Il posto giusto di Mattia Feltri La Stampa, 24 febbraio 2023 Un po’ d’indignazione, quella necessaria per tirare sera, è stata spesa a destra per lo striscione appeso ieri dagli anarchici all’Altare della patria: “L’Italia tortura. No al 41 bis”. Oltraggio inaccettabile, ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa, in versione belva anziché coniglietto, perché l’Altare della patria è il monumento a chi ha sacrificato la vita alla nazione. Poi, che il 41 bis sia equiparabile a tortura, siamo in pochi a pensarlo e quindi si concede un punto a La Russa, ma proprio ieri ho letto un’intervista di qualche settimana fa a Michele Padovano, ex campione di calcio assolto dopo diciassette anni dall’accusa di traffico di droga. Diciassette anni fa era il 2006. Per capire, tutti dovremmo ricordare che cosa facevamo nel 2006, che cosa è cambiato intanto nelle nostre esistenze. Nel 2006, per esempio, nasceva la mia prima figlia e penso a tutta la sua vita col padre sotto processo, fosse toccato a me. Non la vogliamo chiamare tortura? I primi dieci giorni in carcere, Padovano li trascorse in isolamento senza potersi fare una doccia. Come la vogliamo chiamare? E di Padovano si sa perché Padovano è famoso, la sua assoluzione è una notizia, ma il presidente La Russa potrebbe andare sul sito di Errori giudiziari a vedere quanti come lui, ogni giorno. Oppure sul sito di Antigone - se serve qualcosa di più sanguinolento - a contare le condanne per tortura in seguito ai pestaggi di detenuti. E dunque sì, poiché l’Italia è una democrazia liberale, non è la Russia di Putin, credo non ci sia un posto migliore dell’Altare della patria su cui srotolare uno striscione del genere. Se vieta le relazioni umane come al 41 bis, il carcere non sarà mai rieducativo di Maria Brucale Il Domani, 24 febbraio 2023 Non ha senso una carcerazione che sputa fuori le persone alla fine della loro pena senza neppure un attimo di convalescenza sociale, di gradualità della restituzione. La mafia si combatte provocando un mutamento nella società, non con una carcerazione senza scopo di restituzione, senza proiezione di recupero, esule dal “diritto alla speranza” fino alla fine della pena. Riflettendo sul carcere e sulla sua capacità in concreto di offrire strumenti di reinserimento, di ricostruzione, di risocializzazione delle persone ristrette, mi sono resa conto che in oltre vent’anni di osservazione e di indagine empirica sul mondo recluso ad espiare pene temporanee o pene senza fine, in alcuni casi soltanto ho potuto riscontrare come la detenzione si sia tradotta in un autentico rinnovamento di sé. Chi espia una pena temporanea in carcere per reati comuni (furti, rapine, estorsioni, droga), ove non acceda alle misure alternative anche a causa della nota e irrisolta carenza di risorse sociali, tende a restare nel crimine, spesso in ragione di una patologia di vita che innesta la propria continuità nella assenza di opportunità lecite di sostentamento. Il carcere dei poveri, quello che porta a restare ristretti fino all’ultimo giorno di pena e a ricadere ogni volta, in un circolo senza uscita di marginalità. Le persone condannate all’ergastolo ostativo, invece, che hanno trascorso anni della loro vita nel regime privativo del 41 bis e che sono state riversate, poi, nei regimi dapprima di elevato indice di vigilanza e successivamente di alta sorveglianza, in questi luoghi, finalmente, hanno iniziato a rapportarsi ad esperienze altre, al contatto con persone nuove, all’accesso ai laboratori di scrittura, teatrali, di arte, di pittura, di scultura, di cucina, alla parola, alla lettura, alla musica, all’incontro. Hanno potuto, usciti dal silenzio emozionale e ideativo del 41 bis, ritrovare nella contaminazione del sé con l’altro un’occasione di rinascita. Ho pensato allora che quella che non a torto è definita subcultura delle mafie, del terrore, della sopraffazione, della violenza può essere dissipata unicamente ponendo in conflitto i falsi ideali che la connotano con abiti nuovi e più gratificanti da indossare. Ho capito che l’unica declinazione possibile di quella parola paternalistica, desueta e inadeguata, ‘rieducazione’, è relazione. Relazione intesa come rapporto di cura. Non esiste cura senza l’altro, anche quando l’altro - in una lettura psicoterapeutica - sparisce per fare posto a sé. Quell’assenza diventa nutrimento per scoprire la propria individualità. Ci si salva sempre con qualcuno: si vive, ci si struttura, si cresce, si soffre, si è felici sempre in mezzo agli altri, si misura il sé in rapporto all’altro, alla conoscenza delle dinamiche comportamentali ed emotive che un’esperienza produce in ciascuno. Dolore, privazione, lontananza (di ogni tipo), assenza di confronto, di dibattito, perfino di conflitto, di relazione, appunto, non sono propedeutici alla cura, non consentono l’attivarsi di nessun progetto o percorso di autentica e consapevole revisione. L’individualità muore - La conseguenza di questo ragionamento è immediata e porta a spingere lo sguardo su quel mondo senza, il 41 bis, dove non l’uomo del reato ma l’uomo stesso, nella sua individualità, muore e non trova spazio né respiro per il cambiamento. Nell’ultimo decennio il numero dei ristretti in 41 bis si è triplicato perché quelli che c’erano venti anni fa ci sono ancora e perché le maglie si sono sempre più allargate. Ancora, perché il circuito detentivo dell’alta sicurezza è diventato un contenitore che tiene insieme in modo del tutto incongruente i reduci del 41 bis e chi va in permesso premio dopo un trentennio di carcerazione; perché è scomparso un regime intermedio, quello dell’elevato indice di vigilanza (c.d. E.I.V.), che permetteva di osservare per un tempo limitato le persone ristrette appena uscite dal regime derogatorio del 41 bis nei loro primi passi nei circuiti che danno ingresso alla vita in comune, perché il Dap resiste, per qualche incontemplabile motivo, a declassificare chi non è più un pericolo tenendolo a forza ancorato al reato per cui è stato recluso. E allora va ripensato il 41 bis che non può essere per tutti i condannati per quei gravi reati, che può ammettere solo quelle restrizioni davvero finalizzate alla sicurezza sociale, che deve durare per un tempo limitato ed essere sorretto da una verifica concreta ed effettiva della attualità della capacità di chi è dentro di condizionare l’operato di chi è fuori e non astratta e prognostica, posata solo sul titolo di reato anche se risale a trent’anni fa, che deve dare il passo all’inserimento dei detenuti nei circuiti di relazione per attivare progetti reali di recupero. Non può essere ammessa una carcerazione senza scopo di restituzione, senza proiezione di recupero, esule dal “diritto alla speranza” fino alla fine della pena, per circa 250 di loro per sempre, quelli che uniscono alla carcerazione differenziata la condanna all’ergastolo ostativo. Perché non ha senso una carcerazione che sputa fuori le persone alla fine della loro pena senza neppure un attimo di convalescenza sociale, di gradualità della restituzione, anche di osservazione da parte di chi controlla, in una logica non deviata di sicurezza. Perché la mafia si combatte provocando un mutamento nella società, generando paradigmi di pensiero e di azione diversi, nuovi, positivi, sani. Laureati al 41 bis: quando l’unica libertà è farsi una cultura di Michele Giacomantonio icalabresi.it, 24 febbraio 2023 Sono entrati in galera appena maggiorenni, ne usciranno il 31 dicembre 9999: così riportano i loro documenti penitenziari. Eppure, nell’abisso della detenzione, hanno trovato una via di fuga e il riscatto nei libri. Ci sono appuntamenti sul calendario che sembrano somigliare al titolo di uno di quei film apocalittici di fantascienza, per esempio “31/12/9999”. Invece questa data che non esiste, è scritta nero su bianco sul documento penitenziario che accompagna la detenzione di F. e indica il termine della sua carcerazione, cioè mai. F. sconta la sua pena in un carcere della Sardegna e sarebbe dovuto giungere lunedì 13 febbraio all’Unical per conseguire la laurea Magistrale in Sociologia e Ricerca sociale. Per ragioni che ancora non sono note, però, dalla sua cella non è mai uscito. Laurea e dottorato al 41 bis - Sono i misteri dell’ergastolo ostativo, la forma di pena che esclude il detenuto che si è macchiato di particolari reati dal poter usufruire dei benefici penitenziari come permessi o forme di riduzione della pena stessa. Eppure F. aveva ottenuto un permesso “per necessità” e la sensibilità del magistrato di sorveglianza aveva autorizzato anche la scorta a viaggiare in borghese e senza utilizzare le manette. C. invece è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza del nord e anche per lui le porte del penitenziario non si apriranno più. Alcuni anni fa C. si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Catanzaro. Poi ha conseguito un dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Unical. I due sono studenti del Polo universitario penitenziario e rappresentano gli esempi di come, pure nell’abisso della reclusione più severa, le cose possano cambiare. I mille chiavistelli che separano le loro celle dal mondo di fuori sono rimasti serrati, ma gli orizzonti si sono allargati portando nelle anguste mura del carcere saperi, conoscenze e consapevolezze che prima mancavano. Il diritto allo studio per tutti - “L’esperienza del Polo universitario penitenziario dell’Unical nasce formalmente nel 2018”, spiega Franca Garreffa, sociologa del Dipartimento di Scienze politiche e responsabile del Pup. Si tratta di un protocollo d’intesa attraverso cui l’Ateneo e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria si impegnano a favorire il diritto allo studio delle persone detenute. In realtà le radici del rapporto tra l’Università e i luoghi di pena sono più antiche di almeno un decennio e risalgono a quando nel carcere di Rossano proprio F. e il suo compagno di cella G. espressero a una volontaria il desiderio di seguire gli studi universitari. L’allora direttore del carcere, Giuseppe Carrà, contattò il sociologo Piero Fantozzi, che al tempo dirigeva il dipartimento di Sociologia e subito si avviò il percorso didattico. In quel cammino venne coinvolta Franca Garreffa, appena laureata con Renate Siebert discutendo una tesi sul carcere. I due detenuti conseguirono la laurea triennale nel giugno del 2015 sostenendo le loro tesi nell’aula dell’ateneo. L’unica via di fuga - Proprio in quel periodo C. che intanto era recluso nel carcere di Catanzaro, chiese di potersi laureare anche lui recandosi in università e al diniego delle autorità decise di protestare iniziando uno sciopero della fame. Sarà a causa di questa protesta che dovrà rassegnarsi a discutere la tesi in carcere e poi al trasferimento al nord. Successivamente, a causa di imperscrutabili percorsi umani, l’estratto della tesi di laurea di C. che aveva come argomento l’ergastolo ostativo apparirà su una rivista il cui direttore era il figlio del giudice che gli aveva comminato proprio quella pena. Ma se i libri diventano la sola via di fuga, allora tanto vale continuare a studiare ancora, fino al dottorato di ricerca, il più alto titolo di studio riconosciuto nel nostro Paese, traguardo che C. raggiunge proprio con Franca Garreffa. “Ho incontrato C. quando era già al nord - racconta la sociologa del Dispes - e mi sono messa in contatto con lui tramite alcune redattrici della rivista Ristretti Orizzonti”. Da lì comincia un percorso umano e didattico che ancora è in corso. Una laurea al 41 Bis per riscattarsi - Le storie di F. e C. sono per molti versi drammaticamente simili. Da giovanissimi, entrambi poco più che ventenni, vengono arrestati e accusati di reati molto gravi e per questo condannati all’ergastolo ostativo e al regime del 41 Bis. Viene da domandarsi come si possa consegnare due persone, praticamente ancora ragazzi, a una pena così priva di senso e ampiamente considerata anche incostituzionale. A quell’abisso infernale F. e C. hanno dato uno scopo attraverso lo studio. “Tramite l’impegno universitario F. e C. e tutti i detenuti impegnati nei vari Poli universitari penitenziari non hanno solo riempito di senso il loro tempo, ma hanno cercato un riscatto per se stessi e per le loro famiglie”, spiega la professoressa Garreffa, che intanto resta in attesa che a F. venga consentito, come annunciato, di tornare nell’aula di Arcavacata per la sua laurea magistrale. Perché il sapere non fa svanire le sbarre, né apre le serrature, ma rende gli uomini migliori. Il carcere uccide (non) solo d’estate di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 24 febbraio 2023 Nei primi mesi del 2023 si contano già sei suicidi tra i detenuti. L’anno scorso si sono tolte la vita 85 persone, numeri senza precedenti. Per fermare il trend, serve intervenire con tempestività, puntando sulle misure alternative. Sono già sei i suicidi avvenuti nel 2023 nelle carceri italiane. Un conteggio drammatico che rinnova quello dello scorso anno, quando si sono tolte la vita 85 persone - un numero senza precedenti - di cui 80 uomini e cinque donne, anche queste ultime mai così tante. Se ogni suicidio è un fatto a sé che richiama problemi individuali, tuttavia è possibile rintracciare un filo comune che lega questi atti alle questioni che il sistema penitenziario - e tutto il contesto che lo circonda, fatto di leggi, stigmatizzazione sociale, isolamento - vive o non sa affrontare. Chi decide di suicidarsi in carcere, infatti, in molti casi è entrato da poco o è prossimo all’uscita. Un impatto con “il dentro” che spesso acutizza le fragilità che le persone si portano da fuori. Ma anche una preoccupazione per il ritorno in libertà, in una condizione di esclusione sociale che può spaventare. Come ha illustrato il Garante nazionale delle persone private della libertà personale in una sua recente relazione, delle 85 persone suicidatesi nel 2022, 50 si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione e, di queste, dieci nelle prime 24 ore dall’ingresso in carcere. Inoltre, 20 persone risultavano essere senza fissa dimora (un numero in aumento rispetto agli anni precedenti) ed è facile immaginare non con grandi prospettive una volta tornate in libertà. Storie di morte - Lo scorso mese di agosto - il più tragico dell’anno con 17 suicidi - Antigone ha pubblicato un report dove si raccontano alcune delle storie che siamo stati in grado di ricostruire. Una è quella di G.T., un ragazzo di 21 anni che, secondo il tribunale di Milano, in carcere non doveva proprio starci. Detenuto a San Vittore dall’agosto del 2021 per il furto di un cellulare, a ottobre il giudice ha disposto il suo trasferimento in una Rems - Residenza per le misure di sicurezza - a causa di un disturbo borderline della personalità. Nella notte del 31 maggio, a otto mesi da quella pronuncia, il giovane si è tolto la vita, dopo che nelle settimane precedenti ci aveva già provato. Un’altra storia è quella di A.G., un ragazzo di 24 anni di origine brasiliana adottato in Italia, affetto da disturbi psichici e consumatore di sostanze stupefacenti. A fine agosto è stato arrestato a Torino dopo avere rapinato due supermercati, ma fino a quell’episodio non aveva alcun precedente penale. Dopo la convalida del fermo, il 24enne è stato trasportato al carcere Lorusso Cotugno in misura cautelare. Qui, nel reparto nuovi giunti, ha tentato una prima volta di uccidersi. Dopo un periodo trascorso nel reparto sanitario, gli psichiatri hanno valutato come “ridotto” il rischio suicidio e quindi il ragazzo è stato trasferito al reparto Sestantino, in cui sono reclusi i detenuti che necessitano di una osservazione psichiatrica, con le singole celle continuamente monitorate. Il 15 agosto, tredici giorni dopo il suo arresto, il ragazzo si è suicidato. Non molto diverse le storie di due delle cinque donne che si sono tolte la vita lo scorso anno. La prima, una 29enne, era arrivata due giorni prima al carcere di Messina. Si è suicidata in cella, dopo l’interrogatorio di garanzia davanti al gip avvenuto da remoto. Pare soffrisse di disagi psichici. A pochi chilometri di distanza, nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, una donna romena di 36 anni, da poco detenuta all’interno dell’Articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm) è stata ritrovata senza vita nel cortile dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario, al termine dell’ora d’aria. Al posto sbagliato - Questi casi accendono un riflettore su due temi: la tutela e la presa in carico del disagio psichico e i fattori di vulnerabilità che autolesionismo e tentativi di suicidi denunciano, ma non vengono sempre colti. Delle persone morte suicide lo scorso anno, 11 soffrivano di patologie di tipo psichico comprovate da certificazione psichiatrica, ma solo in tre casi l’evento si è verificato all’interno di sezioni destinate alla cura di tali patologie. In un caso, quello di G.T., la persona non doveva neanche essere in carcere. Le persone avrebbero bisogno di una presa in carico esterna, non essendo il carcere il luogo giusto per affrontare certi disturbi: la loro “pericolosità sociale” non è così elevata da giustificare la detenzione in un istituto di pena. Come riporta sempre il Garante nazionale, 68 persone (pari all’ 80 per cento del totale di chi si è tolto la vita nel 2022) erano coinvolte in altri eventi critici e di queste 28 (ossia il 33 per cento) avevano precedentemente tentato il suicidio (in sette casi più di una volta). Inoltre, dai dati del ministero della Giustizia emerge come gli episodi di autolesionismo siano stati negli ultimi anni in costante crescita, passando dai 9.586 del 2016 ai 13.069 del 2021 (24,3 per cento). Un approccio alternativo - Ma dunque, come fare per prevenire i suicidi? Innanzitutto serve intervenire prima del carcere, che dovrebbe essere l’extrema ratio, puntando il più possibile sulle misure alternative. Questo riguarda specialmente quei detenuti fragili, che soffrono di patologie psichiche o sono dipendenti da sostanze che avrebbero bisogno di percorsi di cura e di una presa in carico che il carcere non riesce a garantire, anche a fronte del numero bassissimo di ore di supporto psicologico e psichiatrico offerte (nel 2022 la media era di dieci ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi). Intercettare questo disagio fuori, prima che deflagri dentro è importante. C’è poi il tema dei contatti con l’esterno, estremamente rarefatti. La disposizione che prevede dieci minuti di telefonate a settimana oggi non ha più nessuna giustificazione di carattere economico, organizzativo, securitario. In molti paesi europei non esistono questi limiti e in alcuni di essi i detenuti hanno perfino il telefono in cella. Potere mantenere un contatto costante con l’esterno può aiutare a scacciare pensieri suicidari nei momenti difficili. Non può essere un caso che la maggior parte delle morti avvengono in estate, quando anche le attività di volontariato o scolastiche si fermano. È allora che i detenuti restano soli e la solitudine li rende più fragili. *Responsabile comunicazione di Antigone Cospito, attesa per la sentenza: ecco cosa può decidere la Cassazione di Edoardo Izzo La Stampa, 24 febbraio 2023 I giudici Ermellini dovranno esprimersi rispetto alla richiesta della difesa di revocare il 41 bis all’anarchico. Sono ore di attesa e tensione a Roma dove, tra poco, è prevista l’udienza in Cassazione su Alfredo Cospito - l’anarchico rinchiuso al 41 bis - in sciopero della fame da 128 