“Concedete più telefonate per prevenire i suicidi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 febbraio 2023 Da oramai più di una settimana Ristretti Orizzonti ospita una lettera aperta indirizzata ai direttori penitenziari e ad altre figure di rilievo del sistema carcerario, incentrata sulla necessità di preservare un importante strumento di comunicazione per i detenuti: le telefonate con i propri familiari. Secondo la lettera sottoscritta da numerose associazioni come la Conferenza nazionale volontariato giustizia, l’incremento del numero di suicidi avvenuti nel corso del 2022, ben 84, rappresenta un’emergenza vera e propria, e il miglioramento delle condizioni di vita all’interno del carcere potrebbe rappresentare un modo per prevenire almeno alcuni di questi tragici episodi. Lo psichiatra Diego De Leo, tra i massimi esperti di suicidi, sostiene che creare maggiori opportunità di comunicazione con il mondo esterno potrebbe rendere più tollerabile la vita all’interno del carcere e contribuire alla prevenzione dei suicidi. Viene anche riportata la testimonianza un detenuto che ha sperimentato di persona l’importanza delle telefonate giornaliere con la famiglia: quella di ritrovarsi. Ma descrive come la riduzione del numero di chiamate a disposizione abbia avuto come effetto quello del “riperdersi”, dopo che aveva faticosamente ritrovato un equilibrio grazie alle telefonate quotidiane. L’Ordinamento penitenziario prevede che il trattamento del detenuto debba essere svolto agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. Purtroppo, finita l’emergenza covid, la realtà attuale vede un ridotto numero di opportunità di comunicazione: solo 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese. Questo significa che, ad esempio, un genitore detenuto può dedicare al massimo tre giorni all’anno al figlio. Eppure, durante l’emergenza pandemica, l’introduzione delle videochiamate ha rappresentato un importante miglioramento, permettendo ai detenuti di chiamare a casa molto più spesso, in alcune carceri anche ogni giorno, e di rivedere le loro case e le famiglie lontane. La lettera aperta si appella ai direttori penitenziari, affinché non rinuncino a concedere più telefonate visto che hanno tale “potere” e che lo utilizzino per prevenire i suicidi attraverso questo strumento straordinario. La lettera sottolinea anche l’importanza delle relazioni familiari nella finalità rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione. Il mantenimento dei rapporti con la famiglia attraverso le telefonate potrebbe contribuire a questo obiettivo. In sintesi, la lettera aperta ai direttori penitenziari sottolinea l’importanza delle telefonate con l’esterno per il benessere psicologico dei detenuti. Conclude con un auspicio: “Lasciate le telefonate in più, in nome dell’emergenza suicidi, e anche per dare continuità a quella che la Corte Costituzionale nell’ordinanza N. 162/ 2010 definisce la “progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. Ricordiamo che l’emergenza Covid del 2020, un periodo infernale, ha anche creato le condizioni che hanno accelerato i tempi per i colloqui online, garantendo e quindi il mantenimento dell’affettività. Purtroppo la normativa pone ancora dei limiti. Partiamo da un sistema che, dal 1975 fino ad oggi, ha inteso focalizzare per il detenuto l’autorizzazione a una telefonata di 10 minuti a settimana. Con l’emergenza, e grazie all’ausilio di tutti gli operatori penitenziari, sono riusciti a trovare il sistema di far telefonare tutti i giorni. Finita l’emergenza, si è ritornato alla “normalità”. Ovvero si sono fatti passi indietro. I direttori penitenziari, però, come anche ribadito dalla circolare del Dap di settembre scorso, hanno il potere di poter concedere più telefonate. Nel frattempo si spera che il Parlamento si attivi per rendere più moderno il regolamento penitenziario, soprattutto in merito alle telefonate. Il valore della vita nel buio della cella di Francesco Bei La Repubblica, 25 febbraio 2023 È normale e democratico un carcere dal quale non si può mai uscire, nemmeno dopo 30 anni di reclusione, nemmeno per un permesso premio di qualche ora? Dopo la sentenza della Cassazione che conferma il 41 bis per l’anarchico, si apre il dibattito sul “fine pena mai”. La Cassazione ha rigettato ieri il ricorso di Alfredo Cospito, la sua porta resterà chiusa, ma sono centinaia in Italia i “condannati a morte in vita”, come si auto-definiscono gli ergastolani al 41 bis. Una storia le racconta tutte. “In seguito al decreto sull’ergastolo ostativo, sento che la mia vita successiva non avrà più senso e, non volendo, sogno il suicidio”. A parlare, anzi a scrivere, è Giovanni Di Giacomo. Killer e boss di mafia, ha trascorso già 40 anni in carcere e a luglio ne compirà 69. Non si dichiara innocente, ma dalla sua cella del carcere di Viterbo guarda con orrore e disperazione alla prospettiva di non uscire più, se non da morto. Fine pena mai, appunto, nonostante sentenze della Consulta e della Corte europea dei diritti dell’uomo abbiano detto a più riprese che un regime senza prospettiva alcuna di liberazione, neppure dopo decenni, anche con una condotta carceraria irreprensibile, sia disumano e contrario alla Costituzione e ai trattati internazionali. Il problema è che Di Giacomo, e tanti altri come lui al 41 bis, sono di fatto esclusi dalle norme più favorevoli sull’ergastolo ostativo varate nel dicembre scorso dal governo Meloni. I nuovi percorsi di legge, che non prevedono più come prima solo e soltanto il “pentimento” come unica condizione per tornare all’ergastolo “normale”, non si applicano infatti ai detenuti al 41 bis. Il fatto che il tema sia stato sollevato anche da Alfredo Cospito non è una buona ragione per gettarlo nel cestino senza fermarsi un momento a riflettere. È normale e democratico un carcere dal quale non si può mai uscire, dopo 30 anni di reclusione, nemmeno per un permesso premio di qualche ora? La differenza con gli ergastolani “normali”, che dopo 26 anni possono (attenzione, non è automatico) ottenere la libertà condizionale, è gigantesca e crea un circuito kafkiano nel quale l’essere umano finisce stritolato. Di Giacomo è un assassino, ma può diventarlo anche lo Stato italiano? Il detenuto, dalla sua cella che resta sempre chiusa, con una grafia incerta ha scritto una lettera che è un grido di aiuto: “Per disperazione ho chiesto al magistrato di sorveglianza di Viterbo di poter accedere al suicidio assistito, perché nei miei confronti d’ora in poi sarà attivato solo un accanimento giudiziario”. Se deve restare in cella fino a novanta anni, il quasi settantenne Di Giacomo - entrato in galera quando a palazzo Chigi c’era Bettino Craxi e Ronald Reagan alla Casa Bianca - preferisce farla finita subito. Almeno la sua fine avrebbe un senso, o almeno così spera. “Voglio che la mia morte sia frutto di un significato specifico. E cioè dimostrare che l’Italia, con l’ultimo decreto sull’ergastolo ostativo, ha ripristinato la pena di morte”. È una provocazione la richiesta del suicidio assistito, ma fino a un certo punto, dato che sono clinicamente dimostrati gli effetti sul fisico e sulla mente di una detenzione così prolungata senza prospettiva di uscire. “Quando non si possono più chiedere i benefici penitenziari, viene tolta ogni speranza futura, è la morte civile. Se dopo 40 anni di carcere non posso più accedere ai benefici, significa che li ho scontati inutilmente. Lo stesso vale per quelli che dovrò scontare in seguito, tutto ciò in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con gli articoli 2 e 3 della Carta dei diritti dell’uomo”. La pena, scrive ancora Di Giacomo, “deve tendere al reinserimento del condannato e deve essere improntata al senso di umanità, cosa che con il decreto è stata debellata. Nel mio caso ogni diritto è stato alienato”. C’è una risposta facile a questa richiesta di aiuto. Dissociati dalla tua organizzazione, collabora, dimostra di non essere più pericoloso e ti toglieranno il 41 bis. Una volta che tornerai un ergastolano “normale” potrai sperare di ottenere benefici come la semi-libertà e la libertà condizionale. Il problema è che, di fatto, il 41 bis non viene tolto mai a nessuno. Si è parlato molto di Cospito e ieri è andata a finire come abbiamo visto. Per i mafiosi non se ne parla proprio. Il rinnovo della misura afflittiva da parte del ministro della Giustizia avviene ogni due anni in maniera quasi automatica. E i ricorsi, davanti al tribunale di sorveglianza di Roma, sono tutti respinti. Della sorte di questi vecchi mafiosi nessuno se ne interessa, avendoli l’ordinamento e l’opinione pubblica degradati a sub-umani. Ma anche per i peggiori criminali dovrebbe valere la Costituzione, benché da liberi se la siano messa sotto i piedi macchiandosi le mani di sangue. La Repubblica tuttavia è più forte di loro e potrebbe iniziare a dimostrarlo riaprendo una piccola luce dentro il buio di quelle celle. Muoia quell’anarchico e muoia la Costituzione di Piero Sansonetti Il Riformista, 25 febbraio 2023 Ieri sera la Corte di Cassazione ha deciso che Alfredo Cospito, anarchico, deve morire. Sono passati più di settantacinque anni dall’ultima volta che una Corte italiana decise che alcune persone condannate per un delitto gravissimo dovessero essere messe a morte. Era il 1947. La fucilazione di quattro presunti banditi avvenne il 4 marzo. I condannati erano stati riconosciuti colpevoli di aver compiuto una strage durante una rapina e di avere ucciso anche alcuni bambini. Alfredo Cospito, no. È stato condannato non per avere ucciso qualcuno: per avere collocato due ordigni, di notte, in un luogo deserto fuori da una caserma dei carabinieri. Gli ordigni esplosero e danneggiarono il muro. Nient’altro. Ora Cospito aspetta che una corte d’appello decida se affibbiargli l’ergastolo, pena alla quale da almeno mezzo secolo non è stata mai condannata nessuna persona non colpevole di omicidio. Sarà una assoluta innovazione del diritto. Ma forse no: probabilmente Cospito non subirà la condanna perché smetterà di vivere prima. Cospito è in sciopero della fame da 130 giorni. Sta molto male. Chiede una cosa semplice semplice: che gli sia revocato il 41 bis. Cioè il carcere duro. Per due ragioni. La prima è che il carcere duro è previsto dalle leggi italiane allo scopo dichiarato di spezzare le comunicazioni tra un detenuto e l’organizzazione criminale, mafiosa o terrorista, alla quale il condannato appartiene e della quale è un dirigente. Cospito non comunica con nessuna organizzazione criminale e non è un dirigente di nulla. La seconda ragione è che il carcere duro non è previsto dalla nostra Costituzione e viola molte norme del diritto internazionale, tra le quali il “Codice Mandela”, adottato dall’Onu e dunque riconosciuto anche dall’Italia. La prima sezione penale della Corte di Cassazione ieri sera ha deciso di respingere il ricorso di Alfredo Cospito e anche di respingere la richiesta della Procura generale, che aveva proposto di accettare il ricorso. Succede raramente che la Corte respinga una richiesta della Procura favorevole all’imputato, ma in questa vicenda Cospito le anomalie sono moltissime. È molto grande anche la ferocia mostrata dai rappresentanti di diverse istituzioni. È una giornata triste questo 24 febbraio 2023. Si è scelto di colpire a morte un essere umano e si è scelto di colpire la Costituzione. Che con il suo articolo 27 proibisce trattamenti inumani, e dunque esclude la possibilità del carcere duro. E che ieri sera è stata stracciata dai giudici. Ma noi invece dobbiamo ringraziare Cospito di Astolfo Di Amato Il Riformista, 25 febbraio 2023 Con il suo sciopero della fame, portato avanti a oltranza, sta mettendo a nudo, l’una dopo l’altra, le falsità e le ipocrisie, che hanno reso il dibattito sulla Costituzione e sulla giustizia una pantomima vuota di contenuto e densa di disonestà intellettuale. Il tema che Cospito sta ponendo, con la drammaticità che deriva dall’usare il suo corpo per la battaglia, è se il regime carcerario del 41 bis sia degno di un paese civile. Alla fine, saremo costretti a dire grazie ad Alfredo Cospito! Un grazie che non significherà, certamente, ignorare o, ancora peggio, giustificare i crimini che ha commesso. Gambizzare un uomo e rovinare la sua vita e quella della sua famiglia, solo perché è un dirigente di industria, o creare una trappola potenzialmente mortale contro i carabinieri di una delle tante stazioni, che assicurano la presenza dello Stato nel Paese, sono atti criminali. Il fatto che, per un caso fortunato, non vi siano stati morti nulla toglie alla efferatezza della condotta di Cospito. E, allora, perché saremo costretti a ringraziarlo? È presto detto. Con il suo sciopero della fame, portato avanti a oltranza, sta mettendo a nudo, l’una dopo l’altra, le falsità e le ipocrisie, che hanno reso il dibattito sulla Costituzione e sulla giustizia una pantomima vuota di contenuto e densa di disonestà intellettuale. Il tema che Cospito sta ponendo, con la drammaticità che deriva dall’usare il suo corpo per la battaglia, è se il regime carcerario del 41 bis sia degno di un paese civile. In questi termini essenziali, la questione è di un tale rilievo oggettivo da rendere del tutto trascurabile se chi la solleva sia o no un criminale. Anzi. Occorre riconoscere che Cospito ha avuto la capacità, usando il proprio corpo, di portare all’attenzione dell’intera collettività una questione che, sinora, era restata confinata alla considerazione di pochi addetti ai lavori. Questo giornale, che da sempre si batte affinché fosse affermata la illegittimità del regime carcerario del 41 bis è stato, su questo punto, una voce solitaria in un deserto fatto di silenzio e di cattiva informazione. Alla fine a cosa si riduce la questione posta da Cospito se non a una domanda molto semplice? Uno Stato civile può colpire nel profondo gli aspetti essenziali della dignità di una persona, per quanto abietta sia stata la sua condotta? La domanda, nel momento in cui prende in considerazione la condotta dello Stato, è laica e non può che ricevere una risposta laica. L’unica via idonea per sfuggire all’inevitabile soggettivismo, che la risposta ad una domanda del genere inevitabilmente comporta, è quella segnata dai valori espressi dalla Carta fondamentale, su cui si fonda la convivenza tra i cittadini italiani: la Costituzione repubblicana. È inutile ribadire qui, siccome più volte oggetto di approfondimento da parte di questo giornale, quanto drammatico sia il contrasto tra il regime carcerario che va sotto il nome di 41 bis e i principi costituzionali. Nessun rispetto di questi ultimi e, in particolare, di quelli previsti dagli artt. 2 e 27, che sanciscono il rispetto dei diritti inviolabili della persone e il divieto di pene che si risolvono in trattamenti disumani e non rivolti alla rieducazione del condannato, da parte di un regime carcerario che prevede la possibilità, per tutta la vita, di vivere in celle senza finestre, avendo a disposizione al massimo due ore di aria in spazi ristrettissimi, di una sola ora di socialità con gli altri detenuti, senza la possibilità di sentire musica o di ricevere libri per studiare, avendo libri di lettura contingentati e controllati, avendo diritto a una sola ora di colloquio al mese con i familiari, separati da una struttura in vetro e, perciò, senza neppur poter sfiorare i figli o la moglie. Ecco, allora, che di fronte alla questione sollevata da Cospito emergono le falsità e le ipocrisie. Innanzitutto, di quella parte del centrodestra, che si professa garantista, che testualmente significa rispetto delle regole del diritto poste a tutela della persona di fronte allo strapotere dello Stato, ma che non esita a rinnegarle quando si tratta di gettare via la chiave e murare vivi coloro, che siano stati condannati per determinati reati. Fingendo di ignorare che la Costituzione garantisce i diritti inviolabili a tutti, anche a coloro che siano stati condannati per delitti molto gravi, e che, anzi, l’art. 27 fissa i principi che devono presiedere alla esecuzione della pena senza introdurre alcuna distinzione. Ma anche il centrosinistra, che quando si parla di modifiche alla Costituzione, manifesta automaticamente una profonda avversità, proponendosi come difensore di ultima istanza della “Costituzione più bella del mondo”, mostra tutti i suoi limiti culturali e di genuinità. Una cosa, difatti, è usare la difesa della “Costituzione più bella del mondo” come clava per abbattere gli avversari politici, che indegnamente la aggrediscono, e ben altra cosa è dare concreta attuazione a quella Costituzione, andando contro un DNA che ormai ha saldamente incorporate dentro di sé le sbarre della galera, come momento più alto della catarsi della società e come insostituibile strumento di distruzione degli avversari. Ebbene, il digiuno di Cospito, ormai portato a limiti estremi, proprio perché ha la forza della disperazione mette coloro che se ne occupano in modo ambiguo con le spalle al muro e non consente più di nascondersi dietro le parole. Tutti, dal Ministro Nordio al Presidente del Consiglio Meloni ai cd. garantisti di Forza Italia e del Terzo Polo, ai pavidi esponenti del Partito democratico, che nella intransigenza sembrano aver individuato la loro ultima linea del Piave, confessano, di fronte alla questione Cospito, che nella Costituzione ci sono solo belle parole, che è inutile stare lì a preoccuparsi di come applicare in concreto. Basta solo fare vacui proclami di fedeltà e, per il resto, affidarsi ai monologhi del Festival di Sanremo. Gaetano Azzariti: “Il carcere duro deve tornare ad essere un’eccezione” di Liana Milella La Repubblica, 25 febbraio 2023 Il costituzionalista della Sapienza: “Bisogna che la politica rifletta subito su uno strumento che richiede di essere rivisto alla luce dei principi costituzionali, della giurisprudenza della Consulta e delle Corti europee”. Si aspettava quest’esito infausto? Il costituzionalista della Sapienza Gaetano Azzariti dice subito: “La strada scelta è di chiusura totale. I giudici hanno disatteso la pur ragionevole richiesta del Pg Gaeta di rinviare la decisione ai giudici di sorveglianza. Personalmente mi aspettavo un esito diverso. Ma stavolta è proprio necessario leggere le motivazioni per pronunciarsi nel merito”. Di chi sarà la responsabilità se Cospito muore? “Se lui continua a vivere è possibile ricorrere di nuovo al tribunale di sorveglianza e alla Corte europea di giustizia. C’è un precedente del 2018, il caso di Provenzano, in cui i giudici hanno condannato l’Italia per un’applicazione del 41bis troppo estensiva”. Alla fine Nordio ha avuto ragione... “Io non la metterei così. La sua decisione era politica, i giudici autonomi e indipendenti potevano adottarne una diversa, se non opposta” Cospito però è l’unico anarchico al 41bis... “La sua è certamente un’applicazione estesa di una norma creata nel 1986 contro il terrorismo, usata