Comprendere la portata e la finalità del “carcere duro” di Cesare Mirabelli interris.it, 23 febbraio 2023 La larga attenzione dedicata dalle cronache e dai commenti al “caso Cospito” ha suscitato nuovo interesse sulla applicazione del trattamento previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, sintetizzato con qualche improprietà come “carcere duro”. Sono emerse opinioni contrapposte sia nella valutazione della applicazione di queste misure allo specifico caso, sia più in generale sulla opportunità o meno di mantenere, abrogare o modificare questa disposizione. Per comprendere la portata e la finalità dell’art. 41 bis, è utile ricordare che esso consente la sospensione delle normali regole di trattamento dei detenuti e trae origine dalla necessità di far fronte a casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, con lo scopo di ripristinare l’ordine e la sicurezza in istituti penitenziari o in parte di essi, adottando misure che possono essere imposte dal Ministro della giustizia per la durata strettamente necessaria a questo fine. Su questa base normativa è stata successivamente innestata l’estensione del medesimo schema per detenuti o internati per gravi reati di tipo mafioso o in collegamento con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. In questi casi la finalità è di rispondere ad esigenze di ordine e sicurezza, anche esterne al carcere, impedendo le possibilità di collegamento con l’associazione criminale. Le misure restrittive sono disposte con un provvedimento del Ministro della giustizia, eventualmente su richiesta del Ministro dell’interno, sentito il Pubblico ministero e acquisite informazioni presso la Direzione nazionale antimafia. La deroga al normale trattamento detentivo può essere disposta per quattro anni, prorogabili successivamente ogni due anni se permangono il rischio di collegamento con l’organizzazione criminale. Il provvedimento che dispone le misure restrittive, o che le conferma, ha carattere amministrativo. Contro di esso può essere proposto reclamo al Giudice di sorveglianza, la cui decisione è suscettibile di ricorso alla Corte di cassazione. Non manca, quindi, la necessaria tutela giurisdizionale. L’art. 41 bis prevede la detenzione in istituti di pena che assicurino particolare sicurezza interna ed esterna, custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria. Prevede inoltre diverse limitazioni sia nella vita interna all’istituto penitenziario, con la riduzione della permanenza all’aria aperta e della possibilità di contatti con altri detenuti, sia nei rapporti con l’esterno, ammettendo rarefatti colloqui con i familiari, soggetti a registrazione e videosorveglianza, censura della corrispondenza, limitazioni nelle somme e negli oggetti che è possibile ricevere dall’esterno. Non sono mancati dubbi sulla compatibilità di questa disposizione con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte di Strasburgo ha ritenuto che ragioni di sicurezza pubblica possono giustificare, in linea di principio, l’adozione di misure particolari per fronteggiare l’obiettiva pericolosità di singoli detenuti. Tuttavia le misure devono essere rigorosamente giustificate e non possono comunque consentire trattamenti che, anche solamente di fatto, per le modalità con le quali sono applicati, risultino inumani o degradanti. Sulla stessa lunghezza d’onda la Corte costituzionale, per la quale limitazioni di diritti fondamentali dei detenuti in regime differenziato possono essere ammesse solamente in quanto non siano dirette determinare un sovrappiù di punizione, bensì esclusivamente dirette a contenere la persistente pericolosità di singoli detenuti, autori di gravi reati, impedendo loro il collegamento con le organizzazioni criminali di appartenenza. Le limitazioni devono essere adeguate e proporzionate rispetto a questo scopo, non irragionevolmente gravose, e non devono risolversi in trattamenti contrari al senso di umanità e tali da vanificare la finalità rieducativa della pena. La soluzione del “caso Cospito”, per la cui valutazione è necessaria una approfondita conoscenza dei fatti documentati, è rimessa alla giurisdizione. Sarà la Corte di cassazione a valutare se è adeguata la motivazione del Tribunale di sorveglianza che ha respinto il suo reclamo contro il provvedimento del Ministro. Rimane aperta la riflessione sul catalogo delle misure che l’art. 41 bis consente, sulla loro adeguatezza e proporzionalità, sulla loro possibile modulazione in rapporto alla concreta situazione. Sarebbe opportuno un approfondimento sereno, che non è agevolato dalla contrapposizione pregiudiziale delle diverse opinioni e, ancor più, da forzature, turbolenze e manifestazioni di piazza. Il caso Cospito tra etica e diritto di Massimo Greco altalex.com, 23 febbraio 2023 In attesa della decisione della Cassazione sull’istanza di revoca del 41-bis, una riflessione sul diritto del detenuto di rinunciare al proprio nutrimento fino all’estrema conseguenza. Sono diverse le questioni che orbitano attorno all’anarchico Cospito detenuto in regime di 41-bis, ma quella che si porrà a breve con notevole impatto politico e sociale è connessa al suo stato di salute. Noto è infatti lo sciopero della fame che lo stesso sta portando drammaticamente avanti nel tentativo di vedersi revocate le limitazioni insite nel citato regime detentivo. Nel caso in cui la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi il prossimo 24 febbraio, dovesse respingere l’istanza di revoca del 41-bis appositamente formulata dall’interessato, la scelta a cui sarà chiamato lo Stato, e per esso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sarà quella di consentire, o meno, al detenuto Cospito di rinunciare volontariamente alla propria nutrizione fino al raggiungimento delle infauste conseguenze. Il principio costituzionale che soccorre e che sarà utilizzato per calibrare la migliore risposta, è contenuto nell’art. 32 che così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Pertanto, se è riconosciuto al cittadino il diritto di autodeterminarsi nella scelta delle cure e delle relative terapie, è riconosciuto, specularmente, anche quello di non curarsi, fatta eccezione per quei soli casi, espressamente previsti dalla legge, in cui la tutela della salute individuale è strumentale ad un interesse collettivo (tali sono il trattamento sanitario obbligatorio e l’obbligo vaccinale). In assenza di una specifica legge che possa limitare tale diritto, il detenuto Cospito è, di conseguenza, autorizzato a lasciarsi morire, in considerazione che l’alimentazione artificiale è considerato un trattamento sanitario, come tale non imponibile coattamente, e che l’obbligo dell’Amministrazione Penitenziaria di tutelare la salute, nonché il bene della vita dei reclusi in sciopero della fame, può considerarsi assolto attraverso la semplice sottoscrizione del cosiddetto “consenso informato”. A questo punto appare certo che lo Stato, in assenza di una specifica legge di segno diverso, non può impedire ad una persona (affetta da gravi patologie o in stato di detenzione come per il caso in questione) di esercitare liberamente il diritto all’autodeterminazione di non curarsi più, ovvero di non nutrirsi più, fino al verificarsi della consapevole (e spesso premeditata) cessazione delle proprie funzioni vitali. In forza del citato art. 32 della Costituzione, l’intervento dello Stato si giustifica quando, e nella misura in cui, la salute dell’individuo diventa d’interesse collettivo, come per i noti casi dell’obbligo vaccinale e del trattamento sanitario obbligatorio. Tuttavia, la portata valoriale del “l’interesse collettivo” a cui correlare la salute dell’individuo non è confinata alle sole ricadute sanitarie ma anche ai risvolti sociali, com’è avvenuto in un altro ambito, qual è quello della sicurezza stradale, in cui la persona che si trova alla guida di un autoveicolo senza indossare la cintura di sicurezza, o che si trova alla guida di un motociclo senza indossare il casco, è sottoposto a precise sanzioni pecuniarie previste dal Codice della Strada allo scopo di ridurre il più possibile le pregiudizievoli conseguenze, dal punto di vista della mortalità e della morbilità invalidante, degli incidenti stradali (Corte cost. sent. n. 49/2009). Appare evidente che in questi casi lo Stato interviene per tutelare un interesse collettivo collaterale a quello della salute individuale messa a repentaglio dall’incauto conducente. Lo Stato, che non riceve evidentemente alcuna diretta lesione, è infatti certo di doversi occupare comunque dello stesso trasgressore perché finito, nella migliore delle ipotesi, in ospedale e bisognoso delle correlate prestazioni (curative e riabilitative) offerte dal Sistema sanitario pubblico. In tale contesto, è stato affermato che “Non può difatti dubitarsi che tali conseguenze si ripercuotono in termini di costi sociali sull’intera collettività, non essendo neppure ipotizzabile che un soggetto, rifiutando di osservare le modalità dettate in tale funzione preventiva, possa contemporaneamente rinunciare all’ausilio delle strutture assistenziali pubbliche ed ai presidi predisposti per i soggetti inabili. Le misure dirette ad attenuare le conseguenze che possano derivare dai traumi prodotti da incidenti, nei quali siano coinvolti motoveicoli, appaiono perciò dettate da esigenze tali da non far reputare irragionevolmente limitatrici della “estrinsecazione della personalità” le prescrizioni imposte dalle norme in questione” (Corte cost. sent. n. 180/1994). Applicando questa cornice interpretativa al caso Cospito, viene da chiedersi se non sia d’interesse collettivo per lo Stato l’eventuale somministrazione coatta di alimenti artificiali e trattamenti sanitari in caso di perdita della coscienza del detenuto. Se non sia un costo sociale per lo Stato, quello di non potere impedire che Cospito possa ottenere la revoca del “41 Bis” attraverso il ricatto del perpetrato digiuno o quello di non potere impedire che lo stesso possa diventare un martire, così alimentando la diffusione di disordini e manifestazioni di matrice anarchica. E, infine, se non sia un costo sociale per lo Stato quello di non riuscire a scongiurare l’effetto emulativo tra i detenuti per mafia al medesimo regime che nella sola Sicilia superano i 230 boss, l’ultimo dei quali si chiama Matteo Messina Denaro. Tirano su Delmastro e dimenticano Cospito di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 febbraio 2023 Giusto chiedere le dimissioni del sottosegretario ma no agli attacchi alla persona, come fare muro umano, anche se virtuale, per impedirgli di entrare in commissione. Sovrapposti piano politico e giudiziario. Sul 41 bis la destra di Fratelli d’Italia e la sinistra di Verini e Serracchiani la pensano proprio allo stesso modo. Dovrebbero darsi pacche sulle spalle, invece di denunciarsi a vicenda. Si è invece sviluppata una guerriglia urbana con una presa di posizione dell’intera opposizione contro la persona Andrea Delmastro. Sì, la persona, perché fare un muro umano, pur se virtuale, per impedire al sottosegretario di entrare nell’aula della commissione giustizia, minacciando l’uscita di massa dalla medesima all’apparire del reprobo, è un attacco personale. Legittima e politica è la richiesta di dimissioni. Ma l’assalto a una singola persona ha in sé qualcosa di violento, di poco democratico. Da tre giorni il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro non può entrare né nelle commissioni giustizia di Camera e Senato né nell’aula dei due rami del Parlamento. Glielo impedisce il muro umano e politico delle opposizioni. La verità è che gli uni non hanno ancora ben assimilato la cultura di governo. E gli altri confondono l’opposizione con la guerriglia urbana. Quelli del Pd perché, essendosi ormai abituati da tempo a governare pur avendo perso le elezioni, pensano che l’opposizione debba essere più muscolare che cerebrale. E quelli dei Cinque Stelle vedono la realtà solo con la lente giudiziaria. E i capigruppo di Camera e Senato di FdI Foti e Malan fanno a loro volta muro nella difesa del loro collega. Così il caso del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro diventa un pasticcio senza capo né coda, perché è un po’ politico e un po’ giudiziario e un po’ da assalto reciproco alla diligenza. Il punto di partenza è una inopportuna spifferazione di notizie riservate ma non secretate tra il membro di governo e un collega di partito, il deputato Giovanni Donzelli, che ne fa un uso propagandistico e aggressivo nell’aula di Montecitorio. Contro il Pd, con un capovolgimento di ruoli, come se il partito di Enrico Letta fosse al governo e a Fratelli d’Italia spettasse il compito di sparare a vista dall’opposizione. Così si finisce poi, come sempre ormai in Italia, in tribunale. Ci pensa uno che dovrebbe appartenere a un’area politica in cui le garanzie dovrebbero essere sacre, e invece pare trovarsi più a proprio agio in procura che all’aria aperta. È infatti il verde Angelo Bonelli a caricarsi dell’onere e dell’onore di denunciare Andrea Delmastro e anche a ottenere che questi venga immediatamente iscritto nel registro degli indagati per violazione e divulgazione del segreto d’ufficio. E intanto il Pd, offeso dalla domanda di Donzelli “dovete dirci se state con lo Stato o con la mafia”, ha subito attivato l’istituzione di un giurì d’onore, un organismo di giurisdizione interna che si è riunito ieri e che dovrà fare giustizia della domanda infamante. Non si tratta ovviamente di mettere in discussione le legittime, e obbligate in un certo senso, visite dei parlamentari e consiglieri regionali alle carceri, per verificare le condizioni di detenzione delle persone recluse. E neanche di escludere, nel momento in cui si incontrano condannati anche per reati gravi, la necessità di dare loro la stessa attenzione riservata a tutti gli altri. I parlamentari del Pd, tre deputati (la capogruppo Debora Serracchiani, l’ex ministro Andrea Orlando, Silvio Lai) e il senatore Walter Verini, responsabile giustizia del partito, rivendicano questo ruolo. E non accettano l’insinuazione di avere in qualche modo, nella visita all’anarchico Cospito nel carcere di Sassari, incoraggiato il suo digiuno come momento di battaglia politica e in un certo senso anche “trattato” il tema dell’abolizione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario con un paio di detenuti per reati di mafia. Se questo pensa dei parlamenuna tari del Pd il deputato Donzelli, ha proprio sbagliato la mira e l’obiettivo. Sul 41 bis la destra di Fratelli d’Italia e la sinistra di Verini e Serracchiani la pensano proprio allo stesso modo. Dovrebbero darsi pacche sulle spalle, invece di denunciarsi a vicenda. Perché, se il punto di partenza si è verificato nell’aula del Parlamento, quello di arrivo, fino a ora, si è allargato fino ai piani superiori sia di Montecitorio che di Palazzo Madama, dove ci sono le aule delle commissioni, i luoghi veri dove si costruiscono le leggi. Ed è stato lì che si è sviluppata la guerriglia urbana con presa di posizione dell’intera opposizione contro la persona Andrea Delmastro. Sì, la persona, perché fare un muro umano, pur se virtuale, per impedire al sottosegretario