Una telefonata allunga la vita di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 21 febbraio 2023 Giustamente la Conferenza del volontariato della giustizia ha promosso un appello, rivolto alle direttrici e ai direttori delle carceri italiane, affinché esercitino la discrezionalità che l’ordinamento penitenziario riconosce loro per garantire colloqui, telefonate e videochiamate oltre le ordinarie previsioni normative. Quante volte, nei mesi più difficili della pandemia, ci siamo detti che non si sarebbe potuto tornare indietro, allo status quo ante? La pandemia ci ha mostrato l’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario, l’insostenibilità del carcere “ospizio dei poveri” e della sua chiusura all’esterno, alle tecnologie e agli affetti. Nell’emergenza sono state adottate misure capaci di scavalcare le barriere della comunicazione e di integrare i servizi sociali territoriali nella presa in carico delle persone bisognose di accoglienza sul territorio. Ora che della pandemia sembriamo dimenticarci, con un tipico atteggiamento di rimozione della sofferenza patita, non possiamo dimenticarci che quelle misure di emergenza supplivano incapacità strutturali del nostro sistema penitenziario, non possiamo tornare allo status quo ante. Tra le principali inadeguatezze del nostro sistema penitenziario ci sono quei micragnosi dieci minuti di telefonata alla settimana (ogni due settimane per chi è in alta sicurezza) che somigliano tanto alla settimanale telefonata a casa della mia generazione, tra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso, durante la naja, le vacanze o da studenti o lavoratori fuori sede. Una cosa, appunto, del secolo scorso, letteralmente inconcepibile per i ragazzi di ora, ma anche per noi, ragazzi d’allora, che invecchiamo con un cellulare sempre acceso in tasca o sul comodino. Quella norma di regolamento andrebbe cambiata, lo abbiamo detto tante volte, anche attraverso una proposta di legge fatta propria dal Consiglio regionale della Toscana nella passata legislatura. Ma intanto che quella norma non viene cambiata, l’Amministrazione penitenziaria può e deve esercitare tutto il suo potere derogatorio per consentire alle persone detenute di mantenere la frequenza di comunicazione con i propri cari che è stata sperimentata in pandemia. Non solo per non tornare indietro, ma anche perché quel drammatico numero di suicidi in carcere nello scorso anno ci dice che, passata la tensione della pandemia, in carcere è più forte il senso di abbandono e non c’è miglior prevenzione del rischio suicidario in carcere che non passi per la frequenza e la vitalità delle relazioni con l’esterno, con i propri familiari e con i propri affetti. Speriamo che l’Amministrazione penitenziaria, i suoi vertici, le direttrici e i direttori ascoltino la voce dei dell’associazionismo e del volontariato, in attesa che quella norma del secolo scorso sia finalmente cambiata. La pena oltre le sbarre? Così si aiuta di Paola D’Amico Corriere della Sera - Buone Notizie, 21 febbraio 2023 Censite 500 realtà del Terzo settore che operano in Veneto per il sostegno ai detenuti. L’area penale esterna garantisce meno recidiva. Ma l’inserimento non è semplice. Il portale “Su di noi puoi contare!” per capire il fenomeno e studiare gli aggiustamenti. Le esperte: “Servono un metodo meglio strutturato e condivisione delle buone prassi”. La giustizia non è solo punizione ma riconciliazione. Da questa idea 7 detenuti e una volontaria, Ornella Favero, sono partiti 20 anni fa nel carcere di Padova. L’idea è diventata un progetto: l’associazione “Il granello di senape” prima, la rivista “Ristretti Orizzonti” poi. Finché è gemmata anche una coop di mediazione sociale. “Siamo diventati - sintetizza Francesco - mediatori di conflitti. Ci prendiamo cura delle persone”. Quando hanno cominciato, il tema dell’esecuzione penale sul territorio, che secondo gli esperti “abbatte i tassi di recidiva molto più dell’internamento carcerarlo”, era marginale. Oggi i numeri dicono il contrario: in Italia al 31 gennaio 2023 erano detenute 56.127 persone, contro 74.614 in area penale esterna. E per restare in Veneto, contro i 2.476 detenuti nelle carceri ci sono 5.312 persone sottoposte a misure giudiziarie in area penale esterna. Ma perché tutto funzioni, a chi non sconta la pena in carcere occorre un alloggio, un lavoro, un aiuto legale o per sbrogliare la burocrazia, per esempio anche solo riottenere la patente di guida o ricomporre il rapporto con la famiglia. E qui si registrano le criticità, una ragione per cui questa sfida su cui il nostro Paese si misura da decenni non è ancora vinta. Come dimostra il progetto “Su di noi puoi contare!” che ha mappato e analizzato quali enti di Terzo settore operano sul campo e come. L’obiettivo è che presto le “sanzioni di comunità” avvicinino il nostro Paese agli standard europei nella politica della risposta al crimine. Il portale realizzato (venetovolontariatogiustizia.org) è una delle azioni del progetto che vuole facilitare l’incontro col Terzo settore e che viene presentato a Padova. “Si ipotizza che il volontariato rasenti l’80 per cento di tutte le attività trattamentali - spiega Maurizio Mazzi, presidente della Conferenza regionale volontariato giustizia del Veneto - ma nessuna istituzione si è mai preoccupata di monitorare l’impatto del Terzo settore nelle attività educative e di aiuto di chi sconta una pena fuori dal carcere. Invece, è fondamentale scattare una radiografia, anche per capire quante risorse lo Stato destina a queste attività e se un dettato costituzionale di rieducazione viene svolto dal volontariato e non dall’istituzione”. A realizzare la mappatura analizzando oltre 500 realtà associative che si sono occupate o si occupano di persone che godono di tura misura esterna (semilibertà, affidamento ai servizi sociali, messa alla prova, lavoro di pubblica utilità, misure di comunità) sono state le ricercatrici dell’Università degli Studi di Padova Maibrit Arbien e Sara Pompele coordinate dalla professoressa Ines Testoni. “Abbiamo registrato molti contributi creativi e innovativi del volontariato attivo nell’area penale esterna. E rilevato - dice Arbien, 29 anni, psicologa clinico dinamica - che c’è tanto lavoro da fare, alcune realtà funzionano bene, altre si arrangiano, altre hanno abbandonato”. Secondo Ines Testoni occorre mettere a punto un modello rispetto all’accoglienza “meno casuale, più strutturato, serve una condivisione delle buone prassi”. L’idea è formare un tutoring competente. “Per esempio, solo una minima parte di associazioni si impegna per trovare una residenza per queste persone, spesso detenute in città diverse da quella dove hanno una rete di conoscenze”. E occorrono competenze perché la reintegrazione sociale abbia successo. Un dato però fa ben sperare: “Questi detenuti hanno aspettative molto più alte sul futuro rispetto alle persone normali. Chi può stare fuori dal carcere è fortemente motivato a vivere una vita sociale buona. Se ci giochiamo bene questa opportunità potremo davvero ridurre le recidive di reato”. Partner di “Su di noi potete contare” è CSVnet, il coordinamento nazionale dei Csv. “La conoscenza del variegato mondo del terzo settore che opera nell’area penale esterna - commenta la presidente di CSVnet Chiara Tommasini - è il punto di partenza per fare in modo che il sistema sia in grado di allestire progetti e opportunità. La ricerca promossa in Veneto ci propone un metodo da rilanciare a livello nazionale per comprendere a fondo il fenomeno e lavorare a rafforzare i processi di rieducazione”. Lavoro in cantiere: per i detenuti è l’ora del riscatto di Maurizio Carucci Avvenire, 21 febbraio 2023 Il lavoro nobilita l’uomo e in carcere è davvero un’occasione di riscatto. Sono sempre di più i detenuti che frequentano corsi di formazione, imparano un mestiere o addirittura già lavorano (in alcuni casi anche all’esterno). Su un totale di 54.841 detenuti, i lavoratori sono 18.654, in base ai dati del 30 giugno 2022. Di questi ben 16.181 sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Il quadro generale parla di un mondo “parallelo” che conta, distribuite in 26 categorie, 247 attività svolte (110 delle quali a carico dell’amministrazione penitenziaria) in cui si spazia dall’assemblaggio e riparazione componenti elettronici alla calzoleria, continuando con data entry e dematerializzazione documenti, dalla falegnameria per arrivare al lanificio-tessitoria con 333 occupati. Secondo una stima del ministero della Giustizia, i detenuti potenzialmente pronti per un nuovo lavoro anche all’esterno del carcere sono oltre 2.300. Un segnale che fa ben sperare: se la recidiva per i detenuti è attorno al 70%, per coloro che in carcere hanno appreso un lavoro crolla al 2%. A delineare questo scenario in cui la pena si unisce all’attività lavorativa, i protocolli siglati negli ultimi mesi volti all’inclusione lavorativa. A giugno ne è stato siglato uno sulle telecomunicazioni con nove aziende coinvolte. Nello specifico si tratta di Fastweb, Linkem, Tiscali, Sky, Telecom Italia, Vodafone e Windtre. Le aziende porteranno avanti attività di rigenerazione degli apparati terminali di rete tramite laboratori dedicati all’interno delle carceri. Dovrebbero venir coinvolte fino a 200 persone tra gli istituti di Lecce, Roma Rebibbia, Torino e Uta (Cagliari). C’è poi anche l’attività all’esterno, cui hanno aderito Open Fiber, Sielte e Sirti per la realizzazione delle reti di accesso, in particolare per la posa e giunzione delle reti in fibra ottica. Sono stati individuati complessivamente 2.326 detenuti con i requisiti potenziali personali e di legge. La prima fase del progetto avrà carattere di sperimentazione su tre istituti che saranno in grado di formare circa 100 detenuti in sei settimane. Proprio in questo ambito il gruppo Sirti e Open Fiber hanno definito il programma di Lavoro Carcerario nella struttura penitenziaria di Rebibbia, con l’ufficializzazione dell’assunzione di sette detenuti. Si tratta di persone che dopo il completamento del percorso formativo, “entreranno nelle squadre di Sirti e del consorzio Open Fiber Network Solutions (Ofns) come addetti per le attività di giunzione di fibra ottica per le infrastrutture direte in Italia”. Una partecipazione che, come spiega Ivan Rebemik, direttore del Personale di Open Fiber “offre ai detenuti una nuova opportunità potenziando la funzione rieducativa della pena “. In viaggio anche il protocollo del 19 ottobre, siglato tra commissario straordinario per il sisma, la Cei, l’Ance e l’Anci con cui si prevede che i detenuti di dieci province delle regioni Abruzzo, Lazio, Molise, Marche e Umbria possano avere l’occasione di lavorare nei cantieri di oltre 5mila opere di ricostruzione pubblica e in quelli di 2.500 chiese danneggiate dal terremoto 2016. Un’occasione, come sottolineato dal vicepresidente dell’Ance Piero Petrucco, anche per le imprese “di formare nuova manodopera in opere importanti per la rinascita di un territorio ferito dal terremoto”. A guardare positivamente l’introduzione del lavoro in carcere i rappresentanti del volontariato. “Si tratta senza dubbio di attività di alto valore e molto importanti - commenta Andrea Scandurra, responsabile dell’Osservatorio carceri dell’associazione Antigone - con un lavoro vero e proprio che va oltre quello che si può compiere dentro che, molto spesso viene svolto a rotazione ed è una sorta di welfare interno”. A favorire l’attività imprenditoriale in carcere i benefici della legge Smuraglia. Complessivamente sono 349 le aziende che, per un ammontare complessivo di 9,4 milioni di euro sono state ammesse alle agevolazioni per il 2022. “Uno dei vantaggi per le aziende che decidono di intervenire riguarda i costi - aggiunge Scandurra - che, nella maggior parte dei casi non sono a carico delle imprese”. E poi gli sgravi fiscali. Le aziende che assumono detenuti o internati degli istituti penitenziari possono giovarsi di un credito d’imposta per ogni lavoratore di 520 euro mensili, cifra che scende a 300 euro mensili per i lavoratori in regime di semi-libertà. La retromarcia sui detenuti semiliberi fa male a loro e allo Stato di Luigi Mastrodonato L’Essenziale, 21 febbraio 2023 Il governo Meloni non ha prorogato la misura del 2020 che permetteva a 700 detenuti in semilibertà di restare fuori anche la notte, così da alleggerire il sovraffollamento carcerario. Mancano pochi minuti alla mezzanotte quando Fernando varca il cancello per entrare nel carcere di Bollate, nell’hinterland milanese. Fernando ha 43 anni, e la sua giornata da detenuto semilibero l’ha trascorsa prima nell’agenzia dove lavora come videomaker, poi facendo qualche ora di volontariato, e infine andando a salutare la famiglia. Fino a poco tempo fa la sua quotidianità si concludeva rimanendo a casa a dormire con la compagna. Ora invece deve ritornare in carcere. Il governo Meloni non ha prorogato la misura del 2020 che permetteva ai detenuti in regime di semilibertà di restare fuori anche la notte, così da alleggerire il sovraffollamento carcerario. Fernando e le altre persone nella sua condizione, che in questi anni si sono costruite una nuova normalità nel mondo di fuori, si trovano ora catapultati in cella, come se la loro pena fosse ricominciata da capo. “Tornare in carcere in questo modo è stato peggio che entrarci la prima volta”, chiosa Fernando. “È una tortura fisica e psicologica: cosa vogliono ancora da me?”