dal 1992 come misura eccezionale dopo le drammatiche stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il caso di Cospito è diverso. Perché lui non mi pare in grado di dirigere un’organizzazione criminale ordinando dal carcere specifiche aziioni criminali”. Però le violenze ci sono state... “Certo, e sono da punire con rigore, ma si tratta di episodi eversivi fatti “nel nome” di Cospito, e non diretti da lui. L’effetto perverso del 41bis è aver trasformato un detenuto condannato per gravi reati in un simbolico leader anarchico”. L’assedio alla Cassazione degli anarchici ha condizionato i giudici? “Hanno deciso certamente nella peggiore situazione possibile perché è difficile ragionare con freddezza tenendo conto solo dello stato di diritto e di fatto, com’è necessario che facciano i giudici. Mentre qui i giudici sono stati bombardati da pressioni drammatiche, dalle violenze di piazza in Italia e all’estero, dallo stesso sciopero della fame di Cospito, e non da ultimo dalle forti tensioni politiche”. Parla di Nordio? “Sì, ma non solo. Penso anche alle improvvide uscite del duo Delmastro-Donzelli, una grave sgrammaticatura sia politica che istituzionale e di scarso rispetto dei rapporti tra i partiti”. E se Nordio si fosse accollato la responsabilità politica di sospendere il 41bis? “Per garantire la serenità dei giudici si sarebbero dovuti evitare tutti i commenti che hanno dimostrato - ma non mi riferisco solo a Nordio - la fortissima incertezza giuridica della situazione. Nordio ritiene sussistenti i presupposti del 41bis, la stessa certezza non ce l’ha il Pg della Cassazione Gaeta, e i vari giudici coinvolti nel caso che hanno espresso valutazioni tra loro difformi”. Il 41bis viene applicato con troppo automatismo? “Bisogna che la politica rifletta subito su uno strumento che richiede di essere rivisto alla luce dei principi costituzionali, della giurisprudenza della Consulta e delle Corti europee. Sì al carcere duro solo come assoluta eccezione nei gravissimi casi in cui è effettivamente in pericolo la sicurezza pubblica ed è accertata, oltre ogni ragionevole dubbio, la pericolosità effettiva del condannato”. Va abolito? “Mi attengo a quello che ha scritto la Consulta che ha provato a limitare gli effetti della sua applicazione, confermandone la costituzionalità, ma preservando il senso di umanità che deve garantire la detenzione di chiunque”. Parlando così non ha paura di essere attaccato dai “sacerdoti” del 41bis? “La mia stella cometa è la Costituzione, e non posso fare altro che leggere le vicende degli stessi detenuti con la lente fornitami dagli articoli 27 (la pena deve tendere a rieducare il condannato) e 13 (è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque private della libertà). Chi equipara la pericolosità sociale di un capomafia come Messina Denaro o Riina o Provenzano con criminali che però non hanno alle spalle questa stessa potenza di fuoco secondo me commette un errore. Che Giovanni Falcone, uno degli artefici del 41bis, non avrebbe mai commesso”. Se la violenza è una malattia, il carcere non è la cura di Diego Mazzola Il Riformista, 25 febbraio 2023 Gli studi portati avanti dalla medicina, dalla moderna psichiatria e dalla sociologia, hanno dimostrato che il “cattivo”, il mostro che uccide senza motivo, non esiste. Sarà bene che i forcaioli se ne facciano una ragione, anche perché chi non ha ucciso non si immagina neppure quante volte i cosiddetti “assassini” si dichiarano incapaci di darsi una spiegazione razionale per quello che hanno fatto. Molto spesso, pur ritenendosi persone intelligenti e ragionevoli, si dichiarano vittime di pensieri irrazionali e insoliti. È dimostrato che la paura, l’essere immersi in una cultura violenta, la stessa mancanza del controllo del sé, minano profondamente le ragioni che ci parlano della volontarietà nel compiere un atto di violenza. Del resto, Hilary e Steven Rose, autori di “Geni, cellule e cervelli”, si domandano: “Se le azioni umane sono il prodotto di specifici processi cerebrali, che ne è del concetto giuridico di responsabilità?”. Sorge vago il sospetto che i sistemi penali, che operano nel mondo, del concetto giuridico di responsabilità ne sappiano proprio poco, visto che bastano loro anche le pur semplici confessioni o ammissioni di colpa. Queste persone, come il “sociopatico violento” (che uccide per il proprio piacere), il terrorista islamico (convinto di doverlo essere in adempimento a una volontà divina) o il pedofilo (divenuto tale dopo aver conosciuto la sessualità tanto temuta da chi a sua volta ne fu vittima prima di lui), sono da considerarsi persone malate: ma non risulta su nessun prontuario medico che il carcere possa essere un luogo di cura. Ciò che risulta, al contrario, è che la violenza intraspecifica deve essere considerata come il frutto di una incapacità di porsi nello stato d’animo o nella corretta relazione con un’altra persona con nessuna o una debole partecipazione emotiva. In poche parole si parla di una mancata educazione al vivere sociale e civile, dell’ignorato concetto di ‘empatia’ e, molto spesso, di una non appresa capacità di amare. E queste non possono essere imposte da un regime, ma ricercate con il massimo impegno fin dalle “scuole piccole” nell’applicazione più coerente con il rispetto dei diritti dell’individuo. Dato che ci siamo: che cosa impedirebbe all’Istituzione scolastica di verificare se, a ciclo di studi concluso, il cittadino “non più studente” sia riuscito a trovare un lavoro legale nel quale cominciare la propria vita nella società civile? E se ciò non fosse, perché non si potrebbe dare un senso più completo ai programmi degli uffici del collocamento? Perché mai di ciò che riguarda la felice relazione di un cittadino con la propria gente dovrebbe occuparsi solo il carabiniere o il magistrato? Perché dico ciò? Per dichiararmi pronto a seguire chi decida, finalmente, di costruire un progetto politico per l’abolizione del carcere e il superamento del sistema penale. “No Prison” ne è un esempio, così come ne è un esempio il libro “Abolire il carcere” di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Tra le molte osservazioni preziose che compaiono nel libro, sono senza dubbio molto rilevanti quelle in postfazione di Gustavo Zagrebelsky, quando definisce che “il carcere è prima di tutto segregazione”, oppure quando riferisce che “il Cristo vuole la conciliazione integrale, ma la società degli onesti non la vuole. Il carcere è nato, più che come sanzione, come pulizia della società dai suoi scarti: poveri, vagabondi, mendicanti, sbandati, irregolari d’ogni genere, da offrire in sacrificio all’ordine sociale”. D’altra parte la parola “carcere” deriva dall’aramaico “carcar” che vuol dire sotterrare, tumulare. È quel che avviene per i rifiuti tossici, gli scarti nocivi della società dei consumi. Solo per essere chiaro fino in fondo, dirò con Michael Zimmerman che di fatto la “punizione” ovvero la “pena” diventa lo strumento più ambito nei progetti di chi crede, spesso in modo inconsapevole, nell’illusione totalitaria. Zimmerman sostiene che a ciò serve il proibizionismo, che si vuole far condividere partendo da chi ti vuole punire per l’uso di sostanze psicoattive (volgarmente note come “droghe”). Di fatto l’Antiproibizionismo e l’Abolizionismo del carcere e del sistema penale sono da intendersi come facce di una stessa medaglia. Mi auguro che un giorno la violenza potrà essere riconosciuta come una malattia sociale da contrastare con mezzi più adeguati della galera. Se poi facessimo lo sforzo di evitare la “delazione di Stato”, come previsto dall’art. 4 bis, potremmo impedire che l’Ordinamento possa definire come imperdonabili molti dei comportamenti umani, e faremmo un deciso passo avanti nel precetto cristiano - e modernamente laico - del “non giudicare”. Cospito, “il 41bis è legittimo”. Neppure il Pg convince la Corte di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 febbraio 2023 La Cassazione rigetta il ricorso, snobbando la Procura generale. L’anarchico torna al digiuno. L’avvocato Rossi Albertini: “Volevano il martire e lo avranno. Pensavamo che il diritto potesse tornare ad illuminare questa buia vicenda. Questa decisione dimostra che sbagliavamo”. Dopo quasi nove ore di camera di consiglio, mentre fuori dal “Palazzaccio” di Roma la tensione inizia a salire oltre il trascurabile - perché il centinaio di anarchici in attesa fin dalle 11 del mattino già mostrava poca pazienza benché tanti propositi di lotta a muso duro (e qualcuno si era spinto addirittura a minacciare “l’inferno per i ricchi in questo Paese, se Cospito dovesse morire”) - arriva la sentenza della Cassazione. La Prima sezione presieduta dalla magistrata Angela Tardio ha rigettato il ricorso contro la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma proposto dall’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale dell’anarchico che è in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso, e ha condannato “il ricorrente al pagamento delle spese processuali”. Alfredo Cospito resta dunque al 41 bis. Rigettata perfino la richiesta dello stesso Avvocato generale della Cassazione, Pietro Gaeta, che, nel parere depositato l’8 febbraio e siglato anche dal Procuratore generale Luigi Salvato, aveva proposto la revoca del regime penitenziario speciale cui è sottoposto il detenuto anarchico dal maggio 2022, e aveva chiesto il rinvio degli atti al Tribunale di sorveglianza per un “compendio argomentativo del relativo provvedimento impositivo” del 41 bis. In piazza Cavour, blindata fin dal mattino da un imponente schieramento di forze dell’ordine, il gruppo di anarchici può solo urlare tutta la sua rabbia. Volano parole grosse e qualche minaccia, ma il presidio viene subito sciolto, gli striscioni che definiscono l’ergastolo ostativo e il 41 bis come “tortura di Stato” vengono arrotolati, e i manifestanti abbandonano alla spicciolata il piazzale. In pochi minuti la notizia però arriva tramite tv all’ospedale San Paolo di Milano dove Cospito è ricoverato da un paio di settimane e dove aveva ripreso lentamente ad assumere integratori, rincuorato dalla requisitoria del Procuratore generale della Cassazione. Immediata, ieri sera, la sua decisione - già preannunciata - di interrompere di nuovo ogni forma di alimentazione e ricominciare il suo sciopero della fame fino alla morte. Che “arriverà presto”, secondo Cospito, a quanto si apprende da ambienti sanitari. “Spero - avrebbe detto l’anarchico - che qualcuno dopo di me continuerà la lotta”. Per l’avvocato Rossi Albertini, che potrà vedere il suo assistito solo lunedì (mentre oggi il detenuto sarà visitato dal suo nuovo medico di fiducia), il verdetto equivale “ad una condanna a morte”. “Volevano il martire e lo avranno”, ha commentato a caldo amareggiato. “Leggendo i pareri favorevoli della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, della Direzione distrettuale antimafia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria inviati al Ministro - aggiunge poi il difensore di Cospito - avevamo capito che la decisione ministeriale fosse stata politica e non giuridica. Avevo maturato qualche speranza dopo che per ben due volte la Cassazione aveva anticipato l’udienza, e dopo la lettura della requisitoria del Pg Gaeta pensavamo che il diritto potesse tornare ad illuminare questa buia vicenda. La decisione di questa sera (ieri sera, ndr) dimostra che ci sbagliavamo”. “Prendiamo atto della decisione - commenta uno stringato comunicato del ministro Nordio - Come più volte illustrato in Parlamento, essa attiene al procedimento giurisdizionale di competenza esclusiva della magistratura nella sua piena autonomia e indipendenza”. Ma se Nordio aveva sperato in una via d’uscita offerta dal Comitato nazionale di Bioetica - al quale aveva chiesto di esprimersi su quali margini di autodeterminazione in materia di fine vita e di trattamenti sanitari obbligatori potesse avere una persona detenuta che sceglie volontariamente di rischiare la morte con lo sciopero della fame - dovrà cercarne altre. Perché, a poche ore dalla decisione della Corte di Legittimità, il Comitato nazionale di Bioetica ha fatto sapere con una nota formale che bisognerà attendere ancora per avere il parere richiesto dal Guardasigilli. In sostanza, alla domanda di Nordio se Cospito avesse il diritto di rifiutare l’alimentazione forzata e i trattamenti sanitari offerti per salvargli la vita, i bioetisti di Stato, dopo due giorni di riunioni plenarie, hanno “ritenuto di proseguire l’analisi al fine di ottenere la massima convergenza possibile con riguardo alle delicate e complesse problematiche sottese, nel rispetto di tutte le posizioni sino ad ora emerse”. Nessuna sponda, perciò, per il Guardasigilli. Al quale l’associazione Antigone rivolge un ulteriore appello, visto che “la Cassazione si muove su un profilo di pura legittimità del provvedimento”. L’augurio è “che anche alla luce di altri pareri, Nordio possa rivedere la sua decisione, anche perché il regime di 41bis nasceva con altre finalità e non per contrastare ogni tipo di criminalità”. Di carattere puramente umanitario è invece l’appello di Amnesty International: “La nostra posizione - riferisce il portavoce italiano Riccardo Noury - resta quella legata alle condizioni di salute di Cospito, rispetto alle quali la persistenza del regime del 41bis continua ad avere un carattere del tutto afflittivo”. E se da Madrid si leva dura la prima reazione degli anarchici - “Stato italiano assassino”, è scritto su uno degli striscioni issati davanti all’ambasciata italiana - sale l’attenzione per le tensioni che potrebbero scoppiare anche a Milano, Roma e in altre città europee. L’ultima chance giudiziaria per Cospito è ancora nelle mani del Tribunale di Sorveglianza di Roma che dovrà pronunciarsi sul ricorso presentato da Rossi Albertini contro il “no” di Nordio. “Il sipario in democrazia non si chiude mai, le istanze democratiche non sono mai dei muri”, ricorda la Capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera Luana Zanella replicando al capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti che vorrebbe far calare il silenzio su una vicenda dalle mille contraddizioni. Ma umana, non teatrale. La Cassazione (non) chiude il caso Cospito di Federica Olivo huffingtonpost.it, 25 febbraio 2023 Il condannato resta al 41 bis, la maggioranza esulta. Lo sciopero della fame continuerà e rimane un enorme problema politico, anche con gli anarchici delusi e arrabbiati. Il detenuto sospende il potassio, “sono convinto che presto morirò”. Storia di una vicenda gestita malissimo. Una decisione definitiva, dal punto di vista giudiziario. Perché oltre la Cassazione, almeno a volersi fermare alle corti italiane, non si può andare e il tempo non gioca a favore dell’esito positivo dell’ennesimo ricorso pendente davanti al tribunale di sorveglianza di Roma. Il rigetto del ricorso contro il 41 bis ad Alfredo Cospito da parte della Cassazione mette un punto al principale filone giudiziario della vicenda, ma lascia aperti tutti gli aspetti - politici e di ordine pubblico - che gravitano intorno alla storia dell’anarchico - il primo anarchico in assoluto a cui è stato inflitto il 41 bis - in sciopero della fame da quattro mesi contro il carcere duro e l’ergastolo ostativo. La Suprema corte dicendo “no” al ricorso dell’avvocato Flavio Rossi Albertini ha, in sostanza, confermato la linea del governo. Ribadendo, anche se con un’altra forma e un’altra procedura, quel rigetto che già il ministro Carlo Nordio aveva già rilasciato qualche settimana fa, quando sul suo tavolo era arrivata la richiesta di revocare il decreto di carcere duro varato da Marta Cartabia. Per il governo la scelta della Cassazione rappresenta indirettamente una vittoria: la linea dura, ribadita più volte dalla premier Giorgia Meloni, non ha ragione di vacillare, né di subire deviazioni. “Non saranno violenza o minacce a cambiare leggi e sentenze”, ha immediatamente commentato il vicepremier Matteo Salvini. Il rischio, per il governo, però è che ora si apra una stagione di conflittualità. Più volte gli anarchici hanno minacciato le istituzioni e lo hanno fatto anche oggi: “Se Cospito muore sarà l’inferno”, era una delle frasi lanciate contro il Palazzaccio, prima che la notizia del rigetto del ricorso facesse partire il coro “assassini”. Le forze dell’ordine da settimane monitorano quella che in maniera approssimativa è stata definita la galassia anarchica e hanno alzato il livello di attenzione. In particolare, hanno gli occhi puntati verso quelli che potrebbero essere obiettivi sensibili. L’allerta non è massima, anche perché i soggetti che, secondo gli investigatori, sarebbero pronti a usare la violenza in solidarietà a Cospito non sono tantissimi. Una stima è difficile, perché l’anarchismo non ha confini ben definiti, ma siamo nell’ordine delle decine, al massimo poche centinaia. Ma se il rischio di atti dimostrativi violenti è relativamente contenuto rischi più generali di ordine pubblico - come cortei che sfociano nella violenza - esistono. E dopo la decisione di oggi potrebbero aumentare. Ecco che allora, una sentenza che sembra a tutti gli effetti una vittoria del governo potrebbe rivelarsi un atto problematico da un punto di vista politico. “La decisione della Cassazione fa calare definitivamente il sipario sulla richiesta di sospensione del regime di detenzione duro 41 bis per l’anarchico Alfredo Cospito. A nulla sono valse le intimidazioni e le minacce subite in questi mesi ai danni delle Istituzioni”, scrive Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera. Il sipario, però, inevitabilmente non potrà calare. Perché l’ennesimo no al 41 bis potrebbe portare alla morte di Cospito, che ha ascoltato la notizia della decisione della Cassazione dall’ospedale San Paolo di Milano dove è stato ricoverato dopo il trasferimento dal carcere di Sassari a Opera, e ha annunciato di aver sospeso la terapia con il potassio, dicendo di essere convinto che morirà presto: “Spero che qualcuno dopo di me continuerà la lotta”, ha dichiarato. Parole drammatiche, che aggiungono dettagli a una vicenda umanamente dolorosa. Si chiude il capitolo giudiziario insomma, se ne aprono altri. E i nodi da sciogliere restano. Uno di questi riguarda l’eventualità che Cospito perda conoscenza: è lecita l’alimentazione forzata? A sentire l’avvocato e alcuni esperti parrebbe di no, perché l’uomo ha lasciato una sorta di dichiarazione anticipata di trattamento in cui la rifiuta. Il comitato di bioetica, però, interrogato dal ministero della Giustizia, proprio oggi ha fatto sapere che ci rifletterà ancora: “Dopo un corale, approfondito dibattito, la Plenaria ha ritenuto di proseguire l’analisi al fine di ottenere la massimo convergenza possibile con riguardo alle delicate e complesse problematiche sottese, nel rispetto di tutte le posizioni sino ad ora emerse”. Al coro dei politici che commentano