Carcere, una telefonata può salvare la vita di Antonella Patete redattoresociale.it, 22 febbraio 2023 L’appello di oltre 100 organizzazioni e privati cittadini per mantenere le videochiamate introdotte durante la pandemia. “Gentili direttori, non fateci tornare al peggio del passato, usate il vostro “potere” per prevenire i suicidi con quello straordinario strumento che può essere sentire una voce famigliare nel momento della sofferenza e della voglia di farla finita. Lasciate le telefonate in più, in nome dell’emergenza suicidi, e anche per dare continuità a quella che la Corte Costituzionale nell’ordinanza n.162/2010 definisce la progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. Si conclude così l’appello, reso noto da Ristretti Orizzonti, che oltre 100 soggetti, tra organizzazioni e privati cittadini, hanno inviato ai direttori dei penitenziari, perché, in base alla discrezionalità che l’ordinamento penitenziario riconosce loro, garantiscano colloqui, telefonate e videochiamate oltre le previsioni normative ordinarie. Sarà ancora possibile telefonare a casa con la stessa frequenza? - Con il Covid - si legge nell’appello - è stato introdotto “il miracolo” delle videochiamate, che hanno permesso alla popolazione detenuta di telefonare più spesso, in alcuni penitenziari anche ogni giorno, potendo così “rivedere” le proprie case e le famiglie lontane grazie alle videochiamate. Ma ora “Radio carcere” dice che le telefonate a breve non saranno più quotidiane o comunque diventeranno molto frequenti: “Non vogliamo credere che i direttori, che hanno la possibilità di concedere più telefonate per motivi ‘di particolare rilevanza’, rinuncino a un potere, che per una volta è davvero un ‘potere buono’, di far star meglio le persone detenute, e soprattutto le loro famiglie. Certo, per chi ha figli minori dovrebbe restare in ogni caso la telefonata quotidiana, prevista dalla legge - prosegue l’appello - ma tutti quei figli maggiorenni che per anni hanno avuto a disposizione solo dieci miserabili minuti settimanali per parlare con un genitore detenuto, perché devono essere di nuovo penalizzati dopo aver faticosamente ricostruito delle relazioni famigliari decenti con la chiamata quotidiana (o comunque molto frequente)?” Il garante Anastasia: “Anacronistici solo 10 minuti di telefonata a settimana” - Sul tema è intervenuto anche il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, che ha auspicato, in attesa del cambiamento della norma del Regolamento, una particolare attenzione e sensibilità sul tema da parte dell’amministrazione penitenziaria. “Quante volte, nei mesi più difficili della pandemia, ci siamo detti che non si sarebbe potuto tornare indietro, allo status quo ante? - si legge sul sito dell’Ufficio del Garante del Lazio. - La pandemia ci ha mostrato l’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario, l’insostenibilità del carcere “ospizio dei poveri” e della sua chiusura all’esterno, alle tecnologie e agli affetti. Nell’emergenza sono state adottate misure capaci di scavalcare le barriere della comunicazione e di integrare i servizi sociali territoriali nella presa in carico delle persone bisognose di accoglienza sul territorio”. Non va ora dimenticato - prosegue Anastasia - che le misure di emergenza adottate durante la pandemia supplivano incapacità strutturali del nostro sistema penitenziario”. Per il garante del Lazio non si può, insomma, tornare indietro: “Tra le principali inadeguatezze del nostro sistema penitenziario - scrive - ci sono quei micragnosi 10 minuti di telefonata alla settimana (ogni due settimane per chi è in alta sicurezza) che somigliano tanto alla settimanale telefonata a casa della mia generazione, tra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso, durante la naja, le vacanze o da studenti o lavoratori fuori sede. Una cosa, appunto, del secolo scorso, letteralmente inconcepibile per i ragazzi di ora, ma anche per noi, ragazzi d’allora, che invecchiamo con un cellulare sempre acceso in tasca o sul comodino”. Lo psichiatra De Leo: “Aumentare i contatti col fuori aiuta a prevenire i suicidi” - L’appello fa anche riferimento ai sucidi in carcere, che nel 2022 hanno raggiunto la cifra record di 84 e riporta il commento dello psichiatra Diego De Leo, uno dei massimi esperti di suicidi: “Aumentare le opportunità di comunicazione e le connessioni con il mondo ‘di fuori’ non solo renderebbe più tollerabile la vita all’interno dell’istituto di detenzione, ma sicuramente aiuterebbe nel prevenire almeno alcuni dei troppi suicidi che avvengono ancora nelle carceri italiane”. Un accordo per dare nuove opportunità di lavoro ai detenuti di Veronica Rossi vita.it, 22 febbraio 2023 Manpower, Fondazione Human age institute e Fondazione Severino hanno attivato un protocollo d’intesa per la formazione e l’inserimento lavorativo delle persone detenute ed ex detenute. A Viterbo, la prima persona a trovare un impiego grazie all’iniziativa. Nel percorso che porta a rientrare in società, per chi è o è stato in prigione, il lavoro gioca un ruolo fondamentale: secondo il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro solo il 2% dei detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale ritorna a commettere reati. È per questo che la società interinale multinazionale Manpower, la Fondazione Human age institute - la non profit del gruppo -e Fondazione Severino Onlus, ente romano che dà supporto a persone in situazione di svantaggio, hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per promuovere iniziative congiunte finalizzate a formare detenuti ed ex detenuti e ad agevolarne l’inserimento nel mercato del lavoro. L’accordo, già attivo, ha ottenuto nei giorni scorsi il primo risultato: una persona detenuta nel carcere di Viterbo è stata assunta con contratto di somministrazione all’interno di un ristorante. “È un grande passo in avanti: il protocollo di Intesa con Fondazione Severino è il primo accordo di questo tipo per la rieducazione e il reinserimento nella società dei detenuti ed ex detenuti”, dichiara Anna Gionfriddo, amministratrice delegata di ManpowerGroup Italia e presidente di Fondazione Human age institute. “L’accordo sottoscritto è una testimonianza del nostro impegno per garantire a tutti, anche alle persone più svantaggiate, la possibilità di ritrovare la propria autonomia attraverso un percorso professionale, oggi anche attraverso i contratti di somministrazione. È un obiettivo ambizioso, ma per raggiungerlo manca ancora quasi del tutto una mappatura di esperienze, competenze e attitudini delle persone detenute, e questo rende ancora complesso l’inserimento nel mondo del lavoro. Sono però certa che questo tipo di iniziative siano fondamentali per superare gli ostacoli e moltiplicare le opportunità per queste persone”. L’accordo prevede che Manpower, in collaborazione con Fondazione Human age institute e Fondazione Severino, agevoli l’accesso al lavoro di persone detenute ed ex-detenute attraverso un’attività di supporto e selezione di lavoratori. Il gruppo, inoltre, si occupa anche della predisposizione e programmazione di corsi formativi rivolti alle persone private della libertà con l’obiettivo di fornire loro strumenti volti a un pieno reinserimento nella società. A scegliere i candidati a partecipare a questi percorsi, la Fondazione Severino, che fornisce anche assistenza sulla normativa che regola i benefici fiscali e previdenziali per le imprese che danno lavoro a detenuti. “I detenuti e le detenute avranno la possibilità di acquisire nuove competenze ed entrare in contatto con realtà lavorative, con l’obiettivo di diventare membri attivi della società”, afferma Eleonora Di Benedetto, consigliera di Fondazione Severino. “Siamo consapevoli delle difficoltà che affrontano i detenuti nel momento del reinserimento sociale, ma crediamo che la collaborazione tra il mondo carcerario e quello del lavoro possa fare la differenza nel creare i presupposti necessari a questo scopo e nel perseguire il fine rieducativo che la pena deve avere”. Alle attività di formazione e inserimento lavorativo si affianca un’azione di sensibilizzazione e onboarding sui temi di inclusione da parte di Fondazione Human age institute indirizzata alle aziende che parteciperanno al progetto. In particolare, la fondazione si occuperà di accompagnare l’inserimento lavorativo delle persone individuate, facilitando il dialogo tra azienda e lavoratore. Attraverso questo monitoraggio nel tempo sarà possibile osservare gli impatti sociali che l’inclusione lavorativa porta con sé, valorizzando l’impegno sulla “S” degli obiettivi Esg perseguiti dalle Aziende. “Il lavoro costituisce un elemento fondamentale del processo di rieducazione, indispensabile per assicurare e promuovere la dignità della persona”, conclude Anna Maria Dello Priete, Direttrice della Casa Circondariale di Viterbo. “Con la riforma penitenziaria del 2018, il legislatore ancora una volta ha voluto colmare il divario esistente tra lavoro carcerario e lavoro libero, nella convinzione che solo un lavoro organizzato secondo i modelli della società libera può portare all’acquisizione di competenze e preparazione professionale adeguate all’effettivo reinserimento dei soggetti coinvolti. Il protocollo con Manpower, Fondazione Human age institute e Fondazione Severino si propone di realizzare concretamente questo obiettivo e siamo estremamente orgogliosi che la prima risorsa inserita sia stata un nostro giovane detenuto”. Cospito e il 41bis, il Garante Nazionale dei detenuti: “Verifichiamo utilità del carcere duro” torinoggi.it, 22 febbraio 2023 Tutte le forze politiche hanno chiuso ad un dibattito sul 41bis, fermandosi all’assunto che il regime è necessario e non si tocca”. Il 41-bis è stato introdotto dalla legge n.663 del 10 ottobre 1986 e prevede il “carcere duro” per i detenuti incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo ed eversione. Il regime prevede l’isolamento della persona, che non ha accesso a spazi comuni del carcere, la limitazione dell’ora d’aria, così come dei colloqui con i familiari. Il 24 febbraio la Corte di Cassazione si esprimerà sul ricorso presentato dalla difesa di Alfredo Cospito, che chiede la revoca del 41bis. “Sul 41bis non si è aperto il dibattito” - “Sul 41bis - ha commentato Emilia Rossi, Componente del Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà nazionale, intervenendo questa mattina in Sala Trasparenza - il dibattito non si è aperto per nulla: tutte le forze politiche hanno discusso sulla vicenda individuale di Cospito. Tutte hanno però chiuso ad un dibattito sul 41bis, fermandosi all’assunto che il regime è necessario e non si tocca”. Tenuta del 41bis - Negli scorsi mesi i tre membri del Collegio del Garante Nazionale hanno visitato le sezioni del carcere duro di tutti i penitenziari italiani, avendo colloqui privati e non registrati con tutti i detenuti. In Piemonte ci sono 68 persone in 41bis al carcere di Novara e 46 a Cuneo. “Quello che noi stiamo studiando - ha concluso Rossi - è la tenuta di questo istituto, rispetto alla sua ragione originaria di interrompere i contatti con la criminalità organizzata di appartenenza, prevenendo i rischi di ricostituzione. Vogliamo verificarne la tenuta, a 30 anni di distanza dalla creazione”. 