. I detenuti semiliberi in Italia - Quando nel marzo 2020 la pandemia ha stravolto l’Italia, nelle carceri del paese c’erano più di 60mila detenuti a fronte di una capienza di circa 50mila posti. Numeri che rendevano molto difficile garantire una forma di distanziamento fisico in cella e che avevano portato il governo a intervenire. Con il decreto Cura Italia diverse migliaia di detenuti hanno beneficiato di misure alternative e sono finiti ai domiciliari. La pressione sulle carceri è così diminuita. Tra quelli che hanno visto cambiare la propria condizione ci sono i semiliberi. Come spiega la legge 344/1975, “il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale”. Questo regime oggi riguarda circa 700 persone, detenuti che hanno già scontato gran parte della pena e che hanno mostrato una buona condotta. La notte devono tornare in carcere, ma la normativa stabilisce che possono anche ottenere permessi premio fino a 45 giorni annui. Il decreto Cura Italia del marzo 2020 aveva cancellato quest’ultima limitazione, consentendo ai semiliberi di restare giorno e notte fuori del carcere senza paletti. Ma ora le cose sono cambiate. Il governo Meloni non ha prorogato la disposizione e dal 31 dicembre 2022 i detenuti semiliberi sono tornati a dormire in carcere ad anni di distanza dall’ultima volta. Una brutale interruzione del percorso di integrazione e reinserimento sociale che si stavano faticosamente costruendo. Percorsi di risocializzazione interrotti - Per Fernando è cominciata una nuova, triste routine. Entra nel carcere di Bollate poco prima della mezzanotte ed esce alle sei di mattina per andare al lavoro. Una detenzione di sei ore che potrebbe sembrare simbolica, ma che nei fatti gli sta complicando parecchio la vita. “Le persone con cui condivido la cella si trovano in un regime diverso dal mio, quindi non lavorano”, spiega. “Loro giustamente durante il giorno dormono, dato che non hanno praticamente alcuna attività da fare, poi stanno fino a notte fonda a chiacchierare, fumare sigarette e giocare a carte. Per me diventa impossibile dormire e questo si riflette sulla mia attenzione in ufficio”. A complicare le cose gli spazi ristretti: Fernando racconta che nella sua cella, omologata per tre persone, sono in cinque e presto diventeranno sei. Andare e tornare dal carcere è poi un grande spreco di tempo: la casa e l’ufficio sono a Milano, da Bollate ci vuole più di un’ora con i mezzi di trasporto pubblici. I percorsi di reinserimento sociale sono alla base dell’abbattimento degli alti tassi di recidiva in Italia - Ma al di là di questo, il problema principale è la frustrazione per essere tornato indietro nel tempo. “Sembrava fosse finita, dopo quasi due anni mi stavo riabituando alla vita di fuori e mi stavo reintegrando, ora invece mi trovo di nuovo in cella”, sottolinea. “È una retromarcia nel percorso educativo ma anche un costo per gli italiani. Lo stato ha speso un sacco di soldi dei contribuenti per rieducarmi e reinserirmi socialmente e ora che il processo è a buon punto mi fa tornare in carcere. È una sconfitta per tutti”. Per cercare di risolvere il problema del sonno Fernando è riuscito a farsi spostare il turno di lavoro, così da poter cominciare in tarda mattinata. Il piano è di uscire dal carcere all’alba dopo la solita notte in bianco, passare da casa per dormire un paio d’ore e poi attaccare con l’attività di videomaking. Prima di cominciare con questi nuovi ritmi ha però deciso di usare subito 15 dei suoi 45 giorni annui di permessi premio. “Ho fatto così perché stavo per impazzire, dovevo prendermi una tregua”. “Un accanimento terapeutico” - Pierdonato, 63 anni, ha ottenuto la semilibertà proprio nell’anno del covid-19 e dopo 25 anni è tornato a riassaporare il mondo di fuori. In questi tre anni ha conseguito una laurea in sociologia con il massimo dei voti al polo universitario penitenziario di Secondigliano, a Napoli. Poi ha cominciato a lavorare nell’area politiche sociali di un comune del casertano. Un conoscente che faceva volontariato in carcere gli ha messo a disposizione casa sua, dove ha vissuto giorno e notte grazie alle maglie più larghe del decreto Cura Italia. Per Pierdonato sembrava insomma cominciata una nuova vita, ora però anche lui deve tornare in carcere ogni sera. “Dopo lungo tempo sento di nuovo quella brutta sensazione di ossa ammaccate e frustrazione a causa di letti disgraziati, celle fredde e bagni senza porte”, chiosa. “Le istituzioni dovrebbero attuare un principio di progressione del trattamento penitenziario, quindi se io da A sono andato a B, poi a C e poi a D non devi riportarmi indietro ma in avanti. Eppure c’è un’involuzione al posto dell’evoluzione”. Ogni mattina alle sette un addetto del comune passa a prendere Pierdonato fuori del carcere di Santa Maria Capua Vetere e lo porta al lavoro. Alla sera, dopo un po’ di tempo trascorso a casa, viene accompagnato in prigione per dormire. “Che finalità ha tutto questo? Io allo stato ormai servo molto più fuori che dentro”, si interroga Pierdonato. La scelta del governo Meloni di non rinnovare la disposizione sui semiliberi è un problema sotto diversi punti di vista. In primo luogo c’è il paradosso dell’interruzione di percorsi di risocializzazione che stavano funzionando bene, dal momento che in questi ultimi anni nessun semilibero beneficiario del Cura Italia si è macchiato di nuovi reati. Proprio i percorsi di reinserimento sociale sono alla base dell’abbattimento degli alti tassi di recidiva in Italia, che sono al 70 per cento in termini generali ma crollano al 2 per cento tra chi lavora. In secondo luogo c’è un problema economico per lo stato. Un detenuto in carcere costa più di 150 euro al giorno, farlo tornare a dormire in cella costituisce una nuova voce di spesa. C’è infine il tema del sovraffollamento. Come ha sottolineato alla fine del 2022 l’associazione Antigone, le presenze nelle carceri italiane stanno tornando a livelli preoccupanti. I detenuti sono quasi 57mila su 51mila posti, ma di questi circa quattromila vanno considerati indisponibili. Nel 39 cento degli istituti ci sono celle dove il parametro minimo dei tre metri quadri di superficie calpestabile per ciascuno non è rispettato. Il governo Meloni ha però deciso di far rientrare nelle carceri ulteriori 700 detenuti semiliberi, invece che alleggerire la pressione. Cambiare lo stato delle cose è possibile. Entro la fine di febbraio il parlamento deve convertire in legge il decreto numero 198 della legge 29 dicembre 2022 “Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”. Al suo interno potrebbe trovare spazio all’ultimo momento anche la proroga della normativa sui detenuti semiliberi introdotta con il decreto Cura Italia del 2020 e decaduta nel 2023. Per Fernando, Pierdonato e i 700 detenuti in questa condizione significherebbe vedersi riconosciuto il grande lavoro personale di risocializzazione portato avanti negli ultimi tre anni. Per lo stato italiano vorrebbe dire smettere di rinnegare quel fine rieducativo della pena contenuto nella costituzione. “Siamo come pazienti guariti che non vengono mai dimessi dall’ospedale”, sbotta Pierdonato. “C’è una sorta di accanimento terapeutico nei nostri confronti. Verrà però il tempo in cui le cose cambieranno”. “Il 41 bis si dà con troppa disinvoltura. Su Cospito ascoltare il Pg” di Antonio Alizzi Il Dubbio, 21 febbraio 2023 “Ho sentito e letto la requisitoria del procuratore generale, effettivamente non c’erano gli elementi per poter applicare a Cospito una misura così drammatica. E chi descrive il 41 bis come un luogo dove tutto sommato sembra di stare in un albergo di terza categoria falsifica la realtà”. Parola di Nico D’Ascola, avvocato e giurista. Il professore avvocato Nico D’Ascola i temi giuridici li conosce come le sue tasche. Oltre ad insegnare diritto penale, nel 2016 ha presieduto la commissione Giustizia del Senato, quando al governo c’era Matteo Renzi con il Nuovo Centrodestra. L’argomento del giorno è senza dubbio il caso di Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis nel carcere di Milano Opera, ma oggi in ospedale per via delle sue precarie condizioni di salute a seguito della decisione di non mangiare da ormai diversi mesi. D’Ascola, nel suo ragionamento, ha risposto anche alle affermazioni di Piercamillo Davigo, che nel corso della trasmissione “Perfidia”, in onda su LaC Tv, alla quale ha partecipato anche il direttore de Il Dubbio Davide Varì, aveva dichiarato che i detenuti al 41 bis possono scegliere anche il menù. Professore D’Ascola, cosa pensa del caso Cospito e del regime di 41 bis? È una materia estremamente delicata, direi che è una materia eccezionale proprio nel significato che terminologicamente si attribuisce appunto a questo vocabolo, quindi deve essere applicata nei casi di extrema ratio in cui non se ne può fare a meno. Ora nel caso di Cospito, c’è il procuratore generale presso la Corte di Cassazione che ha dato parere contrario al mantenimento della misura nei confronti di costui. Credo che la disponibilità di questi mezzi si debba necessariamente accompagnare ad una capacità di selezionare le persone alle quali applicali. In alcuni casi, come questo, non si può fare i burocrati. Quando c’è una realtà umana non si può fare gli impiegati, ma bisogna fare gli intellettuali e allora si sbaglia se non si fanno delle scelte veramente avvedute dove effettivamente non c’è soluzione. In quali casi? Quando si ha contezza che dalle carceri si danno ordini per commettere omicidi, per trafficare droga. È chiaro che lo Stato queste cose non le può consentire, questo è l’aspetto più delicato. Con situazioni che hanno una base politica, come in questo caso, le cose possono determinare fenomeni, fermenti, insurrezioni quindi la dilatazione sostanzialmente del dissenso. Ritengo che ci voglia molta prudenza e molta serietà. Io ho sentito e letto la requisitoria del procuratore generale, effettivamente lì non c’erano gli elementi per poter applicare a Cospito una misura così drammatica, perché chi descrive il 41 bis come un luogo dove tutto sommato sembra di stare in un albergo di terza categoria falsifica la realtà. La Costituzione dice che la pena non può consistere in trattamenti disumani e degradanti. La privazione della libertà personale non può consistere in altre privazioni ulteriori, che si sommano alla privazione della libertà personale con il 41 bis. Ripeto quando si trattano realtà umane bisogna essere molto oculati. Parla di ciò che successe in Italia dagli anni 60 in poi? Noi abbiamo una tragica esperienza, quella delle brigate rosse, e gli anni di piombo che forse per le nuove generazioni sono qualche cosa di inesistente, non si creano situazioni conflittuali di questo motivo se non si è proprio strettamente costretti. Il fatto che il procuratore generale abbia detto in maniera motivata, non facendosi prendere dalla foga, che forse non c’erano i presupposti per l’applicazione del 41 bis è un indice che però dimostra come d’altra parte si agisca con leggerezza. Se fosse stato al Governo come avrebbe agito? Avrei fatto la stessa cosa dinanzi alla minaccia di un ricatto che viene dalla piazza, ci mancherebbe altro, ne andrebbe della serietà e della credibilità dello Stato. Ma ripeto, queste situazioni di conflitto vanno evitate, non possiamo correre il rischio di avere un’insurrezione armata dentro lo Stato perché qualcheduno ha sbagliato. Ci vuole maggiore saggezza, maggiore prudenza. Il 41 bis va applicato in extrema ratio, mentre qui vedo che si dà con una certa disinvoltura. “La giustizia è lenta e Cospito non ha tutto questo tempo” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 21 febbraio 2023 “La speranza è che la Cassazione decida subito sulla revoca del 41 bis. Ma l’esperienza insegna che solitamente c’è un rinvio al Tribunale di sorveglianza di Roma, che dovrà fissare una nuova udienza. La giustizia è lenta e Cospito non ha tutto questo tempo”. A parlare è Maria Teresa Pintus, l’avvocata che assiste l’anarchico insurrezionalista nella battaglia contro il regime del carcere duro al quale è sottoposto dal maggio 2022. Da cinque mesi Cospito, considerato punto di riferimento della Fai/fri, è in sciopero della fame. “Lo abbiamo convinto ad assumere gli integratori: ha capito che se morisse la sua lotta non sarebbe valsa a nulla - ha spiegato il legale. Se anche la Cassazione annullerà con rinvio (l’udienza è fissata per venerdì, non tornerà ad alimentarsi. Forse potrebbe accettare di fare delle flebo, ma non ne abbiamo ancora parlato”. L’occasione per fare il punto sulle condizioni di salute di Cospito (ricoverato in ospedale) è stato un convegno organizzato dalla Camera penale “Vittorio Chiusano”, al quale l’avvocata è stata invitata come ospite. Il tema era “Il regime di 41 bis: lo Stato, la persona detenuta, la vita e la morte”. Al tavolo dei relatori, oltre a Pintus, c’erano Roberto Capra (presidente della Camera Penale), Gianluca Vitale (presidente del Legal Team Italia e avvocato dell’ex compagna dell’anarchico, Anna Beniamino) e Roberto Lamacchia (presidente dell’associazione nazionale Giuristi democratici). Nelle tre ore di dibattito si sono analizzati tutti gli aspetti - paradossi compresi - di un regime carcerario che gli avvocati giudicano “al limite della tortura”. “Siamo tutti d’accordo - ha sottolineato Capra - che venga abolito o comunque modificato”. Ma a tenere banco è stato soprattutto il caso Cospito. Pintus, che assiste circa il 30 per cento degli oltre 750 detenuti al 41 bis, ha ricordato come la revoca sia difficile: “Per la prima volta, però, la Dna ha offerto un’alternativa, aprendo la strada a un regime di alta sicurezza. Non era mai successo prima. Di contro la Dda di Torino ha dato parere negativo, confermando la necessità che Cospito resti al 41 bis”. A pesare - stando a quanto emergerebbe dal documento firmato dal ministro Nordio - sarebbero anche le manifestazioni di solidarietà violente messe in atto dal mondo anarchico: dall’attentato incendiario in Grecia contro la diplomatica Susy Schlein a quelli di Barcellona e Berlino. Le opposizioni la spuntano: Delmastro resta in panchina di Simona Musco Il Dubbio, 21 febbraio 2023 Passa la linea dura di Pd, Avs, M5S e Terzo Polo: il sottosegretario sostituito in Commissione Giustizia da Matilde Siracusano. Il governo ci aveva provato a resistere all’ostruzionismo delle opposizioni, annunciando la presenza del sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove in Commissione Giustizia. Ma alla fine, la linea dura intrapresa dal Partito democratico, Avs, M5S e Terzo Polo - pronte ad abbandonare l’aula nel caso in cui avessero visto arrivare l’esponente di FdI - ha vinto e a riferire per l’esecutivo sul dl 198/2022, che contiene disposizioni urgenti in materia di termini legislativi, questo pomeriggio si è presentata Matilde Siracusano, sottosegretaria di Stato ai rapporti con il Parlamento. Un passo indietro per tenere “i toni bassi”, così come chiesto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, costretta ora a gestire la grana di due compagni di partito nei “guai” con la giustizia: da una parte il sottosegretario indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e dall’altra una sottosegretaria dimissionaria - Augusta Montaruli - in quanto condannata in via definitiva per peculato. Una vicenda, quest’ultima, che ha contribuito anche a scaldare gli animi tra i membri della stessa maggioranza, con botta e risposta al vetriolo tra il deputato di Forza Italia Giorgio Mulè e anonimi esponenti di Fratelli d’Italia che si sono affidati alle agenzie di stampa per offendere il collega. Le fibrillazioni hanno riacceso le voci di una spaccatura interna alla coalizione - date le posizioni a tratti inconciliabili dei due partiti sui temi della giustizia -, smentita in fretta e furia dalla sponda forzista, che si limita a parlare di “imbarazzo” per la vicenda Delmastro. Stesso sostantivo usato da Mulè per la vicenda Montaruli, a dimostrazione che l’equilibrio è tutt’altro che stabile. “Non parteciperemo a nessuna forma di ostruzionismo”, si affretta a dire una fonte forzista di fronte all’ipotesi, sbandierata dalle opposizioni, che gli azzurri vogliano approfittare delle spine nel fianco di Meloni per attaccare l’alleato. Alle prese con il tentativo della minoranza di mandare a casa Delmastro, che nel frattempo può però contare su una tregua garantita dal calendario della Camera, dove nei prossimi giorni sono attesi due voti di fiducia e la prima seduta del giurì d’onore, prevista mercoledì, sulle accuse lanciate in aula dal vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli al Pd, sulla scorta di quei documenti riservati dei quali il sottosegretario non avrebbe dovuto fare parola. I due sono poi attesi a Piazzale Clodio, il primo in veste di testimone, il secondo per depositare la memoria difensiva - annunciata dopo l’interrogatorio - con la quale fare ulteriormente chiarezza su quanto avvenuto con la consegna al collega delle carte fornite dal Dap sui dialoghi tra l’anarchico Alfredo Cospito e i boss al 41 bis. Carte non divulgabili, secondo l’accusa, e non secretate