la decisione si aggiunge la voce di Alessandro Cattaneo, capogruppo di Forza Italia: “Ogni decisione sul detenuto Cospito, da ultimo quella della Cassazione rispetto al 41 bis, è stata assunta nel pieno rispetto delle garanzie della persona, come è giusto e doveroso che sia in uno Stato di diritto. Per questo, lo Stato non arretrerà né si lascerà condizionare dalle nuove e gravissime minacce degli anarchici. Mi auguro che ogni forza politica assuma una posizione di responsabilità, perché di fronte a queste minacce dobbiamo remare tutti nella stessa direzione”, dichiara. Più sobrio il commento di Nordio: “Prendiamo atto della decisione della Corte di Cassazione. Come più volte illustrato in Parlamento, essa attiene al procedimento giurisdizionale di competenza esclusiva della magistratura nella sua piena autonomia e indipendenza”. Le motivazioni della decisione della Cassazione - che un po’ sorprende perché la procura generale, che rappresenta l’accusa, aveva chiesto un annullamento con rinvio - ancora non sono note. È ipotizzabile, però, che alla base del rigetto ci sia una questione molto specifica di diritto. Inoppugnabile e verosimilmente inevitabile. Che, però, come detto, lascia aperte altri aspetti di una vicenda che, da un punto di vista politico, non è stata gestita nel migliore dei modi. Più volte autorevoli esponenti politici hanno invitato ad abbassare i toni, tralasciando il fatto che forse anche i loro di toni avrebbero potuto essere meglio calibrati. Era il 29 gennaio, ad esempio, quando le manifestazioni iniziavano ad aumentare, in Italia e in Europa, e la premier - commentando alcune azioni violente - diceva: “Azioni del genere non intimidiranno le istituzioni. Tanto meno se l’obiettivo è quello di far allentare il regime detentivo più duro per i responsabili di atti terroristici. Lo Stato non scende a patti con chi minaccia”. La linea della fermezza, certo, che però avrebbe potuto essere declinata diversamente. Così come avrebbe potuto essere gestita in un modo meno grottesco la querelle sulla diffusione delle carte che contenevano le conversazioni di Cospito con altri detenuti spiattellate in Parlamento da Giovanni Donzelli, su gentile assist del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Come dimenticare, poi, il lungo silenzio del ministro Nordio, intervenuto dopo che per giorni della vicenda avevano parlato tutti, meno che lui, che era il più titolato a farlo. Lo ha fatto dopo, certo, assecondando la linea di tutto l’esecutivo. Linea che, anche se chi lo conosce meglio qualche volta ha dubitato, era e resta anche la sua. Cospito resta al 41bis: si lascerà morire? di Errico Novi e Valentina Stella Il Dubbio, 25 febbraio 2023 No della Cassazione alla revoca del “carcere duro” per l’anarchico. Il legale: “È una condanna a morte”. Ora quel filo a cui è sospesa la vita di Alfredo Cospito rischia di spezzarsi davvero. Le 6 del pomeriggio: dal Palazzaccio arriva copia digitale della decisione. “La Corte suprema di Cassazione, prima sezione, ha pronunciato la seguente sentenza sul procedimento proposto da Cospito Alfredo avverso l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma del 1° dicembre 2022: rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali”. Il detenuto, in sciopero della fame da 127 giorni, apprende la notizia dalla tv, nel suo letto d’ospedale al San Paolo di Milano. Fino a poche ore prima aveva mitigato il rifiuto del cibo con l’assunzione di integratori. Dopo aver appreso del rigetto pronunciato da piazza Cavour, ha di nuovo rifiutato qualsiasi terapia, riferiscono i medici. È una decisione che sconfessa i pronostici. Sul tavolo i cinque giudici della Cassazione non avevano solo il reclamo presentato dal difensore dell’anarchico, Flavio Rossi Albertini, ma anche la requisitoria firmata dal pg della Suprema Corte Luigi Salvato e dall’avvocato presso la Procura generale Piero Gaeta: un atto in cui si chiedeva l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio ai giudici di sorveglianza capitolini. Esito apparso come più che plausibile. Più di un accoglimento tout court della revoca chiesta da Cospito, certo, ma anche assai più del rigetto arrivato alla fine da piazza Cavour. Il legale: “Vicenda buia” - Interpellato dal Dubbio, l’avvocato Rossi Albertini commenta: “Leggendo i pareri favorevoli della Direzione nazionale antimafia, dei pm antimafia di Torino e del Dap, pareri inviati al ministro della Giustizia, avevamo compreso come la decisione ministeriale fosse stata politica e non giuridica. Dopo la lettura della requisitoria del pg Gaeta, pensavamo che il diritto potesse tornare a illuminare questa buia vicenda. La decisione di questa sera dimostra che ci sbagliavamo”. Poi aggiunge: “Viviamo la sentenza come una condanna a morte” Fuori è rabbia cieca. Le decine di anarchici riuniti in presidio dalla mattina urlano di tutto. “Vergogna” è l’espressione che risuona più delle altre. Un manifestante dice: “Sapevamo che erano servi e venduti, ora sappiamo che sono assassini”. E quell’epiteto rimbalza nella piazza. Presidi in attesa della sentenza erano stati allestiti anche all’estero, per esempio a Madrid, oltre che a Torino e in altre città italiane. Alla rabbia dei militanti fa da contrappunto l’imperturbabile e asciutto commento del guardasigilli Carlo Nordio: “Prendiamo atto della decisione della Corte. Come più volte illustrato in Parlamento, essa attiene al procedimento giurisdizionale di competenza esclusiva della magistratura nella sua piena autonomia e indipendenza”. Meno sobrie le parole affidate, per esempio, da Matteo Salvini a un tweet: “Non saranno violenza o minacce a cambiare leggi e sentenze”. Replica indirettamente Luigi Manconi: “Leggeremo le motivazioni della sentenza ma sin da ora posso dire che siamo di fronte a un verdetto iniquo”. C’è chi nell’esecutivo è assai più preoccupato del capitano leghista. Innanzitutto Nordio: il quale ha interpellato già la settimana scorsa il Comitato di bioetica per chiedere se sarebbe legittimo sottoporre Cospito a nutrizione forzata nonostante l’anarchico abbia firmato una Dat, dichiarazione anticipata di trattamento, in cui rifiuta chiaramente qualsiasi cura, in previsione di una perdita di coscienza. Proprio ieri il Comitato è tornato a riunirsi, e prima ancora che arrivasse la sentenza di piazza Cavour ha diffuso una breve nota in cui fa sapere che si è deciso di proseguire l’analisi sui quesiti posti da via Arenula “al fine di ottenere la massima convergenza possibile, nel rispetto di tutte le posizioni sino a ora emerse”. Vuol dire che nel Comitato c’è chi ritiene costituzionalmente sostenibile l’alimentazione forzata per Cospito. Un’ipotesi legata alla necessità di preservare il 41 bis dal rischio di altri scioperi della fame. Ma sulla possibilità che l’interesse dello Stato a blindare il “carcere duro” prevalga su diritto alla salute e all’autodeterminazione sancito dalla Carta, giuristi del calibro di Giovanni Maria Flick già si sono espressi negativamente. Restano pochi spiragli. Un’altra componente del collegio difensivo di Cospito, Caterina Calia, spiega che l’anarchico “ormai non si alza più dal letto se non per i colloqui con noi avvocati, non va più all’ora d’aria”. Ora il rischio che muoia, o che si debba assistere a un discutibile intervento di nutrizione coatta, è elevatissimo. Andranno esaminate con cura le motivazioni della Cassazione. Ma intanto pesano ancora le analisi della Procura generale, che aveva segnalato la mancanza di verifica, nel no alla revoca del 41 bis pronunciato a dicembre dai giudici di sorveglianza, sui rilievi della difesa di Cospito, in particolare sulla inconsistenza della tesi per cui gli scritti fatti filtrare dall’anarchico quando era all’alta sicurezza potessero effettivamente costituire “direttive criminose concrete per la determinazione a specifiche condotte criminose degli adepti esterni”, anziché una libera, seppur violenta, espressione del pensiero. Osservazioni che non sono bastate. Non è bastato che il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo e la Dda di Torino segnalassero, nei pareri inviati a Nordio, che l’alta sicurezza con controllo della corrispondenza potevano rappresentare una soluzione adeguata. Rossi Albertini dice che dietro i no pronunciati da Nordio il 9 gennaio e ieri dalla Cassazione c’è una scelta politica. Di sicuro rischiano di esserci pesanti conseguenze per la stessa tenuta del 41 bis a un futuro vaglio della Corte europea. Un’eterogenesi dei fini sulla quale, evidentemente, giudici e guardasigilli non hanno fatto calcoli. L’avvocato difensore: “È una condanna a morte, volevano un martire e lo avranno” di Edoardo Izzo La Stampa, 25 febbraio 2023 Alfredo Cospito resta al 41 bis. La Corte di Cassazione, riunita per l’udienza sull’anarchico in sciopero della fame da 128 giorni, ha espresso il suo verdetto. La Corte era chiamata a decidere sul ricorso dell’avvocato Flavio Rossi Albertini contro il verdetto del tribunale di Sorveglianza di Roma che nel dicembre del 2022 confermò la decisione ministeriale del 41 bis. I supremi giudici, che hanno anticipato per due volte la data dell’udienza viste le condizioni di salute precarie di Cospito, hanno respinto il ricorso della difesa. “Stop a qualunque terapia” - Informato sul verdetto, Cospito ha annunciato che rifiuterà ogni terapia in ospedale. Nei giorni scorsi, al suo legale Flavio Albertini Rossi e ai sostituti processuali del suo difensore che sono andati a trovarlo al San Paolo aveva detto che in caso di pronuncia per lui negativa della Cassazione avrebbe smesso con gli integratori che aveva ricominciato ad assumere. Grazie agli integratori alcuni suoi valori, arrivati a soglie minime pericolose per la sua salute, erano migliorati. L’avvocato della difesa: “Volevano un martire e lo avranno” - Per l’avvocato difensore questa della Cassazione “è una condanna a morte”: “Volevano il martire e lo avranno”, dice Flavio Rossi Albertini. “Avevo maturato qualche speranza dopo che per ben due volte la Cassazione aveva anticipato l’udienza e soprattutto dopo il parere del pg della Cassazione. Hanno deciso così perché si sentono forti dal momento che hanno l’opinione pubblica a favore”. Il Comitato di Bioetica decide di proseguire l’analisi - Il Comitato Nazionale di Bioetica, riunito in seduta plenaria, ha invece deciso di proseguire l’analisi in merito alle problematiche connesse all’autodeterminazione nel ricevere o meno i trattamenti sanitari offerti. Lo rende noto lo stesso Comitato in una nota, al termine del dibattito relativo ai quesiti posti dal Ministero della Giustizia. “Dopo un corale, approfondito dibattito, la Plenaria ha ritenuto di proseguire l’analisi al fine di ottenere la massimo convergenza possibile con riguardo alle delicate e complesse problematiche sottese, nel rispetto di tutte le posizioni sino ad ora emerse”. Condannato al pagamento delle spese processuali - La prima sezione penale della Corte di Cassazione, oltre ad aver rigettato il ricorso, condanna Cospito al pagamento delle spese processuali. In piazza Cavour la paura degli scontri - “Assassini”, hanno urlato i manifestanti in piazza Cavour, davanti alla Suprema Corte. “Abbiamo scelto di non andare via e di aspettare la sentenza”, spiega una ragazza che sta partecipando al sit-in degli anarchici in solidarietà con Cospito. “Se Alfredo muore, ve la faremo pagare. La nostra voglia di libertà è più forte della vostra autorità” e “facciamo sentire la nostra voce a questa gentaglia” sono altri dei passaggi del discorso di chi si alterna al microfono del presidio a piazza Cavour. Sono stati srotolati e appesi tutti gli striscioni contro il 41 bis , l’ergastolo e la “tortura di Stato”. “Abbiamo saputo della decisione della Corte di Cassazione - dice l’anarchico Lello Valitutti -: che fossero dei venduti e dei servi lo abbiamo sempre saputo. Da oggi, ufficialmente, sono degli assassini. Si stanno marchiando del sangue di un compagno valoroso, di un nostro fratello, di una persona degna”. “Quello che hanno fatto stasera - aggiunge - resterà scritto nella storia: sarà una vergogna per questa Corte, sarà una vergogna per questo Paese. Saranno i soli responsabili di tutto quello che succederà, insieme a quelli che li hanno forzati a prendere questa decisione assolutamente illegale, anticostituzionale, contraria a tutti i trattati sui diritti umani. Siete dei miserabili assassini”. Ieri un gruppo di quattro persone era salito all’Altare della Patria con uno striscione e i fumogeni. Sono stati identificati dalla Digos. Manifestazioni si erano ripetute sia a Roma sia a Milano nelle passate settimane. Presidio anche a Torino - Presidio anarchico davanti al Palagiustizia di Torino in solidarietà ad Alfredo Cospito. “Al fianco di Alfredo, al fianco di chi lotta” e “Chiudere il 42 bis ora” recitano gli striscioni affissi dai manifestanti che stanno distribuendo volantini ai passanti. “La lotta di Alfredo - si legge tra l’altro nel volantino - è una lotta contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, è una lotta che riguarda tutti e tutte noi. Oggi, come nei mesi scorsi, siamo di nuovo in strade nelle piazze insieme ad Alfredo per “l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo”, “per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo Paese”. Lo abbiamo fatto in autonomia senza le direttive di alcuno, per solidarietà a un nostro compagno e per la distruzione delle galere e delle società che esse riflettono”. Cospito: “Ora spero che qualcuno prosegua la lotta dopo di me”. di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 25 febbraio 2023 L’anarchico resta al 41 bis nella stanza carceraria dell’ospedale San Paolo di Milano. Prevista la visita del medico di fiducia. La notizia che cambia tutto buca l’isolamento del 41 bis attraverso la televisione. Alfredo Cospito è nella sua stanza nel reparto carcerario dell’ospedale San Paolo. È chiuso qui da 15 giorni, e nell’ultima settimana le condizioni erano andate lentamente migliorando. Gli elettroliti nel sangue saliti a livelli “accettabili” e anche il peso aveva smesso di scendere. Ora però cambia tutto. E il rigetto della Cassazione è “una condanna a morte” secondo gli anarchici. Un destino che Cospito ormai si sente quasi addosso. La sua prima decisione dopo la sentenza è stata, di fatto, la conferma di quanto ripetuto finora: “Basta integratori, basta yogurt, stop a qualsiasi alimentazione”. Il timore di un crollo fisico e psicologico - La sorveglianza intorno a lui s’è fatta, in qualche modo, ancora più stretta. Non è considerato un detenuto a rischio “suicidario” ma il timore per un calo fisico repentino, legato anche al rischio di un tracollo psicologico, c’è. Così, dopo che la matassa sembrava essersi districata con il parere favorevole del pg della Cassazione al rinvio ora tutto riprende a ingarbugliarsi e a al centro torna lo stato di salute del 55enne fondatore della Federazione anarchica informale. “Spero che qualcuno dopo di me continuerà la lotta contro il carcere duro”, ha detto dal suo letto del San Paolo, parlando di sé quasi al passato. Chi lo ha incontrato prima della sentenza lo ha trovato lucido, capace di reggere anche una discussione, anche se provato nel fisico da oltre quattro mesi di sciopero della fame. Le conseguenze dello stop agli integratori - Ma la decisione di interrompere di nuovo gli integratori potrebbe avere conseguenze ancora più serie. “Dopo la lettura della requisitoria del pg Gaeta - ha detto l’avvocato Rossi Albertini -, pensavamo che il diritto potesse tornare ad illuminare questa buia vicenda. La decisione di questa sera dimostra che ci sbagliavamo”. Per i legali a pesare sul caso Cospito sono anche “la politica” e “l’opinione pubblica”. La visita del medico - Sabato e domenica gli avvocati non potranno accedere nel reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale. Quindi nessun incontro prima di lunedì. È invece possibile che Cospito venga visitato già sabato dal medico di fiducia Andrea Crosignani che lo segue dal suo arrivo a Opera il 30 gennaio. In queste settimane s’erano rincorse voci di un imminente trasferimento del 55enne nel reparto medico interno del penitenziario, proprio per i valori in lenta risalita. Ora questa prospettiva è del tutto esclusa. Il ricorso pendente - Sulle sue condizioni di salute vigileranno i magistrati del Tribunale di sorveglianza di Milano, guidati da Giovanna Di Rosa. Cospito resterà al San Paolo, ma in attesa di cosa? C’è un ricorso ancora pendente al Tribunale di sorveglianza di Roma, ma i tempi sono lunghi. C’è poi la partita aperta alla Consulta sulle attenuanti per il reato di strage politica. Ma una data ancora non c’è. Da ultimo c’è il parere del Comitato nazionale per la bioetica, che però ha chiesto ulteriore tempo. Un tempo che i legali e i familiari dell’anarchico temono di non avere. Intanto fuori, nelle piazze, la situazione torna ad infiammarsi. Non a caso dopo la lettura del verdetto, per prima cosa è stata rafforzata la vigilanza di polizia e carabinieri intorno al San Paolo. Dal 1991 a oggi: il lungo braccio di ferro tra Cospito e la giustizia di Irene Famà La Stampa, 25 febbraio 2023 Il mancato arruolamento, la prima volta in carcere, i processi e le condanne. Il braccio di ferro tra Alfredo Cospito e la giustizia inizia nel 1991. Ne seguiranno altri. Numerosi. Tra l’anarchico che sfida a muso duro lo Stato, che irride le istituzioni, le provoca. In ogni processo, legge le sue posizioni a voce ferma, cadenzata, sicura. Proclami recitati con lo sguardo fisso e il mento che sporge in avanti. Un testa a testa. “Giudici, mi sarebbe piaciuto essere lì per sputarvi in faccia. Sul vostro codice penale piscio con spensieratezza e allegria”. La grazia - Alfredo Cospito un riformista? Così verrebbe da pensare ad analizzare il suo primo scontro con la giustizia. Tra lo sciopero della fame, la concessione della grazia. E pure una sentenza che porta il suo nome. Nel 1991 gli arriva la chiamata al servizio militare, proprio lui che anni dopo auspicherà “10, 100, 1000 Nassirya”. Arruolarsi evidentemente è fuori discussione. All’epoca, però, la leva era obbligatoria. Chiamato alle armi, si dichiara “obiettore totale”. Non per motivi fisici o di salute, ma per motivi ideologici. È anarchico, la legge non la rispetta, la disprezza. Accusato di “mancata chiamata”, viene condannato a un anno di reclusione. Che sconta solo in parte perché spunta un’amnistia. Il 16 aprile 1991 viene condannato di nuovo alla pena di un anno, nove mesi e dieci giorni di reclusione militare per il reato di diserzione aggravata. Dal giorno dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, 27 agosto 1991, inizia uno sciopero della fame ad oltranza per protestare contro la nuova condanna. Il padre chiede la grazia al Presidente della Repubblica, all’epoca Francesco Cossiga. Il 27 dicembre 1991 il Colle accoglie l’istanza valida per il periodo precedente alla