Cospito, i dolori di Nordio: “Aspetto i pareri”, ma li ha già di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 febbraio 2023 Il ministro cerca una via di fuga “in Cdm e in Parlamento”. Il Pg di Torino: la “posizione processuale” “non ha nulla a che vedere” con il 41bis. La “fermezza” del Guardasigilli: “Lo Stato non può dar segno di essere intimidito dall’attività violenta”. Se alla Camera l’esponente di Fd’I Giovanni Donzelli spara a casaccio accuse contro i deputati dem che si sono preoccupati di constatare personalmente lo stato di salute del detenuto Alfredo Cospito (com’è loro dovere), è perché il governo sul caso in questione è davvero in difficoltà. In particolare lo è il ministro di Giustizia Carlo Nordio che ieri, mentre a Montecitorio andava in onda la bagarre, in conferenza stampa insieme al responsabile del Viminale Matteo Piantedosi e al vicepremier e capo della Farnesina Antonio Tajani, ha tentato di spiegare che, se anche volesse, non è nelle sue disponibilità immediate la revoca del 41 bis - imposto otto mesi fa per l’anarchico giunto al 104esimo giorno di sciopero della fame e che da ieri ha anche rinunciato agli integratori - richiesta dall’avvocato difensore sulla base di nuove “prove” a discarico di Cospito. Ammesso che esista “un procedimento parallelo per devolvere al ministro di Giustizia la revoca del 41bis” mentre si è in attesa che sul caso si pronunci la Cassazione, cosa “opinabile perché la legge è stata cambiata varie volte e va interpretata”, ha detto Nordio, “di sicuro prima il ministro deve ascoltare i pareri della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, del Giudice di sorveglianza e dei pm del processo” fermo alla Corte d’Appello di Torino in attesa che la Consulta chiarisca se - detta in soldoni - nel caso dell’attentato alla caserma di Fossano, l’ergastolo chiesto dai pm per Cospito sia pena costituzionalmente lecita. Due su tre di questi pareri sarebbero però già arrivati in via Arenula e sembrerebbero non pregiudizialmente contrari alla possibilità di revoca del regime di carcere duro all’anarchico. Anche se, come ha spiegato lo stesso Guardasigilli, “è questione controversa se questi pareri siano vincolanti”. Tanto che, ha aggiunto Nordio, “per l’importanza politica che riveste la vicenda, che riguarda altri ministeri, penso sia probabile che sia poi discussa dal Consiglio dei ministri e penso possa essere addirittura attuata una discussione parlamentare sulla questione in generale, in modo da capire quali siano le posizioni delle varie forze politiche”. Dal canto suo, infatti, il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, che ha chiesto esplicitamente di depositare il proprio parere sul caso Cospito “nella duplice veste di pm presso il giudice di esecuzione e di pm presso il giudice di cognizione”, ha già comunicato in una dettagliata nota dove ricostruisce l’intera storia processuale dell’anarchico trasferito lunedì nel carcere di Opera-Milano, che “il “cumulato” delle condanne definitive emesse a carico di Cospito da diversi tribunali è una pena detentiva di 30 anni”, non ancora l’ergastolo come da lui stesso richiesto. Ma che la “posizione processuale” dell’anarchico “non ha nulla a che vedere” con la misura del 41 bis, “regime differenziato di detenzione che viene applicato a soggetti dei quali si riconosca la particolare pericolosità, imputati o condannati per taluni gravi reati previsti dalla legge, e la possibilità e capacità di mantenere, pur se detenuti, collegamenti con le associazioni, mafiose terroristiche o eversive”. Insomma, come a dire che la questione va risolta altrove. Anche il parere del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo è già arrivato nelle mani del ministro, lo aveva praticamente annunciato lo stesso Nordio in conferenza stampa. Ma il governo si è impuntato proprio su quei “gesti vandalici e intimidatori” che, asserisce Nordio, “da un lato provano che il legame tra il detenuto e i suoi compagni esterni rimane” - e “questo giustificherebbe il mantenimento del 41bis” - e “poi dimostrano che lo Stato non può minimamente scendere a patti, essere intimidito o dar segno di essere intimidito dall’attività violenta”. Oltre al fatto che, dice il Guardasigilli, “lo sciopero della fame non deve incidere sulle condizioni di detenzione: se lo facessimo, potremmo trovarci domani con centinaia di mafiosi al 41 bis che fanno lo stesso mettendo lo Stato di fronte a certe condizioni”. A questo punto il confronto con il Parlamento è d’obbligo: oggi pomeriggio alle 16 il ministro riferirà in Aula alla Camera, informativa inizialmente prevista per domani ma anticipata dopo la “bomba” Donzelli. “Pesare” i reati dell’anarchico: lo spiraglio che può far cadere il 41 bis di Alberto Cisterna Il Dubbio, 1 febbraio 2023 Regime duro legittimo se la strage è senza vittime? Parola alla Consulta. C’è qualcosa che non torna nel caso dell’anarchico Cospito. Certo non avrà ucciso nessuno, ma risponde di strage per un ordigno esplosivo collocato vicino una struttura dei Carabinieri. Certo non è a capo di un gruppo che si rende responsabile di sistematiche violenze sulle persone, ma ha pur sempre gambizzato un dirigente industriale. Le carte, a occhio e croce, stanno a posto. Né il ministero della Giustizia, né i giudici della sorveglianza hanno avuto dubbi, e non bisogna essere grandi esperti di diritto penitenziario per capire che Cospito sta tutto dentro il perimetro dell’articolo 41-bis; che ci sono i presupposti di legge per irrogargli il regime di massima sicurezza carceraria, al pari di quanto avviene per i boss mafiosi, al pari di quanto successo per Matteo Messina Denaro. Eppure, a pelle, qualcosa non torna. Se intellettuali e giuristi di prima vaglia hanno firmato un appello per la revoca del regime speciale all’anarchico detenuto, ci sarà pure una ragione che la pubblica opinione ha diritto di comprendere fino in fondo. Altrimenti passa la narrazione che quando tocca a qualcuno “empatico” ai soliti circoli radical scatti una sorta di difesa d’ufficio, una specie di repentino riflesso condizionato che impone una corale chiamata alle armi in nome del diritto mite e del trattamento umanitario ad personam. Non è così e la risposta sta proprio nell’ordinanza con cui la Corte che deve giudicare Cospito ha rimesso gli atti alla Consulta ritenendo ingiusto e irragionevole il fatto che il codice penale preveda sempre e comunque la pena dell’ergastolo per il delitto di strage a prescindere dalla condotta posta in essere e dai suoi effetti. La questione in diritto è di un certo rilievo e non è questa la sede per discettare tra la strage commessa per attentare alla sicurezza dello Stato (articolo 285) - dove la pena è quella dell’ergastolo anche se nessuno resta ucciso - e la strage di cui all’articolo 422 che prevede l’ergastolo solo per il caso di morte e, invece, la pena di 15 anni quando nessuno resti ucciso. La Cassazione ha già deciso la questione nel senso meno favorevole all’anarchico (sentenza n. 38184 del 2022) e si vedrà cosa stabilirà la Corte costituzionale cui si sono rivolti i giudici di Torino “perplessi” a fronte dell’entità della pena da irrogare ad Alfredo Cospito. È l’unico spiraglio aperto in questa intricata vicenda per poter immaginare una giusta ed equilibrata revisione del regime speciale irrogato all’anarchico. Se gli stessi giudici di Torino, quelli chiamati a valutare le condotte dell’attentatore, considerano la pena dell’ergastolo ingiustificata, irragionevole nella sua invariabile gravità, è probabilmente tra quelle parole che occorre cercare una mediazione tra le norme che regolano il carcere duro e la posizione “in concreto” del detenuto, scrutinata sotto il prisma dell’effettiva gravità dei fatti che gli vengono contestati. Se la pena appare iniqua agli occhi dei “suoi” giudici e sproporzionata rispetto alle sue responsabilità, allora c’è un varco in cui - al rigore del nomen iuris del reato contestato (la strage) - si sostituisca la mite, appropriata, equilibrata individuazione del regime carcerario cui Cospito deve essere sottoposto. Ma lungo questo crinale la questione diventa subito sdrucciolevole e il cammino periglioso. A ogni indagine antimafia segue sempre un certo nugolo di decreti ministeriali che dispongono il 41-bis, ossia la detenzione di massimo rigore. A volte succede perché si tratta di soggetti effettivamente pericolosi (vedi Matteo Messina Denaro) che è bene custodire con severità; in altri casi tocca agli anelli deboli delle stringhe di omertà, ai soggetti che - per condizioni personali o familiari - appaiono più disponibili a una collaborazione con la giustizia e che si ritiene poco reggano le asprezze delle super-carceri. A dire il vero non è che si mietano chissà quali successi su questo fronte e manca una statistica, pur utile, che indichi quante collaborazioni di giustizia provengano dal carcere duro. Tutto questo armamentario postula reati efferati, grande allarme, minacce costanti alla sicurezza pubblica e poco concede a quella personalizzazione del trattamento penitenziario che rappresenta il nocciolo duro della funzione della pena nella nostra Costituzione. Una personalizzazione che costituisce l’unica strada verso la rieducazione dei condannati. Ecco, la vicenda Cospito è un caso, abbastanza raro, in cui è possibile cogliere l’asimmetria tra le condizioni di detenzione imposte dalla legge per il reato di cui risponde e l’effettiva lesività delle condotte che gli sono ascritte; in cui appare nella sua fragilità costituzionale la previsione di regimi speciali sulla scorta, quasi esclusiva, della gravità del crimine contestato. È vero, il terreno della pericolosità sociale, dell’incolumità pubblica, del rischio di collegamenti è una scatola vuota pronta a custodire ogni presunzione, ogni congettura, ogni illazione, ogni sospetto, ma sicuramente gli attentati e i gesti violenti di questi giorni valgono solo a serrare a più mandate la porta della cella di Alfredo Cospito. Cospito non dà ordini a nessuno, la “fermezza” è un fantasma del passato di Paolo Delgado Il Dubbio, 1 febbraio 2023 La linea dura evoca il periodo brigatista, ma oggi non c’è alcun reale pericolo di eversione. Ma cosa cosa c’entra la vicenda Cospito con i sequestri Moro, Sossi, D’Urso e Cirillo, o con le bombe del 1993, insomma con tutti i casi nei quali lo Stato si è chiesto se fosse o meno opportuno trattare con i suoi nemici dando di volta in volta risposte diverse e persino opposte? La domanda non è retorica né superflua dal momento che da giorni tutti tirano in ballo a sproposito temi e precedenti storici che con il caso dell’anarchico in sciopero della fame non hanno in realtà niente a che spartire. Le differenze sono tanto clamorose e vistose da rendere difficile spiegarsi il malinteso. La mafia e le Br erano a tutti gli effetti organizzazioni che intendevano trattare con lo Stato usando la vita degli ostaggi o di cittadini inermi come merce di scambio. I detenuti dei quali si chiedeva la liberazione o la modifica del regime di detenzione al quale erano sottoposti facevano parte di quelle organizzazioni e spesso ne erano i capi. Considerare “un’organizzazione” i rumorosi anarchici sparsi per l’Europa che hanno fatto immenso danno soprattutto a Cospito significa prendersi consapevolmente in giro da soli. Cospito, in tutta evidenza, rappresenta solo se stesso e non sarebbe in grado di dare ordini a chicchessia. Il contesto non potrebbe essere più diverso: le Br di fine anni 70 come la mafia terrorista dei primi anni 90 erano una minaccia reale e la valutazione sul trattare o meno non è mai dipesa da rigide considerazioni etiche ma dalla valutazione di quella minaccia. Lo Stato scelse di non trattare con le Br sul piano politico, offrendo in compenso una cifra da capogiro, perché ritenne a torto o a ragione che quel “riconoscimento politico” sarebbe stato esiziale e avrebbe reso i nemici dello Stato molto più forti. Accettò invece di trattare nel 1980 per D’Urso, con la chiusura dell’Asinara, nel 1981 per Cirillo e soprattutto nel 1993 sgravando i boss dal carcere duro perché valutò, di nuovo a torto o a ragione, che il prezzo della fermezza fosse più esoso di quello di una trattativa con parziali concessioni. In questo caso sembra difficile nutrire dubbi, non solo perché non c’è nessuna organizzazione che ricatta lo Stato ma anche perché in tutta evidenza salvare Cospito sottraendolo al regime di carcere duro non avrebbe alcuna conseguenza negativo sull’ordine e la sicurezza. Al contrario, se in questo dramma c’è qualcosa che rischia di esacerbare gli animi e indurre disordine è proprio l’aver ingaggiato e voler portare alle estreme conseguenze un braccio di ferro gratuito, che si sarebbe potuto e dovuto evitare senza sforzo. La richiesta di non applicare il 41bis a Cospito, avanzata non solo da anarchici bombaroli ma da migliaia di persone assolutamente pacifiche e certamente democratiche, è inoltre radicalmente diversa da quelle avanzate nei “precedenti storici”. In quei casi le organizzazioni terroriste o mafiose chiedevano, almeno in prima battuta, o di violare le leggi, scarcerando persone accusate o condannate per reati gravissimi, oppure, nel caso della richiesta di eliminare il 41bis per i boss del 1993, di non applicarle. In questo caso, come ha dimostrato codice alla mano l’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, la richiesta non implica la violazione di alcuna legge e casomai, al contrario, il rispetto dello spirito e della lettera sia del codice penale che della Costituzione. A rigor di logica, se proprio la si vuole tirare in ballo, la categoria “ricatto” può essere applicata solo ad Alfredo Cospito, che minaccia di lasciarsi morire non per il suo caso personale ma per l’eliminazione del 41bis per tutti. Lo sciopero della fame può in effetti essere visto come un “ricatto” nel quale chi sciopera usa la propria vita come arma per ottenere un risultato. Solo che messa così la lista dei “ricattatori” da Gandhi e Marco Pannella sarebbe lunghetta. È difficile darsi una ragione del perché un caso che si sarebbe potuto risolvere facilmente sia stato trasformato in un ginepraio a rischio di degenerazione in tragedia: se per imperizia dilettantesca, sottovalutazione superficiale, rigidità malintesa o per quella paura di apparire deboli che è sempre sintomo inequivocabile di debolezza estrema. Ma di certo la cosa peggiore che si possa fare, la formula magica che può rendere la vicenda irresolubile, è costruire senza alcun fondamento intorno allo sciopero di Cospito un clima da sequestro Moro. La forza dello Stato e il caso Bobby Sands di Vladimiro Zagrebelsky La Repubblica, 1 febbraio 2023 Chi vinse la prova di forza, quando il 5 maggio 1981 Bobby Sands, militante dell’Ira (Irish republican army) detenuto nel carcere di Maze, concluse morendo il suo lungo sciopero della fame e fu poi seguito da altri detenuti che gli erano compagni nella guerra che allora opponeva l’Ira al governo britannico? Margaret Thatcher primo ministro, che adottò la linea di assoluta “intransigenza verso i criminali”, che però erano detenuti per delitti politici e pretendevano di non essere assimilati ai detenuti comuni? O l’intero movimento irredentista di cui Sands era parte e di cui divenne bandiera e martire politico? La risposta che discende dal seguito della vicenda dell’Irlanda del Nord non è dubbia, ma alla stessa conclusione porta anche la considerazione degli effetti immediati della morte di Sands, per il forte effetto di mobilitazione e motivazione che essa ebbe per il suo movimento e per il metodo di violenza politica che praticava. Nella discussione che riguarda la posizione di Alfredo Cospito, militante anarchico, condannato per gravi fatti violenti e detenuto nel regime speciale del 41 bis, ha senso richiamare il caso di Bobby Sands, pur con tutte le differenze che distinguono le due vicende. Ha senso per la considerazione che va data agli effetti dello sciopero della fame praticato dai due detenuti rispetto alla loro lotta politica. Poiché occorre pur considerare che in entrambi i casi i delitti di cui si resero responsabili sono delitti politici, secondo quanto stabilisce il Codice penale, quando afferma che è considerato politico il delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici. Ed è proprio la natura politica sia del movente dei delitti, che della condotta in carcere che spiega i tratti comuni alle due vicende e la necessità di tenerne conto. Fondamentale è infatti l’esperienza pratica che vede la potente efficacia dello sciopero della fame che ha condotto Bobby Sands alla morte e mette in pericolo la vita di Cospito. In entrambi i casi vi fu e c’è una enorme risonanza pubblica addirittura in ambito internazionale, con effetti diretti anche sull’atteggiamento (violento) dei compagni di lotta politica. Cosicché è imbarazzante sentir difendere i vincoli ai contatti con l’esterno del carcere imposti con il regime del 41 bis richiamando la necessità di impedire i rapporti del detenuto Cospito con l’organizzazione in cui milita. In effetti però il fragile velo, che nasconde la realtà delle modalità di detenzione definite dal 41 bis, viene a mancare quando non solo i media ma anche a livello governativo quel regime vien chiamato e proclamato francamente come “carcere duro”. Duro, puramente e semplicemente, anche se - come nel caso Cospito - non serve a tagliare i rapporti con i gruppi anarchici che lo riconoscono come compagno. E serve quindi a uno scopo diverso da quello proprio della previsione legislativa: serve a dimostrare che “lo Stato non tratta con i violenti”, anche se in tal modo il governo si rende prigioniero dei violenti e, per non dare l’impressione di piegarsi, accetta di forzare le stesse proprie leggi. Le restrizioni che, con l’applicazione del 41 bis vengono imposte ai detenuti (sono circa 700 ora), ufficialmente intendono impedire che dal carcere il detenuto continui a partecipare o addirittura a comandare. La sottoposizione alle disposizioni del bis è decisa dal ministro della Giustizia, con un decreto motivato che, nel caso di gravi reati, può essere emesso quando risulti la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva. Questa è una motivazione sufficiente a fondarne la compatibilità con i principi costituzionali che riguardano le pene detentive. Ma i vincoli legati al 41 bis nella realtà talora sono la spia di finalità diverse - quelle della durezza -, come dimostra il caso deciso dalla Corte costituzionale nel 2018, quando giudicò ingiustificato rispetto allo scopo legittimo, il divieto di cuocere cibi in cella, ammesso invece per i detenuti ordinari. E allora, nel dibattito sul 41 bis, si deve discutere di quanto la sua “durezza” non rischi di divenire utile per intimorire, spingere a confessioni e a collaborazione con gli inquirenti. Ciò che contrasterebbe con il divieto di infliggere trattamenti inumani e degradanti. Un divieto che è assoluto e riguarda qualunque detenuto, di qualunque crimine si sia reso responsabile. Tanto è vero che la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto il governo italiano responsabile di violazione di quel divieto nel caso del capomafia Provenzano, quando il regime speciale gli venne ancora prorogato negli ultimi mesi di vita, malgrado la sua decadenza fisica e cognitiva. Nel caso di Cospito rileva poi l’elemento della salute di una persona che, essendo detenuta, deve vedersela dallo Stato particolarmente assicurata. Ha però tratti specifici il caso dello sciopero della fame e delle conseguenze che ne derivano per la salute o addirittura la salvezza di chi lo pratica. Va infatti ricordato che a partire dall’art. 32 della Costituzione e ora in particolar modo dalla legge 219/2017 non ci sono eccezioni alla regola della necessità di consenso a ogni trattamento sanitario, anche nel caso che il rifiuto porti alla morte. Nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata. E - casomai venisse in mente di imporre al detenuto la nutrizione e l’idratazione artificiali - va ricordato che la legge li qualifica come trattamenti sanitari. D’altra parte, il Codice di deontologia medica stabilisce che se “la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla”. Ciò significa che l’assistenza medica deve certo essere assicurata al detenuto, ma essa potrebbe scontrarsi con il diritto del paziente di rifiutarla. Dal che deriva, per quanto spiacevole possa essere ammetterlo, che lo Stato, lungi dal disporre della forza, in questo caso largamente dipende dalla forza altrui. Tanto più se questi dovesse morirne. Nel gestire la difficile situazione i muscoli e le ministeriali dichiarazioni tonitruanti allora servono meno della duttile intelligenza del caso. Il Governo si sta vendicando contro Cospito, farlo uscire dal 41bis è una questione di giustizia di Donatella Di Cesare* Il Riformista, 1 febbraio 2023 Questo è un paese in cui si fa un gran parlare di diritti umani quando si tratta dei governi degli altri, senza avere il coraggio di gettare uno sguardo nelle patrie galere, senza avere la coscienza di denunciare le tante sopraffazioni che avvengono qui. In questo momento si sta consumando su Alfredo Cospito un gravissimo mortale abuso - un abuso compiuto in nome dei propri cittadini dallo Stato italiano. Chi è responsabile? Chi dovrà risponderne anche in futuro? La ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha giustificato il 41bis per Cospito? L’attuale ministro Carlo Nordio che, pur potendo revocare questa misura, resta completamente inerte? È chiaro ormai a tutti che l’affare Cospito ha assunto un valore simbolico e politico che non può essere sottovalutato. La colpevole inerzia di questo governo - il primo governo postfascista nel paese di Mussolini (molto da farsi perdonare!) - ha il terribile sapore di una ripugnante vendetta. Il corpo di Cospito preso in ostaggio, catturato, per dimostrare una farsesca fermezza. Malgrado tutte le interpretazioni dei liberali nostrani, pronti a dare loro credito, gli esponenti del governo non hanno nessuna remora a mostrarsi per meschini gendarmi fascisti. Altro che linea dura! Altro che ricatto! Fa specie che ci siano anche magistrati che usano questi termini. In che mani siamo? Qui si invertono completamente i termini. Chiediamo che si faccia uscire Cospito dal 41bis anzitutto per una questione di giustizia, ben prima che per una questione di umanità. Non si tratta solo di salvare una vita - anche se questa politica di morte, questa necropolitica, ci sta facendo dimenticare del tutto il valore della vita umana. Ma qui il punto è: perché mai Cospito è al 41bis? Che cosa ci fa lì? La questione riguarda tutti. Vorrei ricapitolare brevemente. Per aver ferito un dirigente dell’Ansaldo a Genova Cospito è stato condannato nel 2013 a dieci anni e otto mesi. Quando era già in carcere è stato accusato di aver messo, nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006, due ordigni esplosivi davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano, ordigni che non hanno causato né morti né feriti. Dopo la condanna è stato