secondo Delmastro. I dem hanno intanto pronta una nuova mozione di censura nei confronti del sottosegretario meloniano, in attesa che la capigruppo, questa settimana, decida quando discutere quelle già depositate. E nel frattempo, dai banchi dell’opposizione, si continua a chiedere un passo indietro dei due esponenti di FdI: “Visto l’aggravarsi della posizione del sottosegretario Delmastro e l’inadeguatezza mostrata dal collega Donzelli - ha commentato la deputata del M5S Stefania Ascari, membro della Commissione Giustizia - continuiamo a chiedere che entrambi si dimettano dai rispettivi incarichi il prima possibile. La nostra mozione di censura sia calendarizzata al più presto”. E ad infiammare il dibattito ci ha pensato anche il fondatore di Alleanza Nazionale ed ex presidente della Camera Gianfranco Fini, che ha “condannato” i due esponenti di FdI: “Non si confonde un’aula del Parlamento con la piazza di un comizio. Donzelli, quando ha preso la parola, ha dimenticato di essere un autorevolissimo esponente del partito che esprime il presidente del Consiglio. Non si lanciano accuse in questo caso, tra l’altro, del tutto infondate al Pd, dicendo “Strizzate l’occhio alla mafia”. Ancor di più, Delmastro, il giorno in cui il presidente del Consiglio dice toni bassi, dice: “Il Pd si inchina alla mafia” - ha dichiarato a “Mezz’ora in più”, su Rai3 -. I toni sono una parte importante del dibattito politico se vuole essere all’insegna della civiltà e del reciproco rispetto. Vale per alcuni esponenti della maggioranza e per buona parte dell’opposizione”. Delmastro, atteso oggi in Senato. Nuovo altolà dalle opposizioni: pronte a lasciare l’Aula di Liana Milella La Repubblica, 21 febbraio 2023 Dopo il caso di ieri alla Camera, Pd, M5S, Avs, Terzo polo ancora contro il sottosegretario alla Giustizia nel pomeriggio a Palazzo Madama per il ddl sull’omicidio nautico: “Ce ne andiamo se ti siedi sui banchi del governo”. Il tuttora sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, cui il Guardasigilli Carlo Nordio ha ribadito la fiducia, oggi potrebbe sfidare di nuovo le opposizioni, coalizzate contro di lui già ieri alla Camera, presentandosi in aula al Senato alle 16 e trenta per seguire i lavori sull’omicidio “nautico” per conto del governo. Dal suo punto di vista sarebbe del tutto scontato, addirittura “normale” visto che ha sempre seguito a palazzo Madama questo cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia. Reato parallelo in mare dell’omicidio stradale. Stesse pene, da due a sette anni. Proponente e relatore il senatore meloniano Alberto Balboni. Ma proprio com’è avvenuto a Montecitorio in commissione Giustizia, se davvero Delmastro dovesse anche solo affacciarsi nell’emiciclo dell’aula per sedersi sui banchi del governo, le opposizioni unite abbandonerebbero l’aula. È una secessione annunciata. E stavolta l’incidente sarebbe ben più grave di quello avvenuto ieri alla Camera, quando il governo, in fretta e furia, è stato costretto a mandare in commissione la sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento Matilde Siracusano perché i capigruppo d’aula dei partiti che stanno all’opposizione - Pd, M5S, Avs, Terzo polo - avevano già annunciato ufficialmente che avrebbero voltato le spalle a Delmastro se si fosse presentato per il governo e avrebbero abbandonato i lavori. E quanto è avvenuto a Montecitorio ha avuto ieri un’immediata eco, e altrettante conseguenze, a partire dal Senato dove, in commissione Giustizia, sono giunti espliciti altolà da parte di tutta l’opposizione - Pd, M5S, Terzo polo - contro l’eventuale presenza del sottosegretario Delmastro in rappresentanza del governo per seguire l’omicidio nautico. All’insegna di un’unica affermazione: “Se viene lui a rappresentare Carlo Nordio noi ce ne andiamo”. Una notifica ufficiale, che non ammette assolutamente deroghe, scappatoie, o vie altre d’uscita. Un comportamento che potrebbe anche bloccare i lavori della commissione Giustizia presieduta dalla leghista Giulia Buongiorno. E che di certo sta creando imbarazzo tra gli altri due sottosegretari, il vice ministro di Forza Italia Francesco Paolo Sisto e il leghista Andrea Ostellari, peraltro costretti a coprire le assenze forzate di Delmastro, dividendo tra le due commissioni. Il caso Delmastro-Donzelli ha inasprito al massimo i rapporti con l’opposizione. Che ha concordato una linea dura, collettiva, con evidenze pubbliche. Un’opposizione, molto critica con il ministro Nordio per non aver assunto un atteggiamento fermo nei confronti di Delmastro, almeno sollevandolo dalle deleghe, a cominciare da quella delle carceri che invece l’avvocato meloniano di Biella tuttora continua a detenere. Con la singolare conseguenza di un sottosegretario indagato dalla procura di Roma per rivelazioni dei segreti d’ufficio che, per le incombenze di quello stesso ufficio, continua a essere in contatto proprio con il Dap. E con l’attuale direttore Giovanni Russo che ha svelato al procuratore aggiunto Paolo Ielo e ai due pm che seguono il caso, Rosalia Affinito e Gennaro Varone, come fosse stato proprio Delmastro a chiedere i rapporti del Gom e del Nic su Alfredo Cospito e i suoi tre compagni di cella, salvo passarli subito al suo compagno di stanza Giovanni Donzelli per attaccare il Pd in aula, “reo” di aver visitato l’anarchico Alfredo Cospito. La riforma della giustizia: l’ennesimo esempio di sterile giuspositivismo? di Alberto Cianfarini* Il Dubbio, 21 febbraio 2023 Forse non basta cambiare qualche norma. Una delle affermazioni più incontestate che riguardano il nostro processo (civile, penale e per certi versi anche i tre processi delle giurisdizioni speciali) attiene alla durata esagerata di esso; infatti nelle statistiche europee l’Italia appare sempre quale fanalino di coda nella lista dei Paesi, nel significativo dato nei giorni complessivi che intercorrono dalla iscrizione a ruolo al provvedimento alla sentenza definitiva passata in giudicato. Tutte le forze politiche indicano, da sempre, la strada della “Riforma della Giustizia”: con tale termine, invero troppo ampio, ognuno intende cosa in cuor suo desidera. Chi spera nell’accorciamento dei tempi della Giustizia, chi auspica e confida in una magistratura meno attenta ad adempiere al mandato attribuitole nell’ottica teleologicamente orientata all’art. 3 della Costituzione. L’Italia - come molti altri Paesi del mondo - è sempre stata alle prese con la Riforma della Giustizia, sin dalla costituzione in Regno d’Italia, quando appunto si creò il tema dell’unificazione del Paese e dei vari sistemi giuridici che la componevano. Gli interventi normativi volti a “Riformare” la giustizia, nel corso dell’ultimo secolo, sono stati innumerevoli. Da ultimo la recente Riforma posta dal Decreto Legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 si pone l’ambizioso obiettivo di accelerare il processo. Occorre chiedersi: quali sono le caratteristiche di questo ultimo intervento normativo? Riuscirà la Riforma nell’intento propostosi? Circa la prima domanda non può non osservarsi che la Riforma è improntata ad alcune direttrici forti e storicamente sempre applicate alle precedenti - numerose, quanto inefficaci - Riforme della giustizia: uno spiccato giuspositivismo formale. L’idea di fondo del legislatore è che: cambiando gli Istituti (rectius il nome di essi); spostando qualche comma e qualche numerazione di articolo, possibilmente in latino; qualche lieve ritocco delle competenze (da tribunale collegiale a monocratico e valore per il giudice di pace); qualche simpatica concessione sui tempi di deposito (art. 281 sexies c. p. c.) ecc. ecc., possa migliorarsi il destino della nostra fragile Giustizia. Gli esempi potrebbero continuare (annoiando forse il lettore) ma il tema si sostanzia in un interrogativo semplice: basta cambiare qualche norma per incrementare la produttività? Tutto l’impianto della novella è caratterizzato dal presupposto che dal semplice cambiamento di una norma possa causalmente derivarne un efficientamento del sistema dal quale, comunque, “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (art. 51). Ci si domanda: l’arretrato patologico e i lunghi tempi di attesa nel processo erano solo frutto della mancanza di queste poche indicazioni normative? Con un giudizio controfattuale potremmo dire che il legislatore ritiene che ora, con queste norme, nessun problema avrà l’Italia a porsi al pari delle altre grandi democrazie europee in ordine ai tempi del processo. Chi scrive, facendo tesoro dello studio dei precedenti provvedimenti legislativi e, soprattutto, della loro complessiva incisività nel sistema, prevede che la Riforma - tra qualche anno - sarà dimenticata e sarà additata come l’ennesimo infruttuoso tentativo di accelerare il processo. Non è forse il momento di considerare un altro possibile modo di scrivere leggi di Riforma della Giustizia? Una Riforma che miri all’accelerazione del momento decisionale dovrebbe partire dalla centralità dell’uomo decisore. Dovrebbe dapprima chiedersi, un saggio legislatore, cosa serva realmente al giudice per accelerare i suoi processi produttivi. Occorrerebbe considerare che i giudici non sono macchine e che non tutti amano passare il sabato e la domenica chinati sulla scrivania a studiare gli atti, per poi iniziare gli altri giorni della settimana in udienza fino alla sera tardi. Quali incentivi, almeno morali, occorrerebbe escogitare? Ogni ufficio giudiziario ha una sorta di numero, quale sorta di budget di sentenze da raggiungere per singolo magistrato; vi sono giudici che arrancano altri che raggiungono quegli standard nella metà del tempo. Non vi è rischio che i più meritevoli siano disincentivati? Qual è il premio che l’Ordinamento riconosce ai più produttivi? Una edilizia giudiziaria a volte indecorosa incide sui tempi di produzione del giudice? La donna magistrato in maternità fruisce di adeguati benefit, pari alle altre categorie del settore pubblico? Il dirigente dell’Ufficio dà sempre l’esempio ai propri giudici lavorando e producendo di più di essi, aiutando ed indirizzando i colleghi che sono in difficoltà? Il dirigente è sempre scelto proprio per tali indispensabili caratteristiche? Mille sono le intuibili criticità che affliggono l’uomo decisore. Il legislatore potrà scrivere ogni Riforma più ardita e complessa, meravigliosamente improntata a fornire al giudice norme perfette ma, in ultima analisi, è sempre l’uomo giudice che deve studiare, decidere e faticosamente motivare e, sommessamente, forse, è il momento di chiedergli cosa c’è che non va. *Magistrato ordinario Gli effetti dell’abuso delle intercettazioni spiegati da una pazza inchiesta calabrese di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 febbraio 2023 Trentatré assolti al termine del processo “Eyphemos”. Tra questi anche l’ex consigliere regionale Domenico Creazzo, accusato di scambio elettorale politico mafioso. Ha trascorso 17 mesi ai domiciliari. Venerdì il tribunale di Palmi ha assolto l’ex consigliere regionale della Calabria, Domenico Creazzo, eletto nel 2020 nelle liste di Fratelli d’Italia, dall’accusa di scambio elettorale politico-mafioso. Creazzo venne arrestato pochi giorni dopo l’elezione, quando era ancora sindaco del piccolo comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, nell’ambito di un’inchiesta anti ‘ndrangheta denominata “Eyphemos”, condotta dalla Direzione nazionale distrettuale antimafia di Reggio Calabria. A causa dell’inchiesta, Creazzo ha trascorso 17 mesi agli arresti domiciliari. Nei suoi confronti la procura aveva chiesto la condanna a 16 anni di reclusione, ma alla fine è stato assolto con la formula piena, “perché il fatto non sussiste”. L’ennesimo incredibile caso di malagiustizia, che però questa volta assume le forme di uno scandalo che dovrebbe interessare le istituzioni nazionali, per una serie infinita di ragioni: perché alla fine del processo sono stati assolti 34 imputati su 55; perché l’inchiesta si è basata in larga parte sull’uso di intercettazioni, che puntualmente hanno restituito rappresentazioni distorte della realtà, portando al coinvolgimento di cittadini innocenti e addirittura a scambi di persona (come quello che ha portato il consigliere comunale Domenico Forgione in carcere per sette mesi); perché questi scambi di persona, di soggetti poi tutti assolti, indussero il ministero dell’Interno a commissariare il comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte per infiltrazione mafiosa; perché a distanza di 18 mesi dagli arresti, i legali di Creazzo scoprirono in maniera quasi casuale una vasta mole di intercettazioni che i pm avevano deciso di secretare, ma che provavano l’innocenza del neo consigliere regionale; perché è possibile in questo paese che contro un imputato venga chiesta una condanna a 16 anni di reclusione, ma che questi venga assolto da ogni accusa. “È stata una vicenda assurda. Il giorno che sono venuti ad arrestarmi non ci credevo”, racconta ora al Foglio Domenico Creazzo. “Tenga conto che io sono un militare della Guardia di Finanza in aspettativa per motivi politici, quindi avevo, e ho ancora oggi nonostante tutto, fiducia nel lavoro delle forze dell’ordine. Per questo i primi mesi ho pensato che se ero stato arrestato qualcosa avevo fatto, magari senza accorgermene. Poi man mano che leggevo le carte mi rendevo conto che invece non c’era assolutamente niente, che era tutto un grande errore”. Il racconto di Creazzo prosegue: “Per 17 mesi sono stato aggredito verbalmente, non mi sono potuto difendere, ho dovuto trovare dentro di me la forza di dire ‘io sono innocente’. Ho resistito grazie alla mia famiglia, all’affetto dei miei amici e della mia comunità, e per motivazioni di fede. Mi ripetevo sempre la frase di Manzoni: ‘Dio non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande’. Nel processo poi è emersa la verità”. Per l’avvocato Pasquale Condello, che con il collega Michele Sarno si è occupato della difesa di Creazzo, gli inquirenti hanno fondato l’inchiesta quasi interamente su intercettazioni, cioè su chiacchiere: “Il mezzo di ricerca della prova - afferma - è diventato la prova. Peraltro le intercettazioni erano tutte etero-accusatorie, cioè non coinvolgevano direttamente Creazzo, ma erano altri a parlare di lui”. “Dopo 18 mesi - prosegue Condello - in maniera quasi casuale siamo venuti in possesso di tutte le intercettazioni: non solo quelle utilizzate, ma anche quelle che erano state ritenute irrilevanti dai pm. E così si è scoperto un mondo”. “Si è scoperto che esisteva una serie infinita di intercettazioni che dimostrava il contrario di quanto sostenuto dai pm, e cioè che Creazzo non aveva mai avuto nessun tipo di rapporto con la criminalità organizzata. Anzi, vi erano intercettazioni dalle quali emergeva che i mafiosi avevano svolto campagna elettorale in favore di altre persone, contro Creazzo”. Un caso di studio perfetto per il Guardasigilli Carlo Nordio e chi vorrebbe tentare di ridurre l’abuso delle intercettazioni. Firenze. Ancora un suicidio a Sollicciano, è il quinto caso da febbraio 2022 di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 febbraio 2023 Ancora un suicidio a Sollicciano, che diventa uno dei penitenziari d’Italia in cui ci si toglie la vita con più frequenza, con una drammatica media di un