data della condanna per il reato di diserzione, 16 aprile 1991, al giorno in cui è stato tratto in arresto. Il 27 agosto 1991, Cospito viene nuovamente imputato. Questa situazione, in base alla legge di allora, nota come “spirale delle condanne” si sarebbe protratta fino al compimento del 45° anno di età. Il caso finisce di fronte alla Corte Costituzionale e fa giurisprudenza. Nel 1993 i giudici della legge stabiliscono che i disertori non possono essere condannati più di tre volte e comunque a pene che non possono superare complessivamente l’anno di carcere. Da qui la “sentenza Cospito”. Processi e condanne - Aosta, piazza della Repubblica. La notte del 16 aprile 1993 da quelle parti c’è un raduno rock e un solerte vigile urbano di pattuglia sorprende tre giovani intenti ad attaccare manifesti contro un referendum. Uno è un anarchico della Vallée, l’altro di Cuneo. L’altro ancora è il pescarese Alfredo Cospito, arrivato in Piemonte da pochi mesi. Gli vengono sequestrati sessanta volantini e altri documenti. Poi la denuncia, a Ivrea, per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale: era il 22 dicembre e una manifestazione di solidarietà per l’arresto dell’anarchico Edoardo Massari finisce tra gli scontri con le forze dell’ordine. Alfredo Cospito, con altri 27 giovani, viene denunciato. Nel 1995, nel Tribunale di Ivrea, si apre il processo e lui siede sul banco degli imputati. La sentenza arriva nel ‘98 e rimedia in primo grado una condanna lieve a 10 mesi. Alfredo Cospito irrompe nella galassia anarchica, la scuote, la divide. Il suo nome compare di nuovo nelle cronache della criminalità politica nel 1996, nell’ambito di un’indagine del pubblico ministero di Roma Marini che per primo apre una maxi-inchiesta per una serie di attentati avvenuti in Italia. Lui e la sua compagna Anna Beniamo escono indenni dal processo. Teorico della Fai, Federazione anarchica informale, nel 2012 compie il salto di qualità nella lotta armata. E finisce in carcere, a Ferrara, con l’accusa di avere sparato all’amministrato delegato dell’Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi il 7 maggio a Genova. Per cercare di capire il senso del percorso che, dai manifesti, lo ha condotto a pianificare, assieme alla compagna e all’amico Nicola Gai, entrambi della stessa area, il primo attentato dopo gli Anni di Piombo, gli inquirenti vanno a cercare vecchie carte in cui sono elencati lunghe serie di nomi. Anarchici che, allora giovanissimi, hanno scelto altre strade o formazioni politiche diverse. Ma alcuni sono rimasti fedeli agli stessi ideali “nichilisti e egoisti”, secondo una definizione dei marxisti dei Centri Sociali, ed è li, in quel gruppo di “individualità” anarchiche tra i 40 e i 50 anni, che vanno cercati i complici e i fiancheggiatori del “Nucleo Olga”, la cellula che ha rivendicato l’attentato di Genova. “Siamo solo io e Nicola, nessun altro ha partecipato al nostro progetto. Non riconosciamo questo ordine democratico. Io sono anarchico e sono nichilista perché agisco e non aspetto una rivoluzione”, rivendica Alfredo Cospito in aula. I pubblici ministeri, nella requisitoria, sintetizzano: “È vero che Cospito e Gai oggi hanno confessato. Ma manca la seconda parte della confessione: loro non si dissociano, ma anzi hanno disprezzo per le autorità e le norme”. Il processo si conclude con una condanna che diventerà definitiva a 10 anni di carcere. Si vogliono colpire le persone. E lo sintetizza, in uno dei suoi scritti, Pasquale Valitutti, volto simbolo dell’anarchia italiana: “Invece di attaccare i simboli impersonali di giustizia, è importante trasferire le ostilità nell’ambiente personale del nemico, nelle loro case, uffici, ritrovi e veicoli. Il terrore che causano i capi ammazzando i propri lavoratori, gli sbirri che sparano accidentalmente, i giudici che condannano a migliaia di anni di carcere, i giornalisti con le loro menzogne, i politici con le loro leggi e i loro ordini, in tutti questi casi il nemico ha un nome e un indirizzo. Il progetto nemesi è una proposta internazionale di creare una lista con nomi di persone al potere, per poterle attaccare là dove si sentono sicure, ai margini. Nelle loro case”. Scripta Manent - Nel 2003 compare la sigla Fai, Federazione anarchica informale, e una serie di plichi esplosivi e attentati vengono rivendicati in tutta Italia. La Digos di Torino inizia l’indagine Scripta Manent e il nome è evocativo: gli anarchici della Fai teorizzano, scrivono, pubblicano riviste più o meno clandestine che diventeranno un riferimento ideologico per l’intera area anarchica italiana. In particolare, il periodico Kno3, formula chimica del nitrato di potassio usato per confezionare gli ordigni, in cui il gruppo torinese conquista la guida ideologica del segmento già dedito a pratiche terroristiche. I testi vengono elaborati nell’appartamento di via Donizetti 8 e nello studio di tatuaggi gestito da Anna Beniamino in via Sant’Anselmo 21. La Digos e il Ros inseriscono microspie che registrano il faticoso cammino della rivista: filosofia rivoluzionaria e anche consigli tecnici su come realizzare bombe molotov e altri tipi di ordigni. Gli inquirenti raccolgono conversazioni, telefonate. “Ho studiato filosofia anche io…Non rompere i coglioni” dice Beniamino a chi non la pensa come lei. Teorica, con il compagno Cospito, di questo segmento terrorista con salde radici torinesi e con numerose cellule in Italia e in Europa. Militante attiva, aspira all’azione, è suo il compito di mantenere la linea. Nelle sue invettive non risparmia nessuno, nemmeno Luca Abbà, uno dei simboli del movimento No Tav, l’anarchico salito nel febbraio 2012 su un traliccio per protestare contro l’allargamento del cantiere di Chiomonte, ferito da una scarica elettrica, caduto a terra da diversi metri e miracolosamente sopravvissuto. “Ti parlo che ne so, di un simbolo - dice Beniamino a un suo interlocutore - Il Luca Abbà che cade dal traliccio è diventato un simbolo ed è andato con i Cinque Stelle…era uno di quelli che quando è morto Baleno faceva parte dell’entourage anarchico più oltranzista…”. Cospito è in carcere per la gambizzazione di Adinolfi. Beniamino, con altri, viene arrestata nel settembre 2016. Il processo, davanti alla corte d’Assise di Torino, si apre un venerdì del 2017, in un’aula bunker presidiata in ogni dove dalle forze dell’ordine. Sul banco degli imputati 23 anarchici accusati di associazione con finalità di terrorismo, tutti ritenuti collegati alla Fai. Accusati, a vario titolo, degli ordigni esplosivi inviati a esponenti delle istituzioni e a giornalisti, delle tre bombe esplose nel 2007 nel quartiere crocetta e dell’ordigno inviato nel 2005 ai vigili urbani di San Salvario. Un processo per alcuni versi storico, frutto di una complessa indagine coordinata dal pubblico ministero Roberto Sparagna e che ha visto coinvolti la sezione antiterrorismo della Digos di Torino e il Ros dei carabinieri. Ed è proprio Alfredo Cospito, tra i pochi imputati che rilasciano dichiarazioni spontanee in aula, a fare l’intervento più completo e aggressivo. “Voglio essere più chiaro possibile, che le mie parole suonino come un’ammissione di colpevolezza - dice in collegamento video dal carcere di Ferrara - Con orgoglio e fierezza rivendico la mia appartenenza alla Fai Fri. Con orgoglio e fierezza mi riconosco nell’intera sua storia, ne faccio parte a pieno titolo ed il mio contributo porta la firma del nucleo Olga”. Secondo gli investigatori, l’attentato ad Adinolfi e gli altri episodi di violenza, sono maturati all’interno di una vasta rete eversivo-terroristica che ha riscosso solidarietà e sostegno da più parti, anche attraverso legami internazionali. E Torino emerge come uno dei centri propulsivi dell’anarchia, tra chi riconosce i metodi e gli strumenti della Fai-Fri, propensa alle azioni più che alle parole. Ed è proprio questo allargamento di responsabilità ambientale che Alfredo Cospito contesta con forza, “accusando” la procura di aver coinvolto persone “non per le azioni rivendicate”, ma semplicemente per “aver fatto parte di un movimento, partecipato ad assemblee”, manifestato il proprio consenso alla “violenza rivoluzionaria”. O per il solo fatto di aver scritto blog, gestito siti internet, o partecipato alla divulgazione di uno di storico giornale clandestino, la “Croce Nera Anarchica”. Cospito parla con toni di sfida: “Giudici, mi sarebbe piaciuto essere lì per sputavi in faccia. Sul vostro codice penale piscio con spensieratezza e allegria”. Il pubblico ministero Roberto Sparagna, che ha applicato alla galassia anarchica il metodo che la Sezione Antiterrorismo della Digos di Torino aveva utilizzato con successo nel corso di investigazioni su altre organizzazioni eversive, a dibattimento riassume con efficacia il profilo della Fai Fri: “Una struttura che opera e mette bombe. Le cellule della Fai-Fri giocano in Champions League, le altre nelle serie minori”. Il processo è complesso e davanti ai giudici finiscono prove raccolte per oltre quindici anni, innumerevoli intercettazioni, documenti. Il 24 aprile 2019 la sentenza. Vengono assolti in diciotto, condannati coloro che sono accusati di terrorismo. Vent’anni vengono inflitti ad Alfredo Cospito, 17 ad Anna Beniamino, 9 a Nicola Gai. Un dispositivo “storico”: viene acclarata l’esistenza di un “organismo anarchico sovversivo e terroristico”, di una struttura stabile e organizzata con estensione internazionale. Dopo Scripta Manent, la Fai-Fri rivendica diversi pacchi esplosivi in Italia e all’estero, in Cile, Grecia, Germania. Le chiamate alle armi continuano anche da dietro le sbarre. In prima linea, Alfredo Cospito: “La rivoluzione la può fare solo chi ha il diavolo in corpo”. Frasi che non passano inosservate agli investigatori che seguono l’evoluzione del fenomeno. Il 24 novembre 2020, una ventina di anarchici incappucciati lancia uova e una bomba carta contro le vetrate del bar e sulle scale d’ingresso della sede dei quotidiani di Stampa e Repubblica. Nell’aula bunker di Torino, alle Vallette, la Corte d’assise d’appello si pronuncia. Tredici condanne, ritoccate appena le pene per alcuni dei reati più gravi. Conferma il valore dell’indagine della procura e rispetto alla Corte d’assise riconsiderano l’importanza degli scritti e dei commenti pubblicati su siti e giornali d’area per rafforzare le strategie eversive. Le idee non sono solo parole, ma possono diventare benzina per l’azione. E nel marketing della propaganda, le parole diventano reato. Nella galassia anarchica come nel terrorismo di matrice islamica. “Le pubblicazioni istigano alla violenza”. E si cerca di dare loro “massima diffusione possibile, anche internazionale”. Le pubblicazioni, allora come ora, accompagnavano “l’esaltazione della violenza e dei loro autori, la giustificazione degli attentati dinamitardi e incendiari”. Nei documenti, sottolineano i giudici, c’è “l’esaltazione di anarchici stragisti del passato, l’affermazione dell’assoluta irrilevanza della vita dei bersagli”. Le bombe all’ex scuola carabinieri - Alfredo Cospito è in carcere a scontare condanne diventate ormai definitive. Ma a inizio 2023, insieme ad Anna Beniamino, torna sul banco degli imputati davanti alla Corte d’assise d’appello di Torino per gli ordigni posizionati davanti all’ex scuola carabinieri di Fossano, una trappola fallita per mera casualità. La Cassazione ha riqualificato il reato in strage politica, che significa che quelle bombe non furono un semplice attentato, ma un pericolo vitale per lo Stato. E per la strage, c’è un’unica pena prevista: l’ergastolo. I giudici torinesi non sono d’accordo. “È stato un fatto di lieve entità - scrivono - E il trattamento sanzionatorio deve essere adeguato al caso concreto” e puntare alla riabilitazione. La strage, invece, “è sanzionata con la più afflittiva delle pene oggi contemplate dall’ordinamento e prima del decreto del 1944 che l’ha abolita, addirittura con la pena capitale”. Per tutti questi motivi, la Corte solleva una questione di legittimità costituzionale e invia gli atti alla Consulta. Che si pronuncerà. Ma i tempi, in questi casi, sono particolarmente lunghi. Il 41 bis - Detenuto in regime di massima sicurezza, Alfredo Cospito scrive ai compagni fuori. Scrive a fine maggio 2019 per l’assemblea di Bologna, cercando di invitarli all’azione. “Ogni volta che capito in una sezione “comune” e mi chiedono per quale motivo mi trovo dentro ed io con orgoglio ed ironia rispondo che sono un terrorista mi si aprono tutte le porte, la solidarietà è massima. Cosa temono dagli anarchici? Temono che qualcuno li aspetti sotto casa, che gli anni bui per loro ritornino, che la paura e il terrore cambino di campo”. Scrive il primo settembre 2021 a quei compagni riuniti in Calabria: “La violenza anarchica è il mio modo di cambiare le cose”. No, non manda pizzini. I suoi appelli alla solidarietà violenta, all’azione, alle molotov e agli attentati sono nero su bianco, condivisi e ricondivisi sul web. Diretti alla galassia anarchica, una realtà frammentata, divisa, in quel tempo silente. “Non voglio edulcorare dal mio vocabolario la parola terrorismo, non sarà certo il codice penale con le sue condanne o la minaccia della spada di Damocle del 41bis sospesa sopra la mia testa a farmi cambiare idea e a farmi tacere”. È proprio per questi scritti che la procura di Torino e il Dap chiedono che Alfredo Cospito venga recluso al regime di carcere duro. E il 4 maggio 2022 l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia firma l’applicazione del 41bis. Corsi e ricorsi - Alfredo Cospito inizia lo sciopero della fame. Che porta avanti per oltre cento giorni, arrivando a rifiutare anche gli integratori. Perde oltre 40 chili, viene trasferito dal carcere di Bancarli, a Sassari in Sardegna, a quello di Opera a Milano, dove c’è adeguata assistenza sanitaria. E infine in ospedale. L’avvocato Flavio Rossi Albertini, il suo difensore, presenta diversi ricorsi. Il Tribunale di sorveglianza di Roma è irremovibile. La Fai-Fri “è ancora operante”, Cospito continua a comunicare con l’esterno, a indicare obiettivi strategici e “stimolare azioni dirette di attacco alle istituzioni”. La “mera detenzione”, scrivono, non serve a nulla. Nessun pentimento, nessun passo indietro. Al contrario. Alfredo Cospito “vuole uno scontro armi in pugno con il Sistema”, pronto a colpire edifici e persone. Anche dal carcere, sostengono, “è riuscito a porsi come punto di riferimento”. Fuori molti anarchici, lo detestano, lo criticano. Ma davanti al suo j’accuse allo Stato, alla sua battaglia contro il sistema carcerario, tutti si uniscono. E lui, adesso sì, diventa un simbolo. “Guerra fredda” tra Nordio e l’Anm, una mina sulla via per le riforme di Errico Novi Il Dubbio, 25 febbraio 2023 Tensione sulla divulgabilità del dossier Cospito, contestata dalla Procura di Roma. Emblematica è la reazione suscitata fra le toghe dall’intervento con cui mercoledì scorso Nordio ha ribadito la difesa di Andrea Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia nel mirino delle opposizioni per aver consegnato al collega di partito Giovanni Donzelli l’informativa su Cospito, poi citata in aula, lo scorso 31 gennaio, dal deputato di FdI e vicepresidente del Copasir per insinuare un “favoreggiamento morale” del Pd nei confronti della mafia. Tra le repliche che la magistratura ha rivolto al ministro colpisce quella di Eugenio Albamonte, segretario di Area, corrente progressista dell’Anm, e tra le figure di maggior rilievo dell’intera magistratura associata: nell’intervista rilasciata sulla Stampa di ieri il pm romano non solo ha puntigliosamente controbattuto alla tesi di Nordio, secondo il quale è l’amministrazione che forma l’atto a stabilirne l’eventuale segretezza, ma ha intravisto una “attività di interferenza dal vago sapore intimidatorio” nelle parole con cui il guardasigilli ha concluso il proprio discorso mercoledì a Montecitorio. Albamonte ha contestato soprattutto il passaggio in cui il guardasigilli ha avvertito che, se la Procura di Roma insistesse nel rivendicare il potere di definire lei la segretezza degli atti amministrativi, si creerebbe un conflitto “che potrebbe e dovrebbe essere risolto in un’altra sede”. E quando il giornalista della Stampa ha fatto notare che evidentemente Nordio si riferiva a un possibile conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta, il leader dei magistrati progressisti ha ribattuto: “Allora meglio specificare, uscire da un’ambiguità pericolosa quando chi parla ha poteri così rilevanti”. Cosa può venire fuori da tutto questo? Uno strano corto circuito, di sicuro, una contrapposizione ancora più aspra fra Nordio, l’Anm e la magistratura in generale, che emergerà con fragore non appena governo e maggioranza accelerassero sulle riforme più delicate, a cominciare dalla separazione delle carriere. Più il contrasto fra via Arenula e le toghe si inasprisce, più accidentato rischia di rivelarsi il percorso di quella legge costituzionale, o di altri provvedimenti sensibili come il restyling sulle intercettazioni. Proprio attorno agli “ascolti” si è sprigionata la prima scintilla: quando Nordio ha illustrato la propria relazione programmatica alle Camere, ha subito messo su tavolo la questione delle conversazioni captate e poi “lasciate tracimare” sui giornali. Su quel versante, oltretutto, il ministro della Giustizia è destinato a entrare in rotta di collisione diretta con il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, anche per un aspetto “personale”: l’attuale vertice del “sindacato” dei giudici ha personalmente confezionato, quando era capo del Legislativo di via Arenula, la riforma delle intercettazioni targata Andrea Orlando. Una circostanza che rischia di accrescere il carattere “strutturale” del contrasto fra Nordio e la magistratura associata. E se la tensione si esaspera, il rischio è di dover assistere al clima fatale del 2005- 2006, quello che precedette e accompagnò il tentativo di riforma della giustizia compiuto dall’allora guardasigilli Roberto Castelli. In generale, l’intero cammino del governo sulla materia penale finirebbe per diventare impervio. Anche considerato che il ministro della Giustizia deve già scontare divisioni politiche interne alla maggioranza. Se sulle carriere separate di giudici e pm sono tutti d’accordo, il discorso cambia nel momento in cui si passa a un altro dossier che pure dovrebbe essere trattato a breve come l’abuso d’ufficio: Nordio sarebbe pronto a eliminare del tutto il reato, ma già la responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno, chiede con tono piuttosto sbrigativo di limitarsi a semplici modifiche. E anche sull’addio alla legge Severino le posizioni rischiano di rivelarsi assai variegate, per non parlare del sempre complicato tema dell’esecuzione penale. Se insomma precipita e si compromette del tutto il rapporto coi magistrati, Nordio rischia di trovarsi più isolato di quanto non sia già