giorni. La vicenda tocca la politica - con l’inchiesta della procura di Roma sul caso Del Mastro-Donzelli -, ma soprattutto etica: Cospito potrebbe essere costretto ad alimentarsi contro la sua volontà. Momenti di tensioni ci sono stati tra gli anarchici e i giornalisti in piazza Cavour. Un gruppo di una decina di persone si è scagliato contro un cameraman spintonandolo. Sul posto i poliziotti della Digos. “Fuori Alfredo dal 41 bis, fuori tutti dal 41 bis”, è il coro dei manifestanti. Le tre possibili scelte della Cassazione - Sono tre le possibili scelte degli ermellini rispetto alla richiesta della difesa di revocare il 41 bis all’anarchico. Si discuterà il ricorso dell’avvocato Flavio Rossi Albertini contro il verdetto del tribunale di Sorveglianza di Roma che nel dicembre del 2022 confermò la decisione ministeriale del 41 bis. I supremi giudici, che hanno anticipato per due volte la data dell’udienza viste le condizioni di salute precarie di Cospito, potrebbero accogliere il ricorso, e quindi all’anarchico verrebbe tolto il regime ‘speciale’; annullare con rinvio, cioè rimandare gli atti alla Sorveglianza per una nuova valutazione oppure respingerlo del tutto. A piazza Cavour la paura degli scontri - “Se Alfredo muore, ve la faremo pagare”: è uno dei passaggi del discorso di uno degli anarchici che stanno partecipando al sit-in in solidarietà ad Alfredo Cospito in corso davanti alla Cassazione. “La nostra voglia di libertà è più forte della vostra autorità” e “facciamo sentire la nostra voce a questa gentaglia” sono altri dei passaggi del discorso di chi si alterna al microfono del presidio a piazza Cavour. Sono stati srotolati e appesi tutti gli striscioni contro il 41 bis, l’ergastolo e la “tortura di Stato”. Un cordone di agenti di polizia è schierato davanti alla scalinata del Palazzaccio, il gruppetto di manifestanti è un po’ cresciuto e ci saranno una quarantina di persone. Molti gli operatori dei media e le forze di sicurezza. Ieri un gruppo di quattro persone era salito all’Altare della Patria con uno striscione e i fumogeni. Sono stati identificati dalla Digos. Manifestazioni si erano ripetute sia a Roma sia a Milano nelle passate settimane. Presidio anche a Torino - Presidio anarchico davanti al Palagiustizia di Torino in solidarietà ad Alfredo Cospito. “Al fianco di Alfredo, al fianco di chi lotta” e “Chiudere il 42 bis ora” recitano gli striscioni affissi dai manifestanti che stanno distribuendo volantini ai passanti. “La lotta di Alfredo - si legge tra l’altro nel volantino - è una lotta contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, è una lotta che riguarda tutti e tutte noi. Oggi, come nei mesi scorsi, siamo di nuovo in strade nelle piazze insieme ad Alfredo per “l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo”, “per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo Paese”. Lo abbiamo fatto in autonomia senza le direttive di alcuno, per solidarietà a un nostro compagno e per la distruzione delle galere e delle società che esse riflettono”. Oggi la Cassazione decide su Cospito. Sul tavolo il ricorso contro il 41bis di Giacomo Puletti Il Dubbio, 24 febbraio 2023 Blitz degli anarchici all’Altare della Patria. Il Comitato di bioetica studia il “no” alle cure firmato dal recluso. L’ormai celebre caso Cospito potrebbe essere arrivato a un punto di svolta. Oggi la Cassazione dovrà infatti decidere cosa fare in merito alla richiesta della difesa di revocare il 41 bis all’anarchico in sciopero della fame da quattro mesi, condannato prima a dieci anni e otto mesi per aver gambizzato Roberto Adinolfi, manager dell’Ansaldo - nucleare e all’ergastolo poi per aver messo una bomba, esplosa senza provocare feriti, davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano. In particolare, si discuterà il ricorso dell’avvocato Flavio Rossi Albertini contro il verdetto del Tribunale di Sorveglianza di Roma che nel dicembre del 2022 confermò la decisione del 41 bis presa dall’allora Guardasigilli Marta Cartabia. La Suprema Corte, che ha anticipato per due volte la data dell’udienza viste le precarie condizioni di salute del detenuto, potrebbe rigettare il ricorso; accogliere il ricorso, cioè annullare senza rinvio, e quindi a Cospito verrebbe tolto il regime “speciale”; annullare con rinvio, cioè rimandare gli atti alla Sorveglianza per una nuova valutazione. Questa è l’ipotesi più probabile, anche perché a chiederla è stato il procuratore generale Pietro Gaeta. Ma anche quella che prevederebbe tempi più lunghi e per questo contestata dal difensore di Cospito. “La dilatazione dei tempi della decisione - ha detto infatti ieri l’avvocato Rossi Albertini - renderebbe incompatibile la stessa con le condizioni di salute del detenuto”. Sulla decisione pendono anche i quattro pareri richiesti dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per studiare la situazione del detenuto, e cioè quello del capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, della Direzione distrettuale antimafia e della Procura generale di Torino. “Dalla lettura sinottica dei quattro atti istruttori - continua Rossi Albertini - emerge che solo la Procura Generale ha espresso con forza la necessità del mantenimento del 41 bis al detenuto, mentre gli ulteriori tre pareri hanno concluso contemplando la possibilità di contenere il giudizio di pericolosità del Cospito anche con il circuito penitenziario AS2, ovvero quello a cui Alfredo è stato sottoposto per oltre 10 anni prima dell’applicazione del 41 bis nel maggio scorso, seppur con le eventuali ulteriori “opportune forme di controllo proprie dell’ordinamento penitenziario”, ovvero la censura”. Da quando Cospito ha cominciato lo sciopero della fame ha perso circa cinquanta chili, è stato trasferito dal carcere di Sassari a quello di Opera, alle porte di Milano, e si trova ora nel reparto dedicato alla sorveglianza speciale dell’ospedale San Paolo, in seguito all’aggravamento delle sue condizioni di salute di qualche settimana fa. Pochi giorni fa Cospito ha ripreso ad alimentarsi con yogurt e miele e ha assunto degli integratori, ma al tempo stesso ha fatto sapere che in caso di rigetto del ricorso o di annullamento con rinvio ricomincerà lo sciopero completo. In questo caso è ipotizzabile la situazione in cui perda conoscenza e a quel punto si procederà con l’alimentazione forzata. Che però lo stesso Cospito ha spiegato di non volere attraverso delle disposizioni anticipate di trattamento pubblicate in esclusiva dal Dubbio. Su questo punto si è riunito ieri il Comitato nazionale per la bioetica, che ha rinviato a oggi il proprio parere sul merito della questione. E mentre il comitato era riunito gli anarchici hanno compiuto un blitz in sostegno di Alfredo Cospito all’Altare della Patria. In cima è stato srotolato e appeso uno striscione con la scritta “L’Italia tortura, con Alfredo no al 41bis”, e sono stati accesi dei fumogeni. Sul posto è intervenuta la polizia e la polizia locale, lo striscione è stato tolto e alcune persone sono state identificate. Non è escluso che altre manifestazioni di sostegno possa svolgersi davanti alla Cassazione oggi o domani, quando verosimilmente sarà comunicata la decisione della Suprema Corte. Caso Cospito: “La Cassazione non rinvii”. Appello dell’avvocato di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 febbraio 2023 Anticipata per ben due volte l’udienza, in una corsa contro il tempo scandito dallo sciopero della fame di Alfredo Cospito, la Corte di Cassazione si pronuncerà oggi sul ricorso contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza (TdS) che nel dicembre scorso ha confermato per il detenuto anarchico il regime di 41bis. Tre le possibili opzioni della corte di Legittimità: annullare il “carcere duro” per l’uomo che è attualmente ancora ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano dopo il lungo digiuno cominciato il 20 ottobre scorso e mitigato da una decina di giorni con integratori e miele; rigettare il ricorso; oppure - evento più probabile in quanto a chiederlo è lo stesso Avvocato generale della Cassazione, Pietro Gaeta - accogliere le obiezioni della difesa, annullare la sentenza e rinviare gli atti al TdS di Roma per un nuovo esame. Scelta, quest’ultima, che l’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale di Cospito, cerca di scongiurare spiegando che “la dilatazione dei tempi della decisione” sarebbe incompatibile “con le condizioni di salute del detenuto”. Ma non solo: secondo il difensore, se la parola tornasse al TdS c’è da aspettarsi una decisione identica alla precedente perché, afferma Rossi Albertini, sia “nel decreto applicativo che nell’ordinanza del TdS” gli atti “dimostrano plasticamente la violazione del principio di proporzionalità della risposta preventiva statale (ovvero invece di adottare lo strumento della censura per inibire al Cospito la possibilità di divulgare il proprio “estremismo ideologico”, il Ministro ha deciso direttamente di sottoporlo al 41 bis con la conseguente sospensione di tutte le regole trattamentali e quindi la compressione ingiustificata di diritti soggettivi)”. In poche parole, Rossi Albertini - che “finalmente” è riuscito ad entrare in possesso dei quattro pareri richiesti dal ministro Nordio prima di negare, il 9 febbraio scorso, la revoca anticipata del regime differenziato - rivela parte del contenuto di quei documenti e stigmatizza il fatto che l’attuale inquilino di Via Arenula per quel suo “no” politico abbia sorvolato completamente sul parere favorevole al trasferimento di Cospito nel circuito dell’Alta sicurezza, seppur con ulteriori restrizioni come la censura della posta, dato sia dal Capo dell’Amministrazione Penitenziaria che dal Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e dalla Dda. E abbia invece tenuto conto solo del giudizio della Procura generale di Torino, peraltro l’unica che, afferma l’avvocato, “non possedeva i requisiti funzionali per esprimersi in ordine al thema decidendum in quanto la medesima è organo giudiziario non deputato all’effettuazione di indagini”, come “riconosciuto candidamente” dalla stessa autorità. Dalla lettura di quei documenti (che il manifesto non ha potuto leggere) secondo Rossi Albertini “è la Procura Generale ad enfatizzare l’espressione “il mio corpo è la mia arma” che compare significativamente anche nel rigetto ministeriale”. Ed è sempre il Pg di Torino che “si dilunga in un’operazione agiografica, un panegirico sulla figura del Cospito” tale da farlo passare come un “Che Guevara degli anni 60 e 70 del Novecento”. Tra integratori, elettrodi e potassio per tenersi in vita, il giorno più lungo di Cospito di Giuseppe Legato La Stampa, 24 febbraio 2023 “Spero annullino il 41 bis”. Così l’anarchico trascorre le ore in attesa della sentenza della Cassazione sulla richiesta di revoca del carcere duro. Sono ore di attesa per Alfredo Cospito, l’anarchico considerato ideologo del Fai (Federazione anarchica informale) recluso in esecuzione di una sentenza per strage politica al regime del 41 bis e al momento ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano per via delle complicate condizioni di salute seguite allo sciopero della fame che ha intrapreso ormai da quasi 4 mesi: “L’ho visto ieri (23 febbraio), continua ad avere addosso il macchinario per monitorare la sua situazione cardiaca ed è molto dimagrito, ma è lucido, presente. Da giorni ormai ha ricominciato ad assumere integratori (al netto di quelli verso i quali sviluppa forme di allergia) e potassio” spiega uno dei legali che lo sta seguendo in questa articolata vicenda, Maria Teresa Pintus. Fiducioso sull’esito della Cassazione di oggi che dovrà decidere sull’istanza di revoca del 41 bis presentata dal legale Flavio Rossi Albertini? “Diciamo che è molto determinato e spera che la Cassazione quantomeno annulli con rinvio al tribunale di sorveglianza per nuova decisione”. Lo scorso 9 febbraio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha respinto l’istanza della difesa, confermando il 41 bis per Cospito; una decisione arrivata dopo i pareri della Procura Generale di Torino, contraria alla revoca del carcere duro, e quello della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo che invece aveva “aperto” alla possibilità di un decalage verso il regime di Alta Sicurezza. In vista della camera di Consiglio di oggi, il pg di Cassazione Pietro Gaeta, nella sua requisitoria scritta, ha chiesto di annullare con rinvio per un nuovo esame l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Roma del 1 dicembre 2022 che aveva confermato il 41bis per l’anarchico. “Emerge nella motivazione dell’ordinanza impugnata - scrive Gaeta - una carenza di fattualità in ordine ai momenti di collegamento con l’associazione, che lascia sopravvivere la stigmatizzazione difensiva secondo cui la condizione reclusiva speciale fosse giustificata solo dalla necessità di contenimento dell’estremismo ideologico”. “La verifica su questo punto essenziale non traspare nella motivazione del provvedimento impugnato, ancorché necessaria e non potendo essa evidentemente essere desumibile interamente ed unicamente né dal ruolo apicale di Cospito nell’ambito dell’associazione di appartenenza, né dall’essere egli divenuto “punto di riferimento” dell’anarchismo in ragione dei suoi scritti e delle condanne riportate” sottolinea il pg della Cassazione. La Procura generale in un altro passaggio della requisitoria evidenzia come “risultano invece fondate le censure difensive che denunziano apparenza della motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine alla dimostrazione dei “collegamenti” di Cospito con l’organizzazione criminale di appartenenza: e ciò pur nella piena consapevolezza della estrema delicatezza e difficoltà del crinale che il Tribunale di Sorveglianza era chiamato ad attraversare in un’ipotesi ermeneutica del tutto inedita, e quasi di “confine”, di possibile applicazione del regime detentivo speciale”. Un amico a quattro zampe aiuta a riabilitare i detenuti di Barbara Laurenzi agi.it, 24 febbraio 2023 Detenuti e animali si aiutano a vicenda nei percorsi di reinserimento sociale promossi in tutta Italia dalla fondazione Cave Canem attraverso i due progetti ‘Cambio Rotta’, rivolto ai minori, e ‘Fuori dalle Gabbie’, riservato agli adulti. AGI - È più facile rialzarsi, se qualcuno ti dà una mano. O anche una zampa. Detenuti e animali si aiutano a vicenda nei percorsi di reinserimento sociale promossi in tutta Italia dalla fondazione Cave Canem attraverso i due progetti ‘Cambio Rotta’, rivolto ai minori, e ‘Fuori dalle Gabbie’, riservato agli adulti. In entrambi i casi, l’obiettivo è dare una nuova possibilità sia alle persone detenute che ai cani con problemi comportamentali. In concreto, i cani abbandonati, provenienti da canili o da percorsi criminali e usati nei combattimenti, vengono affidati alle cure dei detenuti che li seguono dall’inizio fino alla consegna alla famiglia che adotterà l’animale. In questo modo, due mondi apparentemente lontani come il carcere e il canile si avvicinano coniugando l’assistenza ai cani abbandonati con itinerari individualizzati di formazione, riscatto sociale e inclusione lavorativa delle persone detenute. Un percorso reciproco di riabilitazione tra l’uomo e l’animale - Un percorso reciproco, in cui entrambi i protagonisti si riabilitano a vicenda e riscoprono il valore di una socialità sana. “Ho ideato questi progetti pensando al fatto che spesso, è la vita che ti si mette contro e così si commettono degli errori. È in quel momento che qualcuno deve credere in te e darti fiducia. Tutti meritano una seconda possibilità, esseri umani e animali - spiega all’AGI la vicepresidente della fondazione Federica Faiella -. Grazie alla valenza rieducativa di questo progetto, la persona detenuta avrà acquisito nuove competenze e sarà pronta a vivere nel rispetto della legalità, mentre il cane rieducato sarà pronto per essere adottato da una famiglia. È un doppio riscatto”. In particolare, il progetto ‘Cambio Rotta’ coinvolge i minori autori di reato ammessi all’istituto della messa alla prova, ossia quella fase in cui il processo si congela e il ragazzo viene assegnato a un progetto di pubblica utilità. Laddove dimostri di avere elaborato il reato e rinsaldato il patto con la società, il processo si chiude e il reato si intende estinto. È proprio in questa sorta di ‘terra di mezzo’ che interviene l’amicizia con l’animale. “L’obiettivo è combinare efficacemente un servizio di accudimento, gestione e recupero comportamentale di cani e gatti vittime di abbandono - spiega ancora la vicepresidente - con iniziative di giustizia riparativa che supportino il processo di responsabilizzazione dei ragazzi, la ricostruzione delle reti educative e sociali e la rielaborazione del reato”. L’amicizia a quattro zampe non si interrompe - Un’amicizia a quattro zampe che non si interrompe nemmeno una volta usciti dal penitenziario. “Facciamo in modo di limitare il rischio che i ragazzi tornino a delinquere perché, a chi si distingue nell’aiutare i cani ospitati nel canile, destiniamo borse di studio o borse di lavoro grazie alle quali possono seguire percorsi professionalizzanti e acquisire la qualifica di educare cinofilo. I migliori vengono assunti nella nostra fondazione”. In pratica, è l’amore per gli animali a restituire a questi ragazzi la libertà e un nuovo lavoro. Dal 2021 ad oggi sono stati coinvolti 385 cani e 39 giovani, dei quali 24 hanno superato con successo la ‘messa alla prova’, 11 hanno beneficiato di una borsa di studio per diventare educatori cinofili e 5 sono entrati a far parte della Fondazione con un incarico professionale. Non solo giovanissimi. La fondazione guarda anche al reinserimento degli adulti con l’ulteriore progetto ‘Fuori dalle Gabbie’, presente all’interno della Casa di Reclusione di Spoleto, della Casa Circondariale di Napoli Secondigliano e dell’Istituto Penale per Minorenni Casal del Marmo di Roma. Anche in questo caso, le persone detenute coinvolte sono formate e svolgono lavori di pubblica utilità nel canile comunale, per migliorarlo sia dal punto di vista strutturale, attraverso opere di manutenzione, che gestionale, a beneficio dei 130 cani ospitati, che vengono accompagnati in un percorso di recupero comportamentale finalizzato a rendere più semplice l’adozione. Lavorare con gli animali aiuta a reinserirsi nella società - Finora sono state 154 persone detenute hanno partecipato ai corsi di formazione di ‘Fuori dalle Gabbie’, 16 persone detenute hanno svolto lavori socialmente utili in canile, 2 persone detenute sono destinatarie di indennità formativa e 166 i cani aiutati. “I detenuti curano tutte le fasi dell’accudimento, dalle passeggiate all’aria aperta ai momenti di gioco, dal supporto durante le visite veterinarie, per tranquillizzarli, fino all’assistenza negli incontri con i potenziali adottanti - racconta ancora Faiella -. Quando un cane viene coinvolto in un’attività con giovani e adulti, il cane riacquista fiducia nei confronti dell’uomo e loro si sentono maggiormente responsabilizzati”. Tanto che c’è chi rimane nel settore anche una volta terminato il percorso di reinserimento sociale. “Il primo ragazzo che abbiamo assunto adesso fa parte stabilmente del nostro team. Si è rivelato una risorsa eccezionale dal punto di vista umano e professionale. In lui rivedo lo stesso entusiasmo del nostro dog trainer manager, Mirko Zuccari, che segue con grande dedizione tutti i ragazzi coinvolti nel progetto. Il momento più bello è