41bis, anche un mafioso ha il diritto di protestare di Iuri Maria Prado Il Riformista, 22 febbraio 2023 Come il distintivo antimafia è sufficiente ad assicurare carriere e ad assolvere qualsiasi sproposito, così quello di segno opposto, lo stigma di mafiosità, basta di per sé a deprivare di qualsiasi diritto chi ne sia portatore. Il caso di Alfredo Cospito, la cui iniziativa - secondo la teoria del fronte della “fermezza” - sarebbe stata intrapresa su istigazione o per procura “dei mafiosi”, ha reso evidente e fatto trionfare a destra e a manca il pregiudizio che profondamente comanda i movimenti delle viscere antimafia: e cioè l’idea che al condannato per quel tipo di delitti debba essere perfino precluso - e a prescindere dal fatto che, nel farlo, commetta o no altri reati - di coltivare la speranza e di impegnarsi affinché sia riveduto un regime carcerario imposto da una norma ritenuta ingiusta. Ma bisognerebbe intendersi: se i cosiddetti mafiosi dessero corso a iniziative non violente e non illecite per l’abolizione del 41bis non solo eserciterebbero un proprio diritto ma, almeno dal punto di vista di chi ritiene ingiusta e forse illegale quella norma, farebbero anche molto bene. Invece si vuole generalmente che un’ipotesi di revisione di quella disciplina sia oltraggiosa per il sol fatto che ad augurarsela sono innanzitutto quelli che la subiscono (“Un regalo alla mafia!”): come dire che non bisogna abolire la pratica della mordacchia perché l’eretico ne trarrebbe giovamento. E bisognerebbe intendersi anche oltre: non c’è infatti compatibilità, ma contraddizione, tra lo Stato di diritto liberale e lo Stato del 41bis. E se la scelta è tra chi si ostina a denegare quella contraddizione, cioè l’antimafia, e chi invece la denuncia, fosse pure il mafioso, allora noi senza riserve scegliamo quest’ultimo. E non per inchino alla prepotenza criminale, secondo quanto alcuni invece addebitano a chiunque faccia stecca rispetto al coro della giustizia segregazionista, a chiunque contesti che il feticcio antimafia debba imperativamente essere presidiato da un dispositivo di umiliazione e degradazione: non per cedimento alla violenza del potere mafioso, dunque, staremmo dalla parte di chi contesta il 41bis pur se a militarvi fossero i mafiosi stessi, ma per non cedere alla tentazione del potere pubblico di abbandonarsi a questa violenza anche più pericolosa, e cioè l’ingiustizia perpetrata in nome del bene. Dibattito su caso Cospito e 41bis: parola a chi sperimenta il carcere dai carcerati della Casa di reclusione di Reggio Emilia Avvenire, 22 febbraio 2023 Gentile direttore, Abbiamo notato la mancanza di consapevolezza su ciò che le persone sanno del 41bis, e ancor più del poco che si sa riguardo la sua “ostatività”. Ci ha colpito quanto venga addirittura distorta dai media la sostanza stessa di questo provvedimento. Alcuni di noi, che hanno vissuto in un regime di “carcere duro”, hanno provato sentimenti equivalenti al morire: questo tipo di detenzione toglie la dignità all’uomo che è leso nel suo stesso essere. Di pena, e per la pena, si muore. Si rischia di fare del 41bis un’azione di vendetta dello Stato che così non è più uno Stato di diritto che amministra giustizia. Se così è, il pensiero corre a quella definizione che dice che il livello di civiltà di una società lo si coglie dalla condizione delle sue prigioni... Abbiamo l’impressione che uno Stato che “si vendica” è debole. Qualcuno di noi ha citato la frase del giudice Pennisi secondo cui il 41bis è come una foglia di fico che lo Stato si mette per coprire la vergogna di una giustizia inadeguata. Ci sono stati da parte nostra pensieri non concordi sulla situazione particolare di Cospito, che alcuni di noi hanno conosciuto. È sincera la sua protesta? Lo fa solo per sé o per tutti? Perché altri non fanno propria la stessa protesta? Crediamo che la sua battaglia vada sostenuta e rispettata come ogni scelta nella quale una persona ci mette del suo, naturalmente secondo i criteri della convivenza pacifica. Pensiamo infatti che le proteste degli anarchici danneggino Cospito, proprio in ordine al nostro rifiuto di ogni violenza. Non si può da parte di nessuno venir meno al rispetto della Costituzione che rimane il riferimento oggettivo per la nostra convivenza. Infine, per quanto ci riguarda, crediamo nella possibilità che ognuno, a partire dalla propria storia, possa cambiare, perché ogni storia è soggettiva. Qualcuno di noi in regime di 41bis ha “ritrovato la libertà”. Questo può avvenire, innanzitutto, prendendo le distanze dal mondo che lo ha coinvolto e lo ha visto protagonista nel male. Quindi il coraggio di rompere i rapporti con le persone che di quel mondo fanno parte. Per quello che viviamo, possiamo testimoniare che, facendolo insieme, si può. Crediamo anche noi nella necessità che il regime di detenzione a cui Cospito è sottoposto vada tolto perché innanzi tutto è una sconfitta per chi lo applica; nello stesso tempo non si può togliere la speranza che nasce dalla consapevolezza del proprio reato, ma soprattutto dalla condizione di “vittima” che abbiamo fatto vivere alle persone e alle famiglie che abbiamo leso anche in modo molte volte irrimediabile. Sta davanti a noi una Parola pronunciata da Colui che continua a credere in noi per renderci “puri di cuore”. La Parola che vale per ciascuno di noi e per tutti quelli che gravitano nel mondo della giustizia è “conversione”. Nel nostro ambito particolare poi assume la fisionomia della mediazione penale, ma qui inizia un altro nuovo cammino. Grazie per la sua e vostra attenzione. Risponde Marco Tarquinio Non aggiungo nulla alla vostra riflessione, gentili e cari lettori e amici, se non un semplice grazie per averla condivisa con noi. Sono molto contento di poterla pubblicare nel dibattito sul modo in cui in Italia viene applicato lo specialmente severo regime carcerario previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario. È un buon modo per dar voce - come pacatamente e giustamente rivendicate - anche a “coloro che vivono una situazione di detenzione” Signor ministro Nordio, non lasci morire l’anarchico Cospito di Giuseppe Romano Il Dubbio, 22 febbraio 2023 L’appello dell’associazione Giuristi democratici “Emanuele Battain” di Venezia. Signor Ministro, i Giuristi Democratici di Venezia, Associazione intitolata all’ avv. Emanuele Battain, a lei ben noto per la strenua difesa dei diritti di tutti e in particolar modo di chi non può agire a difesa dei propri, Le rivolgono appello da quella laguna che l’ha vista protagonista per molti anni: Cospito non deve e non può morire sotto la sua custodia, non ora, non così. Non ora in cui sta per pronunciarsi la Cassazione con un parere favorevole al ricorrente da parte dello Stato che Lei pure rappresenta. Non ora che la Direzione antimafia ha aperto una strada verso una diversa modalità di contenimento detentivo. Non ora in cui pende giudizio di sospetta costituzionalità, sollevato dai Giudici di Torino, sulla pena dell’ergastolo non bilanciabile per Cospito. Soprattutto non così; non in forza di un suo rifiuto alla richiesta di revoca, sorretto da motivazioni non comprensibili. Nello scrivere il rigetto Lei ritiene non rilevanti gli esiti di due processi che, nelle more, hanno dimostrato l’insussistenza del vincolo associativo sovversivo di due compagini anarchiche. Il presupposto da Lei utilizzato è che Cospito non ne facesse parte, il che postula - in caso contrario- che la sua partecipazione sarebbe stata rilevante. Ebbene, anche a voler seguire questa linea (da noi non condivisa) si dimentica di citare quale associazione starebbe allora operando con Cospito e in che modalità concretamente si svilupperebbe il pericolo cui l’art. 41 bis dovrebbe far fronte. Nulla sul punto che pure è cruciale. Sorprende ancora di più la seconda parte del suo rifiuto: il detenuto avrebbe istigato con lo sciopero della fame! L’argomento si presta ad una illogicità che potremmo definire circolare. Cospito smette di mangiare per protesta e Lei attribuisce a quel gesto la necessità di continuare al 41 bis. L’agitarsi delle piazze per la protesta/solidarietà sulla umanità della pena è all’evidenza autonomo da ordini impartiti con comunicazioni che la norma deve recidere. Se lo sciopero della fame vuole essere da Lei interpretato come causa del pericolo pubblico la risposta obbligherebbe fatalmente lo Stato a dover scegliere tra revocare del 41 bis o intubare il detenuto per costringerlo a mangiare. La vera riforma della giustizia? Un diritto penale “minimo” oltre l’onnipotenza del processo di Francesco Bonito Gazzetta del Mezzogiorno, 22 febbraio 2023 La recente riforma Cartabia in materia di giustizia penale merita, anzi impone, qualche riflessione a chi, come chi scrive, per oltre mezzo secolo si è occupato di questi temi. 1. Non tutti sanno che le regole del processo hanno conosciuto, nelle varie epoche, una rilevanza di sistema del tutto marginale rispetto a quelle sostanziali e sono state ritenute meritevoli di approfondimento scientifico soltanto in epoca recente. La prima cattedra di diritto processuale penale distinta da quelle di diritto penale è stata infatti istituita in Italia soltanto nel 1938, dalla Università di Roma, che l’affidò a Vincenzo Manzini, notissimo studioso. Prima di allora la procedura era stata insegnata come parte minore del diritto penale sostanziale. 2. Ebbene, quello che per anni è stato riconosciuto dagli operatori e dai cattedratici come diritto minore, mero supporto, ancorché necessario, del “fratello maggiore”, il diritto penale sostanziale, conosce invece da anni, ovverosia dal 24 ottobre 1989, giorno dell’entrata in vigore del codice vigente, ben altra attenzione scientifica, giacché ormai divenuto più importante, ai fini delle pronunce giudiziali, dello stesso diritto penale sostanziale. 3. In un epoca neppure tanto lontana i penalisti di fama, da Carnelutti a Pisapia, da De Marsico a de Nicola, si imponevano come grandi oratori, capaci di dimostrare il loro valore nel momento dell’arringa difensiva con la quale si concludeva il dibattimento, nel corso della quale i temi trattati erano, essenzialmente, quelli del fatto contestato all’imputato, la sua ricorrenza, la sua riferibilità ad una figura tipica di reato prevista dal codice penale. 