Il carcere non rieduca di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 20 febbraio 2023 “Il sogno di ogni scrittore è cambiare le persone e questo è un sogno spesso irrealizzabile. L’avanguardia lavora sovvertendo grammatica e sintassi. Ma l’unica cosa che muove il mondo e le persone, in realtà, è la chiarezza.” Edmond Jabès - Scusi signora, ma il carcere rieduca? - - No, perché non ha le risorse, non ne ha le competenze perché ha pochi educatori e di questi, pochissimi con lauree adeguate. Per essere più chiara, i nuovi funzionari giuridici pedagogici in genere hanno un’eccellente formazione giuridica e una scarsa formazione pedagogica. Infine è molto difficile pensare di formare o rieducare una persona in cattività. Siamo in una scuola media con un gruppo di ragazzini molto svegli e molto interessati alla questione carcere. A ogni domanda mi impongo di rispondere in modo equilibrato ma con chiarezza e onestà. Il carcere non può rieducare perché (in genere) non ha le professionalità spendibili e, comunque, anche quando ha educatori formati e motivati, li congestiona di carte e pratiche forse necessarie per far andare avanti il marchingegno. Non si può, dunque, addebitare soltanto al singolo istituto e alla singola direzione una carenza che supera ampiamente anche la buona volontà. Il Ministero della Pubblica Istruzione sostiene percorsi di apprendimento con le scuole di ogni grado e le università ma sappiamo molto bene che queste attività coinvolgono una percentuale esigua di persone recluse. Tuttavia sono e restano molto importanti. Poi c’è la società esterna e il Terzo Settore che offre un po’ di tutto: corsi di teatro, di scrittura, di lettura, di giornalismo, di musica, di sport e ora anche piccoli interventi spot sulla giustizia riparativa. Oltre alle varie professioni religiose che si occupano della vita spirituale. Tutti questi progetti sono spesso in concorrenza tra di loro e, in genere, coinvolgono sempre gli stessi gruppi di persone recluse. Per cui c’è chi è oberato di “attività trattamentali” e chi (parecchi purtroppo) sta in cella a stordirsi di televisione e psicofarmaci. In genere l’istituto dice di sì a qualsiasi proposta che non implichi un costo per cui si trova davvero di tutto; professionisti seri e competenti che creano isole di eccellenza a tutti noi ben note e poi un mare magno di improvvisazioni di ogni genere. Tanto, come si dice da queste parti, “piuttosto di niente”. Ecco io credo che, in questo ambito che attiene sostanzialmente all’organizzazione, si potrebbe davvero lavorare molto meglio, selezionando le proposte e i proponenti perché non tutto ciò che è gratuito è anche utile e cercando di studiare una offerta formativa coerente e adeguata a ogni istituto e alla popolazione reclusa e magari anche un po’ ritagliata sulle singole persone. Oltre ad adottare quella chiarezza di linguaggio che è o dovrebbe essere il prerequisito di qualsiasi relazione adulta. Per semplificare, cercando di non banalizzare, non ritengo che sia stato molto significativo lo sforzo per cambiare il linguaggio penitenziario che di fatto non ha minimamente impattato sulla quotidianità del carcere, ma penso che sia davvero necessario condividere la scelta di parole chiare - “sì al sì e no al no” - e di regole trasparenti. La vera infantilizzazione a mio avviso si gioca proprio su questo punto preciso; nell’ambito di un troppo ampio spazio concesso alla discrezionalità e nella diffusa incapacità di stabilire relazione limpide e adulte. Una incapacità che spesso contamina anche i volontari e gli operatori esterni. E a volte persino le università impegnate nella preziosa attività dei poli penitenziari. Ritengo, infatti, che sia un atteggiamento adulto, responsabile e rispettoso quello di assegnare voti corretti alle prove d’esame, di avere il coraggio di premiare il merito ma anche di segnalare le lacune. Ma so bene che questa posizione non è molto popolare né condivisa. Mi piacerebbe solo che sulla rieducazione si uscisse dalla dicotomia del “povero detenuto” o del “detenuto irrecuperabile” e si potesse discutere in modo più ampio, più serio e approfondito. Sì, mi piacerebbe davvero molto. *Coordinatrice della redazione di Ristretti Orizzonti a Parma Alfredo Cospito, si apre la settimana decisiva per l’anarchico: venerdì la Cassazione Il Giorno, 20 febbraio 2023 La Suprema Corte deve decidere sul ricorso dei suoi legali per l’annullamento del regime di 41-bis cui è sottoposto il detenuto in sciopero della fame Settimana chiave per la vicenda giudiziaria di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da oltre 110 giorni per protestare contro il 41 bis disposto nei suoi confronti per quattro anni. Una settimana che culminerà venerdì 24 febbraio con l’udienza in Cassazione che dovrà esaminare il ricorso presentato dal suo difensore, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, dopo la decisione del tribunale di Sorveglianza di Roma che ha respinto il reclamo avanzato per chiedere l’abolizione del carcere duro. Allerta massima anche sul fronte dell’ordine pubblico dopo le minacce recapitate ad alcune aziende: è già stato annunciato per il giorno dell’udienza un sit in degli anarchici davanti alla sede del Palazzaccio ma non sono escluse, così come avvenuto nelle scorse settimane, altre iniziative a “macchia di leopardo” nei prossimi giorni a sostegno del 55enne attualmente ricoverato nell’ospedale San Paolo di Milano a causa delle condizioni di salute. Al momento il quadro clinico è definito “stabile” al punto che si sta valutando il suo rientro nel padiglione del servizio di assistenza intensificata del carcere di Opera. Dal canto suo Cospito, che da qualche giorno è tornato a prendere integratori a base di potassio, ha annunciato al medico nominato dalla difesa che lo ha visitato sabato che in caso di decisione sfavorevole dei Supremi giudici è pronto a tornare al digiuno totale. L’udienza di venerdì rappresenta, quindi, uno snodo forse decisivo. Il procuratore generale, Pietro Gaeta, nella requisitoria scritta depositata l’8 febbraio scorso ha chiesto ai giudici di “annullare con rinvio” per un nuovo esame della Sorveglianza. Dalle motivazioni dell’ordinanza con cui è stato motivato il “no” dai magistrati di piazzale Clodio, a detta del pg, emerge una “carenza di fattualità in ordine ai momenti di collegamento” con gli anarchici. “La verifica su tale punto essenziale - scrive il pg - non traspare nelle motivazioni del provvedimento” ma è “necessaria” e non può essere “desumibile interamente ed unicamente né dal ruolo apicale” né dall’essere egli divenuto punto di riferimento dell’anarchismo in ragione dei suoi scritti e delle condanne riportate”. Nel ricorso alla Suprema corte Rossi Albertini, dal canto suo, afferma che “corrisponde a violazione di legge il fatto che il Tribunale di Sorveglianza” abbia “equiparato l’attività comunicativa di Cospito (che viene dallo stesso inviata quale contributo personale alle assemblee o ai giornali anarchici, e che viene poi a sua volta altrettanto pubblicamente divulgata da questi ultimi attraverso il web, nei notori siti d’area ovvero di controinformazione) ai cosiddetti pizzini, ovvero ai messaggi criptici che vengono veicolati dal detenuto all’esterno, spesso attraverso i parenti, sfruttando a tal fine le occasioni di contatto infra-murario ed esterno tipicamente connesse ad un ordinario regime di detenzione”. Parallela alla vicenda di Cospito viaggia l’indagine della Procura capitolina che vede indagato per rivelazione del segreto d’ufficio il sottosegretario Giustizia, Andrea Delmastro, dopo l’intervento alla Camera del vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli che ha citato dialoghi intercorsi tra l’anarchico ed esponenti di ‘Ndrangheta e Camorra sul 41 bis. In settimana il difensore di Delmastro, che è stato interrogato venerdì a piazzale Clodio, invierà una memoria difensiva. Resta, invece, al vaglio la posizione di Donzelli che potrebbe essere ascoltato come persona informata sui fatti. Nordio su prescrizione, separazione delle carriere, esecuzione della pena di Sara Occhipinti* altalex.com, 20 febbraio 2023 Il Ministro della Giustizia ha annunciato l’intenzione di aprire un tavolo tecnico con l’avvocatura per le modifiche ai decreti attuativi della riforma Cartabia. Tra le possibili novità la modifica della legge sulla prescrizione. Si sono riunite a Ferrara il 10 febbraio scorso le Camere penali italiane, per inaugurare l’anno giudiziario con un convegno dal titolo “Giusto processo, pena, prevenzione, prescrizione. Idee per una stagione di riforme liberali della giustizia Penale”. Ha preso parte all’evento anche il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, sebbene non di presenza, per i troppi impegni istituzionali, ma con un videomessaggio. Una confidenza privata del Ministro, che racconta di provenire da una famiglia di avvocati, fa da primo spunto per rassicurare i penalisti riuniti a Ferrara, sulla sensibilità del Guardasigilli verso il tema del riconoscimento del ruolo dell’avvocato in un sistema democratico. L’avvocato, ricorda Nordio, deve essere parte della triade che costituisce l’unità della giurisdizione. Entrando sui temi della Riforma, il Ministro tranquillizza che il programma del suo Governo, presentato alle Camere, coincide già in gran parte con le proposte dell’avvocatura. Sarebbe irriverente, dice il Guardasigilli, anticipare nel merito i disegni di legge, ma le proposte sono già in fase di elaborazione e saranno oggetto delle prossime iniziative. Nordio esprime comunque la necessità di aprire con l’avvocatura un tavolo tecnico sui decreti attuativi della Riforma Cartabia, che pur andando nella giusta direzione, sono caratterizzati da limitazioni, imputabili, secondo il Ministro, alla debolezza della coalizione che sosteneva il precedente Governo. Si dice fiducioso che invece, la solidità del Governo Meloni e la compattezza della maggioranza consentano di varare ed attuare le Riforme, che arriveranno in tempi compatibili ciascuna con il proprio contenuto, tenendo presente che la modifica di una norma costituzione esige ovviamente più tempo che la modifica di una norma del codice. Il Guardasigilli ha ribadito in formule sintetiche la concezione del diritto penale del suo Governo: non lasciare impunito il delitto, non punire l’innocente e non sottoporlo ad un processo inutile e costoso, rispettare il principio di ragionevole durata del processo senza incidere sulle garanzie processuali. In questa cornice valoriale, il Ministro accenna l’intenzione di metter mano alla legge sulla prescrizione, che ha introdotto l’improcedibilità agendo invece su un istituto di diritto sostanziale. Nordio tocca anche il nodo della separazione delle carriere, come punto importante del programma di Governo, auspicando di poter intervenire sul tema senza che si formino pregiudizi ideologici e competitività. Infine egli affronta il tema dell’esecuzione della pena, che deve essere effettiva ma anche giusta ed equilibrata e tendere alla rieducazione del detenuto come chiede la Costituzione. Un passaggio sul quale il Guardasigilli chiede la collaborazione dell’avvocatura è quello della fase che segue l’esecuzione della pena, e dunque il momento del reinserimento sociale del detenuto. Nordio cita a riguardo l’esperienza promossa dalla Prof.ssa Severino che ha istituito una fondazione dedita a trovare lavoro a chi è uscito dal carcere. Si dice favorevolmente sorpreso dalle attività “addirittura artistiche” oltre che produttive che ha potuto recentemente conoscere all’interno del carcere di Rebibbia e pur lodando il valore del lavoro in carcere come aiuto alla rieducazione, ribadisce che questo sforzo non è sufficiente se poi non ci si attiva al reinserimento del condannato nella società dopo l’espiazione della pena. *Avvocato Giudici e giustizia, in gioco c’è una visione di riforma. Il commento di Corbino di Alessandro Corbino formiche.net, 20 febbraio 2023 Per riformare la giustizia non ci sono in gioco le “decisioni”, ma i “modi” di raggiungerle. Devono divenire rapidi e le decisioni stesse accettate. Dovranno apparire a chi le subisce le sole decisioni che un “qualunque” giudice avrebbe potuto assumere nelle circostanze. Il commento di Alessandro Corbino, già professore ordinario di Diritto romano all’Università di Catania. A dispetto di ogni astratto proposito, non appena hanno preso evidenza vicende di particolare rilievo, per la materia (ad esempio il 41 bis) o per i personaggi coinvolti (un nome per tutti, Berlusconi), il tema della giustizia si è fatto immediatamente arroventato. E il confronto tra gli schieramenti politici è diventato subito un muro contro muro. Non sembra proprio che i protagonisti della discussione (tra i quali includo giornalisti e ospiti dei nostri quotidiani talk show) abbiano alcuna intenzione di guardare alle cose con la freddezza razionale che la loro importanza esigerebbe. Viviamo la giustizia in un clima da stadio, quando avremmo necessità di considerarne l’enorme rilievo politico che essa ha. Costituisce l’essenza di ogni ordine giuridico. Non intendo entrare nel merito delle posizioni. Non perché non abbia le mie idee al riguardo, ma perché ritengo molto più importante invitare a riflettere sulla complessità che le vicende che sto evocando presentano. L’hanno per natura propria. Ogni “caso” giudiziario richiede delibazione alla luce di due fatti parimenti necessari e insieme parimenti soggettivi. Occorre “leggere” l’accaduto (ricostruirne la fattuale connotazione) e occorre valutare la corrispondenza dello