di entrare nell’aula della commissione giustizia, minacciando l’uscita di massa dalla medesima al solo apparire sulla soglia del reprobo, è un attacco personale, non più politico. Legittima e politica è la richiesta di dimissioni. Anche l’Aventino ha la sua dignità, come forma di protesta rispetto a qualche provvedimento di legge o anche al metodo di lavoro del governo e della maggioranza. Esempio tipico è l’abbandonare l’aula per protesta contro l’eccessivo ricorso da parte di un governo al voto di fiducia. O alla decretazione d’urgenza. Ma l’assalto a una singola persona ha in sé qualcosa di violento, di poco democratico. Proprio come l’atto di sfiducia individuale, inaugurato proprio dal Pd nel 1995 nei confronti del ministro guardasigilli Filippo Mancuso che aveva inviato gli ispettori agli uomini del pool Mani Pulite di Milano. Al momento del voto quella volta i senatori del Polo delle libertà abbandonarono l’aula in segno di protesta. Ben altra dignità, e tra loro c’erano anche quelli di Alleanza Nazionale, veri garantisti. Ora non c’è più questa chiarezza di ruoli. Il Parlamento sembra un ring di pugili suonati che delegano ancora una volta la decisione alle toghe. “Delmastro presunto innocente”. L’arringa di Nordio alla Camera di Valentina Stella Il Dubbio, 23 febbraio 2023 “Interrogato” dal 5Stelle De Raho, il ministro della giustizia difende ancora il sottosegretario di Fratelli d’Italia: “Sareste a rischio tutti, se ci si dovesse dimettere per un avviso di garanzia”. “Le dimissioni di Delmastro? È un’aspirazione velleitaria e metafisica, il fatto che l’informazione di garanzia possa costituire un oggetto di dimissioni”. A Carlo Nordio non si può certo contestare l’eleganza nelle arringhe, lui che da pm era abituato a pronunciare requisitorie. “Diversamente”, ha aggiunto il guardasigilli durante il question time alla Camera in cui ha blindato nuovamente la posizione del suo sottosegretario a via Arenula, “devolveremmo all’autorità giudiziaria il destino politico degli appartenenti all’assemblea, che oggi riguarda l’onorevole Delmastro, e un domani potrebbe riguardare ciascuno di voi”. Il ministro della Giustizia era stato interrogato dal Movimento 5 Stelle, che aveva chiesto di rimuovere dall’incarico governativo il responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia. L’accusa è ormai nota: l’affaire Donzelli, il collega di partito che lo scorso 31 gennaio aveva riportato, nell’Aula di Montecitorio, le conversazioni svelate tra Alfredo Cospito e due “compagni di detenzione” affiliati alla camorra e alla ‘ndrangheta, dopo aver saputo di quei colloqui proprio da Delmastro delle Vedove, ora indagato dalla Procura di Roma per rivelazione di segreto d’ufficio. E a proposito dell’indagine in corso, Nordio ha aggiunto: “Per quanto poi riguarda l’intervento della magistratura, noi siamo rispettosissimi e attendiamo con fiducia quello che è l’esito dell’indagine che riguarda l’onorevole Delmastro”. Ha ricordato che “la classificazione della natura segreta, riservata, per legge appartiene all’autorità che forma il documento. Spetta al ministero definire la qualifica degli atti. E su questi abbiamo già risposto”. Ossia: gli atti divulgati dal sottosegretario Delmastro non sono segreti. Il ministro ha anche replicato che “se la qualifica della segretezza dell’atto non dovesse più dipendere dall’autorità che forma l’atto, cioè dal ministero, ma devoluta all’interpretazione della magistratura, potrebbe crearsi una problematica, da risolvere in altra sede”. Quale? Fonti ministeriali ipotizzano la Consulta. Il deputato 5 Stelle Federico Cafiero de Raho, primo firmatario dell’interrogazione, ha replicato al guardasigilli sottolineando che “la revoca non deve avvenire perché uno è indagato ma perché ha assunto un comportamento scorretto che viola la legge in quanto l’atto era segreto”. Le opposizioni, Pd incluso, avevano chiesto la rimozione di Delmastro già prima che si venisse a sapere dell’indagine avviata dalla Procura. “Siamo insoddisfatti, ministro”, ha concluso de Raho, “non solo perché la sua risposta è incompleta ma perché ci delude in quanto lei ha un obbligo di chiarezza. E poi in un momento come questo è impensabile che si divulghino notizie riservate per attaccare una parte politica avversa”. Si è espressa con una nota anche la capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra alla Camera Luana Zanella: “Il ministro Nordio insiste nel difendere la libera circolazione delle informazioni passate dal sottosegretario Delmastro al coinquilino e deputato Donzelli. Dunque chiediamo perché quelle stesse carte non siano state date in visione ai nostri Angelo Bonelli e Marco Grimaldi che le hanno chieste con un regolare accesso agli atti”. Non si placano, insomma, le polemiche, dopo che nei giorni scorsi abbiamo assistito già a una pesante contestazione da parte delle opposizioni proprio nei confronti di Delmastro, la cui presenza è stata rifiutata nelle commissioni di Camera e Senato e anche in Aula, nella veste di rappresentante del guardasigilli. Il question time su Delmastro/Donzelli/Cospito si è intrecciato nello stesso giorno con l’attività del Gran Giurì riunito alla Camera in vista di una relazione che dovrà essere depositata in aula entro il 10 marzo per fare luce proprio sulla “valenza” delle parole pronunciate da Donzelli a Mopntecitorio a fine gennaio: quel giorno il parlamentare di FdI lanciò una durissima accusa contro i dem, da lui ritenuti colpevoli per essere andati a trovare in carcere l’anarchico. L’organo parlamentare dovrà valutare se si è verificata la lesa onorabilità degli esponenti dem. Per ora sui lavori della Commissione non trapela nulla perché è stato posto il segreto. Ma questo non ha impedito all’ex ministro dem della Giustizia Andrea Orlando di dire, dopo essere stato audito dal Gran Giurì: “Se andare a fare una visita in carcere fosse la causa della lesione dell’onorabilità dei parlamentari, e mi auguro questo non avvenga, sarebbe un vulnus all’istituto stesso, che nel corso degli anni ha portato risultati positivi. Il prossimo parlamentare al quale viene in mente di andare a fare una visita ci pensa due volte. Difendere questa pratica è difendere una molla che nel corso degli anni ha costituito uno stimolo a migliorare la situazione degli istituti di pena”, ha concluso Orlando, che aveva fatto visita a Cospito insieme agli altri parlamentari dem Serracchiani, Verini e Lai. Nordio difende Delmastro e sfida i pm: “Sulla segretezza degli atti decido io” di Francesco Grignetti La Stampa, 23 febbraio 2023 Il ministro sull’ipotesi dimissioni: “Aspirazione velleitaria e metafisica”. Attacco alle toghe: pronti al conflitto di poteri. Lo scudo di Carlo Nordio per il “suo” sottosegretario indagato, Andrea Delmastro, non potrebbe essere più totale. Quanto più si alza la temperatura politica, con le opposizioni che minacciano l’aventino se soltanto si provasse il sottosegretario a partecipare ai lavori parlamentari, tanto più il ministro della Giustizia si sente in dovere di ergersi a sua difesa. E stavolta, alla Camera, passa al contrattacco. Attaccando a muso duro la procura di Roma che sta indagando. E Delmastro, forte di questa difesa senza se e senza ma, si prepara a tornare appieno nel ruolo. Un discorso che trasuda l’orgoglio di essere al governo, da Nordio. Il ministro rivendica infatti a sé il potere di decidere che cosa è segreto e cosa no. “La classificazione della natura - segreta, riservata, riservatissima o altro - per legge appartiene all’autorità che forma il documento, quindi spetta al ministero”, dice. E siccome quelle carte che Delmastro ha mostrato al suo amico e compagno di partito Giovanni Donzelli secondo il ministero non sono segrete, “quello che non è segreto non rientra tra gli atti dei quali si sta oggi parlando”. Epperò la questione non è così pacifica. Anche perché un conto è la disciplina del segreto di Stato, altro il segreto d’ufficio. La magistratura sta appunto procedendo per violazione di questo secondo tipo di segreto. Ma ciò, per l’ex magistrato Nordio, è un’inammissibile invasione di campo. Lo dice esplicitamente: “Se la qualifica della segretezza o meno dell’atto non dovesse più dipendere dall’autorità che forma l’atto, cioè dal ministero, ma dovesse essere devoluta alla interpretazione della magistratura potrebbe crearsi una problematica che potrebbe e dovrebbe essere risolta in un’altra sede”. Lascia intuire, insomma, che se la procura andrà avanti, pur di difendere l’operato di Delmastro, il governo e anche lui sono pronti a sollevare conflitto di poteri davanti alla Corte costituzionale. Un’ipotesi che lascia di stucco Federico Cafiero de Raho, che fino a qualche mese fa era Superprocuratore e oggi è deputato M5S e firma l’interrogazione a Nordio: “Per me - dice - è pacifico che Delmastro abbia violato la legge e mi meraviglia questa posizione del ministro. Il segreto di Stato si appone documento per documento a seconda della delicatezza per la sicurezza dello Stato. Altro è il segreto d’ufficio, che scatta automaticamente per grandi categorie e non rientra tra le competenze del ministro pro-tempore. Quelle note che il sottosegretario ha divulgato sono atti riservati, a priori”. Nella sua difesa di Delmastro e nell’attacco alla magistratura, però, il ministro Nordio affronta anche il problema delle dimissioni, richieste a gran voce dall’opposizione, e riprende un suo storico cavallo di battaglia, come ha scritto infinite volte in passato: “È una aspirazione velleitaria e metafisica - scandisce alla Camera - che la spedizione di un’informazione di garanzia possa costituire un oggetto di dimissioni. Se così fosse, noi devolveremmo all’autorità giudiziaria il destino politico degli appartenenti a un’assemblea che oggi riguarda l’onorevole Delmastro, e un domani potrebbe riguardare ciascuno di voi”. Ecco il Nordio che tutti conoscono. Il polemista che da sempre sostiene come la magistratura abbia esondato dal suo alveo, occupando un ruolo che non ha, e per colpa di una politica troppo remissiva. Ovviamente questa impostazione piace moltissimo a chi oggi è sotto botta. Il deputato Giovanni Donzelli, coordinatore nazionale di FdI, per esempio, esce dall’audizione del Giurì d’onore, e commenta trionfante: “Nordio è sempre stato molto lineare, ha sempre avuto la stima di tutta la maggioranza e continuerà ad averla. Mi sembra una dichiarazione in linea con quello che ha sempre detto”. È sempre più vicino, insomma, il momento dello scontro con la magistratura. Il ministro conclude così: “Questo Governo e, anche e soprattutto questo Ministro, anche per chi ha letto i miei interventi anche in momenti precedenti, è profondamente convinto che vi sia la necessità di una profonda revisione dell’ordinamento giudiziario”. “Atti segreti? Lo decido io”. Nordio blinda Delmastro di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 febbraio 2023 Il ministro ribadisce: “Non è la magistratura che può decidere la qualifica dei documenti”. Il vice presidente del Copasir Donzelli audito per più di un’ora dal Gran giurì. Se la magistratura indaga per violazione di segreto d’ufficio il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove in relazione agli atti sul caso Cospito ceduti al suo coinquilino, il vice presidente del Copasir Giovanni Donzelli, che poi li ha usati in Aula alla Camera per attaccare i deputati dem, “rei” a suo dire di aver visitato in carcere il detenuto anarchico quando era in sciopero della fame da più di 80 giorni, non è cosa che sembra turbare minimamente il ministro Nordio. “La classificazione della natura segreta, riservata, per legge appartiene all’autorità che forma il documento. Spetta al ministero definire la qualifica degli atti”, ha affermato il Guardasigilli durante il question time snobbando l’inchiesta e alzando nuovamente una cortina di ferro a difesa dei due fratelli d’Italia Delmastro e Donzelli. “Se la qualifica della segretezza dell’atto - ha precisato Nordio tornato momentaneamente nei panni del garantista - non dovesse più dipendere dall’autorità che forma l’atto, cioè dal ministero, ma devoluta all’interpretazione della magistratura, potrebbe crearsi una problematica”. Intanto ieri il Giurì d’onore ha effettuato tutte le audizioni fin qui previste: i deputati del Pd Debora Serracchiani, Silvio Lai e Andrea Orlando, a cui si è aggiunto il senatore Valter Verini che aveva chiesto di essere ascoltato, e nel pomeriggio lo stesso Giovanni Donzelli che ha risposto alle domande per più di un’ora. Nulla traspare sulla seduta di ieri perché il presidente Sergio Costa (M5S) ha imposto sui lavori “il segreto” (se ancora qualcosa vuol dire). L’ex Guardasigilli Andrea Orlando però ha riferito di aver voluto difendere “l’istituto delle visite in carcere dei detenuti da parte dei parlamentari perché se andare a fare una visita ai detenuti in carcere fosse la causa della lesione dell’onorabilità dei parlamentari, e mi auguro che questo non avvenga, sarebbe un vulnus anche all’istituto stesso che nel corso degli anni ha portato a risultati positivi”. Al momento non sono calendarizzate altre audizioni ma Costa si riserva di convocare altri parlamentari non appena saranno pronti e controllabili i resoconti stenografici delle deposizioni di ieri, altrimenti il Gran giurì (composto anche da Fabrizio Cecchetti della Lega, Annarita Patriarca di Forza Italia, Alessandro Colucci di Noi Moderati, e Roberto Giachetti del Terzo Polo) passerà all’elaborazione della relazione finale da inviare in Aula entro il 10 marzo, nella quale si stabilirà se l’accusa di aver leso l’onorabilità dei deputati dem sia fondata o meno. Conseguenze? Praticamente nessuna: la Camera dovrà semplicemente prendere atto del verdetto “senza dibattito né votazione”, come recita l’art. 58 del Regolamento di Montecitorio. Dunque se Donzelli al massimo rischia una tiratina d’orecchi, il sottosegretario Delmastro può contare invece sul ministro Nordio. Il quale, come ha sottolineato lo stesso vice presidente del Copasir appena terminata la sua audizione davanti al Gran giurì, “ha sempre avuto la stima di tutta a maggioranza” ed è rimasto “in linea con quanto aveva sempre detto su questa vicenda”. Così, al M5S che chiedeva le dimissioni di Delmastro, Nordio ha potuto rispondere - senza temere la reazione “manettara” della Lega - che “è una aspirazione velleitaria e metafisica che la spedizione di un’informazione di garanzia possa costituire un oggetto di dimissioni. Se così fosse - fa notare il ministro - noi devolveremmo all’autorità giudiziaria il destino politico degli appartenenti a un’assemblea, che oggi riguarda l’onorevole Delmastro e un domani potrebbe riguardare ciascuno di voi”. Poi, conclude Nordio, “per quanto riguarda l’intervento della magistratura, noi siamo rispettosissimi e attendiamo con fiducia quello che è l’esito dell’indagine che riguarda l’onorevole Delmastro”. Eppure non tutto torna: se le cose stanno così, insiste la capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra alla Camera Luana Zanella, “perché quelle stesse carte non siano state date in visione ai nostri Angelo Bonelli e Marco Grimaldi che le hanno chieste con un regolare accesso agli atti?”