4. Oggi, viceversa, il grande avvocato penalista è, innanzitutto, un esperto delle regole, giacché il processo, proprio per il suo carattere accusatorio, è competizione, confronto tra pubblica accusa e difensore sulle rispettive prove portate nel processo, sulla legittimità dei vari momenti processuali che portano alla decisione, non più un confronto sui reati ma un confronto sulle regole. 5. La lunga premessa è necessaria per comprendere appieno le politiche del diritto che da oltre trent’anni si susseguono nel nostro Paese con lo scopo, peraltro mai raggiunto, di rendere più funzionale il nostro sistema di giustizia penale. 6. Ma andiamo con ordine. Dall’entrata in vigore del codice di procedura penale, il Parlamento nazionale ha approvato un profluvio di interventi riformatori volti a rendere più rapidi i giudizi penali ed in tali sensi si è mossa, da ultimo, la ministra Cartabia e la sua recentissima riforma. 7. Ebbene, ancora una volta il legislatore ritiene che la giustizia penale nel nostro Paese possa diventare più rapida, più efficiente, più giusta intervenendo sulle regole del processo. Nulla di più errato, nulla di più illusorio. Ancora una volta l’onnipotenza della superstizione processualistica illude, lusinga, incanta. Il nodo vero della crisi e della inefficienza del sistema non sta nelle regole, ma nelle caratteristiche del modello penale sostanziale. 8. Cerco di argomentare siffatto giudizio. Il nostro sistema penale è compromesso, nella sua efficienza, dal suo insopportabile dimensionamento (vieppiù aggravato dalla obbligatorietà dell’azione penale imposta costituzionalmente) sconosciuto nelle democrazie occidentali. In nessun Paese europeo vige, infatti, una realtà “panpenalistica” analoga a quella che caratterizza il nostro sistema, frutto di precise cause storiche. 9. Esso, il nostro sistema penale intendo, è giunto alle attuali dimensioni in conseguenza di due importanti apporti storici e culturali. Per un verso l’illuminismo, che disvelò la dimensione democratica del diritto penale come strumento per tutelare valori essenziali della convivenza civile e delle libertà individuali, di guisa che più diritto penale significava più libertà, più democrazia, maggiore tutela dei diritti individuali, dall’altra il fascismo e le culture autoritarie di cui tale regime è stato portatore, in forza delle quali il diritto penale assunse il ruolo e la funzione di controllo sociale e di strumento a servizio della tirannide. Queste due correnti ideali e politiche, insieme, ancorché contrastanti, hanno portato alla formazione di quel sistema penale sovradimensionato cagione vera, strutturale, della crisi che si intende affrontare. 10. Di qui i rimedi, da ricercare nel profondo e radicale ridimensionamento del diritto penale sostanziale, nella riduzione massiccia delle condotte penalmente perseguibili, nella costruzione di un diritto penale a servizio della società di oggi che, per questo, deve rispondere a due precisi caratteri identificativi, deve essere “minimo” e “mite”. 11. Cosa deve intendersi per diritto penale minimo è presto detto (sul “mite” tornerò in altra circostanza). Fin dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo risalente al 1789 e, quindi, alla Rivoluzione Francese, il criterio giustificativo della criminalizzazione dei comportamenti venne identificato nella loro “dannosità sociale”, criterio questo ancora oggi irrinunciabile. La sanzione penale, nella società attuale, deve essere residuale, deve colpire cioè condotte socialmente avvertire come gravi e per questo meritevoli di essere affidate all’accertamento di una macchina costosa e complessa come quella giudiziaria. 12. Ecco allora l’esigenza di affermare, magari in Costituzione, il principio della riserva di codice, per introdurre nel sistema la regola legislativa secondo la quale le condotte criminali sono soltanto quelle previste nel codice penale ed in testi unici (in materia fiscale e tutela del lavoro) ad esso parificati. Questa è la vera ed unica riforma in grado di restituire al nostro Paese un diritto penale moderno, giusto, efficiente, mantenendo, nel contempo, la regola costituzionale irrinunciabile della obbligatorietà dell’azione penale, l’unica in grado di assicurare l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. “La giustizia non deve essere per forza veloce, deve difendere i diritti” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 febbraio 2023 “Mi permetta innanzitutto di ringraziare il Consiglio per la fiducia che ha voluto accordarmi. Sono ben consapevole che questa responsabilità rappresenta un privilegio da mettere a frutto, nei prossimi quattro anni, nell’interesse dell’Avvocatura ambrosiana”, afferma Nino La Lumia, neo presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. Palermitano d’origine, 44 anni, La Lumia ha vinto la scorsa settimana con la lista “Fare Avvocatura” le elezioni per il rinnovo del Consiglio e prende il posto di Vinicio Nardo. Presidente, quali saranno gli obiettivi del nuovo Consiglio? Premesso che servirà il contributo di tutti, perché gli obiettivi comuni si conseguono soltanto con progetti condivisi, lavoreremo cercando il rapporto costante con gli iscritti del Foro. Dovrà essere il cuore della nostra azione istituzionale, affinché nessuno resti indietro. E poi vogliano essere concreti e lungimiranti. Ci descriva l’Ordine di Milano... Siamo l’unico che ha aumentato nell’ultimo periodo i propri iscritti. Mi pare un grande risultato. Milano è da tempo molto attrattiva per l’avvocatura. Perché? Esiste un tessuto sociale particolarmente attivo e ci sono molte imprese che, a prescindere della natura sociale, hanno bisogno di consulenza e pareri per un contratto o attività similari. Sono tutte opportunità di lavoro in questo momento difficile per la professione. Come vede l’avvocato del futuro? Io credo che sia necessario un cambio di passo da parte di noi avvocati. Ad esempio dobbiamo riuscire ad intercettare i bisogni e le esigenze della società. L’avvocato non deve essere solo colui che assiste il proprio cliente in un’aula di giustizia. Ci sono tante altre attività che possano essere svolte anche al di fuori. Il tema della formazione? La formazione dovrà essere sempre più specialistica. Dobbiamo uscire dall’attuale meccanismo che è una sorta di “creditificio”. Le ore devono essere destinate ad un vero arricchimento professionale. Lei è da sempre un fautore della specializzazione forense... Certamente. Sono assolutamente convinto che ogni avvocato debba specializzarsi in una determinata materia. La società è profondamente cambiata e le norme sono in continua e costante evoluzione. Non è pensabile poter fare al giorno d’oggi tutto. La specializzazione dovrà essere verticale e non orizzontale. Quali sono oggi i principali problemi della giustizia? Il discorso è ovviamente complesso. Un aspetto riguarda certamente le infrastrutture di rete. Oggi il civile è tutto telematico e non è possibile che puntualmente, ogni venerdì, l’infrastruttura si blocchi e non consenta di effettuare qualsiasi tipo di operazione, come procedere con i depositi degli atti. Il processo civile telematico deve consentire che l’avvocato possa depositare, sempre nel rispetto dei termini che non sono in discussione, quando vuole. Anche la sera o la domenica. Purtroppo, invece, ciò non è possibile. Altro? Le carenze di personale amministrativo e di magistrati. L’ufficio del processo è una soluzione? Si tratta di personale che, al momento, è stato assunto a tempo determinato con i fondi del Pnrr. Bisognerà vedere cosa succederà quando i fondi saranno terminati. Poi c’è il tema della formazione che è stata demandata ai vari capi degli uffici. Anche questo crea delle sperequazioni. Come giudica le riforme della giustizia volute dal precedente governo? Si riusciranno a tagliare i tempi? Una vera giustizia non è necessariamente una giustizia veloce, ma una giustizia che garantisca la difesa dei diritti dei cittadini. Insieme a tutti gli operatori del diritto dobbiamo mettere in campo qualsiasi risorsa professionale e organizzativa per fare in modo che la giustizia funzioni. L’avvocatura è baluardo nella difesa dei diritti e come sempre ci faremo trovare pronti, ma dovremo essere messi nelle condizioni di poter svolgere al meglio delle nostre possibilità la professione. Le riforme che sono state approvate, comunque, incidono pesantemente. Vedremo. Melillo a Nordio: “Bene le correzioni sulla riforma Cartabia” di Davide Varì Il Dubbio, 22 febbraio 2023 Il capo della Dna si rivolge al ministro della Giustizia: “Le finalità deflattive della nuova legge avevano invaso anche il campo delle indagini su mafia e terrorismo”. Le “finalità deflattive” della riforma Cartabia “avevano invaso anche il campo delle indagini su mafia e terrorismo, assoggettati alla procedibilità a querela, che in certi contesti equivale a un arretramento delle capacità di intervento repressivo e di tutela delle vittime”. Quindi quella operata dal governo è “una correzione importante”. Lo ha sottolineato il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, ascoltato in commissione Giustizia alla Camera nell’ambito dell’esame del disegno di legge su procedibilità d’ufficio e arresto in flagranza, con cui il ministro Carlo Nordio è intervenuto per ridurre la platea dei reati per i quali la riforma aveva previsto la procedibilità solo a querela della persona offesa. “Ad oggi è difficile una ricognizione dell’impatto che le disposizioni hanno avuto anche su procedimenti di mafia”, ha sottolineato Melillo, evidenziando che “anche la correzione difficilmente determinerà la rimozione degli effetti prodotti”. Quanto alla possibilità per la polizia giudiziaria di procedere all’arresto in flagranza, per i reati per i quali è previsto, e poi raccogliere, entro le 48 ore successive, la querela della persona offesa, per il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo “costituisce un obiettivo appesantimento delle procedure che gravano sulla polizia giudiziaria ma che condizionano anche le determinazioni del pm prima e del giudice poi ai fini della convalida dell’arresto”. Giornata europea delle vittime di reato: un appello alle istituzioni italiane Il Dubbio, 22 febbraio 2023 La lettera di Rete Dafne Italia. Oggi è la Giornata europea delle vittime di reato, che fu dichiarata nel 1990, quando 12 organizzazioni di assistenza alle vittime si sono riunite per fondare Victim Support Europe. La loro visione era quella di un’Europa unita negli sforzi per aiutare ogni persona vittima di reato. La Rete Nazionale dei servizi per l’Assistenza alle Vittime di reato (Rete Dafne Italia), in occasione della giornata, ha scritto alla Presidenza della Repubblica, alla presidenza del Consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia, a quello