Cospito. “Senza la revoca del 41 bis pronto a riprendere il digiuno assoluto” di Giusy Fasano Corriere della Sera, 19 febbraio 2023 L’avvocato fa sapere che l’anarchico è in condizioni stabili grazie all’assunzione degli integratori, ma riprenderà il digiuno assoluto in caso di pronuncia sfavorevole della Cassazione (attesa per il 24 febbraio). Dopo avere nei giorni scorsi iniziato ad assumere degli integratori e tentato di mangiare degli yogurt, Alfredo Cospito è pronto a riprendere il digiuno assoluto se la Cassazione non revocherà il regime del 41 bis nei suoi confronti. È quanto fanno sapere fonti legali. La data segnata in rosso è il 24 febbraio, quando la suprema corte dovrà pronunciarsi riguardo al mantenimento o meno del “carcere duro” per l’anarco-insurrezionalista, detenuto nel carcere di Opera e attualmente ricoverato all’ospedale San Paolo in ragione della precarietà delle sue condizioni di salute, dopo lo sciopero della fame iniziato il 20 ottobre. Secondo quanto si apprende da fonti legali le condizioni di Cospito sarebbero stabili, grazie agli integratori che avrebbero riequilibrato l’organismo dell’anarchico, che ha invece rifiutato ogni terapia farmacologica. I tentativi di assumere yogurt non sarebbero invece andati a buon fine, data l’incapacità di trattenere gli alimenti ingeriti. Qualora l’anarchico dovesse riprendere il digiuno assoluto, si apprende, “la situazione potrebbe precipitare”. “Basta disinformazione, Alfredo Cospito si sta lasciando morire di fame” di Simone Alliva L’Espresso, 19 febbraio 2023 Ai microfoni di Radio Onda Rossa il legale Flavio Rossi Albertini smentisce il ministro Nordio (“Condizioni in miglioramento”) e i media (“Ha ingerito yogurt”). Poi avverte: “L’alimentazione forzata sarebbe benzina sul fuoco per le tensioni sociali”. Mentre fuori il clima è incandescente: una lettera di minacce, a firma anarchica, con un proiettile. L’avvocato di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini parla ai microfoni di Radio Onda Rossa e rompe tutto l’assedio di parole intorno al corpo dell’anarchico al 41 bis e dal 20 ottobre in sciopero della fame. Smentisce le parole del ministro della Giustizia, Carlo Nordio per cui le condizioni di salute sono in miglioramento e quelle dei media che parlano dello yogurt al miele ingerito con “valori in netta risalita”. Tutto fasullo, dice Rossi ai microfoni della radio militante. “C’è sicuramente un tentativo di calmare il livello di tensione sociale intorno alla vicenda e vengono diffuse queste informazioni di yogurt assunto, integratori”, spiega l’avvocato che ieri ha visto il suo assistito. “Ormai Cospito è in una condizione in cui qualsiasi cosa assume sostanzialmente la rimette. La condizione dello stomaco non più sollecitato a quelli che sono i processi ordinari di nutrizione entra in una stasi, cioè una incapacità a digerire svolgere funzione ordinaria. L’ho visto ieri non darei un quadro rassicurante. Tutt’altro”. Eppure ieri in aula alla Camera era stato il Guardasigilli Nordio a ribadire che sì, Cospito resta in regime di carcere duro. Le sue condizioni di salute, “costantemente monitorate”, sono in miglioramento: è tornato ad assumere integratori e ha accettato di mangiare uno yogurt con il miele. “Informazioni diffuse volte a disorientare, confondere, tacitare, calmierare, allenire ogni forma di protesta e di rabbia che si è espressa nelle ultime settimane contro questo compagno che stanno lasciando morire di fame”. Sempre ieri Nordio ha spiegato che in merito all’ipotesi che Cospito rifiuti eventuali trattamenti salvavita, di aver inoltrato il 6 febbraio al Comitato nazionale di bioetica una richiesta di parere, ancora non pervenuto. Ma in caso di alimentazione coatta, l’avvocato Rossi non usa mezzi termini: “Si aprirebbe uno scenario altrettanto drammatico, che porterebbe a un’ulteriore strazio rispetto alle volontà di Cospito. Benzina sul fuoco dal punto di vista di tensioni sociali” Intanto fuori la tensione è già incandescente. Una lettera di minacce a firma anarchica con un proiettile è stato recapitato all’Iveco Defence Vehicles di Bolzano. Come riportato dall’Ansa. La busta era indirizzata a uno dei manager dello stabilimento. Nella lettera gli anarchici fanno riferimento al caso Cospito e si accusa l’Iveco di Bolzano di fabbricare armamenti. Da Santa Maria La Fossa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, rispondendo ad una domanda dei cronisti sulle ultime azioni dei gruppi della galassia anarchica ha dichiarato: “Gli episodi delle lettere con proiettili di matrice anarchica inviate ad aziende e manager sono al vaglio degli inquirenti, ma sono modalità già viste su cui le forze dell’ordine hanno un livello di attenzione già alto. Dobbiamo però lanciare messaggi sempre molto equilibrati, non di sottovalutazione ovviamente, ma neanche bisogna far preoccupare la gente”. Dopo la “carovana” non autorizzata che ieri si è riunita in un presidio in piazzale Aldo Moro, a Roma, per poi muoversi verso il carcere di Rebibbia per un saluto ai “compagni detenuti”, sabato pomeriggio gli anarchici saranno sotto al carcere di Parma, lato via Mantova, per ribadire la contrarietà al carcere duro e chiedere la liberazione di Alfredo Cospito. Mentre a Milano, venerdì è previsto un presidio degli anarchici dalle 16 sotto il Comune in piazza della Scala. Titolo dell’iniziativa ‘Fuori Alfredo dal 41bis. No tso, no alimentazione forzata’. Duro su quest’ultimo presidio il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana che scrive sulla propria pagina Facebook: “Milano non può tollerare questi delinquenti. Per questa ragione farò quanto possibile nelle mie competenze per evitare il ripetersi di queste vergognose manifestazioni”. Detenuti al 41 bis, le Asl responsabili delle cure di Gigi Di Fiore Il Mattino, 19 febbraio 2023 L’assistenza sanitaria ai detenuti, che dal 2018 è stata definitivamente trasferita al Sistema sanitario nazionale, è una delle maggiori incombenze del Dap. Due scelte diverse. Se, per farlo riprendere dal deperimento legato al suo sciopero della fame, Alfredo Cospito è stato ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano, per il boss mafioso Matteo Messina Denaro, malato di cancro al colon, è stata allestita una stanza per la chemioterapia nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila. Spiegano al Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria: “La scelta del trattamento sanitario a un detenuto al 41 bis è, come prevede la legge, legata alla situazione e condizione individuale. Per Matteo Messina Denaro è stato valutato il rischio per la sicurezza in caso di trasferimento ospedaliero”. E per il capomafia stragista il ciclo di chemioterapie è ormai avviato in carcere, sotto la vigilanza del primario dell’ospedale oncologico dell’Aquila, Luciano Mutti. L’assistenza sanitaria ai detenuti, che dal 2018 è stata definitivamente trasferita al Sistema sanitario nazionale, è una delle maggiori incombenze del Dap che deve vigilare su come vengono attuati i trattamenti medici. La Costituzione e le leggi dal 1998 al 2018 impongono cure e prevenzioni sanitarie uguali a quelle assicurate a chi è libero. Ma, naturalmente, curarsi dietro le sbarre è diverso. E le polemiche sono ricorrenti. Il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, nelle ultime ore ha segnalato la morte in carcere a Frosinone di un detenuto egiziano malato di Hiv con problemi respiratori, denunciando: “L’assistenza sanitaria nei penitenziari italiani viaggia a due velocità, tanto che c’è una camera privata d’ospedale con tecnologie avanzate per boss eccellenti al 41 bis e assenza persino del dentista per il povero cristo”. Sono le intese tra le singole Regioni e i Provveditorati regionali del Dap a stabilire le regole per l’assistenza sanitaria ai detenuti. Se ne occupano le Asl del territorio su cui si trovano le carceri, che pianificano servizi di controlli medici periodici negli istituti penitenziari. Ma medici e infermieri non sono mai entusiasti di lavorare dove non è raro essere minacciati e insultati, come ha segnalato la rivista specializzata “L’infermiere”. I controlli ordinari sui detenuti, che attualmente sono 51403, sono saltuari, in poco attrezzati ambulatori negli istituti penitenziari. Ma il Dap ha istituito da tempo anche dieci Sai, che sono i Servizi di assistenza intensificata. Si trovano in appena dieci istituti penitenziari sul totale dei 189 italiani, allestiti con macchinari d’urgenza e soprattutto medici fissi con orari e turni quotidiani. C’è un Sai nel carcere di Secondigliano a Napoli, uno nel carcere Opera di Milano, un altro a Roma e uno a Cagliari e l’Aquila. È proprio grazie alla presenza di un Sai che Matteo Messina Denaro ha potuto fare i cicli di chemioterapia nel carcere dell’Aquila. Ci sono stati casi in cui per alcuni detenuti al 41 bis, trasferiti in ospedale per malattie gravi, sono state segnalate “incompatibilità” con la detenzione chiedendone il trasferimento a casa. Fu così per Raffaele Cutolo ed è quello che accade ora per Antonio Tomaselli, detto “penna bianca” per il colore dei capelli, affiliato alla cosca Santapaola di Catania. È ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano come Cospito. È malato terminale, in ospedale da sette mesi. Gli avvocati denunciano condizioni gravissime di salute, chiedendo che Tomaselli possa tornare a casa. Fu sempre all’ospedale di Milano che, dopo un ricovero di due anni, nel 2016 morì il boss Bernardo Provenzano e qui fu ricoverato anche Totò Riina. Insomma, con un piantonamento rigoroso affidato a un nucleo speciale della polizia penitenziaria, anche i detenuti al 41 bis affiliati di mafia e camorra possono essere trasferiti in ospedale per essere curati da specialisti. Capitò per pochi giorni anche a Cosimo Di Lauro, capoclan della guerra di Scampia, morto a giugno scorso in circostanze da chiarire su cui c’è in corso ancora un’inchiesta giudiziaria. Nel 2022, sono stati 1187 i trasferimenti temporanei per visite ospedaliere di detenuti al 41 bis, mentre 88 sono stati i ricoveri. Numeri in incremento rispetto all’anno precedente, quando i ricoveri furono 83. Spiegano all’associazione Antigone: “È dovuto all’aumento dell’età media dei detenuti al 41 bis, che sui 728 attuali è di 58 anni. Ben 340 hanno oltre 60 anni”. Età da controlli medici e rischi di patologie. Se 10 sono i Sai, otto sono invece gli ospedali italiani con una stanza o un padiglione attrezzati per ricoverare detenuti in massima sicurezza: a Genova, Milano, Viterbo, Roma, Palermo, Catania e due a Napoli dove c’è il padiglione Palermo al Cardarelli e delle stanze al Cotugno. Garantire i diritti dei detenuti, anche quelli al carcere duro, assicurando condizioni di sicurezza: Regioni, Asl e Dap riscrivono di continuo accordi. E tutti i direttori delle carceri hanno ormai contatti quotidiani con i direttori generali delle Asl. Il circolo virtuoso tra imprese, detenuti e società in un’ottica “win, win, win” di Valerio De Molli huffingtonpost.it, 19 febbraio 2023 A prima vista, carcere e lavoro possono sembrare due dimensioni inconciliabili. Tuttavia, un istituto penitenziario non può prescindere dalla disponibilità di lavoro qualificato al proprio interno. L’incontro Ambrosetti Club promosso da The European House - Ambrosetti è stata l’occasione per presentare un nostro documento di analisi sulla situazione delle carceri italiane, alla presenza del Ministro della Giustizia Carlo Nordio, del Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, del Direttore del Carcere di Bollate Giorgio Leggieri e del Direttore Generale e Fondatore della Cooperativa Sociale BEE.4 Altre Menti Giuseppe Cantatore. “Il carcere è un ozio senza riposo, ove il facile è reso difficile dall’inutile”. È proprio questa frase incisa sul muro del carcere di Massa Carrara che incarna la motivazione e l’obiettivo dell’incontro Ambrosetti Club: approfondire il tema delle partnership pubblico-privato nell’ambito del lavoro in carcere per un’azione sociale di integrazione e recupero. A prima vista, carcere e lavoro possono sembrare due dimensioni inconciliabili. Tuttavia, un istituto penitenziario - il cui scopo è quello di avviare un percorso riabilitativo fondato sulla (ri)costruzione di valore così come previsto dall’articolo 27 della Costituzione che dichiara che le pene devono sempre tendere alla rieducazione del condannato - non può prescindere dalla disponibilità di lavoro