per la matrice garantista delle proprie idee, non sempre condivisa da Fratelli d’Italia, oltre che dalla Lega. Le nuove difficoltà del guardasigilli con l’ordine giudiziario si sprigionano proprio attorno alla difesa di Delmastro, prima linea sulla giustizia nel partito di Giorgia Meloni: è chiaro che il guardasigilli non può abbandonare a se stesso il sottosegretario di FdI, ma è anche vero che il caso delle informative su Cospito è ormai un fattore di paralisi del governo sulla giustizia. Lo fanno notare anche dal Terzo polo, dove Nordio in teoria dovrebbe trovare sponde anziché obiezioni: il ministro “sta frenando su tutti i provvedimenti annunciati in campagna elettorale, a partire dalla separazione delle carriere”, è il commento che proviene dai centristi. Un certo stallo è evidente: non è decollato l’iter sulla separazione delle carriere, non c’è ancora notizia del confronto al ministero da cui dovrebbe definirsi la strategia sull’abuso d’ufficio, restano in sospeso altri progetti importanti come l’inappellabilità delle assoluzioni. Solo da pochi giorni è stata costituita la commissione che dovrà valutare ed eventualmente emendare la riforma penale di Cartabia. Di fatto, il caso Cospito, sul quale oggi la Cassazione potrebbe scegliere un annullamento con rinvio dalle ricadute imprevedibili, è diventato un vortice, e ha inghiottito lo slancio di Nordio. Ora circondato, più di quanto non fosse già, dall’ostilità di opposizioni e magistrati. L’indecente gogna di Salvini contro il giudice (aggredito) di Rigopiano di Ermes Antonucci Il Foglio, 25 febbraio 2023 Stavolta Salvini è rimasto solo. Solo con il cappio in mano, nel suo mondo di gogna social e mediatica. Il vicepremier ha definito “vergognosa” la sentenza sul disastro del 2017 emessa dal giudice di Pescara, aggredito in aula. L’Anm Abruzzo: “No attacchi a magistrati da organi istituzionali”. Caiazza (Ucpi): “Idea spaventosa della giustizia”. Stavolta Salvini è rimasto solo. Solo con la forca in mano, nel suo mondo di gogna social e mediatica. È stato l’unico esponente politico a lucrare sul dolore causato dalla vicenda di Rigopiano, l’hotel posto ai piedi del Gran Sasso che il 18 gennaio 2017 venne travolto da una valanga, sotto la quale morirono 29 persone. “Ventinove morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è ‘giustizia’, questa è una vergogna. Tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà ai famigliari delle vittime innocenti”, ha scritto Salvini, vicepremier e ministro per le Infrastrutture, su Twitter mentre il giudice di Pescara, Gianluca Sarandrea, che aveva appena emesso la sentenza sulla tragedia (cinque condannati e venticinque assolti) veniva salvato dai poliziotti dall’aggressione di alcuni familiari delle vittime e riceveva insulti e minacce verbali di ogni tipo: “Bastardo”, “devi morire”, “venduto”, “fai schifo”, “non finisce qui”. Insulti che devono essere piaciuti a Salvini (“funzionario dello stato”, ricorda Twitter), che arricchiva il suo pensiero con un video che mostra l’ira dei parenti delle vittime contro il giudice. Chi si aspettava, però, quello di Salvini sarebbe stato solo il primo di una lunga serie di interventi di politici indignati, alla ricerca di consenso facile contro una “sentenza ingiusta”, è rimasto deluso. Nessun altro esponente leghista ha seguito il suo leader. Da Fratelli d’Italia, sempre in prima fila a denunciare i mali della giustizia italiana (cioè il poco carcere), bocche cucite. Difficile fare il contrario quando al proprio partito fa riferimento il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Dagli altri partiti nessun commento, eccetto uno. Parla il presidente del M5s, Giuseppe Conte: quella di Rigopiano “è stata una grande tragedia” e “capisco la disperazione dei familiari”, ma “è necessario aspettare le motivazioni della sentenza”. Non ci sono più neanche i grillini forcaioli di una volta. Che un vicepremier, comunque, alimenti la gogna contro un giudice non sembra essere proprio cosa da paese civile, e qualcuno se l’è ricordato. La giunta distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati dell’Abruzzo ha preso posizione e, “pur esprimendo vicinanza ai familiari della tragedia di Rigopiano”, in una nota ha respinto “fermamente ogni forma di attacco espresso senza che siano conosciute le motivazioni della sentenza, soprattutto se questo proviene da organi istituzionali, chiamati innanzitutto a garantire lo stato di diritto di cui fanno parte”, dando un evidente schiaffo a Salvini (in attesa di una presa di posizione dell’Anm nazionale). Un altro schiaffone è giunto da Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali. Per Salvini, ha detto Caiazza, la “pietra dello scandalo” è nel fatto che gli imputati sono stati quasi tutti assolti. “Dobbiamo dedurne che, maggiore è il numero dei condannati, più saremo rassicurati che giustizia è stata fatta. All’inverso, più cresce il numero degli assolti, più cresce la vergogna”. Un’idea “stravagante (ed allarmante)” - ha proseguito Caiazza - che “ne presuppone un’altra, davvero spaventosa: e cioè che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, e la condanna il suo trionfo”. Il passo successivo è che il buon giudice sia colui che fa proprie le idee della pubblica accusa” e che “sta lì non per valutare se l’accusa sia fondata, ma per asseverarla. Pensa questo, ministro? Basta dirlo con chiarezza”. “Ieri piuttosto - ha concluso Caiazza - ci si sarebbe dovuti vergognare per un altro episodio. Alla lettura della sentenza, l’aula è stata profanata da una indecente gazzarra di insulti furibondi e di minacce gravissime verso un giudice della Repubblica, rimasto con dignità e coraggio, in piedi nell’aula, a riceverli. Un giudice che ha pronunziato una sentenza ‘in nome del popolo italiano’”. La vergogna, aggiungiamo, non è soltanto nella mancata difesa di un giudice aggredito, ma anche in un sistema dell’informazione che, dopo aver assistito ai danni causati dal processo mediatico (insulti, minacce e violenze), ha continuato ad alimentare senza ritegno il meccanismo della gogna. “Rigopiano, nessun colpevole”, ha titolato ieri La Stampa, dimenticando di menzionare le cinque condanne comminate dal giudice. Nella stessa direzione La Repubblica (“Strage senza colpevoli”) e il Giornale (“La strage rimane senza colpevoli”). Un’incredibile opera di disinformazione che, questa sì, rimarrà senza colpevoli. A Riace contro l’ingiustizia di Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 25 febbraio 2023 Alla vigilia della sentenza di appello il “sindaco” Mimmo Lucano partecipa alla rinascita del paese diventato negli anni un modello per l’accoglienza dei migranti. Voci festose di bambini risuonano nel Villaggio globale di Riace. Come se la sentenza d’appello, prevista per il cuore della primavera, non incombesse su Mimmo Lucano. Creature di una fiaba vivente ripopolano i vicoli silenziosi del borgo jonico. L’ex primo cittadino, che qui in tanti si ostinano a chiamare “sindaco”, si affaccia sull’antica via dell’acqua, dove uno dei suoi progetti più carichi di poesia ha trovato attuazione. “Guardate che galline stupende. Già ci stanno dando centinaia di uova al giorno. Ce ne sono due più forti delle altre. Le abbiamo chiamate Sabra e Shatila. Ci vuole tanta forza per vivere tutta un’esistenza in campi profughi come quelli libanesi”, sorride amaro Mimmo, dimagrito, cordiale, attorniato dalla solita umanità di artisti, contadini, rifugiati e viaggiatori. “Niente fondi pubblici, stavolta. Da ogni disgrazia - spiega Lucano - può nascere qualcosa di buono. Se abbiamo potuto rimettere in piedi la fattoria degli asinelli, lo dobbiamo al senatore Luigi Manconi ed alle tante persone che hanno sostenuto la sua raccolta fondi per le spese legali del mio processo. Una parte di quei soldi è servita a regolarizzare gli uomini e le donne che lavorano nella fattoria”. Le casette degli asinelli erano state sequestrate dalla solerte procura di Locri, perché prive del certificato di agibilità, nella Calabria delle scuole e dei palazzi di giustizia che un certificato di agibilità non lo hanno mai avuto. Da un mese la fattoria è stata dissequestrata. Riace sta tornando lentamente il presepe laico di un tempo. La speranza allenta la tensione dell’attesa. Mentre passeggia per i viottoli del centro storico, Lucano racconta a il manifesto il suo stato d’animo in questi giorni. Insieme a lui camminano i corpi di un genius loci senza confini. C’è Barzan, pittore, profugo afgano, che sta per inaugurare il suo atelier. Sorge proprio nei locali un tempo gestiti da uno dei compaesani di Mimmo. E sarà inaugurato ufficialmente il 26 febbraio. Come in una nemesi, è proprio da questi locali che ebbe inizio l’odissea e la persecuzione giudiziaria di Lucano. Era infatti qui che Francesco Ruga svolgeva la sua attività di commerciante e pizzicagnolo. Si tratta del “supertestimone dell’accusa” che a fine 2016 aveva denunciato Lucano per concussione. Dalla sua denuncia era scaturita tutta l’indagine della Guardia di Finanza. La sua doglianza riguardava una fattura che Lucano lo avrebbe costretto ad alterare, non nell’importo, ma nella descrizione di quanto aveva venduto: non alimentari, ma detersivi. Altrimenti - lo avrebbe minacciato - quella fattura non gli sarebbe stata pagata; anzi peggio, sarebbe stato escluso dal sistema dei bonus. Ma in dibattimento, incalzato dalla difesa di Lucano, Ruga ha poi ritrattato, ammettendo alla fine di non aver mai subito minacce. E qualificando il “sindaco” come “una brava persona, perbene, generosa, che fa sempre del bene e che lui ha sempre votato”. E così l’accusa di concussione si è sciolta come neve al sole. Sarebbe dura per chiunque continuare a vivere con il fardello di un’accusa che si sente profondamente ingiusta. Ma per Lucano lo è in particolare. Lui è visibilmente ferito nell’orgoglio da un processo e da una sentenza che l’autorevole giurista Luigi Ferrajoli ha definito “una condanna politica modellata sul ‘diritto penale del nemico’ in contrasto con la regola dell’imparzialità che è la prima regola deontologica dei magistrati”. D’un tratto, lungo il cammino che ci riporta nella piazza principale, udiamo una inflessione italo-sassone. È Carola Kirsten, libertaria tedesca di Berlino, trapiantata nelle alture della Locride da qualche anno. Carola gestisce la biblioteca parlante nei locali della vecchia posta di Riace e alleva le galline della fattoria degli asinelli. “Come berlinese, sono d’accordo con le parole di Wim Wenders del 2010: ‘La vera utopia non è la caduta del muro, ma ciò che è stato realizzato in Calabria, a Riace’”. E così raccontando le loro storie, Lucano ripercorre la propria rievocando l’epica dell’utopia sociale di Riace. Lo fa nella sede della sua associazione Città Futura, nel Palazzo Pinnarò, da dove tutto ebbe inizio. Grazie alla sua determinazione e alla raccolta fondi della fondazione “È stato il vento”, si è rientrati in possesso di un piano dell’antica struttura, nel cuore del centro storico, che con il contributo di una fondazione svizzera è stato possibile ristrutturare. Ai lavori hanno contribuito anche i giovani guidati da padre Alex Zanotelli, un altro pilastro del cosiddetto modello Riace. Lucano seduto accanto al lettino che il prestigioso medico Francesco Pinnarò volle donare alla cittadinanza, ricorda i venti anni della sua Riace: i restauri, le bonifiche, i servizi sociali, i laboratori multietnici, l’asilo nido, l’ambulatorio popolare, la fattoria didattica, il frantoio di comunità, le iniziative culturali, i pellegrinaggi rom, il turismo solidale, gli spettacoli. E davanti a un poster raffigurante il compianto attivista Dino Frisullo, prova ad esorcizzare l’inquietudine per il secondo grado di giudizio del processo Xenia: “Non riesco a provare rancore verso chi mi accusa e mi ha condannato in primo grado. E sono convinto che alla fine troverò un giudice che mi darà ragione. Guardate qua”. Dallo smartphone tira fuori il video del sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi, che ha dedicato parole di grande stima per lui durante le celebrazioni dei Bronzi nel cinquantennale del ritrovamento, ignorando l’attuale sindaco riacese, Tonino Trifoli (ex leghista, oggi berlusconiano), seduto in prima fila davanti a lui. Intanto a Riace cala la sera, Lucano tirerebbe fino a notte a rimembrare i fasti del passato. Ma non c’è mestizia, né malinconia. Perché Riace sta rinascendo. Grazie alla tenacia e alla forza del suo “sindaco”. E saranno in tanti a ribadirlo nel presidio di solidarietà “Con Mimmo Lucano / Per restare umani”. Un appello partito dal basso e senza promotori ha ricevuto decine di migliaia di adesioni. Per contrastare la “disumana ingiustizia” si rivedranno in piazza il 26 febbraio. La domenica dell’orgoglio riacese. Bocciato il ricorso del ministero: “Il detenuto al 41 bis può usare Skype per i colloqui” di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 25 febbraio 2023 La Cassazione conferma le decisioni del magistrato e del tribunale di Sorveglianza di L’Aquila. Per il Dap, il detenuto sarebbe stato obbligato a comunicare con i suoi parenti solo di persona, ma i giudici hanno stabilito che non vi è alcun motivo per impedire il ricorso alle piattaforme informatiche: “Nessun rischio di contatti col clan”. Il boss di San Lorenzo Sandro Lo Piccolo, recluso al 41 bis, ha diritto di fare i colloqui con i suoi parenti attraverso Skype. Lo ha stabilito la prima sezione della Cassazione, presieduta da Angela Tardio, rigettando il ricorso del ministero della Giustizia che riteneva, invece, che non vi fosse alcun motivo valido per concedere al mafioso questa alternativa agli incontri di presenza. Lo Piccolo aveva già ottenuto ragione sia dal magistrato che dal tribunale di Sorveglianza di L’Aquila, rispettivamente il 15 settembre 2021 e il 22 febbraio dell’anno scorso: in entrambi i casi, infatti erano stati rigettati i reclami del Dap. Per il ministero della Giustizia, però, il magistrato di Sorveglianza non avrebbe tutela giurisdizionale sul tema e comunque, nei provvedimenti che concedevano il ricorso alle piattaforme informatiche, non sarebbero stati spiegati né il motivo che avrebbe reso impossibili i colloqui di presenza e neppure le ragioni eccezionali che avrebbero legittimato la richiesta di Lo Piccolo. Non essendoci più blocchi e divieti di circolazione legati alla pandemia, sosteneva ancora il ministero, nulla avrebbe impedito i colloqui di persona. Per la Suprema Corte, però, il ricorso è infondato: “Le esigenze di sicurezza della comunicazione - si legge tra l’altro nella sentenza - sono garantite dalla previsione che il colloquio video avvenga da un altro carcere posto nelle vicinanze della residenza dei famigliari e con l’utilizzo di una piattaforma certificata e, quindi, secondo modalità già sperimentate dall’amministrazione penitenziaria per i colloqui video dei detenuti di alta sicurezza, ma non in regime differenziato. La ratio dell’orientamento al quale si è prestata adesione - dicono i giudici - è costituita dall’importanza rivestita dai colloqui ai fini del trattamento penitenziario e dall’esigenza che le limitazioni conseguenti al regime differenziato siano strettamente connesse ‘a non altrimenti gestibili esigenze di ordine e di sicurezza e siano congrue rispetto allo scopo perseguito’“. La Cassazione nel provvedimento rimarca inoltre come ai detenuti al 41 bis era già stata estesa la possibilità dei collegamenti via Skype durante la pandemia: “La disciplina è applicabile a tali detenuti potendo essere esclusi ‘i detenuti assoggettati al regime penitenziario differenziato soltanto ove la relativa scelta sia realmente funzionale all’obiettivo primario del 41 bis, costituito dalla necessità di escludere contatti tra il detenuto e il gruppo criminale di riferimento’, il che deve escludersi nel momento in cui, come nel caso di specie, debbano essere utilizzate apparecchiature già in uso all’Amministrazione”. Infine “non rileva la mancata indicazione di ragioni ulteriori rispetto all’emergenza pandemica in quanto la situazione legata alla presenza del virus è tuttora irrisolta e connotata da un concreto e apprezzabile rischio di contagio, rilevante nella valutazione della sussistenza in concreto della gravissima difficoltà. Peraltro, all’epoca della presentazione dell’istanza (l’ordinanza del magistrato di Sorveglianza è del settembre 2021) la trasferta dalla Sicilia costituiva, data l’estensione dei contagi ed il livello di profilassi raggiunto, senz’altro un significativo fattore di rischio”. Taranto. Detenuto 50enne si suicida in carcere ansa.it, 25 febbraio 2023 A Taranto un detenuto di 50 anni detenuto è stato trovato morto nella sua cella in carcere. A darne notizia è il segretario regionale della Uil Pa Polizia penitenziaria Puglia, Stefano Caporizzi, spiegando che l’uomo “è stato trovato impiccato”. La situazione delle carceri italiane “risulta drammatica, con una mancanza di una dotazione tecnologica o non funzionante, equipaggiamenti inidonei e insufficienti, una carenza di 18mila unità di polizia penitenziaria e che vede Taranto come la cenerentola italiana”, aggiunge. Ivrea (To). Pestaggio nel carcere, un passo verso il processo di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 25 febbraio 2023 Questa volta non potremmo chiamarla tortura in un’aula di tribunale. I fatti accaduti nel carcere di Ivrea risalgono infatti a un periodo - 2015 e 2016 - in cui non vi era nel codice penale alcuna norma che proibisse esplicitamente la tortura, così come il diritto internazionale imponeva da decenni e Cesare Beccaria suggeriva dal lontano 1764. Il crimine di tortura fu introdotto nel codice penale solo nel 2017. In sintesi si tratterebbe di pestaggi commessi da un gruppo di poliziotti penitenziari. Sarebbe stata usata a tal fine una cella ‘liscia’ collocata nel reparto isolamento dell’istituto. Il medico, sempre secondo gli investigatori, pare fosse presente durante le violenze, o comunque a conoscenza dei fatti, e non si sarebbe attivato in alcun modo. Successivamente, plausibilmente allo scopo di precostituirsi delle prove a discolpa del proprio operato, sarebbe stata prodotta una documentazione falsa: le lesioni del detenuto sarebbero il frutto di una caduta accidentale. Ricostruzioni artefatte, come in tanti altri episodi, come nel caso di Stefano Cucchi. Dopo le segnalazioni di Antigone e dei Garanti territoriali, sia il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) che il Garante Nazionale si recarono in visita al carcere di Ivrea. Quest’ultimo confermò la presenza di una cella liscia presente all’interno della sezione di isolamento che risultava essere stata usata per finalità di contenimento. Il Cpt chiese spiegazioni al governo italiano a proposito di non poche segnalazioni di maltrattamenti che sarebbero avvenute nel carcere piemontese. Ieri, dopo tanti anni, è stato fatto un passo verso il rinvio a giudizio di ben ventotto operatori penitenziari. La quasi totalità è composta da agenti. Perché è passato tanto tempo? Negli anni successivi alle denunce, in mancanza di indagini e di fronte a due richieste di archiviazione, ci fu, tra le altre, anche l’opposizione di Antigone alla definitiva chiusura del procedimento. Fortunatamente il Procuratore generale presso la Procura di Torino accolse la richiesta di avocazione delle indagini. A settembre scorso furono notificati i primi avvisi di garanzia e oggi un altro step di questa interminabile giudizio è stato costruito. I pm chiedono che si proceda per lesioni e falso. Ovviamente il rischio di prescrizione è dietro i cancelli del carcere. Corre, e dunque, devono anche correre i giudici per arrivare a sentenza. Quattro considerazioni a margine di questa storia triste di violenza che la rendono paradigmatica. 