dell’Interno, alla Conferenza delle Regioni, al Consiglio Superiore della Magistratura e al Consiglio Nazionale Forense. Nella lettera, firmata dal presidente di Rete Dafne Italia Marco Bouchard, si legge che “nei 33 anni trascorsi dalla prima Giornata europea delle vittime di reato, ci sono stati molti progressi in diversi paesi membri dell’Unione europea. Questo risultato è stato raggiunto grazie all’impegno globale e determinato di migliaia di persone e di molteplici organizzazioni”. Rete Dafne Italia lamenta che “purtroppo in Italia la Direttiva 2012/ 29 EU per le vittime di reato è largamente inattuata, in particolare, per l’assenza di una rete integrata di servizi che garantiscano, alle vittime che lo richiedano, informazioni, sostegno, assistenza e protezione”. “In occasione della Giornata per le vittime di reato di quest’anno, Rete Dafne Italia chiede al Governo italiano e alle Regioni di assicurare - nelle loro rispettive competenze - il rispetto dei diritti di tutte le vittime di reato, indipendentemente dal reato e dalla vittima. Con l’imminente revisione della Direttiva sui diritti delle vittime del20l2, la legislazione europea che regola i diritti e i servizi per tutte le vittime di reato, il 023 ci offre l’opportunità di fare davvero la differenza nella vita delle vittime”. Rete Dafne Italia ricorda che “il tema di quest’anno indicato da Victim Support Europe è ‘ ottenere una giustizia sicura per le vittime di reato’. Finora, le vittime sono state spesso penalizzate nel loro percorso verso la giustizia. Rete Dafne Italia ritiene che, nel valutare se la giustizia è stata fatta, non ci si debba concentrare solo sull’efficienza e sulla disponibilità dei diritti di un processo equo, ma si debba piuttosto vedere il processo dal punto di vista delle vittime e del loro benessere e sicurezza durante il procedimento legale”. Rete Dafne Italia chiede al Governo e alle Regioni di questo paese di utilizzare la giornata del 22 febbraio per sensibilizzare le forze dell’ordine, la magistratura, i servizi sociali e sanitari, il sistema educativo, le amministrazioni centrali e gli enti locali sull’importanza dell’accoglienza nei confronti delle vittime affinché l’esperienza di una ingiustizia non si trasformi in una esperienza di progressiva vittimizzazione e di sfiducia verso le istituzioni”. In particolare Rete Dafne Italia chiede che “il Governo e le Regioni adottino tutte le misure necessarie, amministrative e legislativa, affinché il paese disponga effettivamente di una rete integrata di servizi di assistenza alle vittime di reato, come stabilito dalla Direttiva 2012/29 EU: in particolare, l’adozione del numero europeo 116006 per le vittime di reato, l istituzione di un organismo interministeriale per le vittime di reato e una programmazione triennale per le Regioni nell’impegno dei fondi destinati ai servizi di assistenza”. Modena. Morto in carcere per le esalazioni da gas ansa.it, 22 febbraio 2023 Ferrarese di 40 anni era detenuto in attesa di giudizio. Un uomo di 40 anni è morto in carcere a Modena, probabilmente per le esalazioni da gas provenienti da un fornello da campeggio. La vittima, Fabio Romagnoli, di Portomaggiore (Ferrara) si trovava in carcere in attesa di giudizio. La scoperta è stata fatta da un agente della polizia penitenziaria quando ha aperto la cella per farlo accedere al turno di lavoro. Romagnoli era accasciato a terra con il fornello che esalava ancora odore di gas. In infermeria il medico del carcere Sant’Anna ha provato a rianimarlo, ma è morto poco dopo al pronto soccorso. La Procura ha aperto un fascicolo e sarà disposta l’autopsia che cercherà di capire se sia trattato di un gesto volontario oppure se Romagnoli abbia provato a stonarsi con il gas, una pratica diffusa nelle carceri che nel 2002 costò la vita ad altri due detenuti. Fabio Romagnoli si trovava in carcere in attesa di giudizio per un caso di stalking nei confronti della sua ex compagna. Era stato rinviato a giudizio e posto ai domiciliari. L’anno scorso, però, era evaso e per questo era stata inasprita la misura cautelare, con il carcere. Torino. Carcere Lorusso e Cutugno maglia nera per i suicidi: “I detenuti vanno trasferiti” di Bernardo Basilici Menini La Stampa, 22 febbraio 2023 Dal 2012 al 2022 sono stati 10 i decessi, 4 solo lo scorso anno. Nel penitenziario 400 persone oltre la capienza. Il carcere di Torino è uno di quelli in cui si verificano più suicidi. Ieri sono stati presentati i dati relativi ai detenuti che si sono tolti la vita tra le pareti degli istituti penitenziari italiani. Al Lorusso e Cutugno le persone che si sono uccise sono state quattro, la stessa cifra di quella registrata a San Vittore. È andata peggio solo a Foggia, con cinque morti. Altre grandi carceri italiane sono ferme a tre, come l’Ucciardone o Sollicciano, mentre a Regina Coeli, Rebibbia e Poggio Reale gli episodi sono stati due. In Piemonte un suicidio c’è stato anche a Saluzzo. I tentativi di togliersi la vita a Torino sono stati più bassi che altrove: 35, contro i 78 di San Vittore, i 67 di Lecce, i 52 di Bologna e 46 di Regina Coeli. Anche gli atti di autolesionismo al Lorusso e Cutugno non sono tra i più alti in Italia. Eppure, quello che appare con chiarezza osservando il report è che i problemi del capoluogo piemontese sono andati ad acuirsi nel tempo. Nel decennio che va dal 2012 al 2022, infatti, i suicidi sono stati dieci, una delle cifre più basse rispetto alle grandi carceri italiane. Insomma, nel 2022 in Piemonte si sono tolti la vita tanti detenuti quanti nei precedenti nove anni. A sottolineare la questione è stato lo stesso Bruno Mellano, garante regionale delle persone detenute, che ha spiegato come “A Torino c’è stata evidentemente una escalation negli anni. Peraltro, tutte le persone che si sono tolte la vita qui nel 2022 lo hanno fatto nella seconda metà dell’anno”. Cosa non ha funzionato? Uno dei problemi più noti è il sovraffollamento: ci sono circa 400 persone in più rispetto alla capienza. Ma la media delle persone recluse non è aumentata che di qualche decina dal 2012. “Sicuramente pesa il fatto che quello torinese è il carcere più complesso d’Italia per via dell’altissimo numero di circuiti, notoriamente un elemento critico che aumenta il rischio di suicidio - prosegue Mellano - Bisogna quindi ridurre la complessità, snellire il numero dei circuiti, trasferendoli magari in altre carceri”. In effetti qui ci sono 27 sezioni - cioè 27 sottocategorie - Il dato più alto d’Italia. A Lecce ce ne sono 24, a Milano Opera 18, a Foggia 16. Un altro problema riguarda le prospettive che hanno le persone che finiscono in carcere, ma in questo caso la questione non è soltanto torinese, quanto più nazionale. A spiegarlo è stata Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante nazionale dei detenuti: “All’interno delle carceri le persone che si suicidano hanno caratteristiche diverse: c’è chi si toglie la vita dopo una lunga permanenza e chi lo fa appena entrato, chi ha pene detentive brevi e chi le ha molto più lunghe. Un grosso tema riguarda il disagio che provano i detenuti in relazione alle mancate possibilità di reinserimento nella società una volta uscite”. Eppure non mancano norme e protocolli che disciplinano nel dettaglio cosa fare nelle case circondariali sia per quanto riguarda l’incolumità delle persone, sia i percorsi di reinserimento. “Il problema è che molto spesso non vengono realmente adottati - conclude Mellano - I suicidi sono una feroce richiesta di un coinvolgimento a tutte le istituzioni perché tutte le misure previste si mettano in atto”. Milano. Il Sindaco Sala: “Condizioni di San Vittore indecenti. Nordio chiarisca le intenzioni” milanotoday.it, 22 febbraio 2023 La posizione del sindaco rispetto al carcere milanese. “Credo sia ormai inaccettabile vedere i detenuti vivere a San Vittore in quelle condizioni”. Così il sindaco di Milano, Beppe Sala nella puntata del suo podcast Buongiorno Milano di mercoledì 22 febbraio. “Come tutte le questioni contemporanee - ha detto il primo cittadino - anche il possibile trasferimento di San Vittore è tema complesso e meritevole di riflessione aperta e consapevole, ma penso sia tempo che il Ministero della Giustizia faccia chiarezza sulle reali intenzioni. Si possono almeno ristrutturare le celle e portare la capienza a una dimensione più corretta? Questo è quello che chiedo. Io non sono tra quelli che spingono per un trasferimento del carcere ma credo sia ormai inaccettabile vedere i detenuti vivere a San Vittore in quelle condizioni”. L’allarme sullo stato, ormai inaccettabile, del carcere milanese era stato già lanciato la scorsa estate, quando però il titolare del ministero della Giustizia non era ancora Carlo Nordio, a cui ora Sala si appella. “Delle carceri e delle condizioni di cui parlano i detenuti ogni tanto si parla - ha continuato Sala - magari come conseguenza di qualche tragico accadimento, ma è oggettivo che se non si riusciranno a creare condizioni di vita accettabili nei nostri istituti penitenziari qualsiasi percorso di rieducazione avrà vita durissima. Il carcere di San Vittore ne è un chiarissimo esempio. Chiunque abbia l’occasione di una visita al nostro carcere potrebbe facilmente verificare che le condizioni di vita dei reclusi sono al di là dell’accettabile, anche un po’ al di là dell’immaginabile. Quest’estate, una delle più torride della nostra storia, l’associazione Antigone ha certificato a San Vittore un affollamento del 190 per cento rispetto alla sua teorica capienza”. “Si tratta di una situazione che ha ben oltrepassato i limiti della civiltà - ha proseguito il sindaco - molte possono essere le motivazioni di una necessaria riflessione in materia, però vorrei sottolineare una cosa: personalmente ritengo che molte, se non tutte, potrebbero essere superate dalla constatazione che non è parte del cuore di Milano obbligare una detenuta, magari incinta, a condividere con tre altre detenute uno spazio di pochissimi metri quadrati, poco più di 10, dovendo utilizzare un bagno alla turca. Scusate se sono crudo, ma è quello che ho verificato personalmente qualche mese fa. Queste condizioni di vita sono indegne di Milano e della sua tradizione di città equa e accogliente”. Como. Dentro il Bassone, il carcere-polveriera. È il più sovraffollato della Lombardia di Anna Campaniello Corriere della Sera, 22 febbraio 2023 I detenuti sono 387 per 226 posti. Lunedì un’altra aggressione. I volontari: “Le attività educative sono a rischio”. I rappresentanti sindacali degli agenti hanno proclamato lo stato di agitazione. Un agente della polizia penitenziaria colpito alla testa da una saponetta lanciata con violenza da un detenuto. È l’ultima aggressione denunciata nelle scorse ore nel carcere del Bassone di Como. Numeri alla mano, il