. Albamonte: “Le sue parole sono intimidatorie. Non può sostituirsi alla legge” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 23 febbraio 2023 L’ex presidente dell’Anm: “Se è riservato o meno lo decide un giudice. Rapporti compromessi per la riforma? Non sia una spada di Damocle”. “Le parole di Nordio mi sembrano inesatte dal punto di vista tecnico-giuridico e inopportune, per essere generosi, da quello politico”, dice Eugenio Albamonte, pm romano, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e oggi segretario di Area, principale corrente progressista delle toghe. Perché inesatte? “Non è il ministro che decide se un atto è riservato o no. Lo stabilisce la legge, che delinea per ogni atto pubblico natura e regime di divulgabilità a seconda della funzione”. In questo caso, però, parliamo di atti dello stesso ministero della Giustizia… “Il discorso non cambia. Nemmeno per un atto formato nel ministero, il ministro può sostituirsi alla legge”. Il ministro, però, ha ripetutamente, e in Parlamento, spiegato che per lui gli atti passati da Delmastro a Donzelli non erano segreti… “Il ministro ha interpretato la legge in un certo modo. È una sua facoltà. Ma quando la questione della riservatezza di un atto diventa elemento costitutivo di reato, l’interpretazione ultima della legge spetta all’autorità giudiziaria”. Ma è giusto che l’interpretazione di un pubblico ministero prevalga su quella del governo e del Parlamento? “Il pubblico ministero in prima battuta. Ma poi, sia che chieda l’archiviazione sia che ravvisi un reato da perseguire, sarà un giudice, se non più di uno, a dare l’interpretazione definitiva. Questo è un sistema equilibrato. Altrimenti ciascuno si fa la legge per sé. Vale per tutti, ministro compreso”. Perché contesta le frasi di Nordio sul piano politico? “Per una ragione di inopportunità. Come al solito, si parte da un apparente riconoscimento della sfera di autonomia delle decisioni dell’autorità giudiziaria, che però diventa un attimo dopo una formula di stile”. In che senso? “Nel senso che poi si esprime un sillogismo che lo contraddice e annulla: io sono il ministro, l’atto è del ministero, io decido se è riservato, io decido se c’è reato”. Con quali conseguenze? “Il corollario sottinteso è: se l’autorità giudiziaria decide diversamente, questo è un problema”. Che tipo di problema? “Appunto. Poiché il ministro ha penetranti poteri sui magistrati, sia ispettivi sia disciplinari, se non specificata l’espressione ipotizza una attività di interferenza al punto da assumere connotati dal vago sapore intimidatorio”. Non può trattarsi semplicemente di esplicitare un possibile conflitto tra poteri? “Allora meglio specificare, uscire da un’ambiguità pericolosa quando chi parla ha poteri così rilevanti”. Il ministro si è già esposto molto. Sarebbe imbarazzante una diversa valutazione da parte della magistratura… “Come sempre c’è forte immedesimazione politica tra ministri e sottosegretari. Per evitare fraintendimenti, un self restraint sarebbe auspicabile, anche in termini di prudenza. Evitando di anticipare valutazioni di altri poteri”. C’è un ulteriore problema nell’uso politico che si è fatto di questi atti? “Non in questa fase. Prima il giudice deve valutare il regime di riservatezza. Poi eventualmente, se la violazione di segreto è aggravata da finalità come profitto per sé o danno ingiusto per altri. Ma se non c’è reato, tutto ciò diventa questione politica, non giudiziaria”. Questa vicenda inasprisce i rapporti governo-magistratura? “Voglio pensare che non siano condizionati da una singola valutazione giudiziaria. Altrimenti governo e parlamento potrebbero usare la minaccia di riforme come una spada di Damocle”. Delmastro, Nordio contro i pm: si rischia la Consulta di Antonella Mascali e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2023 Il ministro minaccia un conflitto di attribuzione Ecco la circolare Dap del 2019 su cui si basano le accuse al sottosegretario. Dopo gli attacchi generali ai pm, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, passa a quelli specifici e alza ancora il tiro. Ieri, alla Camera, ha fatto un chiaro riferimento all’inchiesta dei magistrati di Roma che stanno indagando per rivelazione di segreto d’ufficio il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove di FdI, dopo che il collega di partito, Giovanni Donzelli, ha riportato in aula una serie di conversazioni tra l’anarchico Alfredo Cospito e alcuni detenuti al 41-bis come lui. Colloqui contenuti in una relazione del Dap, richiesta dal sottosegretario. Per difendere la poltrona di Delmastro, il ministro dice che non può essere la magistratura a decidere se questo documento sia segreto. “Spetta al ministero definire la qualifica degli atti dei quali si sta parlando”, ha detto ieri. E lo ha già ribadito più volte in queste settimane: per lui non c’è alcuna riservatezza, quindi i magistrati devono alzare le mani altrimenti “potrebbe crearsi una problematica che potrebbe e dovrebbe essere risolta in un’altra sede”. Ossia davanti alla Corte costituzionale dove si discutono i conflitti di attribuzione. Il messaggio di Nordio alla Procura di Roma parte durante la risposta a un’interrogazione parlamentare dei deputati M5S, primo firmatario l’ex procuratore Federico Cafiero de Raho, su cosa stesse facendo per rimuovere dal suo incarico Delmastro. Proprio nulla dato che Nordio ribadisce: quell’informativa “non era segreta”. E così, durante il suo intervento, il ministro avvisa i pm romani: “Siamo rispettosissimi e attendiamo con fiducia l’esito dell’indagine che riguarda Delmastro, però se la qualifica della segretezza o meno dell’atto non dovesse più dipendere dall’autorità che forma il documento, cioè il ministero, ma dovesse essere devoluta all’interpretazione della magistratura, potrebbe crearsi una problematica che dovrebbe essere risolta in un’altra sede”. Ovviamente le dimissioni di Delmastro non sono in agenda: “È un’aspirazione velleitaria e metafisica che un’informazione di garanzia debba portare alle dimissioni - ha aggiunto il Guardasigilli. Se così fosse sarebbe la magistratura a decidere” il destino dei parlamentari: “Oggi tocca a Delmastro, domani potrebbe toccare a ciascuno di voi”. Le dimissioni non sono per l’indagine penale, ribatte Cafiero, ma per “il comportamento scorretto”. L’ex magistrato si dice “deluso” dal ministro anche per la mancanza nelle risposte della “lealtà che vuole la Costituzione” e aggiunge che quelle informazioni sui colloqui di Cospito sono state usate “per attaccare avversari politici”. Il riferimento è a Donzelli, che in aula, dopo la lettura dei colloqui di Cospito, poiché una delegazione parlamentare del Pd era andata a visitare l’anarchico in sciopero della fame, si era spinto a dire: “Voglio sapere se la sinistra sta con lo Stato o con i terroristi?”. Intanto parallelamente al dibattito politico di queste settimane proseguono, nel massimo riserbo, le indagini della Procura di Roma dove Delmastro è indagato. Il nocciolo dell’inchiesta riguarda un aspetto: il documento che conteneva le conversazioni di Cospito con alcuni detenuti era segreto o meno? Il sottosegretario ne poteva parlare al collega Donzelli? Nei giorni scorsi Nordio ha spiegato che si trattava di “una scheda di sintesi del Nic (Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, ndr)…”, e che i documenti avevano la dicitura “a limitata divulgazione”, formulazione “inidonea a connotare il documento come atto classificato”. Impostazione che non sembra condivisa dai pm romani. Nel capo di imputazione a Delmastro inoltre si fa riferimento a una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del 2019. Secondo quanto risulta al Fatto sarebbe quella del 19 dicembre di quell’anno firmata dall’allora capo del Dap, Francesco Basentini. Si tratta di una circolare che interviene sul protocollo “Calliope”, un sistema informatico di gestione documentale che in sostanza riguarda l’utilizzo di una posta elettronica certificata per inviare e ricevere documenti all’interno dell’amministrazione. A un certo punto, anche per la divulgazione di notizie sui giornali, Basentini decide di scrivere la circolare, ora all’attenzione dei pm, che riguarda i “nuovi registri di ‘limitata divulgazione’”. Vi era infatti la necessità di garantire, esplicitamente, che non circolassero determinate categorie di atti perché il protocollo informatico “Calliope” non prevedeva una gestione documentale riservata. La circolare dunque elenca gli atti che devono essere contenuti nei registri a “limitata divulgazione” e tra questi, ad esempio, si fa riferimento anche alla legge n. 241 del 1990 che riguarda i documenti per i quali è escluso il diritto di accesso. In ogni modo, per gli investigatori, potrebbe essere proprio questa circolare a conferire segretezza al documento al centro dell’indagine. Quando è stato interrogato nei giorni scorsi Delmastro ha respinto le accuse: davanti ai magistrati ha infatti ribadito di aver agito nella legalità, che non vi era alcun contenuto riservato. Vedremo se ha convinto i pm. Per i quali adesso potrebbe aprirsi un nuovo fronte: quello del conflitto di attribuzioni di poteri davanti alla Consulta. O almeno così pare aver fatto intendere ieri il ministro Nordio. Sangermano alla guida della Giustizia minorile e di comunità. Via libera del Csm Corriere Fiorentino, 23 febbraio 2023 Il Consiglio superiore della magistratura ha dato via libera alla nomina di Antonio Sangermano alla guida del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità del ministero guidato da Carlo Nordio. Il Plenum ha approvato infatti all’unanimità il collocamento fuori ruolo dell’attuale procuratore del Tribunale dei minorenni di Firenze che ora può assumere formalmente l’incarico in Via Arenula lasciando la guida della Procura per i minori del capoluogo toscano. Fiorentino, 57 anni, Sangermano è in magistratura dal 1994 ed è esponente della corrente di Magistratura Indipendente. Ha lavorato per 6 anni alla procura di Milano ed è stato procuratore facente funzioni a Prato. L’assoluzione e la penitenza di Marcello Pesarini transform-italia.it, 23 febbraio 2023 Mentre infilavamo le giacche con il senso di compiere un dovere per l’assemblea che stavamo per tenere, tenuti come si è tutt’ora al vestito d’ordinanza nella Camera dei deputati, Giulio e io ci guardavamo negli occhi sperando che quella conferenza stampa per illustrare la situazione sul risarcimento dell’ingiusta detenzione subita da lui e decine di migliaia di persone e la Pdl del Partito Radicale sarebbe servita a qualcosa. Era il 12 maggio del 2011. Per comprendere bene di cosa stiamo parlando è necessaria un’operazione di ricostruzione storica, che andrebbe adottata in Italia invece di soffiare sui venti del revisionismo che si basa in primis sull’espulsione della lotta di classe dalla storia del Novecento e da quella attuale. Giulio Petrilli, aquilano, viene arrestato il 23 dicembre del 1980, a 21 anni, con l’accusa di essere uno dei capi di Prima Linea, l’associazione che sta proseguendo, nell’immaginario collettivo, le delittuose imprese delle Brigate Rosse. All’indomani del 9 maggio 1978, dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana, il terrorismo si trovò di fronte un Paese compatto e soprattutto si accorse di avere sbagliato i conti su un proletariato e un sottoproletariato pronti a insorgere. Non è questo il luogo delle analisi; è sufficiente ricordare che negli ultimi anni ‘70 la repressione e il clima di allarmismo e delazione per la sicurezza dello Stato compiono un salto di livello notevole, in una situazione ben differente dagli anni di mobilitazione di massa, dal ‘68 e dall’autunno caldo. Gli stessi tempi vengono ora ricordati come epoche di terrore imposto dall’estrema sinistra, cosa completamente priva di fondamento, con la cittadinanza ingabbiata da mancanza di prospettive e rappresentanza. Sarebbero da ricordare numerosi episodi raccontati soprattutto negli ultimi 10-20 anni, con ricostruzioni “ad usum delphini” per la loro strumentalità, fino alla vittoria della nazionale di calcio ai mondiali del 1982 con il presidente Pertini in tribuna ricordati come l’uscita da un tunnel senza fine. Per dimostrare quanto queste ricostruzioni giochino sulle memorie corte, è del 1980 la famosa marcia del 40.000 della FIAT che determinò la reazione alle lotte dell’autunno caldo. Così Giulio, come altre e altri, subisce la repressione di Stato. Viene condannato a 8 anni di reclusione, che sconterà in gran parte nel circuito “speciale”. Cambierà un numero spropositato di carceri. I suoi racconti, che uniscono estrema dignità alla denuncia della sofferenza che ha lasciato segni su di lui, uniscono il freddo fisico a quello umano che ha provato, con numerosi episodi di poca considerazione dei disturbi anche cardiaci, alta pressione, mai tenuti nella giusta considerazione. Dopo 5 anni e 8 mesi di carcere speciale, in appello viene assolto. Assoluzione confermata poi dalla Cassazione. Quando uscirà sarà un altro e anche il suo rapporto con i diritti di cui usufruire in qualità di ingiustamente condannato e poi assolto risentiranno dello stordimento provocato da simile detenzione. Infatti non potrà usufruire del risarcimento entrato in vigore nel 1989 per chi è stato condannato ingiustamente, perché la legge non è retroattiva. Su questa difformità nell’applicazione della legge egli ha costruito una lunga battaglia politica, rilevando che su ben 4 milioni e mezzo di persone vittime di errori giudiziari, solo 25.000 hanno ottenuto il risarcimento. Da uomo libero ma sempre legato alla sua sofferenza lo incontro nella mia qualità di allora responsabile della giustizia per Rifondazione Comunista delle Marche. Costruiamo le basi per la “lotta di lunga durata”. Fra i firmatari dei primi appelli tanti compagne e compagni di alta coscienza civile: Haidi Giuliani, Luigi Manconi, Nichi Vendola, Elisabetta Laganà, Elettra Deiana, fra gli altri. Il primo appuntamento è il 12 maggio 2011, alla Camera dei deputati. Erano presenti gli onorevoli Rita Bernardini (PR), Giovanni Russo Spena (PRC), Sandro Favi (PD), Giulio Petrilli e il sottoscritto suo collaboratore. Titolo dell’iniziativa era il seguente: “Introdurre la retroattività nella legge sulla riparazione per ingiusta detenzione”. La nostra battaglia smosse numerose opinioni e Giulio fu molto bravo in Abruzzo, col suo carattere limpido, a coinvolgere in vari modi tante persone legate alla politica, alla magistratura e alla società civile. Va evidenziato che la giustizia italiana ha con sé molte aberrazioni, fra le quali il continuo ricorrere all’emergenza senza mai abolire i provvedimenti precedenti. Per questo motivo sarebbe molto edificante se l’attuale governo di destra vedesse venire a galla le incongruenze nella sua maggioranza fra i partiti giustizialisti, quelli garantisti per comodo, e quelli “cerchiobottisti”. Quanto il centrosinistra ha male amministrato e rinviato, col fallimento degli Stati Generali del ministro Orlando, potrebbe esplodere per conflitti di interessi nel momento in cui si considera pericoloso per lo Stato l’anarchico informale Alfredo Cospito, si spostano gli sbarchi delle navi che trasportano rifugiati