recluso suicida ogni tre mesi. L’ultimo è stato un 48enne bosniaco che si è impiccato con un lenzuolo domenica pomeriggio all’interno della cella in cui era detenuto da solo a causa dei problemi psichiatrici. Era entrato in carcere in autunno per tentato omicidio ed era in attesa di giudizio. È il quinto suicidio nel carcere fiorentino dall’inizio del 2022. L’uomo era seguito dai medici psichiatri e aveva fatto l’ultimo colloquio la scorsa settimana. Si trovava nella sezione detentiva denominata “centro clinico” e su di lui era in corso una perizia psichiatrica per valutare le sue capacità di intendere e di volere. Prima di finire in carcere, viveva in luoghi di fortuna, era passato anche dalla comunità Emmaus e dalla comunità delle Piagge di don Alessandro Santoro, che conosceva personalmente il cittadino bosniaco ed è ancora sotto choc per l’accaduto: “Ero andato a trovarlo la scorsa settimana, mi sembrava imbottito di farmaci, mi chiedo a cosa possa servire questo carcere, che teoricamente dovrebbe rieducare”. La Procura di Firenze ha diun sposto l’autopsia e gli esami medico legali necessari sul corpo del detenuto che si è tolto la vita. Un fatto drammatico che, ancora una volta, accende i riflettori sulla situazione di Sollicciano. “Il penitenziario va chiuso - tuona il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani - È una struttura contraria a tutti i principi costituzionali, incapace di recuperare le persone, i suicidi che si registrano lì dentro non sono indipendenti dall’inospitalità di luogo su cui è in corso una ristrutturazione che però non sta portando benefici”. Un carcere che va chiuso anche per il segretario provinciale del sindacato degli agenti Sappe Antonio Mautone (“Fare un nuovo penitenziario farebbe risparmiare soldi pubblici”) e per il cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo: “Questi continui suicidi ci devono interrogare su cosa non sta funzionando dentro questa struttura, servono interventi urgenti per evitare che domani possa succedere di nuovo”. Proprio ieri mattina Emiliano Fossi, candidato alla segreteria del Partito Democratico della Toscana, ha visitato Sollicciano insieme al deputato di Articolo 1 Arturo Scotto, al presidente del Quartiere 4 Mirko Dormentoni e ad Enzo Brogi: “Personale costantemente sotto organico, atti di autolesionismo, difficoltà di convivenza tra detenuti italiani e stranieri, struttura vecchia con celle piccole e umide. Le condizioni di Sollicciano non sono degne di un Paese civile”. L’ex sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri ha chiesto “un intervento urgente del Ministro della Giustizia Nordio”. Nel penitenziario fiorentino intanto proseguono gli ingenti lavori di riqualificazione voluti dal ministero eppure non si fermano gli episodi di suicidi e gli atti di autolesionismo, con tanto di esposto alla Procura da parte di circa 300 detenuti per denunciare “le condizioni drammatiche”. L’ultimo suicidio risaliva a metà novembre, vittima è stato un recluso marocchino che si è impiccato all’interno della sua cella. Prima sempre un altro marocchino si era suicidato a metà ottobre, anche lui impiccandosi con un lenzuolo dentro la sua cella singola. Padova. “41bis inutile e vessatorio. Cospito? In un paese civile non si può far morire un detenuto” di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 21 febbraio 2023 Giuristi Democratici, Antigone, l’osservatorio delle Camere penali e Ristretti Orizzonti hanno indetto una conferenza stampa svoltasi fuori dal tribunale di Padova per spiegare i motivi della loro contrarietà al 41bis. L’avvocata Aurora D’Agostino, co-presidente Giuristi Democratici, la collega Annamaria Alborghetti dell’osservatorio carcere camere penali, Ornella Favero di Ristrettì Orizzonti e Giuseppe Mosconi, Antigone Veneto, hanno convocato una conferenza stampa per ribadire quanto hanno già detto alla Camera dei Deputati la settimana scorsa: “il 41 bis è un provvedimento anacronistico, inutile e vessatorio”. Hanno dato appuntamento alla stampa nella sala dell’ordine degli avvocati, ma la Presidente del Tribunale di Padova, la Dott.ssa Caterina Santinello ha negato il permesso a telecamere e fotografi. Come a dire, fatela fuori. È così è stato. All’esterno anche diversi agenti di Polizia a presidiare, perché si sa, il pericolo anarchico è sempre dietro l’angolo e non sia mai che poi una volta si palesi davvero. Ironie a parte, la vicenda che riguarda Alfredo Cospito è maledettamente seria. In ballo c’è, innanzi tutto, la vita di una persona. “In un paese civile non possiamo far morire un detenuto”, ha detto subito l’avvocata D’Agostino. Che ha poi immediatamente sgomberato il campo da un altro cavallo di battaglia utilizzato da chi invece è a favore del provvedimento: “C’è chi ha parlato di ricatto violento, ma cosa c’è di meno violento di uno sciopero della fame”, fa notare D’Agostino. Va ricordato, a onor di verità, che Alfredo Cospito è stato condannato al 41-bis per un attentato che non ha provocato né morti né feriti, considerato però strage politica. Reato previsto dall’articolo 285, che non è stato applicato né per le stragi di Capaci e via D’Amelio, quelle dei mafiosi, che per quella della stazione di Bologna. Li si vede perfino in tv, questi ultimi. “Il caso di Cospito ha reso evidente quanto sia anacronistico visto che era previsto per impedire i rapporti con l’esterno. Lo stesso parere del Procuratore Generale, evidenzia in un passaggio, nella motivazione dell’ordinanza che ha rigettato la regola, come in realtà è fondato il sospetto che sia stato isolato il “pensiero sovversivo” piuttosto che i collegamenti con l’esterno”. Giuseppe Mosconi, Antigone Veneto: “Si preferisce riaffermare con forza l’autorità di fronte alla vita di una persona. Il 41bis ha come unico scopo quello di affliggere le persone, non c’è nessuna intenzione di recuperare. C’è l’abbandono dell’idea di rieducazione perché questa non può esserci se c’è il carcere a vita o non ci può essere se c’è un regime che annulla qualsiasi risorsa di carattere rieducativo. L’isolamento si può conseguire in qualsiasi carcere”. Pisa. “I detenuti come Cospito”. Sit-in anarchico al carcere di Carlo Venturini La Nazione, 21 febbraio 2023 La manifestazione si è svolta in maniera tranquilla con qualche petardo fatto scoppiare in prossimità del Don Bosco ma alla dovuta distanza di sicurezza. “Contro il 41 bis! Contro ogni galera”. È solo uno dei tanti slogan lanciati da un drappello di una ventina di anarchici che ieri hanno manifestato nei pressi della casa circondariale Don Bosco. Gli anarchici avevano fatto sapere della loro manifestazione di solidarietà ad Alfredo Cospito in via Mario Canavari, attraverso una serie di volantini affissi in città. La manifestazione si è svolta in maniera tranquilla con qualche petardo fatto scoppiare in prossimità del carcere ma alla dovuta distanza di sicurezza rispetto alla cinta muraria del carcere. Gli organizzatori sono aderenti al circolo “Garage anarchico” che nacque nel 2010 in Chiassetto Santa Ubaldesca, 44 (zona San Martino). Due furgoni, un megafono ed un banchetto con materiale informativo sulla vicenda Cospito e due casse musicali da cui uscivano canzoni di Manu Chao. “Vogliamo farvi sentire un po’ di musica”: ha gridato al megafono un’attivista e poi ha proseguito rivolta ai detenuti “Voi siete Cospito, Cospito è come voi. No al 41 bis no alle galere”. Il 24 febbraio la Corte di Cassazione si deve pronunciare sul mantenimento dell’anarchico Cospito al regime del carcere duro riservato a mafiosi e persone accusate di eversione e terrorismo. Da quanto si è potuto apprendere durante la manifestazione, al di là di quanto verrà deciso tra pochi giorni dalla suprema corte, la lotta degli anarchici proseguirà nella direzione dell’abolizione definitiva e per tutti, del 41 bis. Nel caso in cui la Cassazione decida di mantenere il 41 bis a Cospito che sta facendo lo sciopero della fame da oltre tre mesi, sicuramente il movimento di protesta anarchico cittadino e nazionale tornerà a manifestare sia sul caso del loro compagno che in senso più amplio per l’abolizione di pene detentive “disumanizzanti”. Ed infatti, la manifestazione a Pisa era rivolta anche ai detenuti del Don Bosco che come più volte sottolineato dal garante di diritti dei detenuti per la Regione Toscana vivono in una condizione di sovraffollamento con almeno 50 persone in più rispetto alla capienza prevista. Cagliari. La Garante regionale dei detenuti: “Carcere minorile peggio di un canile” cagliaripad.it, 21 febbraio 2023 Secondo Irene Testa la struttura di Quartucciu deve essere chiusa e i ragazzi trasferiti in comunità. “Il carcere minorile di Quartucciu va chiuso e i ragazzi trasferiti in comunità”. È quanto afferma Irene Testa, recentemente nominata Garante delle persone private della libertà personale della Sardegna. “L’istituto che oggi ospita otto ragazzi di cui solo due provengono dalla Sardegna, è fatiscente e pericolante. Un ammasso di ferro vecchio e peggio di un canile. L’ultima bolletta della luce ha comportato una spesa di 29mila euro - scrive la Garante dei detenuti -. Non ho al momento il dato dei milioni di euro che ogni anno si spendono per tenere in piedi una struttura di questo tipo, in tanti anni che visito le carceri non ricordo di aver mai visto una struttura del genere”. Secondo Irene Testa è “inaccettabile rieducare i ragazzi in luogo del genere”. “Una situazione talmente grave che costringe non solo i ragazzi ma tutto il personale che lavora all’interno a vivere in uno stato di sofferenza e degrado”. La Garante chiederà “con la massima urgenza alle autorità competenti di attivarsi affinché l’istituto di Quartucciu possa essere chiuso il prima possibile e i ragazzi inviati in comunità, luoghi più adatti e più efficaci per il loro reinserimento nella società”. Milano. Negli Istituti di pena nasce lo sportello per favorire il reinserimento e la tutela dei diritti giornalemetropolitano.com, 21 febbraio 2023 Nei tre istituti di pena di Bollate, Opera e San Vittore nasceranno lo “Sportello Lavoro” e lo “Sportello Diritti” per favorire l’orientamento, il reinserimento e la tutela dei diritti dei detenuti e delle detenute, garantendo il principio della funzione rieducativa della pena. È quanto ha stabilito un protocollo d’intesa firmato oggi tra Città metropolitana di Milano, Comune di Milano, Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria, Afol Metropolitana, CGIL, CISL e UIL. L’Amministrazione penitenziaria si impegna a rendere disponibili gli spazi dove poter svolgere le attività di sportello, mentre le altre istituzioni collaboreranno alla gestione. “Il lavoro - dichiara l’assessora al Lavoro e Sviluppo Economico Alessia Cappello - è un elemento fondante di indipendenza, crescita personale e, soprattutto in questo caso, può essere un’occasione di ripartenza e di rinascita. Tra i miei obiettivi, in qualità di assessora al Lavoro, c’è quello di avvicinare sempre di più in modo consapevole e diretto sia i giovani ancora disoccupati o inoccupati sia chi ha perso il lavoro, verso un impiego che sia adatto alle competenze di lavoratrici e lavoratori e allo stesso tempo alle richieste del datore. Grazie a questo Protocollo e alla collaborazione con Afol Metropolitana possiamo aiutare e indirizzare anche chi si trova in un istituto penitenziario con percorsi di formazione o orientamento e al riconoscimento delle attitudini e capacità utili all’inserimento nel tessuto lavorativo”. “Il Protocollo d’intesa a cui abbiamo lavorato in questi mesi - aggiunge l’assessore al Welfare e Salute Lamberto Bertolé - ha l’obiettivo di garantire che chi trascorre una parte della sua vita in un istituto penitenziario possa comunque avere accesso ai diritti fondamentali che gli vengono riconosciuti in quanto persona. Gli sportelli Lavoro e Diritti avranno il compito di costruire consapevolezza nelle donne e negli uomini detenuti, per aiutarli a essere cittadine e cittadini onesti sia durante che dopo il loro percorso detentivo”. In particolare, Afol Metropolitana gestirà lo Sportello Lavoro che consentirà alle persone sottoposte al regime restrittivo della propria libertà personale di accedere a percorsi di orientamento al lavoro, di formazione e d’inserimento lavorativo in attuazione del programma GOL (Garanzia Occupabilità Lavoratori). Le attività dello sportello saranno integrate con quelle del Celav (Centro di Mediazione al lavoro del Comune di Milano) e riguarderanno la valutazione delle competenze della persona, la stesura del curriculum vitae, la proposta di colloqui di orientamento, volti a fare un bilancio delle competenze e l’attivazione di interventi di inserimento lavorativo o formazione. Il Comune di Milano, le organizzazioni sindacali e gli altri soggetti sociali che operano all’interno degli istituti di pena milanesi si occuperanno, invece, degli Sportelli Diritti dove verranno fornite informazioni, orientamento e sostegno in merito ai servizi dell’anagrafe, ai servizi sociali, ai rapporti di lavoro in essere con l’amministrazione penitenziaria o con soggetti esterni, alla prestazioni sociali, al diritto di soggiorno delle persone straniere, con una particolare attenzione alla fruizione dei servizi pubblici del Comune di Milano. Il protocollo prevede, inoltre, la costituzione di un tavolo di coordinamento, partecipato dagli enti sottoscrittori, dalle direzioni dei tre istituti milanesi e dal garante delle persone private della libertà personale del Comune di Milano con l’obiettivo di favorire una maggiore condivisione di buone pratiche e un coordinamento tra gli interventi già in atto sul territorio, al fine di aumentare le opportunità e i diritti delle persone ristrette. Bergamo. Confcooperative: “Formazione, tirocini e supporto per un nuovo futuro ai detenuti” bergamonews.it, 21 febbraio 2023 Le cooperative sociali bergamasche, in supporto alla Casa circondariale di via Gleno, e in collaborazione con la rete del territorio, da anni mettono a disposizione le proprie competenze, erogando servizi specifici rivolti alla popolazione carceraria. Rieducare la persona, offrendo nuove risorse affinché, una volta rientrata nella comunità, possa avere un nuovo futuro: l’obiettivo della detenzione è valorizzare il processo di ritorno alla vita sociale libera, attraverso un percorso di sostegno. Le cooperative sociali bergamasche, in supporto alla casa circondariale di via Gleno, e in collaborazione con la rete del territorio, da anni mettono a disposizione le proprie competenze, erogando servizi specifici rivolti alla popolazione carceraria. “Le imprese sociali bergamasche, insieme alla direzione del carcere - commenta Fabio Loda, presidente di Federsolidarietà di Confcooperative Bergamo - realizzano progetti che mirano a offrire nuove opportunità alle persone detenute. Dalla formazione professionale all’inserimento lavorativo, fino al supporto psicologico”. Federsolidarietà: un impegno condiviso - Le cooperative fanno rete, anche con gli altri enti impegnati, come Mestieri Lombardia e l’associazione Carcere e Territorio: “Vengono proposti in molti casi contesti di tirocinio formativo e orientativo che possano accogliere all’esterno del carcere lavoratori in regime speciale. Numerose sono le cooperative che partecipano a questa iniziativa: Aretè, Ecosviluppo, Berakah, Koiné, il Segno, L’Ulivo, Calimero, Mosaico solo per citarne alcune”, sottolinea Loda. L’occupazione, secondo le statistiche, insieme all’abitazione sono i fattori che più di tutti abbattono i tassi di recidiva del crimine. Per questa ragione, nell’ambito dell’organizzazione dei tirocini extra curriculari, Confcooperative Bergamo ha istituito un fondo ad hoc per dare continuità dei progetti: “È emersa la necessità condivisa di poter prolungare alcuni tirocini - spiega Loda - Al momento hanno aderito undici cooperative che alimentano il fondo, a cui tutte possono attingere quando ne ravvisano la necessità, proprio nel segno dell’aspetto mutualistico che le contraddistingue”. Gli sforzi non riguardano solo l’inserimento lavorativo, ma anche il benessere delle persone che si trovano a vivere il carcere in particolari condizioni: “All’interno della casa circondariale è stato attivato un centro diurno, sostenuto da un bando regionale, al fine di accogliere detenuti con fragilità psichiatrica o dipendenze. Cinque cooperative, Gasparina Di Sopra, Bessimo, Pugno aperto, Ruah e Totem propongono laboratori e attività sviluppate per coinvolgere persone, portandole fuori dall’isolamento della cella e fornendo supporto specializzato”. Carcere e territorio: una rete sempre più allargata - Carcere e territorio Bergamo è un’associazione di volontariato a promozione sociale, partecipata da volontari Garante dei Detenuti da istituzioni locali (Comune di Bergamo, Provincia di Bergamo) Caritas, Camera Penale CSV Confcooperative: “Se dovessimo riassumere la nostra mission - afferma il presidente Fausto Gritti - basterebbe far riferimento all’art 27 della nostra costituzione che obbliga a rendere compatibili le pene con la dignità umana e orientarle a finalità rieducative”. Mission concretizzata in attività nell’ambito di casa, lavoro, attività all’interno del carcere ed attività di sensibilizzazione sociale e istituzionale per costruire una cultura favorevole a un’esecuzione Penale di comunità che coinvolga tutti gli ambiti della Provincia di Bergamo. “Per perseguire i nostri obiettivi operiamo in modo articolato e complesso con un importante ruolo di regia - prosegue - in rete con la direzione della casa circondariale, l’Ulepe-Uffici locali di esecuzione penale esterna, le varie istituzioni competenti e le organizzazioni di volontariato e della cooperazione sociale, attive in questo ambito”. Costruire percorsi basati sulla casa e sul lavoro per le persone che, al verificarsi di determinate condizioni, ne hanno il diritto, sono fattori imprescindibili per i percorsi di recupero e reinserimento: “Lo dimostrano anche i dati sulle recidive che segnalano un calo drastico quando la persona viene messe nella condizione di avere casa e lavoro, e sono una valida soluzione al sovraffollamento del carcere”. A oggi la popolazione carceraria, prosegue, è composta “principalmente da persone che vivevano in condizioni di povertà educativa ed economica, elementi che contribuiscono a spingere le persone a porsi fuori dalla legalità. Ecco perché è necessario lavorare sia sul tema delle politiche sociali, sia sulla possibilità di accedere alle pene alternative, possibilità concessa solamente se si ha la disponibilità di un posto di lavoro e un’abitazione”. Rispetto all’housing, l’associazione Carcere e Territorio Bergamo ha a disposizione 12 appartamenti, dove trovano casa persone sottoposte a regimi di semilibertà e affidamento: “Grazie alla collaborazione con Opera Pia Caleppio, che fornisce personale preparato per la gestione di appartamenti”. Rispetto invece all’inserimento lavorativo, “la cooperazione sociale di tipo B contribuisce in maniera significativa nell’offrire nuove opportunità”. Anche 25 Comuni e la Provincia, grazie a una convenzione promossa dall’Associazione, hanno promosso percorsi di integrazione lavorativa per diverse persone”. Mestieri Lombardia: verso l’inserimento lavorativo - In ambito occupazionale, si inserisce l’attività di Mestieri Lombardia, ente accreditato in Regione Lombardia. impegnato per le Politiche attive del lavoro: “Riusciamo a rispondere ai bisogni, grazie alla presenza capillare sul territorio, garantita dai nostri quattro sportelli di Albino, Bergamo, Brembate di Sopra e Treviglio”, spiega Raffaello Sormonta, il coordinatore provinciale dei progetti rivolti a persone con limitazioni delle libertà personali. In stretta collaborazione con l’organizzazione carceraria e la rete degli enti impegnati su questo fronte, se un detenuto dimostra di avere i requisiti, prende avvio il percorso di valutazione: “Quando è in prossimità del fine pena oppure quando è nelle condizioni giuridiche per accedere alle pene alternative previste dall’Ordinamento penitenziario prendiamo in carico la persona, in collaborazione con l’équipe educativa e l’agente di rete di Carcere e territorio, prevedendo una fase di analisi del profilo lavorativo, approfondendo competenze e necessità, organizzando il percorso di reinserimento sociale, attraverso tirocini extracurriculari”. Solo lo scorso anno sono state 86 le persone prese in carico, nel 60% inserite nel mondo della cooperazione, nel restante 40% dei casi nei Comuni, in Provincia, nelle aziende profit e consorzi. “Il tirocinio è propedeutico al lavoro - conclude Sormonta - e ha come obiettivo portare le persone ad acquisire maggiore consapevolezza in un momento estremamente delicato, come il ritorno alla vita sociale. Inoltre, dai nostri dati il 90% delle persone con lavoro non reitera il reato”. Il laboratorio che sforna “Dolci sogni liberi” - Imparare un mestiere in carcere è una delle primarie modalità per trovare lavoro una volta tornati in comunità: “La cooperativa sociale Calimero - commenta la presidente Rosa Lucia Tramontano - grazie a fondi regionali, nel 2012 ha avviato all’interno della casa circondariale di via Gleno, un forno di panetteria e pasticceria”. La formazione, prosegue, “è uno strumento fondamentale di rieducazione. Dà la possibilità di frequentare, per esempio, le scuole medie, superiori o professionali e università. Con il nostro forno insegniamo un mestiere, spendibile poi all’esterno”. In media, il laboratorio vede impegnati sei operatori più un coordinatore: “Dal 2012 a oggi - sottolinea - abbiamo coinvolto una cinquantina di persone, non solo all’interno, ma anche all’esterno. Nel 2019, infatti, si è aggiunta anche l’apertura di un punto vendita a Nembro, con l’obiettivo non solo di inserire persone detenute, ma anche di divenire un punto di formazione e socializzazione per persone con disabilità, frequentanti in particolare Centri di Formazione Professionale o l’Istituto Alberghiero di Nembro che hanno difficoltà e necessitano di spazi osservativi per mettersi alla prova”. I prodotti vengono poi messi in vendita o distribuiti: “Il pane viene destinato alle mense delle scuole elementari e alle comunità di accoglienza per stranieri - conclude - oppure ad alcuni ristoranti. Particolarmente apprezzati sono il pane con lievito madre, i biscotti, la colomba e il panettone, tutti distribuiti sotto il marchio Dolci sogni liberi, che è il nome del progetto”. Milano. San Vittore, ripensare il carcere: il senso del dialogo di Stefania Spadoni ilbullone.org, 21 febbraio 2023 Confronto nel terzo raggio del carcere milanese tra i cronisti del Bullone e i detenuti-giornalisti che scrivono su l’Oblò. La prima cosa che faccio quando entro in un carcere per incontrare i detenuti è guardarmi intorno. Osservo tutto. Sono una fotografa e sono abituata a vedere le cose. Dovrebbe essermi tutto estraneo, io non sono detenuta, la mattina mi sveglio e apro la porta per uscire di casa. Decido. Eppure, qualcosa mi parla di vicinanza. Lascio questa sensazione per un attimo sedimentare e cammino. Un agente di polizia penitenziaria mi conduce cancello dopo cancello al centro dei bracci del carcere, che è costruito su un modello di architettura carceraria, chiamato Panopticon. Il panopticon è ideato per facilitare al massimo il controllo, permettendo a un unico sorvegliante di osservare tutti i soggetti di una istituzione carceraria, senza permettere a questi di capire se in quel momento siano controllati oppure no. In questo carcere quell’architettura così formalmente composta, mi parla e mi racconta di come tutto possa essere abbracciato dall’occhio. Mi basta fare un giro su me stessa di 360 gradi per sentirmi come Argo Panoptes, il gigante dai cento occhi, raccontato nella mitologia greca come il miglior guardiano. Inizio a pensare e a farmi domande. Basta davvero la consapevolezza che qualcuno potrebbe vederti per limitarti? Essere sorvegliati è già essere puniti? Che relazione c’è tra il soggetto che guarda il mondo e l’oggetto che viene guardato? Provo a rispondere a quest’ultima domanda, a darle un senso e credo di poterlo trovare nell’incontro. Il senso dell’incontro - Oggi incontro i detenuti del III raggio, 4° piano, reparto “La Nave Asst Santi Paolo e Carlo” dentro la Casa Circondariale San Vittore di Milano, dedicato alla cura dei detenuti-pazienti dipendenti da sostanze (droghe e alcool). La prima cosa che vedo entrando in reparto è un cartello. C’è disegnato un ponte e due figure umane stilizzate, con due scritte: “detenuto e volontariato”. Nella parte alta del foglio, una scritta ben calcata e piena ART 17. L’art.17 dell’ordinamento penitenziario consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Oggi la redazione del Bullone incontra la redazione dell’Oblò, il mensile che raccoglie articoli e riflessioni dei detenuti ospitati al reparto “La Nave”. La parola “ospitati” la sento dire più volte qua dentro e mi suona strana, la leggo anche nelle due semplici righe che mi appaiono digitando su Google Oblò San Vittore. Ma è proprio in questa puntuale sfumatura lessicale che ritrovo il senso della riabilitazione. I detenuti che incontro oggi, che ascolto parlare nelle tre ore di permanenza con loro, che osservo anche attraverso la mia macchina fotografica, decidono di provare a riabilitarsi, decidono di far parte della Nave. Lo fanno firmando un accordo, impegnandosi a rispettare, oltre le regole del sistema penitenziario, anche le regole del reparto. E qui, la prima regola è il confronto. Confronto e partecipazione sono un percorso verso la riabilitazione. Nelle lunghe tre ore insieme, me ne rendo conto, perché ascoltandoli leggere lettera dopo lettera, i loro articoli, non posso non vedere quanto la scrittura e la condivisione possa essere un’arma terapeutica fondamentale. Prime volte - Oggi si parla di “prime volte”. Uno dei detenuti, Andrea, legge un racconto che ha scritto per il prossimo numero dell’Oblò. Racconta la sua prima volta con lei. “Sembrava quasi che ci conoscessimo”, “da allora non ti ho mai lasciato”, “tu che hai dato un senso alla mia vita”, “tutto era stupendo”, “pronto a tutto per averti”, “tu nei miei pensieri”, “tu che ci sei sempre stata”, “semplicemente noi”… Ci metto un attimo a capire che quelle parole calde e sinuose, che sembrano dedicate a una donna, non sempre parlano di una donna. Lei, questa parola è una costante, e letta ad alta voce fa ancora più effetto. Molti detenuti parlano così di lei, la droga, la dipendenza, la malattia. La lettura è una continua dichiarazione d’amore e odio, una relazione sentimentale, la droga come una donna, la droga come un’amante, poi la vita con le persone reali si mischia fra le parole del racconto, c’è una donna, lei, ci sono i figli e la famiglia, lei, c’è il dolore, lei, torna, resiste, cade, lei, è un vortice, si perde. Mi perdo anche io fra le parole di questi racconti. Non riesco più a vedere, ma sento tantissimo. Alcune voci continuano a leggere, l’emozione è altissima. Mi si forma un nodo in gola e penso che sia tutto un gran casino e che non me la sento di condannare nessuno. A volte la vita ti piega e lì c’è lei. Qualcuno si chiude in una camera di un motel con lei, per un’ultima folle disperata notte d’amore. Forse da qui arriva il termine “relazione tossica” che tanto va di moda oggi. È un continuo personificare la droga, l’unica amica, confidente, l’unico posto sicuro dove tornare, l’unico luogo senza dolore. Storie di speranza - Torno a guardare, scatto una foto, ma sono troppo lontana e la macchina non vede quello che sento. Le voci si scambiano, ora qualche ragazzo del Bullone racconta la sua storia. Gli occhi di un detenuto si riempiono di lacrime, ascoltando le nostre prime volte. La prima volta che Saji ha detto grazie al suo donatore che morendo le ha dato una speranza. La prima volta di Antonio, una partita a calcio come portiere dopo l’operazione per un grave tumore al cervello, la tensione si lascia andare in risa ascoltando la forza di questo piccolo uomo che a fatica cammina, ma non vuole rinunciare a giocare a pallone. Un senso di vicinanza - Poi le risa diventano applausi ascoltando la prima volta di Viviana che oggi è mamma dopo essere stata figlia con un’infanzia segnata dalla malattia. Tutto si mescola nell’incontro ed eccolo, quel senso di vicinanza che avevo lasciato sedimentare mentre camminavo dall’ingresso al centro dei sei raggi. Questo riesco ad afferrarlo, questo ha senso. Provo a ridefinire il carcere, anche se solo per una piccola fetta di persone. La riunione finisce e i detenuti ci invitano nelle loro celle. Vorrei fotografare tutto per non dimenticare, perché lo so che una volta là fuori le sensazioni svaniranno piano piano e l’indifferenza farà il suo sporco lavoro, ma è vietato. Sono l’unica persona qui dentro che può portarsi a casa piccoli pezzi di carcere chiusi nei frame delle mie fotografie. Mentre mi avvicino a una cella in fondo al corridoio vedo alcune pagnotte appese a una delle porte blindate. Qui dentro tutto si mescola ancora, il pane con l’acciaio, i calzini con le pentole, il rimorso col coraggio. “Mettersi nei panni dell’altro” l’ha letto ad alta voce Roger, un altro degli ospiti della Nave, il suo racconto parla di indifferenza, un’indifferenza raccontata con immagini potenti di una donna incontrata per strada, sporca, guance bagnate dalla solitudine, una voce esile, sottile, quasi soffocata che chiede aiuto, altre donne vestite a festa che le passano accanto, quasi calpestandola, il fango, la magrezza. La forza di non rimanere indifferente non lo fa drogare, almeno per una notte. Un’aquila vola con le ali spiegate - Quando ci accompagnano all’uscita del reparto, non riesco a non sorridere fissando il mazzo di chiavi enormi, appese alla cintura dell’agente di polizia penitenziaria. Vorrei fotografarle, ma non posso. Sono davvero fuori misura, grandi e dorate, sembrano un qualsiasi props di un film fantasy, ma invece sono reali e mettono fine all’incontro. I detenuti-pazienti dentro e la società libera fuori. Scendo le scale e un’ultima immagine mi cattura. Un murales: il muro squarciato, un’aquila vola con le ali spiegate, libera. Verona. “L’arresto, la cella ma ero innocente: dieci anni da incubo” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 21 febbraio 2023 Dopo l’assoluzione per non aver commesso il fatto parla la vittima del clamoroso scambio di persona: “Un inferno”. “Mi sento come chi è appena uscito dall’inferno”. Arrestato, detenuto, condannato a 12 anni di reclusione per un clamoroso scambio di persona, per un errore giudiziario che solo ora è stato riconosciuto in un’aula di tribunale, per una rapina in villa con sparatoria a Gazzolo d’Arcole, nel Veronese, che lui non poteva aver commesso perché durante il colpo si trovava all’estero. La notte del 3 gennaio 2013 “ero in Serbia a festeggiare il Capodanno con amici” ha sempre protestato la sua innocenza Nikola Kastratovic, presunto colpevole di 31 anni di cui gli ultimi 10 “vissuti in un incubo che non augurerei a nessuno, essere trattato da criminale senza aver commesso reati ma soprattutto senza essere creduto dai giudici. Tremendo, un’atroce sensazione di impotenza”. Signor Kastratovic, cos’ha provato quando la Corte d’Appello di Venezia, ribaltando il primo grado, l’ha assolta per non aver commesso il fatto? “Ho pianto, la giustizia aveva finalmente vinto”. Come sono stati questi anni da presunto delinquente? “Vivevo in costante stress e paura di ciò che il nuovo giorno avrebbe portato, dopo tutto quello che io e la mia famiglia avevamo già passato onestamente era molto difficile andare avanti. Non è facile convivere con quel pensiero, è terribile non sapere cosa avrebbe portato il domani...”