qualificato al proprio interno. In questo senso, instaurare partnership con il mondo privato è un importante mezzo di creazione di collaborazioni - dentro e fuori il mondo del carcere - in grado di portare valore aggiunto a tutti gli attori coinvolti. Oggi in Italia il 62% dei condannati conta almeno una carcerazione precedente e addirittura il 15% ne conta almeno 5. E’ rassicurante però sapere che questo dato, come ha sottolineato il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, scende drasticamente al 2% per coloro che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale. Ne emerge che i detenuti che nel corso della permanenza in carcere hanno avuto modo di apprendere una professione raramente torneranno a delinquere una volta in libertà, a differenza degli ex detenuti che non hanno avuto modo di essere reinseriti lavorativamente nella società. Ad oggi però nelle carceri italiane solo il 36% dei detenuti è impegnato in attività lavorative ma nella quasi totalità si tratta di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria attraverso mansioni domestiche, industriali e agricole. Solo l’1% è alle dipendenze di imprese private. Rispetto al panorama nazionale, la Lombardia rappresenta un caso virtuoso, dove il coinvolgimento delle imprese nell’offrire occupazione ai detenuti è triplo rispetto alla media. Negli ultimi 15 anni anche le opportunità di formazione professionale in carcere si sono dimezzate, coinvolgendo nel 2021 meno del 3% dei detenuti (rispetto al 7% registrato nel 2006). Come ha ribadito anche il Ministro Nordio, il lavoro dentro e durante il carcere è di fondamentale importanza per la sua doppia funziona rieducativa e psicologica sul detenuto. E’ importante garantire una sinergia tra il periodo di detenzione e quello successivo alla liberazione: a margine delle attività promosse dal Ministero della Giustizia per una sempre maggiore implementazione del lavoro delle carceri, occorre che ce ne sia una parallela e diffusa di offerta per garantire supporto e opportunità di occupazione agli ex detenuti. Anche il Prefetto di Varese Salvatore Pasquariello, che proprio recentemente ha visitato le Case Circondariali di Busto Arsizio e di Varese, concorda che la società civile, imprenditori, sindacati insieme alle istituzioni sono chiamati sempre di più ad agire insieme per implementare le offerte di occasioni di formazione e di lavoro in favore dei detenuti. Occorre dunque ricordare che il valore aggiunto del lavoro in carcere è triplice. Per le persone detenute garantisce un impiego positivo del tempo della detenzione, un accrescimento dell’autostima legata alla possibilità di esercitare un ruolo positivo nella società e il consolidamento di una cultura del lavoro legata al perseguimento di un obiettivo. Per la collettività consente la valorizzazione del capitale umano, la riduzione della recidività e maggiore sicurezza sociale. Per il sistema delle imprese consente di collaborare con persone motivate e generare un impatto sociale rilevante associato alle attività dell’azienda, oltre alla fruizione di incentivi contributivi e fiscali così come stabilito dalla c.d. Legge Smuraglia. Siamo orgogliosi che il tema abbia riscosso una numerosa e calorosa partecipazione di imprese che hanno manifestato interesse alla realizzazione di progettualità innovative che puntino su qualità e professionalità, andando oltre stereotipi e pregiudizi. Sulla base di queste premesse, Ambrosetti Club - nella sua missione di contribuire al progresso socio-economico e di rappresentare le eccellenze del Sistema Paese e del Sistema Imprese che lo compongono - si rende disponibile a creare momenti di confronto periodici su questo tema per favorire il monitoraggio continuo e la sensibilizzazione del mondo imprenditoriale, con l’obiettivo di promuovere collaborazioni che siano virtuose, benefiche per la comunità e coerenti con le esigenze del mercato. I casi presentati dai Vertici di Eolo, Axpo Italia, Sielte, Cisco, Systems Italy e Openjobmetis dimostrano che si deve e si può fare, creando un circolo virtuoso imprese-detenuti-società in una logica win-win-win. “Vogliono delegittimare noi toghe. Ma non agiamo con scopi politici” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 febbraio 2023 Alessandra Maddalena, vicepresidente dell’Anm, dice no ad una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia: “Non abbiamo nulla da nascondere, chi parla di uso politico della giustizia dovrebbe citare fatti concreti”. Incassata l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter, Forza Italia chiede l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia. Ne parliamo con Alessandra Maddalena, vice presidente dell’Associazione nazionale magistrati che ci dice: “Mi preoccupa l’effetto di una operazione di questo genere, che si tradurrebbe solo in una pericolosa delegittimazione della magistratura, facendola apparire come interessata e di parte”. Sulla narrazione di un Berlusconi assolto per un “cavillo” conclude: i magistrati “quotidianamente” esercitano “la loro funzione nell’esclusivo rispetto delle regole del processo”. Cosa pensa della possibilità di una commissione sull’uso politico della giustizia? La magistratura non ha nulla da nascondere ma la considero una iniziativa assolutamente inappropriata. Negli ultimi decenni vi sono state numerose indagini e processi nei confronti di esponenti politici, che hanno inevitabilmente generato forti tensioni. Le pronunce di assoluzione con cui si sono conclusi alcuni processi non dimostrano certamente che vi sia stato un uso politico delle indagini. Perché i processi penali sono sempre una laboriosa ricerca della verità e si fanno proprio per questo, per confermare o meno la prospettazione accusatoria, che naturalmente deve essere sempre sostenuta da elementi idonei. Una sentenza di assoluzione non può significare inutilità del processo o, peggio, strumentalità delle indagini. Il pluralismo e la presenza di posizioni culturali diverse all’interno della magistratura non giustificano, poi, certamente il sospetto che le opzioni culturali abbiano nel concreto una incidenza sulle indagini o sull’esito dei processi. Si tratta di una affermazione indimostrata. Secondo lei è una operazione trasparenza o si vuole un conflitto con le toghe? Si finisce per far credere che alcuni magistrati abbiano piegato la giustizia a scopi politici, tradendo il dovere di imparzialità sancito dalla Costituzione. Non so se si voglia un conflitto con le toghe, però mi preoccupa l’effetto di una operazione di questo genere, che si tradurrebbe solo in una pericolosa delegittimazione della magistratura, facendola apparire come interessata e di parte. E i cittadini come potrebbero più fidarsi di magistrati dipinti come possibili “avversari politici”? Crede che il capitolo Tangentopoli non sia ancora chiuso? Come le ho detto, quando si indagano o si processano soggetti politici le tensioni sono inevitabili. Ma la soluzione non può essere quella di delegittimare la magistratura, insinuando il sospetto di una giurisdizione deviata. I provvedimenti giurisdizionali vanno letti e ci si deve confrontare solo con le motivazioni, eventualmente anche per sottoporle a critica. Il Paese non ha certamente bisogno di altri conflitti e mi auguro davvero che l’obiettivo di tutte le forze politiche sia, d’ora in poi, quello di superare le tensioni tra politica e magistratura e di realizzare un efficace processo riformatore, con il contributo di tutte le componenti del settore e con un insieme di norme e di risorse in grado di migliorare finalmente il servizio giustizia. Luca Palamara ha messo in luce indebiti contatti tra politici e magistrati. Non sarebbe questo un valido motivo per la commissione? Stiamo parlando di una commissione di inchiesta che avrebbe il compito di portare alla luce distorsioni nell’esercizio concreto della giurisdizione. Chi parla di uso politico della giustizia dovrebbe citare fatti concreti di cui ha conoscenza diretta con riferimento a specifici procedimenti penali. Come valuta i distinguo all’interno della maggioranza sulla proposta? Evidentemente una parte della politica ha compreso che i problemi da affrontare sono altri e che alimentare lo scontro tra politica e magistratura fa male solo ai cittadini, che hanno bisogno di credere nella giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto, la cui azione ha bisogno di fiducia per poter essere compiutamente realizzata. Molti dicono: Berlusconi assolto per un cavillo. Qualcuno replica: sono le regole dello Stato di diritto. Lei con chi sta? Io sto con la Costituzione e con il rispetto tra le istituzioni democratiche. E mi consenta quest’ultima considerazione: è sufficiente praticare le aule di giustizia per rendersi conto di come i magistrati, pur tra mille difficoltà, frutto anche di decenni di disinteresse politico e di investimenti inadeguati, quotidianamente esercitino la loro funzione nell’esclusivo rispetto delle regole del processo. Cospito, Delmastro si difende: “Atti non segreti”. Ma per i pm le carte non si potevano condividere di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 febbraio 2023 Due ore di interrogatorio in Procura. Scritte contro Nordio e la rappresentanza italiana alla Ue. Meloni: “Lo Stato non arretra”. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove continua a dirsi convinto di non aver commesso alcun reato quando ha comunicato al suo collega di partito Giovanni Donzelli, coordinatore di Fratelli d’Italia, il contenuto delle relazioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sui colloqui in carcere tra l’anarchico Alfredo Cospito e due detenuti di ‘ndrangheta e camorra. Perché non erano atti segreti, come ha ribadito in Parlamento il Guardasigilli Carlo Nordio, quando ha spiegato anche le ragioni per cui ha confermato il “carcere duro” a Cospito; ragioni che gli sono valse la scritta comparsa su un muro di Lecce (“Nordio boia speriamo che tu muoia”) e la conseguente solidarietà della premier Giorgia Meloni(estesa ai componenti della Rappresentanza italiana presso l’Unione europea di Bruxelles, imbrattata da un altro slogan): “Lo Stato è al loro fianco e non arretra”. Tuttavia è probabile che Delmastro abbia compreso con esattezza solo ieri, davanti alle domande e alle contestazioni del procuratore Francesco Lo Voi, dell’aggiunto Paolo Ielo e dei sostituti Rosalia Affinito e Gennaro Varone, i termini giuridici della questione nella quale è coinvolto. Il punto non è se i documenti che lui ha ricevuto fossero “segreti”, “classificati” o “di limitata divulgazione”, bensì che gli atti interni al suo ministero riguardanti l’attività della polizia penitenziaria nelle carceri (come l’ascolto dei colloqui tra detenuti e le relative relazioni di servizio) sono coperti dal segreto d’ufficio. Che lui avrebbe violato nel momento in cui li ha condivisi con il collega e coinquilino Donzelli. Avuta piena contezza di ciò, il sottosegretario ha risposto ai quesiti posti dai pm ma s’è riservato, insieme al suo avvocato Giuseppe Valentino (ex parlamentare del centrodestra ed ex sottosegretario alla Giustizia in uno dei governi Berlusconi, nonché candidato poi ritirato di FdI alla vice-presidenza del neonato Consiglio superiore della magistratura) di depositare nei prossimi giorni una memoria difensiva per tentare di chiarire ulteriormente la propria posizione. Nel palazzo della Procura dove ieri il sottosegretario è rimasto per circa due ore, e dove l’indagine a suo carico proseguirà con la convocazione del deputato Donzelli e altre attività, il nodo da sciogliere è giuridico, non politico. Attraverso la ricostruzione esatta dei fatti e la loro valutazione sotto il profilo penale. In alcune pubbliche dichiarazioni Delmastro e altri esponenti di Fratelli d’Italia hanno sostenuto che la divulgazione dei colloqui in carcere non ha violato alcunché perché era tutto già scritto in almeno un articolo uscito la mattina del 31 gennaio, evocato lo stesso giorno da Donzelli nel suo intervento alla Camera contro i deputati del Pd che erano andati a far visita a Cospito in carcere. Ma quell’articolo non riportava le frasi pronunciate dall’anarchico e dagli altri detenuti, riferite nei report della polizia penitenziaria, citate alla lettera dal coordinatore di FdI. Dunque non poteva essere quella la fonte del deputato. Inoltre, secondo quanto riferito da Nordio in Parlamento, la richiesta da parte di Delmastro al capo del Dap