per evitare i “taxi del mare” e si assolve Berlusconi per un reato pruriginoso che adesca l’opinione pubblica più della sua conduzione politica e finanziaria. Attraverso una ristretta applicazione della Pdl radicale all’interno della finanziaria 2012, Petrilli si è visto negare qualsiasi riconoscimento al risarcimento perché, date le sue frequentazioni, non è stato ritenuto dalla Giustizia pentito di ciò per cui era stato accusato. Nel 2015, l’epoca degli Stati Generali, ci siamo rivolti al Ministro Orlando. Si è giunti, grazie al presentatore onorevole Gianni Melilla di SEL, con il ddl 2871 recante “Modifiche agli articoli 314 e 643 […] ingiusta detenzione” a quello che potrebbe essere l’atto costruttivo e risanatore di tante sofferenze e parzialità. Le istanze sono state accolte in visione senza però nessun incontro. Nel frattempo sarà cura di Petrilli e dei suoi collaboratori in Emilia-Romagna, in Abruzzo, in Lombardia, per citare alcuni collegi di avvocati, raccogliere quanti più esempi di ingiusta detenzione non risarcita con le più svariate motivazioni, o non richiesta dagli assolti per sfiducia nello Stato. Si va da Calogero Mannino, deputato della Democrazia Cristiana, già ministro di più governi, a Raffaele Sollecito che ha passato 4 anni in carcere per il noto omicidio di Meredith Kercher, è stato considerato sempre in base all’art. 314 “non collaborativo e causa di errori” nei confronti dei giudici. Riportiamo le iniziali di F.T., G.M., i quali hanno avuto forti decurtazioni per comportamenti che invece non avevano costituito fonte d’imputazione. Nel 2019, dopo la sentenza della commissione europea alla quale si era rivolto con la collaborazione di Eleonora Forenza, PRC, il percorso si ferma di nuovo perché non esiste una legge europea sul tema. Siamo al giorno d’oggi, quando dopo lettere al presidente del consiglio Conte e alla ministra della giustizia Cartabia, tentiamo la strada della senatrice Ilaria Cucchi, la cui ricostruzione dell’uccisione fra le sbarre del fratello Stefano è tristemente nota, ed è stata un esempio assieme a quella della madre di Federico Aldrovandi, di quanto sia pericoloso e difficile sollevare il pesante lenzuolo che copre i comportamenti illegali, colpevoli e segnale di mala giustizia compiuti dalle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni. Il 15 dicembre 2022 presenta a firma sua e di Giuseppe Di Cristoforo, entrambi di Alleanza Verdi Sinistra Italiana, ai quali presto si aggiunge il senatore Fina del PD, un’interrogazione a risposta scritta, nella quale si chiede, tra l’altro “se non ritenga opportuno intervenire per avviare le interlocuzioni necessarie alla modifica della norma contenuta nell’art. 314 del codice di procedura penale, introducendo una formulazione che consenta l’effettivo risarcimento di tutti coloro che hanno subito un’ingiusta detenzione, limitando al contempo la discrezionalità del giudicante nella valutazione della condotta tenuta dal detenuto; quali altre azioni intenda adottare per rendere il procedimento di risarcimento per ingiusta detenzione celere ed efficace, nel rispetto delle prerogative costituzionali nazionali e internazionali”. Nei giorni scorsi, come riportato da abruzzoweb.it il 15 febbraio, il senatore Fina ha sollecitato il Governo a rispondere sulla questione. Stiamo già preparando mozioni d’indirizzo in alcuni Consigli regionali, convinti che al superamento di queste gravi incongruenze nella legislazione italiana si debba accompagnare una riflessione sempre rimandata sugli anni delle grandi lotte operaie e civili italiane a cui sono seguiti gli “anni di piombo”. Ci attanaglia la constatazione che la coscienza democratica di quel periodo non sia più presente e che sempre più spesso sia necessario affidarsi a personaggi dello spettacolo per prendere posizioni civili e forti, mentre abbiamo vissuto periodi in cui le masse incarnavano queste condotte di vita e i personaggi più noti erano all’interno di questo movimento. Modena. 40enne si uccide in carcere. La penitenziaria: “Ogni anno in Italia sventiamo 1.700 suicidi” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 23 febbraio 2023 La vittima è originaria del Ferrarese. Si è tolto la vita inalando gas da una bomboletta. È una piaga che non accenna a fermarsi ma continua anzi a dilagare. Parliamo dei suicidi all’interno dei penitenziari Italiani. L’ultimo si è verificato proprio all’interno del carcere Sant’Anna: da quanto si apprende a perdere la vita è stato un 40enne di Portomaggiore, nel ferrarese. L’uomo, Fabio Romagnoli sarebbe deceduto a seguito delle esalazioni da gas provenienti da un fornello da campeggio ma gli accertamenti - per stabilire le esatte cause della morte - sono ora in corso. Il 40enne era in carcere in attesa di giudizio: era accusato di stalking nei confronti della sua ex compagna e, una volta rinviato a giudizio, era stato posto ai domiciliari. Lo scorso anno, però, il 40enne era evaso e per questo nei suo confronti era scattato l’inasprimento della misura cautelare, con il trasferimento in carcere. A scoprire quanto accaduto è stato un agente della polizia penitenziaria: quando il poliziotto ha aperto la cella per far accedere Romagnoli al turno di lavoro, infatti, lo ha trovato accasciato a terra. Accanto al cadavere il fornello che esalava ancora odore di gas. Subito sono scattati i soccorsi e il medico del carcere, trasferito il detenuto in infermeria, ha provato a rianimarlo, ma il 40enne è morto poco dopo al pronto soccorso. Ora sull’episodio la Procura ha aperto un fascicolo e nei prossimi giorni sarà disposta l’autopsia sulla salma del detenuto per capire se sia trattato di un gesto volontario - come si sospetta appunto - o se Romagnoli abbia provato a stordirsi con il gas, una pratica diffusa nelle carceri che nel 2002 costò la vita ad altri due detenuti. “L’uomo è stato soccorso dalla polizia penitenziaria - sottolineano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario nazionale - ma non c’è stato niente da fare. L’insano gesto ha portato alla morte del detenuto. Ricordiamo che ogni anno la polizia penitenziaria salva la vita a circa 1.700 detenuti che tentano il suicidio in carcere”. A Modena si sono registrati nell’ultimo anno 126 atti di autolesionismo, 1 suicidio, 28 tentativi di suicidio e 82 aggressioni. Chieti. Detenuto muore in cella. “Era gravemente malato” chietitoday.it, 23 febbraio 2023 Voci di dentro parla di una morte annunciata: “Era ristretto nonostante il medico del carcere, già prima di Natale, avesse definito il detenuto in condizioni non compatibili con il regime carcerario”. Un detenuto di 60 anni è morto nella notte tra lunedì e martedì nel carcere di Chieti, dopo aver avuto un malore. Nonostante i compagni di cella siano intervenuti prontamente chiamando l’infermiera di turno, che ha fatto tutto il possibile per salvarlo, non c’è stato nulla da fare: all’arrivo del 118 l’uomo era deceduto, allungato sul pavimento della cella. A diffondere la notizia è l’associazione Voci di dentro, che opera nelle carceri e fuori con i detenuti, parlando di “una morte annunciata” L’uomo, a quanto si apprende, era ristretto da alcuni mesi nel carcere di Madonna del Freddo nonostante il medico del carcere, già prima di Natale, avesse definito il detenuto in condizioni non compatibili con il regime carcerario. “Zio Nicola, così come lo chiamavano in sezione, era diabetico, pluri-infartuato, aveva subìto due operazioni a cuore aperto, angioplastica e sostituzione valvola aortica, 75% di invalidità. Incensurato, aveva sessant’anni che ha speso a lavorare onestamente. Aveva lavorato nella cura dello stadio di Lanciano e nel supporto alla squadra di calcio. Un giorno di luglio 2022 - raccontano - si è visto prelevare da casa dai carabinieri che lo hanno accompagnato in carcere per l’esecuzione di una pena di due anni e due mesi. Dal momento che era per un reato ostativo non ha trovato nessun magistrato coraggioso abbastanza per concedergli una pena alternativa al carcere”. Già dopo i primi due mesi di carcere l’uomo aveva iniziato ad avere attacchi epilettici con i compagni detenuti della sezione intervenuti più volte per aiutarlo e far poi chiamare i medici che portavano il detenuto in ospedale. Cavilli burocratici hanno rinviato la fissazione della camera di consiglio per la concessione degli arresti domiciliari, proposta dal suo avvocato. “I magistrati di sorveglianza - proseguono da Voci di dentro - hanno rigettato la sua richiesta perché consideravano che fosse curabile in carcere. Eppure secondo gli stessi medici del carcere le sue condizioni era incompatibili con il regime detentivo. Non commentiamo la decisione che sicuramente è stata presa su basi legali solide ma esprimiamo il nostro disappunto sulla rigidità di un sistema cieco ed insensibile alle necessità dei più deboli, che non hanno i mezzi economici per farsi sentire”. Il giorno dopo il rigetto, lo zio N. ebbe un’altra ischemia questa volta proprio nella saletta socialità: dopo l’ennesima visita in ospedale, la sera era di nuovo in sezione. All’inizio di febbraio 2023 un’altra ischemia con lo stesso risultato ed epilogo fino alla notte tra il 20 e il 21 febbraio quando l’uomo ha avuto un altro attacco, questa volta fatale. “Il sistema giudiziario ha fatto un’altra vittima, ha trasformato una condanna a due anni e due mesi di reclusione in una condanna a morte! Una morte annunciata, prevedibile e, forse, evitabile. E se non evitabile certamente sarebbe potuta avvenire in un contesto più decente, stretto dai suoi familiari” scrivono i suoi compagni di sezione in una lettera, “vogliamo trasmettere le condoglianze alla famiglia e vogliamo sensibilizzare le autorità competenti ad una valutazione più personale e meno burocratica delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane”. Palermo. “Il carcere dimenticato da Comune e Asp”. Detenuti senza carta d’identità e medici di Salvo Palazzolo La Repubblica, 23 febbraio 2023 Dialogo fra gli ospiti di Pagliarelli e gli studenti di Giurisprudenza. Fiandaca: “Andrebbero rieducate le istituzioni”. Bernardini: “Troppe assenze dietro le sbarre”. “La politica non ha fatto tutto ciò che era possibile per dare risorse alle carceri”. Non usa mezzi termini il professore Giovanni Fiandaca, il garante siciliano dei diritti dei detenuti. “Le istituzioni dove sono?”, rilancia Rita Bernardini, storica attivista del Partito Radicale. Nel grande teatro della Casa circondariale di Pagliarelli va in scena un confronto senza precedenti: da una parte gli studenti universitari, dall’altro i detenuti. Un’iniziativa fortemente voluta dal presidente del tribunale Antonio Balsamo, dal professore Bartolomeo Romano e dal presidente della Camera penale Fabio Ferrara. E la direttrice Maria Luisa Malato ha subito aperto le porte del carcere. Per parlare di rieducazione e di riscatto, fra possibili percorsi e opportunità. Anche gli studenti non usano mezzi termini: “Eravate consapevoli del reato che stavate commettendo?”. E dalla platea arrivano tante voci di cambiamento: “Solo dietro le sbarre ho compreso”, dice una donna. “Io mi sono assunto le mie responsabilità - sussurra un altro detenuto - anche se è sempre doloroso”. E, poi, ancora una voce: “In quel periodo ero senza lavoro”. Pagliarelli è un carcere modello per i percorsi di rieducazione, fra corsi scolastici e varie attività, innanzitutto il teatro. “Alcuni detenuti frequentano anche corsi universitari”, spiega la professoressa Paola Maggio, delegata del rettore. “Il nostro impegno è massimo, facciamo tutto il possibile”, spiega la dottoressa Rosaria Puleo, responsabile dell’area giuridico-pedagogica: “Ma con un educatore ogni 150 persone non ci stiamo davvero dentro”. Il comandante della polizia penitenziaria Giuseppe Rizzo ripercorre le pesanti carenze, che chiamano in cause Comune, Regione e Asp. “Oggi, per un detenuto è impossibile fare la carta identità - spiega l’ufficiale - Lo sportello è stato soppresso”. Anche sul fronte del diritto alla salute i tagli sono stati pesanti: “La notte c’è un solo medico per 1300 detenuti. La mattina 2, il pomeriggio uno”. Tagli ancora più drastici sui corsi di formazione professionale: “Dove sono gli enti locali? - dice Rizzo - si lavora solo con fondi europei”. Fa una pausa e dice: “In queste condizioni il trattamento è insufficiente”. Sono le parole accorate di un comandante che insegna ai suoi agenti “a non guardare le carte processuali dei detenuti. Osservate piuttosto gli uomini - dice - imparate a conoscerli, a cogliere le loro fragilità”. Gli studenti ascoltano in silenzio. “Non ci aspettavamo di trovarci in questa trincea”, sussurra un giovane. Anche il presidente Balsamo è visibilmente sorpreso quando scopre che i detenuti non possono fare la carta d’identità e quindi spesso alcune pratiche per le pensioni restano bloccate: “Questo sarà impegno prioritario per il Consiglio di aiuto sociale”, dice. Da qualche mese, il presidente del tribunale ha messo in funzione un organismo previsto da una legge del 1975. “Attorno a un tavolo - spiega - si sono ritrovati i rappresentanti dei datori di lavoro, sindacati, associazioni, l’università, il Comune, la Regione, la Curia, insieme con il tribunale di sorveglianza, il tribunale per i minorenni, l’amministrazione penitenziaria, la prefettura. Un ruolo importante lo sta svolgendo la Camera di commercio per l’istituzione di uno sportello di orientamento al lavoro, che a Pagliarelli sarà pronto prima dell’estate”. Attraverso questo sportello, le aziende potranno selezionare personale qualificato. Dice Rita Bernardini: “Forse le aziende non sanno che dando lavoro ai detenuti possono beneficiare di importanti sgravi fiscali”. Gli studenti fanno una domanda dietro l’altra. Vogliono sapere come si svolge la giornata di un detenuto, quali difficoltà incontrano nell’esercitare il diritto di difesa. “Oggi l’amministrazione penitenziaria riceve un segnale di attenzione da parte della comunità”, ribadisce la direttrice di Pagliarelli. “La vostra voglia di riscatto è preziosa per tutti noi”, rilancia Balsamo guardando i detenuti: “La condizione carceraria dovrebbe essere l’opposto della condizione di emergenza”. Alla fine di una lunga mattinata, in cui interviene pure la presidente del tribunale di sorveglianza Luisa Leone, il professore Fiandaca espone la sua provocazione: “Bisognerebbe piuttosto rieducare le istituzioni”. Per far capire che il “carcere non è un mondo separato dalla società”. Altra provocazione (ma forse non lo è): “In questo modello di carcere è difficile rieducare”. Un messaggio di speranza lo lancia il professore Romano: “Per questo incontro i miei studenti non avranno alcun credito. Ma hanno aderito in tantissimi, con entusiasmo”. Dice il giudice Balsamo: “Oggi abbiamo fatto cadere tanti pregiudizi sul carcere. Torneremo ad incontrarci”. Milano. Il sindaco Sala al ministro: “San Vittore oltre i limiti della civiltà” di Maurizio Giannattasio Corriere della Sera, 23 febbraio 2023 Il problema del sovraffollamento: 190% rispetto alla reale capienza. Il sindaco: “Le condizioni di vita dei reclusi sono al di là dell’accettabile”. Le ipotesi: trasferimento o ristrutturazione. “San Vittore? È un carcere indegno