più sovraffollato dell’intera Lombardia, con presenze quasi doppie rispetto alla capienza. I rappresentanti sindacali degli agenti hanno proclamato lo stato di agitazione. L’ultima rilevazione del ministero della Giustizia, aggiornata al 31 gennaio scorso, indica un livello di sovraffollamento per il Bassone di Como del 171%, un dato peggiore del 24% rispetto a quello dell’anno precedente. A fronte di una capienza di 226 posti disponibili, i detenuti sono 387, con una presenza di stranieri di oltre il 56%. “È la situazione peggiore della Lombardia - conferma Calogero Lo Presti, coordinatore regionale della Cgil polizia penitenziaria. Nelle 18 carceri della regione ci sono 8.109 detenuti presenti a fronte dei 6.161 posti disponibili con un conseguente sovraffollamento in media del 131%. Dei 4.700 detenuti in più oltre la capienza regolamentare in tutta Italia, il 41%, sono nei penitenziari lombardi”. “La situazione del Bassone è insostenibile”, hanno scritto tutte le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria in una lettera al direttore del carcere, al provveditore dell’amministrazione penitenziaria, al prefetto di Como e alle segreterie regionali. Denunciano “molteplici aggressioni subite dagli agenti penitenziari, eventi critici quali minacce e ingiurie, condizioni lavorative non più tollerabili”. E ancora: “Carenza di personale in tutti i ruoli e concentrazione di reclusi psichiatrici e/o problematici. L’istituto non può sopportare oltre l’arrivo di detenuti che in altre case circondariali hanno dato vita ad episodi di violenza”, l’allarme dei rappresentanti della polizia penitenziaria. Gian Luigi Madonia, segretario regionale dell’Uspp, Unione Sindacati Polizia Penitenziaria, attacca: “Il Bassone è diventato ormai scenario di eventi critici quotidiani. Il regime e la disciplina penitenziaria sono difficilmente attuabili. I detenuti si permettono di fare ciò che vogliono, sentendosi impuniti”. Uno scenario che complica il lavoro di operatori e volontari impegnati nei progetti di formazione, rieducazione, reinserimento sociale dei detenuti. Attività che comunque proseguono, anche se spesso con limitazioni. “La carenza di personale riguarda anche gli operatori civili e inficia la finalità riabilitativa - dice Laura Molinari, operatore del Csv Insubria. I nostri progetti non si fermano, ma facciamo i conti con alcuni limiti. L’orario del centro diurno ad esempio è più ridotto per la mancanza di personale e lo stesso vale per attività formative o lavorative, come l’orto. Per il laboratorio professionale di idraulica abbiamo previsto una parte finale pratica con la sistemazione delle docce della terza sezione. Abbiamo difficoltà a far partire il lavoro perché non ci sono agenti da destinare al gruppo di tirocinanti”. Tra i progetti del Csv non si ferma “Lavoro di squadra”. “Collaboriamo con la direzione del carcere nell’ottica della maggiore integrazione tra penitenziario e territorio - spiega Stefano Martinelli, operatore del Csv. Il sovraffollamento crea problemi, ma c’è una grande attenzione a lavorare con l’esterno, coinvolgendo associazioni e realtà territoriali. I detenuti hanno bisogno di relazioni, di confrontarsi. Pur in una situazione complessa la progettazione non si ferma e il 4 marzo ci sarà un momento di formazione con i volontari per nuove attività che ci permetteranno di lavorare meglio per la rieducazione”. Torino. Disegnare per raccontarsi, una storia di carcere e “cubismo” di Roberta Barbi vaticannews.cn, 22 febbraio 2023 La storia è quella di Luigi Gallini, attualmente ospite della Comunità forense San Giovanni di Dio di San Maurizio Canavese, che con la sua raccolta dal titolo “Ergastolo bianco: sogno a occhi aperti”, fino a fine febbraio espone 16 tavole nell’ambito della mostra “Il mondo nuovo” allestita nella galleria d’arte irregolare Gli Acrobati di Torino. Ci sono colori fluo, “quelli tipici dei luoghi di reclusione”, scritte deformate, animali fluttuanti “che si rifanno al mondo dell’onirico e del metafisico”, ma anche oggetti molto terreni come la televisione, perché “alcuni in carcere non fanno altro che guardarla”, nelle opere di Luigi Gallini, ex detenuto del reparto di osservazione psichiatrica Il Sestante della casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, oggi ospite di una comunità forense. E poi gli occhi, onnipresenti: “Sono gli occhi degli operatori, perché noi siamo sorvegliati a vista, ma più in generale volevo rappresentare anche l’odierna civiltà del controllo”, spiega. L’arte come strumento ineguagliabile di comunicazione - Quella di Luigi è una storia difficile, che però lui racconta con una naturalezza e un candore che spiazzano: la parte “allucinante” della sua vita, come lui stesso la definisce, inizia tre anni fa con l’arresto e poi il trasferimento nella comunità dove oggi risiede. “Sto facendo l’esperienza di ritrovarmi attraverso la follia”, racconta a Vatican News di sé, sottolineando che la parte peggiore della sua vita è ancora lontano dall’essere conclusa, “con queste opere scrivo la mia autobiografia giorno per giorno utilizzando le immagini al posto delle parole per esprimere la mia perplessità, tra le altre sensazioni”. Un rapporto, quello con l’arte, per lui fatto di quotidianità: “Pubblico tutti i miei disegni, i miei schizzi e le mie foto su facebook. Per me è un’occasione per comunicare, innanzitutto con me stesso, quello che le parole non bastano a esprimere; nei momenti di stress della mia vita ho sempre disegnato e ultimamente da recluso ho riabbracciato la mia passione per il surreale e l’astratto”. Una storia difficile, ma sempre con la matita in mano - La storia di sofferenza di Luigi parte da lontano: un’infanzia difficile fatta di genitori separati e di un affidamento ai nonni; in seguito vivrà nelle Comuni rosse della Torino degli anni Settanta, ma la passione per l’arte lo ha sempre accompagnato: “Me l’ha trasmessa mia nonna che mi portava nelle gallerie a vedere i quadri e voleva fare di me un artista - rivela - così l’arte mi è entrata sotto pelle; in particolare mi piacciono i fumetti, le tavole che disegno oggi sono pensate proprio per essere riordinate in un futuro fumetto”. Poi c’è stato il carcere, e qui, grazie a un laboratorio di arte-terapia e drammaturgia, Luigi ha ripreso in mano la matita: “Appena ho potuto ho comperato un diario sul quale ho ripreso a fare i miei schizzi, che ora hanno per protagonista il mio ‘carcere cubista’”. Ci pensa un po’, poi mi prega di aggiungere: “Disegno perché l’arte arriva là dove non solo non arrivano le parole, come ho già detto, ma dove a volte non arriva neppure la ragione”. Un futuro fatto di colori cupi - Per un artista i colori sono uno strumento del mestiere, ma quando a Luigi chiediamo con quali dipingerebbe il suo futuro, questi sono tutt’altro che fluo: “Non ho più un lavoro e quindi un reddito - ammette - non so se quando uscirò potrò tornare a casa o sarò mandato in una comunità alloggio; al momento attuale non so neanche quando uscirò…”. Ma un colore brillante, quello capace di illuminare un sogno, ancora c’è: “Mi piacerebbe un giorno laurearmi in scienze politiche e lavorare per i diritti dei disabili, specie quelli psichici… Come me”. Mafie e patriarcato, “The good mothers” è la serie sulle donne che hanno detto no di Arianna Finos La Repubblica, 22 febbraio 2023 Presentata al Berlino Film fest, da aprile su Disney+, ripercorre la storia delle mogli, figlie, madri di ‘ndrangheta che si sono ribellate al sistema. È doloroso ed emozionante vedere nei cinema affollati dal pubblico internazionale della Berlinale le storie di Lea Garofalo (e sua figlia Denise), Giuseppina Pesce e Concetta Cacciola, tre donne capaci di ribellarsi al sistema patriarcale della ‘Ndrangheta pagando un prezzo altissimo, spesso la vita, a volte senza il sostegno delle istituzioni. Le racconta “The good mothers”, la serie Disney prodotta da Wildside, in gara per i Berlinale Series Awards (premio istituito quest’anno), prodotto da Wildside del gruppo Freemantle su Disney+ dal 5 aprile. Sei episodi tratti dal bestseller omonimo di Alex Perry, adattati da Stephen Butchard e diretti da Julian Jarrold ed Elisa Amoruso. La storia delle quattro protagoniste s’intreccia con quella di una magistrata che intuisce che la ‘Ndrangheta si può distruggerla dall’interno facendo leva sulle donne, mogli, madri, figlie dei boss, schiacciate da un quotidiano senza libertà, violento e soffocante. Spiega Alessandro Saba di Disney Italia: “Abbiamo scelto il progetto perché erano storie positive, non un altro racconto che finisce per mitizzare i criminali. Con uno sguardo femminile e senza retorica”. “È bello poter portare le loro storie nel mondo, molte donne, anche in condizioni meno estreme, vi si riconosceranno”, dice Elisa Amoruso. Micaela Ramazzotti è Lea Garofalo, vive per la figlia e per darle un destino diverso si contrappone alle logiche criminali della famiglia. Il 24 novembre del 2009 è a Milano con la figlia, dall’ex marito boss Carlo Cosco: non è più una testimone, ma viene comunque fatta sparire. Ha trentanove anni, Denise diciotto. Ramazzotti, come le altre attrici, accompagna la serie nella capitale tedesca: “Sono orgogliosa del progetto. Mi sono documentata, ho visto il film di Marco Tullio Giordana. Lea ha fatto una cosa potente, ci ha messo la faccia, ha fatto i nomi. Sapeva cosa rischiava. Ma ha teso l’arco e ha lanciato la freccia, ha lanciato sua figlia nel futuro”. Gaia Girace (L’amica geniale) è Denise. Testimone lucida e attendibile al processo, inchioderà gli assassini della madre: “È importante questo sguardo femminile, la forza di queste donne che si sono liberate, alcune uccise. Speriamo di portare un messaggio di speranza”. Valentina Bellè è Giuseppina Pesce, colpevole di aver “disonorato” la potente famiglia. Resiste ai maltrattamenti e alle minacce ai suoi figli, fa arrestare i parenti. “Essere una buona madre, come dice il titolo, significa anche lottare per la propria libertà individuale e non solo quella dei figli. Non conoscevo la storia di Giuseppina Pesce, in Calabria mi sono sentita dire in faccia, anche da donne, “la ‘Ndrangheta non esiste e lo Stato qui non c’è”. Se cresci in un ambiente dove non esistono alternative, non esiste neanche la verità, il rendersi conto della violenza in cui si vive”. Simona Distefano è Concetta Cacciola, sposa a 13 anni un uomo che l’ha usata per entrare nel potente clan; si farà testimone di giustizia ma spinta dalla nostalgia per i figli torna a Rosarno: verrà trovata morta per aver ingerito acido muriatico: “La condizione sociale di queste donne non riconosce la libertà e la violenza serve per mantenere il controllo e mandare avanti il sistema patriarcale. Difficile uscire da un sistema e capire che c’è una vita migliore, sono