stesso alla previsione astratta (e dunque inevitabilmente da “interpretare”) che ne fanno le norme che lo riguardano. Ma la hanno anche perché richiedono attivazione dell’informazione in regimi nei quali - come nei democratici - la conoscenza di ciò che avviene è il presupposto della loro praticabilità. Non diversamente da quel che accade al giudice, anche il giornalista (nel suo complementare ruolo) deve fare i conti con i rischi legati alla insuperabile soggettività di valutazione alla quale è anch’egli esposto. In modo addirittura esponenziale. Deve “leggere” il fatto e tradurlo in “notizia” o “commento” senza disporre del tempo e degli strumenti dei quali dispone il giudice. E dunque con approssimazione necessitata. Per non entrare in tecnicismi di più difficile esposizione e per assecondare coloro che amano discuterne come di vicende da stadio, vorrei invitare tutti a considerare quanto accade in una materia di grandissimo interesse sociale (il gioco del calcio) in ordine ad una delle regole applicative che più appassionano coloro che lo seguono, la concessione di un calcio di rigore per un contatto mano/pallone. Essa interviene per decisione di un giudice (l’arbitro) che è chiamato ad una duplice valutazione. Deve constatare che il contatto in questione è intervenuto. Ma deve - nel contempo - giudicare che esso si è verificato secondo le modalità previste dalla norma regolamentare che lo sanziona. Come è esperienza di chiunque segua le cose, nessuno dei due giudizi si sottrae al contributo soggettivo. Il contatto può essersi verificato, ma non è stato visto. Il contatto non si è verificato, ma l’arbitro ha ritenuto che vi sia stato. Certo, da quando la valutazione è divenuta “assistita” (fino a qualche anno fa dall’arbitro di porta, ora da raffinati strumenti tecnologici che permettono di “rivedere” - dopo qualche istante - l’evento da angolazioni molteplici e anche molto diverse da quella dell’arbitro) la “uniformità” delle decisioni è cresciuta enormemente. Ma questo non ha sedato dubbi e discussioni. La valutazione di “corrispondenza” dell’evento (contatto mano/pallone) alla previsione sanzionabile (per esempio, la congruenza del movimento del braccio o della mano rispetto al movimento del corpo) resta connotata da una insuperabile soggettività, attenuata solo dalla pluralità dei giudicanti e dal ricorso alle macchine (Var). Ad essa si rimedia nel solo modo possibile. Attribuendo alla “decisione” valore di “giudicato”. Non è discutibile per il caso considerato. La partita si conclude (e prende effetto pubblico: classifica dei campionati) con il risultato “condizionato” dal rigore assegnato/negato. La decisione non ci dice se il contatto è avvenuto/non è avvenuto. Ci dice ciò che è sembrato al “decisore” investito della questione. Un uomo fallibile (come tutti), ma investito - per consenso anche di coloro che ne subiscono il giudizio (come partecipi alla organizzazione del gioco) - dell’autorità che mette fine ad ogni “utile” discussione. Mi sposto sul versante dell’osservatore/commentatore. E invito a considerare la cosa immaginandola nel tempo nel quale non esistevano la televisione e il Var. Quando insomma la valutazione dell’accaduto e il suo riferirne “mediatico” erano rimessi alla diretta osservazione, del radiocronista ad esempio. Era una situazione del tutto identica a quella che vale anche oggi per i giudizi dei tribunali. Nessun osservatore (diverso dal giudice) è in grado (ancora oggi) di conoscere i fatti nella loro materiale evidenza. Non solo nel momento in cui vengono rimessi a giudizio (sulla base perciò di una valutazione che è approssimativa di principio), ma nemmeno dopo la conclusione del processo (che ne ha sviscerato ogni aspetto). Anche a concedere che un attento cronista possa conseguirne - seguendo in dettaglio la vicenda processuale (dall’insorgere alla conclusione) e disponendo della cultura giuridica indispensabile - una conoscenza “analoga” a quella del decisore, resterà comunque (sul piano “politico”, della rilevanza pubblica insomma della circostanza) una differenza. Il suo giudizio potrà avere valore solo personale e soggettivo. Quello del decisore - benché anch’esso personale e soggettivo - sarà dotato invece della autorità che lo renderà “effettuale”. Non più discutibile. È la conseguenza di una ragione pratica. Sottrarre ciascuno di noi al dramma di una contestazione permanente della legittimità del proprio operare e della propria rispettabilità. La valutazione del giudice non è discutibile non perché sicuramente corretta, ma perché nessuna valutazione umana può aspirare ad altra indiscutibilità che non sia “convenzionale”. Frutto di una norma concordata da coloro che ne subiranno la vigenza. Come è appunto il “giudicato” che dà ordine pubblico alle cose. Se non prendiamo atto di questa relatività di cose, nessuna discussione di riforma della giustizia potrà conseguire risultati. Non sono in gioco le “decisioni”, ma i “modi” di raggiungerle. Devono divenire rapidi (il possibile) e devono renderle accettate. Dovranno apparire a chi le subisce le sole decisioni che un “qualunque” giudice avrebbe potuto assumere nelle circostanze. Anche un diverso arbitro avrebbe dato/negato il rigore. Un fatto tutt’altro che scontato e molto difficile da ottenere. Ma anche il primo problema che la organizzazione di qualunque macchina giudiziaria deve proporsi di risolvere. Se avessimo non la convinzione, ma anche solo la percezione che l’assegnazione del calcio di rigore è nella licenza del decisore, non seguiremmo più le partite. Possiamo continuare a farlo perché possiamo pensare (grazie alle regole che ne governano la formazione) che la decisione sfavorevole è un “errore” (sempre dietro l’angolo in ogni umana vicenda) e non la conseguenza di un esercizio spregiudicato dei poteri connessi alla funzione da applaudire/contestare con spirito di tifosi. Il pericolo della giustizia al potere di Iuri Maria Prado Libero, 20 febbraio 2023 Tra i tanti danni che la gamba tesa giudiziaria ha fatto alla cultura istituzionale italiana c’è questo: l’elevazione della fedina penale a criterio esclusivo di valutazione della benemerenza civile e politica di chi ha incarichi pubblici o ambisce ad averne. E il danno è duplice, o per meglio dire ambivalente, nel senso che come la fedina pulita è sufficiente ad assolvere le inadeguatezze più devastanti, nella bella idea che “onestà” costituisca la prima voce (il pre-requisito) di un curriculum presentabile, così quella invece maculata è sufficiente a far fuori carriere ed esperienze politiche che al contrario meriterebbero di continuare non ostante il presunto contrassegno infamante. Alla teoria di certuni - magistrati televisivi, perlopiù - secondo i quali i partiti politici dovrebbero far pulizia per primi e autonomamente, senza attendere il corso della giustizia, perché magari non c’è il reato ma resta la porcata, bisognerebbe opporre una regola diversa e più avanzata, vale a dire la riserva insindacabile della classe politica di non tener conto mai e in nessun modo dei processi e nemmeno delle condanne, neppure quelle definitive, e il dovere di proteggere i propri esponenti dalla specie di giudizio di Dio che ormai è divenuta la decisione giudiziaria. Se passa il principio - e purtroppo è passato - che un condannato deve dimettersi, vuol dire che l’intero ordinamento democratico è esposto ad eventi di turbativa, cioè l’interferenza togata, che con il sistema rappresentativo non avrebbero nulla a che fare. E a chi obiettasse che bisogna rispettare le sentenze, e che non le rispetta chi ritiene che esse non valgono nulla, bisognerebbe obiettare che rispettarle non significa adorarle. E che a fronte del pericolo che le sentenze non valgano nulla ne esiste uno anche più grande: il pericolo che valgano tutto. La gente di Libera è pronta: il 21 marzo si riscende nelle piazze di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2023 Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Oasi di Cavoretto, colline torinesi. In una giornata di sole una settantina di persone per lo più giovani discute dei propri progetti in una grande sala a pianterreno di un’ex struttura religiosa fattasi luogo di turismo e riflessione. Sono progetti che hanno una cosa in comune: la voglia di un’Italia senza mafia. Scruto il gruppo. Eterogeneo e composito come pochi. Diversi studenti universitari e insegnanti, poi impiegati, operatori di cooperative, pensionati. Ma anche appartenenti al mondo della giustizia o delle forze dell’ordine, del giornalismo o delle libere professioni. Anche alcuni preti. O familiari di vittime di mafia. Una discreta prevalenza femminile. Li accomuna anche il nome dell’associazione per cui si impegnano: si chiama Libera e a guidarla c’è un prete, don Luigi Ciotti, il fondatore. Ho sempre creduto di conoscerla bene questa associazione, ma stavolta è come se a un certo punto avessi un’illuminazione. Che in pochi minuti decido di consegnare ai lettori del Fatto. Si discute di come organizzare, promuovere la grande giornata del 21 di marzo, diventata per legge nel 2017 giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti di mafia e dell’impegno. Quest’anno si celebrerà a Milano. La scelta responsabilizza tutti, e si vede. Perché Milano è la città per definizione sotto la pressione dei clan, ansiosi di spolparsela silenziosamente approfittando dei soldi che, come mai prima, stanno piovendo sull’economia locale. È la città che ha forse, con Palermo, il più forte movimento antimafia d’Italia. La piazza su cui tutti ti misurano le forze, ossia quella delle tue idee. Ma una città maledettamente cara, dove tutto costa di più. Responsabilità e preoccupazione: ce la faremo? E in che modo? I presenti spiegano che cosa stanno facendo e con quale corredo di fatti e opere alle spalle arriveranno. Rappresentano Libera in quasi tutte le regioni italiane o ne sono responsabili per i vari ambiti di lavoro. Ed è mentre parlano che capisco (ecco il mea culpa…) di non sapere quasi nulla di loro. I visi sì, li conosco; i nomi quasi sempre. Di dove sono lo dicono gli accenti. Ma è la ricchezza di quel che stanno facendo che mi conquista, che mi riconcilia con il mondo. Una specialità di compiti e missioni che non si trova in alcun partito o movimento. C’è il settore che promuove il monitoraggio civico della vita pubblica, che insegna a dar battaglia su trasparenza e corruzione. Il gruppo che affianca le cooperative nate sui beni confiscati, e quello che ne promuove i prodotti sul mercato. C’è quello che organizza in tutta Italia formazione su mafia e corruzione, soprattutto nelle scuole, avendo come riferimento centinaia di insegnanti. Quello che promuove legalità nel mondo dello sport dilettantistico. Quello che porta lo sguardo dell’antimafia nella rete delle solidarietà. Chi assiste e aiuta e organizza concretamente i familiari delle vittime. Chi lavora nelle università cercando (spesso con successo) di romperne la riluttanza a fare della mafia materia di studio. C’è il settore della lotta all’usura e all’estorsione. Chi racconta gli straordinari progetti sulla giustizia minorile, il recupero dei ragazzi cosiddetti “messi alla prova”. O l’assistenza clandestina a quei membri di famiglie mafiose, specie giovani e donne, che decidono di rompere con il mondo di appartenenza. Chi organizza le estati giovanili sui campi di lavoro, ottenendo sempre il tutto esaurito. C’è il difficile sostegno ai movimenti analoghi sorti in altri paesi. Ascolto e penso che molte delle attività di cui sento parlare non saprei proprio svolgerle. Che richiedono grande coraggio, intraprendenza e molta fatica nervosa. Che quella preziosa antologia dell’Italia “del fare” mi acquieta interiormente e dà un senso a tutto. Che è bella. Perché a Cavoretto è stato bello, sapete? Firenze. Ancora un suicidio nel carcere di Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 20 febbraio 2023 Si è tolto la vita ieri sera intorno alle 20 un detenuto di nazionalità bosniaca, di 45 anni. È il quinto suicidio dall’inizio del 2022 all’interno del penitenziario fiorentino. L’ultimo episodio risale a metà novembre, vittima è stato un recluso marocchino che si è impiccato all’interno della sua cella nella sezione transito, dove era detenuto da solo. Prima di lui, sempre un altro marocchino si era suicidato a metà ottobre, anche lui impiccandosi con un lenzuolo dentro la sua cella singola. Un fenomeno, quello dei suicidi in carcere, che purtroppo riguarda molti penitenziari italiani. Nei dodici mesi del 2022, secondo i dossier dell’associazione Antigone, si sono tolti la vita 84 detenuti. Uno ogni 5 giorni. Il precedente primato negativo era del 2009, quando in totale furono 72. Ma all’epoca i detenuti presenti erano oltre 61 mila, 5 mila in più di oggi. Sanremo (Im). Detenuto trovato morto in cella. Indagini in carcere di Alice Spagnolo riviera24.it, 20 febbraio 2023 È Luca Volpe, 31 anni, il detenuto trovato morto ieri all’interno della cella in cui era rinchiuso nel carcere di Valle Armea, a Sanremo. L’uomo era stato condannato a 30 anni di carcere (con rito abbreviato) per aver ucciso, il 16 marzo del 2018, il nonno Giovanni nella casa che i due dividevano a Vighizzolo, frazione di Cantù, in provincia di Como. Per Volpe, la sentenza di condanna era stata pronunciata il 6 giugno 2019 dal Tribunale di Como per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. Secondo quanto ricostruito dalla pubblica accusa, Luca Volpe, all’epoca 27enne, aveva ucciso il nonno materno al culmine di una lite: il pensionato aveva scoperto che il giovane