di una città come Milano. Chiederò l’intervento del nuovo ministro della Giustizia”. Sono le parole usate a ottobre dal sindaco Beppe Sala al termine del suo sopralluogo nel carcere di piazza Filangieri che mercoledì è tornato alla carica rivolgendosi direttamente al guardasigilli, Carlo Nordio: “Sto aspettando che il ministro venga a Milano, ne parlavo col prefetto in questi giorni perché le questioni sono tante, c’è il Beccaria, c’è San Vittore. Aspetto una sua visita per porre il tema”. Il sindaco torna a parlare delle condizioni del carcere di San Vittore e del possibile trasferimento se non si mette mano al problema del sovraffollamento. “Le condizioni di vita dei reclusi sono al di là dell’accettabile” ha proseguito Sala citando l’associazione Antigone che questa estate ha certificato un affollamento del 190 per cento rispetto alla sua reale capienza. “Si tratta di una situazione che ha ben oltrepassato i limiti della civiltà. In molti si sono sempre espressi con contrarietà all’ipotesi di chiusura e spostamento del carcere. Molte possono essere le motivazioni di una riflessione necessaria in materia, ma ritengo che molte se non tutte potrebbero essere superate dalla constatazione che non è parte del cuore di Milano obbligare una detenuta, magari incinta, a condividere con tre altre detenute uno spazio di pochissimi metri quadrati, dovendo usare un bagno alla turca per i suoi bisogni”. E ritorna il giudizio citato all’inizio: “Queste condizioni di vita sono indegne di Milano e della sua tradizione di città equa ed accogliente”. Sullo sfondo il tema è sempre quello: il trasferimento della struttura dal centro cittadino. Se ne parla da decenni. Più di vent’anni fa, nel 2001, l’allora sindaco Gabriele Albertini aveva puntato sul trasloco della casa circondariale per realizzare un grattacielo con un grande parco intorno e aveva strappato la promessa all’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli che lo Stato avrebbe costruito un nuovo carcere nella periferia di Milano. Alla fine non se ne fece nulla, anche perché la Sovrintendenza sentenziò che il nucleo storico del carcere non può essere abbattuto. Torino. Gli invisibili dietro le sbarre e quella paura da sconfiggere di Marina Lomunno Avvenire, 23 febbraio 2023 Un incontro a Torino ha fatto il punto sull’emergenza suicidi in carcere. Il 2022, con 85 detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre, ha fatto registrare un tragico record nel numero dei suicidi: una piaga delle galere italiane che sembra non rimarginarsi. Era dal 2009, quando i suicidi raggiunsero quota 72, che non si assisteva a una tale ecatombe. E il 2023? Ad oggi sono già 6 i reclusi che si sono ammazzati in cella. “Un’emergenza tragica e un allarme che non si può non ascoltare”, ha detto Bruno Mellano, garante dei detenuti del Piemonte (5 i casi in regione: 4 a Torino e 1 a Saluzzo), introducendo ieri un incontro per presentare la ricerca “Per un’analisi dei suicidi negli istituti penitenziari”, curata dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale (e consultabile su www.cr.piemonte.it). A presentare lo studio, nella sede della Regione, è intervenuta Emilia Rossi, del collegio del Garante nazionale, che ha sottolineato come il mondo carcerario della Penisola stia vivendo un momento di particolare criticità che non può essere solo un problema di chi vive dietro le sbarre, ma “una questione sociale che ci coinvolge tutti, perché è la punta di un iceberg di un malessere diffuso, non solo in carcere”. Nel 2022 nei 190 istituti penitenziari italiani, dove sono recluse (al 31 dicembre 2022) 56.174 persone, di cui 2372 donne, i decessi sono stati 214: oltre a quelli per cause naturali, si contano 85 suicidi (80 uomini, 5 donne, 49 italiani e 36 stranieri di cui 20 senza dimora). L’età media di chi si è tolto la vita è 40 anni, 37 tra i 26 e i 39 anni e 10 giovani tra i 18 e i 25. “Sovraffollamento, degrado, picchi di caldo estivi non rappresentano fenomeni nuovi e ad essi non si può attribuire la causa dei suicidi in carcere avvenuti lo scorso anno, salito a 85, da una media di 44 l’anno dell’ultimo decennio - ha proseguito Emilia Rossi -; lo testimonia il fatto che ben 50 persone si sono tolte la vita entro sei mesi dall’ingresso nel carcere, di cui 10 entro le prime 24 ore, e che non sono rari i casi di suicidio nel trimestre che precede l’uscita dal carcere, dovuto alla mancanza di prospettive e alla paura del futuro”. Ma come mettere fine a questa escalation di morte che affligge soprattutto i ristretti “invisibili”, quelli che “passano inosservati e non sono ascoltati”? Casa e soprattutto lavoro - come hanno rimarcato i garanti intervenuti, tra cui Monica Cristina Gallo (Torino) e il portavoce nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali Stefano Anastasia (garante regionale del Lazio) - sono elementi essenziali, per assicurare il volto costituzionale della pena, che, secondo l’articolo 27 della nostra Costituzione, è sempre orientata alla risocializzazione, rieducazione, reinserimento di tutti i condannati. “Perché è assodato che, laddove il tempo della detenzione è impiegato per la formazione e il lavoro, garantendo una prospettiva per il dopo carcere, la recidiva si abbassa. E sicuramente avere una prospettiva futura allontana il pensiero di gesti autolesionisti che troppo spesso sfociano nel suicidio”. Parma. “Fuori!”, una guida l’Abc per chi vuole ripartire dopo il carcere La Repubblica, 23 febbraio 2023 Divisa nei cinque capitoli documenti, assistenza e aiuto, le prime cose da fare, salute, lavoro, è disponibile in italiano, inglese, francese. Si chiama “Fuori! Equipaggiamento per persone in uscita dal carcere” ed è una guida pensata per facilitare il rientro nel contesto sociale di chi è in uscita dal circuito penitenziario. L’hanno realizzata Csv Emilia e Consorzio di Solidarietà Sociale con il contributo di Fondazione Cariparma. Sono trenta pagine dense di consigli preziosissimi e indicazioni operative; tutte informazioni utili a orientare chi a fine pena rischia nuovamente di perdersi. Perché chi esce dal penitenziario in via Burla, italiano o straniero che sia, spesso non ha nessuno a cui rivolgersi e manca di tutto, anche di un lavoro. È in questi casi che la guida diventa indispensabile per muovere i primi passi e districarsi fra bisogni primari e secondari. Da dove si comincia a cercare casa? a chi ci si rivolge per avere un medico di base? dove fare spesa se non si hanno risorse economiche ma anche come fare lo Spid, rinnovare un documento o cecare un impego? In un libretto, l’Abc utile per ripartire. La guida è a uso di chi esce ma anche di chi, fuori e dentro il carcere, si occupa di affiancarlo. Le associazioni impegnate in questo ambito e che sono da sempre un punto di riferimento anche per le famiglie sono tante. C’è Rete Carcere, ad esempio, che con lo sportello “In con-tatto” ogni giorno costruisce un ponte fra carcere e comunità cittadina. Ma le persone ristrette possono contare anche su San Cristoforo, Per ricominciare, i Punti di Comunità, Donne di qua e di là, Al Amal, Caritas e tre Empori solidali. Poi ci sono Le mani parlanti, Cigno verde, Il ciottolo, Sirio: cooperative sociali che accolgono persone in uscita o sottoposte a misure alternative, offendo loro un supporto piscologico o opportunità lavorative fondamentali per il percorso riabilitativo. Altre parti importanti di un cammino verso la normalità sono gli enti di formazione Cefal, Forma futuro e Ciofs. La guida è uno strumento prezioso anche a supporto dell’attività di sostegno e orientamento che si svolge all’interno degli istituti penitenziari da parte di soggetti istituzionali. Divisa nei cinque capitoli documenti, assistenza e aiuto, le prime cose da fare, salute, lavoro, è disponibile in italiano, inglese, francese Per la realizzazione e la diffusione di Fuori che nasce a integrazione del progetto Territori per il reinserimento” promosso da Cassa Ammende, è stata fondamentale la collaborazione del Comune di Parma, dell’Azienda USL e della direzione degli Istituti Penitenziari. A supportare la distribuzione sarà anche il Garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Parma. Da oggi la guida è a disposizione dei singoli detenuti, delle loro famiglie, dei volontari e degli operatori che prestano la loro attività in favore delle persone ristrette nella libertà. È l’abbraccio inclusivo della comunità a chi, dopo aver pagato gli sbagli, si prepara a scrivere una pagina nuova della propria vita. Treviso. Il carcere minorile torna a pieno regime dal 28 febbraio Corriere del Veneto, 23 febbraio 2023 Dopo la rivolta dell’aprile del 2022, con un incendio appiccato da alcuni giovani detenuti che lo avevano reso inagibile, il carcere minorile di Treviso di Santa Bona tornerà operativo tra qualche giorno, con una capacità di sette celle. La notizia è arrivata direttamente dal Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità di Roma, con una nota emessa dal direttore generale, Giuseppe Cacciapuoti: i lavori di ristrutturazione sono quasi finiti e termineranno il prossimo 28 febbraio quando l’Istituto penale per minorenni potrà tornare finalmente a pieno regime. “Quello che a noi principalmente interessa è che, una volta riattivato, il penitenziario minorile trevigiano sia stato adeguatamente ristrutturato - ha commentato il segretario generale del sindacato di polizia Sappe, Donato Capece - tanto in termini di sicurezza per il personale operante, in primis quello di Polizia Penitenziaria, quanto in rispetto delle norme igienico-sanitarie vigenti in favore dei ristretti”. Non è l’unica richiesta che il sindacato ha rivolto all’amministrazione carceraria che potrebbe peraltro decidere la chiusura definitiva della struttura, a beneficio del minorile di Rovigo. “Servono poliziotti e regole d’ingaggio chiare, tecnologia e formazione per chi sta in prima linea nelle Sezioni, strumenti di difesa e contrasto delle violenze - conclude Capece - Nell’ultimo periodo diversi detenuti delle carceri minorili provocano con strafottenza, modi inurbani e arroganza i poliziotti penitenziari, creando sempre situazioni di grande tensione. Per questo ci stupiamo di chi si meraviglia se chiediamo una revisione della legge che consente la detenzione fino ai 25 anni di età nelle strutture per minori”. Il 2022 è stato un annus horribilis per le strutture detentive del capoluogo: oltre alla rivolta al minorile, nella casa circondariale non sono mancate aggressioni, episodi di violenza, proteste dei detenuti e anche una clamorosa evasione. Bologna. Il carcere del Pratello prova a ripartire di Ylenia Magnani incronaca.unibo.it, 23 febbraio 2023 Risse, tentativi di suicidio, disordini: quello che era un modello cerca normalità. “Dopo le violenze, al carcere minorile del Pratello il numero dei detenuti è drasticamente sceso e questo permette la ripresa di un lavoro più proficuo con i ragazzi”. Il Garante dei detenuti del Comune di Bologna Antonio Ianniello sembra soddisfatto della risposta che le autorità hanno dato alla grave crisi del 2022. Lo dice a metà gennaio dopo un incontro con la giunta e i consiglieri comunali, proprio all’interno del minorile che ospita i giovani che hanno commesso reati e che proprio qui dovrebbero ricominciare a farsi una vita. Una prospettiva a cui anche il ragazzo più disperato deve avere pieno diritto, come ha raccontato Francesca Fagnani. Che sul palco dell’Ariston si è fatta da megafono alle voci dei ragazzi del carcere minorile di Nisida, anch’esso in condizioni precarie. A Bologna, però, pare sia stato fatto un passo avanti. La città ha deciso di impegnarsi direttamente per dimenticare un anno nero, segnato da una crescente tensione, sovraffollamento, quattro tentativi di suicidio, risse e tensioni crescenti, sfociate il 17 dicembre in una rivolta durata tre giorni, con cinque celle incendiate dai ragazzi e ancora oggi del tutto inagibili. Ma come è stato possibile che un istituto minorile che fino a poco tempo prima aveva fatto parlare di sé per le tante iniziative finalizzate al recupero di ragazzi, si sia in poco tempo mutato in un luogo invivibile? Per capirlo, occorre tornare a due anni fa, quando l’amministrazione penitenziaria centrale decide di aprire il secondo piano del Pratello e di portare da 22 a 40 la capienza dell’istituto di pena per minorenni. Una decisione salutata con preoccupazione proprio da Ianniello che pochi mesi dopo in una nota alla fine di ottobre avverte il rischio di “una deriva involutiva in cui i contenuti di mera detenzione e di mero contenimento dei ragazzi possono prendere il sopravvento”. In poche parole, aumentare il numero dei ragazzi in strutture inadeguate e senza un forte aumento di agenti penitenziari e di educatori poteva mettere in crisi i delicati equilibri della struttura. In un penitenziario nel quale molti ragazzi erano riusciti a frequentare l’istituto alberghiero, a diplomarsi, a iscriversi all’università, organizzare spettacoli teatrali e a gestire una osteria aperta alla città. Tutte iniziative volte a creare un futuro possibile per ragazzi altrimenti destinati a una vita nel mondo della criminalità. Una facile profezia quella del Garante. La riapertura del secondo piano e l’arrivo di nuovi detenuti rompe vecchi equilibri. Pochi mesi dopo, in primavera, iniziano i disordini. Tra marzo e aprile 2022 i mobili e il materasso di una cella vengono dati alle fiamme. Gli agenti intervengono a sedare una rissa tra i detenuti e un ragazzo viene portato in ospedale dopo aver distrutto la propria cella e aver ingerito batterie e chiodi. Una serie di episodi che l’amministrazione riconduce anche alla presenza di detenuti affetti da disagi di natura psichiatrica, ai quali sarebbe servito un trattamento specifico magari in comunità. A fine anno, poi, la situazione torna a farsi esplosiva. Tra il 17 e il 19 dicembre vengono appiccati incendi che rendono inagibili cinque celle, due al primo piano e tre al secondo piano, viene divelta una porta blindata e alcuni ragazzi ingeriscono viti e batterie. Quattro agenti rimangono intossicati cercando di intervenire. Sono gli stessi giorni della fuga dei sette ragazzi dal carcere minorile Beccaria di Milano. Che nella giornata di Natale approfittano dei lavori in corso da anni e del personale ridotto per scappare. Una notizia ripresa da tutte le prime pagine e che porta a galla il problema degli istituti minorili. L’associazione Antigone, tirando le somme sulle visite del 2022, parla di “carceri emiliane del terzo mondo”. E non solo quelle degli adulti. Si scopre che i minorili sono sovraffollati, senza una direzione o con lavori di ristrutturazione in corso da anni. Un problema che riguarda tutti gli istituti, da Nord a Sud. “Sul piano degli spazi è essenziale una programmazione almeno decennale di realizzazione di nuovi istituti che consenta la chiusura delle strutture fatiscenti”, scrive senza giri di parole su La Stampa l’ex capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi. Spazi affollati e “invivibili” che, secondo gli esperti, sono all’origine dell’impressionante numero di suicidi dietro le sbarre nel 2022: ben 84, un record negativo che suona come un atto di accusa. Ancora su