le stesse madri che sostengono e difendono questo sistema perché è stato insegnato loro così”. Centri accoglienza migranti: emergenza sconfessata dai numeri ma c’è poca trasparenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 febbraio 2023 Il sistema di accoglienza per migranti non è al collasso. Risulta che al 31 dicembre 2021 c’erano oltre 20mila posti liberi nei vari centri Italia. Eppure il sistema è in emergenza, come mai? Non per una “invasione” inesistente, ma perché è senza programmazione né trasparenza. Vero che nel 2022 sono sbarcate in Italia 105mila persone, una cifra superiore rispetto all’anno precedente, ma bisogna tenere presente che nel 2016 furono quasi il doppio del 2022. Questo e altro ancora emerge nel nuovo Report “Centri d’Italia”, realizzato da ActionAid e Openpolis. Il report è frutto di un interessante lavoro ricavato da una piattaforma on line realizzata sempre da ActionAid e Openpolis, anticipando lo stesso ministero dell’interno e pubblicando una fotografia dettagliata di dati sul sistema di accoglienza per l’anno 2021. Un lavoro di analisi e trasparenza, Comune per Comune e centro per centro, fatto a partire dai dati forniti dallo stesso Viminale e resi disponibili in formato aperto a tutti sulla piattaforma “Centri d’Italia”. La relazione annuale al Parlamento con i dati relativi al 2021 che il Ministero è tenuto per legge a presentare a giugno di ogni anno come aggiornamento sullo stato del sistema, è già in ritardo di oltre 8 mesi. Il report inizia con una premessa interessante. Viene sottolineato che la questione migratoria e la sua relativa strumentalizzazione politica è tornata alla ribalta la scorsa estate, dopo diversi mesi - quelli più duri della pandemia - durante i quali sembrava fosse sparita dal dibattito pubblico e dall’agenda politica, mentre continuavano sotto traccia prassi discriminatorie come quelle delle navi quarantena. In estate, invece, complice anche la campagna per le elezioni per il nuovo parlamento, i flussi migratori, gli sbarchi sulle coste e l’accoglienza nel paese sono tornati ad essere temi al centro del confronto politico. L’attenzione è persino aumentata lo scorso novembre, con le vicende legate allo sbarco di migranti a bordo delle navi umanitarie a largo delle coste italiane e nei porti della Sicilia. A differenza di una comunicazione politica forzata da esigenze elettorali e propagandistiche, la realtà, tuttavia, ci parla, di un sistema in continua e costante contrazione, innanzitutto per via del numero degli arrivi. Un’emergenza di cui tutti parlano ma che nella realtà non c’è. Per fotografare la situazione, basta sintetizzare ciò che è emerso tramite il report. Nel 2022 sono sbarcate in Italia 105mila persone, una cifra superiore rispetto all’anno precedente. Tuttavia nel 2016 furono quasi il doppio del 2022. Nell’analisi del sistema di accoglienza spicca il dato sui posti liberi nei centri. Al 31 dicembre 2021 c’erano oltre 20mila posti liberi in Italia. Il sistema è tutt’altro che “al collasso”. Nel 2021 erano attive 8.699 strutture. Dal 2018 sono stati chiusi più di 3mila 500 centri (- 29,1%). I posti messi a disposizione nel sistema erano poco più di 97mila, di cui però il 60,9% nei centri di accoglienza straordinaria (Cas). Sono quasi 63mila i posti nei Cas e nei centri di prima accoglienza, a fronte di 34mila posti nel sistema di accoglienza e integrazione. Nonostante ciò, continua l’approccio emergenziale a un fenomeno del tutto ordinario. Ma ci sono altri dati emersi dal report che rivelano il motivo per cui il sistema risulta in affanno nonostante non ci sia alcuna “invasione”. Nonostante un calo di 70mila posti nel sistema, tra il 2018 e il 2021 i posti nel Sistema di accoglienza sono persino diminuiti (di oltre mille unità), come anche i centri (da 700 a 678). I Cas di piccole dimensioni sono quelli ad essere stati più penalizzati, avendo perso quasi 24mila posti in tre anni. Meno di un comune su 4 in Italia (il 23,2%) è interessato dall’insediamento di un centro di accoglienza, sia esso straordinario o afferente al sistema ordinario. Eppure, com’è detto, non c’è nessuna ‘invasione’. Al 31 dicembre 2021 i richiedenti asilo e rifugiati ospitati nei centri rappresentavano lo 0,13% della popolazione italiana. Il report di ActionAid e Openpolis, per la prima volta presenta i dati sulle ispezioni nei centri. Viene sottolineato che sono relativi solo al 2019, a causa della mancanza di trasparenza sui dati da parte del ministero dell’interno. In quell’anno le prefetture hanno effettuato controlli sul 40,5% dei Cas e Cpa in Italia. Ebbene, emerge che a fronte di territori in cui decine di centri sono stati ispezionati oltre 4 volte in un solo anno, ci sono 13 prefetture che non hanno effettuato ispezioni nel 2019. Due di queste si trovano a Trapani e Agrigento. Inoltre il sistema ordinario dovrebbe rappresentare la prassi nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Invece nel 2021 sono oltre 10mila i posti liberi nei centri Sai. Altro dato emerso è che Roma è la città metropolitana con più posti nei centri (circa 3.800), seguita dalle città metropolitane di Torino, Milano, Bologna, Napoli e Firenze. Dal 2018 al 2021, nell’area metropolitana della capitale i posti a disposizione nelle strutture del Sai sono diminuiti del 44,5%. A Roma nel 2021 aumenta la centralità delle strutture di grandi dimensioni: il 90% dei posti nei Cas è in centri con più di 50 posti. Inoltre, sempre nel territorio capitolino 8 posti su 10 sono in mano a un unico gestore, la Medihospes. E questo nonostante le ispezioni abbiano fatto emergere nel 2019 diverse irregolarità. Ma entriamo nel dettaglio dell’accoglienza nella capitale. Quando si parla di Roma e della sua città metropolitana, ci si riferisce al territorio più popoloso del paese ma anche di quello che, in termini assoluti, accoglie più richiedenti asilo e rifugiati. Il report specifica che al 2021 nel sistema si contavano 3.796 posti (di cui 2.024 nei Cas e 1.772 nel Sai) nei 113 centri aperti nella capitale e negli altri comuni della città metropolitana. Al 31 dicembre dello stesso anno le presenze erano 3.795. Il fatto che nel 2021 a Roma risulti solo un posto libero non è necessariamente un sintomo di equilibrio nella gestione dell’accoglienza nel territorio capitolino. Infatti se si indagano i dati nel dettaglio, il report evidenzia che vi sono centri che risultano sovraffollati e altri al contrario che contano al 31 dicembre numerosi posti liberi. Nel primo caso sono esempi emblematici le strutture di Rocca di Papa (426 presenze a fronte di 300 posti) e Anzio (147 presenze per 100 posti). Il secondo caso, invece, è relativo a un centro Sai nel comune di Roma, dove si contano oltre 160 posti liberi nelle 67 strutture disponibili. Se quindi nel bilancio generale dell’accoglienza romana - che comprende i centri straordinari e il Sai - risulta solo un posto libero, indagando più nel dettaglio i dati è evidente lo squilibrio tra accoglienza prefettizia e Sai. Nel primo caso, per esempio, il centro di Rocca di Papa è sovraffollato probabilmente perché viene trattato come una sorta di “minihub”, un luogo di passaggio per persone che attendono di essere redistribuite sul territorio, in un meccanismo che ha dimostrato in questi anni diverse lacune. Nel secondo caso vediamo una quantità accentuata di posti liberi nel sistema ordinario, che dovrebbe essere la scelta prioritaria, e invece tradisce una mancata pianificazione nonché l’assenza di una strategia sul territorio. “Dunque, non solo in termini generali in Italia non ci sono abbastanza posti nei centri Sai ma, anche quando i posti ci sono, non necessariamente vengono riempiti”, denuncia il report. Migranti. Revoca in vista per l’hotspot di Lampedusa, la prefettura: “Contestate irregolarità” di Alessia Candito La Repubblica, 22 febbraio 2023 La prefettura di Agrigento scrive all’associazione che aveva sollevato il caso: “Avviata la procedura per lo scioglimento del contratto con Badia Grande”. Aerei, motovedette, traghetti di linea, navi militari. Da Lampedusa i trasferimenti proseguono senza sosta con qualsiasi mezzo a disposizione, ma dal mare continuano gli arrivi e l’hotspot è ormai un lager dove tocca litigare persino per avere un pasto, vestiti asciutti, un vecchio materasso sporco per dormire. Non si tratta però solo di un problema di sovraffollamento. “Si fa presente che quest’Ufficio ha contestato irregolarità e irrogato numerose sanzioni” e per questo “è in via di definizione la procedura per lo scioglimento del vincolo contrattuale”. Con una stringata nota inviata all’avvocata Giulia Contini di Asgi, Associazione studi giuridici sull’Immigrazione, che nei mesi scorsi ha chiesto formalmente di accedere agli atti amministrativi dell’hotspot, la prefettura di Agrigento ha confermato il totale fallimento della gestione meno di un anno fa affidata alla cooperativa trapanese Badia Grande. Holding del terzo settore, in grado di ramazzare appalti per la gestione di centri di prima e seconda accoglienza in tutto il Sud Italia, ma già finita a processo o sotto indagine in tre diversi tribunali, la cooperativa trapanese rischia ulteriori guai anche ad Agrigento. Nella nota del prefetto Maria Rita Cocciufa non si scende nei dettagli. Ma di fatto l’amministrazione ammette di non essere in grado di comunicare neanche quante persone e per quanto tempo siano passate dal centro di contrada Imbriacola. Motivo? Perché “i report e i monitoraggi sulle presenze in hotspot dal marzo 2022”, cioè da quando il centro è finito in mano alla cooperativa, “non sono ancora state trasmesse dall’Ente gestore”. È una delle tante “gravi irregolarità”, già più volte sanzionate, che dopo mesi hanno convinto la Prefettura a rescindere il contratto. L’ennesimo perso da Badia Grande, sbattuta fuori dalla gara per la gestione del centro di accoglienza di Milo perché finita sotto processo a Trapani con l’accusa di frode allo Stato per aver “barato” sulla gestione di alcuni centri. Circostanza che la Prefettura di Trapani ha “scoperto” però solo grazie ad una nota della procura e che i vertici della cooperativa avevano “dimenticato” di comunicare nel presentare la propria offerta. Al momento non è dato sapere se e in che misura tale circostanza abbia pesato nel convincere l’Ufficio di Agrigento a mettere in discussione l’affidamento dell’hotspot. O se “insanabili” siano state considerate le violazioni e le “gravi inadempienze” registrate dagli ufficiali sanitari, prefettizi e del Dipartimento Libertà civili del Viminale che più volte si sono presentati per ispezionare il centro e su cui la procura competente sta indagando. Sulla consegna di quei verbali, la prefettura ha messo il veto. Toccherà attendere che si pronunci il Tar, sollecitato al riguardo dall’avvocata