Giovanni Russo di “una relazione aggiornata sul detenuto Cospito da parte della polizia penitenziaria” sulla “osservazione del detenuto” risale al 29 gennaio (una domenica) ed è stata trasmessa l’indomani. Quindi prima dell’articolo in cui si parlava di contatti tra l’anarchico e altri detenuti mafiosi. Sul motivo della sua richiesta al Dap, il sottosegretario indagato avrebbe risposto ai magistrati facendo riferimento ad altre informazioni circolate nei giorni precedenti, ma anche questo sarà oggetto degli approfondimenti e ulteriori accertamenti della Procura. In ogni caso il fatto-reato ipotizzato a carico dell’esponente di governo non si sarebbe verificato con la richiesta e acquisizione di quel documento, ma nella comunicazione fatta successivamente a Donzelli. L’indagato si sarebbe difeso sostenendo che siccome per lui quelle carte non erano segrete, non c’era alcun vincolo che gli vietasse di condividerlo con il collega e amico; tesi opposta a quella dei pm, ed è su questo punto che si gioca l’esito dell’indagine. Il cui contenuto resta al momento segreto anche per Delmastro, a parte l’invito a presentarsi per l’interrogatorio e (ovviamente) il contenuto di questo atto. Il sottosegretario ha ricevuto la convocazione per ieri nel pomeriggio di lunedì 13 febbraio, e la notizia s’è diffusa solo nel pomeriggio di giovedì. Quando pare ne sia stato informato anche il ministro Nordio. Anarchici, sotto tutela il manager minacciato. Cospito tornerà in carcere la settimana prossima di Roberto Frulli Il Secolo d’Italia, 19 febbraio 2023 Sono state predisposte misure di sicurezza specifiche, in particolare, nella fase iniziale, l’affiancamento di almeno una persona, per il manager dell’Iveco Defence Vehicles, brand del Gruppo Iveco che produce veicoli da difesa e per la Protezione civile altamente specializzata, minacciato dagli anarchici attraverso un volantino contenuto in una busta. Al momento si tratta la tutela che prevede nella fase iniziale l’affiancamento di almeno una persona, dunque non una vera e propria scorta, nei confronti del manager di origine torinese della Iveco, dipendente nella sede di Bolzano e finito nel mirino degli anarchici. Il volantino degli anarchici firmato dalla Federazione Anarchica Informale di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame contro il 41 bis, recapitato, secondo l’Adnkronos, a diverse aziende italiane e a un giornale, era contenuto all’interno di una lettera, all’interno di una busta gialla e dattiloscritta, assieme ad un proiettile e riportava minacce nei confronti del manager piemontese. “Il soggetto ideale per la vendetta”, si legge nella lettera firmata dagli anarchici. Il giorno precedente alla lettera di minacce, il sottosegretario alla Difesa, Isabella Rauti era stata in visita istituzionale proprio alla Iveco Defense Vehicles ma l’esponente di Fratelli d’Italia esclude che vi sia un nesso fra le due vicende. “È da escludere, vista la tempistica, che ci sia un nesso tra la mia visita e questa minaccia ricevuta - dice al Tempo Isabella Rauti. - Questo atto rientra in quella che sembra essere una regia di carattere internazionale su una rete di anarchici che stanno lanciando, con numerose iniziative, messaggi minacciosi”. “C’è un evidente tentativo - dice il sottosegretario alla Difesa - di alimentare un clima di odio e di tensione, ma lo Stato è più forte: non esita e non si piega di fronte a questi gesti. Se qualcuno pensa di far ripiombare l’Italia in anni bui si sbaglia di grosso”. Quanto a Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso per protestare contro il regime carcerario del 41 bis, ricoverato in via precauzionale nel reparto dedicato dell’ospedale milanese San Paolo, le sue condizioni in via di miglioramento, potrebbe, già la prossima settimana consentire di trasferirlo, nuovamente, nel carcere di Opera. I medici stanno pensando di monitorarlo ancora qualche giorno, poi di liberare il letto della struttura ospedaliera dove è stato trasportato sabato 11 febbraio. Per oggi pomeriggio alle 18,30, a Brescia, in Largo Formentone, è previsto un presidio degli anarchici “solidali con Alfredo” Cospito, “contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo”. E una scritta in vernice rossa che recitava “Free Cospito”, inneggiante alla liberazione di Alfredo Cospito, è stata vergata questa notte sul muro esterno della Rappresentanza Permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles. Quando la scritta è stata vista, sono state avvisate le autorità e la Polizia belga ha effettuato i rilievi del caso. La magistratura ha avviato un’indagine. Subito dopo il sopralluogo della Polizia la scritta è stata rimossa. Gli anarchici tornano in piazza, secondo l’Adnkronos, domani, alle 19 “al fianco di Alfredo” a Roma. “Le bugie dei media servono ad abbassare la tensione - si legge nella locandina che pubblicizza la mobilitazione - Dopo 4 mesi di sciopero della fame, Alfredo è in gravi condizioni di salute. Lo vogliamo subito fuori dalla tortura del 41 bis”. E mentre la sinistra soffia sul fuoco cercando di strumentalizzare la vicenda, il governo Meloni avverte: “non faremo passi indietro. Pronti a valutare anche nuovi strumenti normativi e protocolli migliorativi per garantire la sicurezza durante le manifestazioni che devono però svolgersi sempre in un perimetro legittimo di democrazia”. Tv in cella, i detenuti al carcere duro: “Fateci vedere le Coppe e MasterChef”. No della Cassazione di Aldo Fontanarosa La Repubblica, 19 febbraio 2023 I giudici confermano una Circolare del 2017 che elenca i 21 canali ammessi in cella (di cui 15 della Rai). I reclusi non possono rivendicare il diritto all’informazione e al miglioramento della loro cultura perché le trasmissioni autorizzate sono sufficientemente varie. E tantomeno può reclamare chi è al 41 bis. Detenuti che sono al 41-bis, detenuti sottoposti al carcere duro, si aggrappano ai canali televisivi per andare avanti. C’è il recluso che vorrebbe vedere Tv8 (un canale gratuito di Sky) con MasterChef Italia, 4 Ristoranti e perfino qualche partita delle Coppe nella sua offerta. C’è il detenuto che sogna Focus, canale di Mediaset con le sue trasmissioni sulla scienza, l’archeologia, l’avventura. Ma la Corte di Cassazione - chiamata a decidere sul tema nel 2022 e nel 2023 - tiene il punto. In sostanza, i giudici della Corte confermano la correttezza di una circolare del 2017, a firma della Amministrazione penitenziaria nazionale, che elenca i soli 21 canali irradiabili in cella. Sono, per la precisione: Rai1, Rai2, Rai3, Rai4, Rai5. E ancora: RaiNews24, Rai Movie, Rai Scuola, Rai Storia, Rai Sport 1 e Rai Sport 2 (quest’ultimo estinto), Rai Premium. Quindi Rai Yoyo e Rai Gulp, con i loro cartoni animati. A seguire Canale 5, Rete 4, Italia Uno, La Sette, Cielo, Iris e Tv 2000. Le gare culinarie - Spiega la Cassazione che negare la visione di uno specifico canale - come Tv8, con le partite e le gare culinarie - non determina una lesione dei diritti soggettivi del detenuto. Sempre la Cassazione ritiene che la decisione finale sulle emittenti irradiabili in cella spetti all’Amministrazione penitenziaria nazionale. Parole che rendono vincolante la circolare del 2017 con l’elenco dei soli 21 canali ammessi. Aggiunge la Cassazione che questa circolare del 2017 non è sindacabile - non può essere messa in discussione - perché non risulta “manifestamente irragionevole” e perché non nega il diritto del detenuto a informarsi, e a migliorare le proprie conoscenze. In un simile quadro, quello dei condannati - desiderosi di vedere specifici canali - è un reclamo “generico”, dunque non meritevole di essere valutato. Le due sentenze - Sia nel 2022 sia nel 2023, la nostra Corte di Cassazione si occupa della questione. I suoi giudici intervengono alla fine di procedure e liti molto intricate. Sulle richieste dei detenuti di vedere canali di loro gradimento, in prima battuta si pronunciano: - il magistrato di Sorveglianza che vigila sulla esecuzione della pena, - e i Tribunali di Sorveglianza, che valutano la correttezza dei provvedimenti di questi magistrati. Di norma dicono la loro sulla vicenda anche i penitenziari, il ministero della Giustizia e il suo Dipartimento della Amministrazione penitenziaria. Ora, soprattutto la sentenza del 2023 è delicata. Il testo lascia intendere che uno specifico penitenziario ha ampliato il numero dei canali visibili per i soli detenuti comuni, concedendone quattro in più rispetto ai 21. A quel punto, un recluso al carcere duro (41-bis) - escluso dall’ampliamento - ha lamentato una discriminazione rispetto ai detenuti comuni, una lesione al diritto di informarsi e un colpo al suo processo rieducativo. Sulla base di questa argomentazioni, sia il magistrato di Sorveglianza e sia il Tribunale di Sorveglianza hanno autorizzato la visione dei quattro ulteriori canali anche per i condannati al carcere duro. D’altra parte, vedere 4 canali in più non poneva problemi di sicurezza né avrebbe permesso ai detenuti 41-bis di dialogare con l’esterno. Ora, al momento di dire l’ultima parola sulla vicenda, la Corte di Cassazione è molto prudente. Non si chiede se sia giusto o meno penalizzare il detenuto al 41-bis dal punto di vista televisivo. Si limita a dire che le deroghe sono sostanzialmente sbagliate per tutti i carcerati, di ogni ordine e grado. Spetta alla sola Amministrazione penitenziaria nazionale (quindi al ministero della Giustizia) decidere quali canali proporre in tutti i penitenziari del Paese, anche per organizzare al meglio la loro gestione. Vale, insomma, la sola Circolare del 2017 con i suoi 21 canali. Biella. Gli agenti di Polizia penitenziaria respingono le accuse: “Nessuna violenza sui detenuti” di Mauro Zola La Stampa, 19 febbraio 2023 Il Gip ora potrà decidere sulla richiesta di sospensione dal servizio. Qualcuno se l’è cavata in una quarantina di minuti, per altri invece l’interrogatorio è durato due ore. All’uscita dall’aula in cui il gip Valeria Rey e il sostituto procuratore Sarah Cacciaguerra hanno sentito sabato gli ultimi agenti della penitenziaria indagati per le presunte torture in carcere a Biella, la maggior parte si sarebbe comunque dichiarata soddisfatta di aver potuto spiegare la propria versione dei fatti. Versione molto diversa da quanto contenuto nelle denunce dei tre detenuti coinvolti. Come anche il video avrebbe confermato, nel caso del terzo detenuto, un cittadino marocchino di trent’anni, di corporatura robusta e classificato come molto pericoloso per i tanti episodi di violenza in cui era stato coinvolto nelle varie carceri in cui era transitato, nel momento di accoglierlo nella casa circondariale di Biella si sarebbero sì presentati più agenti, ma senza gli scudi citati nella denuncia e soltanto in quattro erano dotati di sfollagente, poi ritirati non appena il prigioniero era entrato in cella e quindi non sarebbero stati usati per colpirlo fuori dai raggi delle telecamere, come aveva lamentato. Sarebbe stato anche spiegato perché un altro detenuto, dopo essere stato legato, sarebbe stato sollevato come una sorta di tappeto per poi essere portato in cella. Gli agenti l’avrebbero fatto ritenendolo più dignitoso rispetto alla possibilità di trascinarlo sul pavimento, unica alternativa dato che il suo stato di agitazione rendeva impossibile liberarlo. Resta la questione del nastro adesivo con cui sono state bloccate le gambe di un altro detenuto, sempre marocchino, operazione vietata dall’Ordinamento penitenziario ma giudicata necessaria dato che l’uomo, dopo aver tentato di farsi del male, ferendosi alla testa contro il vetro di una finestra, continuava ad agitarsi, rischiando di colpire gli agenti con un calcio e di provocarsi altri danni. Che non siano previste alternative o strumenti adeguati, come quelli ad esempio usati dalla Polizia di stato, è una questione sollevata anche dai sindacati degli agenti penitenziari. Resta da vedere quanto le argomentazioni saranno in grado di influenzare il giudizio del gip Rey, chiamata a decidere sulle richieste di sospensione dal servizio, in particolare sugli agenti, una mezza dozzina, che hanno partecipato direttamente agli episodi. Una parte di questi sarebbe nel frattempo anche stata trasferita e questo secondo quanto evidenziato dai difensori, farebbe venire meno le esigenze cautelari per una sospensione. Comunque applicata al commissario, finito ai domiciliari anche se si trovava in servizio nel carcere di