le ordina la direttrice, suscitando il suo stupore perché non è questa la logica imperante del carcere che punisce. Costretta, Sofia si piega e chiede scusa, ma la lezione più grande l’avrà da Micciarella: “Non vi preoccupate - le dice - mia madre mi batteva assai più forte”. Come in una tragedia greca, anche la fiction mette in scena i limiti dell’umano, le passioni e la loro catarsi. Non è un caso, del resto, che la tragedia greca sia spesso portata in scena dai detenuti. Proprio a Nisida, tempo fa, ebbi l’occasione di assistere a una pièce teatrale scritta e interpretata dai ragazzi reclusi e liberamente ispirata all’Elettra di Sofocle, in particolare alla relazione tra fratelli, in cui si intrecciavano sentimenti contrastanti ed opposti: odio, amore, desiderio di vendetta, bisogno di ascolto. Si intitolava Fioriture-fratelli e il tema di fondo era la “qualità delle relazioni”, il “bisogno di relazioni che nutrano”. La pièce terminava con un abbraccio tra Elettra e Oreste e quell’abbraccio durò un tempo infinito, tra le lacrime dei protagonisti e la commozione del pubblico. Fu un fuori programma spiazzante, certamente catartico, come gli abbracci di Mare fuori, ognuno dei quali dà voce a un sentimento diverso: l’amicizia, l’amore, la separazione, la paura, la speranza. Sono abbracci che nutrono, e noi ce ne accorgiamo dalle lacrime che ci riempiono gli occhi. Mare fuori racconta la fame universale di relazioni che nutrano, senza distinzioni tra dentro e fuori. La privazione di questo nutrimento spesso trasfigura volti e corpi in maschere mostruose, di una incosciente spietatezza. Non c’è alcuna indulgenza al buonismo nelle storie di Mare fuori, anzi. E non c’è, non ancora almeno, nemmeno un lieto fine. Però, ogni storia è a modo suo carica di speranza. L’”appartenenza”, parola chiave nella fiction e nella realtà di queste giovani vite, segna l’unico orizzonte possibile. La famiglia, il clan cui si appartiene è anch’esso una prigione, ma ha regole sperimentate e accettate dai prigionieri. Che non (ri)conoscono - non possono - altre forme di appartenenza, meno che mai ad una comunità di valori, di regole civili condivise. “Tu a chi appartieni?” è la domanda ricorrente che i ragazzi rivolgono alle matricole, perché al di fuori di questo recinto nessuno di loro ha un posto, un’identità, una casa. E però, una via di fuga esiste ed è proprio nelle relazioni che nutrono. Qualcuno le incrocia per caso, ad altri si presentano quasi a tradimento, c’è chi le costruisce nel quotidiano del carcere, ed è grazie a questo nutrimento che la maschera cade e scopre volti e corpi bellissimi, pur nelle loro vistose imperfezioni, sentimenti generosi e puliti, desiderio di mordere un’altra vita. Quel nutrimento lo chiameranno amore, amicizia, accoglienza. Talvolta riscatto. Forse è un nuovo senso di appartenenza, a se stessi anzitutto. Mentre per noi spettatori - come per gli operatori del carcere - è la forza di un abbraccio, che ci apre un mondo nuovo, dentro e fuori. La libera scuola e gli indifferenti di Gian Carlo Caselli La Stampa, 26 febbraio 2023 Il ministro Giuseppe Valditara è uomo preciso. Se sbaglia si corregge. Gli è capitato, parlando di scuola con dei ragazzi, di dire che “l’umiliazione è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità”. Poi (ma solo dopo una tempesta di critiche) si corregge e spiega che si è trattato di un lapsus: voleva dire umiltà e gli è scappato umiliazione. Può succedere. Ma ora si ricomincia. La preside di un liceo fiorentino scrive una lettera agli studenti e spiega che il fascismo in Italia è nato anche per l’indifferenza di chi assisteva ai pestaggi per motivi politici. Il ministro Valditara se l’è presa a male e ha reagito contestando alla preside di fare indebitamente politica e ammonendola che “se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure”. Nuova bufera di critiche e polemiche e nuova marcia indietro del ministro. Che però questa volta non parla di lapsus. Sostiene che di “sanzioni” non ha proprio parlato. Facendo così un grave torto alla sua e alla nostra intelligenza. Perché se “misure” non è sinonimo di sanzioni, vuol dire che il ministro si propone di prendere alla preside le misure per farle confezionare un qualche abito. Gentile ma assurdo e quindi non credibile. Lasciamo da parte le considerazioni talmente ovvie e banali che non vale la pena. Tipo che l’art. 21 della Costituzione stabilisce che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con le