1) Ogniqualvolta vi è un episodio di violenza c’è qualcuno che falsifica gli atti o prova a manipolare la verità. Per questo le direzioni delle carceri e i medici dovrebbero avere massima cura nella gestione dei registri interni. 2) Sarebbe necessario prevedere in ogni Procura un nucleo di agenti specializzato nelle violenze commesse da esponenti delle forze dell’ordine, così come fece la procura napoletana ai tempi in cui a capo vi era l’attuale Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo. In questo modo si eviterebbero quelle inerzie probabilmente date dalla colleganza professionale 3) I reparti più a rischio di violenze sono quelli dove viene praticato l’isolamento che è, a sua volta, una pratica fortemente lesiva dei diritti fondamentali. Le celle lisce, si spera, siano per sempre un ricordo del passato. 4) Le violenze vengono dissuase e represse anche grazie alle videocamere. Ad Ivrea allora non c’erano. In altri casi e in altri processi (si pensi Monza o santa Maria Capua Vetere) invece le immagini sono state determinanti. Sarebbe auspicabile che siano operative dappertutto e abbiano memoria lunga. *Presidente di Antigone Lecco. A Imbersago la vita dentro e fuori le sbarre con le testimonianze di due detenuti merateonline.it, 25 febbraio 2023 La mediateca di Imbersago era gremita di persone, che nella serata di lunedì 20 febbraio si sono riunite per conoscere la storia di Luan e Diego, due ex detenuti del carcere di Bollate. A mediare il loro racconto la loro arte-terapeuta Luisa Colombo, e l’avvocata Daniela Fiocchi. Luisa Colombo, che si porta alle spalle 12 anni di attività di arteterapia in penitenziario e nelle scuole, sa bene quanto il tema carcere non sia facile: “è un argomento delicato ma anche fastidioso perché si considera il carcere come un contenitore di immondizia, di scarti umani. In realtà chiunque lo frequenti per lavoro o volontariato capisce subito che c’è solo da imparare lì dentro. Diffidate di chiunque parli di carcere senza sapere cosa succede al suo interno, dell’odore che ti rimane addosso anche quando si esce da quelle pareti”. La parola è poi passata ai due protagonisti della serata che hanno raccontato il loro percorso. Luan è un 45enne albanese che ha trascorso 23 anni in carcere e i restanti 10 della sua condanna con sconti di pena. Gli anni in carcere l’hanno riformato ma ciò che l’ha davvero spinto a dare una svolta alla sua vita è stata una telefonata che ha ricevuto da suo padre dopo 10 anni di reclusione, in cui esprimeva la volontà di incontrarlo. La sua vita da reo era infatti iniziata da ragazzino, in un’età in cui suo padre era una figura di grande riferimento. L’emozione di rivederlo era quindi forte, ma il sentimento prevalente era la preoccupazione: era lui che aveva tolto la vita ad una persona, ma era suo padre a pagarne il vero prezzo pur non avendo nessuna colpa. Il padre era una persona conosciuta e rispettata discendente da una stirpe che aveva combattuto gli Ottomani e Luan in cambio aveva macchiato l’onore della famiglia. Non c’era modo di giustificare quello che aveva fatto ma decise comunque di chiedere perdono ai genitori. Luan era in lacrime quando suo padre, che era piccolo di statura ma che per lui rappresentava ancora una figura imponente, lo abbracciò e si scusò per non averlo protetto dalla vita che aveva intrapreso. Fu in quel momento che Luan capì l’amore che la sua famiglia provava per lui, questa era la mancanza che l’aveva spinto a compiere azioni sbagliate e finalmente era giunto alla conclusione che era stato tutto un fraintendimento. Il padre morì una settimana dopo ma da questo incontro Luan trovò la forza per girare pagina e ribaltare la sua situazione. Diego è un uomo di 43 anni che si porta sulle spalle 20 anni di galera ma che sta ancora scontando la sua pena in affidamento al territorio. Diego ha iniziato a fare scelte sbagliate a 14 anni, scelte, perché come ha spiegato lui, era totalmente consapevole di quello che faceva, nessuno l’ha costretto, voleva farlo. Non ha avuto un’infanzia infelice, non era una vittima, il suo egocentrismo era più grande di lui e quindi per soldi e noia ha imboccato la strada sbagliata. Questo a dimostrare che il degrado può colpire tutti, a prescindere dalle condizioni di vita, professionali, morali ed etiche. Tutto è cominciato in un parco della periferia di Milano intorno al 1994 dove, conoscendo altri ragazzi che come lui volevano rivendere merci in nero per guadagnare soldi, hanno messo insieme un gruppo che compiva rapine, furti e controllava gli spacci della zona, fino al giorno in cui non sono stati scoperti e Diego è stato trasferito in un carcere minorile. Da quel giorno ha pensato tante volte di farla finita, soprattutto nei periodi in isolamento, quando davvero l’unica persona con la quale ci si può confrontare è se stessi. Diego ha provato imbarazzo, odio, amore nei propri confronti, ha perso la fiducia in se stesso. Oggi però ha raggiunto consapevolezza di ciò che ha fatto e ogni volta che si presenta a questo tipo di incontri, soprattutto confrontandosi con i ragazzi, la vergogna scompare sempre di più. Importante per Diego è stato inoltre incontrare la persona giusta, che per lui è stata Luisa, che pian piano l’ha aiutato ad uscire dal rifugio in cui si era rinchiuso: “da 30 anni avevo il vizio di mettermi il cappuccio per proteggermi, è 3 anni che grazie a lei ho smesso di portarlo”, questo è solo un piccolo esempio dell’aiuto che danno ogni giorno gli operatori dei penitenziari. L’avvocata Daniela Fiocchi ha dunque spiegato ai presenti l’introduzione dal 2021 dalla riforma Cartabia, che finalmente sta prendendo forma in ambito civile e penale. La riforma ha aperto ad un nuovo metodo nella mediazione penale, un istituto nuovissimo che entrerà in funzione da giugno di quest’anno. Si sta tuttora formando il personale per arrivare a prevenire e aiutare i rei in un percorso per raggiungere il perdono, lo scopo della riforma Cartabia è infatti puntare alla giustizia riparativa. Se ancor prima della condanna si intraprende un percorso educativo cercando di risarcire la persona offesa attraverso una presa di consapevolezza e interiorizzazione del dolore dell’altro, in una riparazione sociale, morale, collettiva e non economica ci sarebbe più sollievo da entrambe le parti. In primis è il criminale che deve accettare il perdono e non la società che solitamente invece viene anteposta. Per ottenere questo risultato si cercherà di veicolare la sofferenza in maniera diversa mettendo in comunicazione il reo con le vittime. Fiocchi ha poi esposto uno studio che ha condotto sulla criminalità minorile in Italia. Si stima che i minori che ogni anno compiono reati in Italia sono circa 30 mila per violenza sessuale, assunzione di sostanze stupefacenti, rapine ed estorsioni. Tanti di questi ragazzi hanno un background di difficoltà nell’ambito sociale o economico, molti però non arrivano da settori disagiati, ma hanno fragilità emotive ed interiori nonostante siano supportati e seguiti. Quello che spinge i bambini a commettere reati è la volontà di autodeterminarsi ed emergere perché si sentono schiacciati dagli standard imposti dalla società. Le manifestazioni di questo disagio partono da atti di bullismo fino ad arrivare al compimento di crimini di grave entità. Luisa spiega che questo comportamento deriva dall’incapacità del gestire le proprie emozioni che con il tempo si traduce in atti irrazionali. Luisa Colombo ha precisato che questo non deve però portare a punire in maniera scorretta: l’articolo 27 comma 3 della nostra costituzione recita che “le pene devono essere umane e volgere alla rieducazione e al reinserimento del condannato” la pena non è una certezza, non è un deterrente, bisogna prevenire oltre che curare partendo da noi: “quando si menziona il concetto di dipendenza le prime parole che vengono in mente sono droga, stupefacenti, ludopatia. Questo perché cresciamo i ragazzi con i manuali d’istruzione senza dare spiegazioni. In realtà la dipendenza è la cosa più bella al mondo, si è dipendenti dalla famiglia, amici, da una passione, bisogna dare dei termini di paragone, perché dipendenza è anche salutare. Bisogna partire da principi bassi e non dall’alto, altrimenti il problema rimarrà per sempre”. Significativo l’intervento di Giorgia e Alessandra che hanno illustrato la loro esperienza da tirocinanti in carcere ammettendo che anche loro sono entrate con i pregiudizi e le paure che tutti abbiamo, ma pian piano conoscendo i detenuti, si sono rese conto che da loro possono solo imparare a dare importanza e valore alle piccole cose. Alla fine dell’incontro è intervenuto il sindaco Fabio Vergani che ha ringraziato tutti i presenti, i mediatori, ma soprattutto i due testimoni per averci messo la faccia, azione che ha definito non essere facile in quanto, come esternato da Luan e Diego, il pregiudizio delle persone è la barriera più grande da abbattere insieme all’ignoranza che ogni uomo vuole mantenere sulla situazione di chi sta dietro le sbarre: “Dentro al carcere ci sono persone che pensano molto a quello che succede fuori, mentre quelli fuori pensano poco a chi è dentro”. Fondamentale rimane sempre il contributo della comunità per garantire un riscatto ai reclusi. Francesca Denti, che dopo una breve esperienza in carcere si è chiesta come nel suo piccolo potesse aiutare, ha creato dei “legami” di creta che metterà in vendita nel suo negozio Namastè in via 25 aprile a Erba per chi come lei volesse contribuire a finanziare i progetti che si attueranno nel penitenziario di Bollate. Catanzaro. “La detenzione femminile problematiche e prospettive”, un convegno il primo marzo Corriere della Calabria, 25 febbraio 2023 L’incontro è stato organizzato dalla Fidapa. Si svolgerà il primo marzo nella sala concerti del Comune del Capoluogo. Sebbene le donne rappresentino solo il 4% delle persone recluse in Italia, numeri bassi non possono significare bassa attenzione. In primo luogo, solo il 25 per cento delle detenute sconta la pena in uno dei quattro istituti esclusivamente femminili attualmente operativi in Italia (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia e Venezia-Giudecca), mentre il restante 75 per cento è distribuito tra le circa cinquanta sezioni femminili ricavate all’interno di carceri maschili, con tassi di sovraffollamento non accettabili. In secondo luogo, le donne che varcano le soglie del carcere sono nella stragrande maggioranza segnate da un contesto di grave marginalità sociale, riflesso nel tipo di reati per cui vengono incarcerate: delitti contro il patrimonio, delitti in materia di stupefacenti oltre a quelli contro la persona. Altra questione centrale è quella della presenza nelle carceri italiane di detenute con figli al seguito, tematica delicata sia dal punto di vista del diritto delle detenute con figli a svolgere il ruolo di madre, sia del diritto dei figli di detenute a non essere privati della figura materna, in modo da non essere costretti a trascorrere i primi anni di vita, età delicatissima di formazione, in un ambiente insalubre come quello carcerario. Con andamento altalenante, dal 1993 a oggi, il numero di bambini in carcere appare non dissimile da quello di venti anni fa. E ancora, come vivono la quotidianità, anche lavorativa, le detenute in tali condizioni di esiguità numerica e dispersione nel territorio? Sono tutti i temi al centro dell’evento “La detenzione femminile problematiche e prospettive” che si terrà nella sala concerti del Comune di Catanzaro l’1 marzo con inizio alle ore 16,30. L’evento organizzato dalla Fidapa di Catanzaro, presieduto dall’avv. Laura Gualtierialla, vedrà la partecipazione di autorevoli relatori, che ben conoscono il mondo, delicato e complesso, dell’esecuzione penale femminile intramuraria. Gli scacchi portano in cella un sogno di felicità di Camilla Alcini ScacchItalia, 25 febbraio 2023 Parlano gli istruttori che lavorano con i detenuti: “Il gioco aiuta a conoscersi meglio, a fare amicizia, e ad allontanare la tristezza del carcere. E li aiuterà a trovare lavoro una volta liberi”. Quando mette piede per la prima volta nel carcere romano di Rebibbia, Emanuele Carulli, che ha 27 anni e insegna il gioco degli scacchi da sette, non sa chi e cosa aspettarsi. Dopo aver accettato l’invito di Seconda Chance, associazione nata per aiutare il reinserimento di detenuti ed ex detenuti nel mondo del lavoro, Carulli arriva alla casa di reclusione, circa 300 detenuti, solo uomini, per la prima delle otto lezioni per cui si è impegnato. È un po’ in ritardo. Lo attende un gruppo di 10 allievi. Un ragazzo di 25 anni è il suo unico coetaneo, gli altri vanno dai 35 ai 60. “Non si preoccupi, abbiamo tempo sia per giocare a scacchi che per pensare. Non andiamo da nessuna parte, noi!”: la prima mossa è la loro. Inattesa, capace di rompere ironicamente l’imbarazzo che la situazione, l’ambiente, possono creare. Ancora pochi minuti, il tempo di presentarsi e di scambiare due parole, e si passa all’azione. “Avevo paura di non riuscire ad instaurare un buon rapporto, di dire qualcosa di sbagliato, di essere in soggezione io o di mettere in soggezione loro. Ma in pochi secondi hanno reso tutto semplice”, racconta Carulli. E allora via alle scacchiere, alle strategie e anche ai compiti a casa (“forse dovrei dire in cella?”, ci chiede Emanuele). “La sorpresa è stata che tutti sapevano già giocare, chi più chi meno, quindi abbiamo iniziato ad analizzare partite di grandi maestri, scontri famosi, sfide storiche e siamo passati subito alla parte divertente”. Due ore o poco meno di gioco e di apprendimento, ma anche di chiacchiere e risate. Fino all’ultima lezione, il 21 gennaio, quando il maestro saluta i suoi allievi con la consapevolezza di aver regalato momenti di distrazione e insegnamenti che permetteranno di trascorrere ore piacevoli, (sì, anche in carcere), davanti a una scacchiera. “Finora il carcere l’avevo visto solo nei film e nelle fiction. Incontrare un detenuto di persona, vedere dove vive, come vive, condividere momenti a volte molto personali, è un’altra cosa. Con alcuni si è creata un’amicizia, mi hanno chiesto della mia vita senza invidia, interessandosi a quello che faccio. E a mia volta ho ascoltato racconti e confidenze. Credo che sia stato uno scambio utile a tutti noi”. Dopo la chiamata della Federscacchi tramite Facebook tre istruttori hanno dichiarato la loro disponibilità a contribuire al progetto di Seconda Chance. Tra loro proprio Carulli, che coltiva questa passione dalle elementari, quando non è impegnato come professore di religione nelle scuole medie. “Mi è stato proposto, e ho pensato che sarebbe potuta essere una bella esperienza vivere questa realtà, conoscere chi sta in carcere”. Oltre al corso di Rebibbia, ne sta cominciando uno a Terni e un altro è appena partito a Palermo. “Ho scelto di dare la mia adesione al progetto perché mi è sembrata un’iniziativa lodevole e di alto spessore umano. E poi mi stimolava l’idea. Ho già avuto un’esperienza simile nel 2005, sempre al Pagliarelli, e la ritengo tra le più formative e intense tra tutte quelle sperimentate in ambito scacchistico”, racconta Francesco Lupo, 57 anni, da oltre 30 istruttore in scuole e circoli, per allievi di tutte le età. “Spero di poter offrire il mio contributo per dare una visione della vita differente a persone che hanno sbagliato ma devono essere aiutate a recuperare la loro dimensione sociale. L’acquisizione di strumenti formativi, come gli scacchi, può impedire di ricadere negli errori che hanno portato alla condanna”. Oltre a creare posti di lavoro per i detenuti, con iniziative come queste Seconda Chance li aiuta a reinserirsi nella società a 360 gradi. “Siamo molto contenti della collaborazione avviata con la Federscacchi”, spiega Flavia Filippi, presidente di Seconda Chance. “Con le cofondatrici dell’associazione, Alessandra Ventimiglia e Beatrice Busi Deriu, affianchiamo alla ricerca di opportunità di lavoro l’organizzazione di attività ricreative, o sport della mente come vengono chiamati gli scacchi e il bridge. E poi laboratori di giornalismo, corsi di pasticceria, di gelateria, di arte, di make up...”