. Temeva il ritorno in cella? “Ne ero terrorizzato, perché pur essendo innocente ero già stato arrestato e detenuto per 12 mesi (fino a scadenza dei termini, ndr), per cui sapevo che se avessero confermato la condanna sarei tornato dentro e chissà quando mi avrebbero rilasciato”. Ha mai perso la fiducia nella giustizia? “In quei momenti così difficili ho confidato solo in Dio e nelle capacità del mio avvocato Fabiana Treglia che mi incoraggiava ad avere fiducia, perché la verità sarebbe venuta a galla. Ci sono voluti 10 anni, ma ora che la mia innocenza è stata finalmente riconosciuta, posso credere di nuovo nella giustizia”. Pensa di tornare in Italia, stavolta da uomo libero? “Da amante della storia apprezzo e rispetto molto il Paese e il popolo italiano, credo che tornerò come turista, senza pensare a tutte le brutte cose che mi sono successe”. È riuscito a entrare nel mondo del lavoro, a creare una famiglia? “All’inizio è stato molto difficile perché il posto dove vivo in Serbia è una piccola area, ho avuto problemi per questa vicenda. Ora lavoro da molto tempo, ho creato una famiglia, che è la gioia più grande della mia vita, e ho avuto una bellissima figlia. Per quanto riguarda il futuro, vorrei avere altri figli ed educarli a diventare persone buone, laboriose e oneste , come hanno fatto i miei genitori con me”. Come ha vissuto i dodici mesi di detenzione, prima in Croazia e poi a Verona? “Molto, molto duri. Ero stato arrestato al confine croato dove ho trascorso due mesi e mezzo in prigione e per me che sono serbo è stato difficilissimo, stare lì non era per niente piacevole, scusate se non voglio parlarne, ma è stato un grande stress, mentale e fisico. In Italia le condizioni in cella erano migliori, ma anche lì per me è stato molto difficile perché quando è venuta a trovarmi mia madre non pesava nemmeno 30 chilogrammi dal dispiacere per me. Le dissi “mamma, non venire mai più a trovarmi”, perché mi era molto difficile vederla in quello stato. Mio padre è venuto in Italia per starmi più vicino, e non potrò mai dimenticare che per mettere da parte ogni denaro per me, ha preso il cibo dalla Croce Rossa. Quel periodo è stato atroce, ma dovevo essere forte soprattutto per mia madre, che ha anche avuto un infarto”. Chiederà un risarcimento? “Certo che lo chiederò, anche se la mia salute e quella della mia famiglia non possono essere compensate da nessuna somma di denaro. Mia madre ha avuto un infarto, mio padre anche, e io dopo la condanna a 12 anni ho avuto due attacchi epilettici per lo stress. Voglio dare un futuro migliore ai miei figli”. Chi le è stato più vicino? “Grazie a Dio avevo al mio fianco la mia famiglia e il mio avvocato, poi una coppia di amici e mia moglie che ha partecipato al processo quando sono stato condannato a 12 anni, e nonostante ciò, è rimasta al mio fianco, mi ha incoraggiato e regalato mia figlia Tara, meravigliosa creatura. A chi vive il mio stesso incubo, dico di non arrendersi mai ed essere forte, la verità prima o poi emerge”. Per Nikola sono serviti “dieci anni infernali” per tornare finalmente a “vivere senza il terrore di dover rientrare in prigione da innocente”. Verona. Dall’abisso nazifascista all’art. 27 della Costituzione di Arrigo Cavallina L’Arena, 21 febbraio 2023 Sull’Arena del 4 febbraio una lettera solleva il fondatissimo dubbio se l’insistenza sui luoghi, gli strumenti, i dettagli delle violenze e dei genocidi nazisti possa produrre, nei riguardi dei giovani, un effetto di spettacolarizzazione, come un Halloween che lascia segni superficiali di sgomento ma non approfondimenti di conoscenza e pensiero. Il lettore si fonda anche sulla sua esperienza di accompagnamento di giovani. Mi sono quindi interrogato sulla mia esperienza in un’iniziativa che l’associazione La Fraternità sta conducendo da qualche anno. Accompagniamo classi di studenti, prevalentemente di quinta superiore per sintonizzarci col programma di storia, attraverso la città e in collina per vedere i luoghi che sono stati di prigionia, di tortura, di deportazione e di morte nel biennio ‘43-’45 dell’occupazione nazifascista. Per ogni luogo, qualche ricordo significativo. Così, seguendo un itinerario a piedi e tralasciando forzatamente altre deviazioni fuori mano, vediamo l’ex caserma Montanari, dove nel racconto di Bocchetta sono stati imprigionati centinaia di soldati italiani subito dopo l’armistizio e fatti evadere, attraverso la chiesa della SS. Trinità, con la solidarietà degli abitanti vicini. Sostiamo nell’atrio dell’ex palazzo Ina in Corso Porta Nuova, centro di comando delle SS, con le prigioni sotterranee di cui scrive anche Ferruccio Parri e le torture dei piani superiori. Proseguiamo verso quel che resta del carcere degli Scalzi, con l’obelisco ai partigiani dell’assalto per la liberazione di Roveda, e dall’altra parte della strada il bellissimo monumento, opera sempre di Bocchetta, quasi nascosto dagli olivi, al cappellano mons. Chiot, che tanto si è adoperato per i detenuti. Passando poi davanti a Castelvecchio, sede del processo e condanna a morte di Ciano e altri membri del Gran Consiglio del fascismo, sostiamo di fronte alla Sinagoga, nel cuore dell’antico ghetto, per raccontare le conseguenze delle leggi razziali e alcune vicende di esito diverso, ma più spesso di deportazione e morte di ebrei veronesi. Attraversando piazza Isolo ci si ferma davanti al grande Spino, monumento a memoria della Shoah. In piazza Martiri della Libertà guardiamo il palazzo che è stato sede del feroce Ufficio Politico Investigativo fascista e parliamo anche delle torture subite dal colonnello Fincato fino alla morte e del suo corpo buttato in Adige per nasconderla. Saliamo al Santuario della Madonna di Lourdes, che come forte S. Lonardo ha ospitato migliaia di prigionieri, destinati alla deportazione o alla fucilazione. Una porta e una stanza, dove entriamo grazie alla cortesia dei Padri Stimmatini, sono rimaste intatte, e lì nella penombra leggiamo qualche testimonianza e lettere di condannati a morte, non tralasciando di citare la figura del cappellano dei forti don Carlo Signorato, presenza importante di conforto, di aiuto e di capacità organizzativa. Per un breve sentiero scendiamo sulla “lasagna” fino a forte Sofia, ringraziando l’associazione omonima che ci permette di visitarlo nella sua splendida architettura militare austriaca. Tra i molti che anche qui sono stati imprigionati, abbiamo il racconto dello scrittore d’avventure Luigi Motta. Di tanti altri luoghi possiamo solo dire ai ragazzi e chi vuole potrà visitarli autonomamente. Ancora il carcere a forte S. Mattia, il tiro a segno presso forte Procolo, dove è avvenuta la maggior parte delle fucilazioni; palazzo Corridoni vicino a Porta Vescovo, altra sede fascista di torture; altri edifici dove sono stati trattenuti prigionieri o deportati di passaggio, come in piazza Cittadella, le scuole Sanmicheli, il campo di concentramento di Montorio - Ponte Florio; e abbiamo narrazioni delle torture più selvagge alle Casermette di Montorio, oggi caserma Duca. Nella mia esperienza, non mi pare che i ragazzi, da questo accumulo di scoperte e informazioni, si fermino alle impressioni superficiali. Anche le loro domande e osservazioni portano a capire che alla radice di tanta violenza sta la negazione di umanità ad intere categorie di persone, dagli ebrei agli zingari, dai disabili agli omosessuali agli oppositori politici, tutti nemici da sfruttare e sterminare. E solo da questo abisso arrivano a comprendere la portata delle affermazioni della nostra Costituzione, a partire da quella che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, umanità e relativi diritti riconosciuti assolutamente a tutti, perfino a chi ha davvero commesso i più gravi reati. E li vedo commossi quando concludiamo leggendo quel breve, famoso testo di Calamandrei, che non posso qui riportare interamente ma solo una frase: “Dietro ogni articolo di questa Costituzione (..) voi dovete vedere giovani come voi (..) che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta”. Torino. “Art. 27”, cartoon in mostra per un carcere più umano di Cinzia Raineri Djerbouh futura.news, 21 febbraio 2023 Il fumetto per raccontare il carcere, a Palazzo Lascaris, sede del Consiglio regionale del Piemonte. Inaugurata lunedì 20 febbraio la mostra “Art. 27”, realizzata grazie alla collaborazione tra l’associazione EssereUmani e gli studenti dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, ha l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sui problemi della detenzione in Italia e nell’area subalpina in particolare. La scelta dei comics per rappresentare il mondo dei detenuti è voluta: il fumetto parla a tutti. Ma questa forma d’arte ha anche un’altra accezione: “La componente grafica del fumetto vuole dare una voce a chi non ne ha”, spiega Pierpaolo Rovero, professore dell’Accademia di Belle Arti. In questo modo, si cerca di costruire un ponte tra il “mondo esterno” e la realtà dei carcerati, percepita come distante e sconosciuta. Per la scarsa sensibilizzazione al tema, il carcere diventa troppo spesso un’ombra che segue e discrimina gli ex carcerati anche durante il reinserimento nella società. È necessario intraprendere un percorso bidirezionale: da un lato si dovrebbe lavorare sulla riabilitazione dei detenuti, dall’altra occorre educare e informare l’opinione pubblica, in modo che chi ha vissuto - o vive - l’esperienza di detenzione cominci a essere visto come un individuo, e non come il reato che ha commesso. La reclusione non deve avere una funzione solo punitiva, ma anche - e soprattutto - rieducativa. “La pena detentiva non deve andare contro l’umanità dell’individuo, ma deve essere intesa come rieducazione”, dice Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. E questo aspetto diventa ancora più importante se si ha a che fare con detenuti minorenni, sottolinea Ylenia Serra, Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza. Juri Nervo, presidente di EssereUmani, porta l’esperienza delle carceri nelle scuole, per sensibilizzare gli studenti alla giustizia. È proprio qui che, parlando di legalità, facendo prevenzione e parlando di queste tematiche che si può iniziare a conoscere veramente questa realtà, al di là dei luoghi comuni. Una delle problematiche più diffuse nei penitenziari è quella del malessere psicologico dei detenuti. I numeri sono chiari, ed è necessario agire: nel 2022 sono stati 84 i suicidi nelle carceri italiane, 5 in Piemonte, 4 dei quali nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, meglio conosciuto come Le Vallette. Michele Miravalle, rappresentante dell’associazione Antigone, definisce la struttura torinese come una “città, e in quanto tale ci sono quartieri dove si vive meglio e quartieri più problematici”. Qui infatti sono più di 1400 i carcerati, e i tassi di sovraffollamento superano il 130%. Nonostante l’aumento delle problematiche psicologiche, psichiatriche e di tossicodipendenza tra i detenuti, le misure adottate nei penitenziari italiani non sono ancora adeguate. Martedì 21 febbraio, nella Sala Trasparenza della Regione Piemonte si fa il punto sul fenomeno, con la conferenza stampa “Il fenomeno dei suicidi in carcere: un’emergenza tragica e un grido di allarme”. Presenti Chiara Caucino, assessore alla Regione Piemonte, e Roberto Capra, presidente della Camera penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta. Durante il dibattito, moderato da Bruno Mellano, verrà trattata e approfondita la situazione di disagio e l’allarme dei suicidi nelle case circondariali italiane da diverse prospettive. Carcere e Costituzione non possono incontrarsi di Andrea Pugiotto Il Riformista, 21 febbraio 2023 Che cos’è la pena? La risposta, denudata da ogni ideologia, nel saggio di Stefano Anastasia “Le pene e il carcere”. L’art. 27 della Costituzione parla di “pene” al plurale? Anastasia, invece, ritiene l’area penale esterna al carcere “ancillare, subordinata, secondaria, al moloch penitenziario”. L’art. 27 finalizza le pene alla rieducazione del condannato e al rispetto della sua dignità? Anastasia, invece, ci racconta di una pena che è solo sofferenza. Una “insuperabile” antinomia con la Carta. Secondo Anastasia il dover essere non potrà mai coincidere con l’essere della pena perché la Costituzione è fondata sull’universalità dei diritti, mentre l’istituzione totale penitenziaria, “nella realtà della sua esperienza”, reprime i bisogni umani del recluso. Nel suo ultimo libro “Le pene e il carcere”, il filosofo del diritto e garante dei detenuti racconta che la detenzione è solo sofferenza: corporale, esistenziale, psicologica. Una antinomia insuperabile con il dettato Costituzionale. Tuttavia, dalla Consulta alla Corte Edu, io dico: qualcosa è cambiato. 1. Stefano Anastasia è tante cose insieme: sociologo e filosofo del diritto; co-fondatore di Antigone e già presidente della Società della Ragione, due tra le realtà più vive nell’area del garantismo penale; membro delle direzioni di Democrazia e Diritto, Studi sulla questione criminale, Antigone, riviste che fanno del diritto punitivo un oggetto privilegiato d’indagine; Garante dei diritti dei detenuti delle regioni Umbria e Lazio. Quando scrive di libertà personale, dunque, sa quel che dice: merita, per questo, la lettura. Vale anche per il suo ultimo libro, Le pene e il carcere (Mondadori 2022): antologia di suoi scritti ospitati altrove, ne rappresenta per questo un’autobiografia intellettuale dove rintracciare alcune costanti nella riflessione dell’autore. 