parole, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Le parole “diritto” e “liberamente” non lasciano spazi ad interpretazioni di tipo orwelliano o peggio. Piuttosto entriamo nel merito della “indifferenza”. Piero Calamandrei, che la Costituzione non solo la conosceva, come dovrebbe ogni ministro che giuri su di essa, ma che addirittura l’ha scritta in quanto componente della Assemblea costituente della Repubblica, proprio rivolgendosi ai giovani ebbe a scrivere che una delle peggiori offese che si possano fare alla Costituzione è l’indifferentismo alla politica, nel senso di partecipazione alla vita della polis. Spesso, molti giovani, e non solo, pensano: “La vita è bella, siamo liberi, abbiamo cose più interessanti di cui occuparci della politica, tanto poi i politici sono tutti uguali e non cambia mai niente. Meglio stare con gli amici, uscire, divertirsi…”. A Calamandrei questi discorsi fan venire in mente un apologo: due migranti italiani attraversano l’oceano su un piroscafo traballante; uno dorme nella stiva, l’altro sta sul ponte; c’è una burrasca, il piroscafo oscilla paurosamente e il migrante spaventato corre nella stiva e sveglia il compagno gridando: “Beppe! Se continua questo mare, il bastimento affonda!”. E l’altro gli risponde: “Che me ne importa, non è mio il bastimento!”. È questo l’indifferentismo alla politica, chiosa Calamandrei. Con un monito: “La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai”. Viene utile a questo punto citare anche Barbara Spinelli là dove parla di una “patologia” che affligge la maggior parte dei politici e quasi tutta la classe dirigente: una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre quando si occulta il passato, una mancanza continuativa di coscienza etica. Vale per la mafia, per la quale oggi e sempre si evidenzia nel nostro Paese un chiaro limite culturale. Quello di percepirla come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto in situazione di emergenza, quando, cioè, la mafia mette in atto strategie sanguinarie. Trascurando i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie attendiste, dimenticando la sua lunga storia di violenza e quella straordinaria capacità di condizionamento che ha fatto di una associazione criminale un vero e proprio sistema di potere. Parole che si possono applicare anche alle riflessioni sulla violenza di tipo squadristico (un ragazzo gettato a terra appena fuori della scuola, preso ripetutamente a calci nel ventre e alla schiena da due energumeni appartenenti - stando alle cronache - ad un gruppo di estrema destra); violenza che una preside giustamente condanna, ricordando nel contempo ai suoi ragazzi che il fascismo è stato anche frutto della indifferenza verso simili “azioni” criminali. Una preside, quindi, che se merita qualche “misura” è solo di encomio. “Il 4 marzo in piazza per la scuola, la Costituzione e l’antifascismo” di Riccardo Chiari Il Manifesto, 26 febbraio 2023 Mobilitazione dei sindacati confederali di scuola, università e ricerca, con l’adesione della Fp Cgil, dopo un appello delle Rsu delle scuole fiorentine. Sempre più ampio il sostegno alla preside Savino, che ha denunciato alla polizia il blitz notturno del Blocco Studentesco al liceo scientifico Leonardo da Vinci. “Sabato 4 marzo saremo in piazza a Firenze, insieme a tante realtà antifasciste e democratiche. Dopo il pestaggio davanti al liceo Michelangelo e le parole del ministro Valditara sulla preside Savino, manifesteremo a difesa della scuola, della Costituzione e dell’antifascismo”. Partecipando alla “catena umana” di migliaia di persone organizzata dalle realtà di Europe for Peace intorno alla Galleria degli Uffizi, il segretario generale della Cgil regionale Rossano Rossi, e la segretaria generale della Camera del Lavoro fiorentina Paola Galgani, spiegano i perché della mobilitazione decisa dai sindacati confederali di scuola, università e ricerca, con l’adesione della Fp Cgil, in risposta a un appello delle Rsu delle scuole cittadine. Nell’appello delle Rsu si osserva: “Crediamo di interpretare il sentire delle lavoratrici e dei lavoratori che ci hanno elette, esprimendo la nostra grande preoccupazione per i fatti avvenuti recentemente: prima l’aggressione di matrice neofascista agli studenti del liceo Michelangelo di Firenze, che ricordano i momenti più bui della nostra storia recente; poi le inaccettabili parole del ministro Valditara, il quale, invece di condannare la violenza squadrista, si è scagliato contro la dirigente del liceo scientifico