faceva nuovamente uso di droga e lo aveva rimproverato. Da qualche mese, il detenuto era stato trasferito nel carcere di Valle Armea, dove ieri è stato trovato morto. Al momento i motivi del decesso non sono ancora chiari, anche se non è escluso che Volpe possa essere morto per cause naturali. Alba (Cn). Paola Ferlauto è la nuova Garante comunale dei detenuti cuneo24.it, 20 febbraio 2023 Paola Ferlauto è la nuova Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Alba, figura istituita con deliberazione del Consiglio comunale n. 56 del 26/06/2015. Sabato 11 febbraio il sindaco Carlo Bo ha firmato il provvedimento di nomina, dopo il via libera ricevuto dalla conferenza dei capigruppo sulla candidata selezionata sulla base delle domande pervenute in Municipio con il bando lanciato dall’ente nel dicembre scorso. Laureata in Scienze Infermieristiche nel 2004, Paola Ferlauto ha lavorato all’interno della Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba dal 2004 al 2016 e dal 2018 è Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Comune di Asti. Il Garante interagisce con i detenuti, riceve segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei reclusi, violati o parzialmente attuati, e si rivolge all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il sindaco di Alba Carlo Bo: “In questo momento così delicato per il nostro carcere, con l’intervento di ristrutturazione nelle sue fasi iniziali e con al suo interno una Casa Lavoro con casi non semplici da gestire, siamo felici di poter nuovamente contare sulla figura del Garante dei detenuti. La candidata scelta è una persona competente e preparata che ricopre già lo stesso ruolo ad Asti e conosce la realtà del Montalto per avervi lavorato per oltre un decennio. Sono sicuro che collaboreremo al meglio e le auguro buon lavoro”. “Credo di poter dare il mio contributo alla struttura albese - dice la Garante comunale Paola Ferlauto - essendo specializzata in criminologia e laureanda in psicologia clinica e considerando che il carcere è un contesto molto particolare. Ringrazio l’Amministrazione albese per avermi nominata e sono certa che lavoreremo in sinergia perché la Casa di Reclusione Montalto possa essere una realtà di eccellenza”. Tra i primi eventi a cui prenderà parte la Garante Paola Ferlauto, il seminario sulla Casa Lavoro “Le esperienze italiane e la situazione nel carcere albese. Le misure di sicurezza “non detentive” nel nuovo millennio: un residuato giuridico da superare? Una sfida difficile o un’impresa ormai priva di senso?” in programma sabato 18 febbraio alle ore 10,30 nella Sala della Resistenza del Palazzo comunale, alla presenza Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte Bruno Mellano, del sindaco Carlo Bo e dell’assessore comunale ai Servizi sociali e assistenziali Elisa Boschiazzo. Vercelli. Si dimette la Garante dei detenuti. “Subito il successore, il carcere ha molte criticità” di Andrea Zanello La Stampa, 20 febbraio 2023 La Provincia di Vercelli è rimasta senza Garante delle Persone private della libertà personale. Manuela Leporati infatti ha presentato le proprie dimissioni adducendo motivazioni personali. La nomina per il suo successore spetta al sindaco di Vercelli. Le strade percorribili a questo punto sarebbero due. Si può pescare dall’elenco di chi nel 2019 aveva presentato la propria candidatura, rispondendo al bando comunale. Sempre che i candidati siano ancora disponibili: in graduatoria ci sarebbero ancora due persone. La seconda via è quella della pubblicazione di un nuovo bando, con l’iter della presentazione delle auto candidature. “La speranza è che l’iter, qualunque sia la decisione, sia rapido - ha detto Bruno Mellano, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - a Manuela Leporati va il ringraziamento svolto per il ruolo che ha ricoperto, ma a Vercelli ci sono criticità importanti: il carcere ha un’alta percentuale di detenuti stranieri, i sex offenders e il reparto femminile. Bisogna procedere alla revisione del protocollo di intesa tra i garanti ed il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, per cui serve avere tutti i garanti in carica”. “Le dimissioni sono recenti - ha detto il sindaco Andrea Corsaro - provvederemo al più presto ad una nuova nomina seguendo i procedimenti”. Brescia. Si ricorda la Costituzione, partendo dal carcere di Federica Pacella Il Giorno, 20 febbraio 2023 Brescia celebra i 75 anni della Costituzione partendo dal carcere, luogo dove gli articoli scritti dai Padri Costituenti rappresentano un faro. Il merito è del progetto “La Costituzione in comune”, nato un paio di anni fa da un’idea di Vittorio Bertoni, titolare della Casa editrice Publisher di Brescia e rotariano. “Nell’ultima delle disposizioni transitorie e finali - sottolinea Bertoni - si ricorda che il testo della Costituzione è depositato nella sala comunale di ciascun Comune della Repubblica per rimanervi esposto affinché ogni cittadino possa prenderne visione. Purtroppo nel corso degli anni se ne è persa traccia un po’ ovunque. Da qui l’idea di proporre uno strumento semplice, ma concreto, per promuoverla e diffonderla non solo nei Comuni, ma anche negli uffici pubblici in genere”. Primo passo è stata l’apposizione di un pannello nella Casa circondariale “Nerio Fischione” (a breve arriverà anche a Verziano), donata dal Rotary Club Brescia Capitolium presieduto da Rita Cola. “La Suprema Carta - spiega Francesca Lucrezi, direttrice della Casa Circondariale - detta i principi e stabilisce i confini dell’esecuzione penale, definendo il senso della pena sia nei confronti dei destinatari della stessa che dei singoli cittadini, chiamati dall’art. 27 alla cooperazione ed alla partecipazione nel lavoro di risocializzazione che costituisce l’obiettivo a cui tendere. L’affissione del pannello recante gli articoli della Costituzione presso la Casa Circondariale di Brescia renderà concreto il suddetto richiamo”. Bari. Carcere e teatro, in scena i detenuti delle scuole carcerarie di Mary Divella internationalwebpost.org, 20 febbraio 2023 Intervista al Responsabile dell’Area Giuridico-Pedagogica Tommaso Minervini. Il “trattamento”, nei suoi molteplici aspetti, costituisce il sistema attraverso cui si realizzano, in carcere, percorsi per il recupero e la riabilitazione di ciascun detenuto. Senza di esso la pena perderebbe di significato e si ridurrebbe a semplice reclusione e restrizione di libertà. L’attività culturale realizzata all’interno degli istituti penitenziari svolge un importante ruolo di miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e di importante ponte tra la realtà carceraria e l’esterno, realizzando una moderna forma di comunicazione. Ravvisata pertanto la necessità di superare l’idea del carcere come luogo di pena per approdare ad una pratica dell’istituto rieducativo, la scuola e il teatro diventano un elemento fondamentale per una reale crescita del percorso di risocializzazione delle persone detenute: questo è il punto di partenza che ha indotto la scuola primaria 26 CD Monte S. Michele e la scuola secondaria di primo grado di 1 C.P.I.A.- Bari, insieme al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a promuovere l’iniziativa teatrale che è stata messa in scena nella Casa Circondariale di Bari, lo scorso 8 giugno. L’esperienza del teatro è di per sé, un’esperienza forte, vibrante e, fatta all’interno di un istituto carcerario, permette di vivere un vero e proprio laboratorio su se stessi. Il teatro consente un percorso di vita forte, un percorso totale. Per questo motivo è soprattutto una disciplina che esula dagli stessi contenuti del carcere, dalla vita reale. È una disciplina che ha alla base un grande rispetto per la propria persona, una voglia di autodeterminarsi e, quindi, mette in moto uno spirito di rivalsa, perché lo spazio creativo è l’unico predisposto per questo percorso. Il teatro è insomma molto di più sia di un momento ricreativo sia di un momento scolastico, perché con esso si imparano tecniche, si sperimentano toni e linguaggi, ci si mette alla prova. Con “Ricominci-Amo”, spettacolo co-diretto da Ida Caracciolo e Gianni Vezzoso che ha coinvolto le persone detenute, le docenti e gli attori esterni Gianni Vezzoso e Stefano Camposeo, sono andate in scena due opere che hanno lasciato un segno indelebile nella nostra gioventù: “L’amante” di Harold Pinter e “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni. Ma la narrazione tradizionale cede il posto a giocose parodie e ribaltamenti comici e grotteschi, ottenendo effetti comici che hanno divertito tutti. Lo spettacolo non si limita solo a “rifare il verso” ai grandi classici, ma fa molto di più: li trasforma nei più vari e disparati generi, dalla favola alla soap opera, dalle televendite ai monologhi teatrali, dal musical al varietà. Di più, “Ricominci-Amo” è come un “cubo di Rubik”, dove figure simmetriche, perfettamente incastonate le une dentro le altre, si fanno ripercorrere continuamente dagli occhi dell’osservatore, incapace di percepire il confine tra realtà e sogno, tra realtà e finzione. Il risultato? Sentimenti, emozioni e tante risate che vedono uniti, persone detenute, docenti, operatori e spettatori. Tutti insieme. Di seguito, nell’intervista fatta al Responsabile dell’Area Giuridico-Pedagogica della Casa Circondariale di Bari, Tommaso Minervini, parleremo dell’importanza delle attività culturali nel recupero e nel reinserimento delle persone detenute. Tommaso Minervini è il Responsabile dell’Area Giuridico-Pedagogica della Casa Circondariale di Bari. Qual è la sua missione istituzionale e in che modo l’ha interpretata? La mia missione è quella di riuscire a trasformare i detenuti in singoli individui e calibrare, con l’aiuto dei tanti operatori che lavorano all’interno dell’Istituto, le opportunità che permettono alle persone detenute di capire il proprio passato e riuscire così a costruirsi nuove speranze. Quanto sono importanti i percorsi riabilitativi per abbattere la recidiva e favorire il reinserimento delle persone detenute? I percorsi riabilitativi, scuole e lavoro in primis, sono i fondamenti del trattamento penitenziario, con i quali offriamo opportunità ai detenuti e, allo stesso tempo, ne osserviamo i comportamenti. A rotazione, molti detenuti sono impegnati in lavori di manutenzione, come la cucina, le pulizie e abbiamo anche elettricisti e idraulici. Il lavoro e la scuola sono fondamentali per abbattere la recidiva e favorire il reinserimento, anche se in un momento di difficoltà economiche le opportunità diminuiscono. In carcere tutti gli attori istituzionali dovrebbero operare per favorire questo aspetto, anche per quel che riguarda il lavoro in esterno, dagli enti territoriali alle amministrazioni penitenziarie. Riguardo ai bisogni educativi, quali scuole ci sono e quanto vi aiuta il Ministero dell’Istruzione? Per quanto riguardo l’aspetto legato all’istruzione, nel carcere di Bari ci sono percorsi scolastici interni: sono presenti corsi di scuola primaria, essenziali soprattutto per l’alfabetizzazione e quindi l’apprendimento della lingua italiana per i detenuti stranieri e corsi di scuola secondaria di primo e secondo grado. Ogni anno tantissimi sono i detenuti che prendono la licenza media. L’istruzione in carcere rientra nel programma di interventi che l’istituto e gli operatori devono attuare, ispirandosi al criterio di individualizzazione. Il fine ultimo dell’educazione è quello di promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale. Il progetto educativo e formativo s’inserisce a pieno titolo nell’ampio quadro dell’espiazione della pena, influendo in maniera decisiva sull’eventuale adozione di misure come permessi premio o riduzioni di pena. Il rapporto che il docente ha con lo studente è fondamentale per il buon esito dell’educazione e dell’insegnamento. Parlando di detenuti questo rapporto è di difficile instaurazione. Le chiedo quindi quali sono i metodi base per poter guadagnare la fiducia e l’interessamento delle persone detenute che frequentano la scuola? Sicuramente il fattore principale che deve appartenere a chiunque operi all’interno di un istituto penitenziario è la capacità di accoglienza e di accettazione della diversità. Questo vale ancor di più quando ci riferiamo ai docenti di una scuola carceraria, i quali, oltre alle competenze didattiche, è necessario che abbiano competenze relazionali. Perché riuscire a stabilire la giusta sintonia emotiva con le persone detenute che decidono di seguire i nostri corsi, diventa lo strumento per garantire lo stesso successo scolastico. Oltre alle scuole, quali altri percorsi riabilitativi sono previsti dal carcere di Bari? Oltre a scuole e lavoro, di cui abbiamo già parlato, il nostro carcere organizza molte attività culturali, come presentazioni di libri con la presenza stessa degli autori e attività sportive, le quali ultime sono molto gradite e, quindi fortemente frequentate, dai detenuti. Non ultime sono le tante attività di sostegno psicologico a cui sono preposti molti nostri operatori. La detenzione, infatti, influenza i livelli di autostima e la consapevolezza delle capacità delle persone detenute. Per questo motivo un buon supporto psicologico risulta fondamentale ed è per lo stesso motivo che la mancanza di un supporto esterno induce, nella maggior parte dei casi, l’ex detenuto a delinquere nuovamente, una volta in libertà. A seguito della sentenza Torreggiani, quali sono state le misure poste in essere in questo carcere? Innanzitutto, a seguito delle Novelle Legislative adottate nel nostro istituto si è potuta documentare