stato quando questo ragazzo, ormai libero, ha concluso il percorso riabilitativo del suo stesso cane e lo ha portato al nuovo proprietario. Il coronamento di un percorso dall’esito inaspettato, perché quel cane era considerato pericoloso e mordace a causa di ciò che aveva subito in precedenza. Una doppia riabilitazione. La cosa incredibile è la gratitudine e lo stupore che ancora oggi questo ragazzo manifesta verso di noi. Era convinto che lo avremmo giudicato e relegato a mansioni meno gratificanti, invece è stato subito coinvolto in attività da professionista perché lo meritava. Era bravo”. Soddisfatti gli ideatori del progetto - Aiutare queste persone è una soddisfazione unica. Ciò che vogliamo fare è essere manager del cambiamento, incidere positivamente sulla società - spiega ancora la vicepresidente di Cave Canem -. Se riusciamo a fare tutto questo è perché ci crediamo moltissimo. Non dimenticherò mai l’emozione di quando il nostro primo ragazzo ammesso all’istituto della prova ebbe l’udienza che confermò l’estinzione del suo reato. I nostri educatori lo accompagnarono e aspettarono fuori fino alla sentenza. Fu un momento fortissimo. Lui era molto commosso”. E c’è anche chi alla fine, quando ha la possibilità di tornare a casa, decide di portare con sé il suo amico peloso. “C’è stato un ragazzo di ‘Cambio Rotta’ che era stato assegnato alla supervisione di una cucciolata di pitbull. Quando è stato pronto per tornare a casa, ha adottato un cucciolo e lo ha portato con sé. Lo ha chiamato Thiago”. Dopo un anno tragicamente segnato dai suicidi in cella, 84 nel 2022, il dato più alto da sempre, una storia di speranza. E la dimostrazione che una nuova strada per le carceri italiane è possibile. Nordio si è spinto oltre nel difendere Delmastro, aprendo un conflitto tra poteri di Rosario Russo Il Domani, 24 febbraio 2023 Nella misura in cui nel procedimento avviato l’indagato Delmastro si facesse scudo della copertura giuridica vistosamente elargitagli dal ministro Nordio, potrebbe sortirne perfino l’ampliamento soggettivo dell’imputazione originaria. L’opposizione gli aveva chiesto se intendesse revocare l’incarico al sottosegretario Andrea Delmastro. Il 22 febbraio il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha risposto che: “È un’aspirazione velleitaria e metafisica che l’informazione di garanzia possa costituire un motivo di dimissioni. Diversamente, devolveremmo all’autorità giudiziaria il destino politico degli appartenenti all’assemblea. Oggi riguarda l’onorevole Delmastro e un domani potrebbe riguardare ciascuno di voi”; “Se la qualifica della segretezza dell’atto dovesse essere devoluta all’interpretazione della magistratura, potrebbe crearsi una problematica da risolvere in altra sede”; rivolgendosi ai giuristi: “la parola segreto non può essere interpretata in modo estensivo in malam partem, contro cioè la persona che è indagata”. Ma è di tutta evidenza che gli interroganti, lungi dall’insistere ancora sulle dimissioni sempre negate da Delmastro, intendevano spingere il Ministro a prendere posizione sulla vicenda. La legittima ‘sfida’ dell’opposizione ha sortito un esito deflagrante. Il Ministro non solo ha difeso l’operato di Delmastro come aveva fatto già il 31 gennaio, ma se ne è assunta perfino la responsabilità tanto politica quanto giuridica, rivendicando che soltanto al suo Dicastero compete il diritto di stabilire se fossero segreti gli atti divulgati dall’indagato Delmastro per mezzo del colleg Giovanni Donzelli. A tal punto - egli adombra significativamente - che, qualora l’autorità giudiziaria pretendesse di procedere ai sensi dell’art. 326 c.p. nei confronti del sottosegretario, egli solleverebbe conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Quid iuris? Ai giuristi non è ignoto che le norme penali non si interpretano in malam partem, ma essi sanno altresì che, in ossequio al principio della separazione dei poteri, compete soltanto all’autorità giudiziaria l’accertamento del reato di rivelazione del segreto d’ufficio, e quindi anche della sussistenza del segreto in ipotesi svelato. É altrettanto noto che, nella misura in cui nel procedimento avviato l’indagato Delmastro si facesse scudo della copertura giuridica vistosamente ora elargitagli dal ministro Nordio, potrebbe sortirne perfino l’ampliamento soggettivo dell’imputazione originaria. Ne seguirebbe cioè un procedimento per reato ministeriale nei confronti di Nordio, anche per non avere impedito che atti segreti ministeriali fossero illegittimamente propalati all’esterno del carcere di massima sicurezza. Non sarebbe stato più salutare attendere l’esito dell’indagine giudiziaria? Il Ministro l’ha più volte proclamato, ma non l’ha fatto. Nordio silura il team di Cartabia e chiama i “garantisti” di Paolo Comi Il Riformista, 24 febbraio 2023 Fuori i professori, dentro gli avvocati. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha rinnovato con un blitz nei giorni scorsi il Comitato tecnico scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale e gli effetti sul Pnrr. Il Comitato era stato voluto nel 2021 dall’allora inquilina di via Arenula Marta Cartabia ed aveva il compito di verificare gli effetti pratici dell’applicazione della riforma penale che, nelle intenzioni, dovrebbe velocizzare i tempi dei processi. Composto da 15 membri, sarebbe dovuto rimanere in carica 3 anni. Fra i nomi di spicco, Francesco Palazzo, emerito di diritto penale a Firenze e già presidente dell’Associazione dei penalisti italiani, Gabrio Forti, ordinario di diritto penale ed ex preside di giurisprudenza alla Cattolica di Milano, Paolo Pinotti, ordinario di Economia e prorettore all’università Bocconi, Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale alla Statale di Milano e Mitja Gialuz, ordinario di Procedura penale a Genova. Del Comitato facevano parte anche l’ex capo di gabinetto della ministra Cartabia, il sostituto pg della Cassazione Raffaele Piccirillo, e Anna Maria Tosto, ex procuratore generale a Bari. Quello che è successo nelle scorse settimane è storia nota: appena entrata in vigore la riforma penale è stata subissata di critiche al punto da costringere il ministro a stoppare tutto e a chiedere una proroga di alcuni mesi. Le critiche maggiori avevano riguardato, in particolare, la nuova disciplina dei reati punibili a querela. Dietro la scelta di azzerare il Comitato, però, ci sarebbero state le pressioni di Fratelli d’Italia che avrebbero fatto notare a Nordio la provenienza di area smaccatamente progressista dei suoi componenti. Nordio, che aveva già allontanato tutti i magistrati legati ai correnti di sinistra che erano fuori ruolo al Ministero con incarichi dirigenziali, ha dunque preso la palla al balzo per cancellare anche quest’ultimo legame con la precedente gestione. A parte, comunque, questi aspetti prettamente ‘politici’, sul garantismo degli avvocati che Nordio ha scelto è difficile muovere critiche. Al già presente Vinicio Nardo, fino a pochi giorni fa presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, si aggiungono Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, e Vittorio Manes, ordinario di diritto penale a Bologna, quest’ultimi da sempre in prima linea per i diritti della difesa, la separazione delle carriere dei magistrati, il giusto processo. I primi punti della riforma da monitorare saranno le nuove norme sull’udienza preliminare e quelle sui tempi delle indagini da parte dei pm. Nordio caccia i “saggi” della Cartabia. Monitoravano la riforma del penale di Liana Milella La Repubblica, 24 febbraio 2023 Benservito via mail ai professori scelti da Cartabia per monitorare la riforma della giustizia penale. Apprezzato dalla Commissione europea, il gruppo previsto dalla stessa legge doveva restare in carica per tre anni per monitorare gli effetti del nuovo sistema rispetto ai fondi. A “giudicare” adesso trionfano gli avvocati tra cui il presidente delle Camere penali Caiazza, autore della legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere. A Marta Cartabia, a parole, Carlo Nordio fa sempre i complimenti. Del tipo “brava e bella”, per capirci. Ma da quando l’ex pm di Venezia ha messo piede nella stanza che fu di Togliatti, ha avuto un solo obiettivo, smantellare completamente non solo le riforme, ma anche lo staff dell’ex ministra. Che - è obbligatorio ricordarlo - non ha mai rappresentato un partito politico, ma solo se stessa, giurista eccellente con solidi studi in Europa e negli Usa, allieva preferita di Valerio Onida, il che è già di per sé una garanzia, per nove anni alla Consulta, nonché per la prima volta - era l’11 dicembre 2019 - al vertice di questa istituzione retta fino a quel giorno sempre da maschi. Insomma, non è certo esagerato considerarla un’icona del diritto. E che fa Nordio invece? Quatto quatto, e per giunta con una sola mail per chiamare i nuovi e al contempo licenziare i vecchi - ché una telefonata di cortesia sarebbe stata troppo faticosa - prende di mira e piccona il “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale e gli effetti sul Pnrr”. Previsto dalla stessa legge sulla riforma, la 134 del 2021, all’articolo 2, commi 16 e 17, e destinato a restare in carica “per tre anni”. I componenti erano stati nominati, senza alcun onere economico. E l’indicazione temporale della stessa legge esclude di per sé l’avvicendamento. Sul piano della forma siamo davanti a una vera e propria sgarberia. Perché il primo febbraio, dal gabinetto del ministro, e con la firma autografa dell’ormai noto capo dell’ufficio Alberto Rizzo, parte una mail diretta ai nuovi componenti scelti da Nordio, e solo “per conoscenza”, a seguire, vengono automaticamente indicati i “fatti fuori”. Che apprendono così di essere stati “soppressi” dal Comitato. La decisione è stata presa dallo stesso Nordio, come dimostra il decreto che viene accluso e in cui compare l’elenco dei futuri componenti. Visto che di mezzo c’è il fior fiore dei giuristi c’è da immaginare che ne possa nascere una querelle legale, perché chi era già stato nominato “per tre anni” considera questo termine “tassativo”, proprio perché previsto dalla legge stessa, per cui i nuovi sarebbero degli “abusivi”. Era stata Cartabia a inventare il Comitato tecnico-scientifico e a volerlo nella stessa legge, con l’obiettivo di dar vita a un organismo del tutto indipendente per verificare l’andamento della sua riforma e per valutare gli effetti delle tante modiche processuali introdotte. Una commissione formata da 15 componenti che, senza alcun compenso, sarebbero dovuti restare in carica, appunto, per tre anni. La Commissione europea aveva apprezzato, per lo scrupolo di verificare l’andamento della legge. Ma Nordio ha scorso i nomi e tirato un tratto di penna su ben nove giuristi. Parliamo di noti “professoroni”. Ma evidentemente non per Nordio. Vittime dello spoils system giuristi del rango di Francesco Palazzo, emerito di diritto penale a Firenze e già presidente dell’Associazione dei penalisti italiani. E poi Gabrio Forti, ordinario di diritto penale ed ex preside di giurisprudenza alla Cattolica di Milano. Via un esperto di statistica applicata al crimine come Paolo Pinotti, ordinario di economia e prorettore all’università Bocconi. Via anche i due penalisti che hanno lavorato sulla riforma Cartabia, e cioè Gian Luigi Gatta, docente di diritto penale alla Statale di Milano e Mitja Gialuz, ordinario di procedura penale a Genova e che già aveva fatto parte di diversi gruppi di lavoro proprio per attuare la delega. Sotto la mannaia di Nordio cadono anche due tecnici come Magda Bianco, funzionaria di Bankitalia, e Giuseppina Muratore, ricercatrice dell’Istat. Ovviamente “silurati” l’ex capo di gabinetto di Cartabia, il sostituto Pg della Cassazione Raffaele Piccirillo, e Anna Maria Tosto, ex procuratore generale a Bari, e anche moglie del presidente della Cassazione uscente Pietro Curzio, che Nordio si accinge tra pochi giorni a salutare ufficialmente. Siamo allo stesso spoils system già attuato nella struttura ministeriale dove Nordio ha cambiato quasi tutti i vertici. Ovviamente il suo capo di gabinetto Alberto Rizzo, che arriva dal “suo” Veneto, dov’era presidente del tribunale di Vicenza. E che si porta dietro Gaetano Campo, toga di Md, che presiedeva la sezione lavoro del tribunale della stessa città. Ecco il nuovo capo dell’ufficio legislativo Antonio Mura, toga di Magistratura indipendente. E poi il nuovo direttore della giustizia minorile Antonio Sangermano, anche lui di Mi, che ha fatto infuriare l’Anm cancellandosi dall’associazione giusto in tempo per evitare una contestazione procedurale (non si rivestono cariche nell’Anm e poi si passa alla “politica”). E poi Luigi Birritteri, nuovo capo del Dag, il Dipartimento degli Affari di giustizia, un ritorno il suo in via Arenula dopo gli anni trascorsi con Angelino Alfano, il Guardasigilli di Berlusconi che aveva tentato di fare la stessa riforma costituzionale della giustizia (separazione delle carriere e discrezionalità dell’azione penale) che adesso insegue Nordio. Il ministro ha scelto i sostituti. E basta una scorsa all’elenco per rendersi che, almeno per ora, i “professori”, quelli più autorevoli, sono scomparsi. Trionfano invece gli avvocati, che si aggiungono al già presente Vinicio Nardo, fino a pochi giorni fa presidente dell’Ordine dei legali di Milano. Tra i nuovi nomi spicca quello di Gian Domenico Caiazza, patron delle Camere penali, nonché fan della separazione delle carriere, che appena una settimana fa l’ha vantata alla Camera sotto l’egida di Enrico Costa di Azione. Altro nome di spicco è quello di Vittorio Manes, ordinario di diritto penale a Bologna, nonché avvocato, autore di un volume che già dal titolo dice tutto: “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo”. Arrivano solo due giuriste, Desirèe Fondaroli, diritto penale a Bologna, e Paola Maggio, associata di procedura penale a Palermo. Ovviamente c’è il capo di gabinetto Rizzo. In tutto, almeno per ora, solo dieci dei 15 componenti previsti. La riforma civile è un’occasione persa perché tocca solo la procedura e non i problemi strutturali di Giampaolo Di Marco Il Domani, 24 febbraio 2023 Questo provvedimento non solo rischia di non risolvere i problemi della durata del processo, ma anche di creare un ingiustificato aggravio per tutti gli operatori della giustizia. Il 28 febbraio entrerà in vigore la riforma del processo civile, l’ennesima occasione persa per il Paese: un intervento sbagliato che si incentra ancora una volta sul rito e sulle regole processuali, un “pannicello caldo” per una macchina giudiziaria che ha bisogno invece di rimedi e soluzioni vere, strutturali. Le profonde problematiche del sistema giustizia richiederebbero risorse, potenziamento degli organici, insieme a una più moderna organizzazione del lavoro e una rinnovata governance in chiave manageriale degli uffici e dei tribunali. Questo provvedimento non solo rischia di non risolvere i problemi della durata del processo, ma anche di creare un ingiustificato aggravio per tutti gli operatori della giustizia. Per questa ragione l’Associazione Nazionale Forense ha inviato, nelle scorse settimane, a Governo e Parlamento un pacchetto di proposte per correggere le numerose e gravi criticità della riforma, un documento che è stato anche rilanciato oggi in un evento nazionale a pochi metri dalla Camera dei Deputati, in occasione della presentazione della rinnovata rivista “Rassegna degli Avvocati italiani”. La “Giustizia che vogliamo” è stato il titolo della manifestazione che ha visto un grande confronto con le massime istituzioni forensi, e che rispecchia una condivisione di vedute con la maggioranza dell’avvocatura, come testimoniamo le diverse mozioni approvate dal recente Congresso Nazionale di Lecce. Prossimi al 28 febbraio, ANF fa un appello alla Politica affinché questo sforzo di analisi, proposte e dialogo non finisca nel nulla. Ciò può essere fatto, in parte, con gli strumenti previsti dalla stessa legge delega che prevede che entro due anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo possano essere adottate delle disposizioni integrative e correttive. D’altra parte, appare necessario apportare correzioni anche al di là del perimetro della delega, attraverso strumenti normativi diversi. L’Associazione Nazionale Forense ha formulato e sottoposto proprio all’attenzione del Ministro Nordio i correttivi finalizzati a rimuovere, intanto, le maggiori criticità dell’impianto e migliorarne l’efficacia. Il doppio binario - Con l’art. 21 del decreto legislativo si prevede che l’autorizzazione alla stipula di atti pubblici e scritture private autenticate nei quali interviene un minore, un interdetto, un inabilitato o un beneficiario di amministrazione di sostegno oppure che hanno ad oggetto beni ereditari, possa essere rilasciata direttamente dal notaio rogante. Si introduce, così, un doppio binario, che consente alle parti di rivolgersi al giudice oppure al notaio (salvo per alcuni provvedimenti che restano di esclusiva competenza del giudice). La scelta di trasferire alcune funzioni nell’ambito della giurisdizione non contenziosa a professionisti appare di per sé condivisibile. Tuttavia la scelta di attribuire questa funzione al medesimo professionista chiamato successivamente alla effettuazione del rogito pone dei problemi, dato che profila possibili di conflitti d’interesse. Sarebbe opportuno prevedere che il professionista chiamato a rilasciare l’autorizzazione non possa essere il medesimo notaio rogante, né un professionista che abbia avuto altri incarichi professionali dalle parti coinvolte nella questione. Oltre a ciò, non si comprende per quale ragione la possibilità di rilasciare le autorizzazioni in questione sia stata prevista solo a favore dei notai. Sarebbe opportuno estendere l’attribuzione di queste funzioni anche agli avvocati, che possiedono tutte le competenze sostanziali e processuali in materia di volontaria giurisdizione. Giudice di pace - L’elevazione delle competenze del Giudice di Pace trasferirà a questo ufficio centinaia di migliaia di cause, attualmente di competenza del Tribunale, senza che vi sia stato un adeguamento degli organici e senza neppure che sia stato del tutto implementato presso questi uffici il processo civile telematico. Ciò creerà ritardi nei procedimenti. Al fine di evitare che si creino possibili disservizi, sarebbe importante che la nuova soglia di competenza entrasse in vigore non prima della piena implementazione del processo telematico anche presso l’ufficio del Giudice di Pace. Responsabilità aggravata - Con la modifica dell’art. 96 c.p.c. viene previsto che la parte soccombente, sia nei casi di responsabilità aggravata di cui ai primi due commi dell’articolo sia negli ulteriori casi previsti dal terzo comma, venga anche condannata al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad € 500 e non superiore ad € 5.000. Questa previsione comporta una compressione del diritto di accesso alla giustizia, esponendo il cittadino che agisca in giudizio al rischio di sanzioni economicamente gravose. Se il fine di questa norma è quello di “colpire” e disincentivare azioni palesemente infondate o defatigatorie, ovvero quelle che, secondo una vulgata oramai diffusa, “intasano i Tribunali”, si potrebbe prevedere una sanzione analoga a quella dell’appello, ovvero che nei casi di responsabilità aggravata la parte venga condannata al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello già versato. Redazione degli atti - Con