2. Che cos’è davvero la pena? La risposta è il primo fil rouge del libro, denudata da ogni ideologia che è sempre falsa coscienza del reale. Il filosofo/sociologo del diritto, infatti, incarna il sosia critico del giurista positivo che, guardando al dato legislativo, si espone al rischio della fallacia normativistica. Il primo, invece, guarda a ciò che è, non a ciò che dovrebbe normativamente essere o si vorrebbe che fosse o si racconta che sia. L’art. 27, comma 3, Cost. parla di “pene” al plurale? Anastasia, invece, ritiene l’area penale esterna al carcere “ancillare, subordinata, secondaria, 4. al moloch penitenziario” che resta la “pietra angolare dell’intero edificio penalistico”. L’art. 27, comma 3, Cost. finalizza le pene alla rieducazione del condannato e al rispetto della sua dignità? Anastasia, invece, ci racconta di una pena che - in asse con il suo etimo - è solo sofferenza: corporale (perché “dà dolore fisico e psichico e produce malattia”), esistenziale (perché “finalizzata alla dissipazione del tempo vitale del condannato”), psicologica (perché travolge la sfera relazionale e affettiva del reo, fino “all’annichilimento dell’autostima e della considerazione di sé”). In questa “insuperabile” antinomia con il dettato costituzionale, Anastasia coglie la conferma al proprio disincanto: i Costituenti volevano una pena rieducativa e mai contraria al senso di umanità proprio “perché sapevano che così non era”. A suo avviso, il dover essere non potrà mai coincidere con l’essere della pena perché la Costituzione è fondata sull’universalità dei diritti, mentre l’istituzione totale penitenziaria, “nella realtà della sua esperienza”, reprime i bisogni umani del recluso. 3. Altra costante nel libro è la dimensione temporale della detenzione che Anastasia chiama “pena del tempo perso”. Infatti, diversamente da quello astronomico, il tempo biografico “si misura nell’accumulazione delle esperienze”. Privato della libertà personale, inchiodato a un eterno e immutabile presente, il detenuto assiste all’irrimediabile sciupìo del proprio tempo esistenziale. È una perdita di sé irrecuperabile per l’ergastolano, specie se ostativo. Non sorprende allora che l’autore recuperi argomenti che, nel 1998, il filosofo Aldo Masullo, all’epoca senatore, spese a favore di un disegno di legge abrogativo dell’ergastolo: “la domanda che ci dobbiamo porre non è se esso vìoli o non vìoli il sacrosanto diritto alla vita, ma se vìoli il diritto dell’uomo all’esistenza, che è cosa distinta”. Anche qui Anastasia polemizza con “l’ottimismo della pena medicinale” che “aspira alla memorabile ricchezza del tempo pieno del nuovo inizio”. Ma se la pena in action è una perdita di tempo, come può mai servire a un reinserimento sociale? Prima ancora, come se ne può serbare memoria, riducendosi ad assenza di esperienze? Trasversale alle pagine del libro è anche la dimensione spaziale della pena. Salvo tre temporanei intervalli (2006-2008 per gli effetti dell’indulto; 2013-2015 per i rimedi imposti dalla sentenza Torreggiani c. Italia della Corte EDU; 2020-2022 grazie alle misure deflattive imposte dall’emergenza pandemica), è dagli anni ‘90 che per designare lo spazio carcerario siamo costretti ad usare il superlativo di un superlativo: sovraffollamento. Il libro ne squaderna le cifre. Scatta la fotografia di questa massa “pressata”: stranieri, tossicodipendenti, senza fissa dimora, malati di mente. Come mai “l’incremento della gran parte della popolazione detenuta è determinata dalla marginalità sociale”? Anastasia scarta le spiegazioni “naturalistiche” (+criminalità = +detenzione) perché smentite dalle statistiche sui reati in calo. Scarta le spiegazioni “normativistiche” (+ricorso al diritto penale = +detenzione) perché insufficienti a determinare il fenomeno. Propende, semmai, per una spiegazione multifattoriale che guarda alla crisi del sistema di welfare, alla domanda diffusa di controllo sociale e, infine, all’uso populistico del diritto e della giustizia penale. Anche qui, smaschera il volto della pena svelandolo inumano e degradante: il sovraffollamento carcerario, infatti, non è assenza di spazio, semmai eccesso di presenze in spazi già saturi. È, dunque, una premoderna pena corporale. Per la Consulta, finalismo rieducativo e divieto di trattamenti inumani formano un “contesto unitario non dissociabile” in quanto “in funzione l’uno dell’altro” (sent. n. 279/2013). Anastasia, invece, contesta l’assunto nella sua “consecutio logica” perché “la pena può essere legalmente eseguita senza conseguire una efficace “rieducazione” del condannato, ma non lo può mai essere in presenza di trattamenti contrari al senso di umanità”. L’umanità della pena, dunque, non è ancillare alla rieducazione rappresentando - a un tempo - l’”elemento di compensazione alla sua insufficienza” e l’”architrave della residua legittimità del sistema penitenziario”. 5. Al c.d. populismo penale il libro dedica un riuscito capitolo. Come Eva da Adamo, nasce da una costola del populismo: fenomeno più generale di cui Anastasia descrive l’ideologia, lo stile discorsivo, la strategia politica. È l’habitat nel quale il diritto penale smette la sua funzione garantista di limite al potere punitivo per essere finalizzato “a guadagnare voti piuttosto che a ridurre i tassi di criminalità o promuovere giustizia”. Con indubbie capacità analitiche, Anastasia squaderna gli strumenti di cui si serve il populismo penale. Sono, innanzitutto, strumenti culturali: la “glamourizzazione del fenomeno criminale” (le serie televisive, la voyeristica attenzione per la cronaca nera); la “destatisticalizzazione” del fenomeno criminale (perché a contare è l’insicurezza percepita, anche se smentita dai dati reali); “il ricorso alla bandiera delle vittime” (asso retorico pigliatutto). Sono, poi, strumenti giuridici: un’ossimorica emergenza quotidiana (guerra al crimine, alla droga, al terrore); la creazione di un “doppio binario” (processuale, probatorio, penitenziario) che si spinge fino a legittimare un diritto penale del nemico (cui negare le garanzie costituzionali); la moltiplicazione dei reati; la riscoperta delle pene massime e di quelle capitali; la rigidità dell’esecuzione penale (all’insegna di un frainteso principio di certezza della pena). Così radiografato, il populismo penale “può essere sia “di destra” che “di sinistra”, sia “progressista” che “conservatore”. Dipende dal target preso di mira: le elites per la sinistra; gli extranei per la destra. Dipende dalla funzione che assolve: stabilizzare il consenso, se si è al governo; prefigurare nuovi equilibri politici, se si è all’opposizione. Con il consueto disincanto, Anastasia ci avverte che vivremo ancora a lungo con questo mostro “proto-liberale” di stampo hobbesiano. E ce ne spiega il motivo: allocate altrove le scelte fondamentali di politica economica e sociale, il populismo penale residua quale “principale strumento di sociale a disposizione delle istituzioni nazionali”. 6. Chiuso il libro, benché avvisati fin dalle pagine iniziali (“non c’è un lieto fine a quel che scrivo”), si può essere presi dallo sconforto. È qui che - per la prima e unica volta - smetto i panni del lettore per rivestire quelli propri del costituzionalista. Da giurista positivo, vorrei ricordare che - nonostante tutto - qualcosa di diverso e di importante è accaduto in questi anni. L’abolizione costituzionale della pena di morte. L’adesione alla Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il messaggio alle camere del Presidente Napolitano sulla situazione delle carceri e della giustizia penale. L’introduzione, comunque, del reato di tortura. L’istituzione del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti. Il viaggio nelle carceri dei giudici costituzionali. Le sentenze delle Corti dei diritti, in tema di sovraffollamento carcerario, ostatività penitenziaria, proporzionalità sanzionatoria, principio di irretroattività delle norme incidenti sulla natura della pena. La giurisdizionalizzazione dei diritti negati ai detenuti. La possibilità per il giudice di cognizione di irrogare pene diverse dalla reclusione in carcere. Tutto ciò è stato possibile prendendo sul serio quel disegno costituzionale del diritto punitivo con cui Anastasia polemizza. Lo fa perché - per statuto professionale - privilegia il campo di esperienza della pena (la sua regolarità), mentre il costituzionalista ne valorizza l’orizzonte di senso (la sua regola iscritta nell’art. 27, comma 3). Regola e regolarità, però, non vanno mai confuse. Tra le due c’è una differenza di natura e di grado giuridico, e il fatto - per quanto ripetuto - non può mai scalzare il dato costituzionale, almeno in uno Stato di diritto a Costituzione rigida e garantita. Ecco perché, specialmente nelle situazioni più difficili e apparentemente irrimediabili, bisogna esigere dallo Stato il rispetto della sua stessa legalità, almeno se crediamo nel governo delle leggi e non degli uomini (o di una donna). Se c’è una via d’uscita da un presente che non ci piace, passa di qua. Dall’eutanasia alla libertà di espressione, la lista dei ricorsi italiani pendenti alla Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 febbraio 2023 Con oltre 3mila casi l’Italia si posiziona tra i primi cinque paesi che registrano un aumento. Tra le segnalazioni della Corte europea la violazione dell’articolo 8 per il caso di un migrante minorenne. Aumentano i ricorsi pendenti presso la Corte europea dei diritti umani (Cedu). L’Italia è tra i primi cinque Paesi che registrano tale aumento. Infatti sono oltre 74.650 i ricorsi, che per il 74% dei casi riguardano 5 Paesi: Turchia, Federazione Russa (non più parte alla Convenzione), Ucraina, Romania e appunto l’Italia che ne conta ben 3.550. È scritto nero su bianco nella relazione annuale della Cedu del 2022 a firma della presidente della Corte Europea Siofra O’Leary. Questo dato conferma l’importanza dell’attività della Cedu e la necessità di rafforzare la protezione dei diritti umani anche nel nostro Paese. Le sentenze depositate nel 2022 riguardano una vasta gamma di questioni cruciali relative ai diritti umani, tra cui le molestie sessuali sul posto di lavoro, la libertà di espressione, l’eutanasia e l’accesso agli edifici pubblici. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, sono state accertate violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in 25 casi su 27, con il numero più alto di sentenze di condanna che riguardano la violazione dell’articolo 8 sulla protezione della vita privata e familiare, seguita dall’articolo 6 sul diritto all’equo processo. Per quanto riguarda la violazione dell’articolo 8, la relazione della Cedu mette in evidenzia un caso particolare e riguarda proprio l’Italia. Parliamo della sentenza del 21 luglio 2022 “Darboe and Camara v. Italia” che riguarda i diritti di un migrante minorenne che aveva chiesto protezione internazionale. ll richiedente ha dichiarato di essere minorenne e di avere espresso oralmente la sua intenzione di richiedere protezione internazionale poco dopo il suo arrivo in Italia. Gli è stata fornita una tessera sanitaria dalle autorità sanitarie locali, che indicava una data di nascita secondo cui aveva 17 anni. Dopo il suo inserimento iniziale in un centro per bambini stranieri non accompagnati, il richiedente è stato trasferito in un centro di accoglienza per adulti. Un mese dopo è stata effettuata una radiografia del polso e della mano, sulla base della quale il richiedente è stato considerato adulto. A seguito di una richiesta del richiedente e di uno scambio di osservazioni, la Corte ha indicato al governo, ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento della Corte, di trasferire il richiedente in strutture dove le sue condizioni di accoglienza come minorenne non accompagnato potessero essere garantite: è stato trasferito quattro giorni dopo. Il richiedente ha lamentato violazioni degli articoli 3, 8 e 13 della Convenzione. La Cedu ha rilevato, in primo luogo, una violazione dell’articolo 8 a causa della mancata diligenza delle autorità nel rispettare l’obbligo positivo di proteggere il richiedente come minorenne non accompagnato che richiedeva protezione internazionale. In secondo luogo, la Corte ha rilevato una violazione dell’articolo 3 a causa della durata e delle condizioni del soggiorno del richiedente nel centro di accoglienza, tra l’altro affollato, per adulti. In terzo luogo, la Corte ha rilevato una violazione dell’articolo 13 (in connessione con gli articoli 3 e 8), poiché il richiedente non aveva avuto a disposizione un ricorso effettivo ai sensi del diritto italiano per presentare le sue denunce ai sensi degli articoli 3 e 8 della Convenzione. La sentenza è significativa in quanto è la prima volta che la Corte europea ha esaminato, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione (il diritto al rispetto della vita privata e familiare), una denuncia riguardante le procedure di valutazione dell’età per i migranti che richiedono protezione internazionale e affermano di essere minorenni. La Cedu ha anche stabilito che la mancata tempestiva nomina di un tutore o rappresentante legale per il richiedente, ha impedito a quest’ultimo di presentare una richiesta di asilo in modo adeguato ed effettivo. È preoccupante il fatto che l’Italia sia tra i paesi con il maggior numero di ricorsi pendenti, il che indica che la salvaguardia dei diritti umani nel paese risulta ancora problematica. La Corte europea dei diritti dell’uomo gioca un ruolo cruciale nella protezione dei diritti umani in Europa e la sua attività deve essere monitorata da tutti gli Stati membri per garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali. Il nostro Paese, quindi, deve fare di più per garantire il rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e lavorare per ridurre il numero di ricorsi pendenti presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, al fine di garantire una protezione adeguata dei diritti umani. La scuola non può essere un’azienda di Dacia Maraini Corriere della Sera, 21 febbraio 2023 La scuola non produce ma forma e quindi gli investimenti avranno una finalità a lungo termine. E ciò vuol dire che se una scuola riduce il numero dei suoi allievi, non va chiusa, ma mantenuta per la salvezza di quel territorio. Non si può risparmiare sulla scuola. Dispiace dovere sempre tornare sulla scuola ma se non si abbandona l’idea perversa che la scuola debba essere una azienda, non se ne esce. La scuola è un luogo di formazione. L’idea scellerata di trasformare un luogo etico in un luogo di produzione industriale non può che creare equivoci e ingiustizie. Ma l’aria che tira è quella. Non è un caso che il preside che si occupava di libri e di novità didattiche sia stato trasformato in un dirigente che si deve occupare di faccende amministrative. Ma mentre l’azienda deve investire per ottenere dei prodotti che metterà sul mercato recuperando i soldi spesi, la scuola non deve produrre nulla, ma creare il futuro cittadino, niente di più lontano da una industria che, quando non produce oggetti cari al mercato, è costretta a chiudere. La scuola non produce ma forma e quindi gli investimenti avranno una finalità a lungo termine. E ciò vuol dire che se una scuola riduce il numero dei suoi allievi, non va chiusa, ma mantenuta per la salvezza di quel territorio. Non si può risparmiare sulla scuola. Ci vogliono più insegnanti, e pagati meglio, ci vogliono aule decenti, e soprattutto classi con pochi allievi, al massimo quindici. La scuola deve tornare alla sua funzione etica. E deve anche rendersi conto che i metodi di insegnamento sono cambiati. Mentre nella vecchia scuola si praticava un insegnamento verticale: da chi sa a chi non sa. Ora che l’accesso alle informazioni è a portata di tutti, l’insegnante deve creare un nuovo rapporto basato su una dialettica creativa. Io che vado spesso nelle scuole, mi accorgo che ovunque gli insegnanti si mettono in un rapporto complesso e conoscitivo con gli studenti, ovunque sollecitino creatività, ingegno, intelligenza, i ragazzi rispondono con entusiasmo. È la routine burocratica che ammazza gli ingegni e crea svogliatezza. Fra l’altro, mentre in famiglia si vive lontani da un concetto di democrazia per le troppe dinamiche emotive e psicologiche, la scuola è un magnifico luogo di pratica della democrazia, ovvero di un apprendimento fra pari. Certamente ci sono e ci saranno sempre i bulli e i nullafacenti, i maleducati per carenze familiari, ma posso garantire, perché lo vivo tutti i giorni, che la scuola è molto meglio di quello che si racconta, per merito soprattutto di insegnanti intelligenti, preparati e generosi, che mettono in gioco se stessi e riescono a creare un vero e proficuo rapporto con i loro studenti. Migranti. A Lampedusa: due morti in 24 ore, oltre 2mila rinchiusi nell’hotspot di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 febbraio 2023 Una vittima a poche miglia dalla costa, l’altra alcune ore dopo lo sbarco. 