una vistosa riduzione della popolazione detenuta. Inoltre, abbiamo potenziato le attività per consentire una maggiore permanenza dei detenuti fuori dalle celle. A cambiare è stata l’organizzazione interna: i detenuti non sono più chiusi in cella per l’intera giornata e liberi solamente nell’ora d’aria. Le celle restano invece aperte, per circa 8 ore, con la possibilità per i detenuti, di muoversi negli spazi comuni. Quali sono i progetti futuri della Casa Circondariale di Bari? Molti progetti sono programmati per prevedere azioni specifiche in grado di intercettare e trattare con tempestività stati di disagio psicologico e di disturbo psichico o altri tipi di fragilità, attivando un coordinamento funzionale delle diverse figure professionali presenti, con l’obiettivo di mettere in atto misure di contenimento del rischio suicidario e dei comportamenti autolesivi e dei suicidi da parte delle persone detenute ed internate. Inoltre, metteremo in cantiere percorsi di giustizia riparativa, oltre a progetti a forte impatto sociale che ben rispondono alla missione dell’attuale sistema carcerario che è quella di creare un legame sempre più saldo tra carcere e territorio. La tragedia, la vendetta e la nascita della giustizia impersonale di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2023 L’idea di giustizia acquisisce un significato nuovo e conflittuale con l’affermarsi della tragedia greca, dove gli eroi tragici sono colpevoli e innocenti allo stesso tempo. Con l’affermarsi della tragedia greca l’idea di giustizia assume un significato nuovo, una dimensione conflittuale, un tono oscuro. Come ci spiega Hegel, infatti, “gli eroi tragici sono [al contempo] sia colpevoli che innocenti”. È tragica quella situazione nella quale il destino di persone buone viene stravolto da avvenimenti e circostanze che essi non possono controllare e perché si trovano al di fuori della loro sfera di influenza e inducono quelle stesse persone buone a compiere azioni malvagie, contrarie ai loro e ai nostri principii. Gli inganni del caso - In alcuni casi essi sono ingannati dal caso, in altri agiscono malamente ma non intenzionalmente, altri, ancora, non agiscono affatto e la loro unica colpa è la sola omissione. Ma la vera essenza del conflitto tragico si trova in quelle situazioni nelle quali, al contrario, il male è agito senza costrizione, volontariamente e coscientemente ma sempre in circostanze lo rendono, in qualche modo, inevitabile. Nella poesia di Eschilo, il primo tragico, questo è particolarmente evidente. Si pensi ad Agamennone, protagonista della prima delle tre opere del ciclo dell’Orestea, che sceglie di sacrificare la figlia Ifigenia per placare l’ira di Artemide e propiziare la partenza alla volta di Troia, della flotta achea, che la dea aveva inchiodato in Aulide con un’interminabile bonaccia. Il sacrificio di una figlia - Sacrificare la più bella delle figlie o lasciare languire la flotta in balia dell’ira degli dèi? Queste sono le alternative che si pongono ad Agamennone. Ognuna delle quali produce conseguenze malvage, genera conseguenze nefaste; eppure, non si può non scegliere. Qual è, dunque, il posto della giustizia in questo contesto tragico? È possibile trovare una saggia guida in simili circostanze? Secondo non pochi filosofi, da Socrate a Kant, fino a Sartre, la risposta a tale quesito è negativa. Per questo, spesso, la tragedia eschilea viene considerata primitiva da un punto di vista filosofico, basata, com’è su dilemmi che un’etica sofisticata sarebbe in grado di sciogliere facilmente. Sentiamo Socrate, per esempio, affermare nell’Eutifrone, che le storie dove si oppongono due pretese di diritto ripugnano alla ragione proprio perché affermano una contraddizione e le cose non possono essere “sante” e “non-sante” allo stesso tempo. Il dilemma etico che affiora - In casi come questi, continua Socrate, dove emerge un dilemma etico su ciò che è appropriato e ciò che non lo è appare razionale, e sempre possibile, cercare di scoprire quale delle due posizioni è quella corretta. Solo una delle due, infatti, può, in fin dei conti, essere vera e, per questo, l’altra sarà necessariamente falsa. Socrate raggiunge questa conclusione attraverso una sorta di ragionamento “per assurdo”. Se gli dèi, infatti, imponessero ai mortali richieste tra loro conflittuali, posto il dovere da parte degli uomini di onorare la volontà di tutti gli dèi, si dovrebbe giungere all’inaccettabile conclusione che alcuni dèi si trovano in una situazione di errore e per questo esercitano pretese ingiustificate nei confronti dei mortali. Per questo Socrate conclude con l’invito ad Eutifrone a considerare come obbliganti solo quelle richieste sulle quali gli dèi sono unanimemente concordi. Una filosofia primitiva per alcuni - Ecco, dunque, perché situazioni “tragiche” come quelle che troviamo in Eschilo appaiono agli occhi di molti interpreti manifestazioni di una filosofia primitiva e di un pensiero ancora incapace di manifestare un pieno sviluppo della razionalità. Il tema arriva, attraverso altri autori fino alla modernità. Jean-Paul Sartre ci presenta in L’esistenzialismo è un umanismo (Mursia, 2016) un tipico esempio di conflitto morale. Un giovane deve scegliere tra l’obbligo di provvedere all’anziana madre e la spinta a partire per l’Inghilterra per unirsi alle forze della Resistenza francese e lottare per la sua nazione. Situazioni come queste rappresentano per Sartre solo apparentemente dei dilemmi tragici; sono, piuttosto, dei finti problemi, dei problemi in cui rimangono impigliati solo i “vigliacchi” e i “mascalzoni”, come li definisce Sartre. Secondo una prospettiva comune i due “fini in sé” - l’assistenza alla madre e la difesa della Patria - rischiano di essere trasformati in “mezzi”: l’abbandono della madre è il “mezzo” grazie al quale diventa possibile difendere la patria così come rinunciare ad unirsi alla Resistenza diventa il “mezzo” per poter prendersi cura della madre. La libertà nascosta - Ma questa visione è colpevole, secondo Sartre, di nascondere la radicale libertà dell’essere umana. “Quelli che nasconderanno a sé stessi, seriamente o con scuse deterministe, la loro totale libertà, io li chiamerò vigliacchi; gli altri che cercheranno di mostrare che la loro esistenza è necessaria, mentre essa è la contingenza stessa dell’apparizione dell’uomo sulla terra, io li chiamerò mascalzoni”. Per questo, conclude sempre Sartre, possiamo affermare che “L’uomo è condannato a essere libero”. Per Richard Hare i dilemmi etici emergono non tanto da principi incoerenti tra di loro, quanto piuttosto, da principi etici mal formulati. Se affermiamo che “non mentire” sia un principio morale potremmo trovarci in una situazione nella quale la scelta di non mentire può produrre più male che bene. Il rispetto del principio morale - Pensiamo ad un prigioniero che in guerra è indeciso se rispettare il principio morale o violarlo, mentendo al nemico per proteggere i suoi compagni, per esempio. In casi come questi il problema nasce da una cattiva definizione dei principi morali stessi. La regola qui dovrebbe essere, infatti, “non mentire, eccetto che al nemico durante la guerra”, o qualcosa di simile. Come ci ricorda Kant, infatti, fa parte della nozione stessa di regola morale che essa non possa mai essere in contraddizione con un’altra regola morale. Nonostante queste possibili “soluzioni”, il dilemma di Agamennone che si trova dilaniato dalla necessità di scegliere tra la vita della figlia o la distruzione della flotta continua a far risuonare in noi delle note profonde che generano un’angoscia che né la libertà radicale di Sartre, né l’igiene sintattica di Hare sono in grado di chetare. “Percossero gli Atridi con lo scettro la terra e non frenarono il pianto (…) Mala sorte è la mia se obbedienza rifiuto, mala sorte se la figlia sacrifico, splendore della mia casa, e qui, presso l’altare, nei fiotti della vergine sgozzata, contamino le mie mani paterne. Quale delle due sorti è peggiore?”. Come Agamennone anche noi proveremmo la stessa rabbia e una simile disperazione. La reciprocità del contraccambio - La strategia della giustizia poetica di Eschilo sceglie allora un’altra strada. Fa usciere Agamennone dal dilemma attraverso l’esercizio della sua volontà e mette in scena l’azione della giustizia attraverso la reciprocità del “contraccambio”, della vendetta che ristabilisce l’equilibrio alterato dalla tragedia. La volontà, intanto: Agamennone sceglie di sacrificare la figlia e una volta determinata tale scelta questa smette di essere ragione di angoscia, e diventa, al contrario, la cosa giusta da fare. “Plachi il sacrificio i venti e sgorghi il sangue della vergine. È giusto e santo (themis) che questo io desideri con furore. E così sia bene”. Non solo, dunque, Agamennone non appare più dilaniato dalla scelta, ma assume un atteggiamento di fierezza proprio grazie ad essa. La filosofa americana Martha Nussbaum sottolinea chiaramente questo elemento: “L’atteggiamento verso la decisione muta dopo che essa viene presa. L’ottimismo di Agamennone - Dalla constatazione che un grave destino lo aspetta in ogni caso e che entrambe le alternative implicano un male Agamennone è passato ad un particolare ottimismo: se la soluzione scelta è la migliore, tutto ora potrà andare bene. Un atto che saremmo pronti a considerare come il crimine minore tra due orribili empietà diventa ora per Agamennone pio e giusto, come se egli, attraverso una qualche strategia della decisione, avesse risolto il conflitto e si fosse sbarazzato dell’altra ‘mala sorte’ (…). Agamennone sembra in primo luogo pensare che, se egli ha deciso in maniera giusta, l’azione scelta deve essere giusta; e, in secondo luogo, che se un’azione è giusta, è appropriato volerla, addirittura provare entusiasmo per essa” (La fragilità del bene. fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca. Il Mulino, 2004). Questo entusiasmo non risparmierà ad Agamennone e agli Atridi, la sua stirpe, una fine terribile. Arriverà il “contraccambio” che avvolgerà tutti i protagonisti in una spira di vendette. Se è vero, infatti, che egli partirà con il favore dei venti alla volta di Troia al comando della flotta degli Achei, al suo ritorno, vittorioso, verrà però ucciso dalla moglie Clitemnestra - “Per la Giustizia di mia figlia che trova compimento” - con la complicità di Egisto divenuto suo amante e usurpatore del trono. Ma anche questa empietà non potrà rimanere impunita: “Ripagare il nemico con mali, come potrebbe non essere pio?” risponde il Coro ad Elettra, figlia di Agamennone, che invoca infatti “padre, un tuo vendicatore, e che chi uccise muoia in cambio con giustizia”. La vendetta del figlio - Sarà il fratello Oreste a vendicare il padre uccidendo i congiurati Clitemnestra ed Egisto. Come ci ricorda Anna Jellamo “La legge del contraccambio impone la vendetta. Legge antica […] provvista del carattere della sacralità: si riteneva che la vendetta del familiare ucciso preservasse dalle sofferenze che lo spirito del defunto avrebbe altrimenti inviato sulla terra, per vendicarsi a sua volta della mancata riparazione” (Il cammino di dike L’idea di giustizia da Omero a Eschilo. Donzelli, 2005, p. 125). Eppure, la vendetta di Citemnestra e quella di Oreste non stanno sullo stesso piano. La prima è condannabile perché arriva a punire per ragioni familiari una scelta tragica compiuta in ossequio ad un dovere pubblico; la seconda, al contrario, ripara a questa ingiustizia ristabilendo un ordine perturbato da considerazioni squisitamente private per quanto gravi: l’uccisione di una figlia. Non è un caso che Clitemnestra venga descritta con toni oscuri, non tanto come la madre violata, ma come l’assassina fedifraga del marito eroe. La giustizia riparata spezza il ciclo del “contraccambio” e non solo pone fine alla faida dagli Atridi, ma li libera da una rete di crimini da cui sembrava impossibile potessero districarsi. “L’esperienza del conflitto può essere anche un’occasione di apprendimento e di sviluppo - continua la Nussbaum. […] Casi gravi come questi, se ci si impegna veramente a vederli e a esperirli, possono portare anche un progresso oltre al dolore, un progresso che nasce dalla maggiore conoscenza di sé e del mondo. Uno sforzo onesto di rendere giustizia a tutti gli aspetti di un caso difficile, considerandolo e provandolo in tutti i suoi molteplici aspetti, può arricchire i futuri sforzi deliberativi” (2004). La saggezza attraverso la sofferenza - Il pathei mathos (la saggezza attraverso la sofferenza) eschiliano diventa non solo massima individuale, ma dinamica collettiva e civile. Quando nell’ultimo atto della trilogia, Le Eumenidi, incontriamo Oreste che dopo il matricidio di reca a Delfi ad invocare la protezione di Apollo, questi lo invia ad Atene, promettendogli la benevolenza di Pallade Atena la quale troverà una via per eliminare la sua colpa e spezzare la sete di vendetta delle Erinni che considerano Oreste una loro vittima designata. Atena accoglie Oreste e, dopo aver ascoltato le testimonianze di entrambe le parti lo assolve dalla sua colpa e, per così dire, istituzionalizza, questo perdono attraverso la fondazione del tribunale dell’Areopago, organo al quale viene demandato, da quel momento in poi, il dovere di giudicare in maniera imparziale su casi simili. Così giustizia e vendetta vengono definitivamente separate l’una dall’altra sotto l’occhio vigile e autorevole di Atena ma, e qui la novità non può essere più radicale, con la responsabilità condivisa di un collegio di giurati. La civiltà della giustizia - Un