Leonardo da Vinci, attaccandola per aver invitato la propria comunità scolastica a vigilare contro il ritorno di ideologie violente e totalitarie, e attaccando così di fatto la stessa libertà di pensiero e di espressione”. Da parte sua la preside Annalisa Savino ha deciso di denunciare alla polizia quanto accaduto la notte fra il 22 e il 23 febbraio all’ingresso del Leonardo da Vinci. Al riguardo, un video postato in rete dagli stessi militanti di destra di Blocco Studentesco mostra due persone vestite di nero e incappucciate, che srotolano e legano lo striscione “Non ci fermerà una circolare, studenti liberi di lottare” alla ringhiera esterna del perimetro della scuola, e poi una persona che tiene in mano la circolare della preside e le dà fuoco con un accendino. A Valditara, che continua a glissare sulle violenze al Michelangelo al pari dell’intero governo, è destinata anche una lettera aperta degli studenti del liceo da Vinci: “La professoressa Savino - scrivono ragazze e ragazzi - ha scelto di non restare indifferente alla violenza e, nel pieno esercizio della sua funzione scolastica, si è rivolta a noi studenti ricordando l’importanza di salvaguardare i principi fondamentali che sono alla base della nostra Costituzione”. Nel mentre non si fermano le attestazioni di solidarietà per la preside. La petizione online lanciata da Priorità alla Scuola nei giorni scorsi è arrivata a contare 123.500 firme, e le adesioni continuano ad arrivare numerose. “Di fronte al ministro delle teleminacce - si legge - noi non intendiamo lasciare sola la dottoressa Savino, e invitiamo tutta la comunità educante che si riconosce nella scuola antifascista e democratica a unirsi a queste parole, sottoscrivendole”. Anche i dirigenti scolastici, non solo quelli di tante scuole fiorentine, prendono posizione a sostegno della collega. Dopo che il direttivo dei presidi Andis aveva puntualizzato che da parte di Savino non c’è stata alcuna strumentalizzazione di quanto accaduto davanti al Michelangelo, il presidente dell’Anp (associazione nazionale presidi) Antonello Giannelli ha ricordato: “La libertà di espressione non si può mettere in discussione. E non si può censurare una dirigente scolastica per avere espresso un punto di vista rivolgendosi alla sua comunità scolastica. Si tratta di un intervento da educatore e non di natura politica, io non l’ho visto come tale”. La Rete degli studenti medi di Roma denuncia infine lo sgombero operato dalle forze dell’ordine di un presidio organizzato ieri pomeriggio davanti al Colosseo, a sostegno della preside Savino e per chiedere le dimissioni di Valditara. Migranti. Processo alle Ong, il Gup dice “no” a Palazzo Chigi: non sarà parte civile di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 febbraio 2023 Il giudice per l’udienza preliminare di Trapani ha detto No alla costituzione di parte civile di Palazzo Chigi nel procedimento che vede coinvolte Medici senza frontiere, Save the children e Iuventa. L’avvocatura dello Stato lo aveva chiesto sia nei confronti degli imputati che degli enti (Ong e società proprietarie delle navi). Escluso in entrambi i casi. Ammesso soltanto il Viminale ed esclusivamente contro gli imputati. Nel procedimento 21 persone sono accusate di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Non contento che l’equipaggio della Iuventa e altri debbano affrontare un processo per le operazioni di salvataggio, il governo ha avuto l’audacia di chiedere di costituirsi parte civile per ottenere un risarcimento per i presunti “danni” che sostiene di aver subito a causa del lavoro delle Ong che hanno salvato vite umane”, ha dichiarato Elisa De Pieri, di Amnesty International. Nell’udienza dell’11 febbraio scorso, invece, gli avvocati della difesa avevano presentato una richiesta di esclusione delle parti denunciando come l’atto dell’avvocatura fosse pieno di errori grossolani. “La costituzione di parte civile nelle parti di cui abbiamo chiesto la cancellazione non ha nulla a che vedere né con il capo d’imputazione né con gli atti di indagine. Sono piuttosto il frutto fantasioso di un ‘copia incolla’ mal concepito, forse tratto da un altro procedimento in cui il governo era precedentemente coinvolto. Una disattenzione che mostra scarso rispetto per imputati e tribunale”, aveva dichiarato l’avvocata Francesca Cancellaro. In quell’occasione è stato sollevato nuovamente il problema degli interpreti: gli imputati di Iuventa denunciano di non aver potuto godere di traduzioni adeguate durante i