Palermo. Per il momento non sono ancora state avanzate ipotesi in merito ai tempi di attesa relativi alla decisione del giudice Rovigo. Il Garante dei detenuti: “Il carcere di ha bisogno di personale e di un suo direttore” di Francesco Campi Il Gazzettino, 19 febbraio 2023 A fine gennaio si sono verificati atti di autolesionismo, un tentativo di impiccagione e diversi tafferugli. “Se i politici cominciassero a ragionare di iniziative per raggiungere la “certezza della riabilitazione del detenuto” piuttosto che ribadire il leit-motiv populista della “certezza della pena”, la nostra vita democratica potrebbe fare qualche passo avanti: il carcere non è uno zoo”. A rimarcarlo Guido Pietropoli, Garante dei diritti dei detenuti di Rovigo, che riporta l’attenzione sui problemi del carcere che fa il 30 e il 31 gennaio ha vissuto ore di tensione con atti di autolesionismo compiuti da un detenuto che si è messo in bocca delle lamette, un tentativo di impiccagione di un altro detenuto nel furgone della polizia penitenziaria che lo accompagnava nella struttura, un principio d’incendio in una cella, un tafferuglio, urla, minacce, spintoni e sputi. I problemi - Il Garante rileva “la carenza d’organico, l’estrema tensione e difficoltà nella quale il personale opera. Ho sperimentato e apprezzato le qualità umane e professionali del personale di custodia di Rovigo e considerando la loro vita di sofferenza al contatto con persone sofferenti, credo che le loro rivendicazioni dovrebbero essere prese in attenta considerazione”. Oltre alle difficoltà di chi c’è, ci sono anche quelle di chi manca: “Il nostro carcere non dovrebbe essere più essere chiamato casa circondariale, in quanto ben due reparti sono da anni destinati ai detenuti di alta sicurezza, senza che il personale possa godere dei vantaggi di questa classificazione che comporta ben altro numero di agenti e ben altro trattamento economico. Ma ancora, come più volte evidenziato, il direttore del carcere è cambiato con ritmo frenetico, quattro in tre anni, e lo stesso comandante attualmente è “a scavalco” tra Vicenza e Rovigo. Sembra che la casa circondariale della nostra città sia una sede poco interessante per la carriera dei funzionari, nonostante le strutture edilizie e il personale presente siano in grado di svolgere il loro compito con qualità tale da poter qualificare la struttura al rango di carcere guida in Italia”. La riflessone del Garante si allarga al versante dei detenuti: “Ascoltiamo giornalmente politici che ripetono di battersi per la certezza della pena e, purtroppo, talvolta parlano di “chiuderli dentro e di buttare la chiave”. Questo “buttare la chiave” è una dichiarazione di rara spietatezza e ignoranza ed è tanto più colpevole trattandosi di argomenti sbandierati da chi dovrebbe essere il portabandiera della Costituzione. L’articolo 27 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un politico consapevole del suo ruolo non dovrebbe parlare solo di “certezza della pena”, bensì e soprattutto di “certezza dell’azione riabilitativa del carcere”. La funzione del carcere non è solo allontanare per un certo tempo dalla società chi si è macchiato di gravi reati, ma soprattutto di restituire alla società persone rieducate a vivere nel consesso civile. Se la “fabbrica carceri” ha un bilancio annuale di recidiva superiore del 60%, l’insuccesso può essere dovuto al materiale umano, ma può anche, e soprattutto, dipendere dall’inadeguatezza delle azioni messe in essere. Se una fabbrica ricevesse in resa il 60% della sua produzione, dovrebbe chiudere o farsi un attento esame di coscienza. I costi notevoli di queste strutture devono trovare giustificazione nella riduzione della recidiva, altrimenti la comunità dovrebbe dichiararne l’inutilità. La stessa città ospitante il carcere, Rovigo nel nostro caso, dovrebbe considerare questa struttura come un “ospedale per la cura di soggetti da restituire sani alla società” piuttosto che come uno “zoo in cui sono rinchiuse delle belve feroci”. L’accoglimento positivo del carcere è segnale dell’esistenza di una comunità civile”. Roma. La casetta di Rebibbia che stempera l’odore del carcere di Maurizio Maggiani Il Secolo XIX, 19 febbraio 2023 Ho una qualche esperienza di galera. Non per ragioni criminali, almeno al momento, ma perché sono stato giovane maestro carcerario al tempo che nelle carceri c’era ancora una sezione di scuola elementare, visto che il quaranta per cento dei detenuti era analfabeta, e poi come volontario nei decenni successivi, quando pareva che si dovesse farla finita con le galere e aprire una nuova epoca di istituti detentivi a norma costituzionale. Tanto per capirci, quando presi servizio nell’anno scolastico 75/76, il direttore del carcere e il mio predecessore nella cattedra all’unisono mi fecero presente che il meglio che potessi fare era di dare una mano in segreteria al disbrigo di scartoffie, che tanto i delinquenti non se ne facevano niente della scuola; dovetti lottare per fare il mio lavoro, che comunque non si dimostrò solo utile per i “delinquenti”, ma anche per il maresciallo delle guardie a cui scrivevo le lettere alla mamma sua bella. Di quell’anno ho molti ricordi belli e brutti, ho imparato i rudimenti dell’arabo da un palestinese, ho insegnato a scrivere a un famoso, allora, ladro gentiluomo, ho visto picchiare a sangue un tossico per convincerlo a smetterla con l’autolesionismo, ho assaggiato il rancio dal calderone come da obbligo intanto che dall’alto delle ringhiere i detenuti gareggiavano a chi lo centrava con uno sputo, ho fatto amicizia vera e duratura con una guardia che quando poteva veniva nella biblioteca a prendersi un libro da leggere nelle ore morte del turno. Ma il ricordo più vivido è l’odore. L’odore del carcere, un odore complesso e unico, miscela delle esalazioni di centinaia di uomini chiusi nello stesso spazio, di condutture stagnanti, di rancio stantio, di fumo di milioni di sigarette, e indistinti e vari elementi non conoscibili, un odore eterno, che impregna i muri e i pavimenti, un odore che nessuna varecchina può contrastare. Un odore violento, che sembra intollerabile e invece si finisce per farci l’abitudine, e quando accade, allora capisci che sei carcerato, catturato nel gorgo penitenziale, che tu sia un giudicato, una guardia, un maestro, un cappellano. Dopo le riforme molto è cambiato, ma l’odore è rimasto quello, con sottili variazioni, ma quello, diverso tra la sezione maschile e quella femminile, meno pungente quest’ultimo, ma che si tratti di un vecchio carcere circondariale o di un giudiziario modello, l’odore resta sempre l’odore del carcere, e basterebbe quello come punizione esemplare, uno stigma, un marchio indelebile. E se oggi nelle patrie galere l’esercizio della violenza non è più la pratica istituzionale, la scia persistente di quell’odore dice che restano comunque luoghi segnati dalla violenza, dove quella fisica, diretta, è un’eccezione, ma la più sottile, che infierisce sulla mente e l’anima, è impastata nei muri e dai muri esala nell’aria. Il carcere non è un luogo di cura, è un luogo di pena, di punizione, e se anche le buone leggi e le buone intenzioni ci impongono il rifiuto del castigo fine a sé stesso e proibiscono la vendetta, le mura del carcere sono troppo spesse perché i buoni principi si facciano largo e l’aria pulita che portano con sé ne soverchi l’odore, l’essenza di violenza. Così, quando ho visto i disegni della “casetta” la prima cosa che ho pensato è stata, qui l’odore non ci arriverà. La “casetta” è appunto una piccola casa, grande come una stanza, è di legno, è dipinta di vivaci colori, ha delle sedie, un tavolo, un divano, piccole comodità, ha anche un nome proprio M.A.MA, Modulo per l’Affettività e la Maternità, il suo posto è un cortile del carcere di Rebibbia, sezione femminile. Il suo compito è arduo, fare in modo che le madri in carcere possano incontrare i loro figli in un luogo ripulito dall’odore della violenza. Come forse è noto, lo dovrebbe, le madri che vanno in galera possono tenere con sé i propri figli fino al terzo anno di età, in modo che i bambini possano scontare la pena, per un delitto, che ovviamente non hanno commesso, assieme alle loro madri. Per capire cosa significhi passare la prima infanzia in un carcere, conosco un ragazzino che ancora dopo anni quando a portata del suo orecchio tintinna un mazzo di chiavi ha una crisi epilettica; il rumore di chiavi che aprono e chiudono i mille cancelli sono la colonna sonora di una galera. Le cose stanno così, ci sono proposte perché vadano in modo diverso, diciamo meno disumano, ma galleggiano nell’indifferenza di svariati parlamenti e governi. Dopo il terzo anno le madri potranno vedere i loro figli durante le visite nel parlatorio; cos’è un parlatorio e come ci si sta lo immaginate, se non altro ci sono mille film e documentari che ve lo hanno fatto vedere, ci sono madri che per la vergogna e il dolore si rifiutano di vedere i loro figli in quelle condizioni. La “casetta” è il luogo umano dove madri e figli, seppure per quel poco tempo che gli è consentito, possono incontrarsi, parlarsi, accudirsi, volersi bene, cercare di capirsi, accarezzarsi, forse e seppure con grande fatica persino spiegarsi. È una cosa che costa poco, che ingombra poco, che non dà fastidio a nessuna regola e regolamento, è una cosa buona e basta. È stata progettata da dei ragazzi, i giovanissimi architetti che godono di una borsa che l’architetto Piano mette a disposizione sborsando il suo emolumento di senatore, anche questa è una cosa buona, si è offerta come tutor l’università La Sapienza, un’altra cosa buona. E la cosa più buona di tutte è che c’è, è lì, a Rebibbia, e mi dicono che funziona davvero bene. Certo, non è che una piccola cosa, non cambierà il sistema, non risolverà, non farà di noi un Paese dedito all’umanità, il mondo resta quello che è. La “casetta” è un cucchiaio che intende svuotare il mare, ma il fatto è che non c’è altro modo di svuotare il mare che farlo con un cucchiaio. Ascoli Piceno. “Tra luci e ombre”, mostra sulla vita in carcere picenotime.it, 19 febbraio 2023 Sabato 4 marzo 2023 alle ore 18.00 presso il Forte Malatesta di Ascoli Piceno verrà inaugurata la mostra “Tra luci e ombre. Tracce di vita dal carcere”. L’evento espositivo che gode del patrocinio del Comune di Ascoli Piceno, è curato dal prof. Stefano Papetti, direttore delle civiche collezioni e da Cristina Peroni, Aurora Alberti e Cristiano Massari. Una grande mostra collettiva che vuole essere pretesto per rivalutare l’errore come forza propositiva, punto di partenza per costruire un nuovo sguardo. La mostra nasce dal ritrovamento dell’unica testimonianza fotografica del Forte Malatesta immediatamente successiva al trasferimento, nel 1980, all’attuale casa circondariale del Marino del Tronto. A ragione di ciò, nel percorso mostra si prendono in considerazione gli ultimi trent’anni di attività del carcere fino alla sua definitiva chiusura. Si tratta di un racconto per immagini realizzato dal fotografo Paolo Raimondi che, con un li viaggio plastico caratterizzato da squarci di luce, plasma la memoria storica di questo luogo. Dopo la ricognizione della struttura da ex-carcere ad attuale sede museale, gran parte delle tracce di quella vita è andata perduta assieme alle sue testimonianze immateriali e strutturali. Oggi lo storico edificio si mostra in uno stato di ibridità temporale, in equilibrio tra presente e passato, dove la cura della memoria storica segna una risignificazione degli spazi. L’inaugurazione del 4 marzo segnerà anche l’inizio di molteplici iniziative che si avvicenderanno nel corso dei mesi fino al 4 giugno 2023, giornata conclusiva della mostra. Gli appuntamenti interdisciplinari ed esperienziali coinvolgeranno professionisti e realtà culturali di eccellenza del territorio. Benevento. Concerto di diciotto donne nel carcere di contrada Capodimonte retesei.com, 19 febbraio 2023 Si è tenuto ieri, presso la Casa circondariale di Benevento, uno spettacolo musicale promosso dal Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello in collaborazione con il coro “Incanto”, formato da diciotto donne, eccetto il pianista accompagnatore: il maestro Gennaro Truglio. È stato un momento di condivisione musicale creando scambi dialogici in cui la musica è diventato un collante sociale. “L’attiva partecipazione dei detenuti di Alta sicurezza e una rappresentanza di donne detenute, hanno reso