La Stampa Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti definisce così le carceri italiane: “Spazi sempre più confinati ai bordi estremi delle periferie oppure racchiusi nell’antico centro urbano dove l’appartenenza deve misurarsi però con l’invivibilità di ambienti pensati per una diversa quotidianità”. Anche al Pratello la questione degli spazi e dell’affollamento è all’origine delle tensioni di un 2022 da dimenticare. Oltretutto, avverte Chiara Caramel di Antigone, “è una struttura non adeguata alla funzione d’uso che ha, parliamo di un convento del Quattrocento”. Lo conferma il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari dopo l’ultima visita al carcere minorile del Pratello il 10 febbraio “spazi del tutto insufficienti”. E una cosa è certa: è stata la riapertura nel 2021 del secondo piano, rimasto per anni inutilizzato, a far esplodere il Pratello. Con l’ampliamento è raddoppiato il numero di detenuti. A dicembre i ragazzi, da 22 dell’anno precedente, erano saliti a 49. Ad aggravare le cose la chiusura per lavori del carcere minorile di Treviso, da cui sono confluiti altri ospiti “tutti - racconta Caramel - con procedimenti in corso nel triveneto”. Numeri raddoppiati, linguaggi e storie diverse impossibili da far convivere con lo stesso numero di educatori, “cinque in tutto, con un rapporto di uno a dieci che ha modificato il clima nella struttura”, sottolinea Caramel. E con gli stessi agenti, poco più di 40, “con turni estenuanti e il distacco di alcuni agenti in altre strutture” sottolinea Anna La Marca, segretaria regionale del Sinappe. Impossibile fare scuola e teatro, o studiare davvero, in queste condizioni. Saltano anche le tradizionali e distensive partite di calcio tra guardie e detenuti. Così, osserva la consigliera del Pd Mery De Martino, “se il personale è impegnato a seguire una sola attività, tutti gli altri ragazzi restano in cella e diplomarsi o iscriversi all’università, un punto di forza del Pratello, diventa impossibile”. Si badi, non è un dettaglio. Nei penitenziari per minori l’attenzione che si dedica alla formazione dei ragazzi è fondamentale. Invece, i detenuti, che hanno bisogno di costruirsi un futuro per quando usciranno, si sono sentiti poco seguiti. E a tutto questo va aggiunto il forte innalzamento dei casi di disagio tra i minori e i giovani adulti arrivati nella struttura: abuso di alcol, farmaci e sostanze stupefacenti. Inevitabili le conseguenze che il Garante Ianniello ha sintetizzato così: “Personale in affanno, aumento della tensione” e “non si contano più gli eventi critici, i danneggiamenti, le aggressioni in danno del personale”. Come si vede, la crisi del Pratello è stata innescata da problemi più generali. L’arrivo di detenuti di altre strutture e l’affollamento hanno fatto il resto. E un istituto modello è presto diventato “a rischio”. Le conseguenze della rivolta e degli incendi potevano essere ancora più gravi, ma proprio per questo un gruppo di detenuti è subito stato trasferito. Dai 49 di dicembre i ragazzi sono scesi in pochi giorni a 36. Il direttore del minorile Alfonso Paggiarino, a metà febbraio, riferisce addirittura la presenza di 30 detenuti. Ora, dunque, si cerca di rimettere insieme i cocci e ripartire. Decisivo sarà il coinvolgimento della città che in passato ha permesso di superare altre crisi al Pratello. E la città sembra pronta a farsi avanti per dare una mano. Ecco come i consiglieri comunali, ospiti all’osteria del Pratello, hanno commentato l’invito dello scorso 13 gennaio: “È un’esperienza che ci ha arricchiti molto - dice il portavoce della Lega Giulio Venturi - e l’approccio al lavoro credo sia l’unico modo per rendere l’istituto penitenziario veramente rieducativo”. L’osteria formativa rimane una bandiera. “Crea un punto di contatto con l’intera città. Offre la possibilità di vivere per qualche ora uno spazio di fatto sconosciuto ed entrare in contatto con la realtà dei ragazzi detenuti”, rimarca Marco Piazza di Articolo Uno. Parole che dicono di un clima cambiato e che stanno producendo i primi passi concreti. Come la nomina di un educatore del Comune a disposizione del carcere minorile proposta in consiglio comunale da De Martino. È solo un primo passo. “Alcuni insegnanti del corso alberghiero mi riferiscono il bisogno di un aumento delle ore, e di avviare altri corsi di studio” continua la consigliera del Pd “e molti ragazzi hanno fatto altre richieste, soprattutto di un corso di meccatronica”. Anche l’Ausl di Bologna si è fatta avanti aumentando le ore al medico di base e la reperibilità di psicologi e psichiatri. Con la direzione del Pratello è stato firmato lo scorso dicembre un Protocollo per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario. Piccole e grandi cose di cui hanno bisogno i ragazzi del Pratello per sentire che chi sta fuori, chi in via del Pratello va a bere una birra o uno spritz, non è un nemico, ma una città che offre un’alternativa possibile a chi vuole rifarsi una vita. Milano. Dal carcere di Opera alla scuola edile: il progetto di reinserimento dei detenuti di Andrea Gianni Il Giorno, 23 febbraio 2023 Progetto pilota ideato da don Rigoldi per un bacino potenziale di 600 persone recluse. Ma il lavoro nei penitenziari resta un’opportunità per pochi: mancano spazi e risorse. L’idea è partita da don Gino Rigoldi, da sempre in prima linea nelle carceri, per offrire ai detenuti di Opera “un lavoro che significa dignità, in grado di fornire i mezzi per realizzare un nuovo progetto di vita”. Per la prima volta, attraverso un accordo tra amministrazione penitenziaria, sindacati, costruttori e Umana - l’ente di formazione Esem e Fondazione Don Rigoldi - viene aperta una scuola edile all’interno del carcere, con l’obiettivo di formare detenuti in grado di lavorare nei cantieri del Milanese, oltre le mura di Opera. Il bacino di potenziali partecipanti è di circa 600 detenuti (con almeno un terzo della pena già scontata) che a turno e in varie fasi potranno partecipare ai corsi in un laboratorio attrezzato e accedere a progetti di reinserimento lavorativo. “Questa iniziativa - sottolinea don Gino Rigoldi - è un passo verso la piena attuazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione: i detenuti hanno ora la possibilità di costruire il proprio futuro in un percorso che inizia all’interno del carcere e, grazie all’applicazione dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario, si conclude nella società civile”. Opportunità di lavoro quindi in un settore in espansione come quello dell’edilizia, alla ricerca di personale da impiegare nei cantieri. Nelle carceri, d’altra parte, sono ancora pochi rispetto al potenziale i detenuti che accedono a percorsi di lavoro, soprattutto all’esterno. Su un totale di 54.841 detenuti in Italia, i lavoranti sono complessivamente 18.654. Di questi 16.181 sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, mentre i lavoranti non alle dipendenze dell’amministrazione secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia sono solo 2.471. I detenuti potenzialmente pronti per un nuovo lavoro, anche all’esterno del carcere, sono oltre 2.300. “Il lavoro - sottolinea Silvio Di Gregorio, direttore di Opera - è lo strumento principale non solo del trattamento penitenziario, ma anche per avere una vita dignitosa. Questo accordo offre una incredibile opportunità sia ai detenuti, che potranno mettere a disposizione le proprie competenze e ricevere una giusta retribuzione, sia alle imprese che potranno trovare quella manodopera qualificata e certificata che il mercato del lavoro oggi non riesce ad offrire”. Imprese che contano di attuare i primi inserimenti entro i prossimi tre mesi, con modalità che verranno di volta in volta definite nell’ambito dei programmi di trattamento predisposti dalla direzione dell’istituto e sottoposti alla magistratura di sorveglianza per l’approvazione. “Mettiamo la prima pietra per la creazione di una vera scuola edile - spiega la presidente di Assimpredil Ance Regina De Albertis -. Noi imprenditori siamo pronti ad aprire i nostri cantieri, nella consapevolezza di quanto il lavoro sia elemento fondamentale per la dignità della persona e che rappresenti un’opportunità importante di reinserimento sociale per persone in stato detenzione”. Un percorso condiviso anche dai segretari generali milanesi dei sindacati dell’edilizia Katiuscia Calabretta (Fillea-Cgil), Alem Gracic (Filca-Cisl) e Riccardo Cutaia (Feneal Uil): “In una fase espansiva del settore siamo molto orgogliosi di poter offrire delle opportunità di qualificazione e reinserimento nel mercato del lavoro, mettendo a disposizione il nostro sistema bilaterale e le nostre competenze sindacali, per i detenuti del carcere di Opera”. Un nuovo passo dopo la firma del protocollo d’intesa per l’apertura degli Sportelli Lavoro e Diritti, che forniranno servizi al lavoro, informazioni e prestazioni sociali all’interno degli istituti di pena di Bollate, Opera e San Vittore. Il direttore di Opera aveva già evidenziato nei giorni scorsi, durante un’audizione in commissione a Palazzo Marino, le difficoltà relative all’inserimento lavorativo dei detenuti, anche per una carenza di spazi adeguati: “Il lavoro non c’è per tutti quelli che vorrebbero lavorare. Per questo abbiamo proposto di aumentare gli spazi coperti da destinare alle lavorazioni”. Nello specifico 2.400 metri quadrati a cui si aggiunge un ulteriore fabbricato di circa 300 mq: spazi destinati ad aziende come Sky, che ha già assunto 16 detenuti con la possibilità di arrivare a 100, intenzionate a “portare il lavoro dentro il carcere”. Oristano. Convegno sul diritto alla salute per i detenuti oristanonoi.it, 23 febbraio 2023 Incontro promosso da Camera Penale e Socialismo Diritti Riforme. “Sanità Penitenziaria: stato dell’arte e prospettive” è il tema dell’incontro-dibattito in programma sabato prossimo, 25 febbraio, a Oristano, dalle 9.30 alle 13.30 nella sala conferenze Ascomfidi. in via Sebastiano Mele - Lottizzazione Cualbu. Promosso dalla Camera Penale di Oristano e dall’associazione Socialismo Diritti Riforme, con il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati, l’appuntamento intende richiamare l’attenzione sul sistema sanitario penitenziario. Interverranno Carlo Doria, assessore regionale dell’Igiene e Sanità e dell’Assistenza Sociale; Riccardo Curreli, direttore sanitario Residenza Esecuzione Misure di Sicurezza; Marco Porcu, direttore, e Luciano Fei, coordinatore sanitario della Casa Circondariale di Cagliari-Uta; Donatella Gallistru, esperta di informatica sanitaria; Irene Testa, garante delle persone private della libertà della Regione Sardegna. Dopo il saluto di Enrico Meloni, presidente dell’Ordine degli Avvocati oristanesi, introdurrà l’appuntamento Rosaria Manconi, presidente della Camera Penale. A coordinare gli interventi sarà Maria Grazia Caligaris, referente per le carceri di Socialismo Diritti Riforme. “Dal 2011”, hanno ricordato Manconi e Caligaris, “le funzioni sanitarie, precedentemente svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile, sono state trasferite al Servizio Sanitario Regionale. Nel 2012 sono state emanate le linee guida per l’organizzazione del servizio nonché l’Osservatorio Regionale della Sanità Penitenziaria. Nel 2015 è stato approvato il piano assegnato alle Aziende sanitarie locali. Poi è stata istituita l’Ats. In seguito alla riforma del 2022 è nata l’Ares. Dopo 12 anni è arrivato il momento di riflettere sull’operatività di una macchina che interessa oltre 2.000 persone private della libertà. Occorre verificare se è migliorato il rapporto paziente detenuto e salute e in che misura l’articolo 32 della Costituzione è garantito a chi sconta una pena e come è stata affrontata la pandemia e che peso ha avuto sul sistema sanitario carcerario”. All’appuntamento sono stati invitati il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, i direttori degli istituti e i responsabili dell’area sanitaria di Cagliari, Sassari e Oristano, i rappresentanti dei Tribunali di sorveglianza di Cagliari e Sassari, parlamentari, consiglieri regionali, avvocati, esponenti della polizia penitenziaria e i garanti territoriali. Varese. Stefano Binda presidente dell’associazione di volontari che aiutano i detenuti Il Giorno, 23 febbraio 2023 L’uomo ha trascorso 4 anni in carcere prima di essere assolto per l’omicidio di Lidia Macchi: ora guiderà la “Valle di Ezechiele” a Busto Arsizio (Varese). Ha passato 1.286 giorni in carcere prima di essere assolto con formula piena, ora Stefano Binda, accusato e assolto per l’omicidio di Lidia Macchi diventa volontario per i carcerati. Binda infatti è stato nominato presidente di La Valle di Ezechiele OdV, nuova associazione di volontari al servizio dei detenuti nel carcere di Busto Arsizio. La nuova associazione è una “costola” della cooperativa sociale La Valle di Ezechiele, nata nel 2019 su iniziativa di don David Maria Riboldi, cappellano della Casa Circondariale di Busto. Lo scopo dell’organizzazione è offrire supporto ai detenuti e alle loro famiglie, sia materiale (attraverso la raccolta di soldi, vestiti e oggeti di prima necessità) che morale, attraverso l’ascolto e il sostegno. La poesia e l’arresto - L’odissea giudiziaria di Stefano Binda si chiuse definitivamente il 27 gennaio del 2021 quando la Cassazione confermò la sua assoluzione nel processo per l’omicidio di Lidia Macchi, la ventenne uccisa a Cittiglio, in provincia di Varese, nel gennaio 1987. In primo grado Binda era stato condannato all’ergastolo, e poi prosciolto in appello dalla Corte di Assise di appello di Milano. La Cassazione mise così la parola fine a una vicenda che per Binda iniziò nel gennaio 2016 quando fu arrestato come presunto colpevole del delitto. Le manette per lui arrivarono in seguito a una perizia grafologica che lo indentificò come l’autore del componimento “In morte di un’amica”, poesia recapitata in forma anonima alla famiglia Macchi nel giorno dei funerali di Lidia e subito attribuita dagli inquirenti al responsabile dell’omicidio. Il risarcimento - Il 50enne aveva sempre respinto le accuse a suo carico fornendo anche un alibi: nei giorni del delitto - spiegò durante i processi - era in vacanza a Pragelato, sulle alpi piemontesi. Binda ha trascorso quasi 4 anni in cella prima di essere assolto in Appello “per non aver commesso il fatto” e rimesso in libertà. Per l’ingiusta detenzione Binda ha ottenuto un risarcimento da parte dello Stato di 303mila euro, risarcimento contro il quale la procura ha fatto ricorso. Rimpatri migranti, rischio violazione dei diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 febbraio 2023 Nessuna norma di rango primario per la coercizione dei migranti rimpatriati forzatamente, problemi di barriera linguistica e altre criticità che inevitabilmente rischiano di violare i diritti fondamentali. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha pubblicato il terzo rapporto sulle operazioni di rimpatrio forzato dei migranti irregolari, effettuati tra luglio 2021 e settembre 2022 verso cinque paesi diversi: Tunisia, Nigeria, Egitto, Albania e Georgia. L’obiettivo principale del rapporto è quello di fornire una valutazione completa dell’attività svolta e delle azioni messe in campo dall’amministrazione responsabile. Inoltre, il rapporto cerca di rendere trasparente il processo di rimpatrio forzato, un’operazione che per sua natura non è sotto lo sguardo della collettività. Il Garante Nazionale è l’unica autorità nazionale non coinvolta direttamente nell’operazione di rimpatrio forzato che può seguire direttamente tutte le fasi dell’operazione, compresa quella del volo. Il monitoraggio del volo di rimpatrio verso la Tunisia del 19 maggio 2016 è stato il primo avviato dal Garante Nazionale in Italia. Il rapporto sottolinea che, nonostante siano state fornite diverse raccomandazioni e standard negli anni, esistono ancora alcune criticità di fondo. L’aspetto di maggiore criticità riguarda il fatto che le regole dell’attività di rimpatrio forzato da parte della Polizia di Stato sono in larga parte definite da semplici circolari e disposizioni interne e non da fonti normative di rango primario. Questo ha inevitabili ricadute sulla disciplina compiuta del possibile ricorso all’impiego della forza e sulla mancanza di disposizioni operative sui controlli di sicurezza. Una delle criticità che merita particolare attenzione riguarda la tutela della salute delle persone sottoposte a rimpatrio attraverso un’adeguata assistenza sanitaria. Il rapporto sottolinea l’importanza di considerare attentamente le condizioni di salute della persona da rimpatriare e l’implementazione di interventi tempestivi su più livelli, in relazione all’adeguatezza del volo e al rischio di gravi effetti nocivi per la discontinuità terapeutica nel paese di arrivo. In generale, il rapporto del Garante Nazionale cerca di affrontare le criticità riscontrate durante le operazioni di rimpatrio forzato dei migranti irregolari e di promuovere la trasparenza e la qualità del processo di rimpatrio forzato in Italia. Entrando nel merito del rapporto, bisogna prima ricordare che il rimpatrio forzato è una pratica utilizzata per far ritornare un cittadino straniero nel proprio paese di origine contro la propria volontà. Tale pratica solleva numerose questioni etiche e legali, poiché il rispetto dei diritti fondamentali dei migranti non può essere trascurato. Inoltre, il Garante evidenzia che l’utilizzo della forza e dei mezzi di coercizione durante l’operazione richiede una specifica disposizione di legge che ne regoli compiutamente le relative modalità, prescriva la tipologia degli strumenti di coazione previsti nell’equipaggiamento in dotazione al personale di scorta, il regime di applicazione, il personale autorizzato, gli aspetti di tutela della salute e gli obblighi di comunicazione e registrazione dell’evento. Inoltre, come ha osservato il Garante, l’insieme di fonti non primarie che circondano il rimpatrio forzato nel nostro sistema è sostanzialmente inadeguato e lacunoso. L’utilizzo della forza e dei mezzi di coercizione durante l’operazione richiede una disposizione specifica di legge, tipizzata per tali operazioni, che ne disciplini compiutamente le relative modalità e prescriva la tipologia degli strumenti di coazione previsti nell’equipaggiamento in dotazione al personale di scorta, il regime di applicazione, il personale autorizzato, gli aspetti di tutela della salute, gli obblighi di comunicazione e registrazione dell’evento. In questo senso, è utile confrontare l’approccio del nostro sistema con quello di altri paesi europei. La Direttiva 115/ 2008 CE sulla direttiva rimpatri, ad esempio, prevede degli orientamenti comuni sulle disposizioni di sicurezza applicabili all’allontanamento congiunto per via aerea degli Stati membri. Inoltre, la Commissione europea ha curato un Manuale per garantire uniformità nell’attuazione delle norme e delle procedure, adottato nel 2015 e aggiornato nel 2017 con la Raccomandazione (UE) 2017/ 2338. Il Garante Nazionale ha sottolineato l’importanza delle garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione nel caso di pratiche di contenimento. Nel caso delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), la Corte costituzionale ha recentemente chiarito che gli artt. 13 e 32, secondo comma, Cost., unitamente all’art. 2 Cost. esigono che il legislatore si assuma la delicata responsabilità di stabilire - in ogni caso in chiave di extrema ratio ed entro i limiti della proporzionalità rispetto alle necessità terapeutiche e del rispetto della dignità della persona - se e in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle Rems, ed eventualmente quali ne siano le ammissibili modalità di esecuzione. “Ambiti diversi - è vero - ma che spiegano quale sia la cautela che il Legislatore deve avere nell’affrontare le varie “forme” della privazione della libertà personale e la corrispondente necessaria tutela nell’attuazione di procedure che riguardano tale bene fondamentale, di cui ciascuno è titolare, indipendentemente dalla posizione soggettiva di regolarità o irregolarità e anche indipendentemente dalla doverosa necessità di portare a termine l’operazione”, sottolinea il Garante nel report. Una delle tante criticità emerse, riguarda la questione delle professionalità linguistiche nel contesto dell’attività di rimpatrio forzato. Il Garante nazionale ritiene che questa questione non sia di natura secondaria, ma piuttosto incida sui diritti soggettivi della persona. Infatti, il diritto a comprendere è fondamentale per l’esercizio effettivo di tutti gli altri diritti. In particolare, nei voli charter di rimpatrio che riguardano prevalentemente il respingimento di persone appena arrivate nel nostro Paese, è prevedibile che le persone non abbiano un’adeguata conoscenza della lingua italiana. Ciò comporta il rischio che l’impossibilità di avvalersi di un supporto linguistico possa impedire l’esercizio dei diritti fondamentali ai rimpatriandi che non conoscono la lingua italiana o un’altra lingua veicolare familiare al personale di scorta. Nella risposta fornita al precedente “Rapporto tematico sull’attività di monitoraggio realizzata tra gennaio 2019 e giugno 2021”, viene in effetti evidenziato che “il personale di scorta che frequenta il corso di formazione per l’abilitazione ai servizi di scorta effettua una preselezione di lingua inglese e che lo straniero riceve ampia informativa in lingua comprensibile sia in Questura sia nelle strutture di trattenimento”. Il Garante nazionale accoglie favorevolmente tale indicazione, ma sottolinea che tuttora il problema permane, in quanto - come ha verificato sul campo - non tutte le persone straniere sono in grado di comprendere le principali lingue veicolari. In sintesi, l’impiego di professionalità linguistiche nel contesto delle operazioni di rimpatrio forzato è essenziale per garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Il Garante osserva infine la necessità di adottare misure adeguate per garantire che il personale coinvolto in queste operazioni abbia le competenze linguistiche necessarie per comunicare efficacemente con le persone coinvolte, anche in lingue diverse dall’inglese. Solamente in questo modo sarà possibile assicurare il pieno rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte in queste operazioni. Migranti. Sgomberato il Cpr di Torino dopo gli incendi, la Garante dei Detenuti: “Struttura compromessa” torinoggi.it, 23 febbraio 2023 “L’idoneità strutturale è ormai compromessa”. È questo il giudizio della Garante comunale dei detenuti Monica Cristina Gallo sul Cpr, al termine del sopralluogo effettuato questa mattina in corso Brunelleschi. Lunedì sera nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio gli extracomunitari presenti all’interno hanno dato fuoco ai moduli dell’area verde, l’unica che non era stati bruciata nelle scorse settimane. E così anche questo spazio che era rimasto l’unico agibile è stato chiuso e dei 140 posti disponibili sulla carta ne sono rimasti solo una decina. Roghi appiccati per protestare contro le condizioni di vita all’interno della struttura. A partire dal 7 febbraio così sono stati spostati la maggior parte degli stranieri verso altri C.P.R. entro la fine di oggi in corso Brunelleschi rimarranno solo sette ospiti. Gallo: “Necessaria riflessione sul Cpr” - “Auspico - commenta Monica Cristina Gallo - che si apra una riflessione politica sul mantenimento di una struttura così ampia e danneggiata, dove tra l’altro la permanenza di sole sette persone rischia ora di configurarsi come un isolamento in condizioni degradanti”. “Le prospettive future - aggiunge - non lasciano immaginare condizioni diverse della “detenzione amministrativa” nel Centro tali che impediscano il ripetersi di gravi eventi critici: si invita alla considerazione degli ingenti costi di ristrutturazione e di gestione, dato anche l’esiguo numero di rimpatri eseguiti, quindi alla riflessione sulla sostenibilità e sull’effettivo raggiungimento degli scopi normativi”. Grimaldi: “Si chiuda la struttura e non la si riapra più” - “Migliaia di vite segnate. Milioni di euro bruciati. L’idoneità strutturale è compromessa come la storia di quel luogo. Tra poche ore probabilmente le autorità diranno che il Cpr di Torino chiuderà per ristrutturazione, a causa dei roghi dei giorni scorsi. Noi diciamo una cosa semplice, da anni: non si riapra più”, è la richiesta che arriva dal deputato di Alleanza Verdi Sinistra, Marco Grimaldi, e da tutti gli amministratori e le amministratrici di Sinistra Ecologista: Jacopo Rosatelli, Alice Ravinale, Emanuele Busconi, Sara Diena, Valentina Cera, Alberto Re, Samuele Stefanuto, Elena Variara, Francesco Pongiluppi, Beppe Piras, Ilaria Genovese e Francesca Gruppi. Un anno di guerra ha unito l’occidente e allontanato il resto del mondo di Francesca De Benedetti Il Domani, 23 febbraio 2023 A un anno di distanza dall’invasione russa in Ucraina, l’occidente è più unito ma anche più isolato. Quando la guerra è iniziata, in molti l’hanno interpretata come un conflitto che avrebbe ridisegnato l’ordine internazionale. Oggi possiamo dire che questa guerra guarda al passato molto più di quanto guardi al futuro: frammenta più che ricomporre. Uno studio dello European Council on Foreign Relations che sonda l’opinione pubblica in nove paesi europei, nel Regno Unito, negli Usa, in Russia, Cina, Turchia e India mostra che mentre gli Stati Uniti inseguono la leadership del “mondo libero”, per i “Citrus” - cioè i paesi al di fuori del perimetro ideale dell’occidente - siamo semplicemente davanti a un panorama più frastagliato, nel quale l’occidente perde la sua egemonia. “Nell’Ue e negli Stati Uniti consideriamo l’aggressione russa come un’eccezione, perché ci consideriamo eccezionali noi. Per gli altri è semplicemente un’ennesima guerra”, come spiega Ivan Krastev. A un anno di distanza dall’invasione russa in Ucraina, l’occidente è più unito ma anche più isolato. Quando la guerra è iniziata, in molti l’hanno interpretata come un conflitto che avrebbe ridisegnato l’ordine internazionale. Il campo delle idee - Oggi possiamo dire che questa guerra guarda al passato molto più di quanto guardi al futuro: frammenta più che ricomporre. Uno studio dello European Council on Foreign Relations che sonda l’opinione pubblica in nove paesi europei, nel Regno Unito, negli Usa, in Russia, Cina, Turchia e India mostra che mentre gli Stati Uniti inseguono la leadership del “mondo libero”, per i “Citrus” - cioè i paesi al di fuori del perimetro ideale dell’occidente - siamo semplicemente davanti a un panorama più frastagliato, nel quale l’occidente perde la sua egemonia. “Nell’Ue e negli Stati Uniti consideriamo l’aggressione russa come un’eccezione, perché ci consideriamo eccezionali noi. Per gli altri è semplicemente un’ennesima guerra, e si chiedono semmai perché un conflitto che riguarda l’Europa dovrebbe scatenare preoccupazioni su scala globale, mentre gli altri conflitti no”, spiega Ivan Krastev, presidente del Centro per le strategie liberali di Sofia e uno degli autori della ricerca. La guerra in Ucraina non si combatte solo sul campo di battaglia ma anche su quello dell’opinione. A un anno di distanza dallo scoppio del conflitto, i dati raccolti da Ecfr raccontano che almeno in Usa, in Ue e nel Regno Unito domina quello che i ricercatori chiamano “il partito della giustizia”: l’inverno delle bollette stratosferiche è superato e “l’occidente ne esce più unito che mai sull’obiettivo di vincere la guerra. Il punto è che è anche meno influente che mai”, conclude il direttore di Ecfr, Mark Leonard. Se fosse per cinesi, indiani, turchi, la guerra dovrebbe finire il prima possibile, non importa se ciò comporti perdite territoriali per gli ucraini. Polarizzati e isolati - Per la maggior parte dei britannici, degli americani e degli europei - rispettivamente per il 65, il 55 e il 54 per cento - la Russia è un avversario. Su questo la visione è comune, anche se Krastev osserva che ci sono sfumature diverse all’interno dell’Ue: “Noi europei abbiamo gli stessi sogni ma diversi incubi”, dice. Intende che storia e geografia nazionali comportano posture diverse: basti pensare a quanto la Polonia è più spinta sul sostegno a Kiev rispetto magari alla Germania. “C’è una ricomposizione tra est-nord e tra ovest-sud”, sintetizza Krastev, pensando alle sintonie tra Varsavia e Londra. Visti da fuori, gli occidentali appaiono uniti. Il quadro cambia totalmente se ci si sposta verso Cina, India, Turchia. Per il 51 per cento degli indiani la Russia è un alleato, per il 44 per cento dei cinesi un partner necessario col quale cooperare strategicamente. Così la pensa anche il 55 per cento dei turchi. Quale futuro? Mentre l’opinione pubblica occidentale vede il futuro come una competizione bipolare tra Usa e Cina, gli altri immaginano uno scenario sempre più frammentato. E per paesi come l’India questa guerra rappresenta paradossalmente un’opportunità per conquistare spazio di manovra. Ecco perché secondo Timothy Garton Ash dell’università di Oxford, anche lui fra gli autori dello studio, “il principale errore strategico che l’Ue possa fare è rivolgersi a un generico sud globale invece di fare piani di azione diversi per ogni attore”. Per una buona fetta di russi o cinesi, il sostegno a Kiev da parte dell’occidente serve a quest’ultimo per perpetrare il suo dominio, e la retorica della guerra agli autoritarismi di Biden non altera questa convinzione. I dati raccolti da Ecfr mostrano anzi che la maggior parte dei cinesi - il 77 per cento - considera la Cina il campione della democrazia, e gli indiani vedono così l’India. La costruzione narrativa di Washington, che divide nettamente democratici e autoritari, fuori dall’occidente non funziona. E a dire il vero anche dentro è assai fragile: Biden esalta la democrazia polacca, nonostante le violazioni dello stato di diritto. Quando l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell dichiara che siamo come un giardino in mezzo a una giungla, lasciando intendere che fuori dall’occidente non vi sia che barbarie, non fa che alimentare il risentimento del “sud globale” per l’atteggiamento di superiorità esibito dall’occidente: visto da fuori, è il nostro giardino ad appassire. Ucraina. All’Onu si vota la risoluzione per la pace ma i Paesi sono divisi di Alberto Simoni La Stampa, 23 febbraio 