Contini. Nel frattempo, ci sono i racconti, le testimonianze e le poche foto che filtrano dal centro. Sebbene sia circondato da un’enorme rete e monitorato dall’esercito, formalmente non è un luogo di detenzione. Eppure all’interno nessuno dei non addetti ai lavori può accedere e da lì nessuno si può allontanare. Ma basta sbirciare attraverso la recinzione per vedere quella gabbia costruita nel centro dell’isola trasformata in un grande formicaio in cui ci si contende anche un posto per dormire all’addiaccio e per terra. Negli ultimi giorni sono finiti i materassi, persino le coperte. I naufraghi sono stati costretti ad arrangiarsi con le “metalline”, i teli termici consegnati all’arrivo al molo, diventati anche scarpe per chi è arrivato scalzo, o vestiti per chi era zuppo. I kit, che da capitolato d’appalto dovrebbero essere consegnati all’ingresso in hotspot, non ci sono. E anche il cibo non basta per tutti. I servizi, a partire dall’assistenza medica? Impossibile saperlo. Di certo c’è che negli ultimi mesi prima una bimba, poi un ragazzo del Bangladesh e un paio di giorni fa una donna ivoriana sono morti per cause ancora da accertare. Nuovi fascicoli per la procura di Agrigento. Il meteo rimane clemente, ma con il vento che inizia a soffiare le traversate diventano più difficili. E a Lampedusa non rimane che sperare che non sia foriero di nuovi naufragi e nuove tragedie. Lo Ius soli? Per il Pd è una bandierina di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 22 febbraio 2023 Nel primo e unico confronto televisivo tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini, un tema centrale come il diritto alla cittadinanza è stato liquidato con poche parole. “E poi vorrei dire che ci vuole una legge sullo Ius soli perché chi nasce e cresce in Italia è italiana o italiano”. “D’accordo ovviamente sullo Ius soli...”. Totale: 8 secondi e una manciata di centesimi. Ma scusate: è mai possibile che nel primo e unico confronto televisivo su SkyTg24 tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini un tema centrale come il sacrosanto diritto alla cittadinanza, con tutto il suo carico di divisioni, polemiche, razzismo, ostilità, tormentoni, odio e lacrime e sparate propagandistiche occupi lo spazio del volo di un aeroplanino di carta? E quando hanno intenzione di parlarne ai loro elettori, i due candidati alla guida del Partito Democratico? Quando? Nei cenacoli sempre più ristretti dove recentemente, come segnalava con leggiadra ferocia Sebastiano Messina, “è in corso un dottissimo dibattito in cui viene messa sotto accusa “l’impostazione ordoliberista” e contestato “il mantra della disintermediazione”“? Son passati quasi cinquant’anni da quando l’Italia contò per la prima volta più immigrati stranieri in arrivo che italiani decisi a emigrare, quaranta dalla prima richiesta della Chiesa cattolica di dare almeno il voto amministrativo ai nuovi arrivati, oltre trenta dal primo censimento Istat coi moduli anche in arabo, più di venti dalla legge Bossi-Fini, dieci da quando l’allora astro nascente Matteo Renzi tuonava: “Torniamo a chiedere al Parlamento e alle autorità centrali che sia presto approvata la legge sullo Ius soli, perché chi nasce in Italia deve essere cittadino italiano”. Tout court: Ius soli. Senza sfumature. E mentre il consenso degli italiani alla concessione d’una cittadinanza temperata da indispensabili paletti (tot anni di residenza, tot anni di scuola, regole chiare sui diritti civili, il rispetto per le donne...) calava dal 72,1% (dato Istat 2012) al 41%, la sinistra andava avanti: “Ius soli! Ius soli! Ius soli!”. Una formula, messa così. E basta. Una bandiera da sventolare come un drappo rosso davanti al toro delle destre urlanti: “Mai! Mai!”. Senza provare davvero a convincere i perplessi e spiegare che ormai l’Europa intera aveva scelto sistemi misti e “Ius culturae”. Finché lo stesso Renzi nel 2017, messo alle strette in tivù da Corrado Formigli che chiedeva perché non avesse insistito sulla cittadinanza dopo aver stravinto le europee 2015, chiuse: “Ma lei vive su Marte? Non ci sono i numeri”. Otto anni dopo siamo ancora lì. Alla bandierina sventolata en passant in tivù... La sinistra è incapace di immaginare la pace di Luigi Manconi La Stampa, 22 febbraio 2023 A un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, quelli che chiamerò Uopl (Umani orientati al progresso e alla libertà) rivelano sintomi e disturbi da stress post-traumatico. Mi riferisco a quei cittadini che si collocano, o comunque vogliono continuare a collocarsi, nella parte sinistra dello schieramento politico, e che, dall’esperienza della guerra e dalla sua mancata elaborazione, ricavano uno stato di vero e proprio smarrimento psicologico e ideologico. Il 24 febbraio di un anno fa si consumava inesorabilmente l’era sovietica, fin nella sua ultima e miserabile metamorfosi: l’imperialismo russo appariva, senza più infingimenti, esclusivamente come una macchina di distruzione e di morte. Una quota degli Uopl portava a compimento, così, la sua definitiva scissione e il suo estremo congedo da quanto era stato per oltre un secolo, e attraverso notevoli rivolgimenti, il simbolo - meglio, il simulacro - della sinistra stessa: gli ultimi residui, cioè, della memoria della Rivoluzione d’Ottobre. Si dirà: ma questo lavoro era stato già avviato, più di quarant’anni fa, da Enrico Berlinguer, ed è perfettamente vero. Sopravviveva tuttavia un sentimento, un umore, uno stato d’animo che perpetuavano legami sottili e spesso inconsci, con un deposito di emozioni e suggestioni tuttora capaci di influenzare le scelte politiche e intellettuali. Dai Soviet alla resistenza di Stalingrado, ai soldati russi che entrano nel lager di Auschwitz, tutto induceva a una sorta di tendenziale privilegiamento, a una opzione preferenziale, a una tentazione giustificatoria, ogni volta che la Cosa Russa si contrapponeva alla Cosa Americana. Più che altro un sentimento, si diceva, ma assai robusto. Con l’invasione dell’Ucraina si consuma uno strappo irreversibile e una componente degli Uopl riconosce che, tra Vladimir Putin e Joe Biden, può scegliere, finalmente - e serenamente - il secondo, senza che ciò faccia dimenticare, nemmeno per un istante, le grandi responsabilità passate e presenti dell’imperialismo americano. E Putin può diventare finalmente - e serenamente - il Nemico. È così vero che la controversia più aspra all’interno degli Uopl verte proprio su questo punto: e, passato un anno, sembra che la separazione dalla Cosa Russa, netta e inequivocabile per molti, non lo sia per tanti e, forse, per la maggioranza tra coloro che si vogliono di sinistra. Ma che cosa ha impedito e tuttora impedisce che la frattura con il “putinismo”, innanzitutto sul piano culturale e ideologico, sia irreversibile? In primo luogo, una radicata sottovalutazione del primato del sistema democratico rispetto a ogni altro sistema. Per considerare Putin il concentrato di tutto ciò che un democratico deve detestare potrebbe essere sufficiente il fatto che il suo potere assoluto duri da oltre vent’anni, consentendogli di fare strage di vite e di diritti. Qui interviene una singolare presbiopia, che si fa relativismo etico e si esprime attraverso formule retoriche primitive come “anche in Occidente comandano sempre gli stessi”; “l’informazione è tutta in mano agli oligopoli”; “in Parlamento a decidere sono sempre le lobby”. In altre parole, sembra sfuggire a molti che la democrazia più imperfetta (quella italiana, ma anche quella ucraina), per sua stessa natura, è preferibile a qualunque forma di autocrazia. Insomma, la guerra in Ucraina consente di andare al cuore della questione e qui concentrarsi: sto con l’Ucraina perché sto con la democrazia. Tantissimi (temo la maggioranza) tra gli Uopl non condividono questa impostazione “perché gli USA…”, “Perché la Nato…”, “Perché l’Europa…”. Hanno ragione nell’elencare cause, concause e precedenti storici, ma hanno torto marcio nello sfuggire all’assunto iniziale (è giusto stare dalla parte delle vittime e contro il totalitarismo). Questo conflitto sul senso della democrazia, che rappresenta la sostanza più vera della questione-guerra, ha finito col produrre uno sterile immobilismo. La sinistra (in primo luogo il Pd di Enrico Letta), che con coerenza ha confermato il sostegno all’Ucraina anche attraverso la fornitura di armi, è rimasta impigliata in una estenuante diatriba all’interno della propria area politica. Una diatriba che non ha consentito a quella stessa sinistra di proporre un autonomo contributo a una strategia di pace, rischiando, in tal modo, di apparire semplicemente bellicista. È impotente a fare dello strumento militare uno degli indispensabili mezzi per arrivare a una tregua e a una trattativa. Una impotenza condivisa, va detto, da pressoché tutti gli attori politici europei. Un’altra quota della sinistra, pur ribadendo stancamente che la Russia è l’invasore, si è ritagliata uno spazio di equidistanza, negata a parole, ma nei fatti inevitabile, se la priorità è sempre e comunque la cessazione immediata delle ostilità. Le due sinistre si sono reciprocamente interdette e oggi è come se osservassero, azzittite e preoccupate, il proprio esaurimento nervoso (i talk show ne sono la perfetta riproduzione). A sua volta, anche il pacifismo politico rivela una disperante afasia. Esso conserva una sua vitalità nell’azione quotidiana, sotterranea e preziosa, ostinata e solidale, interreligiosa e interculturale, anche nei territori dell’Ucraina, ma incapace di farsi soggetto pubblico. In altre parole, l’esperienza della guerra continua a incidere in profondità nell’inconscio individuale e collettivo dell’Occidente, riproducendo quella condizione di stress. Come si diceva, la mancata elaborazione dell’immenso lutto che si consuma nei massacri in Ucraina produce, tra l’altro, due false rappresentazioni: che tutto stia accadendo per la prima volta (la prima dopo il 1945) e che si viva, ormai, nel dopoguerra. Queste due costruzioni mentali sono tragicamente fallaci: perché è già successo (Sarajevo, Srebrenica, Kosovo) e perché la guerra continua e il dopoguerra non è alle viste. È questa inconsapevolezza che rende ancora più drammatico lo smarrimento della sinistra tutta e le impedisce di immaginare una strategia di pace fondata sulla resistenza dell’Ucraina e sulla sua capacità di indipendenza anche militare. Un tempo era la guerra a “far maturare” (si diceva così) gli adolescenti - quelli che non vi perivano - e a renderli adulti. Oggi la guerra sembra rendere ancora più immatura la sinistra riducendola irreparabilmente a puer aeternus. Che dalle urne delle primarie di domenica prossima esca vincitrice Elly Schlein o vincitore Stefano Bonaccini, l’impresa che il Pd dovrà affrontare sarà comunque tale da