inserito nel circuito penitenziario ad alta sicurezza, dove i detenuti sono sottoposti a sorveglianza stretta e a forti limitazioni. Di tanto in tanto Cospito ha mandato qualche scritto per le pubblicazioni di area anarchica. Il passaggio che si compie in seguito è quello di cui si discute: il reato viene reinterpretato e passa da strage comune a strage politica. Perché? Su che basi? Una scelta singolare, dato che non esistevano nuovi fatti. Il reato di strage politica non è stato applicato neppure per Capaci o per Piazza Fontana. Ecco che Cospito è destinato al 41bis. Finisce in una sorta di sepolcro, uno spazio tombale: un metro e 52 centimetri di larghezza e due metri e 52 centimetri di lunghezza. Oscurità, bisogno di luce elettrica, spiragli solo in alto, in corrispondenza del muro di cinta. La cella è sotto il livello del mare nel carcere di Sassari. Ore d’aria solo in un cubicolo murato dove la grata permette di intravvedere il cielo. Isolamento, separazione, eliminazione perfino dei ricordi, delle foto dei familiari. Una sorta di sepoltura in vita, di esclusione dal consesso umano. Accade in Italia nel 2023. Sinceramente diventa quasi grottesco raccontare le angherie dell’inquisizione. Sappiamo benissimo che la tortura, una fenice nera, una pratica mai finita, ha assunto nuove forme nelle democrazie del XXI secolo. Dovremmo accettare uno Stato torturatore? Che usa violenza sul corpo di un detenuto? Perché ci sono tanti modi per esercitare la violenza, anche senza lasciare traccia. L’Italia ha un passato recente disseminato di vittime di soprusi polizieschi. Non sarebbe proprio il caso, neppure negli interessi della Repubblica, assistere a un suicidio annunciato. Vorrei infine toccare due questioni che mi sembra siano state trascurate. Lascio da parte il 41 bis: io sono contraria sempre e per tutti (ma avrei bisogno di un altro articolo per dirlo). La prima questione riguarda il concetto di terrorismo, pericoloso e sdrucciolevole. Chi è terrorista? E chi lo decide? Sappiamo come tutta la legislazione d’emergenza, creata nel contesto americano, e in quello di altri paesi europei, ha svelato il volto violento della democrazia producendo abusi di ogni sorta, tortura preventiva, illegittime detenzioni amministrative. Una strada rischiosa che mette in discussione il diritto di ciascun cittadino. Il dissento è sovversione? Pubblicare su una rivista anarchica fa passare per terroristi? La seconda riguarda proprio il tema dell’anarchia. Molto più di altri paesi, l’Italia ha un rapporto ambivalente. Da una parte Sacco e Vanzetti, quasi padri della patria libera e anti-mussoliniana, esponenti della grande tradizione anarchica italiana, senza cui sarebbe difficile persino immaginare la cultura di questo paese, dall’altro Valpreda e le bombe, la tentazione di demonizzare gli anarchici. Anche qui l’Italia ha molto da farsi perdonare. In queste ore si tenta di far passare gli anarchici o per mostri o per demoni, terroristi che minacciano “le nostre sedi all’estero” (!), nel migliore dei casi gente preda di una “fede cieca fuori dal tempo”. Visioni grottesche, che sarebbero un po’ risibili, se non avessero poi i risvolti antidemocratici che vediamo. Il pensiero anarchico, che in questi ultimi anni è apparso filosoficamente il più interessante e il più produttivo, fa parte dell’odierno contesto culturale e politico. E, certo, senza alcun confronto con fascismo e postfascismo, che avrebbero dovuto invece esserne esclusi. Insomma: Cospito è al 41bis perché anarchico? Speriamo che in nome delle cittadine e dei cittadini italiani il ministro Nordio intervenga prima possibile per togliere il 41bis. È già troppo tardi. Ne va della vita di Cospito, dei diritti di tutti noi, di questa democrazia. *Professore ordinario di filosofia teoretica all’Università “La Sapienza” di Roma “Norma gravissima”, quando la sinistra era contraria al 41 bis di Tiziana Maiolo Il Riformista, 1 febbraio 2023 “Queste modifiche all’ordinamento penitenziario”, cioè quelle che hanno introdotto l’articolo 41 bis, oltre a tutto in modo retroattivo, “sono gravissime”. Non lo ha detto l’anarchico Alfredo Cospito nel 2023, ma il comunista Ugo Pecchioli nel 1992. Non era certo un libertario, il compagno Ugo. Ma erano altri tempi. Quando la sinistra era sinistra, quando votava il bilancio dello Stato anche nel suo ruolo di principale partito dell’opposizione, quando il Pds, figlio del Pci, aveva un’identità politica e particolare attenzione alla società delle regole. Oggi abbiamo l’esponente del Pd Deborah Serracchiani che, in una giusta polemica con Giovanni Donzelli che l’ha accusata di aver istigato alla lotta l’anarchico detenuto, rivendica con orgoglio il suo, e quello del suo partito, entusiasmo per l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Quello nato per impedire che il detenuto per reati gravi di mafia e terrorismo mantenga anche dalla cella rapporti con le organizzazioni criminali all’esterno e possa, in quanto boss riconosciuto, anche impartire ordini per la commissione di reati. Era nato come carcere impermeabile, l’articolo 41-bis, ma nel tempo, e soprattutto dopo che (sciaguratamente) il governo Berlusconi nel 2002 lo ha stabilizzato facendogli perdere per strada la natura di strumento emergenziale e provvisorio, è diventato carcere duro, il “carcere del carcere”. L’isolamento quasi totale, un colloquio al mese con il vetro, due ore d’aria al giorno con non più di quattro persone, il blocco della corrispondenza, rischiano di portare la persona all’impazzimento, oltre a degradarla nel fisico. Perché l’assenza forzata di socialità fa ammalare e priva la persona del diritto alla salute. E questo dimostra anche la sua incostituzionalità. Non è un caso che l’articolo 41-bis sia stato introdotto nell’ordinamento penitenziario, dopo una grande stagione di riforme, sia pur nel clima emergenziale del 1992, in via transitoria. Il problema è che sia stato poi rinnovato ogni tre anni nel decennio successivo, fino a diventare organico all’ordinamento penitenziario come un macigno nel 2002. Per capirne l’origine e le finalità, occorre fare un tuffo nella prima repubblica, nell’ultimo governo Andreotti e nei giorni successivi alla sentenza del maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone con la decapitazione per via giudiziaria della cupola dei corleonesi, e poi l’omicidio mafioso di Salvo Lima. Il progetto di una legge che modificasse il processo penale e l’ordinamento penitenziario in direzione antiriformatrice è nato in quei giorni. C’era anche Falcone nella cabina di regia al ministero di giustizia. E il suo assassinio il 23 maggio fu quello che diede la svolta, che fece anche perdere un po’ la testa a quel governo. La durezza divenne violazione di norme costituzionali, la sicurezza divenne disumanità. Il decreto Scotti-Martelli, che prese il nome dei ministeri di interno e giustizia, interveniva sulle indagini preliminari, allungandone i tempi, sul regime della prova con la rinuncia alla piena formazione nell’aula dibattimentale nei processi di mafia, in totale stravolgimento della riforma del 1989 e del sistema accusatorio. Nascevano quel giorno i reati “ostativi”, quelli che impedivano l’applicazione dei benefici previsti dalla riforma carceraria del 1975 e dalla legge Gozzini. E veniva introdotto l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, il figlio cattivo del precedente articolo 90, che si applicava però solo in caso di sommosse o gravi situazioni di pericolo all’interno degli istituti penitenziari. Il decreto fu una bomba nel mondo della giustizia e delle carceri. I detenuti iniziarono un digiuno a rotazione limitandosi ad assumere acqua e si iscrissero in massa al Partito radicale. Documenti di protesta da parte dell’Associazione dei professori di procedura penale presieduta dal professor Conso, dell’Unione camere penali e della stessa Anm si ammonticchiavano sui tavoli dei ministri. Gli avvocati scesero subito in sciopero. Si buttava alle ortiche un’intera stagione di riforme. Il processo penale rischiava di perdere, con la logica del doppio binario nelle inchieste di mafia, la sua appartenenza al sistema accusatorio. Ma il vero disastro immediato, soprattutto per l’applicazione retroattiva della norma, fu l’entrata in vigore, oltre che dell’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, dei reati ostativi. Furono ricondotti in carcere 240 ex detenuti che godevano già del regime di semilibertà. Persone che con la libertà avrebbero potuto distaccarsi dal dominio dei boss all’interno delle prigioni venivano riconsegnati all’antica appartenenza criminale. Altri che fruivano dei permessi di lavoro esterno vennero nuovamente rinchiusi nelle celle. Ogni permesso fu bloccato. Ci fu un invito esplicito a “pentirsi”, anche a chi, detenuto da moltissimi anni, non aveva ormai niente da raccontare ai magistrati sull’organizzazione cui era un tempo appartenuto. Queste osservazioni, potrà parere strano per chi ha conosciuto il Pci e le successive evoluzioni fino all’odierno Pd, e anche per chi ha ascoltato la rivendicazione d’amore per il 41-bis della deputata Serracchiani, vennero esposte proprio dai comunisti di allora. In una conferenza stampa del 7 luglio 1992 il senatore Ugo Pecchioli e il deputato Massimo Brutti chiesero al governo di ritirare il decreto, a causa dello “stravolgimento del processo penale, della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario”. Una certa maretta del resto c’era anche tra i socialisti e nel mondo cattolico, i liberali e i radicali erano contrari e così anche Rifondazione. Al Senato si tennero audizioni su audizioni, nelle quali il decreto Scotti-Martelli non trovò estima tori. Anche perché, nonostante le condanne al maxiprocesso, eravamo ancora all’anno zero sulle attività di repressione e di intelligence per arrivare alla cattura di Totò Riina e degli altri boss latitanti. E le restrizioni sui processi e sui detenuti avevano il sapore della vendetta da parte di uno Stato che si rifaceva sui più deboli per la propria incapacità a catturare i capi. C’era una situazione di stallo, nella commissione giustizia del Senato. Ma tutto il resto andava di corsa, le Camere votavano a rotta di collo sulle autorizzazioni a procedere sulle inchieste di Tangentopoli e intanto si toglieva la vita Renato Amorese, il primo di 41 suicidi. E Craxi teneva il suo primo discorso per denunciare l’esistenza di bilanci falsi nelle casseforti di tutti i partiti. A un certo punto il governo pensò di ritirare il decreto. Ma provvide la mafia, a togliere le castagne dal fuoco. Il 19 luglio, in via D’Amelio a Palermo fu assassinato il giudice Paolo Borsellino. Il 4 agosto il decreto era legge. Gli uomini del Pds tennero in tasca i loro discorsi di fuoco per la difesa dello Stato di diritto e si attennero a quelle di circostanza. Sembrava di essere a un funerale, quel giorno a Montecitorio. Ma non possiamo mettere la parola fine a questa storia, non solo perché l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e anche una parte di quel deterioramento del processo penale sono ancora tra noi, ma perché da quel che successe in quei giorni è nata anche la favola della Trattativa dello Stato con la mafia. Chi c’era sa bene che nel governo e nel successivo guidato da Giuliano Amato non c’erano i buoni e i cattivi nella lotta alla mafia. C’erano semplicemente una grande forza della mafia con le sue bombe e una grande debolezza dello Stato. Non è vero che il ministro Scotti era il “duro”, sostituito con Mancino, il morbido trattativista. Era semplicemente accaduto che, su iniziativa di Ciriaco De Mita, Scotti fosse promosso agli esteri e poi rimasto semplice parlamentare per propria scelta, perché nella fase del moralismo di tangentopoli, il suo partito, la Dc, aveva abolito il doppio incarico. E l’immunità era meglio di un ministero. Nessun eroismo e nessuna punizione, quindi. Quanto a Claudio Martelli, semplicemente si dimise da guardasigilli dopo la telefonata in cui il procuratore Borrelli gli preannunciava l’invio di un’informazione di garanzia. Nessuno lo ha cacciato. Solo per questo arrivò Conso, non certo per dare una mano ai mafiosi. Lo stesso ragionamento vale per la direzione del Dap: Nicolò Amato era il morbido e Di Maggio il duro con suoi colloqui investigativi. Ma il pm Nino Di Matteo, nella sua requisitoria al “Processo Trattativa”, parlò dei due avvicendamenti naturali come di due cacciate, due siluri politici frutto della necessità di concretizzare il dialogo dello Stato con la mafia. Era una bufala e sappiamo come è andata a finire. Anche questo fa parte della storia del 41-bis. “Entro l’11 febbraio Nordio può revocare il 41-bis a Cospito”. Parla il Garante dei detenuti di Gianluca De Rosa Il Foglio, 1 febbraio 2023 Mauro Palma chiede al ministro Carlo Nordio e al governo di “non agire di pancia, ma giudicare nel merito” sulla richiesta dell’avvocato dell’anarchico. “Non farsi condizionare vuol dire non agire in base alle pressioni subite, ma anche non agire in risposta a quelle pressioni, sul regime di detenzione di Alfredo Cospito il governo deve giudicare nel merito e non in base all’onda emotiva di questi giorni, non farlo significherebbe dire che gli anarchici hanno vinto sul serio”. Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti si appella al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Lo prega di non farsi trascinare in un meccanismo pericoloso che rischia di offuscare il merito della questione. Il ragionamento è questo: sullo stato di salute di Cospito, con il trasferimento nel carcere di Opera, il ministro e il governo hanno dimostrato di agire nel merito, adesso però sarà necessario fare lo stesso sul regime di detenzione. “Dal 12 gennaio sulla scrivania del ministro c’è una nuova istanza dell’avvocato che difende Cospito”, spiega il garante. “Serve a chiedere la revoca del decreto che ha disposto il 41-bis, quella richiesta deve essere valutata senza pregiudizi, non c’è molto tempo perché dopo 30 giorni, l’11 febbraio, varrà il principio del silenzio rigetto”. La richiesta del legale arriva dopo la pubblicazione delle motivazioni di una sentenza della Corte d’assise di Roma nei confronti di alcuni anarchici che nel 2017 fecero esplodere un ordigno fuori dalla stazione dei carabinieri di San Giovanni a Roma. Per l’accusa seguirono i dettami di Cospito, la vicenda è al centro del decreto che ha disposto il 41-bis. Nelle motivazioni uscite a inizio 2023 si legge però che non si avvisa “alcuna pretesa del Cospito di imporre all’esterno un pensiero unico sul concetto di ‘azione’ quale azione armata e distruttrice, né sono obiettivamente rintracciabili direttive che in tal senso egli fornisca dal carcere”. “Quando il tribunale di Sorveglianza a dicembre si espresse sulla richiesta di annullamento del 41-bis queste motivazioni non c’erano e quindi non sono state giudicate, per questo l’avvocato di Cospito si è rivolto al ministro”, spiega Palma. “A lui - prosegue - vengono contestate inoltre le pubblicazioni su alcune riviste, quelle possono essere bloccate con la censura applicabile anche con un regime detentivo più leggero, non entro comunque nel merito, ma il ministro può farlo”. Se non sarà Nordio a esprimersi, comunque, lo farà la Cassazione, in un’udienza fissata per il 7 marzo, ma che potrebbe essere anticipata. In caso di annullamento del 41-bis il governo, anche sull’onda delle proteste e dei piccoli attentati di questi giorni, potrebbe emettere un nuovo decreto per rinnovare la misura. “Sarebbe un paradosso che mi auguro non accada”, ammonisce Palma. Il garante però non nasconde di temere che la grancassa mediatica generata dal caso Cospito possa portare il governo ad agire di pancia. E d’altronde proprio ieri è nato il pericoloso “sillogismo Donzelli”: il 41-bis serve a contrastare la mafia, Cospito è al 41-bis, chi chiede che esca da quel regime è mafioso. Ironizza il garante, che è laureato in Matematica, dicono abilissimo in logica: “Praticamente come dire ‘Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli sono 12 e quindi Pietro e Paolo sono 12’, purtroppo quando alcune vicende diventano oggetto di uno scontro politico perdono l’essenza della loro realtà”. Al di là della vicenda, c’è in generale la questione 41-bis. Cospito dice di star facendo il suo sciopero della fame contro questa misura, utilizzata in Italia contro mafiosi e terroristi. Su questo il garante è netto: “Il 41-bis come strumento per interrompere la comunicazione e il collegamento con le organizzazioni criminali non può e non deve essere abrogato, piuttosto ne vanno corrette le distorsioni e le regole meramente afflittive”. In Italia i detenuti al 41-bis sono 738, solo 204 condannati all’ergastolo. “È un numero esagerato - dice - spero di non vivere in un paese con 738 capimafia, c’è una diffusione abnorme della misura che in parte interroga l’amministrazione penitenziaria: evidentemente le procure non si sentono totalmente garantite dal regime di alta sicurezza e quindi preferiscono spedire tutti al 41-bis, questo è certamente uno dei problemi da affrontare”. “Cospito va difeso a prescindere dal suo curriculum criminale” di Christian Raimo Il Domani, 1 febbraio 2023 Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto, parla della vicenda dell’anarchico detenuto al 41 bis “Le sue condizioni di salute sono peggiorare ed è costretto sulla sedia a rotelle. Tutto è nelle mani del ministro Nordio”. Partiamo dalle ultime notizie sanitarie. Come sta Alfredo Cospito? Per quanto riguarda le condizioni di salute di Alfredo Cospito, ho parlato poco fa col medico di fiducia, Angelica Milia, la sua valutazione è molto netta e ritiene che il detenuto possa avere pochi giorni di vita. La situazione generale è molto critica e ai dati clinici già noti, si è aggiunto il fatto che qualche giorno fa Cospito è caduto mentre tentava di fare la doccia e questo ha provocato una forte emorragia. Le sue condizioni complessive sono quindi peggiorate ed è ormai costretto sulla sedia a rotelle. È indubbio, quindi, che il delicatissimo equilibrio sul quale si poggiava la sua sopravvivenza è gravemente compromesso. Questo è, in altre parole, il dato clinico che a mio avviso rende urgente il fatto che siano assunte decisioni e provvedimenti che, invece, non sembrano essere imminenti. Le reazioni politiche sono state, diciamo, quasi praticamente assenti fino agli ultimi giorni. Sembrava che ci fosse una discussione interna al Consiglio dei ministri o che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, potesse prendere delle decisioni. Siccome non è chiaro a molti di chi sono le responsabilità giuridiche e chi è che può intervenire, ci puoi spiegare bene quali sono le persone che hanno il potere di intervenire in qualche modo per salvare la vita a Cospito? In sintesi, una persona, con un nome e un cognome: il ministro Carlo Nordio. Tocca a lui intervenire, facendo un doppio intervento. Deve, in primo luogo, revocare una norma ministeriale che risale a una decina di anni fa che impediva al ministro della Giustizia di revocare il 41 bis a cui fosse sottoposto un detenuto. Norma prevista dall’allora ministro Angelino Alfano. Dopo di che il ministro può revocare il regime di 41 bis a cui è sottoposto il detenuto, quindi la responsabilità è tutta sua. Anche perché l’altro lato di responsabilità, che fa capo alla Cassazione, ha un calendario tale che è assai probabile arrivi tardi, molto tardi rispetto allo stato di salute di Cospito. La questione è quindi tutta nelle mani del governo e del suo ministro della Giustizia. Trovo in primo luogo bizzarri e poi i desolanti i comunicati della presidenza del Consiglio dove si ribadisce, con determinazione, che il governo non deve scendere a patti con gli anarchici. Questa mi sembra un’affermazione pleonastica, da smontare in quanto banalità, ed è anche totalmente pretestuosa: è ovvio che un governo non debba trattare con gli anarchici o che non debba mediare. Ma chi gliel’ha chiesto? Il governo deve rispondere solo a sé stesso, ovvero ai valori e ai principi sui quali ha giurato, che sono i valori e i principi della Costituzione, le regole, le garanzie e i diritti che uno stato di diritto prevede per coloro che sono stati privati della libertà. Quindi questo suo “gonfiare il petto” e fare dichiarazioni tonitruanti è del tutto fuori luogo. Il governo, in sostanza, è chiamato a verificare se il trattamento di Cospito, la sua situazione, è coerente col dettato costituzionale, con i principi e le regole dello stato di diritto. Se nella sua condizione di persona sottoposta al 41 bis non si stiano violando i diritti fondamentali della persona, garanzie che il detenuto, comunque, deve poter far valere e affermare. Il regime di 41 bis, in particolare quello applicato a Cospito, risponde a quanto prevede la norma? Oppure è una misura abnorme, inutile, sproporzionata e dunque illegale? Questo è il nodo e non è altro. Le misure che sono state prese nei confronti di Cospito durante quel regime di 41 bis sono misure legali? Negargli la possibilità di avere nella propria cella le foto dei suoi genitori è legale? Risponde all’esigenza di sicurezza oppure significa semplicemente affermare una volontà afflittiva e punitiva nei confronti del detenuto? Queste sono le domande che dobbiamo porci. Non è certo per alcuni attentati dinamitardi di un pugno di anarchici che deve essere presa la decisione del governo. Tutte le decisioni di diritto prescindono dall’identità della persona incriminata, dal curriculum criminale di Cospito o di chiunque altro, prescindono dalla sua lealtà nei confronti dello stato di diritto, prescindono dalle parole che egli scrive o dice e hanno come unico punto di riferimento la legge. Lei si è occupato e si occupa di carcere da molti anni e ha anche scritto un libro che è stato ristampato da poco sull’abolizione del carcere. Chiaramente la battaglia di Cospito è una battaglia generale degli anarchici contro l’istituzione del carcere. Ma qui c’è un punto di caduta molto preciso, che è la battaglia contro il 41 bis e contro l’ergastolo ostativo. Vorrei chiederle, quindi, a che punto sono queste battaglie, oltre il caso Cospito... Le battaglie sono a un punto molto arretrato. Del 41 bis si parla grazie ad Alfredo Cospito, ma il 41 bis è attivo da oltre 30 anni e in oltre 30 anni, al di là del giudizio che diamo sulla norma in sé, è stato applicato in maniera tale da andare oltre la legge, violando i diritti umani. La consapevolezza di questo è tutt’ora patrimonio di piccoli settori dell’opinione pubblica, così come la consapevolezza che affermare un principio significa voler che le regole governino il nostro ordine sociale. Io non ho nulla a che vedere con gli anarchici e con Cospito, ma è ridicolo che io sia chiamato a fare questa dichiarazione. Perché mai pronunciarmi a favore dell’uscita di Cospito dal regime di 41 bis dovrebbe significare avere una qualche simpatia per lui, per le sue idee o per la sua ideologia? E tanto meno per quegli infelici che hanno fatto gli attentati incendiari in questi giorni, che chiaramente danneggiano la causa di Cospito. Si tratta di ristabilire un po’ di verità e questa riguarda i principi fondamentali dello stato di diritto, le garanzie essenziali e la democrazia. Le condizioni in cui si trova Cospito rispondono ai criteri di quell’articolo 27 della Costituzione, al comma 3, per cui una pena non deve essere in alcun modo disumana? Moltissime testimonianze ci dicono che il 41 bis, in tante circostanze, è una pena disumana. Altra questione fondamentale: l’ergastolo ostativo, le pene ostative. In particolare, l’ergastolo confligge violentemente con quello che è un assunto essenziale del nostro ordinamento e della nostra civiltà giuridica. Il nostro umanesimo politico ed etico si fonda su una categoria che l’ergastolo ostativo aggredisce nel suo fondamento. La categoria è la redimibilità, che tradotto in termini laici significa una cosa sola, ossia la possibilità che ogni uomo possa cambiare, possa trasformarsi, possa modificare il suo comportamento. Un ergastolo ostativo che non prevede la possibilità di ottenere benefici e di godere della libertà condizionale, è una pena che afferma che l’essere umano resta inchiodato al suo reato, che quell’essere umano che ha commesso un omicidio è l’omicidio stesso, è il suo crimine. Mentre invece qualunque idea del sistema penale e qualunque idea di sistema penitenziario che voglia essere intelligente e razionale, oltre che democratico, deve puntare sul fatto che il detenuto possa emanciparsi dal suo crimine, possa essere diverso dal suo crimine. L’ergastolo ostativo nega questa possibilità. Ci può fare un’analisi di queste due parole - redimersi e pentirsi - e raccontarci il dibattito giuridico che si è sviluppato, in questi due anni, attorno a questi concetti? Il pentimento per come è stato utilizzato nella produzione normativa prevede uno scambio. Io dichiaro pubblicamente il mio pentimento, do prove certe del mio pentimento, e a partire dalla collaborazione con la magistratura ottengo dei benefici. Questa è la forma classica del pentimento che ovviamente può prescindere totalmente da quanto è accaduto nell’animo di quella persona. Cioè se quel pentimento sia vero oppure fittizio. Quando io parlo di redimibilità alludo al significato autentico del termine, intendo un mutamento gratuito, che non chiede nulla in cambio. Una redenzione che si afferma come capacità di trasformarsi. Quante persone sono al 41 bis e quante, invece, condannate all’ergastolo ostativo? Al 41 bis si trovano 748 persone, tra le quali 13 donne. In ergastolo ostativo 1.400 persone circa. Dal 2000 a oggi, contrariamente al luogo comune che dice “ma poi nessuno muore in carcere” sono morte nelle carceri italiane 111 persone. In più gli eventi suicidari in questo anno sono stati 84, un numero altissimo, che corrisponde a 18 volte i suicidi che si verificano all’esterno del carcere. Negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita un centinaio di poliziotti penitenziari. Questo mi induce a dire che è il carcere a confermarsi come una macchina criminogena e patogena: criminogena perché riproduce all’infinito crimini e criminali e patogena perché riproduce malattie, patologie, psicosi, suicidi e morte. Una delle ragioni del 41 bis è la necessità di impedire ai detenuti di comunicare con l’esterno. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha proposto che venisse modificato il regime di 41 bis nei confronti di Cospito e venissero solamente controllati e censurati i suoi scritti verso l’esterno. Può dirci le sue riflessioni rispetto a questo? Siamo arrivati al cuore del problema. Quello di recidere i legami tra il detenuto la criminalità organizzata esterna non è uno degli obiettivi, in realtà è il solo obiettivo del 41 bis, per rispondere ai requisiti di legge non deve tendere ad altro. Il 41 bis infatti non è “il carcere duro”, non è il carcere pesante e afflittivo, è quel carcere che recide i legami con l’organizzazione di riferimento e tutto ciò che eccede questo scopo, è illegale. Il caso di Alfredo è un caso particolarmente singolare, lei ha detto che ci sono dei lati persino surreali e grotteschi. Perché di fatto nel regime di 41 bis la maggior parte delle persone sono legate a organizzazioni criminali o a organizzazioni armate di tipo terroristico. Rispetto a Cospito si può fare questa affermazione, che faccia parte di un’organizzazione oppure, anche in questo caso, dovremmo ragionare diversamente? Sì, almeno una sentenza definitiva della Cassazione nega due cose: nega che la Fai, Federazione anarchica informale, sia un’organizzazione criminale gerarchica, organizzata stabilmente, che prenda ordini e che risponda a una logica di organizzazione con le sue regole classiche. E afferma un’altra cosa: Alfredo Cospito non comanda sulla Fai, non è il leader prigioniero di un’organizzazione criminale che dipenda da lui e che da lui riceve ordini. Passiamo a un altro punto che queste parole richiamano e che in questi giorni avrà ascoltato: reti degli anarchici e organizzazione anarchica. Anche a partire dalla sua storia politica, le è capitato sicuramente di vedere come il dibattito pubblico abbia trattato la militanza anarchica. Anche qui, può fornirci una sua riflessione che abbia anche una prospettiva storica? Io credo di aver scoperto gli anarchici nella maniera più drammatica che possa capitare, ovvero in occasione della morte di Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano in via Fatebenefratelli. Lì è iniziata la mia vera forma politica, perché mi è capitato di essere tra coloro che hanno condotto un’attività di informazione e controinformazione su quella morte. In quella circostanza scoprii che il mondo anarchico, come tutti i mondi politici, era assai composito. Da allora, ovvero dal 15 dicembre del 1969 e negli anni successivi, ebbi la fortuna di conoscere molti anarchici che definirei miti, cioè molti anarchici che praticavano la non violenza. Dopo di che sia coloro che la violenza la praticavano, sia coloro che la ripudiavano cadevano sotto un unico stigma: la parola anarchica evocava le bombe. Posso dire per mia testimonianza personale che quando scoppiarono le bombe del 12 dicembre a Milano, nei locali della Banca nazionale dell’agricoltura, una parte del movimento studentesco accreditò per qualche giorno la possibilità che fossero stati proprio loro, gli anarchici, a compiere quella strage. Quindi la questione è delicata, ma sia la politica, sia soprattutto il diritto, mi hanno insegnato - e spero di non tradire mai questo insegnamento - che la mia scelta dalla parte di coloro che subiscono ingiustizia prescinde dall’identità politica di coloro che subiscono ingiustizia, dalla loro fedina penale, dal loro curriculum criminale e dalle loro scelte ideologiche. Quindi per me la vicenda di Alfredo Cospito è né più né meno che una tra le tante questioni di giustizia. Come è cambiata l’aria attorno alla galassia anarchica in questi ultimi anni, intorno alle indagini che l’hanno riguardata. E rispetto a questi processi le chiederei una riflessione politica: c’è un’area vasta che, come lei, ha a cuore la giustizia anche se riguarda coloro che non ci sono simpatici, che vengono definiti indifendibili? Negli ultimi vent’anni la politica giudiziaria nei confronti degli anarchici è sempre stata molto pesante. In genere, i processi hanno inflitto molti anni di carcere, hanno sempre fatto ricorso ai massimi della pena. La vicenda di Cospito è, anche sotto questo profilo, molto istruttiva: lui è stato condannato per strage, in II grado per strage contro la pubblica sicurezza, che prevedeva una pena massima di 15 anni. Su questo la Cassazione è intervenuta chiedendo che la condanna cambiasse il suo titolo e fosse strage non contro la pubblica sicurezza ma contro la personalità dello stato. Tutto ciò da un punto di vista formale è assolutamente legale: solo che questo non riesce a chiarire il punto di partenza. Che quella strage, che sia contro la pubblica sicurezza o contro la personalità dello stato, attribuita a Cospito, non c’è mai stata. Perché la strage è un reato di “pericolo”: se crei una situazione dalla quale potrebbe derivare una strage puoi essere condannato per strage. Anche se, come avvenne per i pacchi bomba messi da Cospito di fronte alla caserma dei carabinieri di Fossano, non ci sono morti né feriti. Ma aver messo in atto un’azione che, a determinate condizioni, avrebbe potuto causare morti e feriti, si configura come strage al massimo livello, contro lo stato, quindi politica. A mio avviso questa attribuzione di strage politica lo si deve al fatto che l’autore individuato è appunto un anarchico. Per quanto riguarda l’ultima sua domanda, io non credo che ci sia stato un mutamento. Ritengo che la componente garantista della società italiana sia stata e continui a essere molto esile e che la ragione di fondo consista in questo: che le condizioni di stress economico-sociale, di debolezza materiale, di disuguaglianze sempre più acute e più diffuse in larghi strati della popolazione, produca questa reazione. La reazione è una pulsione di vendetta, di rivalsa, contro chi appare come un impunito. Il giustizialismo italiano ha questa profonda radice sociale. Gruppi sociali deboli, che si sentono offesi, maltrattati, ignorati o peggio che si sentono vittime di ingiustizia, reagiscono chiedendo una giustizia sbrigativa, vendicativa, nei confronti di quei gruppi che appaiono loro, a qualunque titolo, come privilegiati. Cartabia ha sbagliato su Cospito: “Prima del 41bis si poteva pensare a un regime intermedio” di Daniela Preziosi Il Domani, 1 febbraio 2023 L’ex ministro Andrea Orlando: “Ho difeso il 41 bis, l’ho applicato. Nessuno di noi vuole che Cospito sia liberato né che possa comunicare con l’esterno, ma quel tipo di comunicazioni peculiari dei movimenti politici si possono interdire attraverso altri strumenti. La mia è una perplessità sull’applicazione concreta”. Sulle parole di Giovanni Donzelli, (“la sinistra chiarisca se sta con la mafia e i terroristi”) il presidente della camera Lorenzo Fontana è stato costretto a istituire un gran giurì. Ma il deputato ha rivelato, citando documenti sconosciuti ai colleghi e provenienti dal ministero della giustizia, di una “saldatura” fra anarchici e mafia. Per questo l’ex ministro Orlando chiede che Nordio e Piantedosi ora chiariscano in aula. Quelle che Andrea Orlando definisce “accuse infamanti, in nessun molto accettabili” ieri hanno scatenato la prima bagarre in aula. Il meloniano ce l’aveva con una visita nel carcere di Sassari, per verificare le condizioni di salute dell’anarchico Alfredo Cospito, da parte di quattro deputati dem, fra cui l’ex ministro di Giustizia. “Si può dissentire sulla modalità dell’esecuzione della pena sulla base di un principio generale che riguarda l’esigenza di salvare una vita umana”, spiega. “Ma non per questo si può essere accusati di essere collusi”. Poi però Donzelli ha ripreso la parola per respingere l’accusa di diffondere notizie riservate del Copasir, di cui è vicepresidente, e ha fatto un altro guaio. Donzelli ha riferito di un colloquio fra Cospito e un ‘ndranghetista, contenuto in un atto pubblico, a suo dire, che ha il ministero della Giustizia. Di che si tratta? Lo dovrà chiarire. A me non risulta che al ministero ci sia un archivio nel quale vengano riversate le intercettazioni realizzate all’interno del carcere. Sarà importante capire come ne è venuto in possesso, perché a quanto ne so chi ha il compito di valutare i rapporti del Dap, a cui possono essere allegate intercettazioni, è il ministro. Ha fatto una richiesta di accesso agli atti? E sulla base di cosa la domanda è stata accettata? Chiedete che Nordio venga in aula a chiarire? Sì. E anche che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, perché Donzelli ha esplicitato il fatto che ci sarebbe una saldatura fra organizzazioni criminali e anarchici. Se fosse vero sarebbe un fatto nuovo. Chiedete che Donzelli si dimetta da vicepresidente del Copasir per la disinvoltura con cui maneggia informazioni delicate? Lo valuteremo nel gruppo alla luce delle verifiche con i ministri sui punti da chiarire. In aula lei è stato “sospettato” di essere contrario al 41 bis... È falso. Ho difeso il 41 bis, l’ho applicato. Ritengo che sia un regime che deve essere tenuto strettamente legato alla sua funzione, quella di impedire i collegamenti fra carcere ed esterno, prevalentemente, anche se non esclusivamente, per le organizzazioni di stampo mafioso. Quando si esce da quell’ambito bisogna agire con cautela perché ci sono strumenti egualmente efficaci che non hanno tutte le controindicazioni del 41 bis anche nell’alta sicurezza. Nessuno di noi vuole che Cospito sia liberato né che possa comunicare con l’esterno, ma quel tipo di comunicazioni peculiari dei movimenti politici si possono interdire attraverso altri strumenti, come la censura, il divieto di inviare articoli, di ricevere la posta. La mia, ripeto, è una perplessità sull’applicazione concreta, non un dubbio sull’utilizzo del 41 bis per la criminalità organizzata e in alcuni casi anche per il terrorismo. Nordio può intervenire. Dovrebbe farlo? Giustamente guarderà gli atti. Ma era giusto da parte nostra sollecitare questa riflessione. E se c’è stata, o è in corso, significa che la questione era fondata. Sarebbe, cito esponenti della destra e del governo, “un cedimento dello stato agli anarchici”? Assolutamente no. Si tratterebbe di un diverso regime carcerario. Dopodiché la decisione del ministro deve essere estranea al tentativo di farsi condizionare. Per Piantedosi lo sciopero della fame di un carcerato non può cambiare l’ordinamento giudiziario... I pesi sulla bilancia cambiano quando in gioco c’è una vita. Ma lei nel 2016 non ha sospeso il 41bis al boss Provenzano morente. Perché? Ho fatto trasferire Provenzano in un centro clinico alle prime avvisaglie della sua malattia. Ha avuto tutte le cure necessarie. Le tre procure interessate davano parere favorevole a superare quel regime, ma la procura Antimafia diceva che poteva ancora dare indicazioni, anche testamentarie, alla sua organizzazione. Ho ritenuto che il principio cautelativo consigliasse di andare in questa direzione. Ma Provenzano non stava morendo perché era al 41 bis, moriva per una sua malattia e ha ricevuto le stesse cure che avrebbe ricevuto in altro regime. E non credo di dover spiegare perché è più semplice dimostrare la pervasività dell’organizzazione mafiosa fuori e dentro il carcere rispetto al movimento anarchico. Per numeri e presenza storica. Questa domanda, se permette, è sintomatico che la facciano quelli per i quali il garantismo riguarda solo i vicini di ombrellone. La destra usa un linguaggio da anni di piombo, parla di linea della fermezza, dice che non si tratta con i terroristi... Sono d’accordo. Nessuna trattativa. Si chiede di applicare le norme che già esistono in modo congruo alla situazione. Se è vero quello che dice Donzelli, che c’è stata una saldatura al 41 bis fra anarchici e mafia, c’è da riflettere nella strategia di segregazione utilizzata, anche per non fare gli errori che sono stati fatti negli anni Settanta dove proprio in carcere si realizzò un’alleanza fra criminalità organizzata e terrorismo, rosso e nero. Peraltro Cospito “parla” ai suoi attraverso il 41 bis... È il modo più forte con cui sta parlando. Anzi l’attivazione del 41 bis lo ha fatto diventare un riferimento delle dimensioni che ha oggi. Anche questo è un elemento su cui riflettere se vogliamo ragionare sulla strategia più opportuna contro i nuovi fenomeni eversivi. Ma è inaccettabile che discutere significhi essere associati a quei fenomeni. Sono quello che ha istituito la procura nazionale Antiterrorismo e che ha fatto approvare l’ultimo codice Antimafia che a suo tempo venne considerato troppo drastico. Come si sfiamma la protesta dei compagni di Cospito? Sanzionando chi viola la legge. E indagando se ci sono collegamenti fuori e dentro il carcere e nei Paesi in cui questa rete si è sviluppata. Quando ha incontrato l’anarchico, cosa vi siete detti? Ci ha confermato la sua volontà di andare avanti con lo sciopero della fame contestando l’istituto del 41 bis e la applicabilità alla sua situazione. Noi abbiamo visto le sue condizioni di salute, chiesto che fosse trasferito in un centro specializzato. Io ho anche sollevato delle perplessità rispetto all’applicabilità del regime a cui è sottoposto, ma al contempo, in un’intervista del giorno dopo, ho detto che il 41 bis è uno strumento essenziale per reprimere i fenomeni criminali di stampo associativo. Ha sbagliato all’epoca la ministra Cartabia a erogare quella pena? Le condizioni evolvono. Può darsi che al momento fosse necessaria. La perplessità è che Cospito è passato da un regime di alta sicurezza senza particolari censure al 41 bis. Forse si poteva esplorare un regime intermedio. Da inviare articoli alla stampa anarchica, da una significativa permeabilità comunicativa, alla segregazione totale. Ed è un elemento che poteva essere considerato anche dopo, perché il 41 bis non è una misura definitiva. Cospito dice che andrà avanti fino alla fine... È per questo che siamo andati nel carcere di Sassari. Lo stato deve fare eseguire la pena ma insieme salvaguardare la vita di chi ha in custodia. Donzelli ha fatto esplodere questa vicenda nel pieno del voto sull’istituzione della commissione Antimafia. Curiosa scelta di tempi. Perché secondo lei? Non credo che sia un caso, né che Donzelli sia un ingenuo. Forse gli è scappata la frizione rivelando notizie riservate, ma era un attacco a freddo che voleva creare una polarizzazione. Per distrarci dai problemi del governo, ma anche per creare una condizione che giustifichi una politica giudiziaria di tipo repressivo, inaugurata con il decreto Rave e poi con il decreto Ong. L’effetto concreto è stato quello di cancellare il tema delle mafie, che è il dibattito più trasversalmente sottovalutato. Non se ne parla più, nonostante la Dia dichiari che c’è un’infiltrazione diffusa in molte regioni, che le procure lancino un allarme sui fondi del Pnnr, e che il procuratore antimafia dica che c’è un ritardo negli strumenti con cui si contrastano le mafie. La discussione in aula è stata volutamente portata su tutt’altri temi. “Cospito rifiuterà l’alimentazione forzata. Atto già depositato al Dap: il governo rischia davvero” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 febbraio 2023 “Non do la sua morte come imminente, ma se il digiuno non viene interrotto è fatale che si vada incontro a quell’esito”, ha raccontato la dottoressa Angelica Milia, medico di fiducia dell’anarchico Alfredo Cospito, a Luigi Manconi su Repubblica. L’uomo ha superato i cento giorni di sciopero della fame ed è stato trasferito dal carcere di Sassari a quello milanese di Opera, dove si può contare su un’assistenza sanitaria più efficace. Ma lo Stato può forzare Cospito a nutrirsi in modo da scongiurane il decesso? Secondo la legge 219/2017, il paziente capace di agire ha il diritto di rifiutare qualsiasi accertamento indicato dal medico per la sua patologia, nonché di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche qualora la revoca comporti l’interruzione della cura. Rientrano in tale ambito, spiega l’Associazione Luca Coscioni, come da indicazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità e delle società scientifiche italiane, la nutrizione e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione di nutrienti su disposizione medica e attraverso dispositivi medici. Ma qual è la situazione nel caso di Cospito? Ce la spiega il suo legale, l’avvocato Flavio Rossi Albertini: “L’uomo ha scritto in carcere due documenti, che io ho inoltrato al Dap, al Provveditorato regionale quando era ancora recluso in Sardegna e al Garante dei detenuti. In essi Alfredo ha espressamente dichiarato di voler rifiutare l’alimentazione forzata. Essendo un trattamento di natura sanitaria, qualunque soggetto può decidere se riceverlo o meno. A parer mio il diniego è insuperabile”, spiega il legale. Che poi precisa: “Diverso è se avesse un arresto cardiaco: in quel caso immagino ci sia un obbligo giuridico dei medici di salvargli la vita”. Chiediamo a Rossi Albertini se il diniego permanga anche nel caso in cui Cospito non possa più esprimere le sue volontà: “Secondo me neppure in caso di incoscienza lo si può alimentare forzatamente. Io conservo questo suo documento in cassaforte qui a studio. Immagini quanto possa pesarmi da un punto di vista etico e morale far rispettare una simile volontà del mio assistito. Spero veramente che non ci si debba arrivare”. A Radio 1 Rai l’avvocato ha aggiunto: “Cospito è stato visto da una sostituta processuale che ho nominato: lo ha trovato provato e ha appreso che ha deciso di interrompere gli integratori. Questa decisione mi inquieta, spero di farlo recedere”. Sul dibattito che si è creato tra politica e magistratura: “Si è passati dalla questione giuridica alla fantapolitica”, dice Rossi Albertini. “Pensare che un personaggio come Cospito possa fare intelligenza con la criminalità organizzata per mi sembra un’affermazione che va al di là di ogni ragionevolezza”. Sulla possibilità di sottoporre Cospito a un trattamento d’emergenza sono molto chiare anche le dichiarazioni rese dal presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick a Sky Tg24: “Finché è cosciente non è assolutamente legittimo sottoporre forzatamente il detenuto a nutrizione”. Ma soprattutto, interpellato dal Dubbio, Flick conferma che una Dat come quella di cui vi abbiamo dato notizia impedisce un intervento “salvavita” di nutrizione persino nel caso in cui l’anarchico perdesse conoscenza. Il quadro è insomma molto pesante anche rispetto alle responsabilità del governo: davvero contribuisce alla “causa” del 41 bis il fatto che una persona si lasci morire mentre è, in quanto reclusa, nelle mani dello Stato? Il legale della vittima di Cospito: “il 41bis non mi piace e non serve” di Claudia Fusani Il Riformista, 1 febbraio 2023 Parla l’avvocato Pagano, difensore di Roberto Adinolfi, l’ex manager Ansaldo che fu gambizzato dall’anarchico nel 2012. “È ingiusto infliggere a quel detenuto dei tormenti inutili. A me il regime del 41bis non piace affatto. Anzi, non serve assolutamente a nulla e, come in questo caso, ha un effetto contrario a quello che dovrebbe avere”. Avvocato Pagano, quale sarebbe l’effetto “contrario”? Si rischia di creare un martire. Se Cospito ha commesso dei reati o ne sta commettendo, che venga processato. Ma non ritengo sia giusto infliggergli delle sofferenze e dei tormenti inutili. A cosa si riferisce? Mi dicono che essendo sottoposto a questo regime detentivo gli è impedito, ad esempio, di ritirare i libri dalla biblioteca del carcere. A cosa serve una misura del genere? Sinceramente non capisco. La Costituzione non dice che la pena deve essere afflittiva. Molti affermano che il regime del 41bis nei confronti di Cospito sia necessario dal momento che egli pare essere l’ispiratore dei vari attentati da parte degli anarchici in suo nome di queste