. Il valore degli scacchi consiste soprattutto nello stimolare la creatività, la logica e la fantasia. Ma per i detenuti le lezioni costituiscono anche una valvola di sfogo e un modo per conoscersi meglio e per imparare a gestire le proprie emozioni. “È un linguaggio universale, che aiuta a relazionarsi. Possono nascere amicizie e possono attenuarsi litigi”, spiega ancora Carulli. “Il gioco costringe a immedesimarsi nell’altro, a tentare di capire cosa ha in mente, come intende uscire da una situazione. Sei costantemente costretto a interpretare le intenzioni dell’avversario. Ovvio, alla fine c’è anche il divertimento, l’allontanarsi per un po’ dalla tristezza del carcere, che si sente eccome”. Mirko Trasciatti, 32 anni, da otto insegna scacchi nel carcere di Spoleto, ha portato suoi allievi a partecipare per due volte, con buoni risultati, al Mondiale per prigionieri organizzato dalla FIDE, e sta contribuendo a organizzare iniziative simili in altri penitenziari. Sottolinea tre aspetti che possono essere d’aiuto ai detenuti: ludico, riabilitativo e rieducativo. In particolare la capacità analitica che il gioco stimola e allena, ma anche quella di saper fare delle scelte con cautela e valutarne i possibili esiti, aiutano a rieducare i detenuti. “Negli scacchi c’è molto rispetto”, spiega Trasciatti. “Il rispetto dell’altro, ad esempio, nella fase di analisi della partita e nella stretta di mano con l’avversario. E il rispetto delle regole, che come in ogni sport esistono e devono essere rispettate, ma che negli scacchi sono veramente tante”. Quanto all’aspetto ludico, impiegando gran parte del proprio tempo libero a giocare e a ripercorrere mentalmente le proprie mosse e quelle dell’avversario, i detenuti pensano un po’ meno alla loro condizione e alla lontananza dai propri cari. Infine l’insegnante descrive il valore degli scacchi dal punto di vista riabilitativo, ovvero nella vita dopo la scarcerazione. “Gli scacchi sono un gioco della mente. Alcuni li considerano un gioco elitario ma in realtà a scacchi giocano davvero tutti. Dopo aver espiato la pena, quando il detenuto va a presentarsi a un colloquio di lavoro, aver giocato a scacchi piuttosto che aver passato dieci anni a fare palestra sicuramente aiuta”. Le qualità caratteriali allenate dalla pratica degli scacchi e la reputazione del gioco, insomma, contribuirebbero al curriculum del detenuto al momento del reinserimento in società. Anche Carulli sottolinea gli stimoli positivi e duraturi che gli scacchi regalano ai giocatori. “È un mondo che non finisce, non si smette mai di imparare, è una fonte di creatività da cui potranno sempre attingere”. Confermano le voci di alcuni detenuti, raccolte da un questionario: “Gli scacchi fanno correre il tempo più piacevolmente e distraggono la mente dai soliti problemi”. “Sono un ottimo strumento di socializzazione che aiuta a svuotare la mente e insegna il rispetto per l’avversario”. “Suscitano interesse e curiosità, perché presentano continuamente nuove incognite”. “Reclutare insegnanti su base volontaria, organizzare i corsi adeguandosi alle loro disponibilità e a quelle dei vari istituti non è stato semplice”, commenta la responsabile del progetto scacchi di Seconda Chance, Costanza Toti. “Ma il bilancio è positivo e dunque se la Federazione ci aiuta proveremo a trovare altri istruttori e ad allargare l’offerta. Alle direzioni e alle aree educative delle carceri gli scacchi interessano molto”. Riconosciuti i benefici di iniziative del genere e degli scacchi in particolare, la volontà da parte di molti istituti carcerari di realizzarle è in aumento. “Accettiamo qualsiasi offerta di formazione perché i detenuti devono trascorrere meno tempo possibile a non fare nulla, l’ozio sconvolge le dinamiche quotidiane e porta a problemi di gestione. Quindi noi accogliamo volentieri le offerte come questa, e facciamo di tutto per realizzarle”, ci dice Fabio Gallo, comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Terni, dove sta cominciando il terzo corso portato da Seconda Chance. “Sono tutti molto curiosi, la proposta è stata accolta con grande entusiasmo. Si erano iscritti 30 detenuti ma purtroppo abbiamo dovuto fare una selezione, potendone accogliere solo 17”, racconta il comandante Gallo. Il prossimo step potrebbe essere una serie di gare all’interno dei vari reparti, o addirittura un torneo tra carceri. Ma prima Emanuele Carulli lancia un appello: “Sarebbe importante dotare ogni cella di una scacchiera. Aiuterebbe i detenuti, ma anche lo sviluppo del gioco”. Al Ministero della Giustizia la prossima mossa. I poveri restano senza reddito e senza formazione di Francesco Seghezzi Il Domani, 25 febbraio 2023 Negli scorsi giorni è stato pubblicato il primo bilancio provvisorio sui percettori di reddito di cittadinanza per i quali è stata individuata e concordata una attività formativa da svolgere. Sono 47mila. Si può valutare questa cifra se si ricostruisce brevemente il contesto. Con la legge di Bilancio relativa al 2023 il governo ha previsto che per i cosiddetti occupabili la durata massima del sussidio sarà di sette mesi e da agosto di quest’anno smetteranno di percepirlo. I non occupabili per i quali non vale questa misura sono i minori, le persone con disabilità e gli over 60. Non esiste al momento una stima definitiva su questi soggetti ma parliamo di circa 550-600mila persone. Sempre la legge di Bilancio prevedeva che gli occupabili fossero inseriti in percorsi di formazione di sei mesi e che il reddito decadesse se questo percorso non veniva frequentato. Alla luce di questo quadro il numero iniziale, datato 17 febbraio, pone non pochi problemi. Infatti risulterebbe che per meno del 10 per cento degli occupabili, a cinque mesi dalla decadenza del sussidio, sarebbe stata individuata una attività formativa, che neanche sarebbe stata (da quanto si intuisce) effettivamente avviata. Questo porta a concludere che nessuno degli occupabili verrà coinvolto in un percorso formativo semestrale. Conclusione in realtà abbastanza scontata considerati i tempi molto stretti e il fatto che il tutto si innestasse su un sistema di servizi per il lavoro che già in una situazione di normalità difficilmente riesce a gestire numeri minori. Lavoro e povertà - Lo scenario è quindi preoccupante e sembra confermare come, di fatto, l’obiettivo fosse quello di ridurre fortemente il numero dei percettori di reddito in attesa dell’annunciata riforma che dovrebbe entrare in vigore nel 2024. Il nodo resta sempre lo stesso ed è legato alla visione del rapporto tra lavoro e povertà nel nostro paese e sottende l’idea che la povertà, se in età da lavoro, sia causata da una scelta (o meglio, una colpa) del povero stesso che, nella migliore delle ipotesi, sarebbe uno sfaticato e, nella peggiore, un truffatore che lavora in nero. Le evidenze su questo dicono altro, non negando certo la presenza di casi di frode che andrebbero ancor più combattuti, ma mostrando come una quota importante di occupabili viva in povertà a causa di una situazione personale complessa, fatta di anni di esclusione dal mercato del lavoro, concentrati al sud dove le opportunità di lavoro sono minori, con più di 45 anni. Già con un sistema di servizi al lavoro funzionante, quindi, sarebbe stato altamente complesso pensare a esiti occupazionali positivi alla luce di percorsi formativi di sei mesi. Se poi questi percorsi, come si è visto, non sono ci sono proprio, la perdita di sussidio combinata con l’assenza di forme di reddito alternative è certa. È probabile che il dato di realtà si imporrà e che le regioni, soprattutto quelle del Mezzogiorno, dovranno individuare altre forme di sostegno, magari utilizzando i fondi del piano Gol che possono coprire indennità durante percorsi formativi che verranno svolti dopo agosto, ma anche questa è una soluzione temporanea. E, soprattutto, una soluzione che continua a scontare una assenza di visione, perché se il governo varerà una riforma in linea con la concezione di occupabile che è emersa dalla legge di Bilancio il nodo resterà aperto anche nel 2024. Forse una soluzione, che tamponerebbe ma senza risolvere il vero nodo critico, potrebbe essere quella di garantire almeno i sei mesi di formazione prima di interrompere il sussidio. Scuola. Il ministro che ama solo il bastone di Flavia Perina La Stampa, 25 febbraio 2023 L’impegno civico come antidoto alla violenza, la generosità verso gli altri come stile alternativo alle lezioni di violenza che si impartiscono in certe case, in certe famiglie, in certe strade, e “addirittura nei giorni scorsi davanti a una scuola contro i ragazzi”. Il presidente Mattarella ha pronunciato ieri le parole giuste per raddrizzare il carro del dibattito sulla scuola, mandato fuoripista dalle reazioni del ministro leghista Giuseppe Valditara alla lettera della preside Annalisa Savino agli studenti del Liceo Michelangiolo, dopo l’aggressione davanti ai cancelli dell’istituto. Il Presidente della Repubblica parlava alla annuale cerimonia per gli Alfieri della Repubblica, l’onorificenza riservata agli under-18 che si sono distinti per modelli positivi di cittadinanza. Era un discorso scritto per i ragazzi ma forse un po’ anche per Valditara, che sedeva in prima fila insieme ai colleghi della Sanità e dello Sport. Ci ha ricordato come dovrebbero parlare le istituzioni quando maneggiano materiali incendiari come l’adolescenza e la sua idea di politica, di conflitto, di passione ideale, e tutto ciò che ruota intorno alla stagione in cui, come diceva Guccini, “si è stupidi davvero”. I ministri della scuola italiani non hanno mai brillato di acume in questo tipo di rapporto, dividendosi tra i fanatici della carota e quelli del bastone. Valditara appartiene senza dubbio alla seconda categoria fin dall’esordio, segnato dalle dichiarazioni sull’importanza dell’umiliazione “come fattore fondamentale della crescita e della costruzione della personalità”. In soli quattro mesi è arrivato alla censura tramite intervista tv di una preside che ha scritto cose che non gli piacciono, con un avvertimento piuttosto minaccioso a chi pensa di seguire la stessa strada. Il silenzio agghiacciato dei colleghi di governo, di partito e di maggioranza ci racconta che popolarissimo non è neanche tra i suoi, e non potrebbe essere altrimenti: il valditarismo, per come lo abbiamo visto fino ad ora, porta alla luce una contraddizione profonda della destra, che esiste fin da quando - ai tempi miei - il “professore fascista” della classe era detestato pure dagli studenti che votavano come lui perché spietato nelle interrogazioni, spesso trombone e grandissimo bocciatore. Oggi l’anatema di Valditara contro la “politicizzazione che auspico non abbia più nessun ruolo all’interno delle scuole italiane” risulta stridente nel confronto con una classe dirigente (specialmente quella di FdI) che ha vissuto l’impegno politico a scuola come essenziale passaggio formativo, che a scuola ha fatto politica, eccome, rivendicando diritto di parola e di assemblea anche quando rappresentava una minoranza invisa a tutti, portatrice di idee giudicate assolutamente scombinate. La narrazione degli underdog si è formata esattamente lì, nei licei, difendendo il diritto di parola e di impegno nel contrasto con i professori, i genitori e ogni adulto che diceva: pensa agli affari tuoi, non ti impicciare, studia, divertiti, non metterti a rischio di finire rimandato a settembre per un tema sghembo o una discussione troppo accesa. E capirete che è difficile tenere insieme storie così con un ministro che invece di criticare la violenza (come sarebbe stato ovvio) o scegliere la via del silenzio (come pure era possibile), decide di parlare in tv per prendersela con la preside “che fa politica”, rovesciando l’algoritmo che a tutti pare naturale: nella scuola si può dire, pensare, scrivere quello che si vuole, ma le mani non si alzano, i calci non si danno, i pugni non si usano. È questa l’equazione che il presidente Mattarella ha rimesso a posto, indicando “prepotenza, sopraffazione e violenza” come i primi nemici della società italiana e facendo riferimento all’aggressione di Firenze come esempio da respingere senza se e senza ma. È un’equazione che pure il ministero dell’Istruzione e del Merito dovrebbe riaggiustare con intelligenza, anche in considerazione del fatto che l’ultima cosa che serve non solo al Paese ma anche all’esecutivo è il riaccendersi di una protesta studentesca che scenda in strada gridando “governo fascista”. È vero che l’espressione è stata usata quasi per ogni ministro della Scuola, da Franco Maria Malfatti a Fabio Mussi, e riciclata contro ogni governo ostile alle piazze studentesche compresi quelli di Giuliano Amato e Massimo D’Alema, ma la destra di oggi, la destra che lavora per affermarsi come forza pienamente democratica, può permetterselo assai meno dei suoi predecessori. Caso Valditara, a lezione di antifascismo. Le scuole di tutta Italia in difesa della preside di Andrea Vivaldi La Repubblica, 25 febbraio 2023 Più di centomila firme per sostenere Annalisa Savino, la dirigente scolastica di Firenze che ha scritto una circolare contro il fascismo. Una manifestazione nazionale a Firenze per riaffermare l’antifascismo e in difesa della scuola. La macchina si è messa in moto, grazie ai sindacati e a diverse associazioni, dall’Anpi all’Arci, che stanno definendo la data: per ora la più probaile è domenica 5 marzo. “Stiamo parlando con tutti per allargare la manifestazione e renderla più ampia possibile” dice Emanuele Rossi, segretario generale Flc Cgil Firenze. È un’idea partita dal basso, dai docenti e dalle rsu delle scuole che chiedono una risposta democratica e pacifica, dopo le aggressioni e le intimidazioni firmate da movimenti di estrema destra davanti a due scuole fiorentine. Ma sarà un modo anche di sostenere parole come quelle di Annalisa Savino, preside del liceo fiorentino Leonardo Da Vinci, che aveva scritto una circolare antifascista, invitando i suoi studenti a essere più consapevoli. Il sostegno alla preside Annalisa Savino - Alla dirigente scolastica, criticata dal ministro dell’Istruzione Valditara, continuano ad arrivare innumerevoli messaggi di vicinanza. La petizione in sua solidarietà, lanciata da Priorità alla Scuola, ha raccolto in un giorno e mezzo più di 110 mila firme. Oltre 300 genitori del liceo Michelangiolo di Firenze (dove due studenti sono stati aggrediti da sei giovani del gruppo di destra Azione Studentesca) hanno sottoscritto una lettera di vicinanza a Savino. E poi le difese della Rsu del liceo Da Vinci e pure il sostegno di decine di ex alunni dello stesso liceo. E FdI minimizza - Intanto Fabrizio Rossi, coordinatore per la Toscana di FdI, per la prima volta ipotizza la possibilità di punire i propri militanti “se ci saranno responsabilità accertate”. Ma al tempo stesso minimizza: “È stata una scaramuccia tra ragazzi, prima di condannare qualcuno servono le prove”. E la Lega attacca la preside Savino perché 14 anni fa si sarebbe presentata come candidata nelle primarie Pd a Empoli. La solidarietà dai presidi di tutta Italia Milano - “Nel 2018 bloccai un attacco fascista” “Con la maggior parte dei docenti e degli studenti abbiamo condiviso un messaggio per esprimere sconcerto e preoccupazione per le parole del ministro Valditara e per portare il nostro sostegno a Annalisa Savino” spiega Giovanna Mezzatesta, preside del liceo scientifico Bottoni di Milano. “Io - prosegue la dirigente - avrei fatto lo stesso. Cinque anni fa mi è capitato di dover difendere gli studenti del collettivo della scuola da coetanei di una formazione di destra che minacciavano di picchiarli. Le parole della collega sono più che legittime e appropriate”. (Sara Bernacchia) Bologna - “Mai ingerenza è stata così brutale “L’unico aggettivo che mi viene in mente è incredibile: insegno dall’87 ma un’ingerenza di questo tipo nella scuola non la ricordo”. Gabriella Fenocchio è docente di Lettere al liceo scientifico Copernico di Bologna. Racconta del presidio degli studenti, prima dell’avvio delle lezioni ieri mattina, e della reazione dei colleghi alle dichiarazioni del ministro Valditara. “Ricordo al ministro che se succede un’aggressione agli studenti che ha una connotazione politica, quale essa sia, è normale invitare gli studenti a una riflessione. Noi lo facciamo con i nostri ragazzi, nella scuola entra la realtà. La nostra indignazione è grande”. (Ilaria Venturi) Palermo - “Facciamo sentire la voce della libertà” Ha firmato la petizione nazionale a sostegno della preside del liceo di Firenze e lunedì ha inserito la sua lettera all’ordine del giorno sia del Collegio dei docenti che del Consiglio di circolo con l’obiettivo di approvare una delibera che esprima solidarietà alla collega. “La libertà di espressione è un diritto sancito dalla nostra Costituzione - dice Marcella Polimeno, preside della direzione didattica Aristide Gabelli di Palermo - Il compito della scuola è educare gli studenti alla cittadinanza attiva e democratica. La collega di Firenze adesso ha bisogno del supporto di tutti noi”. (Claudia Brunetto) Torino - “La libertà di parola non va sanzionata” “I nostri punti di riferimento sono la Costituzione e le leggi dello Stato. Non si può essere sanzionati per aver esercitato il diritto della libertà di espressione”. A parlare è Franco Francavilla, dirigente del liceo classico D’Azeglio di Torino. “Anni fa - racconta - davanti alla scuola ci fu un volantinaggio di giovani di destra. Creò diverbi con gli studenti e in classe si affrontò il tema. Quando accadono episodi simili vanno condannati. Diverso però, e lo dico essendomi occupato di storia per buona parte della vita, affrontare questioni storiche complesse in una circolare. Per immediatezza e sinteticità non credo sia il mezzo adatto”. (Cristina Palazzo) Roma - “Noi facciamo vivere la Costituzione” All’Amaldi, il liceo più grande di Roma, i docenti hanno espresso “piena solidarietà agli studenti aggrediti a Firenze davanti all’istituto Michelangiolo e alla dirigente del Da Vinci, Annalisa Savino”. Hanno invitato i colleghi a leggere ai ragazzi la lettera della preside che ha “richiamato i principi della nostra carta costituzionale, condannando una violenza che ricorda il peggiore squadrismo fascista”, per poi venir contestata dal ministro Valditara. “Il loro è un gesto sentito, perché il ruolo della scuola è fare in modo che la Costituzione sia viva, difesa e attuata nel lavoro quotidiano”, dice la dirigente dell’Amaldi, Maria Rosaria Autiero. (Valentina Lupia) Napoli - “Quando serve siamo padri e madri” Vittorio Delle Donne è alla guida dello storico liceo Genovesi di Napoli. E non ha dubbi: “Le parole della mia collega di Firenze sono in linea con la funzione di un dirigente scolastico che si trova a guidare una comunità che nei momenti di necessità o di tensione emotiva gli si rivolge come fosse un padre e attende indicazioni. Lei ne ha date offrendo una visione che è l’opposto dei principi del fascismo, nel rispetto della Costituzione. Cita Gramsci in quanto vittima del fascismo e per la lotta all’indifferenza: proprio a scuola insegniamo agli alunni a non essere indifferenti, a essere cittadini attivi a 360 gradi”. (Bianca De Fazio) Genova - “Il pensiero deve essere libero” A Genova il liceo classico e linguistico “Colombo” ha espresso la propria solidarietà alla dirigente scolastica Annalisa Savino attraverso una lettera firmata dal collega preside Luca Barberis e da sessantacinque tra insegnanti e collaboratori. “Il ministro Valditara affronti con fermezza e serietà il pericolo neofascista che si annida fra gli studenti e nella nostra società - osserva Barberis - Noi abbiamo voluto esprimere preoccupazione per il pericolo di un ritorno alla violenza civile. C’è il pericolo di un controllo della libertà di pensiero, che il nostro Paese ha già tragicamente vissuto insieme alla privazione di tante altre libertà fondamentali”. (Alberto Bruzzone) Firenze - “La nostra storia va rispettata e difesa” “Esprimo senz’altro solidarietà alla mia collega. Credo abbia svolto il suo dovere di educatrice richiamando ai valori della Costituzione”, così Osvaldo Di Cuffa, dirigente scolastico dell’Istituto Sassetti Peruzzi di Firenze. “Ha fatto un atto assolutamente legittimo per una preside che tiene all’educazione dei propri studenti e al loro futuro”. Di Cuffa ricorda come anche il Sassetti Peruzzi abbia preso un’iniziativa simile: “In collegio docenti abbiamo approvato un documento di solidarietà ai ragazzi del Michelangiolo e di condanna della violenza, ribadendo la necessità di difendere come educatori i principi costituzionali, tra cui l’antifascismo”. Per quanto riguarda l’attacco di Valditara afferma: “Il ministro ha interpretato male la lettera della collega. Ha parlato di politicizzazione, ma in quel testo non c’è una presa di