passo decisivo verso ciò che per la nostra sensibilità si distanzia dalla barbarie del “contraccambio” e più si avvicina alla civiltà della giustizia equanime e impersonale. “La città savia non permette che la punizione di queste situazioni continui all’infinito (…) non sarà più permesso che la colpa scenda senza limiti tra le generazioni” (Nussbaum, 2004). La poesia di Eschilo non ci mostra “la soluzione” al dilemma tragico ma, piuttosto, la profondità del dilemma stesso. La soluzione è dunque quella di riconoscere la tragicità di certe scelte e la constatazione che queste, a volte, non hanno nessuna via d’uscita possibile. Giornata mondiale della giustizia sociale: l’Onu presenta un piano per abbattere le disuguaglianze di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 20 febbraio 2023 Oggi l’iniziativa al Palazzo di Vetro di New York. Circa metà della popolazione mondiale non ha alcun accesso alla protezione sociale. E in troppi Paesi avere un lavoro non garantisce la possibilità di uscire dalla povertà. Almeno su una cosa, a parole, siamo tutti d’accordo: le disuguaglianze e l’esclusione di larghe componenti della nostra società dal benessere, e dall’accesso agli strumenti che lo favoriscono come l’istruzione o la sanità, sono alla radice del malcontento che poi genera i mostri del populismo. Altro discorso, però, è poi muoversi per fare qualcosa di concreto per porre rimedio al problema. Anche perché ormai quando qualcuno ci prova, quando nella nostra società si cerca semplicemente di fare la cosa giusta sulla base dei dati di fatto, o peggio ancora delle evidenze scientifiche, si viene subito tacciati di arroganza, supponenza, ridicola correttezza politica. Va perciò assai controcorrente il World Day of Social Justice, organizzato oggi all’Onu. L’evento nell’aula dell’Ecosoc è stato promosso dalla missione della Repubblica del Kirghizistan al Palazzo di Vetro e dall’International Labour Organization, in collaborazione con l’International Telecommunication Union, la United Nations Conference on Trade and Development e l’UN Department of Economic and Social Affairs. Gli onori di casa li fanno la vicesegretaria generale Amina Mohammed e il direttore generale dell’Ilo Gilbert Houngbo. Il titolo è “Overcoming Barriers and Unleashing Opportunities for Social Justice”, ossia abbattere le barriere e squinzagliare le opportunità per la giustizia sociale. Si basa sulle raccomandazioni della “Our Common Agenda” presentata dal segretario generale António Guterres, allo scopo di rafforzare la solidarietà globale e ricostruire la fiducia nei governi, proprio eliminando gli ostacoli che impediscono a troppe persone di realizzare le proprie potenzialità. La nota concettuale dell’iniziativa spiega che “oggi la maggior parte dei lavoratori non ha recuperato i redditi da lavoro pre pandemia, e il divario di genere nelle ore lavorate ha continuato a crescere”. Quindi sottolinea gli effetti negativi di fenomeni come l’inflazione, peraltro acuiti dalla guerra insensata che ha scatenato l’autocrate russo Putin: “L’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e delle materie prime ha un impatto sproporzionato sulle famiglie povere e sulle piccole imprese, in particolare quelle dell’economia informale. Circa la metà della popolazione mondiale rimane senza alcun accesso alla protezione sociale. E in troppi luoghi avere un lavoro non garantisce la possibilità di uscire dalla povertà. Una continua mancanza di opportunità di lavoro dignitoso, investimenti insufficienti nella politica sociale e un consumo eccessivo di risorse naturali, hanno portato a un’erosione della fiducia e ad un contratto sociale sfilacciato in molti Paesi”. Il problema non è nuovo: “Anche prima della pandemia, c’era una crescente preoccupazione per gli effetti negativi di livelli elevati e crescenti di disuguaglianza, e il riconoscimento della necessità di un’azione urgente e decisiva per ridurli e garantire una crescita più inclusiva che fornisse opportunità di lavoro dignitoso per tutti. Il divario digitale e le interruzioni del commercio globale e delle catene di approvvigionamento rischiano di aggravare ulteriormente le disuguaglianze e la povertà. Le donne e i giovani sono colpiti in modo sproporzionato dalla sovrapposizione di crisi, disoccupazione e insicurezza socioeconomica, e devono affrontare molti ostacoli nell’accesso a un lavoro dignitoso”. Il World Social Report pubblicato da Undesa aggiunge il dramma dell’invecchiamento della popolazione mondiale, perché “il numero delle persone sopra i 65 anni raddoppierà nei prossimi tre decenni, arrivando a 1,6 miliardi nel 2050, quando gli anziani rappresenteranno oltre il 16% della popolazione globale”. Per cercare i rimedi, il World Day of Social Justice propone di rispondere a tre domande chiave. Prima: “Quali sono le principali strozzature e sfide per superare le crescenti disuguaglianze, i deficit di lavoro dignitoso, compresa la mancanza di accesso alla protezione sociale, l’esclusione digitale e l’interruzione del commercio?”. Seconda: “Quali sono le opportunità nell’economia verde e digitale, per ridurre le disuguaglianze e promuovere la giustizia sociale, in particolare per i giovani?”. Terza: “Quali azioni sono necessarie ai governi, al sistema delle Nazioni Unite, alle istituzioni finanziarie internazionali, alle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, alla società civile e ad altre parti interessate per aumentare gli investimenti per la giustizia sociale?”. Nella speranza che tutti si mettano in buona fede a cercare le risposte. L’Italia costretta a fare i conti con la piaga dell’abbandono scolastico di Livia Ermini La Repubblica, 20 febbraio 2023 “Non c’è possibilità di sviluppo in un Paese che ha percentuali di dispersione scolastica intorno al 20%. Un ragazzino che si perde e finisce in circuito penale costa allo Stato quattro volte di più di quello che costerebbe se fosse inserito in un programma di recupero scolastico”. È lapidario il giudizio di Andrea Morniroli sull’istruzione in Italia. Come coordinatore, insieme a Fabrizio Barca, del Forum delle disuguaglianze e diversità, l’organismo per l’equità che fa incontrare mondo della ricerca e cittadinanza attiva, Morniroli indica nella situazione della scuola il vulnus della mancata crescita del Paese. Puntando il dito sulla politica tutta. “La povertà educativa incide sul Pil del paese intorno al 4%” prosegue riportando l’attenzione sul primo punto della lista di 15 proposte lanciate in passato dal Forum per “soccorrere” istituzioni e governanti nel cammino verso la giustizia sociale: “La conoscenza come bene pubblico globale”. E dunque a che punto siamo sull’attuazione delle proposte? “Il clima politico generale non è attento a queste tematiche. Ma mentre a livello locale, su alcuni terreni come transizione ecologica o piattaforma di lavoro dei rider, si riescono a trovare modi di interloquire, rimane una distanza netta con la politica nazionale trasversale a tutti gli ultimi governi. Le cose migliore che stanno capitando sul paese sono governate da amministratori locali, associazioni profit a no profit”. Intanto ci si divide sul reddito di cittadinanza, visto da taluni come opportunità per risalire la china per i ceti più deboli e da altri come mero strumento di consenso elettorale e di “sostegno” all’indolenza. “I primi segnali che arrivano dal governo Meloni su disuguaglianze e povertà - prosegue l’esperto - non rassicurano. Le indicazioni della ultima legge di bilancio penalizzano i poveri come se essere poveri fosse una colpa. Togliere il reddito cittadinanza, ad esempio, apre uno scenario pericolosissimo. Con la crisi disuguaglianze e povertà sono cresciute, le persone hanno ansia di arrivare non a fine mese, ma a fine giornata; se le lascio da sole è finita. Il problema non è il reddito ma che ci sia lavoro precario, nero e povero così diffuso. E’ normale che a un ragazzo venga proposto uno stipendio a tempo determinato di 400 euro al mese? Lo si costringe a scegliere il reddito” Addio ascensore sociale - Nel nostro Paese davvero l’ascensore sociale è fermo. E dunque, oltre al lavoro e alla possibilità di compiere studi all’estero, negli strati più disagiati della popolazione anche l’indigenza si trasferisce da padre in figlio. Secondo l’ultimo Rapporto Caritas, la povertà intergenerazionale ha caratteristiche ben precise. La mobilità sociale funziona prevalentemente per chi proviene da famiglie di classe media e superiore; gli altri invece rimangono attaccati ai cosiddetti “sticky grounds e sticky ceilings” pavimenti o soffitti appiccicosi da cui non c’è possibilità di staccarsi per migliorare. Il rischio dunque di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità, è di fatto molto alto. Ma, oltre al reddito, si eredita anche e il livello di istruzione. I poveri provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti e sono proprio i figli di queste persone a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare. Tra i figli di persone con la laurea invece, oltre la metà arriva ad un diploma di scuola media superiore o alla stessa laurea. Nessuna uguaglianza senza istruzione - È l’istruzione la leva più efficace per ridurre le disuguaglianze e costruire società eque. Ma purtroppo i più giovani, complice la pandemia, hanno visto diminuire le proprie competenze e limitare le attività legate allo sviluppo relazionale. Il ricorso obbligato alla didattica a distanza e a quella integrata ha comportato difficoltà sia per le scuole che per gli studenti e ha generato ulteriori differenze tra territori e ordini scolastici. “Altro che scuola del merito - incalza Morniroli - A 50 anni da Don Milani la povertà educativa, esplicita e implicita, aumenta. Oltre a ragazzi che lasciano la scuola ma ci quelli che non raggiungono competenze di base per trovare lavoro. E fra tutti raggiungono percentuali medie del 10%, 17% mezzogiorno e addirittura 22% in Sicilia. Oltre al fatto grave che il 90% di questi sono i figli dei figli dei poveri. La scuola rinuncia a esser ascensore sociale, alla sua funzione di rimuovere ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana. Invece di tagliare la spesa alla scuola per il calo demografico bisognerebbe portarla almeno alla media europea. Servono azioni di prevenzione dell’abbandono: allungare il tempo pieno su tutto territorio nazionale, attuare la co-presenza degli insegnanti. Quello che non si capisce è che disinvestire sulla scuola, sul welfare e sul contrasto alla povertà non solo non è morale ma non nemmeno è conveniente dal punto di vista economico”. “La pace europea passa dalla giustizia sociale. Un dovere salvare i migranti in mare” di Claudio Tito La Repubblica, 20 febbraio 2023 Dalli, commissaria Ue all’Uguaglianza: “La crisi ambientale e climatica e il cambiamento demografico contribuiscono ad abbassare il livello di attenzione sui diritti umani, rappresentando una nuova minaccia per la realizzazione dell’uguaglianza”. Anche la pace in Ucraina passa per la giustizia sociale. La Commissaria Ue all’Uguaglianza, Helena Dalli, in occasione della giornata mondiale della Giustizia sociale ribadisce che anche la soluzione per la guerra voluta dalla Russia deve considerare il rispetto dei diritti. A cominciare da quelli dei migranti che scappano dall’orrore del conflitto ma anche di quelli che fuggono dalla povertà: “Salvarli in mare non è un diritto, ma un dovere”. Oggi si celebra con l’Onu la giornata internazionale della giustizia sociale. Quali sono gli impegni dell’Unione europea? “Il tema della giustizia sociale è strettamente connesso con quello dell’uguaglianza, dell’accessibilità e dell”inclusione sociale e riguarda tutte le persone, in particolare quelle all’interno delle comunità più svantaggiate e discriminate. Il mondo sta cambiando rapidamente, la crisi ambientale e climatica e il cambiamento demografico contribuiscono ad abbassare il livello di attenzione sui diritti umani, rappresentando una nuova minaccia per la realizzazione dell’uguaglianza. Occorre quindi affrontare e riparare queste ingiustizie attraverso politiche adeguate. All’interno dell’Ue, lavoro insieme ai partner coinvolti per costruire un’unione dell’uguaglianza. Sul tema della disabilità, ad esempio, non è solo nostro dovere morale, ma anche un adempimento giuridico quello di garantire che le persone con disabilità siano in grado di partecipare attivamente nelle nostre società. A questo proposito, abbiamo adottato una strategia per i diritti delle persone con disabilità che si pone l’obiettivo di coordinare e accelerare i progressi finora raggiunti affinché le persone con disabilità possano considerarsi attive e godere di tutti i loro diritti. Alla fine dell’anno presenteremo la nuova Carta europea della disabilità che sarà applicata in tutti i Paesi membri. La Carta permetterà alle persone con disabilità di ottenere più facilmente un sostegno adeguato quando viaggeranno o si trasferiranno in un altro Paese dell’Unione europea. Di recente abbiamo adottato la European Care Strategy per garantire adeguati servizi di assistenza accessibili in tutta l’Unione europea e migliorare la condizione degli assistiti e delle persone che se ne prendono cura, sia per professione che a livello familiare. La nostra iniziativa vuole garantire un diritto assistenziale, in particolar modo per le donne, affinché abbiano un’opportunità di scelta e potere coniugare la vita professionale con quella privata. Un’assistenza economica di qualità e la sua accessibilità universale garantisce ad ognuno il godimento di tutti i diritti. In