la modifica dell’art. 121 c.p.c. viene codificato il principio per il quale tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico. Oltre a ciò, con la modifica dell’art. 46 disp. att. c.p.c. ed in particolare con l’introduzione dei commi dal quarto al settimo di tale articolo, si dettano una serie di norme di attuazione del richiamato principio. Tuttavia, appare necessario che sia ben affermato e chiarito che il principio di chiarezza e sinteticità dovrebbe rivestire esclusivamente un valore programmatico e orientativo e non dovrebbero mai tradursi in obblighi di natura cogente. A.N.F. chiede che la previsione sulla strutturazione di campi all’interno degli atti escluda ogni forma di obbligatorietà, prevedendo che il ricorso a tale tecnica redazionale sia una mera facoltà per la parte e non un obbligo. Oltre a ciò, appare indispensabile che sia chiarito che la strutturazione di campi potrà riguardare solo gli elementi accessori degli atti (ad esempio l’indicazione del valore economico della causa o la qualità delle parti), ma non potrà in nessun caso ed in alcun modo impattare sulla strutturazione della difesa e delle argomentazioni. A.N.F. chiede che sia abrogata la norma che prevede la previsione di limiti dimensionali degli atti di parte. A.N.F. chiede che sia previsto che il mancato rispetto del principio di sinteticità possa essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo, ma limitando tale possibilità alle sole ipotesi in cui ciò abbia comportato un effettivo rallentamento del processo. Giudizio di cognizione - Con la modifica degli articoli da 163 a 183 c.p.c. e in particolare l’introduzione degli art. 171 bis e 171 ter c.p.c. viene totalmente riformata la fase introduttiva del giudizio di cognizione, anticipando la definizione del thema decidendum e del thema probandum alla fase anteriore all’udienza di prima comparizione. La nuova struttura della fase introduttiva appare disfunzionale per una pluralità di ragioni e in ogni caso porta ad una ingiustificata riduzione degli spazi difensivi delle parti, senza dispiegare una reale efficacia sulla riduzione dei tempi processuali. Appare quindi necessario un radicale ripensamento. A.N.F. chiede che sia modificato l’ambito applicativo del procedimento semplificato di cognizione, prevedendo che solo quando i fatti di causa non sono controversi il giudizio possa essere introdotto nelle forme del procedimento semplificato. Colombo: “Da ragazzino mi bocciarono due volte. Agli inizi della carriera giravo con un revolver” di Luca Mastrantonio Corriere della Sera, 24 febbraio 2023 L’ex magistrato, 76 anni: “Prima di Mani Pulite ero un milanista accanito, poi mi sono calmato”. Nel salotto della casa milanese di Gherardo Colombo, un golden retriever (Luce) ci osserva dal divano, la testa poggiata sul bracciolo coperto da un lindo fazzoletto bianco. Colombo ha l’aria di aver finito da poco un esercizio di fatica domestica (un rubinetto da sistemare). L’occasione del nostro incontro è l’uscita del nuovo libro “Anti Costituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società” (Garzanti). Lei è classe 1946, brianzolo, mamma casalinga, papà medico. Primo ricordo? “La scossa di corrente elettrica, per le dita in una presa elettrica. Da lì sono venuti i capelli ricci... (ride). Ero piccolo e sperimentavo. I miei non si arrabbiavano, erano accoglienti”. A scuola come andava? “Bocciato in seconda media e quarta ginnasio, ho recuperato l’anno in entrambe le occasioni. Avevo difficoltà a entrare in relazione con gli altri. Ero obeso... Finalmente al liceo ho capito che la libertà passa per lo studio. Poi scelsi Giurisprudenza...”. Si immaginava già giudice? “Mio padre faceva il medico generico, girava di giorno e di notte, curava, faceva partorire. Volevo essere utile come lo era lui, e a mio parere verificare il rispetto delle regole lo era. A differenza del medico non avrei dovuto mettere le mani sulle persone. L’alternativa era Fisica, mi piace capire il perché dei fenomeni”. Nella Giustizia ha individuato qualche legge fisica? “Non è una legge fisica, ma poco ci manca. L’importanza dell’ambiente nelle scelte che le persone fanno anche nel campo della trasgressione. Sa, la storia in cui l’imputato è davanti al giudice, chiuso nel posto degli imputati e dice: “Signor giudice, se lei fosse nato dove sono nato io e io dove è nato lei, qui ci starebbe lei e io sarei lì”. Una regola che soffre poche eccezioni”. Ci sono ambienti in cui uno sceglie di stare. La P2. Cosa ricorda di quando nel 1981 con Giuliano Turone scopriste le liste di Licio Gelli? “Stupore e indignazione. C’erano i capi dei servizi segreti, c’era chi aveva inquinato le indagini sulle stragi, ministri, imprenditori, giornalisti, magistrati, la catena di comando del Corriere della Sera ... C’erano buste sigillate che contenevano inquietanti notizie di reato...”. Quale fu la prima reazione? “Preoccupazione, che i servizi segreti potessero venire a riprendersi le carte. Fotocopiare 5 mila fogli era impossibile, allora incominciammo a selezionare, fotocopiarne le più importanti, descriverle accuratamente, nasconderle in un fascicolo che riguardava altre indagini”. Lei agli inizi della sua carriera girava armato... “Qualche volta mi capitava di portare la pistola. Il 19 marzo 1980 venne ucciso Guido Galli, con cui lavoravo. E nei gironi immediatamente precedenti erano stati ammazzati altri due giudici. Prima linea rivendicò l’omicidio di Guido. Alcuni colleghi scapparono nei Paesi di origine. Io sono rimasto, ma per una settimana ho dormito fuori casa, finché la mia moglie di allora mi ha aiutato a riprendermi. Ma ogni volta che mi fermavo con la moto ad un semaforo e qualcuno attraversava dietro, mi aspettavo il colpo. Nonostante le armi non mi siano mai piaciute mi sono obbligato ad andare in armeria, ma a comperare una pistola non ce l’ho fatta. Ci ho sono tornato un’altra volta, niente. Alla terza volta mi sono costretto ed ho preso un revolver”. Cos’ha provato? “Quando mi sembrava d’essere più esposto dava una sensazione di sicurezza. Ma è irrazionale. Un antidoto, un’esorcizzazione della paura e basta. L’anno dopo, scoperta la P2, m’hanno assegnato la scorta, e l’arma l’ho messa in cassaforte, in ufficio. Dimessomi dalla magistratura nel 2007, l’ho consegnata in Questura chiedendo venisse distrutta. Non volevo che qualcuno usasse contro qualcun altro l’arma che era stata mia”. Molto cauto. Lei si è mai sentito tradito da qualcuno? “Durante Mani Pulite avevamo scoperto un grande giro di corruzione nella Guardia di finanza di Milano, un corpo con cui avevo lavorato tanto e bene. Un imprenditore, interrogato, coinvolse un colonnello con cui avevo lavorato e di cui mi fidavo, temevo potesse fare un gesto estremo. La lettera che Sergio Moroni aveva scritto decidendo di suicidarsi mi aveva colpito profondamente, per cui ho disposto che, una volta arrestato, il colonnello venisse portato subito da me per l’interrogatorio, per evitare che potesse compiere atti insani, precisando che lo avrei atteso fino al giorno dopo. Arrivò alle 4 di notte e mentre aspettavamo il suo avvocato mi chiese: “Dottore mi dice lei cosa fare? Patteggio la pena? Dico che sono innocente o confesso? Mi dica lei...” Mi sono stupito, pensavo fosse disperato, non era nemmeno imbarazzato”. Lei non si arrabbia mai? “Con le parole reagisco al momento, se percepisco un’ingiustizia. Ma conto fino a dieci e non vado oltre. Comunque mi arrabbio”. L’ultima volta? “L’altro giorno, attraversavo sulle strisce pedonali con Luce, un’auto quasi ci ha investito. Che caspita!” Ha urlato “che caspita”? “Purtroppo a volte mi scappa anche qualche parola “turpe”“. Difficile immaginarla. “Allo stadio, fino agli anni ‘90, ero un tifoso accanito del Milan”. Smise durante Mani Pulite? “È che allo stadio qualche volta mi lasciavo coinvolgere, e magari dietro di me qualcuno non la prendeva bene”. È restato tifoso? “Sì, ormai all’acqua di rose. Mi ha fatto ricordare che quando interrogammo Adriano Galliani, ad del Milan, sul caso di Lentini, per il possibile falso in bilancio, lui a un certo punto, vedendo che eravamo Davigo, Di Pietro ed io disse: “Addirittura in tre per questa vicenda?”. E Davigo: “Sa, l’indagine l’ha fatta Colombo, ma siccome è milanista non ci fidiamo tanto”. Era ovviamente una battuta, ma Piercamillo non sa resistere”. Nel 2022, a 30 anni da Mani Pulite, ha fatto un incontro pubblico con Sergio Cusani, che fu condannato. “Ci conoscevamo anche prima della vicenda. Ci vediamo con una certa frequenza, ci sentiamo spesso”. Sente più Cusani dei suoi ex colleghi del pool? “Sicuramente. Con una certa costanza vedo e sento Piercamillo Davigo, abbiamo un rapporto di amicizia. Però sento più frequentemente Sergio Cusani, del quale pure sono amico”. Un colpevole redento le dà più soddisfazione? “Non è questione di soddisfazione, è questione del riconoscersi, di riconoscere le persone, distinguere le persone dai loro atti. E magari considerare, cosa che vale particolarmente per Sergio, il percorso che hanno fatto”. Riforma Cartabia, procedibilità a querela: basta la costituzione di parte civile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2023 Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 7878 depositata oggi respingendo il ricorso di un uomo condannato per lesioni stradali gravi. La Cassazione fa chiarezza su un altro aspetto della contestata estensione dei reati procedibili a querela di parte prevista dalla cd. riforma Cartabia. Ebbene, per la IV Sezione penale, sentenza n. 7878 depositata oggi, anche in questo caso, come già stabilito dalla Suprema corte nel caso della riforma Orlando, la persistente costituzione di parte civile, coltivata anche dopo l’introduzione della procedibilità a querela, “determina la piena sussistenza dell’istanza di punizione e, conseguentemente, della condizione di procedibilità”. La vicenda parte da un incidente stradale a seguito del quale la vittima - un pedone costituitosi parte civile in giudizio - aveva riportato gravi lesioni. Nel marzo 2022, la Corte di appello di Torino, confermando la decisione del Tribunale di Cuneo, aveva ritenuto il guidatore responsabile del reato previsto dall’art. 590-bis cod. pen. (Lesioni personali stradali gravi o gravissime). Secondo l’ipotesi accusatoria, l’imputato le avrebbe causate per colpa consistita in negligenza imprudenza imperizia e in violazione non avendo “rallentato la marcia in prossimità dell’attraversamento pedonale”. Proposto ricorso, l’imputato tra l’altro ha sostenuto che essendo stata indicata in giorni quaranta la durata della malattia conseguente alle lesioni, la fattispecie incriminatrice concretamente applicabile sarebbe stata quella prevista dall’art. 590 cod. pen. e non 590-bis sicché, in difetto di valida querela, avrebbe dovuto essere pronunciata sentenza ex art. 129 cod. proc. pen. (Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità). La Cassazione per prima cosa ricorda che non depone in senso contrario alla accusa di lesioni “almeno gravi” il riferimento alla prognosi di guarigione formulata in quaranta giorni, “trattandosi, appunto, di una prognosi”. I giudici di merito, del resto, sulla base della documentazione medica in atti (il processo è stato definito nelle forme del giudizio abbreviato), hanno chiarito che la persona offesa aveva “subito una invalidità temporanea pari, quanto meno, a 68 giorni”. Ed hanno quindi ritenuto esservi la prova che, nonostante la prognosi iniziale, la malattia conseguente alle lesioni abbia avuto una durata superiore ai quaranta giorni. Sciolto questo dubbio preliminare, che ha portato alla infondatezza del primo motivo di ricorso, la Corte passa al secondo sul quale il primo si riverbera atteso che, all’epoca dei fatti, il reato di cui all’art. 590-bis cod. pen. era procedibile d’ufficio. Tuttavia, a seguito dell’entrata in vigore della riforma Cartabia (Dlgs. 10 ottobre 2022 n. 150), quando - come nel caso di specie - non ricorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 590-bis commi 2 e ss., il reato di lesioni personali stradali gravi o gravissime è diventato procedibile a querela, ma tale modifica normativa non rileva nel procedimento affrontato. “Questa Corte di legittimità - si legge nella decisione - infatti, ha già avuto modo di sottolineare, con riferimento ai casi di procedibilità a querela introdotti dal Dlgs 10 aprile 2018, n. 36, che la persistente costituzione di parte civile, coltivata anche dopo l’introduzione della procedibilità a querela, “determina la piena sussistenza dell’istanza di punizione e, conseguentemente, della condizione di procedibilità”. Infine, con riguardo alla dinamica del sinistro la Corte osserva che la presenza di un pedone in un tratto stradale che attraversa un agglomerato di case, in corrispondenza di una fermata dell’autobus e in prossimità di un attraversamento pedonale, non rappresenta una circostanza eccezionale o imprevedibile. E, secondo il costante orientamento di legittimità, “il conducente del veicolo va esente da responsabilità per l’investimento di un pedone solo quando la condotta della vittima configura, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, da sola sufficiente a produrre l’evento; e questa situazione è configurabile solo nel caso in cui il conducente medesimo, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, si sia trovato nell’oggettiva impossibilità di notare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso e imprevedibile”. Campania. Il Garante Ciambriello: “Evitare l’abbraccio mortale fra giustizia e salute mentale” anteprima24.it, 24 febbraio 2023 Nella giornata di ieri il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha fatto visita all’articolazione psichiatrica di Secondigliano. In data odierna, accompagnato da 8 volontarie del suo staff, ha organizzato una tombolata con diversi premi seguita da un ricco pranzo presso l’articolazione di salute mentale della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere a cui hanno partecipato 21 detenuti dei quali 3 con funzione di piantone. All’incontro erano presenti la direttrice dell’Istituto Donatella Rotundo, il direttore sanitario Pasquale Iannotta, la psichiatra Stefania Pirone la psicologa Silvana Caiazzo, nonché il personale di polizia penitenziaria e socio -sanitario del reparto. All’uscita dell’Istituto il Garante regionale Samuele Ciambriello ha dichiarato: “Occorre che la politica ai vari livelli ponga l’attenzione sulla tutela della salute, non solo fisica ma anche psichica, quale diritto fondamentale dell’uomo, dentro e fuori dal carcere. Gli istituti penitenziari campani, pur essendo dotati di una articolazione psichiatrica a livello provinciale, ospitano un gran numero di ristretti con disagi psichici le cui esigenze indubbiamente non possono essere soddisfatte dal regime carcerario. Oltre alle risorse umane ed economiche, è doveroso un incremento significativo degli psichiatri e del personale sanitario specializzato per fronteggiare adeguatamente i bisogni delle persone ristrette con psicopatologie. Quotidianamente si verificano nelle carceri campane momenti critici che a causa della mancanza di personale specializzato ricadono sugli altri detenuti e sugli operatori sanitari e penitenziari”. Conclude il Garante Ciambriello con delle proposte operative: “È ancora lunga la strada da percorrere, anche da parte della magistratura, affinché il detenuto non venga più identificato come “(s)oggetto malato di mente” meramente sottoposto a cure e terapie ma venga riconosciuto come detenuto responsabile dei propri atti a cui ugualmente devono essere garantiti i medesimi diritti. Il Consiglio Regionale della Campania nella seduta del 3 luglio 2022 ha chiesto alla Giunta regionale della Campania la creazione di nuove Rems a Napoli o nella provincia. Questo senza dover assolutamente “psichiatrizzare” tutto il disagio presente nelle carceri”. Sanremo (Im). Detenuto morto in carcere, indagati due compagni di cella di Paolo Isaia Il Secolo XIX, 24 febbraio 2023 Sono due italiani di 21 e 22 anni, entrambi accusati di omicidio preterintenzionale. Due detenuti sono indagati per la morte di Luca Volpe, 31 anni, trovato senza vita domenica mattina nella sua cella, nel carcere di valle Armea. Sono entrambi accusati di omicidio preterintenzionale. Si tratta di due giovani italiani: Simone Iussi, 21 anni, di Imperia, e Danyel Saba, 22 anni, di Savona. Il primo è in carcere per furto, il secondo per rapina e lesioni. Volpe stava scontando una condanna a 30 anni per avere ucciso con 17 coltellate, nel 2018, il nonno materno, di 78 anni, con il quale viveva, al termine di una lite: l’anziano si era rifiutato di dargli del denaro per comprarsi dello stupefacente. Il delitto era stato commesso a Cantù. Volpe era stato trasferito a Valle Armea da alcune settimane. Era considerato un detenuto difficile, il suo non era il primo trasferimento. Secondo quanto ricostruito finora - ma il riserbo sulla vicenda è molto stretto - nella tarda serata di sabato sarebbe scoppiata una furiosa lite tra Volpe e Saba. In particolare, il primo si sarebbe scagliato contro il giovane savonese, aggredendolo. Iussi sarebbe intervenuto in suo aiuto, e Volpe avrebbe avuto la peggio. I tre sarebbero poi tornati nelle rispettive celle. Al mattino, intorno alle 11, il ritrovamento del corpo senza vita di Luca Volpe. Il decesso risalirebbe a un paio di ore prima. Una delle ipotesi - di qui l’accusa di omicidio preterintenzionale rivolta a Iussi e Saba - è che nel pestaggio abbia riportato una lesione che si è poi rivelata fatale. Forse a causa di un’emorragia interna. O, altra ipotesi, potrebbe avergli ceduto il cuore Le cause del decesso verranno stabilite dall’autopsia, l’incarico verrà affidato questa mattina dal sostituto procuratore Enrico Cinnella della Porta al medico legale dell’Università di Genova Camilla Tettamanti. L’esame dovrebbe essere eseguito già nel pomeriggio, al più tardi domani mattina. Simone Iussi e Danyel Saba sono assistiti dall’avvocato Luca Ritzu. Nella vicenda restano molti gli aspetti da chiarire, al di là delle cause effettive della morte. Come mai il decesso è stato scoperto solo due ore dopo? E, ancora, se le lesioni erano potenzialmente gravi, perché la sera prima non è stato ricoverato nell’infermiera del carcere, o trasportato in ospedale? Appare improbabile che nessuno sia intervenuto per mettere fine alla lite fra i tre detenuti. Anche se la regola del silenzio è rigidissima: non è escluso che lo scontro, seppure violento, si sia consumata in pochi istanti, senza che il personale del carcere si accorgesse di quanto era accaduto. E lo stesso Volpe potrebbe avere scelto deciso di non chiedere aiuto, anche se ferito. La direzione del carcere finora non ha rilasciato dichiarazioni sull’accaduto, così come non si sono registrati interventi dei sindacati della polizia penitenziaria. Parma. Morto in carcere il boss Giuseppe Nirta: stava scontando l’ergastolo Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2023 La settimana scorsa era stato ricoverato a causa di alcuni problemi di natura cardiaca. Su Nirta pendeva un’ordinanza per l’operazione che consentì di arrestare i protagonisti della lunga e sanguinosa “faida di San Luca”, protrattasi per circa 20 anni. Giuseppe Nirta, 83 anni, il boss e capo dell’omonima e potente cosca della ‘ndrangheta, è morto nel carcere di Parma dove stava scontando l’ergastolo. La settimana scorsa era stato ricoverato a causa di alcuni problemi di natura cardiaca. Dopo