loro interrogatori (oltre a non aver potuto leggere nelle loro lingue tutti gli atti dell’accusa). Gli avvocati hanno presentato un’obiezione che però è stata respinta dal Tribunale. Il Gup ha ammesso che sono stati commessi errori ma li ha considerati come semplici “irregolarità”. Il fatto più sorprendente avvenuto durante questa fase del procedimento, comunque, è stata l’ordinanza con cui il Gip Samuele Corso ha disposto che la Capitaneria di porto di Trapani rimetta a nuovo e preservi la Iuventa, di cui è custode. Sequestrata il 2 agosto 2017 la nave è ormai ridotta a un relitto: sono state rubate diverse apparecchiature di bordo e ciò che rimane è ossidato o distrutto. Prima del pronunciamento del giudice si temeva rischiasse di affondare. Anche per questo la settimana scorsa Iuventa ha presentato una denuncia alla procura di Trapani per sollecitare un’indagine che chiarisca chi è responsabile dell’abbandono della nave e perché l’ha lasciata al degrado. “L’omessa custodia secondo la legge italiana è reato. Ci attendiamo un’indagine approfondita che stabilisca se e chi non ha adempiuto al proprio dovere di preservare la perfetta funzionalità della nave di soccorso sequestrata dalle autorità”, ha dichiarato l’avvocato Nicola Canestrini. Quello di Trapani è il processo contro le organizzazioni umanitarie attive nel Mediterraneo. Insieme al procedimento contro la Mare Jonio, è l’unico su cui potrebbe scattare il rinvio a giudizio. Tutti gli altri sono stati archiviati. I fatti contestati ruotano intorno ai soccorsi del 2016-2017, cioè la prima fase dell’intervento della “flotta civile” lungo la rotta più letale al mondo. Nell’udienza di ieri gli avvocati delle Ong hanno anche presentato alcune questioni preliminari su giurisdizione e competenza. Se le seconde fossero accolte - per rispetto del principio del giudice naturale, cioè quello relativo al luogo dove si è commesso il reato - il processo potrebbe essere spezzettato tra cinque o sei tribunali oppure venire spostato ad Ancona. Alcune delle navi interessate erano iscritte al registro navale della città marchigiana. Nuove udienze sono previste l’1 e il 15 marzo. I prossimi passi sono legati alla formazione del fascicolo e alle eccezioni sui capi di imputazione. Poi si passerà al merito. Il Gup ha intenzione di convocare un’udienza ogni due settimane. In ogni caso tutto lascia credere che prima della decisione sull’eventuale rinvio a giudizio servirà ancora molto tempo. Tunisia. Le frasi choc di Saied sui migranti africani fanno proseliti. Ma c’è chi dice no di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 26 febbraio 2023 Il presidente tunisino evoca un “piano criminale per trasformare la Tunisia in un paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico: è il momento di mettere fine a tutto questo”. Violenze in aumento. Ieri la risposta della piazza nella capitale: “Nessuna paura”. Due del pomeriggio. Una folla di centinaia di persone si raduna di fronte al Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini, nel cuore della capitale. Un luogo che da giorni vive con profonda inquietudine le sorti del suo presidente Mohamed Yassine Jelassi, quando gli è stata recapitata una denuncia per aggressione a pubblico ufficiale dopo avere partecipato a una manifestazione pacifica per i diritti civili nel luglio 2022. Nel frattempo le persone sono diventate poco più di un migliaio e cominciano una lunga marcia verso il Teatro municipale di avenue Habib Bourguiba, l’epicentro di ogni rivendicazione in Tunisia. I cori però non sono a sostegno di Jelassi, nonostante la gravità di quanto successo, bensì a favore dei 21mila subsahariani presenti nel paese, la grande maggioranza in una situazione di irregolarità (i dati sono del Forum tunisino per i diritti economici e sociali). Convocata dalla rete antifascista di Tunisi, la manifestazione assume da subito rivendicazioni molto precise: “Nessuna paura, nessun terrore, le strade appartengono al popolo!”