questo senso scegliere d’investire nell’assistenza significa garantire parità di scelta, promuovere la dignità e incentivare l’autodeterminazione”. Parlare di giustizia sociale mentre è in corso una guerra alle porte dell’Unione non è un controsenso? “La pace non è solo l’assenza di guerra ma molto più, e la giustizia sociale ne è davvero un elemento chiave. La vera pace può esistere solo quando le persone sono fiduciose nel loro futuro, si fidano l’una dell’altra e lavorano insieme per il bene comune. L’Unione europea è il simbolo di questo corollario: perpetua la pace tra le nazioni e sostiene la pace tra i popoli. La guerra in Ucraina ci spinge a ribadire con più forza che la protezione sociale e i diritti sociali in Europa devono essere ancora più garantiti. Il nostro aiuto è essenziale per affrontare l’ingiustizia sociale. Milioni di persone stanno cercando rifugio dalla guerra in Russia sia nella Ue che nei paesi limitrofi, la maggior parte di questi sono bambini e donne. È necessario garantire loro un alloggio e un riparo sicuro, assicurando il loro l’accesso nell’Unione indipendentemente dalle caratteristiche personali. L’Ue continuerà a offrire speranza e opportunità”. Anche l’emergenza migratoria in effetti va connessa ai diritti. Cosa può fare l’Europa per garantirli? “In materia di asilo e visto il diritto internazionale, gli Stati membri devono rispettare pienamente gli obblighi previsti dall’acquis, compresa la garanzia dell’accesso alla procedura di asilo. Per quanto riguarda la gestione efficiente delle frontiere, questa deve essere rispettosa dei diritti fondamentali, compresa la dignità umana e il principio di non respingimento. La Commissione si aspetta che le autorità nazionali indaghino su eventuali respingimenti e accuse di violenza, al fine di stabilire i fatti e dare un seguito adeguato a qualsiasi illecito, se identificato”. Salvare essere umani in mare è un diritto o un dovere? “Un dovere. Esistono dei dispositivi di legge internazionale ed europea che sanciscono chiaramente il dovere di soccorso a garanzia della sicurezza della vita in mare, indipendentemente dalle situazioni che hanno causato la messa in pericolo delle persone a mare”. Tra pochi giorni sarà anche la Festa della Donna, l’8 marzo. Lei ha in programma un intervento specifico della Commissione sulla parità di genere? “Andrò a Roma per discutere insieme ai parlamentari, ministri ed esponenti delle organizzazioni della società civile sulla situazione dell’emancipazione economica delle donne. Nonostante i progressi dell’ultimo decennio, il tasso di occupazione femminile nonché i livelli retributivi delle donne sono ancora inferiori rispetto a quelli degli uomini. Le donne continuano a essere fortemente sottorappresentate nei contesti decisionali, soprattutto nelle funzioni dirigenziali e nei consigli di amministrazione aziendali”. Su questo versante cosa manca all’Unione europea? “Per continuare sul tema dell’uguaglianza nel mercato del lavoro, sappiamo che la parità di retribuzione tra donne e uomini è sancita dai Trattati dell’Unione europea da più di sessanta anni, ma non è ancora una realtà consolidata. Non possiamo continuare ad accettare tacitamente queste discriminazioni. Ecco perché a marzo del 2021 abbiamo adottato una nuova proposta per una Direttiva europea sulla trasparenza salariale che introduce misure vincolanti. È una questione di equità e giustizia sociale e ne trarrebbe beneficio anche il comparto economico in quanto migliori condizioni di lavoro comportano maggiore attrattività e maggiore affluenza delle donne nel mercato del lavoro”. Quali sono i Paesi più indietro nel garantire la parità di genere? “Anche se ci sono stati dei passi in avanti in tutta Europa, tutti i Paesi dell’Ue devono compiere ulteriori passi legislativi e politici per raggiungere l’uguaglianza tra uomo e donna. Sono lieta di riscontrare una sempre più crescente e diffusa consapevolezza sulla necessità di impegnarsi ulteriormente su questo fronte. Maggiore uguaglianza significa società più resilienti e integrate”. Un’altra priorità è quella della lotta contro le violenze sulle donne... “Solo lavorando sodo per un’Europa libera e senza violenza, possiamo pensare che le donne riusciranno a liberarsi da quegli schemi che le ostacolano e le allontanano dalla completa realizzazione di loro stesse e dalla possibilità di potere attuare concretamente la massima espressione delle loro capacità nell’arco della loro intera vita. Questa diffusa violazione dei diritti fondamentali deve essere affrontata con urgenza con l’applicazione degli standard minimi di sicurezza comuni in tutta Europa. Pertanto, abbiamo presentato un’iniziativa legislativa contro la violenza sulle donne e contro la violenza domestica. La Direttiva prevede di attuare misure concrete e specifiche per la prevenzione, protezione, sostegno e accesso alla giustizia delle vittime oggetto di violenza. Le norme proposte riguardano lo stupro, la mutilazione genitale femminile e la violenza informatica, compresa la diffusione non consensuale di materiale intimo. Garantiremo alle vittime l’accesso alla giustizia e incoraggeremo gli Stati membri ad attuare l’istituzione di uno sportello unico che possa concentrare in un unico luogo tutti i servizi di sostegno e di protezione alle vittime. È fondamentale che questa Direttiva possa essere approvata dal Parlamento europeo e adottata dagli Stati membri in tempi brevi ed entrare così in vigore senza indugio”. Il divario occupazionale tra uomini e donne è lentamente diminuito dal 12,9% nel 2011 all’11,3% nel 2020. Quali sono gli impegni dell’Unione europea su questo terreno? “Sto lavorando a stretto contatto con tutti gli Stati membri per garantire che la Direttiva sull’equilibrio tra attività professionale e vita privata - entrata in vigore nell’agosto dell’anno scorso - venga adottata correttamente. Dopo l’esperienza della pandemia da coronavirus, diventa sempre più urgente garantire alle famiglie il diritto all’accesso ai congedi familiari, incentivare le modalità di lavoro flessibile, al fine di ristabilire l’uguaglianza sia nel mondo del lavoro che in quello della vita privata. Questa Direttiva va messa in relazione alla Care Strategy che abbiamo menzionato prima. Un’altra mia priorità è quella di promuovere la leadership delle donne e la loro rappresentanza nei consigli di amministrazione. In Europa, i progressi continuano a essere lenti e diseguali. Ecco perché l’adozione della direttiva “Women on Boards” bloccata in Consiglio dal 2012 è stata una priorità e accolgo con favore l’accordo trovato a fine dell’anno scorso. Entro il 2026, le aziende dovranno avere fra gli amministratori non esecutivi almeno il 40% del sesso sottorappresentato o il 33% tra tutti gli amministratori”. Migranti. Lampedusa, hotspot al collasso. E con il tempo in peggioramento è allarme naufragi di Alessia Candito La Repubblica, 20 febbraio 2023 Con il Mediterraneo svuotato di navi di soccorso, approfittando di una finestra di bel tempo in migliaia hanno raggiunto l’isola. I trasferimenti non reggono il ritmo degli arrivi e il centro di contrada Imbriacola è saturo. Finiti anche kit e vestiti. Aperta un’inchiesta sulla morte di una donna spedita in hotspot dopo l’arrivo sul molo Favaloro. “Speriamo che il vento non salga ancora”. Quando già è sera sul molo Favaloro di Lampedusa, chi ha imparato a leggere in mare e elementi il volume degli arrivi e le probabili condizioni dei naufraghi è preoccupato. Dopo giorni di bel tempo, il vento ha cominciato a soffiare capriccioso e se sull’isola questo vuol dire un brivido in più e una sciarpa per chi aspetta sul molo, per chi è in mare vuol dire rischio, vuol dire morte. Chi uno o più giorni fa ha lasciato le coste libiche o tunisine potrebbe essere stato sorpreso in mezzo al mare da un improvviso peggioramento delle condizioni meteo, che sulle precarie imbarcazioni - “unfit to sail”, non programmate per la navigazione, afferma l’Oim - su cui i trafficanti di uomini li piazzano- significa rischiare concretamente di perdere la vita. Lo sanno i volontari che da giorni non lasciano il molo, i medici che si sono dimenticati dei turni e sognano di avere almeno il tempo per un pasto seduti a tavola. Non c’è tempo, non c’è margine.Quando la sera è appena scesa, le motovedette di Finanza, Capitaneria, persino di Frontex sono tutte in pattugliamento. Segno che nella notte o all’alba, quando tinozze e canotti su cui ci si imbarca diventano appena distinguibili sulla linea dell’orizzonte, ci saranno altri disperati da salvare, soccorrere, assistere. Con il Mediterraneo svuotato di navi di soccorso per chi fugge dalla sponda Sud Lampedusa è il primo porto sicuro. L’approdo necessario per chi parte su una tinozza spinta da un motore asmatico di qualche decina di cavalli. E non sono stati mai così tanti come negli ultimi giorni. Alle diciotto di domenica, quando in 589 si mettono in fila per imbarcarsi sulla nave di Diciotti che ventiquattro ore dopo è attesa a Reggio Calabria, ne sono arrivati altrettanti, subito destinati all’hotspot di contrada Imbriacola. Stracolmo. Sono in 2.200 dice l’ultima stima. Ma sono numeri approssimativi, che cambiano ogni ora, al ritmo di arrivi e trasferimenti. Nel giro di poco più di un giorno sono partite più di mille persone. Ma la struttura è piena, i cenciosi materassi che i naufraghi buttano a terra per avere qualche ora di tregua dopo la traversata non bastano più. Sono finiti i kit, i vestiti asciutti. Chi arriva con un po’ di cenci bagnati addosso deve solo sperare che il tempo sia clemente e si asciughino in fretta. C’è la parrocchia che dà una mano e mette a disposizione quello che ha e persino il poliambulatorio, che agli ustionati dà la tuta bianca che usano i sanitari. “Almeno è pulita e asciutta”, masticano amaro i sanitari. Nel centro di contrada Imbriacola saturo di sopravvissuti al mare, è il caos. I bagni sono pochi, le docce non bastano neanche per un quarto degli ospiti, il cibo chissà. Donne, bambini, ragazzini che viaggiano da soli di contendono i pochi spazi disponibili. All’interno si sopravvive. L’hotspot - una manciata di grigie palazzine lontane dal paese, circondate da una gabbia e monitorate dall’esercito lungo tutto il perimetro - è un girone infernale dove per tutto bisogna battagliare, persino per far sapere di stare male. Una donna forse non ha fatto neanche in tempo a farlo. È sopravvissuta alla traversata, non stava bene ma è stata giudicata in condizioni sufficientemente buone da andare al centro di contrada Imbriacola. È morta lì per cause che un’inchiesta dovrà accertare. È la terza vittima in pochi mesi. Una bambina prima, un trentenne poi - morti uno dopo l’altro nel centro - sono oggi diventati casi giudiziari su cui tocca alla procura di Agrigento indagare. E adesso c’è un nuovo fascicolo aperto sulla cooperativa Badia Grande che gestisce la struttura, già diventata di interesse investigativo per “gravi criticità e inadempienze” rispetto al capitolato d’appalto. Di recente, indiscrezioni davano per vicinissimo un cambio di guardia. Finita sotto inchiesta o sotto processo in troppi tribunali per la mala gestio delle strutture che in tutta Italia le sono state affidate, Badia Grande da tempo è data pronta all’uscita dalla gestione del centro. Ma nel frattempo ci sono migliaia di persone costrette a combattere per sopravvivere dopo aver rischiato la propria vita su una tinozza in mezzo al mare. E neanche trasferimenti massicci bastano a garantire a chi resta condizioni di vita dignitose. Migranti. La Iuventa denuncia lo Stato: “La nave in sua custodia ora è distrutta” di Davide Varì Il Dubbio, 20 febbraio 2023 L’equipaggio della Iuventa ha presentato una denuncia alla Procura di Trapani il 13 febbraio scorso per sollecitare un’indagine in merito all’abbandono e al deterioramento della nave di soccorso Iuventa. Componente essenziale della flotta civile del soccorso in mare, la Iuventa è stata attiva ininterrottamente fino al suo sequestro nell’estate del 2017. L’equipaggio ha salvato più di 14.000 persone in pericolo. Oggi, dopo quasi 5 anni in custodia forzata presso la Capitaneria di Porto di Trapani, la Iuventa giace abbandonata, saccheggiata e in gran parte distrutta. Al momento rischia di affondare, rappresentando una vera e propria minaccia per l’ambiente. La relazione che ha fatto seguito all’ispezione tecnica effettuata nell’ottobre 2022, commissionata dagli armatori della nave e autorizzata dal gip di Trapani, indica che “una volta a bordo è evidente che la nave si trova in uno stato di totale abbandono dalla data del sequestro” poiché “non è stata effettuata alcuna manutenzione ordinaria o straordinaria”. Secondo il rapporto agli atti, c’è il rischio che parti essenziali della nave non siano più in funzione, mentre altre sono state rubate. In seguito a questa indagine, il gip di Trapani ha ordinato, l’8 dicembre scorso, la riparazione e la manutenzione della nave Iuventa. “L’omessa custodia secondo la legge italiana è reato - commenta Nicola Canestrini, avvocato della Iuventa -. Ci attendiamo un’indagine approfondita che stabilisca se e chi non ha adempiuto al proprio dovere di preservare la perfetta funzionalità della nave di soccorso sequestrata dalle autorità, ormai in stato di completo abbandono”. La Capitaneria di Porto di Trapani è responsabile della custodia della nave e in quanto tale avrebbe dovuto provvedere a una sorveglianza adeguata. Tuttavia, la nave è stata lasciata totalmente incustodita, in particolare dopo il suo trasferimento al di fuori di un’area sicura