questa mattinata un momento di condivisione e di spensieratezza, la musica crea piacevoli evasioni e rigenera emozioni, memoria e senso di appartenenza”, così ha commentato il Garante Ciambriello dopo l’uscita dal carcere. Hanno presenziato all’evento il direttore Gianfranco Marcello, il direttore Uepe Benevento, Marisa Bocchino il comandante della polizia penitenziaria Linda De Maio è il presidente della cooperativa NICS. Il direttore Marcello ha ringraziato il coro incanto e il Garante per aver promosso questo spettacolo, definendolo come diversivo alle ordinarie giornate detentive. Lucia Mazzone, direttrice del coro Incanto spiega: “è stata una giornata scandita dalla musica, da occhi che incrociano altri occhi, da ritmo e risate contagiose”. Narni (Tr). “Destinazione non umana” sul palco la compagnia di attori ex detenuti La Nazione, 19 febbraio 2023 Teatro di forte impronta sociale e civile stasera sul palco del Comunale Manini di Narni. Alle 21 la stagione propone “Destinazione non umana”, spettacolo di Fort Apache Cinema Teatro, ultimo progetto produttivo che vede coinvolti attori ed ex detenuti formatisi all’interno delle carceri di provenienza ed oggi professionisti di cinema e palcoscenico. Si tratta dell’unica compagnia teatrale italiana stabile costituita da attori ex detenuti oggi professionisti di cinema e palcoscenico, inserita ormai da tempo nel circuito distributivo nazionale e nei progetti di ricerca e formazione della Sapienza di Roma ed è diretta da Valentina Esposito, autrice e regista impegnata da quasi vent’anni nella conduzione di attività teatrali, dentro e fuori i penitenziari italiani. È lei a raccontare il nuovo lavoro: “Destinazione non umana - dice - è una favola senza morale, amara e disumana quanto può esserlo una fiaba, costruita sulle solitudini alle quali ci costringe il tempo che viviamo e sul pensiero della morte, sul vuoto lasciato da chi se n’è andato, sul dolore, la rabbia, paura”. La storia è quella di sette cavalli da corsa geneticamente difettosi che condividono forzatamente la vecchiaia in attesa della macellazione. Nel gioco scenico e drammaturgico, l’immaginifica vicenda di bestie umane diventa pretesto per una riflessione profonda sul tema tragico della predestinazione, della malattia, della morte, della precarietà e brevità dell’esistenza, della responsabilità individuale rispetto alle scelte maturate nel corso della vita. Protagonisti in scena Fabio Albanese, Alessandro Bernardini, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Christian Cavorso, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Michele Fantilli. Biglietti da 12 a 22 euro, informazioni al 334.9400796 e sul sito www.teatromanini.com. Dio non è qui: la violenza rivelata nelle stanze di tortura di Cristina Piccino Il Manifesto, 19 febbraio 2023 Berlinale. Mehran Tamadon regista del film “Where God is Not”, presentato al Forum. “Questo lavoro mi ha aiutato a de-costruire le mie fantasie sul sistema, come spero accadrà anche al pubblico. I regimi autoritari alimentano tali fantasie attraverso voci sia verbalizzate che non dette, nonché attraverso l’esistenza di luoghi nascosti, come stanze di tortura e celle di isolamento. Ci sono anche individui misteriosi quali informatori, torturatori o scagnozzi, figure reclutate dal regime per reprimere o uccidere coloro che lo sfidano. Infine, esiste allo stesso tempo un mondo immaginario di eroi che riescono a resistere nonostante tutto. Ma quali sono i meccanismi concreti che permettono loro di sopportare l’inevitabile solitudine e il dolore?”. In questa domanda Mehran Tamadon esprime l’esigenza alla base del suo film, Where God is Not - presentato al Forum. Il titolo anche è evidente: dove dio non c’è: ma dove? Siamo a Parigi, in uno spazio vuoto nel quale di spalle una donna, Homa Kalhori, sta dipingendo delle sbarre sul muro, mentre il regista è impegnato a costruire una sorta di cella: lei lo guida, lo corregge., più stretto lì, ancora meno spazio là. È la memoria della sua esperienza che la guida, del tempo vissuto e condiviso con altre decine di ragazze chiuse in una cella minuscola, dove si faceva a turno per dormire, e sdradiarsi, e dove piano piano ciascuna portava qualcosa di sé, i suoi dolori, la morte di un compagno, ma anche dei momenti di canzoni, di condivisione, di una complicità che permetteva loro di resistere. C’è in questo vissuto che si fa davanti alla macchina da presa narrazione qualcosa di potente, il sentimento di una violenza universale che interroga il senso del cinema stesso, di questo dispositivo, di una forse impossibile catarsi. LA DONNA piange ricordando e rivivendo i gesti di quel tempo. È questo processo di rimessa in scena di ciò che ciascuno ha vissuto nelle prigioni iraniane, Evin in particolare che il regista chiede alle diverse persone che incontra nel film, ognuna con una storia di prigionia, di violenza del regime, di carcere, torture, atrocità. Più che S21 di Rithy Pahn, dove davanti alla macchina da presa c’erano i carnefici, il suo lavoro ricorda quello della coppia di registi libanesi XX, in XX, che affidano alla memoria dei loro interlocutori il racconto del carcere israeliano poi dismesso. Qui il luogo è ricostruito anch’esso oltre alle parole, nella distanza di un’altra realtà, e naturalmente in quella personale, in una tensione che è anche la lotta emozionale del presente rispetto al ricordo. Sono personaggi ma quelle sono le loro esperienze dolorosissime; costruire un lettino e mostrare come si era torturati con le scosse elettriche fa male, l’uomo si agita - mi bruciano i piedi dice al regista - poi entra nei dettagli, è preciso, minuzioso, contesta persino la forma della brandina. C’è in questo vissuto che si fa davanti alla macchina da presa narrazione qualcosa di potente, il sentimento di una violenza universale che interroga il senso del cinema stesso, di questo dispositivo, di una forse impossibile catarsi. Amy, la bulla redenta: “Un fumetto a scuola per il mio riscatto” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 19 febbraio 2023 Disse “ucciditi” a una sua amica. Che poi tentò il suicidio. La sua storia è diventata uno strumento contro il cyberbullismo nelle scuole. “Ma ammazzati”. Amy lo disse senza pensarci troppo, era furente. In diretta Instagram la sua amica Emma aveva detto davanti ad altri cose per lei imperdonabili. I toni si erano accesi in un attimo, Amy si era sentita ferita, delusa. “Perché non ti ammazzi?” si arrabbiò. Diretta chiusa e fine dell’amicizia. Lo sconforto - Aveva 14 anni, Amy. Come succede spesso a quell’età lo sconforto durò poco. Nella sua vita entrarono nuove amicizie e mille altre dirette Instagram. Tutto scritto nel copione dell’adolescenza. Finché un giorno — quando di anni ne aveva ormai 16 — fu convocata dai carabinieri della sua città (Milano) per comunicazioni urgenti. Ci andò con i genitori e scoprì di essere stata denunciata per istigazione al suicidio con l’aggravante del mezzo tecnologico. Non credeva a quello che le stavano dicendo. Emma, della quale aveva perso le tracce dopo la vecchia litigata, aveva seguito il suo “consiglio”, diciamo così. Dopo quel battibecco via Web gli amici l’avevano isolata e lei aveva davvero provato a togliersi la vita, più volte. Da quel giorno per Amy è cominciato un percorso giudiziario e personale chiuso di recente (a 18 anni) in modo davvero singolare: con un fumetto che racconta la sua storia (edito da Pepita Onlus) e che è diventato strumento contro il cyberbullismo nelle scuole. Un passo indietro. La prova - Invece di processarla la giudice ha scelto per lei la via della messa alla prova. È una specie di patto fra te che hai commesso il reato e lo Stato. Vengono decise prove da superare: per lo studio, per la consapevolezza, per la crescita del senso della legalità etc etc. Se le superi niente più processo, quindi niente rischio di condanna e di carcere, nessuna traccia nel certificato penale. Avrai una seconda chance. Ecco. Amy ha superato le sue prove. E l’ultima è consistita nel raccontare a se stessa e al mondo il suo percorso di consapevolezza, nel rielaborare quel che è successo, soprattutto nel capire il disvalore di quell’”ammazzati” urlato a una persona fragile com’era Emma. Ha fatto tutto questo attraverso i disegni di Cecilia Spalletti, che è anche una delle educatrici di Fondazione Carolina, a cui la giudice aveva affidato una parte del percorso di Amy. Fondazione Carolina è nata nel nome di Carolina Picchio, la quattordicenne di Novara che dieci anni fa si uccise per i seimila like e i commenti offensivi sotto un video diffuso via Facebook: vide una se stessa sconosciuta in balìa di ragazzi con i quali aveva passato una serata bevendo un po’ troppo... Scrisse una lunga lettera (“Le parole fanno più male delle botte”, diceva una frase), aprì la finestra e si buttò giù. Testimonial - Suo padre Paolo è diventato testimonial antibullismo, ha creato la Fondazione — guidata da Ivano Zoppi — e in questi dieci anni ha incontrato e aiutato migliaia di ragazzi adolescenti e pre-adolescenti. Amy è una di loro. È felice che nelle scuole venga mostrato il fumetto della sua storia (titolo: Amy, una seconda opportunità) anche se per ora non se la sente di partecipare agli incontri. “Ho commesso un errore”, dice, “ma con il tempo sono riuscita a mettere in ordine le emozioni fortissime che ho provato: paura, incertezza, impotenza... Ora sento dentro di me la speranza”. I centri di salute mentale sono al collasso. Ma aumentano le richieste d’aiuto dei più giovani di Gloria Riva L’Espresso, 19 febbraio 2023 I camici bianchi sono troppo pochi e chi soffre di un disturbo mentale non può contare sul Ssn. Se ci si rivolge al Pronto Soccorso al più se ne esce con la prescrizione di uno psicofarmaco. L’unica soluzione è rivolgersi al privato (per chi se lo può permettere). La cartina di tornasole della salute mentale in Italia sono le 395.604 richieste di contributo al bonus psicologo fioccate sul sistema informatico dell’Inps lo scorso autunno. In palio c’erano una cinquantina di euro per al massimo dodici sedute, pochi spiccioli per cui gli italiani hanno sgomitato. Alla fine solo una domanda ogni dieci è stata accolta - 41.657 per la precisione - e i fondi sono stati stanziati non in base alla gravità del disagio (era sufficiente un’auto-psicodiagnosi di malessere post covid per partecipare alla lotteria del bonus), ma secondo la ricchezza del richiedente. E terminate le dodici sedute? Il governo ha rifinanziato la misura con cinque milioni per quest’anno e altri otto per il 2024. Spiccioli rispetto ai 25 milioni messi sul piatto nel 2022. In estrema sintesi, da quest’anno chi ha un disagio - e non può permettersi uno psicologo privato - dovrà contattare il centro di Salute Mentale della propria zona e sperare che qualcuno disdica all’improvviso una visita, per essere ricevuti e ascoltati da un medico specialista. Più di tutto, serve tanta fortuna per essere presi in carico dall’Ssn, il Servizio Sanitario Nazionale. Circa la metà delle segnalazioni pervenute al Tribunale per i diritti del Malato a gennaio riguarda proprio il deserto sanitario della cura mentale. Qualche esempio: il centro unico prenotazione del Molise ha risposto a una madre, disperata per il grave disturbo mentale del figlio, che la prima data utile sarebbe stata fra dodici mesi. È andata a finire che la famiglia sta pagando 90 euro a seduta, tre la settimana, nello studio di un medico privato. In Emilia Romagna, un bambino con una diagnosi di alterazione globale dello sviluppo psicologico non è stato preso in carico dall’Ssn perché non c’erano centri di neuropsichiatria infantile disponibili ad accoglierlo: anche in questo caso la famiglia si è sobbarcata l’intero costo delle cure. In Liguria, i cittadini e le associazioni dei famigliari di persone psichiatriche stanno raccogliendo le firme per chiedere alla Regione di consentire anche ai medici che stanno ancora studiando per diventare psichiatri e a quelli in pensione di essere arruolati nelle aziende sanitarie del territorio, che sono talmente sguarnite da avere una media di otto camici bianchi, anziché i 26 necessari per coprire i bisogni minimi locali. I più colpiti dal disagio mentale sono i bambini e gli adolescenti: “Da alcuni anni gli esperti registrano un trend in crescita, ma la pandemia ha impresso una forte accelerazione al fenomeno”, spiega Alberto Zanobini, presidente dell’associazione