settimane... Se si vogliono troncare i legami con l’esterno esistono altre misure prima del 41bis. Penso al controllo della corrispondenza o al controllo delle telefonate. Credo che queste due misure siano già sufficienti a tale scopo, senza per forza sottoporre Cospito a ciò che viene comunemente definito il “carcere duro”. Un altro aspetto riguarda il fatto che in questi anni l’anarchico pescarese non si sia pentito delle sue azioni o abbia chiesto scusa... Ma cosa significa “pentirsi”? Premesso che nessuno quando si pente dice tutto quello di cui è a conoscenza, perché ci si dovrebbe pentire? Ci sono tanti motivi alla base della scelta di non pentirsi. Una persona potrebbe aver paura o avere poco da dire. Lei ha difeso molti terroristi durante gli anni di piombo. Ci sono differenze rispetto a quel periodo? Ma senza dubbio. Noto un clima di grande fermento da parte degli anarchici, ma ci si limita a degli attentati con ordigni incendiari. Non mi pare al momento un fenomeno pericoloso. Negli anni Settanta c’era d’aver paura ad uscire di casa. Le Br sparavano, la gente moriva ammazzata. La violenza era all’ordine del giorno, non si possono fare confronti per rispondere alla sua domanda. Cospito, secondo lei, avrebbe voluto uccidere Adinolfi? Il mio assistito è in silenzio su questa vicenda ormai di molti anni fa e in quanto suo legale rispetto questo suo silenzio e non voglio entrare nel merito della vicenda. Fatta questa puntualizzazione, non ritengo che Cospito avesse cercato d’ucciderlo. Gambizzarlo non è comunque una bella cosa ma avere una volontà omicida è diverso. Come finirà questa vicenda? Cospito sta facendo lo sciopero della fame da oltre cento giorni, ha perso più di 40 kg. Ha fatto anche sapere che continuerà fino a quando il 41 bis non sarà abolito. Non solo per lui ma per tutti... È sempre difficile fare delle previsioni ma credo che non succederà assolutamente nulla. Perché? Il 41bis riguarda in questo momento svariate centinaia di persone. E dal momento che la legge è uguale per tutti, se dovesse essere abrogato nei confronti di Cospito dovrebbe esserlo anche per gli altri che hanno vicende processuali diverse. Comunque ogni decisione spetterà, come sempre, ai magistrati. Il governo mischia Cospito e la mafia per difendere la linea dura sul 41 bis di Giulia Merlo Il Domani, 1 febbraio 2023 Il deputato Donzelli, fedelissimo di Meloni, cita relazioni di servizio della polizia penitenziaria per sostenere connivenze tra l’anarchico e la ‘ndrangheta. La strategia per contenere il caso che spacca la maggioranza. La vicenda di Alfredo Cospito è in un vicolo cieco: il detenuto è in pericolo di vita e il governo non intende revocare il carcere duro. Il rischio, però, è che la morte di Cospito sia un colpo per Giorgia Meloni. Per questo Fratelli d’Italia ha provato a cambiare la narrazione, affidando l’articolazione della strategia difensiva al deputato Giovanni Donzelli, fedelissimo della premier. “La mafia sta utilizzando il terrorista Cospito, un influencer, per far cedere la mafia sul 41 bis”, è la bomba che ha scaricato sulla Camera. A sostegno della sua tesi ha citato atti riservati interni del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, leggendo interi stralci delle relazioni di servizio che riproducono i colloqui tra Cospito e il mafioso con cui condivideva l’ora d’aria in carcere. “Il 28 dicembre del 2022 Cospito ha avuto un confronto con un boss della ‘ndrangheta che lo ha esortato ad andare avanti”, ha detto Donzelli, aggiungendo che “Francesco Di Maio del clan dei Casalesi, diceva: “Pezzetto dopo pezzetto si arriverà al risultato”, che sarebbe l’abolizione del 41 bis. Cospito rispondeva: “Dev’essere una lotta contro il 41 bis, per me siamo tutti uguali”. “Questa sinistra sta dalla parte dello stato o dei terroristi e della mafia?”, ha concluso Donzelli, citando la visita in carcere del 12 gennaio fatta dai deputati del Pd. Le parole hanno provocato un durissimo scontro in aula con i democratici, che hanno rivendicato il diritto di visitare le carceri e Federico Fornaro ha ottenuto l’istituzione di un giurì d’onore per “giudicare le accuse di Donzelli”. Le opposizioni hanno chiesto le sue dimissioni dalla vicepresidenza del Copasir e al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di spiegare la fuga di notizie. L’intervento di Donzelli segna uno spartiacque per la linea politica del governo. Per uscire dall’angolo, ha scelto di utilizzare il paradigma mafioso. Così il caso dell’anarchico si è trasformato, secondo Donzelli, in una sorta di cavallo di Troia dietro al quale si nasconderebbe la vecchia teoria che è stata alla base della cosiddetta trattativa stato-mafia per abolire il 41 bis. L’argomento, poi, è stato utilizzato per accusare l’opposizione di possibili connivenze. Questo ribaltamento logico ha l’obiettivo di portare l’attenzione sul piano dello storico scontro tra lo stato e la mafia, ancora caldo dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro che Meloni ha cavalcato come successo del suo governo. Distogliendo così l’attenzione dal dato politico della difficoltà del governo Meloni di gestire sia lo sciopero della fame dell’anarchico e la sua possibile morte in carcere, sia la crescente pressione nelle piazze, dove gruppi antagonisti stanno manifestando anche con atti violenti la loro solidarietà a Cospito. Il ministro Nordio - L’iniziativa di Donzelli, tuttavia, rischia di generare l’effetto opposto, aprendo un problema nel governo. L’utilizzo delle relazioni di servizio del Dap, infatti, sarebbe avvenuto all’insaputa di Nordio, che ha incaricato il suo capo di gabinetto di “ricostruire con urgenza” quel che è accaduto alla Camera. Ovvero, come sia stato possibile che Donzelli avesse quei documenti. Il deputato ha detto che nemmeno Meloni era a conoscenza del suo intervento, tuttavia il rischio è che la responsabilità di queste rivelazioni inasprisca ulteriormente i rapporti con la magistratura. Sullo sfondo è rimasto il caso Cospito. In conferenza stampa, Nordio ha detto che “la magistratura è indipendente e sovrana” e che la linea del governo sul mantenimento del 41bis non cambia. Tuttavia al ministero pende la richiesta di revisione della misura e Nordio ha spiegato che sta acquisendo “con celerità” i pareri della Direzione nazionale antimafia, del giudice di sorveglianza e della procura generale di Torino. Se formalmente la scelta di revocare la misura spetterebbe a lui, Nordio ha detto che “l’importanza politica della vicenda” porterà probabilmente a una discussione in cdm e potrebbe anche “essere addirittura attuata una discussione parlamentare”. Tradotto: la scelta deve pesare politicamente su tutto il governo e non solo su via Arenula. Intanto, Cospito è detenuto nel carcere di Milano Opera e non si alimenta da 105 giorni. Bagarre alla Camera, Donzelli (FdI): “La sinistra sta con lo Stato o con i terroristi?”. Rivolta del Pd di Lorenza Rapini La Stampa, 1 febbraio 2023 Nordio sul 41bis: “Il ministero non può intervenire”. Sul caso dell’anarchico è intervenuto anche il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo: “Sta scontando la pena come condannato in via definitiva”. “La situazione di Cospito è bivalente. La condanna irrogata era basata sul riconoscimento di un delitto che il Pg di Torino non ha ritenuto corretto. Il reato di strage contestata a Cospito prevede la pena dell’ergastolo, anche se non ci sono vittime. Questo procedimento, sospeso in attesa della sentenza della Corte Costituzionale, radica il 41 bis. Il tribunale di Sorveglianza ha rigettato il ricorso di Cospito, confermando il 41 bis”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, intervenendo in conferenza stampa, mette a tacere le polemiche e le richieste su un suo intervento per far sì che sia revocato il regime del carcere duro all’anarchico, che da oltre 100 giorni sta facendo uno sciopero della fame e la cui salute si aggrava di ora in ora. Il legale ha riferito oggi che Cospito ha deciso di interrompere l’assunzione degli integratori. “Questa decisione mi inquieta, spero di farlo recedere”, ha commentato l’avvocato Flavio Rossi Albertini. Ma sul carcere duro già nel Cdm di ieri il governo, in una nota congiunta, aveva dichiarato l’intenzione di proseguire con la linea della fermezza: “Non scendere a patti con chi usa la violenza”. “Non siamo assolutamente condizionati dalle vicende del detenuto Cospito che passa attraverso la valutazione dell’autorità giudiziaria”, ha ribadito oggi il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ci sono, ha proseguito, “ricadute sull’ordine e la sicurezza pubblica e i fatti di questi giorni hanno imposto una riflessione e la necessità di innalzare il livello di attenzione rispetto alle effervescenze, alla capacità di porre in essere azioni da parte degli anarchici”. Come ha sottolineato ieri Nordio, “la tutela della salute di ogni detenuto costituisce un’assoluta priorità”. E oggi Antonio Tajani ha ricordato che Cospito “è stato trasferito al carcere di Opera per garantire la sua sicurezza sanitaria”. “La scelta - ha spiegato il ministro degli Esteri - è stata fatta perché Opera ha la struttura sanitaria più efficiente d’Italia in ambito carcerario ma il regime detentivo del detenuto Cospito non è cambiato. Poi la magistratura prenderà le sue decisioni”. Nordio riferirà nuovamente domani pomeriggio alle 16 all’Aula della Camera sulla vicenda. L’intervento di Donzelli - Sul caso in giornata bagarre anche alla Camera. “Cospito ha incontrato mafiosi e il 12 gennaio 2023, mentre parlava coi mafiosi ha incontrato anche i parlamentari Serracchiani, Verini, Lai e Orlando che andavano a incoraggiarlo nella battaglia. Allora voglio sapere, questa sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi con la mafia? Lo vogliamo sapere in quest’aula oggi”, ha dichiarato il deputato di FdI Giovanni Donzelli, che ha poi definito Cospito un “influencer che sta utilizzando questo strumento” - riferito al 41 bis - e “che sta utilizzando la mafia per far cedere lo Stato sul 41 bis”. Dopo l’intervento di Donzelli, la seduta dell’Aula - nella quale si stava esaminando la proposta di istituire anche in questa legislatura la commissione Antimafia - è stata poi sospesa e rinviata al termine della riunione dei capigruppo in programma alle 15. Ma intanto è arrivata la proposta di Federico Fornaro (Pd) di istituire “una commissione, un Giurì d’onore secondo il regolamento della Camera, che giudichi la fondatezza dell’accusa di Donzelli, che ha leso l’onorabilità dell’onorevole Serracchiani e del Pd. Al capogruppo Foti dico, Donzelli deve scusarsi”. Immediata la replica di Donzelli: “Le scuse? No. Andrò volentieri al Giurì d’onore per chiedere al Pd di chiarire le sue parole. Mi auguro che la sinistra italiana che sta balbettando su Cospito chieda scusa agli italiani”. “Ogni minuto che passa la posizione di Donzelli si aggrava”, ha aggiunto il deputato dem e vicesegretario del Pd Beppe Provenzano, che si è poi rivolto al ministro della Giustizia: “Chiediamo al ministro Nordio di chiarire in quest’Aula alcuni particolari emersi dall’intervento di Donzelli, che ha chiarito di non essere venuto in possesso di quelle informazioni dal Copasir, ma non ha chiarito come ne è venuto in possesso. A noi risulta che le informative del Dap entrano nella disponibilità del Dap ed è il ministro della Giustizia a decidere l’eventuale diffusione di queste informazioni e allora Donzelli e tutto il gruppo di FdI devono chiarire come sono venuti in possesso di queste informazioni riservate e quando”. Il dibattito sul 41bis - Nel frattempo dibattito sul carcere duro sta coinvolgendo anche il Paese. Una scritta “41 bis= tortura” è comparsa su un muretto di piazza Marcello Torre al Centro Direzionale di Napoli, a pochi metri dal Palazzo di Giustizia. Analoghe scritte sono comparse, in questi giorni, in diverse città italiane in favore di Cospito. A Milano, due striscioni sono stati appesi nella notte sui ponti del Naviglio Pavese, all’altezza di via Gola. Uno dei due è stato esposto in solidarietà di Alfredo Cospito, “41 bis uguale tortura. In solidarietà ad Alfredo da 101 giorni in sciopero della fame”, si legge. Il secondo invece era per Ahmad Saadat, segretario generale del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. “Libertà per Ahmad. Free the mall”, recitava la scritta accompagnata dalla firma del gruppo Giovani palestinesi. Il legale di Cospito: “Sua battaglia contro sistema barbaro” - “Stiamo passando dalla questione giuridica alla fantapolitica. Pensare che un personaggio come Cospito possa fare intelligenza con la criminalità organizzata per compiere qualcosa, mi sembra una affermazione che va al di là di ogni ragionevolezza. Cosa diversa è affermare che Cospito, essendo un personaggio politico, un soggetto che un tempo si sarebbe chiamato un rivoluzionario, nel momento in cui si è trovato nel 41 bis, chiaramente non ha intrapreso una battaglia esclusivamente per sé - certamente centrale è la revoca del suo provvedimento - ma nel momento in cui si è reso conto a che cosa sono sottoposti 748 esseri umani in questo Paese, ha voluto affermare che la sua battaglia non è esclusivamente per sé ma è contro un sistema barbaro, medioevale da Santa Inquisizione. Cospito ha semplicemente sollevato il problema”. Così Flavio Rossi Albertini, legale di Alfredo Cospito, intervistato su Rai Radio1. “È la direzione che sceglie l’area di socialità - ha continuato l’avvocato - che sceglie con quali soggetti porre un detenuto al 41 bis”. “Sono 4 persone - ha concluso Rossi Albertini -. Le sceglie la direzione. Quindi queste 3 persone, oltre al Cospito, sono le uniche con cui lui può parlare”. L’intervento di Saluzzo - Sul caso Cospito è intervenuto anche il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, che ha ricostruito la vicenda dell’anarchico: “È stato processato e condannato per una serie di reati (taluni assai gravi) e la Corte suprema di Cassazione, decidendo sui ricorsi, proposti dagli imputati e da questa procura generale, ha respinto il ricorso dell’imputato Cospito e ha accolto il ricorso di questo Pg nei confronti proprio di Cospito e altri. La Corte di Cassazione ha annullato, con rinvio alla Corte di Torino, la condanna per Cospito con riferimento all’episodio relativo all’attentato, realizzato con esplosivi temporizzati alla Scuola allievi carabinieri di Fossano e lo ha riqualificato come “strage” con connotazioni e finalità politica, un reato più grave di quello originariamente ritenuto dai giudici di merito. Di conseguenza, la sentenza di condanna per tutti gli altri reati contestati a Cospito è divenuta definitiva”. “Per questi reati - ha proseguito - il mio ufficio ha emesso ordine di esecuzione della pena (20 anni) e ha cumulato anche le condanne definitive emesse da altre autorità giudiziarie per complessivi anni 30 di reclusione. Per effetto di ciò, il signor Cospito sta ora scontando, come condannato in via definitiva, quella pena”. In conclusione la precisazione: “La posizione processuale (condanna e attesa di residuo giudizio) non ha nulla a che vedere con quella che viene chiamata (impropriamente) misura del 41 bis ordinamento penitenziario, poiché quel regime differenziato di detenzione viene applicato a soggetti dei quali si riconosca la particolare pericolosità, imputati o condannati per taluni gravi reati previsti dalla legge e la possibilità e capacità di mantenere, pur se detenuti, collegamenti con le associazioni, mafiose terroristiche o eversive”. Incontro tra pm e investigatori sulle indagini - Si è svolto oggi in Procura a Roma un incontro tra i magistrati del pool antiterrorismo, coordinati dall’aggiunto Michele Prestipino, e gli investigatori del Ros e della Digos per fare il punto sulle indagini relative ai blitz compiuti dagli anarchici negli ultimi mesi anche a sostegno di Alfredo Cospito. In base a quanto si apprende al momento a piazzale Clodio ad oggi sarebbero aperti una ventina di procedimenti. Fascicoli che riguardano anche le azioni contro le sedi diplomatiche e funzionari avvenute ad Atene, Barcellona e Berlino. All’attenzione dei pm anche il lancio di una molotov avvenuto sabato notte verso un commissariato nella zona Prenestina e l’incendio di alcune auto avvenuto ieri nel quartiere Montesacro. Pd, terroristi e mafia, Donzelli senza freni scatena un putiferio di Andrea Colombo Il Manifesto, 1 febbraio 2023 Il numero 2 di FdI e del Copasir si scaglia contro i dem che hanno visitato Cospito in carcere. In campo il Giurì d’onore e il ministro. Finirà di fronte al Giurì d’onore, che però si limita a distribuire i torti e le ragioni in via definitiva, senza voto e senza poter essere sindacato ma anche senza poteri sanzionatori. Finirà in tribunale: la capogruppo del Pd alla Camera Debora Serracchiani ripete per tutto il giorno che il suo partito procederà “per via anche giudiziaria perché è stata lesa la nostra onorabilità”. È già finita in richiesta di dimissioni di Giovanni Donzelli da vicepresidente del Copasir perché nell’intervento dello scandalo, quello in cui ha accusato il Pd di far da sponda a terroristi e mafiosi, il coordinatore di FdI ha sciorinato informazioni sui colloqui di Cospito con altri detenuti e non si capisce come ne sia entrato in possesso. Il Parlamento avrebbe dovuto e potuto affrontare il caso Cospito da mesi. La prima interrogazione, presentata dal capogruppo di Avs al Senato Peppe De Cristofaro, è del 3 novembre. Non ci fu risposta come non c’è stata a una seconda e più recenti interrogazione. In compenso l’aula di Montecitorio è esplosa ieri, non sull’opportunità o meno di lasciar morire Alfredo Cospito come Bobby Sands ma sull’accusa, rivolta al Pd di complicità nell’assalto contro il 41 bis. Cioè contro quel regime carcerario che mamma Europa bolla come una forma di tortura. Donzelli, anche più scalmanato del solito, ciuffo al vento ed espressione alla Tony Perkins in Psycho, vuole provocare e in materia è un maestro. Si dovrebbe parlare dell’istituzione della commissione Antimafia proposta dal Pd, lui però scarta e si lancia in un teorema da alta dietrologia secondo cui Cospito altro non sarebbe che lo strumento adoperato dalle mafie per scardinare il santissimo articolo. Come si spiega altrimenti la solidarietà manifestata da due detenuti, uno della ‘ndrangheta, l’altro dei casalesi? Incrociandolo al volo nei corridoi del carcere l’hanno esortato ad andare avanti. Più chiaro di così! Il pezzo forte però arriva alla fine, quando il numero 2 di Fratelli d’Italia accusa quattro deputati del Pd, la capogruppo Debora Serracchiani, Walter Verini, Silvio Lai e Andrea Orlando, di essere andati a trovare Alfredo Cospito nel carcere di Sassari per “incoraggiarlo nella battaglia”. La conclusione è teatrale e fragorosa: “Voglio sapere se questa sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi con la mafia?”. Insomma, tutti insieme appassionatamente, anarchici, mafiosi e Pd, uniti per abbattere il 41 bis. Ma per il Pd sentirsi accusare di cospirare contro il carcere duro è troppo. Tremante di indignazione, Debora Serracchiani passa da una conferenza stampa improvvisata a una raffica di interviste volanti: “Sono parole gravissime che hanno rilevanza penale. La presidente Meloni deve dire se le condivide. Non abbiamo mai messo in dubbio il 41 bis né dubitato delle decisioni prese”, cioè della scelta di applicare quell’articolo a Cospito. “Eravamo a Sassari solo per valutare se quel carcere era attrezzato per garantire le condizioni di salute di Cospito e Nordio ha fatto esattamente quel che chiedevamo. Ha confermato il 41 bis ma spostato l’anarchico a Opera”. Dietro lo scambio di ceffoni, sul caso Cospito l’accordo è armonioso. Chiamata direttamente in causa, la premier a pronunciarsi non ci pensa per niente. Donzelli, felicissimo del risultato ottenuto, non solo non si rimangia la parola ma rincara per tutto il giorno: “Abbiamo messo il dito nella piaga. Sono settimane che su Cospito il Pd balbetta”. Il presidente della Camera Lorenzo Fontana, investito della spinosa faccenda, se la cava accettando la richiesta di convocare il giurì d’onore. Il guardasigilli Carlo Nordio anticipa a oggi l’informativa a Montecitorio sull’intera vicenda. I fuochi artificiali sono garantiti perché il Pd martella su quelle intercettazioni ambientali registrate nel carcere di Sassari e messe a disposizione di Donzelli dal ministero della Giustizia, e in effetti lo stesso Nordio ha chiesto al suo capo di gabinetto un’informativa urgente sulla fuga di notizie. Il Pd reclama, con Giuseppe Provenzano e Roberto Morassut, le dimissioni del meloniano di ferro dalla vicepresidenza del Copasir: “Con uno come lui nessuno può sentirsi al sicuro”. Oggi alla Camera voleranno parole forti in un clima da scontro frontale. C’è persino il caso che, tra un’accusa e un insulto, ci scappi qualche riferimento a Cospito. Per sentenziare all’unanimità che sta benissimo dove sta: al 41bis. Tra la forca e l’impiccato. Perché la sinistra deve ringraziare Donzelli di Michele Serra La Repubblica, 1 febbraio 2023 Ci sono frasi che dicono di noi, se non tutto, molto. Per esempio questa del meloniano Donzelli, protagonista della bagarre a Montecitorio: “Io quando vado in carcere vado a trovare la polizia penitenziaria”, ha detto il golden boy di FdI ai giornalisti, dando dell’incidente in aula una lettura politica chiarissima, anche onesta: la destra sta con le guardie, questa è la sua antica vocazione, questo il suo ruolo (legittimo), e proprio non riesce a capire perché mai qualcuno debba occuparsi anche dei ladri, arrivando a considerarli - addirittura - persone. Persone che hanno sbagliato e pagano, ma rimangono portatori di diritti. Vedi Cospito, vedi perfino i mafiosi, che lo Stato non dovrebbe mai affrontare scendendo al loro stesso livello di barbarie: altrimenti non sarebbe lo Stato. Detto che le guardie fanno un lavoro duro e mal pagato, dunque sarebbe importante occuparsi più spesso di loro, possibilmente senza scopo di lucro elettorale (le guardie votano, i ladri no), è interessante, perfino rinfrancante scoprire che, per quelli come Donzelli, la sinistra è quella che “va a trovare” anche i delinquenti: e per questo sarebbe deplorevole. Senza saperlo e senza volerlo, Donzelli aiuta anche la sinistra a ricordare la propria identità e la propria vocazione, ricostruendo pian piano memoria di se stessa: tra la forca e l’impiccato, propende per il secondo. Questo governo offre alla nostra comunità nazionale un’opportunità decisiva: restituire alla politica una riconoscibilità ideologica ed etica. Alla destra ciò che è di destra, alla sinistra ciò che è di sinistra. La sinistra deve essere grata a Donzelli per averle rinfrescato la memoria. Perché le parole di Donzelli su Cospito sono un caso di Francesco Verderami Corriere della Sera, 1 febbraio 2023 Gli atti citati a Montecitorio non sono disponibili per i parlamentari. Il nervosismo del ministro della Giustizia, Nordio, e la freddezza tra gli alleati: solo Salvini ha manifestato solidarietà all’esponente FdI. L’imbarazzo di