circa due anni di latitanza era stato arrestato dai carabinieri del Gruppo di Locri alla fine di maggio del 2008 a San Luca. Il boss si nascondeva in un bunker che era stato realizzato all’interno dell’abitazione di una parente. Su Nirta pendeva un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito della vasta operazione anticrimine, scattata a San Luca e dintorni alla fine di agosto del 2007, denominata “Fehida”. Un blitz che consentì di sgominare alcuni potenti e ramificati clan della ‘ndrangheta sanluchese impegnati nella lunga e sanguinosa “faida di San Luca”, protrattasi per circa 20 anni. Una mattanza culminata a Ferragosto del 2007, in Germania, con la “strage di Duisburg” dove furono uccise, ben 6 persone. A farsi la guerra, all’epoca, erano i clan Nirta Versu-Strangio Janchi, da una parte, e Pelle Vanchelli-Vottari Frunzu dall’altra. Nirta agli inizi del 1982 era stato arrestato in Lombardia, a Voghera dove prestava servizio come bidello in un istituto scolastico tecnico, perché coinvolto nel sequestro dell’imprenditore lombardo, Giuliano Ravizza, rapito nell’autunno del 1981 e rilasciato tre mesi dopo dietro il pagamento di un riscatto di circa 4 miliardi di lire. Al termine del processo scaturito dall’inchiesta sul sequestro, Nirta fu condannato a 27 anni di reclusione. Giuseppe Nirta, detto “U guardianu”, era anche il padre di Giovanni Luca Nirta, figura, secondo gli inquirenti, di primo piano dell’omonima “famiglia” sanluchese e marito di Maria Strangio, la trentenne madre di tre figli minorenni uccisa per errore in un agguato di ‘ndrangheta il giorno di Natale del 2006 a San Luca. Nella stessa occasione rimasero ferite tre persone, tra cui un bambino di 5 anni, nipote di Maria Strangio. All’epoca si scoprì che il vero obiettivo dell’agguato era proprio Giovanni Luca Nirta. Dalle indagini sfociate nell’operazione “Fehida” emerse inoltre che l’agguato in cui fu uccisa Maria Strangio era stata la cruenta risposta, sempre nell’ambito della “faida di San Luca”, al ferimento ad Africo, in un agguato, la sera del 31 luglio del 2006, di Francesco Pelle, alias “Ciccio Pakistan”, elemento di primo piano dell’omonima cosca. Un intreccio di agguati e vendette incrociate, con i morti ed i feriti che ne sono conseguiti, che sono sempre state una caratteristica delle vicende di ‘ndrangheta. Ivrea (To). Pestaggi e abusi in carcere: “Il medico guardava bevendo il caffè” di Andrea Bucci e Lodovico Poletto La Stampa, 24 febbraio 2023 La procura di Torino ha chiuso le indagini su 28 persone. I detenuti: “Qui gli agenti non hanno pietà di nessuno”. Sette anni fa. Un sabato: è il 7 novembre. Al carcere di Ivrea un detenuto di origini nord africane viene picchiato con calci e pugni da un gruppo di agenti. Lì accanto c’è il medico di turno alla casa circondariale. Guarda, e non muove un dito. Tranquillo sorseggia un caffè, appena spillato dal distributore automatico. Ecco, quel medico adesso è inserito nell’elenco dei 28 indagati per violenze - protratte negli anni - all’interno di questo carcere più volte finito al centro di inchieste della magistratura. Quella che lo vede nei guai racconta la storia di sette pestaggi che la Procura Generale di Torino ha raggruppato in un unico fascicolo, prendendo sul serio le denunce di Antigone - associazione che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale - e dell’allora Garante comunale dei detenuti. Ora l’inchiesta è finita. Il medico rischia la radiazione: non ha mai segnalato nulla a nessuno. Per la prima volta, con questo atto di chiusura indagini, vengono presi in considerazione episodi che non erano mai stati approfonditi. Quello in cui appare il dottore è il più vecchio di tutti. Ma nell’elenco ce ne sono altri. Inquietanti e violenti. E che confermano le voci che giungevano allora da dentro le celle: “Qui gli agenti non hanno pietà per nessuno”. È il 26 di ottobre del 2016. Un altro detenuto viene pestato con il manganello, con calci, pugni e schiaffi. Lo menano gli agenti che lo stanno scortando in infermeria. Finita la vista l’uomo viene riaccompagnato in cella. È nudo. Resterà così tutta la notte. E il giorno dopo, come se non bastasse, finisce in cella di rigore. Risultano almeno altri cinque racconti di questo tipo. E una montagna di relazioni di servizio che gli agenti di custodia firmavano di volta in volta e inviano ai vertici della polizia penitenziaria. Ecco come motivarono le ferite sull’uomo lasciato nudo: il detenuto “scivolava accidentalmente, sbattendo la testa sul pavimento della sezione, reso scivoloso dall’uso dell’idrante per spegnere il focolare che avevano appiccato in precedenza”. Basta cambiare i nomi dei reclusi e quelli degli agenti, ed ecco altre relazioni fotocopia. Stesso giorno, il 26 ottobre del 2016, c’è un altro recluso pestato mentre lo scortano verso la sala d’attesa dell’infermeria. Vien spogliato, ancora picchiato, e lasciato svestito tutta la notte. Sulla relazione di servizio sette uomini in divisa scrivono questa stessa frase: “Mentre si trovava nella sala di attesa iniziava a sbatter la testa violentemente contro il vetro della stessa e pronunciava testuali parole: ora mi faccio male così dico che siete stati voi a picchiarmi così vi rovino, pezzi di merda”. Per altro recluso, con una brutta lesione allo zigomo e al labbro superiore, e portato al pronto soccorso per accertamenti, due agenti scrivono: “dava ripetutamente testate ad uno spigolo del pilastro”. Negli atti di oggi, però, non si fa cenno alla cella chiamata “l’acquario”, un cubo di cemento, dalle pareti lisce, senza arredi e senza servizi igienici, dove altri detenuti sarebbero stati picchiati. Compare in altre indagini, molte delle quali finite in nulla. E se i protagonisti di queste storie, i detenuti, sono sempre diversi, quelli che picchiano compaiono talvolta anche in altre storie: due di loro, per dire, sono nell’elenco degli agenti sospesi in seguito ad una indagine aperta da poco dalla procura di Ivrea. In questa storia, però, c’è ancora un ultimo aspetto. Parte delle violenze raccontate nelle carte dalla Procura generale potrebbero restare senza colpevole. Alcuni reati, infatti, sono troppo vecchi e in aria di archiviazione. Nel corso degli anni, infatti, almeno due indagini aperte a Ivrea sono finite in nulla. Quando la Procura generale di Torino ha preso in mano i fascicoli, i tempi per un’indagine approfondita erano strettissimi. Come finirà? Impossibile dirlo. L’unica cosa certa è che a processo andranno i sette agenti, oggi accusati di tortura. Reggio Calabria. La Garante dei detenuti per una sanità penitenziaria a misura d’uomo reggiotoday.it, 24 febbraio 2023 Grande partecipazione per un evento che è il primo per quanto riguarda la prevenzione e quindi il diritto alla salute all’interno degli istituti penitenziari. Il commissario dell’Asp Lucia Di Furia, il garante dei detenuti Giovanna Russo e il direttore degli Istituti penitenziari di Reggio Calabria Giuseppe Carrà hanno presentato, lunedì scorso, un’iniziativa prima in assoluto per quanto riguarda gli istituti penitenziari in Calabria. La possibilità di fare prevenzione all’interno degli istituti come si sa, ma già rispetto al diritto della salute, all’interno di luoghi della privazione della libertà personale appare spesso una chimera a fronte delle quotidiane emergenze che il sistema penitenziario affronta. Non è così a Reggio Calabria dove si vuole costruire un modello virtuoso. Già il 14 dicembre 2022 l’Asp di Reggio Calabria presentava il progetto di Prevenzione e screening per la popolazione afferente le patologie tumorali del colon retto. Questa iniziativa Già promossa all’esterno, per la prima volta trova accoglimento all’interno di una casa circondariale. Importanti e significativi i messaggi che sono stati trasmessi alla popolazione detenuta presente all’interno della sala teatro dell’Istituto di Reggio Calabria “San Pietro”. Presenti per l’Asp e non solo, la dottoressa Di Furia, il dottor Giuffrida, il Coordinatore sanità penitenziaria San Pietro Luciano Lucania, il direttore del Dipartimento prevenzione Asp Reggio Sandro Giuffrida, la responsabile Centro screening oncologici Asp Adriana Romeo, la responsabile del laboratorio analisi Asp Maria Teresa Fiorillo, l’associazione Comunità competente con Rubens Curia, la presidente Federfarma Simonetta Natalia Neri. A prendere la parola per i saluti istituzionali e l’avvio del momento informativo e formativo è il Direttore Carrà che ha espresso grande plauso per un’iniziativa apripista nel panorama regionale, che manifesta ancora una volta l’attenzione concreta e reale verso le persone detenute. Reggio Calabria dimostra di essere all’avanguardia rispetto alle iniziative che vengono concretamente operate e messe in campo all’interno degli istituti penitenziari. Ben consapevoli di quelle che possono essere in generale le criticità del sistema sanitario penitenziario, non ci si ferma alle sole risoluzioni emergenziali. Un evento di massima attenzione al miglioramento della qualità della vita del detenuto di cui lo Stato è responsabile ha affermato il Direttore. La dottoressa Lucia Di Furia ha successivamente preso la parola entrando nel merito di quella che è l’iniziativa, trasmettendo grande entusiasmo per l’opportunità che verrà data alle persone recluse di poter effettuare lo screening e quindi di attenzione ad una politica sanitaria di prevenzione quale elemento dell’avere cura, che non lascia indietro nessuno ha dichiarato. Cura soprattutto di se stessi e dell’attenzione che l’Asp regina ha voluto mettere in campo ad un mese dalla pubblicazione nei confronti di tutta la cittadinanza libera, l’iniziativa di poter fare prevenzione anche in carcere. Ha fermato la dottoressa Di Furia di essere particolarmente felice da medico impegnato in prima linea è da commissario dell’Asp regina di essere felice di dare dimostrazione concreta della possibilità di accorciare le distanze tra il dentro il fuori che si concretizza. L’avvocato Russo si dichiara particolarmente soddisfatta di questo momento informativo promosso in favore della popolazione detenuta. La stessa afferma da tempo che il diritto alla salute penitenziaria non deve essere un irraggiungibile meta solo perché ci si trova nella condizione di privazione della libertà personale. Precisa come questa sia un’iniziativa già nata nel giugno scorso ad una riunione del tavolo tecnico sulla sanità penitenziaria che oltre ad occuparsi delle concrete ed effettive esigenze della popolazione detenuta e anche delle emergenze che si verificano appunto quotidianamente, ha tutti gli obiettivi istituzionali di voler concretamente promuovere il diritto e la tutela del diritto alla salute in carcere. È un aspetto al quale la garante tiene particolarmente perché parlare di diritto alla salute, alle cure, all’interno degli istituti penitenziari non è sempre scontato. Ecco perché fa riferimento al tavolo della sanità penitenziaria, dalla stessa voluto, già ad aprile scorso nel quale emergono, grazie alla partecipazione assidua di tutte le istituzioni coinvolte le criticità e le possibili soluzioni. La stessa ritiene, che una contrazione del diritto alla salute in carcere implica purtroppo un peggioramento delle qualità della vita del detenuto e quindi un riverbero negativo anche su chi vi lavora. È stato dato anche un apporto tecnico da parte delle Dottoresse Fiorillo e Romeo, fornendo spiegazioni su cosa sia realmente effettuare screening e fare prevenzione. Molte e interessate le domande da parte della popolazione detenute. Serve lungimiranza, serve progettualità per una visione concreta delle criticità del mondo penitenziario che necessita di competenze specifiche in materia soprattutto quando si parla di diritto alla salute dei detenuti. Creare modelli virtuosi come le tante iniziative già fatte e quelle in programmazione, dimostrano che il dialogo Inter istituzionale tra le parti è la strada giusta. Porto Azzurro (Li). Studiare l’Italiano in carcere elbareport.it, 24 febbraio 2023 Università per Stranieri di Siena e la Casa di Reclusione “Pasquale De Santis” di Porto Azzurro per la seconda edizione della Certificazione di Italiano come L2. Per la seconda volta la sede di esame CILS si trasferisce nelle aule di un Istituto Penitenziario. Il Polo Universitario Penitenziario (PUP) dell’Università per Stranieri di Siena e il Centro di Certificazione di Italiano come Lingua Straniera (CILS) giovedì 16 febbraio hanno svolto le prove di esame per l’ottenimento della Certificazione A2 - integrazione e B1- cittadinanza destinate a 15 detenuti stranieri ospiti della Casa di Reclusione “Pasquale De Santis” di Porto Azzurro. Come lo scorso anno, la sessione di esami è stata possibile a seguito dell’avvio della seconda edizione dei corsi di lingua italiana destinati a detenuti stranieri, un percorso intrapreso nel 2021 e organizzato dal PUP di Unistrasi. I corsi hanno mantenuto la stessa struttura della scorsa edizione: tre livelli di competenza linguistica (A1, A2 e B1), 20 studenti detenuti ca. coinvolti e due incontri online settimanali con gli studenti tutor dell’Università. I corsi di lingua italiana a detenuti stranieri, la certificazione linguistica e infine la possibilità per i detenuti di iscriversi ai corsi di laurea di Unistrasi rappresentano percorsi di inclusione che il Polo Penitenziario dell’Università per Stranieri di Siena ha come obiettivo strategico e che ha deciso di costruire ed ampliare con innovative azioni, attualmente in fase di sperimentazione, insieme alle istituzioni penitenziarie della Toscana. “Come Polo Universitario Penitenziario di Unistrasi siamo felicissimi di questa proficua collaborazione, che prosegue e che si sta piano piano intensificando e migliorando. Abbiamo regolarizzato l’iscrizione al Corso di Laurea in Mediazione Linguistica e Culturale di un detenuto e la realizzazione di ulteriori percorsi di formazione linguistica destinata ad un pubblico ancor più “svantaggiato”. Un ringraziamento particolare va ai detenuti che hanno partecipato ai corsi di lingua italiana, agli studenti tutor di Unistrasi che in questi mesi hanno accompagnato e preparato i candidati nella formazione delle competenze richieste dai vari livelli; al Direttore della Casa di Reclusione di Porto Azzurro Dott.ssa Maria Cristina Morrone, al Comandante Dott. Luigi Bove, al Funzionario Giuridico-Pedagogico Dott.ssa Giuseppina Canu e al Funzionario Mediatore Culturale Dott.ssa Giuseppina Biondillo, al personale di Polizia Penitenziaria, e alle volontarie Maria Antonietta Falanca e Raimonda Lobina, che hanno accettato questa sfida; infine alla Direttrice Prof.ssa Sabrina Machetti (nonché Pro-rettrice alle Certificazioni linguistiche) e alle colleghe del Centro CILS che fin dall’inizio hanno dato la loro disponibilità e messo a disposizione le loro competenze.” Per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università per Stranieri di Siena: Prof.ssa Antonella Benucci (Delegata del Rettore ai Rapporti scientifici, didattici e di terza missione tra l’Ateneo e il carcere), Dott. Mauro Pellizzi (referente corsi di lingua italiana per il PUP), Dott.ssa Viola Monaci (dottoranda e collaboratrice per il PUP). Scritto dal Polo Universitario Penitenziario dell’Università per Stranieri di Siena Bologna. Una mostra fotografica al carcere della Dozza sulle donne detenute Il Resto del Carlino, 24 febbraio 2023 “Domani faccio la brava”. Così si chiama la mostra fotografica sulle donne detenute in carcere e immortalate dall’obbiettivo del fotoreporter di Ravenna Giampiero Corelli. Questa mostra, inaugurata ieri, si suddivide tra il carcere Dozza e l’Assemblea legislativa e “raccoglie le immagini del lavoro di fotoreportage che ho realizzato dal 2008 a oggi - spiega il fotografo - Un affondo in un mondo fatto di sofferenza, ma anche di voglia di riscatto”. Da oggi fino al 21 marzo è possibile prender parte a questo viaggio tra le sezioni femminili di tredici istituti penitenziari del Paese, (Roma, Milano, Bologna, Venezia, Firenze, Torino, Forlì, Trani, Reggio Calabria, Napoli, Palermo, Messina e Catania). “Con la mostra di Corelli portiamo in Assemblea il tema della detenzione femminile. Le donne recluse sono molte meno degli uomini, ma purtroppo in questo meno si contano anche le opportunità di lavoro, di studio e di formazione, dentro e fuori la detenzione”, sottolinea la presidente dell’Assemblea legislativa, Emma Petitti. All’inaugurazione di ieri mattina, tra gli altri, la direttrice della Dozza, Rosa Alba Casella: “Sono immagini di volti nei quali si coglie la sofferenza che non è legata solo alla detenzione, ma anche a tutte una serie di sentimenti che per le donne sono particolarmente pesanti. Prima di tutto il senso di colpa verso i figli, l’angoscia del distacco - commenta - Le immagini raccontano anche alcuni luoghi, che sono spesso pensati al maschile. Alla Dozza, le sezioni femminili sono ricavate in istituti che nascono per uomini e questo è sicuramente una difficoltà per le donne che rischiano di essere marginalizzate all’interno dello stesso contesto penitenziario”. Orari e come visitare la mostra - La mostra si articola in una doppia esposizione di fotografie: una prima parte al piano terra dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna e la seconda parte nella casa circondariale della Dozza. Firenze. Sport fuori del carcere, nel segno del reinserimento sociale e dell’inclusione comune.fi.it, 24 febbraio 2023 Protocollo d’intesa tra Uisp Firenze e garante detenuti. Un sistema partecipativo, dall’approccio innovativo, per creare nuovi percorsi di reinserimento sociale per detenuti ed ex detenuti attraverso la pratica sportiva all’esterno del carcere. Questa la finalità del protocollo d’intesa sottoscritto dal garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze e dalla Uisp Unione Italiana Sport Per tutti. L’iniziativa promossa dal garante Eros Cruccolini ha trovato un partner nella Uisp Firenze del presidente Marco Ceccantini già impegnata dal 2002 dentro e fuori le carceri con azioni e progetti di carattere ludico-motorio e sportivo. Nella convinzione che lo sport possa giocare un ruolo fondamentale anche sotto il profilo educativo e formativo. Ora questo percorso rieducativo e di reinserimento sociale attraverso lo sport dalle mura delle case circondariali si apre alla città e più in generale alla società. Grazie al protocollo d’intesa la Uisp mette a disposizione i suoi impianti per tutti coloro che, opportunamente selezionati, vogliono lasciarsi alle spalle l’esperienza del carcere per tornare a vivere e a stare in società anche attraverso lo sport. “Anche lo sport può essere un valido strumento di reinserimento sociale, di socializzazione, di interiorizzazione delle regole - ha sottolineato l’assessore allo sport Cosimo Guccione - questo protocollo è un’idea nuova nei percorsi di inclusione ed è importante anche per far adottare corretti stili di vita a quanti sono ammessi alle misure alternative. Auspico chepossa essere di esempio per gli altri enti di promozione sportiva e per le società del territorio”. “Ringrazio l’assessore Guccione, il consigliere Di Puccio e il garante Cruccolini che ci hanno accompagnati nella stesura di questa convenzione permettendo di incrementare le attività che facciamo dal 2002 all’interno del carcere - ha detto il presidente di Uisp Firenze Marco Ceccantini - Il carcere non deve essere solo punizione ma anche educazione e reinserimento nella società civile. Lo sport è strumento di inclusione