far tremare le vene e i polsi. Nell’agenda politica del nuovo segretario o della nuova segretaria la questione dell’Ucraina si imporrà da subito e con forza: come continuare a sostenere, anche militarmente, la resistenza senza che ciò determini la riproduzione all’infinito della spirale bellica e come farsi protagonisti, insieme alla sinistra europea, di un percorso di tregua, negoziato, mediazione che produca colloqui bilaterali e multilaterali e conferenze internazionali e, finalmente, dia una chance alla pace. Le Ong e il “riflesso Bosnia”, quell’esercito senza armi in difesa dell’Ucraina di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 22 febbraio 2023 Il 24 febbraio di un anno fa la Russia ha iniziato l’invasione dell’Ucraina. La reazione delle associazioni del Terzo settore è stata spontanea e ha svolto un ruolo fondamentale. Come nel 1992 in Bosnia. Se quella sera Zelensky non avesse rifiutato il “taxi verso l’esilio”, se i servizi segreti non avessero individuato gli Antonov carichi di forze speciali, se l’Occidente, se Putin, se… allora l’Ucraina avrebbe perso. C’è un “se” di solito ignorato nell’analisi di questo primo anno di guerra che è stato altrettanto determinate: se nei primi giorni di invasione non fosse scattato “il riflesso Bosnia” tra le comunità di immigrati e le organizzazioni non governative di tutta Europa, a quest’ora staremmo parlando di un’Ucraina sotto influenza russa. Per la guerra di Bosnia successe lo stesso: centinaia di parroci, attivisti, volontari d’ogni inspirazione cominciarono a fare la spola tra casa loro, in pace, e il Paese sotto attacco. Agirono d’istinto, mossi dalla pietà per quello che vedevano alla televisione, spinti dall’idea che l’indifferenza verso la sofferenza degli altri è inaccettabile. Caricarono coperte, omogenizzati, antibiotici, saponi, tende e partirono senza coordinamento, senza autorizzazione, senza un piano preciso su dove sarebbero andati e come avrebbero inciso sulla guerra. Bosnia 1992, Ucraina 2022: i rubinetti del volontariato si sono riaperti. La portinaia Halyna, il camionista Ivan, la badante Dorina mobilitano i quartieri delle città italiane dove vivono. È la diaspora a riempiere di aiuti i primi pulmini. Nel weekend viaggiano 20 ore andata e ritorno e consegnano pacchi di pasta al confine tra Polonia e Ucraina. Il lunedì sono al lavoro. Con il loro esempio, attivisti per i diritti umani, preti, femministe, quel popolo d’Italia che non riesce a stare alla finestra, parte anche senza l’ombrello delle organizzazioni non governative. Hanno i riflessi più pronti solo le ong che già lavorano in Ucraina: Comunità di Sant’Egidio, AiBi, Fondazione Soleterre, Medici senza Frontiere. Riescono ad evacuare centinaia di persone, trovare un tetto per i profughi. Nel giro di dieci giorni si muovono anche gli altri. Senza le ong - in Italia Caritas, Intersos, Progetto Arca e tanti altri stranieri, l’Ucraina sarebbe collassata. Solo dopo le prime settimane di caos assoluto, quasi due mesi, il governo di Kiev dimostra di essere vivo e comincia a manovrare le sue strutture. Lo stesso per gli Stati solidali. Passano più di due settimane prima che le armi occidentali affluiscano in Ucraina. Sarebbero state decisive per fermare il primo tentativo putiniano di catturare il “Paese fratello”. Ma prima e per lunghi mesi dopo, in misura minore ancora oggi, il ruolo delle ong è stato determinante a sostenere lo spirito del Paese. Forse dentro le mura del Cremlino, nell’isolamento dato dal potere assoluto, dalla infinita distanza che c’è tra lo zar e la gente comune, chi ha pianificato l’invasione non aveva messo in conto l’azione di chi, anche senza armi, non riesce a stare a guardare. Stati Uniti. Alla Corte suprema un caso che può rivoluzionare il web di Marina Catucci Il Manifesto, 22 febbraio 2023 Gonzalez v. Google: il gigante tech accusato di aver amplificato i contenuti dell’Isis. La famiglia di una vittima degli attentati di Parigi contro l’algoritmo di YouTube. La Corte suprema ha sentito ieri gli argomenti relativi a un caso incentrato sulla Sezione 23 del Communications Decency Act del 1996, che protegge le piattaforme online da azioni legali relative ai contenuti pubblicati dagli utenti. Questa protezione potrebbe finire: nel 2016, la famiglia di una studentessa universitaria americana di 23 anni, Nohemi Gonzalez, uccisa durante l’attacco terroristico di Parigi del 2015, ha fatto causa a Google, sostenendo che l’algoritmo di YouTube ha promosso dei contenuti dell’Isis che hanno indirettamente causato morte della figlia. Secondo la sezione 230 i colossi del web non possono essere considerati degli editori, ma dei “diffusori” di notizie, ed è proprio questo l’aspetto contestato dai legali della famiglia della studentessa secondo i quali il sostegno ottenuto dall’Isis arrivava proprio dalla piattaforma di Google. Per anni i tribunali di grado inferiore hanno sostenuto che Google, essendo protetta dalla Sezione 230, non può essere portata in tribunale, ma ora i giudici costituzionali dovranno esprimersi proprio su questo punto: cancellare o meno tale protezione. Il giudice conservatore Clarence Thomas ha già affermato che la Corte Suprema dovrebbe ridimensionare le protezioni della legge per le piattaforme tech, e che questo caso potrebbe aiutare a decidere se le aziende tecnologiche, da Reddit a Tinder, sono responsabili per i contenuti o il modo in cui vengono diffusi dai loro algoritmi. Mentre i critici della legge sostengono che gli algoritmi devono essere tenuti sotto controllo, Google e i suoi sostenitori temono che le modifiche alla Sezione 230 possano indurre le piattaforme a rimuovere dei contenuti per paura di essere citate in giudizio, soffocando la libertà di parola. Il caso Gonzalez vs. Google ha quindi il potenziale di rimodellare il modo in cui le piattaforme gestiscono la moderazione dei contenuti. I giudici, sia le tre liberal che i sei conservatori, al momento sembrano scettici riguardo all’argomentazione secondo la quale YouTube dovrebbe essere ritenuta responsabile per il modo in cui il suo algoritmo ha “gestito” i contenuti dell’Isis. Durante le argomentazioni del caso, che si sono protratte per più di 2 ore, i giudici hanno espresso sia confusione che preoccupazione per la potenziale esposizione delle aziende a un diluvio di azioni legali. I giudici hanno anche esaminato la possibilità di introdurre una distinzione legale tra hosting (il semplice atto di “ospitare” post o video) e amplificazione dei contenuti, e l’eventualità di lasciare che sia il Congresso a dirimere la controversia. Gli autori della Sezione 230, il senatore democratico Ron Wyden e il repubblicano Chris Cox, hanno spiegato il pensiero alla base della legge in una dichiarazione letta in corte, dove hanno descritto quel passaggio della legge del 1996 come “tecnologicamente neutrale”. Le raccomandazioni algoritmiche, hanno aggiunto, sono “dirette discendenti dei primi sforzi di cura dei contenuti che il Congresso aveva in mente quando ha promulgato la Sezione 230”. Dunque le piattaforme “possono beneficiare dell’immunità garantita dalla Sezione 230 per ciò che riguarda le raccomandazioni di contenuti o attività di moderazione”. La giudice progressista Ketanji Brown Jackson non è sembrata dello stesso parere quando ha interrogato l’avvocata Lisa Blatt, che rappresenta Google al processo, suggerendo che la legge non avrebbe mai avuto lo scopo di fare scudo alle piattaforme tecnologiche dalle cause legali. Blatt ha contestato le parole di Jackson, affermando che le azioni legali relative alle raccomandazioni rientrano nell’ambito dell’intento degli autori della legge di proteggere i siti web. “Internet non sarebbe mai decollata - ha detto Blatt - se qualcuno avesse potuto fare causa in qualsiasi momento e tutto fosse stato lasciato all’arbitrio di 50 stati”. La scrittrice Masih Alinejad: “Meno proteste ma la rivolta in Iran non si ferma” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 22 febbraio 2023 L’attivista in esilio negli Usa è oggi a Roma per audizioni al Parlamento: il dissenso si sta organizzando in altre forme come scioperi e disobbedienza civile e punta a trovare un leader. “La rivoluzione iraniana sta entrando in una nuova fase” assicura al Corriere Masih Alinejad, scrittrice e attivista iraniana in esilio negli Stati Uniti, arrivata oggi a Roma per audizioni nel nostro Parlamento. La repressione del regime, fatta di torture di massa ed esecuzioni di piazza esemplari, è stata tanto sanguinosa quanto efficace: da gennaio si è ritirata l’ondata di manifestanti che si era riversata per oltre 12 settimane consecutive nelle strade di piccole e grandi città, quando la rabbia per l’uccisione di Mahsa Amini il 16 settembre si era trasformata in una delle sfide più serie per la teocrazia iraniana dalla rivoluzione islamica del 1979. “La gente era esausta, ma ora si è ricaricata e si sta preparando per il grande ritorno” continua Alinejad, autrice di The wind in my hair: my fight for freedom in modern Iran. Un segnale che la mobilitazione non si è spenta c’è stato giovedì scorso quando i manifestanti sono tornati numerosi a marciare per le strade in più città, per marcare i 40 giorni dall’esecuzione di due manifestanti. “Altri grandi cortei sono in programma questa settimana, ma non ci saranno più manifestazioni non stop come prima. Ora il dissenso si sta organizzando in altre forme - annuncia la scrittrice-attivista - come scioperi e disobbedienza civile, con campagne che invitano a non pagare le bollette o a ritirare i soldi dalle banche e convertirli in dollari. Sistemi alternativi per fare pressione sul governo, senza rischiare il carcere e la vita”. Da un’inchiesta della Cnn emergono dettagli raccapriccianti del sistema messo in piedi dal regime per infliggere torture su larga scala: attraverso le testimonianze di alcuni sopravvissuti la tv americana ha individuato la posizione di una quarantina di siti di detenzione improvvisati e clandestini spuntati vicino ai luoghi delle proteste. “Hanno infierito sul mio corpo con forbici e accendini, mi hanno drogato, vomitavo sangue, credevo che sarei morto, nessuno sapeva dove mi trovassi” ha raccontato uno di loro. In questa nuova fase, la mobilitazione diventa anche politica, o almeno questo sperano gli 8 leader dei diversi gruppi dell’opposizione iraniana in esilio che sono riuniti a Washington la scorsa settimana con l’obiettivo di elaborare un unico programma per portare la democrazia nel loro Paese. Tra loro, oltre a Masih Alinejad, la Nobel Shirin Ebadi e l’ex capitano della squadra nazionale di calcio iraniana Ali Karimi. Per la prima volta da anni si è formato un fronte compatto delle opposizioni all’estero ma che questo basti a far emergere un leader all’interno del Paese non è affatto sicuro.