Palazzo Chigi si è presto tramutato in preoccupazione, perché le parole pronunciate alla Camera da Donzelli hanno scatenato un putiferio non solo nei rapporti con l’opposizione ma anche nella maggioranza e soprattutto dentro il governo. E rischiano di produrre gravi conseguenze, non solo politiche. L’intervento in Aula del responsabile organizzativo di FdI doveva servire ieri a sottolineare che il trasferimento dell’anarchico Cospito dal carcere di massima sicurezza in Sardegna nulla c’entrava con la linea intransigente del suo partito e dell’esecutivo sul 41 bis, riaffermata la sera prima in Consiglio dei ministri. Ma Donzelli si è spinto troppo oltre. E per attaccare la sinistra è arrivato a riferire dei rapporti tra le sbarre di Cospito con i boss della mafia per far cadere la norma sul carcere duro. Una ricostruzione dei colloqui talmente circostanziata non poteva che esser frutto di documenti riservati: quelli in possesso di una struttura sensibile del ministero della Giustizia come il Dap. E sul Dap ha la delega un altro esponente di FdI, il sottosegretario Delmastro, che divide casa a Roma proprio con Donzelli e che candidamente ha ammesso di aver “parlato” dell’argomento con il collega. L’incredibile autogol ha lasciato basito un magistrato dai trascorsi ineccepibili come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano, ha provocato l’ira del Guardasigilli per la fuga di notizie dal suo dicastero e ha costretto Meloni a intervenire presso gli alleati per cercare di limitare i danni. Solo Salvini si è esposto per solidarizzare con Donzelli. Il resto del centrodestra è rimasto a debita distanza, in silenzio, mentre Nordio esternava tutto il suo disappunto e chiedeva al gabinetto della Giustizia di verificare quanto accaduto. Anche perché per ottenere accesso agli atti citati da Donzelli servono precise richieste: non sono nelle disponibilità dei parlamentari, come ha tentato di difendersi il deputato. Si vedrà se il responsabile organizzativo di FdI resterà al Copasir o si dimetterà dal ruolo di vice presidente del Comitato sui Servizi, come chiedono le opposizioni. Si vedrà se la presenza di Delmastro al ministero sarà compatibile ancora con quella di Nordio. E si vedrà anche se - a causa di quel discorso in Aula - sono state violate notizie di un possibile fascicolo d’inchiesta. Ma il punto è politico. E il danno ricade su Meloni, che cercherà di far abbassare la tensione e preservare per quanto possibile i dirigenti del suo partito, consapevole che le opposizioni cavalcheranno la questione. Appare scontato che la polemica sia destinata a montare. A parte le ammissioni di Delmastro e dello stesso Donzelli, che fuori dall’Aula ha infarcito di ulteriori particolari il suo discorso, lo scontro si protrarrà anche nel giurì d’onore, che il Pd - sentitosi offeso dalle affermazioni del deputato di FdI - ha chiesto ed ottenuto dal presidente della Camera Fontana. “Hanno tentato di accostarci ai mafiosi”, denuncia la capogruppo dem Serracchiani, che insieme ad altri compagni di partito era andata in carcere per verificare le condizioni di salute di Cospito: “Ma noi siamo convinti sostenitori del 41 bis”. Se l’intento della destra era denunciare le contiguità di una “certa sinistra” con i gruppi anarchici, il colpo è finito fuori target. Così la ricaduta su Palazzo Chigi è duplice. Intanto l’obiettivo degli avversari è mettere in difficoltà la premier sul delicato tema della giustizia, evidenziando la contraddizione in cui è stata cacciata: “Se è vero che mira a debellare l’uso mediatico delle intercettazioni - dice Costa del Terzo polo - non può far passare che un suo esponente riveli notizie riservate addirittura in un dibattito parlamentare”. Di qui il nervosismo di Nordio: per quanto le forze di opposizione gli abbiano fatto sapere che non è lui nel mirino, il timore del Guardasigilli è che questo passo falso possa intralciare la sua azione legislativa. Ma soprattutto è Meloni che vede di fatto sconfessata quella linea della sobrietà alla quale ancora l’altro ieri si era richiamata, esortando a evitare polemiche nell’interesse nazionale. Attenta com’è nella gestione dei dettagli e dei rapporti, capace di strappare giudizi positivi da Bruxelles per l’atteggiamento in Europa e di ricevere consensi dai partner internazionali per la postura sul conflitto in Ucraina, la premier viene in questo caso risospinta indietro per responsabilità della sua stessa classe dirigente, che stenta a interpretare il nuovo ruolo. E come Penelope deve tessere la tela che altri in questi primi cento giorni le hanno a volte disfatto. Caso Donzelli, il dovere di dimettersi di Carlo Bonini La Repubblica, 1 febbraio 2023 Il deputato di FdI scatena la bagarre in aula accusando alcuni esponenti del Pd di essere vicini a Cospito per un visita in carcere. Incapace di una postura consona al ruolo di partito di maggioranza al governo del Paese, Fratelli d’Italia decide di far deragliare il delicato dibattito che si è aperto nel Paese sul regime carcerario cui è sottoposto l’anarco-insurrezionalista Alfredo Cospito e sulla risposta da dare alla sfida violenta posta dalla galassia anarchica, trasformando la faccenda in una miserabile quanto sgangherata corrida. Accusando il Pd - e segnatamente tre suoi parlamentari - di contiguità con il terrorismo e la mafia, perché “responsabili” di una visita in carcere all’anarchico il 12 gennaio scorso. Un’enormità pronunciata nell’aula di Montecitorio in disprezzo non solo delle più elementari regole istituzionali, ma anche della verità. E, verrebbe da aggiungere, del ruolo cruciale che, storicamente, e con costi drammatici (anche di vite umane), la sinistra parlamentare ha svolto nella lotta al terrorismo politico e a quello mafioso nella vicenda repubblicana del Paese. Che non si tratti di un inciampo, ma di una manifestazione della spregiudicatezza con cui il partito di Giorgia Meloni interpreta il ruolo che il Paese gli ha affidato con il voto sono il protagonista dell’affondo e le sue mosse. Parliamo di Giovanni Donzelli, toscano di prato, già giovane fascista del Fuan, poi militante di An e quindi uomo del cerchio magico di Giorgia Meloni, da lei scelto come responsabile nazionale dell’organizzazione del Partito, quindi come commissario della riottosa federazione romana del partito, e, per giunta, oggi vicepresidente del Copasir, il Comitato di controllo parlamentare sulla nostra Intelligence, uno dei più delicati snodi del nostro sistema di sicurezza nazionale. Ebbene, ieri, in meno di quattro minuti, a chiusura del suo intervento alla Camera, Donzelli riesce nella formidabile impresa di utilizzare un documento interno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero di Giustizia e le notizie riservate che conteneva sul conto di Cospito e delle sue conversazioni in carcere per trasformarle in un manganello con cui aggredire le opposizioni. Non solo. Nel farlo, Donzelli non sembra essere sfiorato neppure per un istante dal dubbio che utilizzare, manipolandone il senso e il contesto politico, le informazioni contenute in un documento che non dovrebbe essere nella sua disponibilità e che il ministro di Giustizia non ha messo nella disponibilità del Parlamento sia una violazione macroscopica dell’alfabeto istituzionale. Liquida infatti la faccenda con una penosa toppa, parlando genericamente di “documenti a disposizione di tutti” presso il ministero. Sminuendo la natura del documento (coperto da segreto) e nel goffo tentativo di coprire la sua fonte: l’uomo che gli ha messo a disposizione il contenuto di quelle carte. La cui identità, per altro, è il segreto di Pulcinella, visto che a rivelarla candidamente a “Repubblica” è lo stesso Donzelli. Perché è un suo compagno di partito, nonché coinquilino della casa che con lui divide a Roma: l’ineffabile sottosegretario alla Giustizia, con delega all’amministrazione penitenziaria, Andrea Delmastro Delle Vedove da quel di Gattinara, val Sesia. Sì, proprio Andrea Delmastro, l’uomo che Giorgia Meloni, nei giorni della cattura di Matteo Messina Denaro, ha mandato come una Madonna pellegrina, in ogni studio televisivo, mattino, pomeriggio e sera, a spiegare lo scempio che del segreto istruttorio e della pubblicazione di brandelli di intercettazioni telefoniche farebbe il giornalismo italiano armato dalla mano di pubblici ministeri fuori dal perimetro costituzionale. Già, perché accecati dallo squallido dividendo politico di una performance parlamentare ad ugola aperta, Donzelli e Delmastro Delle Vedove il pasticcio lo combinano davvero grosso. I brandelli di conversazione carpiti nel carcere di Sassari tra Cospito e i boss di mafia sul tema del 41 bis sono infatti contenuti in una relazione coperta da segreto indirizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria al ministro Nordio e al suo sottosegretario che sulle carceri ha la delega: Delmastro Delle Vedove, appunto. Si tratta di carte che non solo non sono a disposizione di tutti, ma, per giunta, che attingono a un’attività di particolare segretezza e delicatezza. Che è appunto quella di intercettazione preventiva delle conversazioni di detenuti ad alto indice di sorveglianza condotta normalmente dagli agenti del Gom, il gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria. Ci sono dunque intercettazioni e intercettazioni per Fdi. E c’è segreto e segreto. Nel garantismo a corrente alternata che guida la maggioranza quelle che riguardano un detenuto anarco-insurrezionalista posso ben essere divulgate per via politica se utili ad accreditare un osceno sillogismo che deve colpire le opposizioni. Succede a chi è privo di qualunque cultura delle istituzioni, a chi confonde il governo con il comando, a chi è abituato alla manipolazione come tecnica di comunicazione politica. La domanda, a questo punto, è semplice: con quale spirito in una prossima audizione del Copasir un qualsiasi dirigente o funzionario dell’intelligence condividerà informazioni coperte da segreto con un parlamentare, Donzelli, abituato a farne materia di conversazione prima nel tinello del suo coinquilino Delmastro e poi, se capita, in Parlamento? E con quale coerenza il sottosegretario Delmastro potrà tornare a chiedere rispetto delle regole e spirito bipartisan sui temi della giustizia penale e sull’uso di uno strumento delicato come le intercettazioni se ne fa commercio di partito per colpire strumentalmente le opposizioni? E cosa ha da dire il custode delle garanzie Carlo Nordio che, nel chiedere “una ricostruzione dettagliata delle circostanze riferite nell’assemblea parlamentare” su Cospito, conferma l’impressione che gliel’abbiano fatta sotto il naso? Se Donzelli e Delmastro Delle Vedove avessero un briciolo di rispetto per il Parlamento e il ruolo che ricoprono rassegnerebbero entrambi le dimissioni. Poiché, conoscendoli, non lo faranno, gliele dovrebbe chiedere Giorgia Meloni. Che, invece, parla d’altro. Dei suoi primi cento giorni. Analfabetismo istituzionale di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 1 febbraio 2023 Accade che il potere possa inebriare, confondere, dare alla testa. Accade quindi che un deputato di maggioranza, capo dell’organizzazione del proprio partito, vicepresidente del Copasir, uomo di fiducia della presidente del Consiglio, possa pensare che a questo punto - arrivati fin qui - tutto sia lecito. Che sia lecito alzarsi nell’aula della Camera mentre si vota - in modo unitario - l’istituzione di una commissione delicatissima come la commissione antimafia e alludere a presunti intrallazzi tra il principale partito di opposizione e le organizzazioni criminali. Senza vergognarsene, senza chiedere scusa, senza tentare di riparare, anzi, rivendicando la domanda: “Da che parte sta il Pd? Dalla parte dello Stato o dalla parte della mafia e del terrorismo?”. E tutto questo, solo perché alcuni parlamentari di opposizione hanno esercitato uno dei loro doveri: andare a trovare un detenuto accertandosi del suo stato di salute. Andare a trovare Alfredo Cospito, che da oltre 100 giorni fa lo sciopero della fame, mentre era ancora nel carcere di Sassari, un istituto inadeguato alle cure di cui ha ora bisogno. Il delirio di onnipotenza di Giovanni Donzelli, detto Giova dai frequentatori del Transatlantico, è andato oltre. È arrivato a fargli credere che sia accettabile rivelare stralci di conversazioni avvenute tra detenuti al 41 bis, in possesso del ministro della Giustizia in via riservata, senza alcun confronto con il Guardasigilli, che ora ha chiesto al suo capo di gabinetto come sia stato possibile, e che oggi lo dovrà spiegare in Parlamento. Informazioni riservate passategli da un compagno di partito come se si trattasse di bigliettini scambiati tra amici. Come fossero le lettere segrete che alle scuole medie ci si passava nei bagni. Donzelli non è nuovo a sparate polemiche e sopra le righe, consumate di solito in un salotto televisivo magari compiacente. Ma è di certo nuovo alla serietà delle istituzioni democratiche, dove se lanci accuse gravissime e palesemente false sei come minimo accusato di “analfabetismo istituzionale” senza che il presidente d’aula di turno - nello specifico Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia - ti difenda o lo consideri in alcun modo un insulto. Sarà il giurì d’onore a ristabilire la verità. Lo ha chiesto il Pd, è una pratica poco usata e questo rivela la gravità di quanto accaduto. Ma qualunque cosa dicano Donzelli e poi il capogruppo Fdi Tommaso Foti, che in aula gli ha dato man forte, e tutti i loro sodali che si sono avvicendati in tentativi di accuse e assimilazioni indicibili tra centrosinistra e terrorismo, resta la ferita inferta alle istituzioni democratiche. Trattate come palchi da dove lanciare argomenti propagandistici di bassa lega. Con un atto di squadrismo istituzionale che colpisce per la sua violenza e per la sua cecità. Donzelli sa bene che Serracchiani, Orlando, Verini non sono andati da Cospito a incoraggiarlo nella sua protesta, come ha raccontato. Ma l’argomento gli serviva per gettare il seme del discredito sui suoi avversari politici. Per dimostrare che chi si occupa delle condizioni delle nostre carceri, chi verifica che i regimi più duri non si trasformino in forme di tortura, chi chiede legittimamente al ministero di fare attenzione perché in prigione un uomo si sta lasciando morire di fame, è in realtà un amico dei terroristi, dei brigatisti, dei mafiosi. Perché, seguiamo il sillogismo di Donzelli, Cospito quel giorno ha parlato con uno ‘ndranghetista, un camorrista e quattro parlamentari dem. Tutti complici nel volere che lo Stato - sotto attacco da parte degli anarchici che bruciano macchine e inviano minacce - si pieghi al terrore. Questo sostiene il fedelissimo di Meloni usando l’artificio della domanda retorica. I tribunali diranno della diffamazione, qui interessa il punto politico. Chi è oggi al potere accetta le regole della democrazia - ad esempio, non divulgare le informazioni riservate di cui è in possesso lo Stato per i propri interessi di partito - o le rifiuta? Non è una domanda da poco se la si rivolge al vicepresidente del Copasir, forse l’organismo parlamentare da cui passa il maggior numero di informazioni riservate della Repubblica. E ancora, la presidente del Consiglio era al corrente di quanto Donzelli, Delmastro, Foti, stavano organizzando nell’aula della Camera? Ha voluto quell’attacco all’opposizione, lo ha richiesto, ne era all’oscuro? Davanti alla gravità delle accuse, la premier dovrebbe dire qualcosa di chiaro e non limitarsi a veline che invitano ad “abbassare i toni”. Infine, a chi conviene uno scontro del genere su quanto di più caro dovremmo avere, e cioè le garanzie dello Stato di diritto? Conviene agli anarchici, che quello Stato vogliono sovvertirlo e poco importa se uno di loro muore in carcere. Ne faranno un martire, proveranno a usare quella morte così come stanno usando quel martirio. E conviene alla destra, che non ha potuto incassare il successo mediatico della cattura di Messina Denaro per via delle incaute dichiarazioni anti-pm del ministro della Giustizia, e ha bisogno ora di farsi vedere nella sua veste tradizionale: legge, ordine e faccia feroce. Gli unici a cui questa guerra non conviene sono i difensori dello Stato di diritto, della Costituzione e dei suoi valori. Calpestati nell’aula di Montecitorio in un martedì di fine gennaio da incauti passanti della democrazia. Verini (Pd): “Siamo andati in carcere per verificare le condizioni di Cospito. Destra senza senso dello Stato” di Liana Milella La Repubblica, 1 febbraio 2023 Intervista al deputato dem che ha incontrato l’anarchico nel penitenziario di Sassari. “Donzelli? Un personaggio inquietante col senso dello Stato sotto zero”. Il senatore dem Walter Verini, che con Orlando e Serracchiani ha visitato Cospito a Sassari, si precipita alla Camera appena gli riferiscono le parole di Donzelli. Sono le 11.30, e da quel momento condivide coi suoi colleghi “lo sdegno per le affermazioni ignobili di questo personaggio”. Come “il manganello dei fascisti” le ha definite lei... “Dove ha sentito o letto le parole che riferisce? Chi gliele ha raccontate? A quali documenti che si trovano al ministero della Giustizia o altrove fa riferimento? Sono documenti pubblici o riservati? Sono state compiute violazioni? Tocca al ministro Nordio chiarirlo subito”. Ora Delmastro ammette di aver dato lui le notizie a Donzelli... “Tutto questo è gravissimo. Siamo a un uso privato delle istituzioni. E forse qualcosa di più. E se sono riservate, perché Donzelli le ha divulgate?”. Il sottosegretario, che ha proprio la delega alle carceri, ha sposato la linea durissima contro Cospito... “Le loro sono posizioni molto simili, ma si tratta di una linea solo apparentemente durissima: questi signori hanno pensato di indebolire le intercettazioni, e sembrano considerare un optional la lotta alla corruzione”. È lecito usare a fini politici informazioni riservate? “Seguo la giustizia e visito le carceri, e non mi è mai capitato di chiedere o ottenere tabulati di conversazioni tra detenuti al 41bis. Evidentemente in possesso del Dap e del ministero”. FdI è il partito più duro contro Cospito che voi siete andati a trovarlo. Lui vi attacca per questo... “Noi abbiamo letto un appello di personalità che intervenivano su un detenuto che rischiava e rischia di morire. Siamo andati a verificarne le condizioni, perché non può esistere che una persona affidata allo Stato possa morire”. Donzelli insinua che Cospito “lavori” con esponenti di camorra e ‘ndrangheta. Voi lo sapevate? “Abbiamo preso atto di uno sciopero della fame di un detenuto contro il 41bis, misura che per noi deve rimanere per gli stessi fini per cui nacque, evitare il contatto dei mafiosi e dei terroristi con l’esterno. E contro mafiosi e terroristi si devono unire le forze, non dividerle, a meno che non si faccia finta di combatterle”. Donzelli insinua che il Pd strizza l’occhio alla mafia? “È inaccettabile aver offeso il nostro Dna. Tra i nostri riferimenti ci sono Piersanti Mattarella, Pio Latorre. Tra i nostri parlamentari abbiamo avuto Sabina, la figlia di Guido Rossa, Giovanni, il figlio di Vittorio Bachelet, Olga D’Antona, Paolo Bolognesi, Alfredo Bazoli. Quali sono i riferimenti antimafia e antiterrorismo di questo signore e di qualche suo alleato? Lui non delegittima il Pd, ma la lotta alle mafie”. Donzelli è anche il coordinatore di FdI, prima di muovere queste accuse le avrà concordate con Meloni, non crede? “Sarebbe un aggravante. Ci aspettiamo le scuse e la presa di distanza di Meloni. Registro positivamente che tutte le forze d’opposizione ci hanno espresso solidarietà e che nella maggioranza pressoché nessuno tranne FdI abbia difeso Donzelli”. Delmastro (FdI) ammette: “Quelle intercettazioni su Cospito le ho passate io a Donzelli”. Ora rischia la poltrona di Tommaso Ciriaco e Giuliano Foschini La Repubblica, 1 febbraio 2023 Il sottosegretario con delega al Dap ha svelato al collega il documento riservato con le conversazioni tra l’anarchico e i boss sulla battaglia contro il 41 bis. Un documento riservatissimo finisce sul tavolo del ministero della Giustizia, perché si possano prendere decisioni sulla detenzione di Alfredo Cospito e su quella di alcuni dei più pericolosi mafiosi italiani. Il testo contiene informazioni coperte dal segreto istruttorio, tra cui intercettazioni ambientali preventive. Quelle informazioni, comprese le conversazioni, finiscono sul tavolo del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. Che le riferisce al suo collega di partito e amico (condividono la casa), Giovanni Donzelli. Il quale Donzelli prende la parola in aula a Montecitorio, durante un acceso dibattito sul caso Cospito, e rende pubbliche quelle notizie riservate e delicate, che non avrebbero potuto superare le mura del ministero della Giustizia, per utilizzarle come arma nella contesa politica con l’opposizione. Basta questo per spiegare perché il governo di Giorgia Meloni da ieri ha un nuovo problema. Grande. Un problema ingigantito anche da una bugia. Scoppiato il bubbone, nella serata di ieri, Delmastro sostiene: “Avrei potuto rivelare a qualsiasi parlamentare il contenuto di quegli atti”. Ma come hanno confermato a Repubblica fonti qualificate, quei documenti sono a uso esclusivo e riservato del ministero. Un grande pasticcio, insomma, che nelle prossime ore potrebbe mettere a rischio anche i ruoli dei due protagonisti - Delmastro è il numero due di Carlo Nordio a via Arenula, Donzelli vicepresidente del Copasir - nonostante il fatto che ancora nella tarda serata di ieri la premier provasse a minimizzare: “Colpisce molto - è il senso dei suoi ragionamenti - che dopo tutto quello che è successo negli ultimi giorni sulla vicenda Cospito, la sinistra non prenda una posizione di condanna netta”. Ma è come mettere la testa sotto la sabbia. A dimostrare che la partita è lontana dall’essere chiusa, arriva nel pomeriggio l’intervento di Nordio. Il quale, dopo aver in un primo momento minimizzato (“ero in conferenza stampa, di questa storia non so nulla”) annuncia una sorta di indagine interna: “Ho chiesto al capo di gabinetto, Alberto Rizzo, di ricostruire con urgenza quanto accaduto in relazione alle circostanze riferite nell’assemblea parlamentare del 31 gennaio 2023”. La questione non è formale, ma sostanziale. I passaggi riferiti in aula da Donzelli sono contenuti in un’informativa che il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha scritto e inviato non più di una settimana fa al ministro della Giustizia. Si tratta di relazioni periodiche che vengono effettuate per documentare cosa accade ai detenuti al 41 bis. Testi dal contenuto, evidentemente, delicatissimo, vista la caratura criminale dei protagonisti. Nella nota si fa riferimento ai contatti avuti da Cospito con il casalese Francesco Di Maio e con l’ndranghetista, Francesco Presta. Ma il Gom - il reparto scelto della polizia penitenziaria che segue i detenuti al 41 bis - aveva indicato anche altri contatti: quella con i siciliani Pietro Rampulla (che confezionò