e di socializzazione, per il contenimento della rabbia e l’interiorizzazione delle regole, non solo per il recupero delle abilità e il mantenimento psico-fisico. Questa è una prima strada che ci potrebbe condurre, in futuro, anche un inserimento lavorativo delle persone che potranno integrarsi attraverso la pratica sportiva”. “L’assessore Guccione oltre ad essersi impegnato per incrementare l’attività e per migliorare il servizio della palestra all’interno del carcere - ha dichiarato il garante dei detenuti Eros Cruccolini - ci ha stimolato, insieme alla Uisp, a trovare una modalità per rispondere ai bisogni di chi è ammesso alle misure alternative come la semilibertà o l’affidamento. Nel momento in cui escono, oltre a lavorare o a fare volontariato, adesso potranno anche andare in palestra. I prezzi sono agevolati perché vogliamo che la persona, responsabilmente, partecipi e frequenti: anche questo fa parte del loro percorso di reinserimento. Ringraziamo anche l’Uisp fortemente impegnata da anni all’interno del carcere”. “Mi unisco ai ringraziamenti - ha commentato Stefano Di Puccio, consigliere speciale del sindaco per il carcere di Sollicciano - dobbiamo cercare di dare alternative alla reclusione: il carcere toglie la libertà ma non deve togliere la dignità. I problemi, all’interno dei penitenziari, ci sono. Riguardano non solo i detenuti ma anche chi ci lavora e svolge attività: agenti di custodia, assistenti sociali, volontari. Lo sport è una delle attività che dobbiamo incrementare sempre di più, anche all’interno del carcere. Da qui il mio appello al governo perché si attivi in questo senso”. “A trecento metri dalla libertà”, il libro di un ex detenuto durante la rivolta nel carcere di Modena modenatoday.it, 24 febbraio 2023 A tre anni dalla violenta rivolta scoppiata nel carcere “Sant’Anna” di Modena (8 marzo 2020), conclusasi con nove morti e molti interrogativi tutt’oggi rimasti aperti, un libro inedito racconta per la prima volta quanto accaduto durante le diciotto interminabili ore di sommossa e nelle settimane seguenti. A scriverlo è un ex detenuto, Guido Milani, nel testo autobiografico “A Trecento Metri dalla Libertà”, edito da Graus Edizioni: “non un atto d’accusa ma piuttosto un diario-verità che testimonia la disumanizzante esperienza di un uomo che mai avrebbe immaginato di trovarsi recluso (per reati che oggi sono stati dimostrati falsi ed infondati) e di vivere sulla propria pelle l’incubo di una drammatica guerriglia”. Il libro verrà presentato sabato 11 marzo alle ore 16.30 presso la Sala Giacomo Ulivi, in Viale Ciro Menotti 137 a Modena. Nella scheda di presentazione del libro si legge: “Sono i primi giorni di lockdown nazionale: il Covid spaventa e l’emergenza sanitaria viene percepita con ancor più timore dai detenuti del carcere di Modena; alcuni di essi scelgono di manifestare le proprie legittime paure nel peggior modo, scatenando una devastante rivolta. All’interno dell’istituto si trova anche Guido Milani, regista e scrittore. L’uomo sconta una pena per reati mai commessi, come dimostrato da rigorose evidenze scientifiche ed è in attesa di sviluppi circa la revisione della sentenza che lo ha ingiustamente condannato. La già traumatica esperienza carceraria si trasforma per lui in un nuovo drammatico incubo: egli si ritrova, insieme ai propri compagni di sezione estranei alla sommossa, in balia di un branco di rivoltosi, recluso all’interno di un carcere saccheggiato, distrutto, incendiato, per diciotto interminabili ore. L’autore scandisce l’infinito tempo della sciagura, rievocando origine e tappe principali dalla propria prospettiva; rivela le cause scatenanti, inevitabilmente correlate ad una gestione approssimativa del Covid e si sofferma sulle devastanti conseguenze di cui pochi ricordano: nove decessi tra i detenuti e innumerevoli atti di prevaricazione. Il racconto autobiografico di Guido Milani va oltre l’8 marzo e condivide quanto accaduto nelle settimane seguenti: infatti nessuno ha mai rivelato che, dei 550 detenuti complessivi, una minuta parte sia stata costretta a permanere all’interno del carcere nei mesi successivi alla tragedia, in celle inutilizzabili, fredde, sature di polveri fuligginose, tra ripetuti atti intimidatori. Di quei 70 prigionieri rimasti a Modena e mai trasferiti altrove, uno era proprio Guido. Tra un capitolo e l’altro, con dei flash-back letterari, l’autore narra la propria storia personale e giudiziaria: gli aspetti più intimi della sfera umana e psicologica, l’iniziale difficoltà nell’accettazione dell’omosessualità, un incontro sbagliato e l’increscioso obbrobrio processuale: tutto ciò - e molto altro - trova spazio tra le pagine del racconto, in un viaggio denso di emozioni e inaspettati colpi di scena”. Carofiglio: “Serve una nuova chiave di lettura del mondo per smontare la macchina del rancore” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 24 febbraio 2023 Gianrico Carofiglio non sa ancora se domenica andrà a votare alle primarie. Non lo dice per spirito di contraddizione, non lo fa per darsi un tono. Il suo spaesamento, i suoi dubbi, le sue riserve sono quelli di migliaia di elettori del Pd. “Ci sono cose che mi convincono e non mi convincono di entrambi i candidati - dice lo scrittore, che lunedì sarà di nuovo in tv, su Rai3, con Dilemmi - Soprattutto, non mi convince il percorso che ha portato fin qui”. Le avevano chiesto di far parte del comitato che avrebbe dovuto dar vita alla carta dei valori, di cui non si è saputo più nulla. Come mai ha declinato? “Immaginavo sarebbe andata così. Ci voleva un’impostazione meno declamatoria. Prendere un sacco di gente e metterla insieme in fretta e furia per decidere qualcosa è di solito un ottimo modo per non decidere nulla”. Il Pd in realtà è stato accusato di lentezza... “Si vota di nuovo l’anno prossimo, il tempo c’era. Penso sarebbe stato meglio scegliere un segretario o una segretaria di transizione che potesse fare un lavoro di manutenzione straordinaria del patrimonio ideale”. Per lasciare spazio al dibattito di idee e non allo scontro personale? “Per una riflessione su valori e strategie che andasse al di là delle frasi fatte e delle cose che si ripetono in maniera meccanica e vuota. Se non sai dire chi sei in modo che tutti lo capiscano, non lo hai capito nemmeno tu”. Alle ultime elezioni il Pd non si è saputo raccontare? “Una campagna elettorale sbagliata ha prodotto quel che è successo”. Serve cambiare nome? Partito del lavoro la convince? “In realtà poco. Un tempo i due grandi fattori del conflitto sociale erano il capitale e il lavoro. Adesso c’è un capitale tutto finanziario, altamente tecnologico, mentre il lavoro è sbriciolato in mille entità in conflitto tra loro. È chiaro che devi occupartene, ma non può definirti come 70 anni fa, quando infatti gli operai votavano Pci. Adesso gli operai votano Fratelli d’Italia”. E cosa ti definisce, se sei un partito di sinistra? “La dignità. Ma non quella da pacca sulla spalla. La nostra società è sempre più divaricata nelle sue diseguaglianze. La narrazione è che se stai in alto te lo sei meritato e se sei in basso ti sei meritato anche quello. Una chiave di lettura del mondo spietata che non fa che accelerare e moltiplicare il rancore e il senso di ingiustizia, carburanti del populismo. Il compito della sinistra è disattivare questa macchina, prendere quella roba lì e farne un impulso di trasformazione sociale. Perché è chiaro che ci sono meriti e responsabilità individuali, ma quando un fenomeno è strutturale non può essere quello il discrimine”. E qual è? “Michael Sandel in La tirannia del merito dice che bisogna passare dall’etica del merito all’etica della fortuna. Chi ha successo non ce l’ha solo in base a doti o impegno, ma grazie all’essere stato o meno fortunato. Bisogna introdurre questo elemento nel dibattito non per punire i ricchi, ma per recuperare la dignità degli sfortunati. Essere socialista, diceva Olof Palme, non significa essere contro la ricchezza, ma contro la povertà”. Il concetto di merito ha dominato anche una lunga stagione del Pd, soprattutto con Matteo Renzi. “È stata ed è un’illusione insidiosa. Ma il merito individuale non può prevalere sulle ingiustizie strutturali. Conta dove sei nato, con che patrimonio genetico, in che scuola sei potuto andare, se la tua vita è stata investita da guerre, alluvioni, terremoti. La politica della sinistra e del progresso non è più il socialismo, la contrapposizione capitale-lavoro. Adesso la sinistra deve farsi carico di un sistema che ha in sé le condizioni dell’ingiustizia e di lesione della dignità umana”. Gli elettori del Pd sono chiamati a fare una scelta. Stefano Bonaccini ha una visione più pragmatica e moderata, Elly Schlein è una candidatura più di rottura. Perché non andare a indicare una strada? “Le spiego i miei dubbi. Se viene eletto Bonaccini c’è il rischio che un pezzo di mondo, più giovane, meno strutturato, si senta escluso. D’altro canto, il presidente dell’Emilia-Romagna dà la sensazione di poter andare alla ricerca di accordi a oggi indispensabili. Su Schlein, che conosco e stimo, ho perplessità di metodo: candidarsi a segretaria senza essere stata iscritta fino al giorno prima mi è sembrato strano. Se vincesse potrebbe attirare una platea inattesa e silente, col rischio però che si interrompano i canali di comunicazione con forze più di centro. Si potrebbe reiterare una sorta di vocazione minoritaria, una coazione a perdere. Mentre bisogna voler vincere con tutti i mezzi leciti, nella consapevolezza che il sistema implica la ricerca di compromessi. È una parola sana, compromesso, gravemente e ingiustamente danneggiata. Significa promettere insieme”. Ha letto le parole di Valditara contro la lettera antifascista della preside Annalisa Savino? “Ho trovato inquietante la minaccia. Il ministro dopo lo scivolone delle umiliazioni in classe ha perso un’altra occasione per tacere. Non credo ci sia un pericolo fascista e credo sia addirittura positivo che un ministro di destra e una dirigente non di destra esprimano opinioni diverse. Ma la violenza felpata delle parole “vediamo se continua” è inaccettabile”. C’è un tentativo incessante di riscrittura della storia da parte di questa maggioranza? “C’è, in maniera goffa e con scarsezza di strumenti culturali, il tentativo di riscrivere alcuni snodi nevralgici della storia e quindi di cambiarne il significato. A partire dall’essere italiani in una Repubblica nata dalla resistenza ai nazifascisti. Serve una vigilanza culturale e politica che abbiamo tutti i mezzi per compiere, compresa l’ironia. Ma non bisogna commettere l’errore di immaginare a breve termine un futuro autoritario dal punto di vista delle istituzioni e della cultura, perché si rischia di fare come nell’ultima campagna elettorale, agitando uno spettro cui non crede nessuno”. Quale doveva essere il messaggio del centrosinistra contro la destra di Meloni? “Dire: non crediamo che tu sia fascista, che FdI sia un partito fascista, anche se crediamo che al suo interno ci sia qualche fascista. Quel che pensiamo è che sia un partito che guarda al passato, mentre noi siamo le forze del progresso e del futuro”. Non è andata così. Ha apprezzato le lodi a Meloni di Letta e Bonaccini? “Penso ci sia stato qualche eccesso nel tono di quegli elogi. Le doti politiche di Meloni non sono in discussione. Dicono sia personalmente simpatica e sembra credere in quel che fa, ma la sua cultura politica è profondamente di destra. Tanto da mettere davanti a tutto la tutela delle amicizie personali, lanciandosi in difese dal mio punto di vista assurde”. Non doveva difendere Delmastro e Donzelli? “Sono indifendibili, hanno dimostrato un’insipienza politica altissima, bersagli facili che le daranno ancora problemi”. Ha ragione Nordio quando dice che è lui a decidere cos’è segreto nel suo ministero e cosa no? “Quel che ha detto è privo di senso giuridico. Non è il ministro a decidere, ma le leggi, che ai magistrati spetta interpretare. Nordio ha un problema con i magistrati e la magistratura che lo porta a fare uscite di grande debolezza”. Nel suo Dilemmi ci sono due persone che dibattono su temi spinosi seguendo regole precise - nella prima puntata il sesso a pagamento, poi il carcere, la maternità surrogata - ma non ha toccato il tema della guerra, che per la sinistra sta diventando un nuovo tabù. “La mia opinione sull’aggressione della Russia in Ucraina è che dolorosamente bisogna andare avanti così. Credo però sia necessario ci siano voci critiche, anche se a volte non coerenti fra premesse e conclusioni, per evitare ci si abitui a ciò che anche se doveroso, resta scandaloso: la risoluzione del conflitto attraverso le armi. Non bisogna guardare con disprezzo o diffidenza chi esprime opinioni contro l’invio di aiuti militari. Il dilemma però in questo caso è: se si smette di mandarli, cosa succede?”. Dubito che la conseguenza per l’Ucraina sia la pace... “Appunto”. Come si esce da queste contrapposizioni che negano la legittimità dell’idea altrui? “La tecnica è la carità interpretativa, premessa etica ed epistemologica del vero dialogo. Bisogna partire dal presupposto che l’altro, anche se dice qualcosa per te inaccettabile, lo faccia in buona fede. In Dilemmi il duello dialettico ha regole precise: capita che la discussione si accenda, ma non travalica mai e a volte si trovano perfino dei punti di incontro tra posizioni apparentemente inconciliabili. Quest’anno ci sarà anche la musica, con Frida Bollani Magoni che a ogni puntata canterà una cover inerente alla puntata. E le mie chiacchierate con i librai, una delle istituzioni culturali più importanti di questo Paese”. Scuola. Gli studenti all’attacco: “Ministro inadeguato” di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 febbraio 2023 Indignazione per le parole del ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara e vicinanza alla preside del liceo fiorentino Leonardo da Vinci Annalisa Savino. Sono i sentimenti che circolano tra molti studenti e studentesse di Firenze (e non solo) dopo la giornata di ieri. Quando il governo ha finalmente interrotto i sette giorni di silenzio sull’aggressione squadrista al liceo Michelangiolo di Firenze: non per condannare gli aggressori ma per prendersela con la dirigente scolastica. Savino con una bellissima circolare aveva avvisato i suoi studenti del pericolo di restare indifferenti davanti ai rigurgiti del capitolo peggiore della storia del Novecento. Secondo la Rete degli studenti medi: “Parlare di antifascismo è parlare della nostra Costituzione. Le parole del ministro ci confermano la sua inadeguatezza. Invece di intervenire su questioni fondamentali come edilizia, alternanza scuola lavoro e salute mentale, perde tempo con dichiarazioni ideologiche e fuori contesto”. Sulla stessa linea d’onda l’Unione degli studenti (Uds). “Una dirigente scolastica ha la responsabilità di trasmettere valori come l’antifascismo ai suoi studenti. È gravissimo che venga attaccata da chi dovrebbe rappresentare una Repubblica nata proprio dalla vittoria sui fascisti”, attacca Tommaso Martelli, 18 anni, dell’esecutivo nazionale Uds. Duro anche il comunicato di Osa, Organizzazione studentesca d’alternativa, che accusa Valditara di legittimare la presenza e le aggressioni dei “nemici degli studenti”. Cioè gli estremisti di destra, i neofascisti. Dopo le botte ai ragazzi del Collettivo Sum del Michelangiolo, per cui sono indagati tre maggiorenni e tre minorenni di Azione studentesca (legata a doppio giro a Fratelli d’Italia), ieri appartenenti a Blocco studentesco, giovanile di Casapound, hanno incendiato la circolare inviata da Savino e appeso uno striscione ostile alla ringhiera della sua scuola. Su Twitter l’organizzazione se l’è poi presa con “un’intera generazione di docenti, in realtà propagandistici politici in servizio permanente”. Intanto a Firenze, dopo la grande manifestazione antifascista di martedì, fervono assemblee e riunioni per continuare la mobilitazione. “Il corteo è stato molto grande. Partecipato da tanti studenti e persone solidali. Ha dato una spinta al movimento studentesco. In generale c’è stata una bella reazione della città”, dice Giulio Volpi. Ha 18 anni e frequenta il liceo classico Galileo, a pochi metri dal luogo dell’aggressione. “La risposta della preside del da Vinci mi ha stupito - continua - Non è stato un sostegno formale, ma sincero. Mentre qualcun altro provava a spoliticizzare la matrice dell’aggressione subita dagli studenti”. Adozioni, un percorso con molti ostacoli di Luigi Manconi La Repubblica, 24 febbraio 2023 L’istituto giuridico esiste dai tempi di Hammurabi. Nel nostro Paese servono 4 anni e 5 mesi, oltre a 20mila euro per concludere la procedura. Fra le 282 leggi del Codice di Hammurabi era presente anche la norma riguardante “i diritti e i doveri degli adottandi e degli adottati”. Sin dal XVIII secolo a.C., quindi, a un soggetto era garantita la possibilità di estendere il proprio nome e la propria eredità a un altro soggetto, secondo determinate forme. Tale norma, riferita solo agli adottandi maggiorenni, era prevista anche nell’antica Grecia e nell’antica Roma, sempre con la finalità prioritaria di garantire un successore a chi non avesse avuto figli naturali o legittimi. Sappiamo, poi, che la pratica dell’adozione scomparve quasi del tutto nel Medio Evo per poi riapparire nel XVII secolo e quindi inclusa e regolamentata nel Codice Napoleonico. L’adozione del minore, invece, fu prevista solo molto più tardi, negli Stati Uniti prima e in Europa poi, intorno alla metà del XX secolo. Per lungo tempo la disciplina italiana, in merito, ricalcò quella francese e solo nel 1942 fu abolito il divieto di adottare minorenni ma, ancora per alcuni anni, l’intero istituto restava finalizzato a soddisfare i bisogni successori e sociali dell’adulto. Nel 1967, finalmente, entrò in vigore la prima legge specifica sull’adozione, che prevedeva anche quella dei minori, denominata “adozione speciale”. Fu proprio in quell’anno che con la Convenzione di Strasburgo venne prevista, a livello europeo, la possibilità di garantire alla bambina o al bambino “in stato di abbandono” di diventare a pieno titolo figlio degli adottanti. Nonostante che il bisogno e l’opportunità di adottare ed essere adottati abbiano radici antiche, l’applicazione di questo istituto è diventata via via sempre più complicata. Lo stesso ministero della Giustizia, nel suo sito, definisce sin da subito tale procedura come “complessa”. I requisiti per l’adozione, secondo la legge n. 149 del 2001, in sintesi, sono: essere sposati da almeno tre anni, avere buona salute mentale e fisica e una buona stabilità economica. E ancora: “la differenza minima tra adottante e adottato è di 18 anni; la differenza massima tra adottanti ed adottato è di 45 anni per uno dei coniugi, di 55 per l’altro. Tale limite è derogato se i coniugi adottano due o più fratelli, ed ancora se hanno un figlio minorenne naturale o adottivo”. Non è prevista, tranne casi eccezionali, l’adozione per i single o per le coppie omosessuali. Fin qui i requisiti minimi, ma l’intera procedura - specialmente nel caso delle adozioni internazionali - è lastricata di ostacoli burocratici, valutazioni dei servizi sociali, sentenze di Tribunali e, sempre nel caso di quella internazionale, costi a carico della famiglia mediamente pari a circa 20.000 euro. Nel 2022 le adozioni internazionali andate a buon fine sono state 565, mentre le richieste che risultano ancora pendenti sono 2382. Venti anni