1.200 persone trasferite in Sicilia, Calabria e Puglia. Oggi si continua. Sono oltre 2mila le persone ancora presenti nell’hotspot di Lampedusa, che ha una capienza di 400 posti. Nonostante le prime evacuazioni coordinate dal Viminale, domenica e lunedì gli sbarchi sono continuati: 16 un giorno, cinque l’altro. 241 le persone arrivate ieri, quasi tutte subsahariane insieme ad altre originarie di Tunisia e Yemen. La finestra di bel tempo è prevista fino a sabato. E si contano già due vittime in meno di 24 ore. “Nella notte tra domenica e lunedì, intorno all’1, siamo arrivati al molo Favaloro e abbiamo visto la macchina delle pompe funebri”, racconta Giovanni D’Ambrosio, operatore di Mediterranean Hope. Non è chiaro se il barcone si sia ribaltato prima dell’arrivo dei soccorritori, come avrebbero raccontato alcuni sopravvissuti, o se il corpo senza vita sia stato trovato a bordo. “Le persone continuano ad arrivare. I trasferimenti non riescono ad alleviare la condizione di chi è presente nell’hotspot”, continua D’Ambrosio. Domenica all’interno della struttura di contrada Imbriacola ha perso la vita una trentenne della Costa d’Avorio. Era arrivata in Italia da poche ore. Nel pomeriggio era stata visitata nel poliambulatorio dell’isola perché non si sentiva bene. È rimasta un po’ in osservazione e poi è stata dimessa. Il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella ha aperto un’inchiesta e disposto il trasferimento del cadavere a Porto Empedocle. “Terza tragedia del genere in pochi mesi all’interno del centro”, denuncia il portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) Flavio di Giacomo. Un ragazzo era morto per un malore il 13 gennaio e una bimba di appena sei mesi il 5 dicembre scorso. Allora nell’hotspot c’erano 900 e 700 persone. Molte meno di questa domenica. Il presidio medico dell’isola ha enormi difficoltà a gestire numeri così alti in assenza di rinforzi. “Quello che accade nell’hotspot è la rappresentazione plastica della debolezza intrinseca di affrontare un problema strutturale con strumenti contingenti ed emergenziali. Italia ed Europa devono trovare criteri e metodi condivisi sul tema della continuità di ricerca di accesso al proprio territorio”, afferma il Garante nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma. Ieri Valerio Valenti, capo dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del Viminale, ha visitato la struttura di contrada Imbriacola. Un fatto che, sostiene il sindaco di Lampedusa Filippo Mannino, mostra “l’attenzione dello Stato alle esigenze del territorio”. Intanto le prime 1.300 persone evacuate dalla maggiore delle Pelagie sono arrivate a Pozzallo, Taranto e Reggio Calabria. Nel porto siciliano il pattugliatore Monte Cimone della guardia di finanza ne ha portate 90. Nella città pugliese la San Giusto, della marina, ha sbarcato 583 migranti. Circa 300 andranno nell’hospot locale in attesa di essere smistati successivamente. Nel capoluogo calabrese, invece, è arrivata la Dattilo della guardia costiera. A bordo quasi 600 persone. Solo una quarantina resteranno nelle vicinanze, tutte le altre sono già ripartite verso varie regioni a bordo di pullman che le attendevano al molo di Ponente: 45 in Abruzzo, 75 in Emilia-Romagna, 30 nel Lazio, 100 in Lombardia, 30 nelle Marche, 75 in Piemonte, 50 in Puglia, 80 in Toscana e 75 in Veneto. È singolare, ma forse non troppo, che le navi delle Ong siano spedite a centinaia di chilometri dalla zona dei soccorsi con la motivazione ufficiale, espressa più volte dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, di “decongestionare i porti di Calabria e Sicilia” e in generale le strutture di accoglienza del Sud. Le più robuste unità di fiamme gialle, marina e guardia costiera, invece, sono state indirizzate proprio in quelle regioni. Oggi altre 1.200 persone dovrebbero lasciare Lampedusa a bordo di navi e su un aereo, sul quale saliranno in 189. Anche questo mezzo è diretto verso il Sud Italia. Sempre in Calabria, a Crotone. Migranti. A Milano: in coda ogni lunedì per la richiesta di asilo, tra risse e malori di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 21 febbraio 2023 Sala: “Situazione indegna”. I migranti arrivano la domenica notte, a centinaia, e si ammassano per ottenere uno dei 130 ingressi all’Ufficio immigrazione. Ci sono anche donne, bambini e anziani. La coda si forma quando ancora è domenica. Arrivano a centinaia, si ammassano davanti alle transenne, si dividono per nazionalità o gruppi geografici (nordafricani, sudamericani, africani), poi cercano la fortuna che arriverà quando ormai è notte: strappare uno dei 130 posti riservati che la mattina potranno accedere all’Ufficio immigrazione o altrimenti tentare di nuovo la prossima settimana. Una notte al freddo, in strada, o ammassati nei giardini di via Cagni. A volte una notte turbolenta, sfociata in almeno due occasioni, anche in tafferugli con la polizia. Perché chi resta fuori dalla lista non accetta le regole delle norme imposte dalla legge. Milano, via Cagni, esterno della caserma Annarumma, sede del Reparto mobile, la vecchia celere, oggi diventata una succursale a tempo pieno dell’Ufficio immigrazione. Qui ogni lunedì, anche se in realtà si inizia già la domenica sera, si ammassano 500-700 migranti in cerca di un posto per avviare la procedura di regolarizzazione o, molto più spesso, la richiesta di asilo. Una sorta di roulette, 130 posti, il massimo che il già rafforzato Ufficio può smaltire. Una situazione che da burocratica è diventata ormai una questione umanitaria. Perché in via Cagni ci sono donne, bambini, giovani e anziani, c’è il ritratto di una città invisibile. Come lo sono (spesso) gli stessi migranti. Si tratta di persone che a volte non hanno documenti, non hanno una residenza né un lavoro regolare. Fantasmi per i quali la sola procedura possibile è presentarsi di persona, essere fotosegnalati e identificati, e sperare che la Commissione territoriale per la protezione internazionale riconosca la validità del loro status. Ma per arrivare fino lì, la sola strada è mettersi in coda in via Cagni. “La situazione non è dignitosa e va risolta, ne parlerò al prefetto Renato Saccone”, le parole del sindaco Beppe Sala. La notte del 19 febbraio cinque persone sono state soccorse dal 118. Erano le due e mezza e non s’è ancora capito se siano state “schiacciate” in un momento di confusione quando sono state aperte le transenne per far entrare i primi immigrati, o se abbiano avuto dei malori. Tutti però stanno bene, compresa una ragazza ventenne incinta soccorsa, lei sì per un malore, poco dopo la mezzanotte. “È anche paradossale che noi tutti chiediamo, mi pare da ogni parte della politica, che ci sia la regolarizzazione dell’immigrazione. Quella è una modalità e la rendiamo difficile, quindi è qualcosa che dovrebbe essere risolto”, ha proseguito Sala. Una situazione che ha provocato le proteste di varie associazioni ma anche dei sindacati di polizia e che costa ogni notte uno sforzo enorme di uomini e mezzi a via Fatebenefratelli. Al momento non esiste una modalità diversa per identificare questi stranieri. In mancanza di un’identità certa non si può procedere con appuntamenti telematici. Viene eseguito anche uno screening sanitario prima del fotosegnalamento. In questi mesi il questore Giuseppe Petronzi ha più volte rimodulato orari e ampliato il numero di accessi. Molti arrivano a Milano anche dopo aver presentato le richieste in altre città. In altri casi sono le associazioni a indirizzarli qui. In passato c’erano stranieri che gestivano il racket delle code. Ora i controlli della polizia sono serrati. Terremoto in Turchia, Fondazione Cesvi: “Raggiungeremo 25mila famiglie” Corriere della Sera, 21 febbraio 2023 L’organizzazione umanitaria impegnata nelle zone colpite dal sisma con tende, kit sanitari e personale per dare un sostegno alle popolazioni colpite, in particolare ai bambini in stato di choc. I dati che arrivano da Turchia e Siria chiariscono bene lo stato di emergenza in cui si trova tutta l’area dopo il terremoto del 6 febbraio. “Solo in Turchia sono 50mila gli edifici inagibili e più di un milione di persone non ha dove andare. Molte di loro hanno perso tutto. Ecco perché è urgente intervenire subito”, denuncia Lorena D’Ayala Valva, vicedirettrice generale e responsabile per le emergenze di Fondazione Cesvi, attiva in maniera particolare nelle province turche di Kahramanmaras e Adiyaman. Province tra quelle maggiormente devastate dal sisma ma meno raggiunte dagli aiuti internazionali. E le previsioni giustificano il grido d’allarme: “La crisi nelle zone colpite dal sisma andrà ben oltre i tre mesi di stato d’emergenza previsti: è fondamentale prevedere aiuti materiali e psicologici a lungo termine”. E in questa direzione è stato fatto un appello per le donazioni, che posso essere fatte online su “Emergenza Turchia”. La prima fase degli aiuti “saranno almeno 3mila le tende che ospiteranno circa 15mila persone, con particolare attenzione a quelle più vulnerabili e a rischio, come donne, persone con disabilità e anziane. Sarà inoltre coordinata la fornitura di materassi, coperte, luci a led, kit per cucinare, equipaggiando anche rifugi e centri informali. Viste le temperature sotto lo zero, il riscaldamento è una delle esigenze più critiche che sinora non trovano risposta, quindi saranno distribuite soluzioni di riscaldamento, tra cui stufe elettriche. Saranno inoltre allestiti e gestiti servizi igienici in almeno 250 punti, garantendo l’accesso a circa 5mila persone”. Ma l’importanza di intervenire subito è dettata da altri gravi fattori: “Nelle dieci province turche più colpite dal terremoto - aggiunge D’Ayala Valva - vivevano 13,5 milioni di persone: oltre 2,2 milioni sono sfollate altrove, ma per chi resta è urgente la necessità di aiuti e riparo in questo gelido inverno. Ai traumi psicologici della tragedia si aggiunge il rischio di gravi malattie, da quelle respiratorie al colera. Raggiungeremo, nei prossimi 6 mesi, 25mila persone su vari fronti, dalla distribuzione di beni salvavita all’assistenza psicologica per adulti e bambini”. Molte sono le organizzazioni in campo per sostenere la popolazione. Un convoglio umanitario di Medici Senza Frontiere, formato da 14 camion, è entrato nel nord-ovest della Siria dalla Turchia attraverso il valico di frontiera di Hammam. Trasporta 1.296 tende destinate alle famiglie rimaste senza casa a causa del terremoto e kit invernali per isolarle dal freddo. Altri convogli di aiuti di MSF, con forniture mediche e non, sono previsti nei prossimi giorni. Ma, avverte la ong, è necessario “un aumento urgente del volume delle forniture per far fronte all’entità della crisi umanitaria”. Presenti nell’area da oltre 10 anni, le équipe di MSF sono state in grado di rispondere immediatamente all’emergenza. “Abbiamo svuotato le nostre scorte di emergenza in tre giorni, donando agli ospedali quasi 12 tonnellate (4.000 metri cubi) di attrezzature chirurgiche e medicinali. Le nostre équipe hanno fornito supporto alle strutture sanitarie della zona fino all’esaurimento delle scorte” dichiara Hakim Khaldi, capomissione di MSF in Siria. “Ma non abbiamo visto alcun aiuto dall’esterno. Gli aiuti stanno arrivando in quantità trascurabili per il momento”. Molti i bisogni insoddisfatti in termini di aiuti. Ai 180.000 nuovi sfollati a causa del terremoto del 6 febbraio si aggiungono ai due milioni di persone sfollate da 12 anni di guerra e che già vivono in condizioni precarie. Gli aiuti umanitari forniti alla regione attraverso il meccanismo transfrontaliero non hanno ancora raggiunto il volume medio di prima del terremoto. Secondo i dati delle Nazioni Unite, 5 giorni dopo il terremoto, solo 10 camion sono entrati in Siria attraverso il valico di Bab al-Hawa, un punto di confine coordinato dall’Onu per gli aiuti umanitari provenienti dalla vicina Turchia. L’attraversamento del confine da parte del convoglio di MSF è stato possibile grazie al sostegno di Al Ameen, una Ong siriana partner di MSF. Intere comunità distrutte e migliaia di dispersi in Siria. Solo ad Aleppo 100mila persone sono rimaste senza una casa. Sono le stime di Coopi, l’organizzazione umanitaria che qui è presente dal 2016, occupandosi prima di tutto di fornire i mezzi di sussistenza alle famiglie più colpite dalla crisi a causa della guerra civile. Il bilancio globale dei morti del terremoto che il 6 febbraio ha colpito il nord del Paese e la vicina Turchia ha superato ad oggi quota 37mila, di cui oltre 31mila in Turchia e più di 5.700 in Siria. Coopi ha prestato i primi soccorsi a 4.500 uomini, donne, bambini e anziani, che hanno trovato riparo in scuole, chiese e moschee. Mentre gli interventi proseguono, la ong ha fornito sinora coperte, kit igienici, lampade solari, presidi medicali tra cui sedie a rotelle e stampelle e supporto psicologico a circa 1.500 persone. Ma l’emergenza è drammatica e il bisogno è altissimo. Coopi ha già prestato i primi soccorsi a 4.500 persone, ma il bisogno rimane altissimo, anche a causa della difficoltà degli aiuti ad arrivare nelle città colpite dal sisma. “Le persone sono fortemente traumatizzate e disperate, chiedono cibo e soldi per comprare le cose di cui hanno più bisogno, insieme a materassi e coperte”, dice infatti Matteo Crosetti, coordinatore regionale Coopi in Medio Oriente. “Il nostro staff ad Aleppo riferisce che la tensione è molto alta. La gente è arrabbiata, perché gli aiuti stentano ad arrivare”, aggiunge. Secondo i dati rilasciati dal ministero della Salute siriano, al 13 febbraio le persone colpite dal terremoto erano 7,2 milioni, di cui oltre 2 milioni nel governatorato di Aleppo. Coopi ha attinto finora al proprio fondo di prima emergenza per far fronte alle necessità immediate e organizzare nuove distribuzioni, ma è necessario fare di più, perciò rilancia un appello di raccolta fondi per sostenere le sue azioni di intervento umanitario a favore della popolazione. Si può donare a Coopi con la causale “Emergenza terremoto” in questo modo: online: dona.coopi.org/terremotosiria, con bonifico bancario (Banca Popolare Etica - IBAN IT89A0501801600000011023694) •con bollettino postale (c/c 990200 intestato a Coopi)