l’esplosivo per la strage di Capaci) e Pino Cammarata e più in generale da settimane aveva segnalato come ci fosse gran fermento tra i boss al carcere duro per l’iniziativa di Cospito. Ma perché Delmastro ha informato Donzelli? Di certo i due i sono più che colleghi: sono amici. Di più: coinquilini nel quartiere Monti. Ma nessun rapporto personale può giustificare una fuga di notizie di questo tipo. Anche perché, certo, nulla è accaduto per caso. Delmastro è uomo di assoluta fiducia della premier, plenipotenziario sulla giustizia, mastino di Fratelli d’Italia che deve bilanciare il garantismo di Nordio. E allora: cosa sapeva Palazzo Chigi? Alcuni dettagli si possono già ricostruire. Primo: Delmastro non decide da solo di veicolare attraverso Donzelli la questione dei rapporti tra Cospito e alcuni mafiosi, ma lo fa perché l’esecutivo - e i suoi vertici - decidono di far sapere all’opinione pubblica che esiste questa dinamica. La linea della denuncia di alcune ambiguità del centrosinistra, insomma, ricalca la linea della premier. È un modo anche per uscire dall’angolo, dopo giorni di tensioni. Altro discorso è che Meloni abbia apprezzato la modalità con cui Delmastro e Donzelli hanno gestito le rivelazioni. La prima reazione è tiepida. Trapela infatti che la premier sia venuta a conoscenza soltanto a cose fatte della bagarre in Aula. Passano un paio d’ore e Meloni intuisce che la situazione sta per sfuggire al controllo dei protagonisti. Ma non può sconfessare apertamente due dei suoi uomini più fidati, che si sono esposti in nome del governo. E infatti, la leader contatta Matteo Salvini, chiedendogli di non entrare in polemica e anzi difendere la posizione di FdI (così farà poco dopo il leghista). Lo stesso fa con il quartier generale di Silvio Berlusconi, trovando però soprattutto gelo. Manconi: “A questo governo serve crearsi un nemico” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 1 febbraio 2023 “Migranti, anarchici: tutto quello che non sa affrontare lo fa diventare un problema di ordine pubblico”. Questo trasferimento a Opera rappresenta un modestissimo atto dovuto. Nel senso che per una persona in grave pericolo di vita come il detenuto Cospito, il minimo che possa fare l’istituzione che ha la responsabilità della sua custodia è garantirgli un presidio medico che ne possa minimizzare i rischi. Siamo veramente al punto zero rispetto a quello che è il cuore della questione, cioè la possibilità per Alfredo Cospito di scontare la sua pena in un regime che non sia quello del 41 bis. Cosa potrebbe fare il governo e nello specifico il ministro Nordio, in concreto? Revocare il 41 bis. Nordio ha la possibilità di ritirare quella misura sulla base di una valutazione che consideri l’opportunità e soprattutto la proporzionalità di una misura rispetto alla condizione giudiziaria di Cospito. Che è del tutto sproporzionata, anche perché da più parti, da alcune tra le più raffinate menti giuridiche del nostro Paese è arrivata la sollecitazione a considerare un livello diverso di sicurezza da applicare, quale quello della censura. Che dovrebbe rassicurare tutti sulla possibilità di recidere i legami tra il condannato e l’associazione criminale esterna alla quale appartiene o apparterrebbe. Dunque, la soluzione c’è. E non insistere con il carcere duro, quando non serve... Però precisiamo: il 41bis non è, secondo la legge, il carcere duro. Assolutamente no: non deve essere punitiva o afflittiva. Ha uno scopo solo: recidere i legami tra il condannato e il mondo esterno. Tutte le misure che eccedono questo scopo sono dovute a un errore di esecuzione: sono extralegali e dunque illegali. Il 41bis non nasce come carcere duro ma lo diventa nella pratica. Perché in un numero elevato di misure si rivela come un sistema di particolare afflizione. L’ultima è il divieto di tenere nella propria cella la foto dei propri genitori defunti. Devo capire quale sarebbe la pericolosità, in quel caso. Che rasenta la tortura, anche psicologica, nell’infliggere al detenuto la massima umiliazione, l’alienazione... Sono sempre attento a usare la parola tortura. Il 41bis è un provvedimento ottuso e inutilmente feroce. Nordio faccia Nordio, ci diceva. Ma glielo faranno fare o rimarrà ostaggio della maggioranza di destra che lo ha eletto e portato al governo? Mi sembra di no. Il governo ha scelto la via più sbagliata: quello di un braccio di ferro con gli anarchici. Una colluttazione ideologica che punterebbe ad affermare la forza dello Stato e che finisce invece per confermarne una tendenza all’ottusità. Che poi è debolezza. Perché andrebbe invece affermato un concetto elementare, che dovrebbe fare parte dell’abbecedario della democrazia: abbiamo un detenuto con un regime differenziato. È un regime applicato correttamente? È una valutazione che va fatta prescindendo incondizionatamente dal curriculum della persona, dalla sua lealtà verso lo Stato democratico, dalle sue opzioni politiche. In-con-di-zio-na-ta-men-te. Questa vocazione alla condanna ideologica risponde alla necessità di creare un nuovo nemico pubblico, quello degli anarchici? Penso risponda a una mentalità, a un senso comune di una classe politica di destra. Rave, migranti, anarchici: all’improvviso tutto diventa un problema di ordine pubblico. La questione dell’ordine pubblico è un ingrediente essenziale falso. Come rivela la questione Ong: il loro ruolo è significativo per salvare vite in mare ma laterale rispetto alla questione dell’immigrazione nel suo complesso. Questione che viene sopraffatta e manipolata, subendo uno slittamento semantico e giuridico, per mettere in evidenza i comportamenti che si contestano alle Ong. Diventa un problema di ordine pubblico tutto quello che è la classe politica ha la manifesta incapacità di affrontare. Però attenzione: il vero nemico pubblico dovrebbe avere la dignità grande e terribile della nemicità. Io, autorità, indico un nemico pubblico. Così gli attribuisco la dignità grande e tremenda data dalla nemicità. Quando il governo attribuisce questa dignità a coloro che lanciano molotov e protestano per Cospito, amplifica la loro minaccia. Donzelli fa ripiombare la destra di governo nella vocazione minoritaria di Salvatore Merlo Il Foglio, 1 febbraio 2023 Quelle del deputato non sono state parole dal sen fuggite, ma l’espressione d’una sottospecie di strategia comunicativa. Espedienti tanto facili quanto grossolani, che si sperava venissero accantonati dagli esponenti della maggioranza. L’anarchico Alfredo Cospito vuole abbattere il 41-bis ed è d’accordo con la mafia, come dimostrano alcune intercettazioni captate in carcere, dunque chi critica l’abuso del 41-bis è un po’ mafioso pure lui. Questo, all’incirca, il sillogismo utilizzato ieri alla Camera dall’onorevole di FdI Giovanni Donzelli per rispondere a chi ritiene che in Italia talvolta si faccia abuso del cosiddetto carcere duro. Prima di entrare nel merito delle parole dell’ on. Donzelli, va sottolineato un fatto. Ovvero che quelle del deputato, e collaboratore tra i più vicini alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, non sono state parole, come si dice, dal sen fuggite. Ma piuttosto l’espressione d’una sottospecie di strategia comunicativa, l’escogitazione retorica d’un gruppo politico che nei primi mesi di governo aveva invece dato l’impressione d’aver rinunciato ad espedienti tanto facili quanto grossolani. Interventi da minoranza urlata. Ed espressi, ieri, con una tale sudditanza nei confronti del linguaggio d’opposizione, da aver addirittura spinto Donzelli in un bel pasticcio: l’onorevole, nella foga, ha diffuso in Aula delle intercettazioni secretate e ottenute chissà come. Ma al di là del guaio sull’origine di quelle informazioni clamorose, resta il tentativo di costringere gli avversari, ma pure il sistema dell’informazione, le televisioni e i quotidiani, a un racconto stereotipato e fumettistico in cui una destra d’ordine si contrappone a una sinistra di disordine. All’incirca: “Chi non è d’accordo con il governo è un amico della criminalità organizzata”. La destra ieri avrebbe potuto sostenere parecchie cose in Aula. Persino inchiodare la sinistra al suo opportunismo sul 41-bis. Ma invece ha (ri)trovato la propria misura nella dismisura. Chi è contro di noi è con la mafia. Bum! C’è un solo modo di difendersi da stupidaggini di questa fatta. Denunciarle per quello che sono: bestialità da partito a vocazione minoritaria. Una maledizione per FdI. Cospito consente a Meloni di tornare sé stessa di Alessandro De Angelis huffingtonpost.it, 1 febbraio 2023 Le manganellate al vento di Donzelli ri-mostrano lo spirito autentico di questa destra, dopo mesi di politicamente corretto vissuti come in una camicia di forza. E rappresentano un perfetto diversivo dalle ripetute retromarce sui singoli dossier. Si può spiegare con una sincera pulsione, irrefrenabile e liberatoria, per una volta priva di freni inibitori. Deve aver pensato Giovanni Donzelli: se finalmente, dopo cotanta orgia di politicamente corretto con Bruxelles, dopo le retromarce su parecchie parole d’ordine e pure dopo aver indossato un doppiopetto vissuto come una camicia di forza, posso usare il manganello, lo meno pure a vento. Si può spiegare, questo eccesso verbale ai limiti della caricatura, come un grande recupero “comunicativo” dopo che Nordio, con la vicenda delle intercettazioni, aveva rovinato la festa dell’arresto di Messina Denaro. Reso possibile, e non è un dettaglio, anche dall’allineamento, sul caso Cospito, proprio del principe dei garantisti che abita in via Arenula. Allineamento, il cui rilievo tutto politico sta anche nel fatto che, mentre sulle intercettazioni - materia parlamentare - era intervenuto a gamba tesa, su una questione che attiene alle sue dirette responsabilità - è il guardasigilli che firma o revoca il 41bis - è perfettamente in linea con palazzo Chigi. E anche come un “recupero comunicativo” agli occhi di quel popolo di destra del “marciscano in galera e buttate la chiave”, che ha vissuto male il trasferimento di Cospito ad Opera, del resto lo stesso Nordio si è sentito in dovere di dire che quel trasferimento (cioè le cure) “non è un cedimento dello Stato”. E si può spiegare anche con il varco, tutto politico, e con le contraddizioni fornite da una parte della sinistra che ha curvato, negli ultimi giorni, la posizione umanitaria fino a chiedere la revoca del 41bis: non la critica al governo che ha tardato il trasferimento di Cospito in un carcere più attrezzato per le cure. Ma la messa in discussione della misura. Intendiamoci: la questione, non da oggi, alimenta un dibattito teorico ampio, sulla sua opportunità o sulla disumanità del 41 bis in generale. E anche sul caso specifico, se cioè possa o meno essere la pena sproporzionata - è la tesi di questo giornale - in relazione alla sua pericolosità. È chiaro che il piano umanitario, oggi, inevitabilmente si intreccia col piano politico, a maggior ragione dopo l’assalto alle ambasciate. E dopo le parole dell’avvocato di Cospito a Repubblica, sullo scambio tra interruzione dello sciopero della fame e abolizione tout court del 41bis. Cioè: ciò che qualche mese fa sarebbe potuto essere un gesto umanitario, magari utile a spegnere l’incendio sul nascere, a incendio divampato inevitabilmente oggi si presta alla strumentalizzazione politica del “cedimento”. In tal senso il comiziaccio di Donzelli, sia pur con tutti i suoi picchi insultanti e diffamatori, ha trovato un appiglio per operare uno slittamento politico: dal ritardo delle cure, anche nell’ambito di una posizione intransigente di non modifica del 41bis, che investe il governo, al “noi con lo Stato, voi coi terroristi”. E si spiega, tutto questo, anche come un gigantesco e vantaggioso diversivo, rispetto alle cento incertezze e retromarce del governo nei suoi cento e non brillanti giorni, la cui “copertura politica” di Giorgia Meloni sta non solo nell’assenza di una presa di distanza, ma nelle informazioni ululate da Donzelli a proposito dei minacciosi colloqui di Cospito con altri detenuti, difficilmente recuperabili senza che ci sia lo zampino di palazzo Chigi o del ministero della Giustizia. Del resto rischia di non essere neanche più una notizia questa dinamica di una “donna sola al comando”, essendo la trama del film, di cui fa parte, per stare solo agli ultimi giorni, la “sterilizzazione dell’autonomia”, il tour Mediterraneo, l’uscita, subito, al primo assalto alle ambasciate. In termini di sovraesposizione e decisione è quasi un primus sostitutivo dei pares, il che nell’immediato favorisce la fagocitazione, poi si vedrà. Insomma, per questa destra - e davvero su questo terreno si avverte una cesura anche rispetto all’impianto berlusconiano - la vicenda Cospito è perfetta per ri-mostrarsi se stessa, autentica nel lessico e nella postura: sia nella situazione attuale, sia nel possibile salto (Dio non voglia) determinato da una eventuale ripresa del “terrorismo rosso”, come conseguenza del “martirio” di Cospito, se le condizioni di salute dovessero volgere al peggio. Non sarebbe la prima volta nella storia che la minaccia per la sicurezza è sapientemente utilizzata per alimentare un riflesso d’ordine, i cui presupposti sono nel clima già in atto. Quelle chiacchiere su mafia, antimafia, e anarchia da bar dello sport di Carmelo Musumeci Il Dubbio, 1 febbraio 2023 Il dibattito ha preso una strana piega: prevale la superficialità. Si sa, i massi media danno notizie, ma non fanno informazione corretta, per questo l’opinione pubblica è scarsamente e male informata sulla giustizia, sulle carceri e sulla criminalità organizzata. In questo periodo gli organi di informazione si occupano principalmente di mafia e antimafia e spesso lo fanno così male che non si capisce se sono peggio i mafiosi o certi professionisti dell’antimafia (non tutti, perché non bisogna mai generalizzare). Per questo consiglio spesso d’informarsi, ma subito dopo di ragionare con la propria testa. Alcuni “esperti” dell’antimafia nelle loro dichiarazioni hanno paventato l’ennesima trattativa per l’arresto di Matteo Messina Denaro. Non posso escluderlo, ma se c’è stata era sicuramente a sua insaputa, perché conosco la cultura e la mentalità mafiosa e non si sarebbe mai fatto arrestare senza prima togliere il Viagra da casa, dato che i mafiosi ci tengono molto a mantenere l’onore della loro mascolinità. La verità a volte è banale e si nasconde nei dettagli. Altri esperti dell’antimafia hanno paventato anche che il risultato dell’arresto di Matteo Messina Denaro sia frutto dell’abolizione dell’ergastolo ostativo. Bufala ancora più grossa, perché non solo non è stato abolito l’ergastolo ostativo ma con la nuova legge è diventato ancora più ostativo: basti pensare che con questa nuova norma io non sarei mai potuto uscire, perché non viene dato più alcun rilievo all’impossibilità di collaborare con la giustizia. Inoltre, adesso con la nuova legge, per accedere alla liberazione condizionale bisogna scontare non più 26 anni, ma 30 anni di detenzione e la durata della correlata libertà vigilata è raddoppia, da 5 a 10 anni. Diciamo pure che se c’è stata trattativa sull’arresto di Matteo Messina Denaro i mafiosi non hanno fatto certo un buon affare. Molti “autorevoli” personaggi scrivono e parlano di mafia senza conoscere minimamente l’argomento. Non sanno, per esempio, che certi mafiosi di spessore sono favorevoli all’ergastolo ostativo e al regime di tortura democratico del 41 bis, perché avere un loro esponente al carcere duro e condannato all’ergastolo ostativo dà prestigio alle famiglie mafiose di cui fanno parte. In più di un quarto di secolo di carcere che ho scontato, alcuni mafiosi hanno sempre mal visto il mio attivismo per l’abolizione dell’ergastolo e del regime di tortura del 41 bis. E che dire sulla mancata solidarietà sullo sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito da parte dei mafiosi detenuti al carcere duro? Diciamoci la verità: ormai si scrive e si parla in televisione di mafia come tifosi al bar dello sport. Il 41 bis nasce dopo le stragi per non dare la possibilità ai boss di dare ordini dal carcere (a parte che dopo l’arresto di un boss ce n’è subito un altro che prende il suo posto, non potrebbe essere altrimenti), ma tutti, o quasi, sanno che per gli anarchici non ci sono poteri buoni e che non danno e non ricevono ordini da nessuno. Sono contro qualsiasi organizzazione lecita o illecita, quindi: Alfredo Cospito dal carcere a chi dovrebbe dare ordini se un anarchico che si definisce tale non ha nessuna organizzazione? Detenuti semiliberi. C’è ancora spazio per intervenire di Luca Cereda vita.it, 1 febbraio 2023 Gonnella, Antigone: “In parlamento è in discussione la conversione in legge del decreto n. 198 della legge 29 dicembre 2022 “Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”, che dovrà essere approvata entro il prossimo 27 febbraio. All’interno speriamo trovi posto la misura per garantire ai 700 detenuti semiliberi di tornare al loro percorso di reintegrazione sociale, cancellando questo brutto passo indietro”. Lo scorso 31 dicembre 700 detenuti che negli ultimi due anni hanno vissuto fuori dal carcere sono tornati a dormire in cella. Il governo guidato da Giorgia Meloni ha, infatti, deciso di non prorogare la misura contenuta nel decreto Cura Italia, che con lo scoppio della pandemia da covid-19 e l’esigenza di aumentare il distanziamento sociale all’interno degli istituti penitenziari, aveva previsto per i detenuti in regime di semilibertà delle licenze premio straordinarie, derogando al limite dei 45 giorni l’anno e garantendo loro la possibilità di non tornare in carcere a dormire fino al 30 giugno 2020. In tal modo si è evitata una possibile commistione tra dentro e fuori, facendo rientrare in carcere persone che uscendo, prendendo i mezzi pubblici, frequentando luoghi anche affollati, potevano contrarre il virus e portarlo all’interno delle carceri. “Per questi detenuti in semilibertà la fine dell’anno ha dunque segnato il ritorno in cella. Che senso ha così la pena? Che senso ha tornare a rinchiudere, anche se solo di notte, persone che negli ultimi due anni e mezzo hanno vissuto in misura alternativa? Il che non significa incertezza della pena, ma certezza di una pena eseguita diversamente rispetto a quella carceraria. Persone che si sono immerse completamente nella società, ricostruendo reti sociali, amicali, familiari che spesso il carcere, creando una separazione netta e radicale con il mondo esterno, invece spezza. Ha senso, dunque, sradicarli da una integrazione sociale già avvenuta e effettiva? Se la pena deve tendere alla reintegrazione del condannato, la risposta che verrebbe da dare è no, non ha un gran senso”, dice Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. Le misure alternative sono state pensate proprio in un’ottica di protezione sociale, di lotta alla recidiva e di conseguente aumento della sicurezza esterna non ha senso a fronte del comportamento di queste persone che, negli ultimi due anni e mezzo, hanno saputo ripagare la fiducia che le istituzioni hanno riposto in loro, rispettando le prescrizioni che gli erano state imposte e non tornando a commettere altri reati. “Quando una persona esce dal carcere l’ultimo giorno della pena - aggiunge Gonnella -, queta è una sconfitta per il sistema perché è probabile che tornerà a commettere un reato rispetto a chi ha avuto l’opportunità di riavvicinarsi con gradualità al mondo del lavoro e ad altri contesti sociali. Le misure alternative sono state pensate proprio in un’ottica di protezione sociale, di lotta alla recidiva e di conseguente aumento della sicurezza esterna”. Non ha senso neanche se si guarda alla situazione del sistema penitenziario italiano, dove nel 2022 sono avvenuti 84 suicidi, il numero più alto di sempre. Senza dimenticare i tassi di sovraffollamento preoccupanti: in un anno, dal 31 dicembre 2021 al 31 dicembre 2022 i detenuti sono 2mila in più, con un tasso di affollamento che sfiora il 110 per cento. Un dato ufficiale che spesso non tiene conto dei posti conteggiati ma non realmente disponibili per lavori o ristrutturazioni. Quei 700 posti letto potevano servire a mitigare situazioni che in molte carceri sono al limite, come provato nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che con la sentenza Torreggiani ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu), secondo cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. In parlamento è in discussione la conversione in legge del decreto n. 198 della legge 29 dicembre 2022 “Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”, che dovrà essere approvata entro il prossimo 27 febbraio. All’interno della norma potrebbe trovare posto la misura per garantire ai 700 detenuti semiliberi di tornare al loro percorso di reintegrazione sociale, cancellando questo brutto passo indietro. Lo sport entra nelle carceri di Francesca Solinas Italia Oggi, 1 febbraio 2023 Investimento di tre milioni di euro per offrire opportunità di inserimento nel contesto sociale. Dalle 12:00 del 24 febbraio alle 12:00 del 24 marzo 2023 sarà possibile presentare le candidature per uno dei quattro avvisi pubblicati lo scorso 24 gennaio, che nascono dall’iniziativa promossa dal Ministro per lo sport e i giovani, tramite il dipartimento per lo sport, realizzata in collaborazione con la società Sport e salute. Le risorse finanziarie per il presente avviso sono pari a Euro 3.000.000,00. Il progetto “Carceri” si prefigge l’obiettivo di finanziare progetti di valore dell’associazionismo sportivo di base e del terzo settore che operano con categorie vulnerabili, soggetti fragili e a rischio devianza e su temi sociali delicati quali la povertà educativa ed il rischio di criminalità. Lo sport viene individuato come strumento contro il disagio sociale ed economico, in particolare giovanile, come deterrente sociale contro il rischio di criminalità e come mezzo rieducativo per la popolazione detenuta. Si vuole offrire, sia agli adulti, che ai minori e giovani adulti in carico ai servizi minorili della giustizia, una opportunità di reinserimento nel contesto sociale e lavorativo, realizzando tirocini formativi. La pratica dell’attività sportiva si prefigge di promuovere un percorso di sostegno e di recupero dei soggetti fragili inseriti in contesti difficili, maggiormente esposti a rischio di devianza ed emarginazione. Si mira, inoltre, a fornire competenze di ambito sportivo, educativo e socio-psico-pedagogico al personale dell’amministrazione penitenziaria, ai detenuti e agli operatori sportivi. Beneficiari sono detenuti adulti all’interno degli Istituti penitenziari e personale del dipartimento amministrazione penitenziaria, linea adulti; giovani di età compresa tra i 14 e i 24 anni e personale del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che si trovano in custodia cautelare e pena detentiva presso gli Istituti penali per i minorenni, linea minori; giovani di età compresa tra i 14 e i 24 anni, in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni, sottoposti alla misura cautelare