fa, ricorda l’Istat, le adozioni internazionali erano state 3915. Secondo la Commissione Adozioni Internazionali, in sostanza, per adottare un figlio il tempo di attesa è di circa 4 anni e 5 mesi. Lo stallo attuale riguarda tanto l’Italia quanto gli altri Paesi, specialmente quelli in cui non vi è una qualche forma di stabilità di governo: si pensi che in Siria, dall’inizio del conflitto, le adozioni si sono di fatto fermate. A proposito di Siria e Turchia, pochi giorni fa l’Unicef ha sottolineato l’emergenza degli orfani terremotati: parliamo di migliaia di bambine e bambini sopravvissuti all’ennesima catastrofe che si è abbattuta in quei luoghi già terribilmente feriti. Migranti. Il decreto contro Ong e soccorsi in mare è legge. Protesta il Terzo settore di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 24 febbraio 2023 Burocrazia, cavilli, multe e blocco delle navi per fermare chi salva vite umane. Il governo dice di voler bloccare i trafficanti, per le organizzazioni il provvedimento colpisce solo la povera gente. Alla fine, senza nemmeno dover blindare il testo con la fiducia come aveva fatto alla Camera, a Palazzo Madama il governo ha portato a casa la conversione in legge del decreto in materia di immigrazione, passato a Montecitorio il 15 febbraio e la cui efficacia sarebbe scaduta il 3 marzo. Un provvedimento controverso (su cui si addensano i dubbi e le perplessità di giuristi, organizzazioni umanitarie, ma anche dell’Onu) fortemente voluto dalla Lega, che già nel primo governo Conte si era fatta promotrice dei discussi decreti Salvini. Introduce una stretta all’attività di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo portata avanti da diverse organizzazioni non governative. Nel voto finale in Senato, i sì a favore del testo sono stati 84, a fronte di 61 no. Muro su proposte opposizioni. Di mattina, all’inizio della seduta, le opposizioni hanno cercato di fare ostruzione sul piano tecnico, presentando una richiesta di “non passaggio” agli articoli sul decreto. Ma la richiesta è stata respinta, con 85 voti contrari, un astenuto e nessun favorevole. Alla medesima votazione i gruppi di opposizione non hanno partecipato per far mancare il numero legale. Mossa che non è bastata, perché in base al regolamento nel calcolo dei presenti vengono conteggiati anche gli assenti in congedo o missione. “Il numero legale c’è”, ha assicurato il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri. E così l’assemblea è passata alle votazioni sugli emendamenti al dl Ong presentati dai partiti di opposizione, bocciandoli tutti. Quindi ha esaminato gli ordini del giorno e infine ha dato il via libera al testo. Molteni: non criminalizziamo ong. Anche ieri, come nei mesi scorsi, il governo ha difeso il provvedimento. “Non si vuole criminalizzare nessuno, ma regolarizzare l’attività di soccorso in mare”, ha detto in Aula il sottosegretario all’Interno leghista Nicola Molteni, sostenendo che il provvedimento “pone regole di condotta in conformità alle regole del diritto del mare”. In ogni caso, ha aggiunto, “chiunque è in difficoltà nel mare va salvato, è un diritto sacro santo. In mare non si fa morire nessuno”. A parere di Molteni, “siamo l’unico paese che fa soccorsi in mare”, ma “la difesa dei confini è una prerogativa dello Stato” e su questo “non prendiamo lezioni da nessuno”. Mentre per Michele Barcaiuolo, capogruppo di Fratelli d’Italia nelle commissioni Esteri e Difesa del Senato, “l’obiettivo primario, per Fdi, è fermare le partenze e interrompere il business dei trafficanti: su questo continueremo a lavorare”. Renzi: norme populiste. Dai banchi delle opposizioni, sono piovute ancora una volta critiche e obiezioni taglienti. Un provvedimento “che trasuda populismo e non affronta i veri punti della crisi migratoria e del declino demografico”, considera il leader di Italia viva, Matteo Renzi. Gli fanno eco gli esponenti di Avs, che bollano il testo come “vergognoso” e incapace di affrontare la questione dei flussi migratori: “Una norma bandiera, ideologica e cinica, che ha un unico obiettivo chiaro, anche se non dichiarato, rendere impossibili i salvataggi in mare - incalza il capogruppo dell’Alleanza Verdi e Sinistra Peppe De Cristofaro -. Se il governo vuole impedire che le Ong si sostituiscano agli Stati c’è solo un modo: ripristinare la missione Mare Nostrum”. Per il senatore dem Graziano Delrio, il provvedimento è un “gran pasticcio” e serve “solo a fare la guerra alle Ong”. E il 5s Ettore Licheri ritiene che “violi la Costituzione”. Gli enti umanitari: barbarie di Stato. Ong, enti umanitari e realtà del Terzo Settore hanno accolto con un misto di indignazione e preoccupazione l’approvazione del testo. Per Emergency, “è inaccettabile, ora ne pagheranno il prezzo i naufraghi, lasciati al loro destino o al recupero della guardia costiera libica. Già nel 2022 - scrive l’associazione - 1.300 persone hanno perso la vita su quella rotta, mentre i naufraghi salvati dalle ong sono stati oltre 11mila. Noi, con la Life Support, proseguiremo nel soccorrere chi è in difficoltà”. Critica anche l’Arci, col responsabile immigrazione Filippo Miraglia, che parla di un provvedimento “propagandistico” e di una “brutta pagina per il Parlamento”, perché “diventa legge la barbarie di Stato”. Elenco di requisiti - La legge vincola le navi delle Ong a rispettare una lunga serie di requisiti, compreso il possesso di certificazioni e documenti rilasciati dallo Stato di bandiera. Debbono informare i migranti salvati sulla possibilità di richiedere la protezione internazionale, raccoglierne le generalità e fornirle alle autorità dopo lo sbarco. No a soste in mare - Non appena effettuato un salvataggio, le navi devono comunicare cosa è avvenuto e chiedere l’assegnazione di un porto di sbarco, da raggiungere quanto prima, senza fermate intermedie. Spesso però in questi mesi alle navi delle Ong vengono assegnati porti lontani dalla zona di salvataggio, rendendo più lunghi e faticosi il viaggio di approdo e il rientro nell’area di soccorso. Multe e fermo nave - Comandanti, gestori e proprietari delle navi che violano le norme rischiano multe da 10mila a 50mila euro, oltre al fermo amministrativo dello scafo per due mesi (a spese dell’armatore). In caso di reiterazione della violazione, scatterà la confisca. Anche se non si forniscono le informazioni richieste dalle autorità, sono previste sanzioni da 2mila a 10mila euro e il fermo amministrativo della nave per 20 giorni, prorogabile fino a due mesi. Scatta nei confronti della nave di Medici Senza Frontiere il primo provvedimento emesso contro una Organizzazione non governativa dopo l’introduzione del cosiddetto decreto ong, proprio oggi diventato legge. La comunicazione, arrivata solo in queste ore dopo lo sbarco del 17 febbraio scorso ad Ancona di 48 migranti a bordo, è stata riferita dallo stesso staff di Msf: “Le autorità italiane ci hanno comunicato che la Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere, è stata raggiunta da un fermo amministrativo di 20 giorni e una multa da 10mila euro. La Capitaneria di Porto di Ancona ci contesta, alla luce del nuovo decreto, di non aver fornito tutte le informazioni richieste durante l’ultima rotazione che si è conclusa con lo sbarco ad Ancona” Ma l’organizzazione sta adesso “valutando le azioni legali da intraprendere per contestare l’accaduto. Non è accettabile essere puniti per aver salvato vite”. Il provvedimento contro la Geo Barents rischia ora di innescare una nuova polemica da parte del mondo delle organizzazioni umanitarie impegnate nei salvataggi nel Mediterraneo, le quali già protestano contro il via libera definitivo del Senato al decreto. Quest’ultimo prevede determinate regole: tra queste il possesso da parte delle Organizzazioni di tutte le autorizzazioni rilasciate dalle competenti autorità dello Stato di bandiera e i requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione nelle acque territoriali. Inoltre sono obbligate a richiedere subito dopo il salvataggio l’assegnazione del porto di sbarco e in seguito immediatamente dirigersi verso la destinazione comunicata. Migranti. Piantedosi: “Abbiamo evitato il triplo degli sbarchi nel 2023” di Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2023 “Il governo, sin dal suo insediamento, ha messo tra le sue priorità quella del contrasto all’immigrazione irregolare”, ha dichiarato il ministro in un’intervista a Il Giornale. Dalla collaborazione con i Paesi del Nord Africa al codice di condotta per le ong, le iniziative dell’esecutivo non si sono però ancora tradotte in risultati concreti: al 22 febbraio 2023, gli arrivi nel Paese sono stati 12.667, più del doppio rispetto ai 5.273 del 2022 e oltre il triplo rispetto ai 4.156 del 2021. “Risultati importanti”. Così il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, parla riferendosi ai primi dati sui flussi migratori verso l’Italia nei primi quattro mesi di governo Meloni. Numeri, spiega, possibili soprattutto grazie alla collaborazione e al lavoro svolto in particolar modo dalle autorità tunisine e libiche che, rispettivamente, hanno bloccato 13mila e 9mila sbarchi. Circa 21mila in tutto. Ciò che però Piantedosi non dice, limitandosi a parlare di una “fase acuta della crisi”, è che rispetto allo stesso periodo del 2022 gli arrivi in Italia sono più che raddoppiati. “Di fronte a fasi acute di tali crisi, come quella che stiamo vivendo in questi giorni - spiega il ministro -, possiamo contrapporre soprattutto la nostra tradizionale organizzazione per mitigare l’impatto sull’ordine pubblico”. E ha poi voluto sottolineare che “il governo, sin dal suo insediamento, ha messo tra le sue priorità quella del contrasto all’immigrazione irregolare”. Le strategie seguite sono sostanzialmente due: come detto, pressione sui Paesi di partenza delle imbarcazioni lungo la rotta del Mediterraneo per prevenire rischiosi viaggi in mare e minor presenza delle ong impegnate nei soccorsi, considerate da più anime dell’esecutivo come un pull factor, un incentivo per i migranti ad assumersi i rischi della traversata. Una tesi, quest’ultima, che però viene smentita dai numeri. Mentre il ministro esulta per aver “impedito il triplo degli sbarchi”, come titola il quotidiano milanese, è il cruscotto statistico giornaliero del dicastero che lui stesso guida a raccontare una realtà diversa: al 22 febbraio 2023, gli arrivi nel Paese sono stati 12.667, più del doppio rispetto ai 5.273 del 2022 e oltre il triplo rispetto ai 4.156 del 2021. A quattro mesi dall’inizio dell’avventura governativa del centrodestra, durante i quali è già stato approvato il nuovo e più stringente codice di condotta per le ong impegnate nei salvataggi in mare, quindi, i risultati ancora non si vedono. Anzi, se paragonata a 12 mesi fa, la situazione è nettamente peggiorata. Ma il ministro, nella sua intervista, precisa: “Il nostro è un programma ambizioso che comporta azioni di lungo periodo che non possono essere giudicate dopo solo quattro mesi di impegno di questo governo, che pure qualche risultato tangibile su questo fronte ha cominciato a farlo intravedere”. Non in termini numerici, almeno per il momento. Migranti. Medici senza Frontiere: fermo di 20 giorni e multa alla nave Geo Barents di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 24 febbraio 2023 Il primo provvedimento emesso dopo l’introduzione del decreto ong. Alle 18.30 di giovedì il Senato ha approvato in via definitiva il decreto che introduce nuove norme per le Ong che effettuano salvataggi in mare. Alle 22.20 la Geo Barents - nave di ricerca e soccorso di Medici senza Frontiere - ha comunicato di aver ricevuto “un fermo amministrativo di 20 giorni e una multa da 10 mila euro”. La missione è quella che si è conclusa nel porto di Ancona una settimana fa quando la nave è approdata con a bordo 48 persone, tra cui 9 bambini. “La Capitaneria di Porto di Ancona ci contesta, alla luce del nuovo decreto, di non aver fornito tutte le informazioni richieste durante l’ultima rotazione che si è conclusa con lo sbarco”, spiegano da Medici senza Frontiere e poi aggiungono: “Stiamo valutando le azioni legali da intraprendere per contestare l’accaduto. Non è accettabile essere puniti per aver salvato vite”. L’approvazione delle nuove norme in Senato è arrivata con 84 voti favorevoli, 61 contrari e nessun astenuto. La Camera aveva già concesso il via libera e dunque la legge è operativa. In particolare il codice impone alle Ong di “raccogliere tempestivamente, previa informativa, le intenzioni dei migranti di richiedere la protezione internazionale” e di “richiedere, nell’immediatezza dell’evento, l’assegnazione del porto di sbarco e in seguito a raggiungere il porto di sbarco indicato dalle autorità senza ritardi, per completare il soccorso”. Inoltre “si deve fare in modo che le operazioni di soccorso non aggravino le situazioni di pericolo a bordo e non impediscano il raggiungimento del porto di sbarco”. In caso di “violazione di queste prescrizioni si applica al comandante della nave una sanzione amministrativa da euro 10.000 a 50.000. La responsabilità solidale si estende all’armatore e al proprietario della nave”. Al comandante della Geo Barents è stato contestato di aver violato la parte relativa alle informazioni da fornire alle autorità prima di arrivare ad Ancona. La nuova legge prevede che in caso di reiterazione sia disposta la confisca della nave che viene subito sequestrata. L’illusione che la guerra possa avere un vero vincitore di Mario Giro* Il Domani, 24 febbraio 2023 La guerra in Ucraina ha fermato definitivamente la globalizzazione. Già messa in discussione soprattutto in occidente per i suoi effetti negativi sul mercato del lavoro globale e sulla distribuzione delle produzioni e delle filiere mondiali, la globalizzazione non può sopravvivere in un contesto in cui a parlare sono le armi. Si è sempre detto che la guerra fa male ai commerci ma in questo caso li interrompe brutalmente, com’è accaduto alla nuova Via della seta realizzata dalla Cina, almeno per la sua parte terrestre che attraversa l’Europa. Intere filiere produttive vedono minacciate la propria esistenza per il brusco aumento dei costi dell’energia e il collasso del sistema dei trasporti in tutti i settori. L’inflazione mondiale non è mai stata così alta dall’inizio degli anni Novanta e tutte le previsioni di crescita post pandemia sono riviste al ribasso. Si calcola che le sanzioni imposte alla Russia per aver aggredito l’Ucraina avranno conseguenze durature riducendo ulteriormente le possibilità della ripresa globale. Certo non tutti i paesi saranno ugualmente penalizzati: alcuni gioveranno dell’accorciarsi delle catene del valore. Il movimento generale tende verso una sorta di reshoring, cioè di ritorno a casa delle produzioni che erano state appaltate all’estero grazie ai costi minori della manodopera o delle materie prime. Dalle mascherine ai semiconduttori, molti paesi stanno tentando di rimettersi a produrre in proprio ciò che avevano delegato altrove. Ciò partecipa all’aumento dei prezzi (il costo del lavoro - com’è noto - non è uguale ovunque) ma rimette in moto settori che sembravano abbandonati. Si parla anche dell’accorciamento delle filiere attraverso stati amici o liked minded, quelli che la pensano allo stesso modo. Così i sostenitori della “organizzazione delle democrazie” che prenda il posto dell’Onu, che non erano riusciti a convincere all’inizio degli anni Novanta trovano ora nuovo impulso nello sconnesso e fragile quadro multilaterale. Se ne è visto un assaggio con l’esclusione della Russia dal Consiglio dei diritti umani di Ginevra. La competizione cambia: nel quadro della ristrutturazione della manifattura, ad esempio, in prospettiva l’Italia dovrà vedersela molto meno con la concorrenza cinese o asiatica e molto di più con quella polacca, romena o messicana. Anche nel comparto agricolo stanno avvenendo mutamenti notevoli in Europa, con la rimessa a coltura di terreni, il superamento delle regole di rotazione delle colture suggerite dall’Eu e il tentativo di orientare alcune produzioni verso l’Africa. Energia - La guerra pone anche il problema dell’approvvigionamento di energia: come fare a meno del gas russo e in quanto tempo? Sembra che dopo un anno di guerra l’Europa abbia trovato il modo di sostituirlo. Particolarmente in Germania e Italia il dibattito è molto acceso: occorre evitare di dare un colpo di grazia al settore industriale già in sofferenza per i due anni di pandemia. La sostituzione con il gas americano, canadese, mediorientale, africano o caucasico è in corso ma necessita di tempo e, soprattutto, costa molto di più, fino a otto volte tanto. Mentre la Cina ha cercato di interpretare a suo vantaggio (riuscendosi largamente) tutti gli strumenti della globalizzazione allargando il suo raggio d’azione commerciale all’intero pianeta, gli Stati Uniti, già con la presidenza Obama e ancor più con quella Trump, si sono dimostrati sempre più scettici sull’apertura globale, prendendo in seria considerazione le conseguenze negative che quest’ultima stava avendo sul loro paese e sui loro alleati più stretti. In Europa la Germania è stata per lungo tempo sostenitrice della globalizzazione senza limiti, con un atteggiamento al contempo competitivo e cooperativo con Pechino. Da qui le asperità nelle relazioni tra Berlino e Washington, soprattutto per il fatto che il governo tedesco avesse incluso anche Mosca nella sua strategia espansiva, a causa del bisogno di energia della sua manifattura. Tali frizioni sono ancora in atto. Occorre tener conto che alla Russia non è mai apparso soddisfacente essere considerata soltanto come un provider di gas e petrolio e ha perseguito la spasmodica ricerca di un ruolo geopolitico globale rilevante che la ponesse in una relazione bilaterale alla pari con gli Stati Uniti che, dalla fine dell’Urss mai più concessa. In questa tensione attorno agli effetti della globalizzazione, sia il commercio che il mercato finanziario e quello delle tecnologie sono divenuti sempre più “politici”, sottoposti cioè alle tensioni geostrategiche in atto. Sulla globalizzazione non c’è stata politicamente una concordanza di vedute: se per la Russia (come in seguito per la Cina) è stata l’opportunità per issarsi al livello del cosiddetto primo mondo occidentale, quest’ultimo non ha voluto riconoscere tale possibile parità. C’erano valide ragioni per questo, in particolare l’idea che la democrazia è il sistema di governo più efficace e più rispettoso della dignità della persona e dei diritti umani. Tuttavia ciò celava anche un’idea di superiorità inaccettabile per gli altri protagonisti. La deglobalizzazione in atto è uno degli effetti per tale mancato incontro che forse non avrebbe comunque potuto realizzarsi. L’attuale fase del processo di destrutturazione e accorciamento delle catene del valore inizia con la ripresa di protagonismo della politica, a partire con il subordinare ogni scelta economica al vaglio della sicurezza nazionale. Non possedere produzioni proprie nei settori considerati vitali per la salvaguardia interna sta provocando il rimpatrio di intere produzioni ritenute sensibili. La globalizzazione si è così trasformata progressivamente da quel flat world - mondo piatto - descritto da Thomas Friedman, in un campo da gioco minato, competitivo e ostico, fino a diventare una vera e propria “macchina di conflitti” secondo la definizione di Alessandro Aresu. Nel mondo piatto tutto sarebbe dovuto avvenire senza avversità: catene lunghe