2023 Alla vigilia dell’anniversario dell’invasione russa la diplomazia internazionale si sposta al Palazzo di Vetro di New York. Tajani: “È tempo di raddoppiare gli sforzi”. La diplomazia internazionale si sposta al Palazzo di Vetro di New York dove oggi è previsto il voto su una risoluzione che “promuove il dialogo e una pace duratura in Ucraina in linea con la Carta Onu”. Sono le parole dell’ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield all’Assemblea generale che mercoledì ha iniziato a dibattere il testo della risoluzione che sarà votata oggi. Sponsorizzata da 75 Paesi, fra cui l’Italia, la mozione è più articolata di quella votata lo scorso marzo che condannava l’invasione russa. Questa propone l’ipotesi per “una pace giusta e duratura” e l’Assemblea generale sarà chiamata a prendere posizione. “La bozza di risoluzione proposta qui in Assemblea Generale non aiuterà la soluzione del conflitto”, ha replicato l’ambasciatore russo all’Onu Vassily Nebenzia, che ha poi chiesto di “supportare gli emendamenti introdotti dalla Bielorussia o votare no al testo attuale che è unilaterale” e non bilanciato. Il voto a Palazzo di Vetro, che anticipa il dibattito a livello di ministri degli Esteri di venerdì al Consiglio di Sicurezza, arriva nelle ore che ricordano l’anniversario dell’invasione russa. L’ambasciatrice americana nel suo intervento davanti ai delegati dei Paesi membri ha accusato nuovamente Mosca di “crimini contro l’umanità”, ribadendo la linea già esposta la settimana scorsa alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco dalla vicepresidente Kamala Harris. Mentre il ministro degli Esteri ucraino Kuleba ha rilanciato parlando di “genocidio” da parte dei russi. Il voto dell’Assemblea generale non è vincolante ma ha un valore simbolico molto forte. Consentirà infatti di tirare le somme e vedere quali Paesi, un anno dopo l’attacco russo, sono schierati ancora con Mosca. La complessità della risoluzione rende difficile ripetere i numeri dello scorso marzo quando 141 Paesi condannarono l’invasione. Fonti dell’Amministrazione Usa hanno immaginato il pallottoliere fermarsi a 130 Paesi, un numero giudicato “considerevole”. Gli occhi sono puntati su alcuni Paesi africani che intrattengono rapporti storici con Mosca, come il Sud Africa, e India e Brasile, dando per scontato l’astensionismo cinese. La Casa Bianca ritiene che il Brasile potrebbe astenersi, mentre un voto contrario dell’India creerebbe qualche disagio visto che New Delhi ospiterà il prossimo G20 (settembre) e negli ultimi mesi aveva preso le distanze da Mosca, pur mantenendo intatto il trade commerciale e l’acquisto di energia. A New York arriverà il segretario di Stato Usa Antony Blinken. Ieri sera è invece intervenuto il ministro degli Esteri Antonio Tajani che ha chiesto nuovi sforzi diplomatici per raggiungere una soluzione di pace. “Adesso - ha detto - è tempo di raddoppiare gli sforzi per raggiungere questo obiettivo”. Un appello anticipato da Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite che in apertura di seduta ha detto che “anche se oggi le prospettive possono sembrare fosche, dobbiamo lavorare tutti sapendo che una pace genuina e duratura deve basarsi sulla Carta delle Nazioni Unite e sul diritto internazionale”. Gli esperti Onu pongono fine anzitempo alla visita nelle carceri australiane di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 febbraio 2023 Il Sottocomitato delle Nazioni Unite ha ufficialmente posto fine alla sua visita in Australia già interrotta nell’ottobre 2022. Il governo australiano non ha dato le garanzie necessarie circa l’accesso adeguato degli esperti Onu ai centri di detenzione, come invece sarebbe stato obbligato a fare ai sensi del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Una situazione imbarazzante: in precedenza era successo solo una volta, col Ruanda. Lo scopo della visita era quello di indagare sulla condizione dei minorenni, dei rifugiati e dei richiedenti asilo negli istituti di pena australiani. Cos’è che il governo australiano non aveva piacere che gli esperti delle Nazioni Unite verificassero? La risposta si evince da un memorandum che Amnesty International Australia aveva sottoposto al Sottocomitato: le continue morti in carcere di detenuti nativi, l’imprigionamento di minorenni nativi anche di 10 anni, i danni alla salute fisica e mentale causati dalla detenzione a tempo indeterminato di richiedenti asilo e migranti. Nicaragua. Ortega svuota le celle di Gianni Beretta Il Manifesto, 23 febbraio 2023 Presi all’alba da tutto il Paese, caricati su un aereo a Managua, spediti a Washington: così il presidente si è liberato di 222 detenuti politici. Solo il vescovo Alvarez ha rifiutato il volo. Ha del clamoroso la repentina liberazione giovedì scorso di pressoché tutti i prigionieri politici in Nicaragua, insieme alle sue sorprendenti modalità: 222 detenuti che senza nulla sapere sono stati concentrati all’alba dalle carceri di tutto il Nicaragua all’aeroporto di Managua per montare su un volo ad hoc che li ha trasferiti a Washington. Ponendo fine a un incubo che si prolungava ormai da almeno un paio d’anni in condizioni disumane d’isolamento. Una decisione presa unilateralmente, come confermato in un discorso a reti unificate dallo stesso presidente Daniel Ortega, accompagnato dalle massime cariche civili, politiche, giudiziarie e militari del regime, che precisa di non aver chiesto nulla in cambio agli Stati uniti a partire dalla sospensione delle sanzioni che gravano sui beni di 21 membri del suo clan familiare e non solo, oltre che di istituzioni quali la Policia Nacional (retta dal consuocero). Mentre il segretario di stato degli Stati uniti Antony Blinken, cui è bastato mettere a disposizione il velivolo, gli ha fatto eco parlando di “dialogo ora possibile”. Ma mentre se ne “disfava” e avevano già spiccato il volo, il parlamento orteguista ha modificato l’art. 21 della Costituzione, introducendo l’inedita privazione della nativa cittadinanza nicaraguense di coloro che aveva definito “traditori figli di cagna assoggettati all’imperialismo yankee”: quindi esiliati e apolidi ad un tempo. Si tratta di oppositori delle più svariate tendenze politiche, a cominciare da sandinisti dissidenti come la comandante guerrillera Dora Maria Tellez, l’ex viceministro degli esteri durante il governo rivoluzionario degli anni ‘80 Victor Hugo Tinoco e l’ottantente allora ex sacerdote-ministro (alla famiglia) Edgar Parrales. Seguiti da diversi precandidati alle presidenziali-farsa del 2021 (ficcati in galera prima di poter concorrere) a cominciare da Cristiana Chamorro, figlia della ex presidente Violeta Barrios, che era ai domiciliari, e di suo fratello Pedro Joaquin. Per continuare con l’ex capo della confindustria locale José Adan Aguerri. E la moglie dell’ex presidente Arnoldo Aleman col quale Ortega fece il diabolico patto con l’oligarchia che lo riportò nel 2007 alla presidenza. E così pure: giornalisti, accademici, diplomatici, magistrati, dirigenti sindacali e contadini, difensori dei diritti umani… Sono stati poi liberati studenti come Lesther Aleman e Max Jerez, fra i leader che capeggiarono la rivolta dell’aprile del 2018 che mobilitò l’intera popolazione in manifestazioni oceaniche contro la tirannia. Quella sollevazione fu poi soffocata nel sangue con 350 vittime ufficiali in tre mesi (ma sarebbero almeno il doppio) per quello che Ortega si precipitò a definire un tentato golpe ordito dagli Usa. Da ultimo hanno preso il volo i sette fra sacerdoti e seminaristi condannati la settimana scorsa a dieci anni per “cospirare” contro lo stato. Solo il vescovo di Matagalpa, Rolando Alvarez, sotto processo, si è rifiutato di montare sull’aereo dichiarando “non voglio lasciare il mio paese”. Così che il prelato è stato subito trasferito dagli arresti domiciliari nella casa di famiglia direttamente al penitenziario di El Chipote. Non è semplice a caldo dare un’interpretazione di questa decisione improvvisa quanto generosa da parte del regime nicaraguense. Da tempo si specula su trattative riservate (ovviamente includenti la sorte di questi detenuti) con l’amministrazione Biden per il ristabilimento di qualche parvenza di democrazia. Di certo ci sono pesanti segnali di malessere all’interno dell’orteguismo. A cominciare dall’incredibile recente diverbio pubblico (filmato) fra Ortega e la sua vice, nonché consorte, Rosario Murillo. Ovvero colei che di fatto è pure una sorta di (assai detestata) primo ministro; e che tiene sotto ricatto il marito dagli anni ‘90 quando sconfessò la propria figlia Zoilamerica che accusava il patrigno di aver abusato di lei da adolescente. Dalle elezioni municipali dello scorso novembre (in cui la totalità dei 153 sindaci sono stati scelti tra fedelissimi del regime) sono state poi numerose le rimozioni da alte cariche della magistratura, della polizia e dell’esercito, di figure storiche vicine a Ortega, qualcuna finita anche al Chipote. E lo stesso discorso rivolto da Ortega l’altro ieri alle massime figure istituzionali aveva un che d’intimidatorio. Senza contare che a diversi funzionari di governo è stata negata l’estensione del passaporto. Segni di debolezza intorno alla folle coppia presidenziale. Anche se forse è prematuro parlare di rischio d’implosione del sistema autarchico. Di certo con questa liberazione dei dissidenti, dopo aver verificato che Russia e Cina non gli avrebbero assicurato un aiuto materiale significativo, il Nicaragua (al di là di Cuba e il Venezuela) cerca di rompere l’isolamento anche nell’ambito della sinistra latinoamericana da poco ascesa al governo, come in Cile e Colombia; mentre il Brasile del neo Lula tentenna. Al contempo Ortega deve garantirsi il mantenimento dell’insostituibile flusso dei commerci con gli Stati uniti, nell’ambito dell’accordo di libero scambio Cafta centroamericano. Per il resto, se di questo paese irrilevante e rimosso (che contende all’Honduras il primato di povertà nella regione) se ne parlava ogni tanto solo nelle Americhe e in Spagna proprio per quei prigionieri, ora non ci sarà più neanche quell’argomento. Inutile rischiare di pagare dunque il prezzo per la morte di stenti di qualche altro carcerato, come toccò lo scorso anno al mitico generale sandinista Hugo Torres. Meglio che incomba il silenzio totale su questo Nicaragua che si è ormai convertito nella Corea del Nord del subcontinente latinoamericano. Dove non si muove foglia che Daniel e Rosario non vogliano. Ma con una differenza sostanziale con Pyongyang: che tutto si viene a sapere, grazie all’incontenibile rete dei social che mantiene in contatto l’interno impaurito del paese con (si stima) gli almeno duecentomila nicaraguensi fra oppositori ed emigrati “economici” che hanno riempito il vicino Costarica e che continuano a riversarsi verso il nord. Cui si sono aggiunti ora i 222 ex prigionieri di giovedì scorso che il Premio Cervantes per la Letteratura, Sergio Ramirez, nonché vicepresidente di Daniel Ortega per tutto il decennio della Rivoluzione Popolare Sandinista, ha con sollievo definito dal suo esilio a Madrid “desterrados (esuli, privati della loro patria) ma nicaraguensi più che mai…”. Quello stesso Dottor Ramirez che all’indomani della sconfitta elettorale del febbraio 1990, che costituì paradossalmente l’opera maestra della Rivoluzione per aver consegnato democraticamente il potere a donna Violeta, assunse l’incarico di capogruppo del Fronte Sandinista in parlamento col proposito di costruire altrettanto democraticamente le condizioni per tornare al governo alle successive consultazioni. Ma il sempiterno segretario del Fsln Daniel Ortega, nel suo delirio di potere, distrusse ben presto quel processo di dignificazione di un popolo intero. Canada, trovate altre fosse comuni nelle scuole cristiane per gli indigeni di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 23 febbraio 2023 Nell’ex convitto sull’isola di Vancouver potrebbero essere sepolti centinaia di bambini nativi. I sopravvissuti raccontano di aborti forzati e piccole bare trasportate nottetempo. L’horror story delle scuole residenziali canadesi, gestite dalla Chiesa per “civilizzare gli indigeni”, non ha fine. La Prima Nazione di Tseshaht ha annunciato l’individuazione con i radar di 17 tombe sospette nel terreno dell’ex convitto di Port Alberni, sull’isola di Vancouver. Potrebbero contenere i corpi di decine di ex piccoli alunni. È un drammatico “viaggio nella verità” cominciato anni fa e questa è solo l’ultima di una lunga serie di atroci scoperte. Oltre 150 mila bambini furono costretti a frequentare le scuole cristiane finanziate dallo Stato canadese, a partire dal XIX secolo, nel tentativo di isolarli dall’influenza culturale delle comunità native. Alcuni avevano appena 3-4 anni. Venivano trasferiti spesso a migliaia di chilometri di distanza dai genitori, a volte non li rivedevano più. Molti subirono abusi fisici e sessuali, migliaia non tornarono mai a casa. L’ultima delle 139 Residential Schools venne chiusa nel 1998. La maggior parte è stata da allora demolita. Non quella di Port Alberni, in British Columbia. Bambini di almeno 90 comunità hanno frequentato la scuola, chiusa nel 1973. Secondo il geofisico Brian Whiting, che ha guidato le ricerche, le 17 tombe rilevate potrebbero essere soltanto la punta di un iceberg. I sopravvissuti hanno raccontato di aborti forzati, sepolture multiple, teschi e resti umani che affioravano dal terreno e piccole bare trasportate nottetempo fuori dall’edificio. Era uno dei sei centri residenziali canadesi in cui gli alunni venivano sottoposti ad esperimenti nutrizionali autorizzati dal governo senza il consenso dei genitori. E nel marzo 1995, l’ex supervisore del dormitorio scolastico si dichiarò colpevole di 18 “aggressioni indecenti”, avvenute tra il 1948 e il 1968. All’epoca aveva 77 anni e fu condannato a 11 anni di carcere. In quell’occasione, un giudice della Corte Suprema paragonò il sistema scolastico residenziale ad “una forma di pedofilia istituzionalizzata”. L’obbiettivo dichiarato del patto fra Stato e Chiesa era assimilare e cristianizzare i bambini indigeni, definiti come “selvaggi”. Il governo canadese, dopo le scuse formali, ha istituito un fondo di compensazione da 1,9 miliardi di dollari e una Commissione per la verità e la riconciliazione, che ha ascoltato per sei anni le drammatiche testimonianze dei sopravvissuti e identificato più di 4.000 bambini morti per malattie provocate da sovraffollamento, malnutrizione e scarsa igiene, o dopo aver subito abusi o aver tentato di scappare. Nel 2015, concluse che si trattò di un “genocidio culturale”. Il tema delle fosse comuni è esploso nel maggio 2021, quando furono trovate oltre 200 tombe anonime sul terreno di un’ex scuola a Kamloops, in British Columbia. Alcune settimane dopo, altre 751 tombe affiorarono davanti alla Marieval Residential School nel Saskatchewan. Diverse chiese sono state poi vandalizzate, in migliaia hanno marciato rivendicando le scuse del Papa. Francesco ha finalmente visitato il Canada nel luglio scorso per quello che ha definito “un pellegrinaggio penitenziale”, durante il quale ha chiesto perdono “per il torto fatto da tanti cristiani ai popoli indigeni”.