ospedali pediatrici italiani, Aopi, che spiega come nel suo ospedale pediatrico, il Meyer di Firenze, “nel 2018 gli accessi al pronto soccorso per problemi psichici sono stati 226, mentre nel 2022 sono saliti a 624 casi. Nell’arco di soli quattro anni l’incidenza è triplicata. Il problema più frequente è quello dei disturbi alimentari, in crescita anche i casi di autolesionismo e i sintomi ansiosi. Occorre un’attenzione speciale da parte delle istituzioni al problema della salute mentale”, ritiene il medico. In base a un’indagine di Aopi solo un paziente pediatrico su cinque riesce a essere ricoverato in un reparto di neuropsichiatria e quattro su cinque vengono ospitati in reparti non appropriati, di cui uno addirittura nella psichiatria per adulti. Ma è l’intero settore delle cure mentali ad attraversare un momento di grave criticità: “A fronte dell’aumento del disagio mentale, in particolare fra gli adolescenti, è nostro dovere etico dirvi che i Dipartimenti di Salute Mentale erogano con estrema difficoltà le prestazioni minime che dovrebbero essere garantite dai livelli essenziali di assistenza e operano in condizioni drammatiche”, questo hanno scritto i 91 direttori sanitari dei dipartimenti di salute mentale di tutta Italia alle massime cariche dello Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la premier Giorgia Meloni, il ministro della Salute Orazio Schillaci, i presidenti di Camera e Senato, in una lettera che suona come un campanello d’allarme. In Italia si sta sottovalutando la marea di quattro milioni di italiani con un disagio mentale, che solo in minima parte è assistita dal pubblico, visto che le Asl hanno in carico poco più di 800mila pazienti. Secondo i dati del ministero della Salute, in media ogni giorno 1.313 persone si rivolgono al pronto soccorso per patologie psichiatriche, “ma l’85,4 per cento non viene ricoverato”, spiega Massimo Cozza, direttore del dipartimento Salute Mentale dell’Asl Roma 2, che continua: “Probabilmente, con un’adeguata rete pubblica di salute mentale le persone con disturbi psichiatrici potrebbero avere le giuste risposte senza dover andare al Pronto Soccorso dove, per altro, al di là del ricovero, si può fare solo una visita psichiatrica con un’eventuale prescrizione farmacologica, quando invece servirebbe un approccio globale, psichico e sociale, che può essere realizzato esclusivamente con una salute mentale comunitaria basata sulla relazione tra operatore - psichiatra, psicologo, educatore, terapista, assistente sociale - e paziente”. In mancanza di personale medico e infermieristico, i medici di base e gli specialisti fanno sempre più ricorso ai farmaci: secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute, i pazienti trattati con antipsicotici erano 14 ogni mille abitanti nel 2015, oggi sono 20 ogni mille abitanti; quelli curati con antidepressivi erano 124, saliti a 126,5 ogni mille abitanti. Per chi se lo può permettere, l’alternativa ai farmaci è ricorrere a cure private, tant’è che i dati della cassa previdenziale degli psicologi raccontano come il reddito medio dei professionisti per le visite private è cresciuto del 27 per cento tra il 2020 e il 2021, mentre “le prestazioni psicologiche private hanno raggiunto il valore record di 1,7 miliardi di euro, in aumento del 25 per cento rispetto all’anno precedente”, dice il report dell’Enpap, l’Ente nazionale di previdenza degli psicologi. Si arricchiscono gli psicologi, a scapito dei dipartimenti statali: “La rete pubblica dei dipartimenti di Salute Mentale, sempre più sfilacciata, ha bisogno di un rilancio dei percorsi psicologico-psicoterapeutici per realizzare una salute mentale comunitaria in grado di dare risposte ai bisogni dei cittadini. Chiediamo risorse per i servizi pubblici, consentendo alle Regioni di attuare fin dal 2023 un piano di assunzioni straordinario, secondo gli standard per l’assistenza territoriale definiti a fine 2022 proprio da Agenas”, scrivono i dirigenti delle Asl al governo. Si tratta di destinare ai dipartimenti di Salute Mentale due miliardi di euro per raggiungere l’obiettivo minimo del cinque per cento del fondo sanitario, così come richiamato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, la 22 del 2022. Oggi la rete della salute mentale riceve il 2,75 per cento dei fondi della sanità pubblica, ma la Corte Costituzionale ha richiamato lo Stato a rifinanziare il servizio per evitare che la carenza di cure nelle fasi iniziali della patologia possa sfociare in esiti dannosi per l’intera comunità. “La nostra lettera non ha ricevuto alcuna risposta dal governo”, dice lo psichiatra romano Massimo Cozza, che aggiunge: “Pensare di affrontare il disagio mentale con la politica del bonus psicologo è un’assurdità ed è controproducente, perché grazie al bonus oggi ci troviamo con molte persone che hanno avviato una terapia e non potendo permettersi altre sedute, l’hanno dovuta interrompere”. Il Ssn conta 30mila operatori fra medici, infermieri, educatori e assistenti sociali, all’appello ne mancano 10mila per consentire ai dipartimenti territoriali di funzionare a dovere. Per assumerli è necessario spendere due miliardi nel prossimo triennio: si tratta di parecchi quattrini, considerato che l’intera spesa sanitaria nazionale si attesta attorno ai 20 miliardi di euro, ma non sono poi così tanti se si considera che l’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, stima nel quattro per cento del Pil il costo totale della scarsa salute mentale, tenendo conto della riduzione della produttività e dell’aumento delle assenze sul lavoro, oltre all’incremento di spese sociali e di costi diretti per il sistema sanitario dove, alla fine, ricadono i casi più gravi di chi non è riuscito ad affrontare il malessere in stadio embrionale. Migranti. Quel suicidio che si poteva evitare nell’inferno del Centro per i rimpatri di Torino di Marika Ikonomu, Alessandro Leone e Simone Manda L’Espresso, 19 febbraio 2023 Irregolare, Moussa Balde finisce nella struttura dopo essere stato ricoverato per un pestaggio. E lì, abbandonato a sé stesso, si toglie la vita. La famiglia ora chiede giustizia. “Gli ho detto di venire a casa mia, ha risposto che sarebbe venuto. Poi io sono andato in quella direzione, verso il lavoro, e lui ha preso la strada per Ventimiglia. Non l’ho più sentito”. Amadou Diallo racconta il suo ultimo incontro con Moussa Balde, dall’incrocio dove si sono visti per l’ultima volta. Per alcuni anni, i due ragazzi guineani hanno condiviso tutto, casa, quotidianità, aspirazioni, paure, fino a diventare “gemelli”. Diallo si trovava già da un anno in Italia, quando Balde è arrivato al Centro d’accoglienza di Imperia. Lo descrive come un ragazzo positivo, amante del calcio e del divertimento. Faceva volontariato in un’associazione che aiutava le persone con disabilità ed era riuscito a trovare lavoro in una cooperativa di Bordighera. Anche quando Diallo si è trasferito a Sanremo, Balde andava a trovarlo e spesso restava da lui a dormire. Per tre anni ha aspettato l’esito della domanda di asilo, poi però ha deciso di andare in Francia. Rientrato in Italia, non sembrava più lo stesso. Diallo ha di nuovo sue notizie da un video che fa il giro del Paese e che riprende un evento avvenuto il 9 maggio 2021: Balde viene picchiato violentemente con un tubo di metallo sul corpo e sul viso da tre ragazzi, Ignazio Amato, Francesco Cipri e Giuseppe Martinello, mentre chiede l’elemosina di fronte a un supermercato di Ventimiglia. Il video arriva anche agli aggressori, che, dopo essersi riconosciuti, si presentano in Commissariato sostenendo di essere stati derubati. “Nessuno si è preoccupato di offrire a Moussa le garanzie che la legge assicura alle vittime di reati violenti. Da quel momento lui è tornato a essere un invisibile, un irregolare, un clandestino”, spiega Gianluca Vitale, avvocato della famiglia Balde. Lo scorso 10 gennaio si chiude il primo capitolo della vicenda giudiziaria. La giudice del Tribunale di Imperia, Marta Maria Bossi, condanna Amato, Cipri e Martinello a due anni per lesioni, riconoscendo le attenuanti generiche. La sentenza viene accolta con favore sia dalla parte civile sia dalla difesa. Il risarcimento del danno, inoltre, viene portato dai duemila euro già corrisposti a tremila. L’aggravante dell’odio razziale, però, non era stata contestata. Ma la storia di Balde non termina con il pestaggio. In ospedale il ragazzo guineano resta per poche ore, prima di finire nelle celle di sicurezza del Commissariato di Bordighera, poi in Questura a Savona. Qui, una volta constatata la sua irregolarità, gli viene notificato un decreto di espulsione. Il giorno dopo viene rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino e messo in isolamento nell’Ospedaletto della struttura. Lì, nella notte tra il 22 e il 23 maggio, si toglie la vita. Al Cpr nessuno tiene conto della situazione psicologica di Balde, viene esaminata solo la sua condizione fisica. Dopo la visita del medico dipendente dell’ente gestore, all’epoca Gepsa, viene dichiarato idoneo alla vita in quella comunità. L’ente sosterrà poi di non sapere che Balde fosse vittima del pestaggio. “Strano, perché era stato portato da Ventimiglia con un certificato medico. Mi auguro che attestasse l’aggressione subita”, sottolinea Vitale. È la prima cosa, infatti, che Balde dice all’avvocato quando lo incontra: “Immagino che l’abbia detto anche quando è stato preso in carico nel Cpr”. Vitale nota nel ragazzo una grande sofferenza, perché non solo era stato aggredito, “ma si trova pure prigioniero, come se la punizione dovesse toccare a lui”. I regolamenti sui Cpr del 2014 e del 2022 prevedono che la visita di idoneità sia svolta dall’Asl competente, un’istituzione indipendente. Ma in molti casi ciò non avviene. L’ultimo protocollo d’intesa tra il Cpr torinese e l’Asl “risale al 2015, ma la visita al primo ingresso è stata fatta per molto tempo dal medico del gestore”, spiega la garante delle persone private della libertà del capoluogo piemontese, Monica Gallo. Oggi, nonostante la visita “non gravi più sul medico del Centro, ma sia compito esclusivo dell’Asl”, ancora non esiste un accordo su un nuovo protocollo. È lo stesso regolamento a elencare le patologie psichiatriche tra quelle “che rendono incompatibile l’ingresso e la permanenza nella struttura”. Balde non ha goduto di sostegno psicologico ed è stato anche collocato in isolamento per un’infezione della pelle, probabilmente una psoriasi scambiata per scabbia, nell’area distaccata dell’Ospedaletto. Una sezione che per il garante nazionale Mauro Palma configura un “trattamento inumano e degradante”, un luogo che non è regolato da alcuna norma, privo di garanzie, di stimoli e di occasioni di socialità. Palma ne ha chiesto la chiusura, ottenuta per ordine della Procura solo dopo la morte di Balde e, ancora prima, nel 2019, quella di Faisal Hossein, cittadino bengalese di 33 anni. Nessuno dei guineani rinchiusi nel Cpr di Torino negli ultimi due anni è stato rimpatriato: l’assenza di una simile prospettiva dovrebbe portare al rilascio immediato. Balde, invece, è stato abbandonato, “senza che nessuno si prendesse cura di lui. E questa situazione evidentemente per lui è diventata intollerabile, determinando la scelta tragica di togliersi la vita”, commenta Vitale. La famiglia non ha più avuto sue notizie fino alla morte. È stato Diallo ad avvertirla: “È stato molto difficile, ma era l’unica cosa che dovevo fare”. Nessuno, né dall’ospedale né dal Cpr, aveva avvisato i parenti. “Nostra madre non fa che piangere”, dice Thierno, fratello di Moussa: “All’inizio ci avevano detto che si era trattato di un incidente, solo dopo abbiamo scoperto che lo avevano lasciato morire”. Dopo il suicidio, la Procura di Torino ha aperto un procedimento per omicidio colposo. Sono indagati la direttrice della struttura, il medico e nove poliziotti. La storia di Balde inizia con la fuga dalla Guinea, ai tempi del presidente Alpha Condé, sanzionato dagli Stati Uniti per le violenze contro gli oppositori prima del colpo di Stato del 2021. Diallo, che nel 2020 è tornato per un periodo nel suo Paese, racconta che la solitudine ha un forte impatto su Balde quando va a cercare fortuna in Francia: “Non trovava un amico come me”. Vive allora di elemosina per strada. “Già a Ventimiglia palesava forti disagi psichici. Non parlava, non comunicava”, afferma Vitale. Eppure, appena arrivato in Italia, Balde sembra