o corte a seconda dei prezzi e della facilità di spedizione, nessuna concentrazione di produzioni, estrema volubilità delle scelte, niente stock in favore della gestione immediata delle merci, in una parola l’ottimizzazione dei costi e della gestione della distribuzione. Tale orizzontalità ha favorito l’Asia, e particolarmente la Cina che si è proposta come “fabbrica del mondo”. A quell’epoca quasi nessuno aveva obiettato che lasciare il monopolio di alcune produzioni ad un paese autoritario avrebbe potuto creare dei problemi. Tutt’al più ci si lamentava della concorrenza sleale sul costo del lavoro. La pandemia ha dimostrato che tale sistema poteva entrare facilmente in crisi alla prima vera emergenza: abbiamo assistito alla “battaglia delle mascherine” con cui anche gli Stati membri della stessa Ue si sono sfidati a colpi di sequestri. Improvvisamente i paesi hanno avuto la sensazione di poter contare solo su sé stessi: in momenti di emergenza la globalizzazione aveva improvvisamente smesso di funzionare. Con la guerra in Ucraina la diffidenza verso tale sistema è cresciuta ancor di più: è divenuto evidente che il binomio monopolio-autoritarismo può essere letale. Attualmente si generalizza il timore delle conseguenze delle concentrazioni produttive come, ad esempio, quella di semiconduttori tra Taiwan e Corea (zone a rischio conflitto) o quella di grano e mais tra Russia e Ucraina. Sfiducia nel sistema - Siamo giunti ad una nuova svolta storica che chiude la fase iniziata con la caduta del Muro di Berlino. È pur vero che in quel periodo si era pensato che la democrazia sarebbe stata la conseguenza dell’apertura del commercio. La democrazia liberale fondata sull’economia di mercato era considerata l’unico modello possibile: un mondo approdato alla “pax capitalistica” in cui gli Stati non avrebbero avuto interesse a farsi la guerra. Ma la tesi di Friedman secondo la quale “due paesi che hanno entrambi un McDonald’s non si sono mai combattuti”, si è dimostrata falsa, anche se molta dell’interconnessione forgiata durante questi trent’anni proseguirà. Ciò che verrà sicuramente meno è l’incondizionata fiducia che il sistema sia capace di produrre da solo pace e stabilità internazionale. Già con gli attentati del 2001 era apparso chiaro che molta parte del mondo non era interessata a farsi assorbire nel sistema globalizzato o perlomeno ne rifiutava le condizioni politico-culturali. Non c’era solo l’islam radicale ad opporsi ma quest’ultimo incarnava quella grammatica della rivolta che già agita molti popoli. Va detto che numerose forme di tale islam che ci siamo abituati a chiamare jihadista, rappresentano il simbolo generalizzato del rifiuto di un mondo unipolare e la reazione a condizioni economiche inique. Ad esso vanno aggiunte altri format di ribellione come i sovranismi, i populismi e tutti i modelli di identità separate e di secessione in atto oggi nel mondo. Ciò che accomuna tali diversi tentativi è il rigetto per le élite globali che hanno il controllo del sistema economico-finanziario, che spesso non coincidono con le élite politiche. Nel tempo l’occidente è rimasto spiazzato da tali rigetti perché pensava che sarebbe stato sufficiente il “vantaggio comparativo” concesso (a caro prezzo) alle altre regioni del mondo: consentire la delocalizzazione di milioni di posti di lavoro in cambio di un abbassamento generale dei costi. Il resto del mondo non ha accettato lo scambio: si è appropriato delle produzioni concesse e ha voluto molto di più costruendo una propria identità politica alternativa alle democrazie liberali, fino alla pretesa cinese di giungere al primo posto globale. L’occidente non si è reso subito conto che si stava indebolendo su due fronti: su quello interno perché la delocalizzazione ha importato dentro le sue mura rabbia e contestazione sociale; e su quello esterno perché concedendo opportunità commerciali stava accordando anche quelle politiche. Si è aperta così la strada per modelli alternativi come quello nazionalistico della Russia, dell’India o della Turchia ma anche dell’Ungheria di Orbán o dell’America di Donald Trump. Ritorno dell’antico - L’attuale fase declinante della globalizzazione si è trasformata per l’occidente - e in particolare per la sua politica estera - in una specie di Jurassic Park, dove improvvise contingenze estranee e caotiche paiono gestite da forze brutali e imprevedibili delle quali si era persa ogni memoria. Qualcosa di antico è tornato alla superficie della storia, rendendola anarchica e nuovamente tragica come la guerra in Ucraina dimostra. Il “nuovo ordine mondiale”, promesso all’inizio degli anni Novanta e al tornante del Millennio, non si è mai realizzato. L’occidente ha progressivamente perso peso fino a diventare meno rilevante. In medio oriente ora si impongono Russia, Iran o Turchia; in Asia la Cina è stata l’unica potenza a giovarsi degli effetti benefici delle libertà economiche mostrando sempre più assertività; in Africa dominano regimi autoritari e la democrazia fallisce, crescono flussi migratori incontrollati e rinascono vecchi conflitti; in America Latina il ciclo virtuoso si è fermato. Tale fallimento ha fatto rinascere il populismo nazionalista in Europa, i cui sintomi generali sono paura e debolezza: si fanno muri, ci si isola e ci si lamenta della perdita di potere e prestigio. Ma tutto ciò rappresenta un fake, vecchie ricette, già fallite e pericolose, che ottengono solo una crescita della tensione generale che diverrà prima o poi un boomerang. Tutto pare lecito per paura del declino. Com’è noto, la paura fa nascere mostri. In Europa immigrazione e crisi dell’islam sono stati percepiti come segnali di declino incipiente. Da qui ulteriori reazioni di spavento e ostilità, il terrore degli europei di essere “rimpiazzati” da nuovi popoli alieni e aggressivi. Da sempre gli spostamenti di popolazione hanno dato luogo a percezioni di “invasione” e di inquietudine, a qualunque latitudine. Vanno capiti ma non vanno né incitati né manipolati. L’incertezza del domani non è solo occidentale: è di tutti come la pandemia ha avvalorato. La guerra in Ucraina è una minaccia per tutti, come la penuria alimentare sta dimostrando. In un mondo così incerto la maggioranza dei cittadini si pone la medesima domanda: che ne sarà di noi? Ci saranno sempre più guerre e instabilità? Nuovi attacchi terroristici? Nuovi movimenti eversivi? Nuove crisi economiche? L’insicurezza pervade tutti i continenti. Un mondo fluido e incerto non è facile da gestire per sistemi autoritari che sono sempre rigidi. Malgrado la nostra percezione è invece il terreno giusto per le democrazie e per politiche come quella comune europea. Oggi le leadership europee dovrebbero avere il coraggio di cimentarsi sul grande dossier della pace in Ucraina, secondo lo stesso interesse europeo. Conflitto permanente - Nel frattempo - mimetizzata - la guerra ucraina prosegue e cerca di creare le condizioni (materiali e psicologiche) per il suo protrarsi, fino a diventare permanente. È questa l’ambizione massima: un mondo sempre in guerra, scosso da scontri, crisi o almeno contrapposizioni. Occorre concentrare l’attenzione sulla guerra stessa, sulla sua atroce essenza: essa non è soltanto uno strumento per affermare qualcosa (un’idea, una politica, un disegno strategico giusto o ingiusto che sia) ma è soprattutto un ingranaggio che si impadronisce del destino umano togliendogli il libero arbitrio. Quando si è in guerra, infatti, le scelte sono ridotte all’osso: combattere o perire. Per chi subisce le conseguenze del conflitto l’unica soluzione è tentare di sopravvivere, come accade oggi a tanti paesi attanagliati dalla crisi energetica o alimentare. È la guerra il vero nemico: rappresenta la follia del male che va arrestato al più presto. Più il conflitto dura e più si pongono le condizioni per quello successivo, cioè del ciclo infinito delle vendette. Ogni guerra prolungata crea le condizioni di quella successiva. Per capirlo basta un po’ di psicologia umana. Per questo va abbreviata e terminata quanto prima. Aver interrotto da circa vent’anni i processi di disarmo iniziati al tempo della distensione, ha portato all’aver di nuovo accettato la guerra come inevitabile compagna della storia umana. È tempo di tornare alla ragionevolezza del never again del secondo dopoguerra e ricominciare a disarmarsi a vicenda. Come tutte le guerre, anche la guerra in Ucraina copre nefandezze di ogni tipo (come le terribili stragi di Irpin e Bucha) e trasforma i combattenti in peggio. La guerra deturpa l’anima dei popoli che la fanno o la subiscono, anche di quelli che si difendono. L’esperienza insegna che i paesi che vi sono trascinati ne escono deteriorati, inaspriti, regrediti, degenerati. Per i cristiani si tratta di un terreno impraticabile: la guerra è sempre fratricida, nemica della vita umana, di ogni essere vivente e della natura: in una parola del pianeta intero, un male da abbreviare al più presto e ad ogni costo. Su questo concordano anche i laici, Kant lo diceva in modo semplice: “La guerra elimina meno malvagi di quanti ne crea”. Se ciò non è abbastanza convincente si pensi alle guerre fatte nell’ultimo trentennio: guerre nei Balcani, guerre del Golfo, Afghanistan, Siria, Libia, eccetera. Nessuna di esse ha risolto qualcosa, né ha corrisposto alle ragioni invocate per iniziarle, ma ha solo peggiorato le situazioni, creando altro caos. Si tratta di un’osservazione oggettiva a cui non si può sfuggire. Laddove si sono sviluppati tali conflitti, oggi non c’è né ordine, né stabilità, né riconciliazione, né democrazia ma covano solo odio, rancore e spirito revanscista. Quando esplodono i conflitti si è presi dall’abbaglio della guerra che risolve, della guerra giusta, per poi esserne sempre terribilmente delusi. Schierarsi è impulso comprensibile, soprattutto laddove c’è un’aggressione ingiustificabile come contro l’Ucraina. Subito dopo però occorre ragionare lucidamente. La sorgiva simpatia per il popolo ucraino aggredito e il rispetto per la sua resistenza sono condivisibili. Più problematica l’idea di prolungare la guerra verso un’improbabile vittoria: oltre a moltiplicare le sofferenze dei civili, si rischia di cadere nelle mani di chi vuole renderla perenne e manipola il caos. Tale ingranaggio è da evitare: non esiste nessun argomento convincente per il prolungamento, nemmeno quello della difesa della democrazia in Europa. La democrazia si difende davvero assicurando le ragioni (e la ragionevolezza) della pace anche di fronte all’aggressore, contenendo e poi spegnendo il suo infondato revanscismo vittimistico. Alla fine occorrerà comunque convivere: non si convive in stato di perenne conflitto ma solo in pace. Questa è la lezione della storia europea e la ragione profonda della nascita dell’Unione europea. *Politologo La crociata della prof curda paladina dei diritti umani: ha salvato 92 perseguitati di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 24 febbraio 2023 Sevgi Dogan, oggi ricercatrice della Normale di Pisa, è tra le promotrici in Italia del network Scholars at Risk per i docenti dei regimi totalitari. La censura in Turchia e la lotta per la libertà di pensiero. Non passa giorno che Sevgi Dogan non pensi a quei colleghi. Perché anche loro fanno parte del suo vissuto, sono schegge della sua anima. Spesso li conta. Novantadue, per ora. Liberi e salvi. Protetti dall’ostracismo, dall’integralismo, dall’odio e dalla censura. “Adesso sono davvero docenti, ricercatori, scienziati. Ora possono manifestare il loro pensiero senza rischiare la vita”, spiega Dogan, 43 anni, origini curde, una vita trascorsa in Turchia, dove ha conosciuto anche la censura, e adesso ricercatrice alla Scuola Normale di Pisa. La dottoressa Dogan non ha solo meriti accademici: dal 2008 si batte per garantire la libertà d’insegnamento agli studiosi costretti a vivere in regimi totalitari o in Paesi in guerra e cerca di farli ospitare in nazioni democratiche. “Sono tra le promotrici in Italia - racconta la docente - di Scholars at Risk, un network internazionale con sede a New York che si batte per questi diritti inalienabili. Come curda ho conosciuto anch’io la repressione intellettuale. Avevo nove anni quando dal Kurdistan la mia famiglia, di religione alevita, si trasferì in Turchia. Mio padre e mia madre nascondevano il loro credo, c’erano tensioni anche a sfondo religioso, ma io non capivo. Consideravo questa tacere come un’ingiustizia. E mi sono ribellata. Ho avuto problemi con alcuni compagni integralisti, ma anche protezione da altri amici sunniti. Anche loro non capivano questo atteggiamento. Poi all’università è arrivato un altro grave problema”. La petizione - Siamo nel 2002. Sevgi Dogan, studentessa universitaria modello, firma una petizione nel suo ateneo di Istanbul per chiedere al governo di introdurre nelle scuole lo studio della lingua curda. “Non era - ricorda la ricercatrice - una questione politica, ma culturale, quella civiltà apparteneva anche alla Turchia. Mi hanno allontanato dall’università per un anno. E quel provvedimento è diventato uno stigma. Non potevo ambire all’insegnamento, non potevo fare ricerca. Io sognavo un Paese più libero e mi ritrovavo con le mani legate”. Il concorso vinto - Poi, per fortuna, Sevgi trova un ateneo più laico ad Ankara, dove prosegue gli studi. Ed è qui che decide di partecipare a un concorso per un dottorato di ricerca all’estero. Sceglie l’Italia, Pisa, la prestigiosa Normale, ateneo d’eccellenza. “Non sapevo una parola d’italiano e soprattutto credevo che le lezioni fossero in inglese - continua la ricercatrice -. Studiavo la vostra lingua tutto il giorno, ho pianto per la fatica ma ce l’ho fatta. Nel 2016, dopo il colpo di stato in Turchia, inizio ad occuparmi di Scholars at Risk. C’erano almeno cinquecento persone licenziate dagli atenei turchi per le loro idee, dovevamo salvarle. Insieme a Ester Gallo dell’università di Trento, Claudia Padovani e Francesca Kelm dell’ateneo di Padova, creiamo una struttura italiana del network statunitense e l’anno dopo iniziano le adesioni degli atenei italiani. Oggi sono 36 che ospitano i perseguitati e i licenziati delle università delle nazioni a rischio. Arrivano da Turchia, Afghanistan, Iran, Yemen. E ancora, con la guerra, dall’Ucraina ma anche dalla Russia dove molti intellettuali manifestano dissenso al regime di Putin”. Costrette a stare in casa - Le storie sono tante, a volte incredibili, strazianti nella loro drammaticità. Ci sono ricercatrici iraniane che a Teheran, dopo essere state cacciate da ogni tipo di scuola, erano costrette a stare in casa e adesso a Padova sono tornate a fare il loro prezioso lavoro. E ancora ci sono curdi, afghani. E all’ateneo di Trento due professori russi con le loro due figlie, finiti in prigione a Mosca per aver firmato una petizione contro Putin. “Ne abbiamo salvati 92, per ora - continua la ricercatrice - ma bisogna fare molto di più. Alcuni Stati come Francia, Germania, Stati Uniti hanno creato un fondo nazionale per aiutare questi perseguitati. Anche in Italia sta nascendo qualcosa di importante. Spero così che il mio sogno diventi realtà”. Qual è il sogno della dottoressa Sevgi Dogan? “Avere un mondo - risponde - nel quale la libertà di pensiero e di ricerca sia uno dei comandamenti inviolabili. E la scienza, in tutte le sue manifestazioni, possa volare senza pregiudizi e divieti ideologici”. Argentina. La guerra frontale tra il governo e la Corte suprema di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 24 febbraio 2023 Al centro il processo a Cristina Kirchner, la riforma della giustizia e le tasse regionali Con l’esecutivo peronista che accusa i giudici di lavorare per l’opposizione di destra. In Argentina è scontro frontale tra il potere giudiziario e quello esecutivo. Una crisi istituzionale che si è trasformata in un conflitto politico a pochi mesi dal voto che in ottobre designerà il nuovo presidente che dovrebbe sostituire Alberto Fernandez, giunto al suo ultimo anno di mandato ma con una popolarità ormai a pezzi. L’economia è in forte recessione, l’inflazione si avvicina al 100% mentre sulla sua gestione pesano gli scandali e i processi per corruzione che hanno travolto la vice presidente Cristina Kirchner. Il governo peroniosta accusa la magistratura di favorire l’opposizione di destra guidata dall’ex presidente Mauricio Macrì. Fin dall’inizio della sua amministrazione, Fernández ha proposto al Congresso una radicale riforma del sistema giudiziario federale, tuttavia il progetto non ha avuto una vita lunga. Da quel momento in poi la tensione tra la Casa Rosada e la giustizia è cresciuta esponenzialmente. Il culmine si è raggiunto il 6 dicembre scorso, quando la vicepresidente è stata condannata a 6 anni di carcere. Dopo solo 15 giorni, la Corte Suprema ha dato torto al governo in una causa intentata dalla città di Buenos Aires, in mano all’opposizione, sulla distribuzione nazionale del denaro delle tasse. A fine gennaio Fernández ha convocato sessioni straordinarie del Congresso per discutere una richiesta di impeachment contro 4 giudici della Corte Suprema. A tutto questo si aggiunge un progetto per portare a 15 il numero dei magistrati dell’Alta corte. L’attacco del governo e dell Alleanza peronista al potere (Frente de Todos) si basa su un accusa di scarso rendimento. In parole povere i giudici vengono indicati come coloro che portano attacchi arbitrari ai poteri costituzionali assegnati, cioè ai rami esecutivo e legislativo. Ma esiste anche una questione riguardante l’effettivo potere politico della Corte che ha dichiarato incostituzionale una legge del 2006, con quel provvedimento la Suprema era stata esclusa dal Consiglio della magistratura, l’organo che elegge e giudica i giudici. In questa maniera una legge abrogata dal Congresso è stata così riportata in funzione. Ma è anche la stessa giustizia a non godere di buona salute, un fatto che fa comprendere perché si sta combattendo questa guerra senza esclusione di colpi. Lo dimostra un recente sondaggio realizzato dall’Università di San Andrés dal quale emerge che il 59% degli intervistati ha dichiarato di avere un’immagine pessima della magistratura. A questo punto il pericolo maggiore e che la crisi si avviti bloccando il funzionamento delle istituzioni, infatti se e vero che il governo ha i voti sufficienti per formare una commissione che porti avanti l’impeachment contro i giudici, e altrettanto vero che l’accusa non sembra poter andare molto lontano. Insieme per il Cambiamento, la coalizione che riunisce la destra, ha già anticipato che respingerà l’iniziativa peronista perché ritiene che minacci l’ordine repubblicano. E se il governo insisteva nelle sue intenzioni, ha minacciato di paralizzare il Congresso. Come ha riconosciuto il presidente della Corte Suprema Horacio Rosatti, il problema è che la magistratura assume su di sé conflitti che la società e la politica non sono in grado di risolvere. In questa maniera i cittadini vedono “che la giustizia si muove lentamente, non correttamente o che non agisce a loro favore”. Rosatti ha definito ciò come una “giudiziarizzazione dei conflitti”. L’esempio più lampante è la distribuzione delle tasse federali Nel 2016, il governo di Macri ha aumentato dall’ 1,4% al 3,75% la quota corrispondente alla città di Buenos Aires, sua principale roccaforte elettorale. Arrivato alla Casa Rosada, una delle prime misure di Fernandez fu quella di abbassare quella percentuale. Il risultato fu che la vicenda finì in tribunale.