posizione politica nel senso di faziosità. Semmai c’è politica nel senso più bello del termine: dire ai ragazzi che la nostra democrazia è frutto di una storia che va rispettata e difesa”. (Marcello Conti) Un silenzio assordante di Michele Passione Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2023 I fatti sono noti; per quanto ancora da accertare nel dettaglio ruoli e responsabilità penali, che francamente poco importano, il pestaggio di un ragazzino davanti a un liceo ci riguarda, e impegna la coscienza democratica di una intera Comunità. Firenze è scesa in piazza, ragazzi in testa al corteo e meno giovani dietro (chi scrive era lì, insieme ad altri genitori, nonni, compagni, perché come diceva Don Milani “ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”). Mani che stringono mani, dopo i calci in testa. Nel mezzo, un silenzio assordante; non una parola dal Governo, distratto da altre incombenze. Accade dunque che una dirigente scolastica, onorando la sua funzione, inviti gli studenti, tutti, a non restare indifferenti, ad essere consapevoli e solidali, provocando l’inusitata reazione del Ministro, che ha definito “ridicola” la lettera della professoressa, ha parlato di “attacco alla libertà di opinione” e di “campagna di odio”, invitando “a maggior responsabilità i partiti dell’opposizione” e invocando “solidarietà anche dalla preside che ha scritto la missiva”. Infine, il monito: “se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure”. Non è dato comprendere quale sia l’opinione sotto attacco, salvo la si intenda manifestata con i pugni e con i calci (calpestare le idee), né perché si utilizzi la reazione del Paese civile a quanto accaduto a Firenze per polemizzare strumentalmente con l’opposizione. La destra è forte in Parlamento, e certamente maggioranza nel Paese, ma non c’erano bandiere di partito che coprivano lo sdegno popolare qualche sera fa nelle vie della mia città. In disparte la ridicola richiesta di “solidarietà” (a chi e per cosa, impossibile comprenderlo), alla fine il dato è chiaro: non si può restare indifferenti, “sarà necessario prendere misure”. Per fortuna nel frattempo l’impudicizia è sommersa dalla solidarietà, e decine di migliaia di cittadine e cittadini sostengono attraverso Priorità alla scuola il pensiero libero e democratico della dirigente scolastica. La destra fa la destra, altro che Dante, come stupirsi? Non ci meritiamo tutto questo. Il popolo della pace si mobilita in oltre 120 città di Francesco Vignarca Il Manifesto, 25 febbraio 2023 A un anno dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Da Bolzano a Palermo passando per Napoli e altri capoluoghi, marce, fiaccolate e manifestazioni contro la politica in armi. Sostegno alla popolazione ucraina ma anche attenzione agli altri conflitti nel mondo dallo Yemen al Congo. Se le consideriamo in ordine alfabetico si parte da Acireale e si arriva a Zagarolo. Ma è davvero coperta tutta la Penisola: da Bolzano a Palermo (dove ieri sono scesi in piazza migliaia di studenti), da Torino a Bari passando per Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e praticamente tutti i capoluoghi di regione. Sono le oltre 120 città coinvolte nelle manifestazioni promosse dalla coalizione Europe for Peace per l’anniversario dell’inizio della guerra in Ucraina, causata dall’invasione decisa da Putin. Iniziative che hanno preso avvio già nei giorni scorsi con diversi appuntamenti, in particolare la marcia notturna tra Perugia e Assisi, e che culminano in queste ore con momenti davvero significativi. Già abbiamo visto le migliaia di persone, con tantissimi giovani, presenti nelle fiaccolate, marce e presidi di Palermo, Cagliari, La Spezia, Ivrea, Genova, Padova, Modena, Potenza, Reggio Calabria, Sassari, Reggio Emilia, Torino, Verona… nella città scaligera erano presenti anche le tre giovani attiviste nonviolente da Russia, Bielorussia e Ucraina che saranno protagoniste anche del grande evento a Brescia domenica 26 febbraio. A Bologna uno degli appuntamenti più significativi anche per gli interventi in programma: il cardinal Matteo Zuppi, il sindaco Lepore e Giulio Marcon di Sbilanciamoci in rappresentanza della coalizione pacifista. Mentre a Milano il momento di sintesi finale è toccato al presidente dell’Anpi Pagliarulo. Sono state già 75 le città coinvolte nella prima giornata di mobilitazione, preparando il terreno agli appuntamenti in programma per il sabato: la marcia regionale di Ancona, la manifestazione di Firenze con la catena umana attorno agli Uffizi, l’iniziativa incentrata sul disarmo nucleare di Napoli e ovviamente la fiaccolata dai Fori imperiali con arrivo in Campidoglio a Roma. Momento che vedrà gli interventi finali della presidente di Emergency Rossella Miccio, del Segretario Generale della Cgil Maurizio Landini e del fondatore della Comunità di S. Egidio Andrea Riccardi. Non è solo la presenza di tanti attivisti e rappresentanti delle piccole e grandi associazioni che compongono Europe For Peace ad essere la ricchezza di queste iniziative che chiedono pace. Sono le persone senza appartenenze specifiche che dappertutto si sono fatte coinvolgere dalla richiesta di cessate il fuoco e negoziato urgente a rendere evidente come la posizione di una larga fetta dell’opinione pubblica italiana sia divergente dalle decisioni prese da Governo e Parlamento. A convincerli della bontà di questa strada e delle proposte del movimento pacifista italiano è stata sicuramente la continuità con la piattaforma di richieste già esplicitate nella grande manifestazione nazionale dello scorso 5 novembre a Roma, così come la continuità nell’azione di sostegno umanitario alla popolazione Ucraina. Iniziativa umanitaria ben esemplificata dalle carovane di pace Stop the war now (è in preparazione il prossimo viaggio, che si recherà nelle zone più colpite dal conflitto armato). E anche dalla capacità di accoglienza messa in campo da numerose organizzazioni. Sono però anche altri gli elementi che rendono significativa, seria, concreta la proposta di Europe For Peace. Un primo punto parte dallo sguardo allargato che fin dall’inizio è stato utilizzato per cercare di dare un contributo a percorsi di pace possibile: non c’è solo lo scontro in Ucraina ma c’è anche un ruolo dell’Europa, delle relazioni internazionali, dell’esigenza di una sicurezza condivisa. Perché è, al contrario, l’attuale stato di insicurezza globale che poi scarica le proprie problematiche in situazioni drammatiche e devastanti come il conflitto ai confini dell’Europa. Che però non è l’unico, anche se è sicuramente il più visibile ai nostri occhi occidentali. Solo mettendo insieme tutte le situazioni di conflitto e non facendo una gerarchia di interesse o di attenzione potremo dare una risposta alla richiesta di aiuto che viene anche dall’Ucraina. Se vogliamo una pace basata sui diritti non possiamo occuparci solo di quanto accade più vicino a noi, ma dobbiamo far riferimento anche alle situazioni come Yemen, Etiopia, Congo e tanti altri luoghi in cui la guerra sta imperversando. Di conseguenza anche la soluzione potrà essere solo allargata, mettendo attorno a un tavolo non solo la Russia e l’Ucraina che oggi si stanno combattendo ma anche le grandi potenze come gli Stati Uniti, la Cina e le organizzazioni internazionali come l’Unione Europea e le Nazioni Unite. Serve davvero un cambio di passo con un rinnovato sforzo politico creativo, magari con la formula della conferenza internazionale. È necessario inoltre sgombrare il campo dalla minaccia delle armi nucleari, che proprio con la guerra in Ucraina hanno dimostrato di essere fonte di insicurezza e strumento di ricatto e non quell’elemento di stabilità tanto decantato dai cultori della deterrenza e ovviamente apprezzato dalle potenze con gli arsenali pieni. Dire sì alla pace oggi, come stanno facendo centinaia di città in Italia in Europa, significa dire sì a percorsi di sicurezza condivisa che si basino sul diritto e non sulle armi. E che affrontino le vere minacce per l’umanità: povertà, mancanza di diritti, impatto devastante del cambiamento climatico. Armi all’Ucraina, la maggioranza degli italiani è contraria di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 25 febbraio 2023 Il sondaggio dell’Istituto Ipsos. Un italiano su due non si schiera ma solo il 7% è con Mosca. Prevale il no all’invio delle armi. I più contrari agli armamenti si trovano tra gli elettori di Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Favorevoli i sostenitori di Pd e Forza Italia. Gli italiani continuano ad essere preoccupati per il conflitto in Ucraina. Ne temono soprattutto le ricadute economiche (più che quelle umanitarie) e non prevedono che le ostilità possano cessare a breve (ci vorrà da uno a più anni). Le simpatie nei confronti del paese guidato da Volodymyr Zelensky sono in netto calo a favore di un atteggiamento più equidistante o comunque non a favore dell’uno o dell’altro contendente. E rimane confermato, invece, un giudizio negativo rispetto all’opportunità di inviare armi all’Ucraina. Questo è il quadro che emerge da un sondaggio realizzato dall’Istituto Ipsos per conto del Corriere della Sera tra il 21 e 23 febbraio. Una fotografia che fornisce anche dati interessanti da leggere in chiave di politica interna. Soprattutto alla luce della recente visita della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Kiev e del suo fermo appoggio al presidente ucraino. Proprio rispetto all’invio di armi (visto con favore dal 34% degli italiani rispetto al 45% di contrari), infatti, gli elettori del partito della premier sono in maggioranza (47% a 39%) contrari. Nella coalizione di centrodestra, ancor più ostili a nuovi aiuti sono i cittadini che votano Lega (55% a 32%), mentre i favorevoli prevalgono solo tra i sostenitori di Forza Italia (51% a 40%). Per contro, spicca il favore all’invio di armi degli elettori del Pd (52% a 36%) e di quelli di Azione-Iv (55% a 33%). Il Movimento 5 Stelle vede confermata la sua linea ostile dai suoi votanti (contrari il 54% rispetto al 30% favorevole). Con questi numeri, forse è più chiaro il crescente raffreddamento della Lega nei confronti degli aiuti, mentre la premier sta “sfidando” parte dei suoi elettori e sarà interessante capire se ne pagherà un prezzo.”Gli italiani confermano di essere preoccupati (tra molto e abbastanza sono il 79%) per il perdurare del conflitto - spiega Nando Pagnoncelli, direttore di Ipsos - Lo sono soprattutto per le sue ricadute economiche (il 49%) più che per le conseguenze umanitarie (14%)”. E sta crescendo anche il timore che la guerra possa “degenerare in un conflitto mondiale”. Questo perché le previsioni su un possibile cessate il fuoco non sono ottimistiche. Per il 30% degli italiani la guerra durerà ancora per “diversi anni” mentre per il 30% ci vorrà almeno un anno per arrivare ad uno stop. Si conferma che la bilancia pende nettamente a favore dell’Ucraina (47% rispetto al 7% per la Russia), ma i consensi sono scesi di dieci punti in un anno. “In compenso - osserva Pagnoncelli - è cresciuta la quota (dal 38% al 46%) di quelli che non si schierano con nessuna delle due parti”. Forse è anche per questo che con il passare dei mesi è scesa la percentuale degli italiani favorevoli alle sanzioni alla Russia (erano il 55% nel marzo 2022, sono il 46% oggi, mentre i contrari sono passati dal 31% al 38%). Infine, c’è il dato relativo all’invio delle armi. Prevalevano i contrari un anno fa (47% contro il 33%) e lo stesso succede oggi (45% a 34%) con fluttuazioni minime nell’arco di un anno. Clima, fame, migrazioni: un solo fronte di Maurizio Martina* Corriere della Sera, 25 febbraio 2023 Il 90% di tutte le persone in estrema povertà vive in paesi vulnerabili sul piano climatico. Siccità, inondazioni, temperature estreme li colpiscono duramente. Caro Direttore, quasi il 90% di tutte le persone in estrema povertà vive in paesi vulnerabili sul piano climatico e ambientale. Siccità, inondazioni, temperature estreme li colpiscono duramente. E colpiscono prima di tutto le nuove generazioni: sono almeno 920 milioni i bambini a rischio scarsità d’acqua. Il legame tra cambiamenti climatici, fame e migrazioni sarà sempre più stringente e proprio per questo richiede un urgente salto di qualità nell’analisi e nell’azione. Ciò è tanto più vero se si guarda al Mediterraneo, crocevia fondamentale di cambiamenti climatico-ambientali e geopolitici. Nel 2020 i disastri meteorologici hanno provocato lo sfollamento forzato di circa 30 milioni di persone e secondo la Banca Mondiale almeno 216 milioni di persone in sei regioni del pianeta potrebbero spostarsi all’interno dei loro paesi entro il 2050. È come se l’intero popolo brasiliano fosse costretto a muoversi. Sappiamo che, fino a qui, la grande parte dei movimenti migratori causati dagli shock climatici sembra essere di carattere temporaneo e locale, mentre le migrazioni determinate da costanti e graduali cambiamenti ambientali, più probabilmente, accentueranno il loro carattere permanente e di lunga distanza. Il fatto è che le migrazioni per necessità, determinate dagli effetti del clima sulla povertà e sulla fame, hanno proprio nelle popolazioni rurali le realtà più vulnerabili. La ragione è semplice e drammatica: la dipendenza di queste comunità dalle risorse naturali è quasi totale e i loro villaggi sono altamente esposti agli sconvolgimenti ambientali data la loro fragilità che troppo spesso impedisce azioni di tenuta o adattamento. È il bisogno che spinge migliaia e migliaia di persone - dall’Afghanistan al Ciad, all’Etiopia o alla Somalia - a lasciare le campagne per cercare condizioni di vita migliori nei centri abitati più grandi, determinando spesso ulteriori pressioni su queste realtà. I riflessi sull’insicurezza alimentare sono immediati: si pensi alla situazione senza precedenti dei profughi della sete e della fame nel Corno d’Africa dopo cinque interminabili stagioni di siccità. La crescita della popolazione e l’aumento dei consumi a livello globale, inoltre, innalzano la pressione sulle risorse naturali impiegate nel settore agricolo: entro il 2030 le domande di risorse idriche ed energia aumenteranno del 40% e del 50%, rispettivamente, per far fronte ai nuovi bisogni alimentari. Bisogna attrezzarsi per provare a mitigare gli impatti di questi scenari, evitando gli effetti più disastrosi sia per l’uomo che per l’ambiente. Ai tropici gli sconvolgimenti climatici rischiano di ridurre fino al 40% il pescato entro il 2050. Si stima che la sussistenza di oltre 252 milioni di persone dipenda dalle foreste e il degrado dei loro ecosistemi li espone a rischi esiziali. Senza dimenticare poi che circa il 60% della produzione agricola mondiale proviene da terreni non irrigati, la cui resa quindi dipende esclusivamente dalle precipitazioni, sempre più irregolari e imprevedibili. Sono tutti dati inequivocabili che legano indissolubilmente il clima, le risorse naturali, e l’insicurezza alimentare. Esistono azioni capaci di aiutare le popolazioni più colpite, e agenzie come la FAO, sono impegnate su questo fronte. Alcuni esempi possono aiutare a descrivere il lavoro necessario: in El Salvador un progetto multilaterale aiuta da tempo oltre 50.000 piccoli agricoltori vulnerabili ad aumentare la loro resilienza climatica. Con il progetto SAFE invece, insieme all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, si lavora per migliorare l’accesso all’energia degli sfollati interni di diversi paesi africani. In Madagascar, il primo paese in cui è stata dichiarata una crisi alimentare a causa degli sconvolgimenti climatici, diverse ONG lavorano con le istituzioni per potenziale le pratiche di adattamento agroecologiche per rendere i suoli più fertili, prevenire le malattie delle piante, ridurre sprechi e perdite e permettere ai piccoli agricoltori di aumentare il loro reddito familiare. Attraverso il contributo della Cooperazione allo Sviluppo italiana, la FAO ha formato oltre 500 tecnici e amministratori in Libia, Mali e Niger nella gestione delle risorse naturali per l’agricoltura, rafforzando le loro competenze. Consolidare rapidamente i giusti interventi di adattamento in materia di sicurezza alimentare non significa solo mettere in campo buone pratiche sostenibili agricole e alimentari. Significa anche offrire una possibilità di ordine sociale ed economico per scongiurare gli effetti più drammatici di queste dinamiche. E ciò è tanto più urgente nel Mediterraneo. Comprendere lo stretto legame che c’è tra ambiente, fame e migrazioni e agire di conseguenza è una delle responsabilità più importanti del nostro tempo. *Vicedirettore generale FAO Siria senza pace e senza aiuti tra le macerie di Marta Serafini Corriere della Sera, 25 febbraio 2023 Dopo il devastante terremoto pochissimi camion degli aiuti delle agenzie delle Nazioni Unite e delle ong sono riuscite faticosamente a far entrare nel Paese dal lato controllato dai gruppi ribelli e dalle milizie filo turche. Mentre il mondo guarda giustamente a Kiev, gli occhi dell’opinione pubblica europea non hanno più davanti i danni del terremoto che ha colpito il confine tra la Turchia e la Siria. Dal lato turco arriva un bilancio che nemmeno a distanza di quasi tre settimane può dirsi definitivo: 45 mila vittime. Dal lato siriano si contano ancora i camion degli aiuti che le agenzie delle Nazioni Unite e le ong sono riuscite faticosamente a far entrare nel Paese dal lato controllato dai gruppi ribelli e dalle milizie filo turche. Ma secondo quanto ha denunciato all’inizio della settimana Msf - anche lei impegnata sia sul lato turco che su quello siriano, la stessa Msf la cui nave di ricerca e soccorso viene ora multata e fermata ad Ancona - si tratta di aiuti che sono inferiori comunque al volume medio di prima del terremoto. In questo quadro devastante e desolante, c’è un uomo che dorme sonni tranquilli. Ed è Bashar Al Assad, fedele alleato del nemico di Kiev, Vladimir Putin, che proprio con l’aiuto del Cremlino ha massacrato e torturato il suo popolo per 13 anni pur di restare al potere. Si accusa Mosca di aver commesso crimini di guerra in Ucraina. E si invoca il diritto internazionale affinché chi ha ucciso, stuprato e torturato paghi. Non si parla più di crimini di guerra e di guerra in Siria. Ma Isis dal 10 febbraio ad oggi ha ucciso nel deserto siriano almeno 100 persone, domenica Israele ha bombardato Damasco e Ankara non accenna a mollare la presa sul Nord Est siriano controllato dai curdi. Non c’è pace in Siria dopo 13 anni. Nemmeno tra le macerie. Così come in Ucraina tra le rovine di Kherson, del Donbass o di Irpin. O Europa, in Medio Oriente, a Est, nel Mediterraneo. Che sia sotto la polvere e il sangue lasciati sulla terra dalle bombe, che sia sotto le onde di un mare che inghiotte rifugiati o dentro lo sfacelo del più grande terremoto dei nostri tempi. Tragedie che ci riguardano. Che abbiamo il dovere di raccontare e siamo costretti a guardare.