del porto nella primavera del 2021. Le autorità erano a conoscenza di una serie di eventi in cui alcuni individui si sono introdotti a bordo dell’imbarcazione, commettendo furti e danni, mentre altri hanno addirittura vissuto all’interno della nave. I vandalismi e il deterioramento delle condizioni della nave sono stati denunciati più volte nel corso degli anni. Ciononostante, non sono state prese misure adeguate. “Con il sequestro della Iuventa, lo Stato Italiano non solo ha ridotto le capacità della flotta civile di soccorso in mare ma, abbandonando la motonave, ha distrutto un bene che avrebbe potuto salvare altre vite - sottolinea Sascha Girke, imputato della Iuventa -. Indubbia la connotazione politica di tali azioni; è un altro esempio del disprezzo per la vita delle persone in movimento e dell’ostinazione a impedirne la sopravvivenza. In un contesto in cui le politiche del governo e dello Stato italiano sono ossessionate dall’ostacolare le operazioni della flotta civile del soccorso in mare, violando direttamente e indirettamente i diritti fondamentali delle persone in movimento, compreso il diritto alla vita, consideriamo la confisca dei mezzi di soccorso e la loro distruzione parte della stessa strategia”. Dal sequestro della Iuventa, almeno 10.000 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale e più di 100.000 sono state intercettate e rapite dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Europa tra guerra e pace di Jürgen Habermas* La Repubblica, 20 febbraio 2023 Il filosofo Jürgen Habermas interviene sul conflitto in corso. “L’Occidente fornisce a buona ragione armi all’Ucraina, ma ne deriva una corresponsabilità”. La decisione di fornire carri armati Leopard era stata appena salutata come “storica” che già la notizia veniva superata - e relativizzata - da tonanti richieste di aerei da combattimento, missili a lungo raggio, navi da guerra e sottomarini. Le invocazioni d’aiuto, drammatiche quanto comprensibili, da parte dell’Ucraina invasa in violazione del diritto internazionale hanno trovato in Occidente l’eco prevedibile. Nuova è stata solo l’accelerazione del noto gioco delle richieste di armi più potenti sulla spinta dell’indignazione morale e il successivo upgrading delle suddette tipologie di armi regolarmente attuato seppure con esitazione. Anche in ambienti Spd si è sentito dire che non esistono “linee rosse”. Ad eccezione del cancelliere e del suo entourage, il governo, i partiti e la stampa quasi compatti prendono sul serio le parole incisive del ministro degli Esteri lituano: “Dobbiamo superare la paura di voler sconfiggere la Russia.” Dalla vaga prospettiva di una “vittoria”, che può voler dire qualsiasi cosa, qualsiasi ulteriore discussione circa l’obiettivo della nostra assistenza militare - e le sue modalità - deve cessare. Così il processo di armamento pare assumere una dinamica propria, certo sotto la spinta della fin troppo comprensibile insistenza del governo ucraino, ma alimentata qui da noi dal tono bellicoso di una “opinione pubblica” compatta, in cui l’esitazione e la riflessione di metà della popolazione tedesca non trovano espressione. O forse non del tutto? Attualmente stanno emergendo voci riflessive che non solo difendono la posizione del cancelliere, ma sollecitano anche una riflessione pubblica sulla difficile strada del negoziato. Se io mi unisco a queste voci è proprio perché è giusto affermare che l’Ucraina non può perdere la guerra. Il punto per me è il carattere preventivo di negoziati in tempo utile a impedire che una guerra lunga mieta ancora più vittime e distruzioni e ci ponga alla fine di fronte a una scelta obbligata: o entrare attivamente in guerra oppure, per non scatenare la prima guerra mondiale tra potenze dotate di armi nucleari, lasciare l’Ucraina al suo destino. La guerra prosegue, il numero delle vittime e l’entità delle distruzioni lievitano. La dinamica del sostegno militare da noi fornito per valide ragioni deve quindi spogliarsi del carattere difensivo perché l’obiettivo può essere solo la vittoria su Putin? La Washington ufficiale e i governi degli altri Paesi Nato sono stati d’accordo fin dall’inizio di fermarsi prima del point of no return - l’entrata in guerra. La titubanza di carattere palesemente strategico e non solo tecnico che il cancelliere Scholz ha riscontrato da parte del presidente americano già agli albori della fornitura di carri armati ha ribadito la premessa che sta alla base dell’appoggio occidentale all’Ucraina. Finora a preoccupare l’Occidente era il problema che sta solo alla leadership russa decidere da quale punto in poi considerare l’entità e la qualità delle forniture occidentali di armi alla stregua di un’entrata in guerra. Ma da quando anche la Cina si è dichiarata contraria all’impiego di armi nucleari biologiche e chimiche (ABC) questa preoccupazione è passata in secondo piano. Quindi i governi occidentali farebbero bene piuttosto a concentrarsi sul rinvio di questo problema. Nella prospettiva di una vittoria a tutti i costi l’incremento qualitativo delle nostre forniture di armi ha preso un abbrivio che potrebbe portarci più o meno senza accorgercene oltre la soglia di una terza guerra mondiale. Quindi ora non si dovrebbe “soffocare qualsiasi dibattito circa la fase del possibile passaggio dalla presa di posizione alla partecipazione effettiva, in base alla tesi che già solo conducendo un simile dibattito si fanno gli affari della Russia” (come ha scritto Kurt Kister nell’inserto culturale della Süddeutsche Zeitung del 11/12 febbraio 2023.) Diventa reale il rischio di aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso, perché l’alleanza occidentale non solo sostiene l’Ucraina, ma ribadisce instancabilmente che sosterrà il governo ucraino “per tutto il tempo necessario” e che la decisione circa tempi e obiettivi di possibili negoziati spetta esclusivamente al governo ucraino. Questa affermazione ha lo scopo di scoraggiare l’avversario, ma è incoerente e maschera differenze palesi. In primo luogo può ingannarci sulla necessità di avviare da parte nostra iniziative negoziali. Da un lato è ovvio che solo una parte coinvolta nel conflitto possa determinare il proprio obiettivo bellico e, in caso, i tempi dei negoziati. Però la capacità di resistenza ucraina dipende anche dal sostegno occidentale. L’Occidente ha propri legittimi interessi e obblighi. Quindi i governi occidentali agiscono in un contesto geopolitico più ampio e devono tenere in considerazione altri interessi oltre a quelli ucraini in questa guerra; hanno obblighi giuridici nei confronti delle esigenze di sicurezza dei propri cittadini e inoltre, indipendentemente da quelle che sono le posizioni della popolazione ucraina, hanno una responsabilità morale per le vittime e le distruzioni provocate con le armi fornite dall’Occidente; quindi non possono scaricare sul governo ucraino la responsabilità delle brutali conseguenze di un prolungamento delle ostilità, possibile solo grazie al sostegno militare offerto. Il fatto che l’Occidente debba prendere decisioni importanti e assumersene la responsabilità è dimostrato anche dalla situazione che più deve temere, ossia quella citata in cui una superiorità delle forze armate russe lo porrebbe di fronte all’alternativa di cedere o di entrare in guerra. Il tempo stringe per i negoziati anche per motivi più ovvi, come l’esaurimento delle riserve di personale e delle risorse materiali necessarie alla guerra. Il fattore tempo gioca inoltre un ruolo rispetto alle convinzioni e inclinazioni di ampia parte delle popolazioni occidentali. In questo contesto è troppo facile ridurre le posizioni sulla controversa questione della tempistica dei negoziati al semplice contrasto tra morale e interesse personale. Sono soprattutto morali le ragioni che spingono a porre fine alla guerra. Quindi la durata del conflitto influisce sui punti di vista delle popolazioni circa gli eventi bellici. Più la guerra si prolunga più è prevalente la percezione della violenza, particolarmente esplosiva nei conflitti moderni, determinando la visione del rapporto tra guerra e pace in generale. Questi punti di vista mi interessano in relazione al dibattito che si sta progressivamente avviando nella Repubblica Federale Tedesca sul razionale e la possibilità di negoziati di pace. Qui da noi già all’inizio del conflitto in Ucraina due modi diversi di percepire e valutare la guerra hanno trovato espressione nella disputa tra due vaghe ma discordanti formulazioni linguistiche: l’obiettivo delle nostre forniture di armi è che l’Ucraina “non perda la guerra” o piuttosto la “vittoria” sulla Russia? Questa differenza concettualmente ambigua ha ben poco a che fare con una presa di posizione pro o contro il pacifismo. Il movimento pacifista nato alla fine del diciannovesimo secolo ha politicizzato la dimensione violenta delle guerre, ma il vero punto non è il graduale superamento delle guerre come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, bensì il rifiuto totale di imbracciare armi. Pertanto il pacifismo non gioca alcun ruolo in questi due punti di vista, che si differenziano in base al peso attribuito alle vittime della guerra. È importante perché la sottile differenza retorica tra le espressioni “non perdere” e “vincere” la guerra non divide già i pacifisti dai non pacifisti. Oggi caratterizza infatti anche contrasti in seno a quella fazione politica che considera l’alleanza occidentale non solo legittimata, ma anche politicamente obbligata a sostenere l’Ucraina con forniture di armi, appoggio logistico e servizi civili nella sua coraggiosa lotta contro l’attacco all’esistenza e all’indipendenza di uno stato sovrano, condotto in violazione del diritto internazionale e in maniera decisamente criminale. Questa presa di posizione è legata alla solidarietà per il triste destino di un popolo che dopo molti secoli di dominazione straniera polacca, russa e anche austriaca ha conquistato l’indipendenza solo con il crollo dell’Unione sovietica. Tra le nazioni europee tardive l’Ucraina è l’ultima arrivata. Continua ad essere una nazione in fieri. Ma anche nel vasto campo dei sostenitori dichiarati dell’Ucraina al momento gli animi sono divisi riguardo alla giusta tempistica dei negoziati di pace. Una parte si identifica con la richiesta del governo ucraino di un sostegno militare in costante incremento per sconfiggere la Russia e ripristinare l’integrità territoriale del Paese, Crimea inclusa. L’altra parte intende spingere per tentare di arrivare a un cessate il fuoco e a negoziati che almeno scongiurino una possibile sconfitta, ripristinando lo status quo ante il 23 febbraio 2022. In questo pro e contro si riflettono esperienze storiche. Non è un caso che questo conflitto che si consuma lentamente imponga ora di fare chiarezza. Da mesi il fronte è congelato. Un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung dal titolo “La guerra di logoramento favorisce la Russia” racconta la guerra di posizione con ingenti perdite da entrambe le parti attorno a Bakhmut, nel nord del Donbass e cita la dichiarazione sconvolgente di un alto funzionario della Nato: “Laggiù sembra Verdun”. I paragoni con quella spaventosa battaglia, la più lunga e sanguinosa della prima guerra mondiale, hanno solo lontanamente a che fare con la guerra in Ucraina e solo nella misura in cui una prolungata guerra di posizione, senza grandi variazioni sulla linea del fronte, fa emergere innanzitutto la sofferenza delle vittime rispetto all’obiettivo politico “significativo” della guerra. La scioccante cronaca dal fronte di Sonja Zekri, che non nasconde le proprie simpatie ma non abbellisce nulla, ricorda in effetti le scene dal fronte occidentale nel 1916. Soldati che “si scannano”, cumuli di morti e feriti, le macerie di case, ospedali e scuole, ossia l’annientamento della civiltà, in questo si riflette l’essenza distruttiva della guerra, che pone in una luce diversa le parole della nostra ministra degli Esteri secondo cui noi “con le nostre armi salviamo vite”. Nella misura in cui le vittime e le distruzioni della guerra si palesano come tali, viene alla ribalta l’altra faccia della guerra - non solo mezzo di difesa contro un aggressore senza scrupoli; nel loro corso gli eventi bellici sono percepiti come violenza travolgente che deve cessare al più presto. E quanto più si sposta il peso da un aspetto all’altro, tanto più chiara si impone l’idea che la guerra non debba esistere. Nelle guerre alla volontà di sconfiggere il nemico si è sempre associato il desiderio che la morte e la distruzione abbiano fine. E nella misura in cui assieme alla potenza delle armi sono aumentate anche le devastazioni, anche il peso di questi due aspetti è cambiato. A seguito delle esperienze barbare delle due guerre mondiali e della tensione nervosa provocata dalla guerra fredda nel secolo scorso, nella mente delle popolazioni coinvolte ha avuto luogo un latente spostamento concettuale. Dalle loro esperienze esse avevano tratto spesso a livello inconsapevole la conclusione che le guerre - modalità fino ad allora scontata di condurre e risolvere i conflitti internazionali - sono del tutto incompatibili con le regole del vivere civile. Il carattere violento della guerra aveva in un certo senso perduto l’aura di naturalità. Questo ampio cambiamento compiutosi nella coscienza ha lasciato traccia anche nell’evoluzione del diritto. Il diritto umanitario che punisce i crimini di guerra ha tentato senza molto successo di frenare l’esercizio della violenza in guerra. Ma al termine della seconda guerra mondiale la violenza