del collocamento in comunità; alcune comunità annesse ai centri di prima accoglienza; minori in carico ai Centri diurni polifunzionali ovvero servizi minorili, che offrono attività sportive, educative, di studio, di formazione-lavoro, nonché ludico-ricreative, non residenziali per l’accoglienza diurna di minori e giovani adulti dell’area penale o in situazioni di disagio sociale e a rischio di devianza, anche se non sottoposti a procedimento penale, linea minori. I destinatari dell’avviso sono Asd e Ssd iscritte al Registro nazionale delle attività sportive dilettantistiche (Ras) ed Enti del terzo settore di ambito sportivo iscritti al registro nazionale del terzo settore (Runts) e al Ras. I destinatari, inoltre, alla data di presentazione della domanda dovranno, a pena di esclusione, possedere una lettera d’intenti con l’istituto penitenziario di riferimento e/o con i centri per la giustizia minorile, che dovrà essere valida per tutta la durata del progetto. Le candidature dovranno essere presentate esclusivamente attraverso un’apposita piattaforma messa a disposizione sul sito di Sport e salute spa e l’elenco dei progetti risultati idonei a seguito di valutazione sarà pubblicato sul sito dedicato, senza l’invio di alcuna comunicazione scritta. L’erogazione dei contributi avverrà in tre tranches. L’importo massimo erogabile al destinatario per ciascun progetto approvato, per lo svolgimento di 18 mesi di attività è pari a €20.000,00 per la linea adulti e €15.000,00 per la linea minori. Il budget preventivo di spesa dovrà essere compilato direttamente al momento della candidatura e dovrà comprendere un costo massimo di attività sportiva in carcere pari a €12.000,00 (18 mesi di attività);un costo massimo di inserimento di ex detenuti in organico al destinatario pari a €3.000,00 (per almeno 8 mesi di tirocinio sportivo e formativo); una quota per lo svolgimento delle attività di formazione, pari ad un massimo del 10% dell’importo del progetto; una quota per beni e servizi, pari ad un massimo del 15% dell’importo del progetto. I destinatari dovranno conservare presso la propria sede tutta la documentazione contabile perché verranno effettuate verifiche di controllo circa il rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa, pena la revoca o la riduzione del contributo. Intercettazioni, l’altolà di Melillo e Cantone di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 febbraio 2023 I due magistrati a difesa dello strumento. “Tracciare tutte le operazioni contro gli abusi”. “Le intercettazioni servono: sia quelle “tradizionali” che quelle effettuate a mezzo del trojan”. È quanto affermato ieri, in estrema sintesi, davanti alla Commissione giustizia di Palazzo Madama dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo e dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Nelle loro audizioni, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni voluta dalla presidente della Commissione Giulia Bongiorno (Lega), sia Melillo sia Cantone hanno sottolineato i profondi cambiamenti tecnologici degli ultimi anni, con la necessità di sempre maggiore qualificazione da parte degli operatori. Per Melillo, ad esempio, ci sarebbe bisogno di “hacker etici” nelle forze di polizia: i criminali utilizzano piattaforme criptate per comunicare e bisogna in qualche modo “perforarle” se si vogliono conseguire dei risultati investigativi. Sul punto, le forze di polizia degli altri Paesi hanno un maggiore know- how. Entrambi i magistrati hanno ricordato come con le modifiche normative sulle intercettazioni introdotte dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, la riservatezza è adesso maggiormente garantita. Anzi, le norme sono così stringenti da mettere in difficoltà il diritto di difesa in quanto gli avvocati devono materialmente recarsi nelle apposite sale presso le Procure per effettuare gli ascolti delle telefonate intercettate di intessere da trascrivere. “I venti giorni previsti non sono sufficienti e ricorriamo a delle proroghe”, ha precisato Cantone. Per garantire la “sicurezza” i due magistrati hanno proposto di tracciare tutte le operazioni svolte. Melillo ha ricordato di aver avviato, quando era procuratore di Napoli, una sperimentazione con le varie aziende fornitrici degli apparati, poi però finita in un nulla di fatto. Dopo le relazioni introduttive è stato il turno delle domande dei commissari. Molto interesse, come sempre, sul funzionamento del trojan. Melillo, a tal riguardo, aveva dovuto adottare un provvedimento di esclusione nei confronti di una delle principali società di intercettazione, la Rcs, poiché aveva allocato all’interno della Procura di Napoli un server nel quale venivano remotizzate e memorizzate le intercettazioni fatte da tutte le Procure d’Italia. E ciò senza che fosse stato comunicato nulla né alle Procure interessate né alla Procura del capoluogo campano. Melillo ha affermato che si sarebbe trattato solo di un server di transito. Ma le novità più importanti si sono registrate grazie all’intervento di Cantone, che ha risposto alla domanda del senatore Pierantonio Zanettin (FI) sulla famosa cena del 9 maggio 2019 presso il ristorante romano “Mamma Angelina” (a cui parteciparono, fra gli altri, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, l’ex procuratore Giuseppe Pignatone, il presidente di sezione del Tribunale di Roma Paola Roja, ndr). “Era stata programmata ma venne sprogrammata”, sono state le parole di Cantone. “Si può discutere se questa sprogrammazione che venne fatta da parte del Gico era o meno corretta, eravamo in un fase sperimentale alla Procura di Perugia, uno dei primissimi casi di utilizzo del trojan”, ha aggiunto il procuratore, precisando comunque che “non è emersa alcuna manipolazione”. Che la cena da “Mamma Angelina” fosse stata “programmata e poi sprogrammata”, va ricordato, si era scoperto solo successivamente con le perizie di parte, poiché negli atti di indagine nulla si diceva in proposito né si spiegavano le ragioni della “sprogrammazione”. In altri termini, il Gico della guardia di finanza che condusse le indagini ed inoculò il trojan nel telefono di Palamara non ha mai spiegato perché il giorno prima lo aveva intercettato fino alle due di notte per le vicende dell’hotel Champagne ed il giorno dopo, quello appunto della cena, lo aveva invece intercettato fino alle quattro del pomeriggio. La ricostruzione di Cantone, comunque, differisce da quanto affermato, sempre su questa vicenda, dall’ingegnere informatico Lelio Della Pietra alla stessa Commissione giustizia nei scorsi giorni circa quattro file audio soppressi, vale a dire mai depositati agli atti del procedimento rispetto ai quali nulla è dato sapere. Della Pietra, inoltre, aveva citato il caso del file log con una programmazione con sequenza alfabetica e non cronologica. In alcune stringhe “la mano dell’uomo” ha aggiunto alcuni zeri per alterare l’ordine delle programmazioni, vi sono programmazioni che non hanno generato alcuna registrazione e, al contrario, registrazioni “orfane”, cioè generate senza alcuna programmazione a monte come se “il fucile avesse sparato da solo”, aveva detto Della Pietra. Sulla cena nel ristorante romano Cantone era già intervenuto a marzo del 2021 dichiarando che il trojan non aveva registrato l’incontro “perché non era, come si è più volte già spiegato in tutte le sedi, programmato in quell’orario per la registrazione”. Negli stessi termini si era espresso quando era stato sentito dalla prima Commissione del Csm qualche settimana più tardi. Alla domanda del consigliere Nino Di Matteo se il trojan fosse stato programmato per quella cena, Cantone rispose che “non era stato programmato”. È pertanto la prima volta che il procuratore di Perugia ammette che il trojan era stato programmato e poi sprogrammato, facendo così ricadere la responsabilità di questa sprogrammazione sul Gico. Per Melillo qualcosa ancora non va nelle intercettazioni di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 1 febbraio 2023 Giustizia. Il Procuratore nazionale antimafia ascoltato in Senato. “Il livello delle garanzie per gli indagati può essere ancora significativamente alzato, ma senza andare a discapito delle indagini”. “A proposito delle intercettazioni, io penso che ci sia bisogno di innalzare significativamente il livello delle garanzie. Ma penso anche che occorra farlo senza andare a detrimento delle indagini”. Una manovra, ha detto ieri il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo ai senatori della commissione giustizia, che sembra proprio quella dell’evangelico cammello che deve passare per la cruna dell’ago. Ma che invece potrebbe rivelarsi “molto più facile” se si riuscisse ad affrontare il problema “senza rappresentazioni grottesche” e sulla base di “analisi realistiche e rigorose”. Ai senatori che da qualche settimana portano avanti un’indagine sul funzionamento del sistema delle intercettazioni nel nostro paese - anche per dare una base concreta ai ripetuti e contraddittori annunci del ministro Nordio - Melillo ha offerto il suo contributo, innanzitutto testimoniando il buon funzionamento dell’ultima riforma già fatta, cosiddetta Orlando, che ha sì cinque anni di vita ma solo due di concreta applicazione (i governi Conte uno e due l’hanno più volte rinviata e infine anche modificata). Testimonianza, ma si potrebbe dire rivendicazione, visto che all’epoca l’attuale procuratore nazionale (ed ex procuratore di Napoli) era capo di gabinetto del ministro della giustizia Orlando. In ogni caso Melillo non ha escluso affatto che qualche miglioramento debba essere ricercato, nella direzione dell’innalzamento delle garanzie degli indagati/intercettati. Ma ha sostenuto con nettezza che “ridurre la possibilità dell’uso del trojan nei reati contro la pubblica amministrazione minerebbe anche le indagini contro la criminalità organizzata”. Secondo Melillo va promosso, nel complesso, il funzionamento dell’archivio segreto, introdotto dalla riforma Orlando, cioè quel sistema per cui le intercettazioni non rilevanti vengono definitivamente stralciate, eventualmente in contraddittorio, ma sono conoscibili dalla difesa. Però il problema, ha detto il procuratore nazionale, è che alcune funzioni del trojan non ricadono nel regime, più rigoroso, delle intercettazioni. Per esempio la raccolta dei dati “live on search”. Così come non rientra in questo regime - sembra assurdo - l’acquisizione dell’intero telefono, che oggi viene comunemente disposta direttamente dal pm, senza la garanzia dell’intervento di un giudice, per un qualsiasi reato, anche una contravvenzione. “E questo accade - ha detto Melillo, auspicando una correzione - perché la definizione di intercettazione che risale al 1988 è saltata”, superata dalla tecnologia. Un altro problema per il procuratore è il fatto, già denunciato da precedenti audizioni in commissione, che non c’è la possibilità di verificare gli accessi - i log - nell’archivio segreto delle società private che effettuano le intercettazioni per conto delle procure. Infine, ha detto, “se pure esiste la possibilità teorica che il trojan manipoli i dati, questo non vuol dire che avvenga comunemente e impunemente”. Ieri è stato ascoltato anche il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, che si è trovato a dover difendere l’indagine sulla prima vittima famosa del trojan, l’ex magistrato Luca Palamara (questo perché Forza Italia aveva precedentemente chiamato in audizione i consulenti della difesa). Anche se, ha ammesso, all’epoca “non era prevista alcuna regolamentazione per il trojan che per fortuna adesso c’è”. Parlando sempre del trojan, Cantone ha tenuto a ricordare che proprio la sua procura ha emesso l’ordinanza cautelare a carico di Alfredo Cospito, che era già in carcere, un atto valutato come decisivo per applicare l’anarchico al 41 bis. Le intercettazioni sono pura pornografia che fa finire la tua vita su un nastro di Chiara Lalli Il Foglio, 1 febbraio 2023 La differenza sta nei modi e negli usi, nella facilità con cui migliaia di ore di vite esondano dalle indagini per diventare costume, divertimento macabro. Possibile che non siamo capaci di coglierne la mostruosità? Dove andiamo a pranzo, chi viene a prenderti, devo preparare l’esame, lo sai che Mario ha lasciato Giovanna? Mario e Giovanni sono nomi che ho inventato anche se sono passati moltissimi anni e anche se non si sono detti niente che non abbiamo detto anche noi mille volte. Che c’è di male? Tutto. Perché di questi amici, fratelli e fidanzati ho saputo ascoltando le intercettazioni telefoniche di un vecchio caso giudiziario. A rendere ancora più insopportabile e pornografico l’ascolto si aggiunga il fatto che Mario e Giovanni io li conoscevo. Ci siamo tutti schifati (spero) guardando le vite degli altri ma poi ce ne dimentichiamo e quando qualcuno suggerisce di essere prudenti nel mettere cimici in giro per case e linee telefoniche la reazione è spesso “ma allora volete facilitare la vita dei criminali?”. Forse serve la giusta fotografia e una colonna sonora commovente per capire l’oscenità e l’invadenza di questo strumento. Forse serve finirci dentro, desolante e avvilente forma di identitarismo. Ma possibile che non siamo capaci, diciamo così, astrattamente di capire la mostruosità di entrare nelle vite altrui? Se la giustificazione è il crimine di cui si cerca il responsabile, tutto scolora, tutto perde importanza. Rispetto a un omicidio niente conta e niente importa, tutto è meno grave ma ecco così non vale. E poi questa ingiustificabile pornografia travolge anche i morti. Sì, certo, è per una buona causa, è per trovare i colpevoli, ma la differenza sta nei modi e negli usi, nell’accortezza e nei limiti, nella facilità che quelle migliaia di ore di vite esondino dalle indagini per diventare costume, divertimento macabro, un mezzo per pensarci migliori. Durante quell’orrido ascolto e alla ricerca di pezzi di conversazione “penalmente rilevanti” ho fatto in tempo a pensare cento volte che non volevo più sentirle, mi sono imbarazzata, vergognata, ho fermato, mi sono alzata per farmi un caffè, mi è venuta la gastrite. Ho pensato alle mie conversazioni, a quelle che ricordo e a quelle che non ricordo, che sono ovviamente la maggior parte. Alle domande che qualcuno potrebbe farmi “lei ha detto che?” “Io?, figuriamoci!”, per poi dimostrarmi che certo che lo avevo detto, mille volte, lo vedi che menti? L’altro giorno c’era un pezzo spaventosissimo sul New York Times sulle false confessioni e lo so che è un’altra cosa ma in comune c’è la fragilità delle nostre parole, del contesto e della capacità di comprensione. Se pubblicassero le nostre conversazioni private saremmo tutti evidentemente assassini seriali. Qualche giorno fa c’è stata una audizione in Senato sulle intercettazioni e c’è una parte della relazione di Francesco Morelli, che è professore di diritto processuale penale all’Università di Bergamo, che mi ha particolarmente angosciato e che riguarda l’accessibilità al materiale registrato. Alla fine delle indagini i difensori accedono alle registrazioni in procura e non possono averne una copia. Che cosa significa? Quanto ci vorrebbe per ascoltare le intercettazioni di una utenza telefonica per un mese? Se prendiamo gennaio, fanno 744 ore. È raro che ci sia un solo intercettato e quelle ore aumentano fino a perdere significato (1.488, 5.952, numeri a caso). Perché la difesa non sarà quasi mai nelle condizioni di ascoltare tutto - il quasi vale per un solo intercettato per un paio di giorni. La conclusione è abbastanza spaventosa: c’è un diritto formale alla difesa, scrive Morelli, che è “materialmente impossibile da esercitare per ragioni attinenti non al diritto ma allo scorrere del tempo”. Insomma la tua vita finisce in un nastro o in un file, quelle registrazioni saranno ascoltate solo parzialmente dai tuoi avvocati, dal giudice, da tutti gli altri. E se basta un ragionevole dubbio sulla tua colpevolezza, molto probabilmente nessuno lo sentirà mai perché è sommerso da centinaia di ore di pranzi da organizzare, esami da fare, appuntamenti da rimandare. Questo nonostante la sentenza della Corte costituzionale del 2008 sul procedimento cautelare e alcuni articoli della Costituzione. Forse l’unico punto dove non ti viene voglia di scappare in un paese senza estradizione è il riferimento di Morelli all’archivio riservato. Che deve essere ripensato e che potrebbe essere, se ben disciplinato, un modo per tutelare le persone, le procedure processuali e quei princìpi costituzionali che esistono che vengono ignorati o sacrificati con scuse e risposte sbagliate. Indagine su Persichetti finita, ma il pm non trova il reato e lo tiene “in ostaggio” di Frank Cimini Il Riformista, 1 febbraio 2023 I termini delle indagini sono ormai scaduti. Il reato non c’è perché così aveva messo nero su bianco il giudice delle indagini preliminari peraltro aggiungendo: “E chissà se mai ci sarà”. Ma il pm non ha ancora deciso di archiviare o di inventarsi l’ennesimo reato poi cassato. Tiene a bagnomaria l’unico indagato (di cosa? Ah saperlo!). Si chiama Paolo Persichetti ricercatore storico indipendente, si occupa di terrorismo e del caso Moro, le due paroline magiche che in questa democratura impediscono rispetto delle regole e dei diritti. Il pubblico ministero è per usare una parola oggi di moda “latitante” e forse tra trent’anni lo prendono. Si chiama Eugenio Albamonte, fa parte anzi è il leader della corrente di Area-Magistratura Democratica, quindi è uno di sinistra. E anche molto pieno di sé. Nei giorni scorsi, come avete potuto leggere su questo giornale, aveva intimato nel pieno delle polemiche sulle intercettazioni telefoniche e ambientali al ministro della Giustizia Carlo Nordio di tacere per una decina di giorni. Nessuno ovviamente si era indignato per un pm che esorbitando non di poco dal suo ruolo ordina il silenzio al ministro. Lui Eugenio Albamonte, invece, sta zitto dopo aver condotto un’indagine senza capo né coda a caccia di misteri inesistenti, complicità di chissà quali poteri occulti dietro il gruppo di comunisti rivoluzionari che rapirono il presidente della Democrazia Cristiana. Il reato al centro dell’indagine è già cambiato cinque volte. Quello più grave, associazione sovversiva finalizzata al terrorismo, partendo dalla diffusione di carte segrete che segrete non erano della commissione parlamentare sul caso Moro, evaporava in pratica immediatamente. Con i termini di indagine scaduti il pm non può fare niente, tranne che tenere nel limbo l’indagato al quale ha già sconvolto la vita dall’8 giugno del 2021 sequestrando di tutto fino alle certificazioni mediche del figlio disabile. Le carte solo di recente dopo l’estrazione della copia forense sono tornate a casa. Ma Albamonte sta zitto, non dice e non fa. Forse pensava di scoprire chissà che, lui titolare anche dell’indagine in cui aveva chiesto e ottenuto di poter prendere 43 anni dopo i fatti il Dna dei condannati per via Fani e altre persone. Anche lì risultati zero. Pure l’esperimento del laser in loco sentenziava che a sparare furono solo le Brigate Rosse. La stessa realtà accertata in cinque processi e nell’attività di ricercatore svolta dal povero Persichetti. E in più, come se non bastasse, con chissà quali competenze di via Fani ora si occupa pure la commissione parlamentare antimafia per sostenere che furono la ‘Ndrangheta e la banda della Magliana ad aiutare le Br. E, dulcis in fundo, in contatto con i brigatisti nel 1978 c’era anche Paolo Persichetti. Il quale però allora frequentava, avendo 16 anni, un liceo sgarrupato della capitale. È un paese dove la mamma dei dietrologi è sempre incinta. Sulla rivista “Historia Magistra”, ultimo numero, c’è un articolo a firma di Paola Baiocchi e Andrea Montella due allievi del mitico senatore piccista Sergio Flamigni, dal titolo significativo: “Com’è NATO un golpe: il caso Moro”. Cioè a rapire Moro fu la Nato. Bisognerebbe allora chiedere cosa ne pensa il generale James Lee Dozier rapito poi dalle Br. Dietrologia senza fine. Archivi giornalistici online, obbligo di riportare l’eventuale assoluzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2023 Per la Cassazione, ordinanza 2893 depositata oggi, su richiesta della parte interessata, va inserita una scheda a margine che dia conto dell’esito del procedimento. La Cassazione, ordinanza 2893 depositata oggi, fa un passo avanti verso il diritto all’oblio delle persone oggetto di articoli di stampa relativi a vicende giudiziarie poi conclusesi con l’assoluzione. In particolare, la questione riguarda gli archivi online dei quotidiani. Oltre alla deindicizzazione, che blocca il riemergere del nome tramite la semplice digitazione dell’anagrafica sui motori di ricerca (diventa necessaria una specifica query sul sito del giornale), la Prima sezione civile ha riconosciuto il diritto alla aggiunta in calce o a margine dell’articolo di una scheda sintetica che dia conto dell’esito assolutorio del procedimento. Bocciata invece la richiesta della cancellazione tout court del pezzo e anche della sua manipolazione, con l’introduzione di “pseudonimi sostitutivi o omissioni nominative”; un intervento che “annichilerebbe - scrive la Corte - con l’iperprotezione dei diritti alla riservatezza degli interessati la funzione di memoria storica e documentale dell’archivio del giornale”. Il caso era quello di due professionisti, l’uno assessore e l’altro dirigente di un comune campano, arrestati per corruzione nell’ambito della costruzione di un parcheggio presso gli scavi vesuviani e poi successivamente assolti e risarciti per l’ingiusta detenzione subita. Chiesta la cancellazione degli articoli dagli archivi online, mentre l’agenzia giornalistica aveva immediatamente proceduto, il quotidiano si era difeso sostenendo la verità storica di quanto riportato e affermando di aver già provveduto alla deindicizzazione mentre dovevano essere disattese le ulteriori istanze di cancellazione, trasformazione in forma anonima o blocco dei dati personali dall’archivio on-line . E il Tribunale di Napoli gli aveva dato ragione. Riproposta la questione in Cassazione, la decisione al termine di una completa ricostruzione normativa e giurisprudenziale, anche alla luce del regolamento generale UE sulla protezione dei dati personali n. 679 del 2016 (c.d. GDPR), ha riconosciuto il diritto dei richiedenti alla completezza della informazione. Con un “costo modesto” per l’impresa giornalistica, afferma la Corte, l’inserzione cioè di una breve nota in calce o a margine e solo su richiesta di parte, che non altera la funzione tipica dell’archivio, si previene “un pregiudizio ben più consistente per l’interessato”. Naturalmente questa tutela si aggiunge alla deindicizzazione. In tema di trattamento dei dati personali e di diritto all’oblio, scrive dunque la Cassazione affermando un principio di diritto, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato, purché, a richiesta dell’interessato, l’articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l’archivio storico del quotidiano e purché, a richiesta documentata dell’interessato, all’articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell’esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato. Questa è la strada, prosegue la Corte, per contemperare in modo bilanciato il diritto ex articolo 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale. La Corte ricorda poi la recentissima ordinanza n. 479 dell’11.1.2023 che ha affrontato il tema della configurazione giuridica dell’archivio storico digitale di un quotidiano, negando che si tratti di un prodotto editoriale su supporto informatico avente i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo, con la conseguenza inapplicabilità delle norme sulla responsabilità oggettiva del proprietario e dell’editore della testata giornalistica. Ciò detto, è stato ritenuto che nell’ipotesi in cui il relativo contenuto diffamatorio risulti già accertato con sentenza passata in giudicato, l’inserimento e il mantenimento nel suddetto archivio integra una nuova e autonoma fattispecie illecita, ove sussista la lesione di diritti costituzionalmente garantiti. Il giudice che intenda utilizzare le intercettazioni captate in altro procedimento deve dimostrarne la connessione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2023 Quando i reati sono diversi estendere de plano i risultati ottenuti tramite trojan equivarrebbe a dare una delega in bianco ai giudici. L’utilizzo delle intercettazioni ottenute dal posizionamento di un captatore informatico è consentito anche in altro diverso procedimento se si tratta di reati connessi. Perciò il giudice che adotta una misura cautelare sulla base delle intercettazioni emerse in altro e precedente procedimento a carico dello stesso imputato deve sufficientemente motivare sulla connessione tra i due iter processuali. E prima della modifica dell’articolo 270 del Codice di procedura penale - applicabile al caso concreto - era richiesto per la riutilizzabilità in un diverso procedimento dei risultati intercettativi che si trattasse di reato per cui era previsto l’obbligo dell’arresto in caso di flagranza. La Cassazione con la sentenza n. 4141/2023 ha, infatti annullato l’ordinanza di custodia cautelare che disponeva i domiciliari a seguito della notizia di reato emersa dalle intercettazioni di altro procedimento a carico dello stesso imputato, di cui ha accolto il ricorso rinviandolo a nuovo giudizio. La decisione di legittimità precisa che per il caso concreto non era applicabile la nuova versione dell’articolo 270 del Codice di procedura penale per i fatti contestati precedenti la sua entrata in vigore che regola l’estensione dell’utilizzabilità delle intercettazioni. La norma prevede, come presupposto dell’utilizzo dei risultati captativi a procedimenti avviati in base a notizia di reato emersa proprio dallo strumento investigativo, che si trattasse di fattispecie penale per cui è previsto l’obbligo dell’arresto in flagranza. La nuova versione della norma procedurale, ma non applicabile al caso in esame, prevede inoltre (al comma 1bis sostituito) che “i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, se compresi tra quelli indicati dall’articolo 266, comma 2-bis”. Nel caso concreto il Trojan sul telefono dell’imputato era stato adottato inizialmente per l’accertamento di reati associativi di stampo camorristico. Dalle comunicazioni captate emergevano però altri reati a carico dello stesso imputato, ma commessi per fini personali, quale quello di favorire il proprio figlio nell’assegnazione di appalti attraverso l’intestazione fittizia di società partecipanti a gara pubblica. Si tratta quindi di procedimenti, ma anche di reati diversi, per i quali è necessario che vi sia una delle forme di connessione previste dalla norme di procedura penale al fine di estendere i risultati delle intercettazioni al nuovo procedimento. Di fatto l’uso, oltre il perimetro del procedimento originario, è ammesso in base criteri di stretta necessità per l’accertamento di altri reati, ma solo di quelli che abbiano profili materiali o finalistici di connessione tra loro o che siano contemplati nelle categorie di reato tassativamente indicate. Il nodo centrale di tale rigido regime sta nell’esigenza di rispettare il principio costituzionalmente garantito (articolo 15) della libertà e della segretezza delle comunicazioni e le cui eventuali e strettamente necessarie limitazioni sono giustificate solo se fondate sul rispetto delle garanzie stabilite. San Gimignano. Detenuto in isolamento si toglie la vita, è il quinto caso da inizio anno di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 1 febbraio 2023 Ancora un suicidio nelle carceri toscane. È il quinto dall’inizio del 2022. Stavolta nel penitenziario di San Gimignano. Il detenuto, 44 anni di Napoli, è stato trovato ieri senza vita dagli agenti nella palestra della sezione isolamento. Secondo i sindacati Uil Pa, si trovava in isolamento per essere stato trovato in possesso di un micro cellulare, sanzione che sarebbe terminata tra pochi giorni. L’uomo arrivava da un altro carcere, stava scontando una pena che sarebbe terminata nel 2039 ed era in regime di alta sicurezza. Sul caso è stato aperto un fascicolo dalla Procura. “Abbiamo piena fiducia nelle indagini della magistratura - ha detto la garante dei detenuti di San Gimignano Sofia Ciuffoletti - Ci auguriamo che si possa fare chiarezza, questo è l’ennesimo suicidio nelle nostre carceri, serve una riflessione più ampia sul tema, importante in tal senso la circolare del capo del Dap Renoldi in cui si invita a prevenire l’atto suicidario con maggiori contatti esterni per i reclusi, visto che di solito nei penitenziari c’è un regime limitato di comunicazioni con i familiari”. Il direttore del carcere, Giuseppe Renna, si limita a dire che “l’uomo non aveva mostrato segni che avrebbero fatto ipotizzare il suicidio”. I sindacati Uil Pa lamentano invece una carenza organizzativa nel carcere: “Denunciamo ancora una volta la necessità che venga rivista la struttura del carcere, è inaccettabile che da mesi la direzione non convochi le organizzazioni sindacali nonostante le richieste continue”. Milano. Da 22 anni al 41bis, il boss Gallico muore due giorni dopo il trasferimento all’ospedale di Sandro De Riccardis La Repubblica, 1 febbraio 2023 Lo scorso giugno gli avvocati avevano chiesto il differimento della pena per la gravità delle sue condizioni di salute. Richiesta accolta solo venerdì scorso. Trentaquattro anni in carcere, ventidue al 41 bis, dietro le sbarre ininterrottamente dal 1990. Fino a un aggravamento delle sue condizioni di salute che hanno portato i suoi legali a chiedere un differimento pena nel giugno dello scorso anno, concesso solo venerdì scorso. Due giorni dopo, Giuseppe Gallico, 66 anni, è morto al San Paolo, quando il detenuto non rispondeva più ai trattamenti medici. Boss ai vertici dell’omonima cosca di ‘ndrangheta di Palmi, Gallico è stato condannato a svariati ergastoli per associazione di stampo mafioso, omicidio, estorsioni, armi e altri reati. Per i suoi avvocati, Guido Contestabile e Antonio Cristallo, “è stato lasciato morire in carcere, anche quando le sue condizioni erano disperate”. Una storia che s’intreccia al dibattito sull’abolizione del carcere duro, l’ergastolo ostativo, la dissociazione dei boss. Per Gallico una prima richiesta è depositata il 30 giugno 2022. Dopo un infarto, ad aprile gli viene diagnosticata una fibrosi polmonare idiopatica, “che comporta un progressivo declino della funzionalità polmonare”. Nell’istanza i legali chiedono il rinvio dell’esecuzione della pena, una richiesta rigettata il 25 luglio dal magistrato di sorveglianza, che non riscontra l’urgenza del trasferimento, facendo propria la relazione sanitaria del carcere di Opera. Un documento che parla di “cardiopatia ischemica cronica e fibrosi polmonare idiopatica, malattia rara a carattere progressivo, con sviluppo di insufficienza respiratoria”, per la quale vengono chiesti altri esami al San Paolo. La stessa relazione parlava di “paziente a rischio di eventi anche fatali”. Di ostacolo al diniego anche il parere negativo della Dia di Reggio Calabria, vista la “pericolosità” di Gallico, e “l’attuale operatività dell’organizzazione di stampo mafioso e dell’assenza di dissociazione”, e perché “la famiglia Gallico risulta essere ancora oggi temuta e rispettata dalla cittadinanza di Palmi, sulla quale, da sempre, esercita la propria influenza” con “continuità di condotte delittuose di rilievo anche internazionale”. Intanto le condizioni del detenuto peggiorano: dopo un ricovero d’urgenza, il 19 ottobre è depositata una nuova istanza. In cui i legali segnalano come la malattia “risultava rapidamente progressiva”, con “prognosi di vita infausta nel breve arco di tempo”. Gallico non accetta il trasferito disposto dal tribunale nel reparto Medicina V del San Paolo. “Si tratta di due stanze riservate ai detenuti al 41bis, con aria condizionata altissima, che avrebbe ucciso ancora prima un malato di polmonite”, dice l’avvocato Cristallo. Gallico sta ormai molto male: in terapia con ossigeno “a otto litri al minuto”, in “terapia cortisonica ad alto dosaggio”, “in aerosolterapia tre volte al giorno”. I medici parlano di paziente “non suscettibile di miglioramento”, “esposto a potenziali riacutizzazioni” con “un rischio elevato di mortalità anche ospedaliera”. Tanto che gli avvocati scrivono ancora al Tribunale di sorveglianza. Viene fissata udienza per l’11 novembre, poi rinviata al 27 gennaio per verificare l’idoneità di un domicilio e avere altri aggiornamenti medici. Troppo tardi per legali di Gallico, che parlano di un rinvio disposto di fronte a una situazione già gravissima. “Gallico è affetto da una grave patologia che richiede soltanto un trapianto urgente perché è destinato a breve a morire - scrive l’avvocato Cristallo in una memoria - e al 41 bis attaccato a una bombola dell’ossigeno, con difficoltà di deambulazione, equivale a sottoporlo a tortura, sofferenze ulteriori e a una morte intollerabile”. La richiesta di trasferimento viene accolta venerdì scorso in udienza, quando Gallico è in fin di vita al San Paolo. Due giorni, nella notte tra domenica e lunedì, il decesso. Torino. Torture al Lorusso e Cotugno, chiesta condanna di un anno di carcere per l’ex direttore di Irene Famà La Stampa, 1 febbraio 2023 Il pm: un anno e due mesi per l’ex comandante della polizia penitenziaria Alberotanza e quattro anni per l’agente Apostolico. Un anno di carcere per l’ex direttore del carcere Lorusso e Cutugno Domenico Minervini, un anno e due mesi per l’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza e quattro anni per l’agente Alessandro Apostolico. Queste le condanne chieste questa mattina dal pubblico ministero Francesco Pelosi nel processo che riguarda presunti episodi di tortura che si sarebbero verificati tra aprile 2017 e ottobre 2019 nel padiglione C del carcere torinese, quello in cui sono detenuti i sex offender. I tre hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. Gli altri 21 imputati hanno optato per il rito ordinario. Per la procura Minervini e ad Alberotanza avrebbero ignorato le segnalazioni sulle violenze. Vessazioni, umiliazioni e botte - Secondo le accuse, gli agenti avrebbero umiliato e picchiato con calci e pugni i detenuti reclusi per reati a sfondo sessuale e avrebbero indossato i guanti, in modo da non lasciare tracce. “Preferivano colpire allo stomaco e non alle braccia, dove i lividi sarebbero stati visibili”. In un episodio, poi, avrebbero versato del detersivo per piatti sul letto di un detenuto; in un altro caso, si sarebbero fatti consegnare gli atti del processo, leggendo i capi di imputazione ad alta voce davanti agli altri reclusi. Le indagini avevano preso il via dopo la denuncia della garante dei detenuti del Comune di Torino Monica Gallo, che ha raccolto testimonianze di educatori, psicologi, insegnanti e degli stessi detenuti. Dodici detenuti sono parti lese. I garanti dei detenuti, quello torinese, regionale e nazionale, la Camera Penale e l’associazione Antigone si sono costituiti parte civile. Il filone principale del processo comincerà a luglio. Perugia. “Frontiera Lavoro” nelle carceri di Alessandra Ventimiglia La Discussione, 1 febbraio 2023 È l’articolo 27 della Costituzione a ricordarci il fine rieducativo della pena detentiva. I dati del ministero di Giustizia attestano che il lavoro aiuta il detenuto a recuperare l’autostima e la fiducia in sé stesso, incoraggiandolo a intraprendere un percorso virtuoso di reinserimento sociale, che evita le recidive, cioè di ricadere in comportamenti devianti. Infatti, il 95% dei detenuti che transitano attraverso percorsi formativi e professionalizzanti, di orientamento al lavoro e di accompagnamento al lavoro già nelle carceri, non tornano a delinquere. È questo cui ci invita la nostra legge, nell’interesse del singolo, ma anche di tutta la collettività. I progetti di reinserimento al lavoro dei detenuti si traducono anche in benefici e vantaggi per il datore del lavoro grazie agli incentivi garantiti dalla Legge Smuraglia 193 del 2000. Non solo, il datore di lavoro ha la possibilità di assumere una risorsa già formata e il costo del mantenimento della persona in carcere viene detratto dagli stipendi guadagnati dalla condizione di semilibertà, con un significativo abbattimento del costo sociale. L’associazione Frontiera Lavoro di Perugia - Fortunatamente, incominciano a nascere diverse associazioni che si occupano di questo. Spesso vi abbiamo parlato di “Seconda Chance”, che opera su Roma e oggi vi parleremo di “Frontiera Lavoro” presente nel Nuovo complesso penitenziario di Perugia Capanne. Gli operatori selezionano i profili professionali sulla base della ricerca svolta dalla Camera di Commercio, che ogni anno individua i fabbisogni delle aziende del territorio nel medio e lungo periodo. All’interno del penitenziario la selezione delle persone è attenta, svolta di concerto con l’equipe comportamentale dell’Istituto di pena. In 25 anni di lavoro, gli inserimenti lavorativi effettuati da “Frontiera lavoro” non hanno mai portato alla revoca delle Misure che il Magistrato aveva concesso. La storia di Pasquale - L’associazione ci fa conoscere Pasquale, che si sveglia ogni mattina alle 5.10, prende l’autobus a Capanne e arriva a Tavernelle, nella periferia perugina, per prendere servizio nel laboratorio di pasticceria Blanco. Da qualche mese vi lavora a tempo pieno con un regolare contratto come “aiuto pasticcere”, ottenuto dopo un mese di prova. Sta scontando 16 di pena per un reato contro la persona commesso dieci anni fa e sa di aver sbagliato, ma sa anche che quella che gli è stata offerta è una grandissima opportunità che lui non vuole assolutamente perdere. “È difficile trovare personale professionale volonteroso - ha commentato il datore di lavoro di Pasquale -, nessuno ha più voglia di fare questo mestiere. Ad oggi posso dire di essere soddisfatto della scelta che ho fatto, ho trovato una persona capace, educata, disponibile, che non mi crea alcun tipo di problema”. È solo uno degli esempi concreti dell’efficacia degli interventi di inclusione socio-lavorativa all’interno delle strutture penitenziarie, che ci aiuterebbero a distinguerci da Paesi meno civilizzati. Cosa che al momento non è. Napoli. “Sbarre di Zucchero. Quando il carcere è donna in un mondo di uomini”, il convegno comunicareilsociale.com, 1 febbraio 2023 Il carcere è al centro del dibattito nel Rione Sanità per il primo convegno organizzato a Napoli dalla rete nazionale di “Sbarre di Zucchero. Quando il carcere è donna in un mondo di uomini”. Titolo del convegno è “Mai più una di Meno”, attraverso le storie di chi ha vissuto e vive il carcere ma anche familiari, volontari, operatori, verranno raccontate luci e ombre del sistema carcere, per riportare al centro del dibattito un tema troppo spesso relegato ai margini. L’appuntamento è alle ore 17.30 nella sede dell’Associazione Liberi di Volare Odv in via Buonomo Giuseppe 39, Napoli. Il programma - Ad aprire il convegno il cortometraggio di Carlotta Toschi e i saluti delle attiviste Micaela Tosato e Monica Bizaj, tra le fondatrici del gruppo Sbarre di Zucchero, e Don Franco Esposito, direttore Pastorale Carceraria. A seguire le testimonianze delle ragazze e dei ragazzi di Sbarre di Zucchero che racconteranno le loro storie di disagio e riscatto. Infine tavola rotonda moderata da Rossella Grasso, giornalista del Riformista con gli interventi di Emanuela Belcuore, garante dei detenuti per la provincia di Caserta, Elena Cimmino, vice presidente de “Il Carcere Possibile Onlus”, degli avvocati Argia Di Donato, Vincenzo Improta, Carlotta Toschi e della dott.ssa Maria Luisa Palma, direttore della Casa Circondariale di Pozzuoli. Per il Comune di Napoli porterà il suo saluto l’assessore al Welfare e politiche sociali Luca Trapanese. Al termine interventi liberi. Incursioni musicali del cantautore Marco Chiavistrelli. L’evento sarà trasmesso in streaming sulla pagina Facebook di Sbarre di Zucchero. L’Associazione - “Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami”. Sono queste le ultime parole d’amore scritte a penna su un foglietto a quadretti da Donatela Hodo, morta suicida in carcere a 27 anni la scorsa estate. Parole d’amore che vengono dal buio più pesto, che sono rimaste incise nel cuore di tanti. E soprattutto delle amiche di Donatella, che avevano condiviso con lei un pezzo di vita. Ed è proprio per non lasciare che quella morte prematura e drammatica sia avvenuta invano, che le sue amiche hanno aperto un gruppo su Facebook “Sbarre di Zucchero” che in 5 mesi di attività si è esteso a varie parti della penisola. Sbarre di Zucchero è un megafono che riporta al centro il tema del carcere, soprattutto al femminile. Il gruppo di attiviste e attivisti promuove iniziative per migliorare le condizioni delle carceri e si impegna a diffondere storie per far conoscere a tutti cosa significhi la detenzione, affinché nessuno abbia mai più “paura di tutto” come Donatella, nessuno si senta abbandonato e il carcere possa davvero assolvere a quello che la Costituzione (art 27 comma 3) prevede: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Affinché quelle celle, sovraffollate e inadeguate alla vita, non diventino più bare. Il gruppo è nato fisicamente a Verona, la città di Donatella, ma presto ha formato distaccamenti in tutta Italia, con sedi a Napoli, Roma, Milano e Bologna. Un modo per fare rete e parlare di carcere, di quello che non va e anche delle buone pratiche da promuovere. Mettere insieme le forze per dare supporto ai detenuti e alle loro famiglie che troppo spesso ancora soffrono per le condizioni estreme delle carceri. Tra le attività promosse da Sbarre di Zucchero, a seguito dell’emergenza freddo per i risparmi energetici e della scarso approvvigionamento e organizzazione nel soddisfacimento della domanda, c’è la raccolta e consegna di abbigliamento e generi di prima necessità per l’igiene personale, a favore della popolazione detenuta di Milano, Busto Arsizio, Verona, Rovigo, Roma, Napoli, trovando l’appoggio e la collaborazione concreta del cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere del Santo Padre e del cantautore Zucchero Fornaciari. I convegni in presenza ed online, portando le testimonianze de #leragazzedisbarre e la presentazione di libri di chi, dopo il carcere, ha trovato la sua seconda opportunità; stretta collaborazioni con Il Riformista (con la rubrica Lettere sul carcere a Sbarre di Zucchero, a cura di Rossella Grasso), Voci di dentro, 41bus di Bruno Palamara ed altre realtà associative. È infine in programma la costituzione in associazione che sarà composta da appassionati, perché non cerchiamo soci ma persone innamorate della giustizia e delle seconde possibilità. “I nostri ieri” un film sull’importanza della creatività per la riabilitazione nelle carceri di Bruna Alasia pressenza.com, 1 febbraio 2023 Il terzo comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “I nostri ieri”, film diretto da Andrea Papini, dimostra che uno dei mezzi per ottenere una vera riabilitazione dei detenuti è il cinema, il teatro, se vogliamo le espressioni artistiche in generale. Citando Erich Fromm, bisogna convenire che è certificata la considerazione “l’uomo che non può creare vuole distruggere” e che per contrastarla è necessario coltivare l’istinto creativo, soprattutto nei penitenziari, perché veicola catarsi nei reclusi e nuovi rapporti umani tra loro e “coloro che stanno fuori” stabilendo un’osmosi reciproca. Il film racconta di Luca (Peppino Mazzotta), un documentarista che temporaneamente insegna in un istituto di pena. L’uomo si appassiona alle vicende umane dei carcerati e per il saggio di fine corso si spinge a mettere in scena il delitto senza senso di uno di loro, il camionista Beppe (Francesco Di Leva). Durante la lavorazione cinematografica i detenuti coinvolti ritrovano senso e chiarimento alle loro vite, mentre il regista ripercorrendo a ritroso gli avvenimenti, incontra fuori dal carcere i familiari dell’omicida protagonista: le interviste che il regista realizza con ciascuno diventano una sorta di confessione, di autocoscienza collettiva. La contemporanea e inaspettata visita della figlia del cineasta (Denise Tantucci), che torna a trovarlo dopo anni di lontananza dovuti alla precaria relazione dei genitori, lo costringerà a interrogarsi sui propri legami familiari. E nell’amore che il mondo intorno gli chiede in modo pressante, l’uomo intuisce una possibile via d’uscita dalla crisi personale … Il film è importante perché racconta le diffidenze incontrate dal regista nel veicolare la creatività in un carcere, con i detenuti e con le istituzioni, ma nello stesso tempo aiuta a capire che esistono penitenziari dove si organizzano cose lodevoli e belle: spettacoli teatrali, laboratori artistici. Girato nell’ex carcere di Codigoro, in provincia di Ferrara, nel Parco del Delta del Po, presso Stazione Foce a Comacchio, tra la zona Darsena e il centro storico di Ravenna e infine a Bologna, “I nostri ieri” è un film basato sulle reali esperienze del regista. Il film dimostra che nei penitenziari non vivono essere umani diversi da noi e che la possibilità di realizzare condizioni creative, che spingano a una nuova consapevolezza, è concreta. Il protagonista del film è Peppino Mazzotta, volto noto e amato dal grande pubblico cinematografico e televisivo. Insieme a lui, un cast importante che conta interpreti come Francesco Di Leva, Teresa Saponangelo, Maria Roveran,?Daphne Scoccia?e Denise Tantucci. I nostri ieri è un film prodotto da Antonio Tazartes, Andrea Papini, Marita D’Elia per Atomo Film, con il sostegno di: MiC-Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, Emilia-Romagna Film Commission, Regione Lazio-Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo. La data di uscita nelle sale italiane è prevista per il 9 febbraio 2023 (distribuzione: Atomo Film. Curatela editoriale e organizzazione per l’uscita in sala: Cineclub Internazionale). Distribuzione internazionale: Illmatic Film Group.