. O ancora: “Solidarietà ai migranti senza documenti”. Il motivo della mobilitazione è presto detto. Il 21 febbraio scorso, durante una riunione del Consiglio di sicurezza, il presidente della Repubblica Kais Saied ha pronunciato un discorso molto duro nei confronti dei subsahariani: “Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di fare diventare la Tunisia solamente un paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico”. Stavolta capire i motivi che hanno portato a simili parole è molto più complicato, anche perché da quando Saied è diventato uno dei volti noti del dibattito pubblico tunisino, il fenomeno migratorio interno non è mai stato un punto all’ordine del giorno nell’agenda del responsabile di Cartagine. Sono tuttavia evidenti le conseguenze del suo discorso. Secondo l’organizzazione Avocats sans frontières (Asf), sono centinaia le aggressioni subite da cittadini di origine subsahariana. Per aggressioni si intende rastrellamenti casa per casa da parte dei proprietari per cacciare le persone dalle proprie abitazioni, intimidazioni per strada e online, attacchi fisici con armi da taglio e non solo, licenziamenti in tronco da posti di lavoro che prevedevano semplici regole di sfruttamento, incendi dolosi appiccati di fronte alle residenze e arresti arbitrari (fenomeno in crescita: secondo Asf, 700 negli ultimi venti giorni). Tutto questo ha portato di fatto la popolazione di origine subsahariana a chiudersi nelle proprie abitazioni, da Tunisi al profondo sud del paese. E, nel momento in cui la casa non esistesse più a seguito di un rastrellamento, la società civile ha attivato un sistema di assistenza per ospitare le persone in difficoltà. Non è un caso che alla mobilitazione di ieri i manifestanti di origine subsahariana fossero quasi del tutto assenti lasciando alle tunisine e ai tunisini lo spazio per dire “basta a questo regime fascista”. E non è neanche un caso che uno dei momenti più emozionanti sia stato quando il corteo ha incrociato quattro ragazze subsahariane affacciate dal balcone di uno dei tipici palazzi decadenti del centro di Tunisi. Le parole del presidente della Repubblica hanno da subito suscitato forti prese di posizioni. In primis dall’Unione africana: “Invitiamo la Tunisia ad astenersi da qualsiasi discorso di odio di carattere razzista e che possa nuocere alle persone. Condanniamo fermamente le dichiarazioni scioccanti fatte dalle autorità tunisine contro i compatrioti africani, le quali vanno contro lo spirito della nostra organizzazione e i nostri principi fondatori”. Altrettanto immediata è stata la reazione del ministro degli Esteri Nabil Ammar: “Sono delle accuse che rifiutiamo. La migrazione illegale pone dei problemi in tutti i paesi. Il fatto di riconoscere che sia un problema non vuole che si tratti un discorso di odio”. Dall’altra parte del Mediterraneo, per il momento l’Unione europea ha preferito il silenzio. E c’è chi invece ha applaudito al discorso del presidente: “Gli stessi paesi del Maghreb cominciano a suonare l’allarme di fronte alla deriva migratoria. La Tunisia ha deciso di prendere provvedimenti urgenti per proteggere il suo popolo. Cosa aspettiamo a lottare contro il grande rimpiazzamento?”, si è chiesto Eric Zemmour, fondatore del partito di estrema destra Reconquête e candidato alle elezioni presidenziali francesi del 2022. Al di là di quello che succederà nelle prossime settimane in Tunisia, dove il clima di incertezza aumenta quotidianamente, Kais Saied ha giocato la carta dell’immigrazione subsahariana sapendo di premere un tasto scoperto della società tunisina: il razzismo, un argomento rimasto tabù per anni, ora è diventato di pubblico dominio ed è aumentato con l’aggravarsi delle condizioni economiche e sociali. I problemi del paese però non finiscono qui. Parallelamente alla questione degli abusi e delle violenze nei confronti della comunità subsahariana, da settimane si fanno sempre più incessanti le notizie riguardo agli arresti di natura politica. Giornalisti, attivisti e politici di primo piano sono finiti nel mirino della giustizia “per avere attentato alla sicurezza dello Stato”. Modalità che a diversi analisti hanno ricordato i metodi utilizzati all’epoca del despota Zine El-Abidine Ben Ali. L’ultimo arresto a risuonare fortemente per le strade di Tunisi ha coinvolto Jahouar Ben M’Barek, uno dei leader del Fronte di salute nazionale che ha guidato gran parte delle proteste contro il presidente della Repubblica dopo il colpo di forza del 25 luglio 2021, quando ha azzerato il governo e congelato il parlamento. A fare notizia è che il giorno prima era stato fermato suo padre, il leader della sinistra storica tunisina Ezzeddine Hazgui. In Tunisia è in corso il dibattito se le mosse di Saied siano dettate dall’esigenza di distogliere l’attenzione dai risultati deludenti delle ultime elezioni parlamentari (a partecipare è stato solo l’11% della popolazione). Quello che è certo, è che da un giorno all’altro la Tunisia ha cominciato a respirare un vento denso di paura.