della guerra stessa ha dovuto essere pacificata con mezzi giuridici e sostituita dal diritto come unica modalità di risoluzione dei conflitti tra stati. La carta delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 24 ottobre 1945, e l’istituzione del tribunale internazionale dell’Aja hanno rivoluzionato il diritto internazionale. L’articolo 2 obbliga tutti gli Stati a risolvere con mezzi pacifici le dispute internazionali. Fu lo shock delle violenze della guerra a generare questa rivoluzione. Nelle parole toccanti del preambolo si riflette l’orrore di fronte alle vittime della seconda guerra mondiale. Centrale è l’appello a “unire le nostre forze ad assicurare mediante... l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata salvo che nell’interesse comune” - ossia nell’interesse dei cittadini di tutti gli Stati e di tutte le società del mondo definito in base al diritto internazionale. Questa attenzione alle vittime della guerra spiega da un lato l’abolizione dello ius ad bellum, ossia il nefasto “diritto” degli stati sovrani di guerreggiare a piacimento; ma anche il fatto che la dottrina su base etica della guerra giusta non sia stata rinnovata, bensì abolita, a parte il diritto di difesa dell’aggredito. Le varie misure elencate nel Capitolo VII contro le aggressioni sono dirette contro la guerra in quanto tale e questo esclusivamente nel linguaggio del diritto. Perché a tal fine è sufficiente il contenuto morale insito nel moderno diritto internazionale. È alla luce di questa evoluzione che ho inteso la formula “L’Ucraina non può perdere la guerra”. Perché interpreto la fase di cautela come monito che anche l’Occidente, il quale consente all’Ucraina di proseguire la battaglia contro un aggressore criminale, non deve dimenticare né il numero delle vittime né il rischio a cui le possibili vittime sono esposte, né l’entità delle effettive e potenziali distruzioni che per la legittima finalità a malincuore devono essere messe in conto. Neppure il più altruistico sostenitore è esentato da questa ottica di proporzionalità. La formula titubante “non può perdere” pone in discussione la visione Amico-Nemico che anche nel ventunesimo secolo considera ancora “naturale” e priva di alternative la soluzione bellica dei conflitti internazionali. La guerra, e a maggior ragione quella scatenata da Putin, è sintomo di una regressione a una fase precedente alla storica civile interazione tra potenze - soprattutto quelle che hanno potuto trarre insegnamento dalle due guerre mondiali. Quando lo scoppio di conflitti armati non può essere evitato da sanzioni dolorose anche per gli stessi paladini del diritto internazionale violato, l’alternativa offerta - rispetto a una prosecuzione della guerra con sempre più vittime - è la ricerca di compromessi tollerabili. L’obiezione è ovvia: al momento non c’è segno che Putin intenda impegnarsi in negoziati. Non deve essere costretto a cedere con mezzi militari già solo per questo motivo? Inoltre Putin ha preso decisioni che rendono quasi impossibile dare avvio a negoziati promettenti. Perché con l’annessione delle province orientali ucraine ha creato realtà e cementato rivendicazioni inaccettabili per l’Ucraina. D’altro canto la sua è stata forse una risposta, per quanto sconsiderata, all’errore compiuto dall’Alleanza atlantica nel momento in cui ha intenzionalmente lasciato la Russia all’oscuro rispetto all’obiettivo del suo supporto militare. Perché così ha lasciato aperta la prospettiva di un regime change inaccettabile per Putin. Al contrario, il fine dichiarato di ristabilire lo status quo ante il 23 febbraio 2022 avrebbe agevolato la successiva via del negoziato. Ma entrambe le parti puntavano a scoraggiarsi a vicenda piantando paletti estesi e apparentemente inamovibili. Non sono presupposti promettenti, ma neppure disperati. Perché a parte le vite umane che la guerra reclama giorno dopo giorno, aumentano i costi delle risorse materiali che non possono essere rimpiazzate a piacimento. E per l’amministrazione Biden il tempo stringe. Questo pensiero da solo dovrebbe spronarci a sollecitare energici tentativi per dare avvio ai negoziati e a cercare una soluzione di compromesso che non offra alla parte russa guadagni territoriali al di là dello status quo precedente l’inizio della guerra, permettendole tuttavia di salvare la faccia. A parte il fatto che capi di governo occidentali come Scholz e Macron mantengono contatti telefonici con Putin, neppure il governo statunitense apparentemente diviso su questa questione può mantenere il ruolo formale di parte non coinvolta. Un risultato negoziale durevole non può essere integrato nell’ambito di accordi di ampia portata in assenza degli Stati Uniti. Entrambe le parti in guerra hanno interesse a questo. Vale per le garanzie di sicurezza che l’Occidente deve fornire all’Ucraina, ma anche per il principio secondo cui il rovesciamento di un regime autoritario è credibile e stabile solo nella misura in cui scaturisce dalla popolazione stessa, ed è quindi sostenuto dall’interno. La guerra ha in generale focalizzato l’attenzione su un’acuta necessità di regolamentazione nell’intera regione dell’Europa centrale e orientale che vada oltre gli oggetti di contesa delle parti in conflitto. Hans-Henning Schröder, esperto dell’Europa orientale ed ex direttore dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza di Belino ha indicato (sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung del 24 gennaio 2023) gli accordi di disarmo e le condizioni quadro economiche in assenza delle quali non può essere raggiunto un accordo stabile tra le parti direttamente coinvolte. Putin potrebbe farsi vanto già della disponibilità degli Usa a impegnarsi in tali negoziati di portata geopolitica. Proprio perché il conflitto tocca una rete di interessi più ampia non si può escludere fin dall’inizio la possibilità di trovare, anche per le istanze al momento diametralmente opposte, un compromesso che salvi la faccia a entrambe le parti. *Traduzione di Emilia Benghi Arabia Saudita. Condanne a morte e carcere duro per chi si oppone a Neom di Michele Giorgio Il Manifesto, 20 febbraio 2023 Il centro per i diritti umani Alqst denuncia che 47 membri della tribù Howeitat sono stati arrestati e condannati a dure pene detentive, tre a morte, per essersi opposti allo sgombero dalle loro case per far posto alla megalopoli di Neom. Gli Howeitat nella regione nordoccidentale dell’Arabia saudita ci vivono da secoli. Da prima che i Saud, adottato il wahhabismo, si proclamassero unilateralmente custodi di Mecca e Medina e realizzassero poi le loro ambizioni territoriali grazie al petrolio e agli appetiti del colonialismo occidentale. E credevano di poter continuare la loro tranquilla esistenza in quell’area lontana dallo sfarzo edilizio e tecnologico delle grandi città saudite. Non avevano fatto i conti con i progetti oltremodo ambiziosi del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Mbs), di fatto già alla guida del regno, uno che non si fa scrupoli quando deve liberarsi di chi prova ad ostacolare il suo cammino. Lo provano gli arresti qualche anno fa di decine di principi e membri della sua famiglia e nel 2018 l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi di cui è ritenuto il mandante da più parti, anche dalla Cia. Un rapporto, The Dark Side of Neom, dell’organizzazione per i diritti umani araba Alqst, pubblicato il 16 febbraio, denuncia che circa 47 membri della tribù Howeitat sono stati arrestati con l’accusa di resistenza allo sgombero dall’area in cui è in costruzione la megalopoli Neom, il più faraonico dei progetti avviati dall’erede al trono saudita per soddisfare la sua mania di grandezza. Quindici membri della tribù, rivela Alqst, sono stati condannati a pene che vanno da 15 fino a 50 anni di carcere, otto sono stati rilasciati dalla detenzione, altri 19 sono detenuti in attesa di verdetto. Lo scorso ottobre un tribunale saudita aveva condannato a morte tre Howeitat: Shadli, Atallah e Ibrahim al Howeiti. Tutti e tre si erano espressi contro lo sfratto della loro tribù decisa dalle autorità saudite per far posto a Neom. “Queste sentenze scioccanti - ha scritto Alqst - mostrano le misure crudeli che le autorità saudite sono disposte a prendere pur di punire i membri della tribù Howeitat che hanno protestato contro lo sgombero forzato dalle loro case”. Tutto è cominciato nel marzo 2020 quando le forze speciali saudite fecero irruzione nelle case di coloro che si opponevano allo sgombero. Venti Howeitat furono ammanettati per aver protestato contro l’arresto di un ragazzino. Poi Abdul Rahim al Howeiti, attivista dei diritti della sua tribù, fu ucciso a colpi di arma da fuoco poco dopo aver realizzato video su quanto stava accadendo. Suo nipote Ahmed al Huwaiti venne arrestato e condannato prima a cinque anni e poi in appello a 21 anni di carcere per “aver cercato di destabilizzare e lacerare il tessuto sociale e la coesione nazionale”. Maha al Huwaiti è stata arrestata nel febbraio 2021 per aver twittato sull’aumento del costo della vita e pianto la morte di al Huwaiti. Inizialmente è stata condannata a un anno di reclusione poi in appello a tre anni. Nell’agosto 2022 è stata processata nuovamente per le stesse accuse e punita con 23 anni di prigione. Il rapporto rileva che la repressione e le pene detentive si sono fatte più dure in coincidenza con la riabilitazione da parte dell’Occidente di Mohammed bin Salman per l’omicidio di Jamal Khashoggi. “La correlazione è chiara. Più Mbs viene riabilitato più le cose peggiorano”, ha dichiarato a un giornale online Lina al Hathloul, attivista saudita dei diritti umani e responsabile delle comunicazioni di Alqst. Al Hathloul ha fatto notare che in seguito alle visite ufficiali in Arabia saudita dell’ex primo ministro britannico Boris Johnson e del presidente degli Stati uniti Joe Biden c’è stata “un’ondata di esecuzioni” e di “condanne a lunghe detenzioni senza precedenti”. Neom costerà 500 miliardi di dollari, sarà 33 volte più grande di New York e si estenderà per 170 chilometri in linea retta nella provincia di Tabuk. Avrà anche una stazione sciistica, Trojena, unica candidata per i Giochi asiatici invernali del 2029. L’Arabia saudita sarà il primo paese del Medio oriente ad ospitarli. Il resort dovrebbe essere completato nel 2026 e offrirà sci all’aperto, un lago d’acqua dolce artificiale e una riserva naturale. Di fronte ai tanti miliardi che saranno investiti per Neom, alle famiglie Howeitat sono state fatte promesse di risarcimento mai mantenute. Le autorità hanno respinto le richieste di chi voleva essere reinsediato nelle immediate vicinanze delle loro case offrendo loro 620.000 riyal (150mila euro) per essere ricollocati più lontano. In realtà, ha riferito Alqst, ai destinatari sono dati solo 17.000 riyal (4200 euro). Così la maggior parte degli sfrattati è stata costretta ad acquistare case nelle aree più povere e degradate della provincia di Tabuk. Guinea Equatoriale: morti in carcere, l’Ue condanna il regime africarivista.it, 20 febbraio 2023 Il Parlamento Europeo ha approvato ieri una risoluzione in cui ritiene responsabile “il regime dittatoriale equatoguineano” della morte di Julio Obama, dissidente e attivista, cittadino spagnolo e guineano, morto in custodia cautelare. I deputati europei chiedono la liberazione di altri tre membri di un partito di opposizione esortano la Guinea Equatoriale a cooperare pienamente con le autorità giudiziarie spagnole e condannano fermamente “la persecuzione politica sistemica del regime dittatoriale e la barbara repressione degli oppositori politici e dei difensori dei diritti umani”. La delibera è stata adottata con 518 voti favorevoli, 6 contrari e 19 astenuti. Julio Obama Mefuman, 51 anni, è morto mentre era detenuto in Guinea Equatoriale: oppositore del regime di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, si trovava in carcere nella parte continentale della Guinea Equatoriale dal 2020. L’uomo è morto in un ospedale di Mongomo, dove era stato ricoverato. Il quotidiano spagnolo El País scrisse che “Obama è stato rapito e torturato da alti funzionari di questo Paese, secondo un’indagine giudiziaria del Tribunale nazionale”. Il partito politico di Obama, il Movimento per la liberazione della Guinea Equatoriale, disse in una nota che Obama era morto a causa delle torture subite esortando il governo spagnolo a interrompere le relazioni con la Guinea. Il 15 novembre 2019 quattro oppositori al regime di Obiang, tutti residenti in Spagna e due dei quali erano cittadini europei e spagnoli, Feliciano Efa Mangue e Julio Obama Mefuman, furono “dichiarati scomparsi” alcuni giorni dopo il loro arrivo in Sud Sudan, da dove erano stati “rapiti e trasferiti in Guinea Equatoriale”. Efa Mangue e Obama Mefuman furono condannati nel marzo 2020 rispettivamente a 90 e 60 anni di carcere, per aver partecipato a un “tentato colpo di Stato” contro il presidente Obiang nel dicembre 2017. All’inizio di quest’anno, un tribunale nazionale spagnolo ha incriminato tre eminenti politici della Guinea Equatoriale per “terrorismo” e “tortura”: si tratta di Carmelo Ovono Obiang, uno dei figli del leader Teodoro Obiang e capo dei servizi di sicurezza esteri, Nicolas Obama Nichama, capo della sicurezza interna, e Isaac Nguema Endo, direttore generale della sicurezza presidenziale. Un caso simile riguarda Fulgengio Obiang Esono, ingegnere italiano sparito nel nulla durante un viaggio di lavoro in Togo e ricomparso in un tribunale equatoguineano, dove è stato condannato e diverse decine di anni di carcere.