fiducioso. In una delle prime chiamate dice alla madre: “Voglio rimanere, studiare la lingua. Cerco lavoro qui e cerco di darvi soddisfazioni”. Le stesse parole le ripete a Thierno durante il suo viaggio dalla Guinea all’Italia. Il fratello è il primo a sentire Moussa, quando questi è già in Libia. Dove viene imprigionato. “Non potevamo farci niente, non c’era nulla che lo convincesse a tornare”. Balde richiama poi la famiglia dal nostro Paese, quando è ormai al sicuro. “Spero che ciò che è successo a Moussa non accada ad altri. Dobbiamo chiudere questi Cpr”, dichiara Thierno. Il trasferimento della salma di Moussa a Conakry, capitale della Guinea, è stato possibile grazie al Comitato Torino per Moussa. Lo stesso che ha portato Thierno in Italia per farlo assistere in ottobre all’udienza del processo di Imperia. L’avvocato Vitale ripete più volte che il Cpr di Torino è stato usato in varie occasioni dalla Questura di Imperia come una sorta di “discarica sociale”. Tutte le persone che transitano da Ventimiglia per varcare il confine con la Francia rischiano di rimanere lì, bloccate in un limbo amministrativo che le rende invisibili. “Probabilmente non si arriverà a individuare tutte le responsabilità”, si rammarica l’avvocato. La famiglia, però, chiede che venga fatta giustizia sia sul pestaggio sia sulla morte di Moussa. “Voglio che si rendano conto che quello che hanno fatto non è normale”, aggiunge Djenabou, la madre: “È l’unica cosa che vogliamo. Aiutateci”. Migranti. Nei ghetti pugliesi si continua a morire. Mentre i fondi per smantellarli rischiano di andare persi di Pierfrancesco Albanese L’Espresso, 19 febbraio 2023 A Borgo Mezzanone le ultime due vittime, uccise dalle esalazioni di un braciere. In queste baraccopoli i migranti impiegati in agricoltura vivono in condizioni pessime. Ma gli enti locali presentano sul filo di lana i piani di recupero. E qualcuno brucia i soldi del Pnrr. Ci sono i numeri: un morto nel 2016 in località Pescia, due nel 2017 a Torretta Antonacci, quattro tra il 2018 e il 2020 a Borgo Mezzanone, due nel dicembre 2021 a Stornara. Poi ci sono le persone. Ibrahim Sowe e Queen Rock, entrambi 32enni, lui di origini gambiane e lei ghanesi. Sono gli ultimi anelli della catena di morti dei ghetti pugliesi. Vivevano, appunto, nel ghetto di Borgo Mezzanone, l’insediamento informale - con terminologia presa in prestito dai rapporti ufficiali - più grande d’Italia. Lì dove un tempo sorgeva la pista aeroportuale utilizzata dai cargo nella guerra del Kosovo, oggi sede di baracche con basi in legno e copertura di risulta. Ibrahim era un lavoratore stagionale. “Combatteva per i diritti e per una vita dignitosa. Aveva voglia di emergere, come tutti i ragazzi di Borgo Mezzanone”, racconta Sene Khady, responsabile dell’ufficio legale della Caritas di Foggia-Bovino. Invece è stato risucchiato. Ibrahim e Queen sono morti nel sonno a causa delle esalazioni prodotte da un braciere di fortuna, acceso per scaldarsi dal freddo. La fotocopia di quanto accaduto nel novembre 2019, due morti per le esalazioni di una stufetta: Elvis Bakendaka ed Emmanuel Elimhingbe. Diversi i nomi, uguale la sorte. Sene Khady racconta del sostegno dato ai migranti del posto, delle condizioni in cui vivono. Parla e si ferma. Ripete spesso che “è dura”. Sospira, riparte: “Però”. Però le associazioni fanno di tutto per migliorarne le esistenze. Operando in quel grumo di interessi illeciti che sono i ghetti. Su Borgo Mezzanone ha messo gli occhi anche l’Onu. Il presidente del working group su Diritti umani e Lavoro, Surya Deva, si è detto scioccato dal livello di sfruttamento, dopo una visita nel 2021. E d’altronde non è un mistero il sottobosco criminale alimentato dalle baraccopoli. La Dia ha evidenziato la propensione delle cosche a buttarsi nella gestione della manovalanza migrante. Allungando i tentacoli specialmente nei ghetti di Borgo Mezzanone e Rignano Garganico, dove torme di persone vanno in cerca di una mano per uscire dai gorghi della povertà. “Quando domando loro perché accettano di lavorare con i caporali, rispondono che quelli sono gli unici che offrono lavoro”, dice Khady. E si torna sull’assenza delle istituzioni. Un progetto di smantellamento dei ghetti è presente nel Pnrr: 200 milioni di euro, metà dei quali in Puglia. I Comuni interessati hanno presentato sul filo di lana i piani d’azione per lo sblocco dei fondi, con la costruzione o il rifacimento di stabili da destinare ai migranti. Dopo aver rischiato, però, di perdere 114 milioni visto il ritardo nella presentazione dei progetti. E a perderli davvero è stato il Comune di Turi, noto alle cronache per gli insediamenti che ogni anno vedono all’addiaccio centinaia di migranti per la raccolta delle ciliegie. Sono stati bruciati 5 milioni. “Uno scandalo dell’indifferenza”, tuona Anna Lepore della Flai Cgil Bari, “è stata persa un’occasione irripetibile per smettere di vivere questa condizione come emergenziale”. Condizione con cui la sindaca di Turi, Ippolita Resta, intende fare i conti solo avviando un’interlocuzione con le imprese locali. “I soldi bruciati? Non ci sono aree idonee per le strutture e i Comuni limitrofi hanno chiuso le porte”, dice. Mentre Khady torna sul punto: “Queste tragedie ci fanno interrogare: è abbastanza ciò che facciamo? Anche io me lo domando. Noi facciamo il possibile, poi servono lo Stato e gli enti locali”. Appunto. Il ritornello della pace impossibile: ora il cessate il fuoco, come in Corea di Domenico Quirico La Stampa, 19 febbraio 2023 Pace: da quando è iniziata la guerra in Ucraina è l’espressione tappabuchi che colma i baratri mentali, occulta i retropensieri, è il mantra che sacralizza l’immobilismo, la parola magica che elude tutte le infinite contraddizioni. La usano coloro che la fine della guerra la vorrebbero davvero e si ritrovano sconsolati in sparuti gruppetti che presidiano piazze indifferenti e distratte. La grida il Papa che dal bellicismo tracotante è stato relegato al ruolo di volenteroso predicatore di quello che sarebbe bellissimo ma non è, ovvero il contrario della religione che deve essere sempre rivoluzionaria rispetto alle nefandezze della Storia. La usano, con ipocrita appropriazione indebita, coloro che esigono la Vittoria. Per cui pace è un sostantivo ingiurioso. E li trovi da questa e dall’altra parte della trincea e soprattutto nelle comode retrovie occidentali dove serve spesso a riempire i forzieri di Mammona, di denaro e geopolitiche influenze e obbedienze. A usare la parola pace si rimedia l’insulto di vile: venduto alla resa, utile idiota dei despoti, catastrofista, malintenzionato. Mentre la pace semmai richiede forza erculea, coraggio, determinazione, intelligenza metodo. La userà certamente anche Giorgia Meloni in visita nei prossimi giorni a Kiev. Allora proviamo a lasciarla da parte la parola pace. Liberiamocene. In questo momento della guerra è troppo grande, inutile. Proviamo a calarci, con fantasia e coraggio, nella sacrosanta tecnologia dell’impedire che gli uomini si uccidano, a imparare l’abbecedario che aiuta a circoscrivere e spegnere i conflitti. Questo impone di scartare i reciproci progetti di vittorie totali, di rese senza condizioni, l’idea di asservire l’Ucraina o di dividere in pezzi la Russia. Sono tentazioni impossibili. Mosca ha imparato a sue spese che la Ucraina non può essere cancellata, perché trasformata dal 2014 in una potenza militare moderna, protetta dall’ombrello americano. Kiev continua a parlare di controffensive di primavera per umiliare la Russia ma sa che è propaganda, a corto com’è di uomini e di munizioni. L’unico risultato possibile, obbligatorio se non si vuole gestire un deserto etico, spirituale, ora è fermare il potere devastatore che uccide migliaia di uomini ogni giorno. Coraggio pacefondai! Come in una elettrolisi che parte da due poli estremi si deve sostituire alla pace impossibile il concetto minimo, iniziale di cessate il fuoco. Quello che bisogna realizzare è l’interruzione, per una settimana, delle operazioni sul terreno, bloccare le rispettive posizioni sul campo di battaglia. Ci sono le condizioni: i due avversari sono esausti, l’Occidente che tiene in piedi la guerra inizia, oltre il gesticolare propagandista, ad interrogarsi sulla mostruosa usura economica e militare e sui rischi di sviluppi atomici. Bisogna impedire che i due eserciti si asserraglino nelle trincee trasformando il conflitto in un lento macello senza fine. Rileggiamo un precedente ricco di insegnamenti, la guerra di Corea a metà del secolo scorso. Fu un macabro tributo alla totalità della guerra moderna, alimentato per tre anni da un giulivo entusiasmo bellicista (“fermare i rossi”… “annientare i capitalisti”). I bombardamenti a tappeto, la terra bruciata, i crimini di guerra, del nemico ovviamente, venivano descritti non con il riflesso della pietà obbligatoria per qualsiasi sentimento umano, ma con una allegra ottusità morale. Se ne registrano, da un anno, echi inaspettati e macabre rifrangenze in Europa. La guerra, quando iniziarono i difficili incontri tra le parti, tra litigi, accuse e rinvii, era in una situazione di stallo, nessuno era in grado di vincere. Come accade ora nel Dombass: ci si massacra per qualche centinaio di metri di rovine e di steppa dove si attende che alla neve si sostituisca il fango. Per accettare di fermare i combattimenti senza vittoria l’America dovette prima licenziare Mac Arthur, il generale che sognava folli attacchi atomici e aveva, a colpi di bugie, trasformato il macello nella sua guerra privata, l’ultima occasione di gloria per un vecchio “Cesare americano’”. Il cessate il fuoco anche ora farebbe passare la parola dai militari ai politici, toglierebbe voce agli oltranzisti della vittoria a tutti i costi, a Washington, a Mosca, a Kiev. Uno dei principi fissati dall’Onu nel 1951 per negoziare recitava: “quando avviene una cessazione del fuoco sia come risultato di un accordo ufficiale sia di una tregua di fatto nei combattimenti, si deve approfittare di essa per analizzare passi ulteriori da compiere per il ristabilimento della pace”. Ecco: il cessate il fuoco interrompe il massacro degli innocenti e fa guadagnare tempo. Tempo per allargare la breccia, prolungarlo, rafforzare la squadra dei mediatori neutrali, dar voce ai moderati, determinare crepe nelle autocrazie che la guerra combattuta invece consolida, trovare un luogo dove le parti, Russia e Ucraina, Stati Uniti e Cina, possano discutere, litigare, fissare nuovi incontri. Il cessate il fuoco può diventare armistizio che non è certo la pace, per cui occorrono anni. Ma quello firmato a Pannunjon in Corea sul trentottesimo parallelo non è mai diventato una pace; ma regge, precario, incerto, dal 27 luglio 1953. La guerra di Corea ha fatto quasi tre milioni di morti. Da quel giorno, per quel conflitto nato da anche esso una invasione, non è morto più nessuno. Stati Uniti. La polizia è razzista ma riformarla è quasi impossibile di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’Espresso, 19 febbraio 2023 Dopo i recenti omicidi di afroamericani, il presidente Joe Biden non vuole deludere la comunità nera, ma nemmeno inimicarsi gli agenti. E al Congresso non ha la maggioranza. L’urgenza è quella di onorare un debito mai estinto con la comunità afroamericana. Memphis si impegna a farlo oggi. Dalla città in cui cinquantacinque anni fa veniva ucciso Martin Luther King e con lui il sogno di uguaglianza, sono partite lo scorso gennaio le proteste per la morte di Tyre Nichols. Ventinovenne, disarmato, fermato per un presunto eccesso di velocità, pestato da cinque agenti afroamericani come lui e morto dopo tre giorni di agonia. Ora gli attivisti sperano che l’indignazione montata dopo la diffusione del video delle violenze, costringa il Congresso a mettere mano ad una riforma nazionale che cancelli la vergogna degli abusi della polizia sulle minoranze. “Il sogno di Martin Luther King non è morto, anzi lo stiamo costruendo. È un impegno costante affinché le speranze, contenute nel suo discorso “I have a dream”, si realizzino”, assicura dalla sua casa di Memphis, Amber Sherman, attivista di Black Lives Matter, una delle voci prominenti delle manifestazioni. “Le rimostranze della gente che per mesi inondò le strade americane quando nel 2020 furono uccisi Breonna Taylor e George Floyd non sono state vane. Portarono alle politiche che oggi hanno permesso di licenziare immediatamente gli agenti coinvolti (poi accusati di omicidio di secondo grado)”. In un’America già scossa, alla rabbia per la morte di Nichols si è aggiunta quella per l’uccisione del trentaseienne nero Anthony Lowe, disabile con entrambe le gambe amputate, freddato in uno scontro il due febbraio in California con diversi colpi di pistola. Violenza e razzismo delle giubbe blu turbano anche i sonni dell’inquilino della Casa Bianca. Joe Biden, incolpato dalla comunità nera, e persino da molti alleati, di tenere un comportamento troppo prudente, sente di dover giocare ogni carta per spingere il Congresso ad approvare una legge di riforma della polizia. Il presidente democratico, che potrebbe presto annunciare la sua ricandidatura alle elezioni del 2024, non vuole deludere la comunità nera (dimostratasi fedele nella scorsa tornata), ma neanche far mancare il suo sostegno alle forze dell’ordine a cui non ha mai tagliato i finanziamenti. Forti pressioni arrivano dal Black Caucus, il gruppo trasversale dei parlamentari afroamericani. A loro Biden ha assicurato l’impegno per un’azione legislativa che la vicepresidente Kamala Harris, prima nera a ricoprire questo ruolo, aveva definito “non negoziabile” intervenendo ai funerali di Nichols. In verità i democratici ci avevano provato nel 2020 e nel 2021 con il “George Floyd Justice in Policing Act”. Il disegno di legge - che tra le altre cose prevedeva l’incremento dell’uso delle videocamere indossabili e la creazione di un database nazionale per gli agenti che si macchiano di cattiva condotta - non è mai passato al vaglio del Senato. Il presidente ha potuto quindi solo firmare un ordine esecutivo, che però non risolve il problema. “Per una legge federale ci vorrà del tempo - spiega ancora Sherman - I democratici non hanno ancora i voti necessari. Per questo, intanto, ci battiamo per un cambiamento a livello locale. Ad esempio, la fine dei fermi stradali pretestuosi e dell’uso eccessivo della forza. Stiamo vivendo un momentum che non dà segni di rallentamento”. Ad alimentarlo è lo sdegno per l’ennesimo attacco fatale avvenuto, come dice Jelani Cobb sul New Yorker, ancora una volta sotto gli occhi di milioni di testimoni indiretti. “I telefoni cellulari e le telecamere indossate dagli agenti hanno consentito di fare molti passi avanti”. E nessuno può dirlo meglio di John Burris, leggendario avvocato per i diritti civili. Nel 1991 rappresentò l’afroamericano Rodney King, picchiato selvaggiamente dalla polizia di Los Angeles. Le immagini del pestaggio, riprese casualmente da un videoamatore, divennero virali provocando proteste violente in tutta la nazione. “Il caso King fu uno spartiacque per l’opinione pubblica. Mostrò a tutti la brutalità della polizia. Era difficile da accettare perché le persone non l’avevano mai vista prima”, ricorda con noi il legale dal suo studio di Oakland, in California. Burris, che tra i clienti illustri ha vantato anche Tupac Shakur, naviga da anni fra le trappole del razzismo sistemico. “La giustizia funziona a due livelli, uno per afroamericani e ispanici, l’altro per i bianchi. E in questo sistema i neri sono trattati con più durezza. Non importa se giudici e procuratori neri siano aumentati. Il sistema è il sistema. Ed è intrinsecamente basato sulla razza”. Nonostante i bianchi vengano uccisi in numero maggiore dalla polizia, i neri e le minoranze sono colpiti in modo sproporzionato. Gli afroamericani rappresentano il 13,4% della popolazione, ma sono coinvolti nel 22% dei casi in cui si verifica un’azione letale delle forze dell’ordine. Un dato che non tiene conto però di una realtà più complessa e quotidiana che include pestaggi e fermi non giustificati, anche quando non si registrano morti. Il problema non è solo l’addestramento delle forze dell’ordine. “È la cultura nei dipartimenti ad essere determinante. Gli agenti del caso Nichols erano afroamericani come lui. Una volta entrati in polizia, l’unico colore che conta per loro è il blu, quello della divisa”. Burris è comunque ottimista, crede che un cambiamento sia possibile. Le sue speranze sono riposte nella nuova leva di attivisti e di avvocati per i diritti civili. “Il mio compito oggi è aiutare i giovani a fare la differenza. Si tratta di una lotta continua. W.E.B. Du Bois diceva che il 10% di noi deve prendersi cura dell’altro 90%. È una responsabilità”. Siria. Quell’unico sentiero per far passare gli aiuti: “Onu e mondo, dove siete?” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 19 febbraio 2023 Quasi diecimila morti non sono bastati. Cosa serve? Alleggerire le sanzioni internazionali, ammorbidire il governo siriano che blocca gli aiuti e aprire i confini con la Turchia. “Dateci la metà degli aiuti che portate, o ad Aleppo non entrate” (ultimatum del governo siriano alla Mezzaluna rossa Curda, che guidava tre camion di tende e medicine). “A Idlib e nelle zone ribelli il regime di Assad non sta dando niente: quel che arriva dall’estero se lo tengono loro. Dalla Turchia abbiamo visto solo 14 camion Onu, ma è troppo poco” (Abdulkafi Alhamdo, ong Still I Rise). “Finora abbiamo fallito e nel nord-ovest della Siria si sentono giustamente abbandonati” (Martin Griffith, coordinatore Onu). “Chiediamo l’immediato stop dell’embargo che sta mettendo in ginocchio i siriani” (Andrea Avveduto, ong Pro Terra Sancta). Se ogni parola di protesta valesse un container d’aiuti, la Siria sarebbe sommersa di solidarietà. Ma le chiacchiere stanno a mille e i soccorsi a zero. A una settimana dal terremoto, quasi 10mila morti non sono bastati: 1) ad alleggerire le sanzioni internazionali imposte al regime di Assad; 2) ad ammorbidire Assad, che blocca i camion diretti nelle zone di nord-ovest controllate dagli oppositori del regime; 3) a far sì che la Turchia aprisse i suoi confini, sigillati da tredici anni di guerra. La Siria è un buco nero. I soli valichi aperti sono a Bab al-Hawa, una problematica strada mal controllata da Ankara, e un tratturo che dal Libano innevato scavalla a 1.500 metri d’altitudine (lo usa anche il convoglio umanitario dell’Italia). Passare altrove è impossibile: le vie sono a pezzi, ci sono focolai di colera, i check-point fanno il resto. Due milioni di siriani vivevano già in campi per sfollati: ora è difficile sopravvivere anche lì, nelle tende e al gelo e senza cibo e a corto di medicine. Anche ong che stanno qui da anni, come Msf, stanno finendo le scorte di magazzino. E i pochi ospedali rimasti in piedi sono strapieni. “Ogni ora perdiamo 50 vite”, hanno scritto i bambini in tre lingue, su cartelli alla bell’e meglio appesi a Bsenia: “Onu e mondo, dove siete?”. L’Africa spende in armi il doppio che in agricoltura: così una persona su cinque soffre la fame di Francesco Petrelli* Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2023 In Africa si spende più per le armi che per sfamare la popolazione. Una triste realtà, alimentata dai grandi paesi esportatori, che descrive un continente attraversato da conflitti atroci e spesso dimenticati, in cui il numero delle persone denutrite non può di conseguenza che aumentare. Soprattutto se a questa tragica equazione si aggiungono gli effetti dell’inflazione dei beni alimentari - arrivata oltre il 10% nel 2022 in quasi tutti i paesi africani - e della crisi climatica che genera desertificazione, siccità e inondazioni. I numeri sono impietosi, molte le contraddizioni, frutto di scelte politiche miopi e promesse non mantenute, su cui proprio oggi in occasione dell’apertura del 36esimo vertice dell’Unione Africana è più che mai necessario riaccendere l’attenzione. In gioco c’è il presente e il futuro di decine di milioni di persone. Le scelte che portano alla fame sono anche responsabilità dei governi africani - Tra le cause della crescita della fame nell’intero continente nel 2022, vi è certamente il cronico sotto-investimento in agricoltura, che costituisce il principale settore economico del continente. La maggior parte dei governi africani (48 su 54) ha dichiarato di spendere in media appena il 3,8% del proprio bilancio nel settore, con alcuni Stati che si sono fermati all’1%. In altre parole quasi tre quarti dei governi hanno ridotto la quota di spesa pubblica destinata all’agricoltura dal 2019. Senza rispettare gli impegni solennemente assunti per portare gli investimenti ad almeno il 10% del bilancio nazionale e non attenuando in nessun modo l’effetto della crisi ucraina, che ha fatto schizzare i prezzi di fertilizzanti, carburante, semi e altri materiali essenziali, con inevitabile crollo della produzione di cereali in Africa nel 2022. Mentre a livello globale anche l’anno scorso la produzione di grano è rimasta pressoché costante (con 777 milioni di tonnellate di grano nel 20/21, a fronte di 771 milioni previste nel 22/23). “Durante la stagione delle piogge, non avevamo i soldi per pagare il concime. Il risultato è che quest’anno non avremo un raccolto”, racconta Sidbou, una piccola produttrice del Burkina Faso, uno dei Paesi più colpiti dalla crisi alimentare, dove Oxfam è al lavoro per rispondere all’emergenza. L’investimento in armi non conosce crisi - Al contrario però, l’anno scorso i governi africani hanno speso quasi il doppio (il 6,4% del loro bilancio) per l’acquisto di armamenti di varia natura. Mentre i conflitti in corso, soprattutto nel Sahel e nell’Africa centrale, hanno continuato a distruggere terreni agricoli, a costringere le persone a lasciare la propria casa e di conseguenza ad alimentare la fame. Per capire il fenomeno bastano pochi dati. Nell’ultimo anno il numero di persone colpite da malnutrizione è aumentato di 20 milioni, con il risultato che oggi una persona su 5 in Africa è denutrita, si tratta di 278 milioni di persone e tra loro i più colpiti i sono i più fragili: 55 milioni di bambini sotto i 5 anni. Ognuno si assuma le proprie responsabilità - Un quadro tragico su cui è cruciale intervenire quanto prima e che richiede da parte degli Stati africani un’assunzione di responsabilità e un cambio di rotta immediato. Un appello che come Oxfam rilanciamo con forza, affinché innanzitutto vengano aumentati gli investimenti a sostegno dei piccoli agricoltori che a milioni non riescono a raggiungere con i loro prodotti i mercati dei Paesi vicini, a causa delle scarse infrastrutture, del costo dei materiali e delle tariffe sempre più alte per l’export tra i Paesi africani. Con il paradosso che per molte nazioni africane è più conveniente oggi importare cibo da Europa, Asia o Sud America piuttosto che dai Paesi vicini. Allo stesso tempo è fondamentale sostenere la capacità dei piccoli produttori di resistere al caos climatico, spingendo i Paesi ricchi e i grandi donatori internazionali a fare la loro parte. Senza finanziamenti significativi e addizionali per limitare i “danni e le perdite” - rispetto a quelli già previsti dagli stanziamenti in aiuto allo sviluppo - e per l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici, nei Paesi africani più colpiti non ci sarà salvezza. Così come per fronteggiare la crisi alimentare - aggravata e accelerata dalla crisi ucraina e dagli abnormi effetti speculativi che questa ha indotto - la risposta della cooperazione internazionale (efficace perché in grado di intervenire sugli impatti economici e ambientali) è urgente e necessaria. L’investimento in cooperazione è ancora del tutto insufficiente - Secondo l’Ocse, nel 2021 i paesi industrializzati hanno destinato solo lo 0,33% del loro reddito nazionale lordo (RNL) agli aiuti allo sviluppo. Una quota drammaticamente lontana dallo 0,70% che avevano promesso nel 1970 e che rappresenta uno degli obiettivi fondamentali dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile. Per l’Italia lo stanziamento in aiuto pubblico è cresciuto allo 0,22% allo 0,29%. Un effetto probabilmente non replicabile perché dovuto alle donazioni di vaccini per il Covid e al finanziamento straordinario alle agenzie Onu impegnate nella lotta alla pandemia. Mentre, nonostante le dichiarazioni di priorità sulla sicurezza alimentare, la cooperazione bilaterale italiana investe in agricoltura e sicurezza alimentare ancora troppo poco: meno del 10% del suo budget. Le responsabilità dell’attuale emergenza sono certamente della comunità internazionale, dei Paesi donatori, delle istituzioni economiche globali, ma oggi anche i governi africani sono chiamati a dare una vera risposta all’urlo di dolore del loro continente. *Policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia