Il caso Cospito e l’aderenza delle scelte politiche ai diritti fondamentali di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 18 febbraio 2023 Il recente “caso Cospito” ha riaperto il dibattito, mai interrotto ma solo, a tempi alterni, ridimensionato, sul 41 bis, sui suoi presupposti applicativi e - da taluni - sulla opportunità stessa di mantenere ancora tale regime di carcere, già più volte oggetto di censure da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Sulla circostanza, in particolare, taluni osservatori si sono interrogati circa l’attuale perdurante esistenza delle condizioni - pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico (la lettera della norma parla di “accertata permanenza dei collegamenti con le associazioni di appartenenza”) - che originariamente hanno legittimato il ricorso nei suoi confronti alla più afflittiva e severa tra le forme e modalità di esecuzione della detenzione intramuraria. Regime, quest’ultimo, che, come noto, prescinde dalla gravità dei reati commessi (e delle conseguenti condanne inflitte) non essendoci alcun tipo di automatismo tra l’entità di questi e il ricorso sic et simpliciter al regime del carcere duro. Di conseguenza, l’art. 41 bis è, piuttosto, uno strumento “tecnico” da adottarsi nei confronti di specifiche situazioni, ben individuate, sula base di una serie di valutazioni che il ministro della Giustizia deve fare con decreto motivato e sentite le autorità giudiziarie interessate. Ci si domanda, in altre parole, se la natura, l’estensione e la concreta pericolosità esterna del movimento anarchico siano tali da giustificare (ancora) l’assoggettamento dei suoi appartenenti, condannati a pene assai elevate (Cospito sta attualmente scontando la pena dell’ergastolo) al suddetto regime. Come risaputo, il regime di “carcere duro” nasce all’indomani, prima, delle Brigate rosse, poi, delle stragi di mafia, per consentire ai condannati appartenenti a tali organizzazioni criminali di interrompere, dall’interno del carcere, il sodalizio con l’organizzazione mafiosa di appartenenza interagendo e/ o dando o ricevendo dall’esterno ordini, segnali, indicazioni. Da questa ristretta area di applicazione, il Legislatore ha, poi, ampliato il “catalogo”, per così dire, delle organizzazioni criminali a cui applicare il 41 bis: segnatamente, anche a quelle (e ai suoi appartenenti) di carattere terroristico od eversivo dell’ordine democratico. Cospito è in carcere dal 2012, condannato a 30 anni per aver gambizzato quell’anno Roberto Adinolfi, l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, e per aver piazzato due ordigni esplosivi fuori da una caserma di Cuneo nel 2006. Il 41 bis era stato firmato il 4 maggio 2022 dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Torino e della Direzione nazionale antimafia, dopo che Cospito aveva fatto pervenire dal carcere “documenti di esortazione alla prosecuzione della lotta armata di matrice anarco-insurrezionalista”. ùSu questa scia, peraltro, nell’ambito del secondo procedimento (per la strage alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano), nel luglio del 2022, la Corte di Cassazione rinviava il processo alla Corte d’Assise d’Appello di Torino. I giudici di legittimità? accoglievano infatti la richiesta del Procuratore Generale di riconsiderare il reato di Alfredo Cospito, da strage comune a strage politica. Viene così modificato il capo d’imputazione nel più grave delitto di strage volta “ad attentare alla sicurezza dello Stato”, per il quale è previsto l’ergastolo con regime di ostatività. E allora uno Stato di diritto si dimostra “forte” anche e soprattutto con chi, quello Stato, abbia eventualmente minacciato. Tale dimostrazione di forza non può che passare dall’esclusiva e rigorosa applicazione della legge. Il regime del 41 bis non è “a vita”, può essere rivisto (attenuato o revocato) non appena le condizioni che ne avevano legittimato l’applicazione vengano meno, che significa domandarsi, oggi, di fronte al caso Cospito, se il movimento anarchico costituisca una seria minaccia per la sicurezza e salvaguardia dello Stato; la stessa per intenderci - che ancora oggi sussiste con riferimento alle organizzazioni mafiose e terroristiche. Per il governo, e l’attuale Guardasigilli Nordio tale minaccia sussiste ancora. Quest’ultimo, che ha negato, in virtù dei poteri riconosciutigli dalla legge in qualità di ministro della Giustizia, la richiesta di revoca anticipata del 41 bis avanzata dalla difesa di Cospito, ha giustificato la perdurante attualità delle condizioni legittimanti il ricorso al regime di carcere duro, ritenendo che “i profili di pericolosità correlati al ruolo associativo di Alfredo Cospito risultano confermati dal moltiplicarsi delle azioni intimidatorie e violente seguite alla adozione del regime carcerario differenziato da parte di gruppi anarco-insurrezionalisti”. Di fronte a un tale quadro, non resta che osservare con attenzione e scrupolo le evoluzioni e monitorare costantemente - l’aderenza delle scelte politiche ai diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dai Trattati internazionali. Il governo: Cospito sta meglio. Il legale nega: non prende neanche gli integratori di Frank Cimini Il Riformista, 18 febbraio 2023 Le condizioni di salute di Alfredo Cospito sono sempre più critiche, dicono i difensori. “Rimette tutto quello che prende” spiega l’avvocato Flavio Rossi Albertini collegato in audio dal presidio degli anarchici in piazza della Scala a Milano con la partecipazione di una cinquantina di persone. Gli anarchici hanno ribadito che una eventuale firma per il Tso da parte del sindaco sarebbe “un atto di violenza”. Inoltre Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso ha difficoltà ad assumere gli integratori che gli erano stati consigliati dai medici. Del resto dopo quasi quattro mesi di digiuno lo stomaco si è chiuso. Intanto gli avvocati della difesa hanno impugnato la decisione del ministro della Giustizia Carlo Nordio che a gennaio aveva confermato l’applicazione dell’articolo 41bis del regolamento penitenziario. Se ne occuperà ancora il Tribunale di Sorveglianza di Roma, lo stesso che potrebbe ricevere gli atti dalla Cassazione in caso di annullamento con rinvio della decisione dei giudici. Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano Giovanna di Rosa invece parla di valori in via di stabilizzazione. Non si esclude infatti che all’inizio della prossima settimana Alfredo Cospito venga di nuovo trasferito al carcere di Opera dal padiglione per detenuti dell’ospedale San Paolo. Ma la scelta sarebbe anche connessa al fatto che nell’ospedale c’è posto solo per due detenuti al 41bis. Flavio Rossi Albertini ribadisce che le condizioni di salute dell’anarchico sono drammatiche e che nella giornata di oggi ci sarà la seconda visita del medico di fiducia Andrea Crosignani per avere un quadro più preciso. Ergastolo, la pena e la speranza di Luisa Urbani Il Millimetro, 18 febbraio 2023 Un pomeriggio nel carcere di Rebibbia con Franco. Una sensazione difficile da definire, sentimenti contrastanti che non riesci a decifrare. Paura e compassione. Paura perché sai entrando in una struttura dove sai che ci sono anche persone che hanno commesso brutali omicidi, compassione perché in fondo nessuno merita di morire sepolto tra quattro mura. Ma “tutto dipende da te” mi dice Franco mentre, sorridendomi, prende le chiavi della Cappella dall’armadietto dietro di me. L’ha precisato mezz’ora prima di lui anche la Direttrice del carcere accogliendomi nel suo ufficio al piano superiore. “Grazie alla collaborazione con i volontari e le realtà esterne al carcere - spiega Rosella Santoro - cerchiamo di proporre ai detenuti molte attività. Alcuni aderiscono, ma altri non sono interessati. Dipende molto dalla volontà del singolo. Ma se anche su 100 ne recuperi 1 va bene. L’importante è recuperarli. C’è gente che fa teatro, pittura, che si laurea... e loro sono la conferma che qui dentro ci si può recuperare, rieducare. Noi offriamo queste possibilità perché, per noi, quando la persona entra in carcere finisce il reato e inizia l’uomo”. Già, finisce il reato e inizia l’uomo, ripeto tra me e me mentre sono al piano terra, in un disimpegno, in attesa che arrivi l’appuntato per “presidiare” l’intervista. Ma Franco, che dopo aver preso le chiavi resta lì con me, già sa di essere lui. Si avvicina. “Sono per forza io quello che devi intervistare, ho l’ergastolo! Però sbrighiamoci che poi devo andare a pregare” dice sorridendo. Ci presentiamo. Franco non è il suo vero nome. Ha chiesto di restare anonimo. Mi stringe la mano, nell’altra tiene una Bibbia nera con le scritte dorate. Indossa una tuta e un piumino smanicato. Non ha un aspetto trasandato, anzi. La sua è una stretta di mano decisa. Ha uno sguardo intenso. Gli occhi di un ragazzo diventato uomo lì dentro. Vive a Rebibbia dal giorno dell’arresto, 21 anni fa. “Sono entrato poco più che 2oenne con l’accusa di omicidio. Non ho avuto una adolescenza come te, come gli altri ragazzi. Non ho avuto la possibilità di farmi una famiglia. Non ho né una moglie né una fidanzata né dei figli, ma non per questo voglio vivere da relitto. Io ho scelto di vivere, non di sopravvivere”. Mi chiedo come si possa abbinare il termine vivere ad un carcere. Forse è un mio limite, una mia idea sbagliata. Ma se penso al carcere penso alla morte, non alla vita. Penso ad un luogo dal quale non potrai più uscire. Ma lui parla di vita, di futuro e di speranza. E io resto basita. Arriva l’appuntato, ci sediamo per iniziare la nostra chiacchierata in una stanza a pochi passi da dove stavamo aspettando. “Qui vicino c’è la falegnameria, per questo vedi tutta questa polvere” mi spiega. “Una falegnameria? In carcere? Non l’avrei mai detto” penso senza dire nulla. Al mio “come passi le tue giornate?” risponde subito elencando un’infinità di attività. Lo blocco e gli chiedo di andare per ordine. Gli faccio capire che dall’esterno si sa poco e niente del carcere. “La mattina mi sveglio intorno alle 5, resto a letto per un’oretta abbondante finché non mi alzo per preparare il caffè con la macchinetta che ho dentro la cella. Leggo un po’ la Bibbia e poi mi dedico alle mie attività”. Fino ad un mese fa lavorava nel reparto del carcere dove fanno la torrefazione del caffè, che poi viene venduto all’esterno. Un lavoro vero e proprio che ha svolto per 6 mesi. “Facevo le miscele e cuocevo il caffè. Finito il turno tornavo in cella per pranzo. Consumiamo i pasti sempre in cella: colazione, pranzo e cena”. “E non avete una mensa per mangiare tutti insieme?” “Ma no, quello nei film americani. Il carcere italiano è diverso: si mangia in cella, ma non per forza da soli. Se vuoi puoi invitare qualcuno. Il cibo lo garantisce lo Stato, ma volendo abbiamo anche un piccolissimo supermercato interno al carcere dove possiamo acquistare le cose. Ovviamente non ha tutto come fosse un normale negozio”. 41 bis, violati i diritti umani: Tomaselli è in un reparto ospedaliero temporaneo da oltre 7 mesi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 febbraio 2023 Interrogazione di Roberto Giachetti di Italia Viva sul caso di Antonio Tomaselli, ha un cancro ed è ricoverato al San Paolo di Milano. Per l’avvocato c’è incompatibilità tra la detenzione e il diritto alla salute. È malato terminale, da sette mesi è ricoverato in regime di 41 bis nel reparto ospedaliero di medicina protetta dell’ospedale San Paolo di Milano. E questo nonostante sia una struttura di ricovero temporaneo. Parliamo del detenuto Antonio Tomaselli, tra l’altro - come notiziò a suo tempo Il Dubbio -, durante l’emergenza pandemia, fu il primo recluso al regime duro ad aver contratto il Covid 19. La situazione, a causa del cancro, è gravemente peggiorata: secondo il suo legale si starebbe commettendo una palese violazione dei commi dell’articolo 41 bis stesso. Un caso che ora è oggetto di interrogazione parlamentare rivolta al ministro della giustizia, sollevata dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. L’interrogazione è scaturita dopo che la vicenda è stata discussa durante una rubrica settimanale su Radio Leopolda del 2 febbraio 2023, in cui l’ex deputata radicale Rita Bernardini ha intervistato l’avvocato del foro di Catania Giorgio Antoci e la signora Katiuscia Randazzo, moglie di Tomaselli. Secondo quanto emerso dall’intervista, Tomaselli è affetto da adenocarcinoma del polmone destro con plurime metastasi polmonari bilaterali, surrenali, cerebrali, con diffusione linfangitica tumorale e versamento pleurico consensuale, plurime metastasi linfonodali ilari destre e mediastiniche, e da seri problemi cardiaci da fibrillazione atriale che possono provocare la morte improvvisa. Come ha sottolineato lo stesso deputato Giachetti nell’interrogazione parlamentare, la struttura di medicina protetta del San Paolo di Milano è adibita a ricovero temporaneo, mentre Tomaselli vi è ricoverato ininterrottamente da oltre sette mesi ed è destinato a morire. Secondo quanto riferito dall’avvocato Antoci nell’intervista condotta da Rita Bernardini, pende in Cassazione un ricorso perché le condizioni del Tomaselli nel suddetto reparto di medicina protetta costituiscono una limitazione assoluta della libertà che non trova riscontro nelle previsioni dell’ordinamento penitenziario, poiché lesive del combinato disposto degli articoli 10 e 41-bis della legge n. 354 del 1975. L’avvocato sostiene che l’assoluta incompatibilità tra la detenzione e il diritto alla salute del detenuto emerge evidente dalla violazione dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975, il quale limita il diritto a permanere all’aperto, lo garantisce nella misura di due ore giornaliere, nonché dall’articolo 10, comma 1, della legge n. 354 del 1975, che dispone che questo diritto possa essere limitato solo per ragioni di sicurezza e in maniera del tutto temporanea. Secondo l’avvocato, la riduzione, e non la completa elisione delle ore d’aria spettanti ai detenuti è ammessa solo in presenza di motivi eccezionali, come stabilito da un consolidato orientamento giurisprudenziale della Cassazione sez. I penale del 28 febbraio 2019, n. 17579. Ma la questione non si ferma qui. Sempre secondo quanto si legge nell’interrogazione parlamentare, recenti dichiarazioni dei responsabili del carcere di Opera fanno emergere preoccupazioni sulla violazione dei diritti umani fondamentali. Secondo i responsabili del carcere di Opera, il reparto di medicina protetta del San Paolo di Milano non garantisce ai detenuti in regime di 41-bis l’ora d’aria, la socialità con altri detenuti, la telefonata mensile con i familiari e i contatti telefonici con i difensori. Inoltre, la moglie di Tomaselli ha riferito che suo marito ha perso 20 chili per una dieta del tutto inadeguata, che non può essere integrata dai familiari, che da più di sette mesi non vede la luce del sole, che non può parlare con nessuno essendogli proibita qualsiasi forma di socialità, e che si sente come un sepolto vivo. Tomaselli stesso chiede di tornare al 41 bis del carcere di Opera dove, almeno, può usufruire di due ore d’aria e vedere la luce naturale. Sulla base di queste informazioni, sempre nell’interrogazione rivolta al guardasigilli Nordio, il deputato Giachetti pone diverse domande sul rispetto dei diritti dei detenuti del 41 bis, in particolare quelli di Tomaselli. Prima di tutto, sottolinea se è necessario chiedersi che l’amministrazione penitenziaria sia a conoscenza dei fatti descritti in premessa e se il ministro ritenga che la prolungata detenzione del signor Tomaselli nel reparto di medicina protetta del San Paolo di Milano corrisponda a quanto previsto dall’Ordinamento penitenziario per i detenuti al 41-bis. Inoltre, si dovrebbe chiedere in che tempi l’amministrazione penitenziaria possa reperire una struttura sanitaria adeguata che garantisca i diritti umani inalienabili del detenuto in questione. Infine, chiede se ci sia la necessità di prevedere un sopralluogo urgente per verificare le condizioni di detenzione presso il reparto di medicina. Di fatto, solo attraverso un’attenta analisi e un’azione concreta da parte dell’amministrazione penitenziaria si potrà garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e assicurare che le condizioni di detenzione siano adeguate e umane. Compresi, appunto, anche coloro che sono al 41 bis. Lo strano spillover tra pena di morte e 41-bis nel rapporto di Nessuno tocchi Caino di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 febbraio 2023 L’associazione impegnata contro le condizioni estreme di carcerazione sostiene un parallelo ardito tra il Kenya e l’Italia. Ma così facendo sminuisce il tema di una giusta prevenzione (e l’applicazione dello stato di diritto). Onore e merito a Nessuno tocchi Caino, associazione impegnata contro la pena di morte e le condizioni estreme di carcerazione. Ci permetterà però il segretario Sergio D’Elia di mettere qualche punto di domanda al suo intervento di ieri sul Riformista. Si parla di una ricerca tra i condannati a morte in Kenya svolta da un’équipe dell’Università di Oxford, e il titolo recita: “Lo studio è sul Kenya ma sembra l’Italia”. La tesi portante, dello studio e di D’Elia, è che “la terribilità e la certezza della pena non possono costituire un deterrente, se neanche i condannati sanno cosa prevede il codice penale”. Hanno intervistato 671 persone, di cui 33 donne, nel braccio della morte in dodici carceri. Il 44 per cento era condannato per omicidio, il 56 per rapina violenta. “Solo un detenuto su cento sapeva che la pena di morte era una punizione prevedibile per il reato commesso”. I limiti della deterrenza sono noti, ma appare un salto logico forzato sostenere - è lo studio di Oxford - che poiché quasi tutti i detenuti “avevano poca o nessuna istruzione di base ed erano di basso status sociale ed economico”, questo sia sufficiente a negare ogni valore all’entità della pena. Scrive D’Elia: “Lo studio è stato condotto in Kenya. Fosse stato fatto in Italia, i numeri non sarebbero stati diversi”. Si può dubitarne, almeno per quel che concerne l’ignoranza della legge. Ma l’aspetto che suscita più dubbi è altrove: “La ricerca ha riguardato la pena di morte. Fosse stata la pena fino alla morte, il risultato non sarebbe cambiato… Dove è scritto ‘pena di morte’ leggi pure ‘pena fino alla morte’. Dove è scritto ‘braccio della morte’ pensa al 41-bis”. Se il parallelo con l’ergastolo ostativo ha un senso, braccio della morte e 41-bis non sono invece la stessa cosa. Il 41-bis va modificato o sostituito; ma non è una misura “a vita” né “a morte”. Le battaglie radicali sono giuste. Meno comprensibile è lo spillover per cui, dalla critica della pena “di morte”, si passa a sminuire il tema di una giusta prevenzione. Lo stato di diritto deve svolgere bene il suo compito, Kenya o Italia, non rinunciarvi. Nelle carceri italiane gli psicofarmaci sono ormai diventati un “mezzo di disciplina” di Luca Pons fanpage.it, 18 febbraio 2023 Un recente rapporto dell’Oms ha analizzato le condizioni di salute dei detenuti di tutta Europa. Per l’Italia, però, c’erano pochissimi dati disponibili. L’associazione Antigone ha spiegato a Fanpage che i numeri sulle carceri sono sparsi e disorganizzati: quando si prova a metterli in ordine, emergono diversi problemi. L’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato un rapporto sullo stato di salute delle persone detenute in carcere in Europa. Dall’analisi dell’Oms emergono diversi elementi interessanti ma scorrendo negli allegati, e in particolare tra le schede di ciascun Paese preso in esame, si nota una cosa: la parte sull’Italia è quasi del tutto vuota. La pagina dedicata al numero di detenuti diagnosticati che hanno ricevuto una terapia è completamente vuota, e anche quella sullo stato di salute indica solo il numero di infetti da Covid-19 e quello di persone con dipendenze da sostanze stupefacenti. Tutte le altre caselle sono “missing” (dato mancante). Michele Miravalle, ricercatore che cura i rapporti dell’associazione Antigone sul carcere in Italia, ha spiegato a Fanpage.it il perché di questa mancanza. “Avere i dati a livello nazionale non è semplice. Dal 2010 la sanità penitenziaria dipende dalle Regioni, quindi purtroppo manca una regia centrale. Organismi come la conferenza Stato-Regioni dovrebbero garantire una raccolta dati centrale, ma il fatto che siano così frammentati lo rende tremendamente complesso. C’è il lavoro fatto dal Garante per i detenuti, che nella relazione annuale al Parlamento sintetizza alcuni dati. E anche noi come Antigone, in modo indipendente, abbiamo provato a farlo. Però la difficoltà rimane”, ha spiegato Miravalle. Insomma, dei dati chiari, ufficiali e centralizzati sulle condizioni di salute delle persone detenute in Italia non ci sono. Sul perché l’Italia non abbia risposto all’Oms “posso solo fare ipotesi”, ha specificato Miravalle. “Da parte mia, sia come Antigone che come ricercatore universitario, tutte le volte che ho dovuto lavorare sulla sanità in carcere il 99% della fatica di ricerca è nel reperimento e raccolta dei dati. Sono troppo frammentati. Il problema è che poi le riflessioni politiche che fai si basano solo sulle percezioni, e non su dati”. Dai dati che Antigone raccoglie - e che l’Oms, ad esempio, non ha potuto vedere - cosa emerge sulle carceri in Italia? Un settore particolarmente sensibile è quello della salute mentale: “È diventata un po’ la nuova emergenza del sistema penitenziario italiano. Oggi in qualsiasi carcere - che sia un grande carcere metropolitano o un piccolo carcere di una provincia del Sud - il direttore, il comandante e il medico (ammesso e non concesso che ci sia) ti dicono “Abbiamo un problema di gestione delle psicopatologie”“. Ad esempio, “colpisce il ruolo che lo psicofarmaco ha all’interno del carcere”, per Miravalle. Secondo i numeri dell’associazione (“che possono anche non essere precisissimi, ma un certo rigore metodologico ce l’abbiamo, sono dati che emergono dalle visite e parlando con i medici, non campati per aria”) circa il 40% della popolazione carceraria italiana assume psicofarmaci di qualche tipo. Complessivamente, si parla di “circa 25mila persone”. Dall’altra parte, quante di queste persone hanno una effettiva diagnosi di patologia psichiatrica? “Secondo dati del Garante dei detenuti, meno di 500 in tutta Italia”. Un numero “incredibilmente basso”, anche perché si tratta solo dei casi in cui dalla diagnosi psichiatrica deriva una qualche decisione del giudice. Il numero stimato da Antigone con il suo osservatorio arriva fino a 7mila persone. Anche così, vorrebbe dire che meno di una persona su tre che assume psicofarmaci ha un’effettiva diagnosi. “Com’è possibile? Probabilmente perché lo psicofarmaco nel carcere non ha un ruolo curativo, di terapia, ma un ruolo che si può definire di ‘disciplina’, strumenti di governo”, ha spiegato Miravalle”. “Servono forse a controllare una popolazione che sta male, anche per le condizioni ambientali in cui vive, e che altrimenti sarebbe potenzialmente esplosiva”. Come detto, avere dati completi sulla sanità in carcere non è solo uno sfizio statistico: “Il problema non è ‘non sapere’ quante persone hanno una certa patologia o seguono una certa terapia. Il problema è non sistematizzare quei dati, organizzarli, e usarli per decidere di conseguenza”. Un esempio paradigmatico è quello delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture sanitarie che accolgono persone che hanno commesso reati, affette da disturbi mentali e socialmente pericolose. Una delle caratteristiche delle Rems è che hanno un numero massimo di posti (20 a struttura) che non si può mai superare, per legge. Così si evita il sovraffollamento, ma si creano delle liste d’attesa. “Nel 2022?, ha spiegato Miravalle, “ la Corte costituzionale è stata chiamata a dire se sia legittimo che ci sia una lista d’attesa, e quindi che delle misure penali non vengano eseguite per mancanza di posti”. Prima di arrivare alla sentenza, la Corte “ha chiesto dei dati al ministero della Giustizia e al ministero della Salute, per sapere quanto fossero consistenti le liste d’attesa”. E i ministeri “hanno risposto con due dati diversi. Ma sensibilmente diversi. E il dato del Garante dei detenuti era ulteriormente diverso”. Questo rende chiaro quanto “la mancanza di una raccolta dati completa significhi anche una maggior fatica a focalizzare i problemi e a trovare soluzioni”. Alla fine, “la Corte ha stabilito che la lista d’attesa non è incostituzionale, ma ha aggiunto nelle motivazioni che ‘dopodiché, ci sono alcuni dati che non coincidono, boh’. E parliamo della Corte costituzionale, non il piccolo ricercatore indipendente”. Carceri. Don Grimaldi: “Un mondo che sta a cuore alla Chiesa. La società civile non si giri dall’altra parte” di Gigliola Alfaro agensir.it, 18 febbraio 2023 Per un cammino di riscatto, dice al Sir l’ispettore generale dei cappellani, è importante un reinserimento lavorativo degli ex detenuti e una particolare attenzione ai più fragili. Sollecitati dal magistero di Papa Francesco e dalle istanze del Cammino sinodale, i vescovi italiani hanno esortato a promuovere e a sensibilizzare l’attenzione verso il mondo delle carceri. Viene dunque condiviso un segno della Chiesa in Italia per quanti sono stati privati della loro libertà personale e di incoraggiamento per tutti coloro che operano nelle carceri. Si tratta di un’occasione da vivere a livello locale per sensibilizzare le comunità cristiane e la società civile verso questi luoghi di periferia, molto spesso emarginati e dimenticati, contribuendo alla promozione di una nuova cultura della giustizia. Di questa attenzione verso il mondo carcerario ne parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Don Raffaele, cosa si farà concretamente? Per rispondere a questa attenzione dei vescovi italiani, l’Ispettorato dei cappellani nelle carceri italiane sta preparando, in sinergia con l’Ufficio liturgico nazionale, un sussidio da mandare nelle diocesi e nelle carceri per sensibilizzare verso questo mondo. In questa prima fase ogni Chiesa locale sceglierà una giornata in cui promuovere la sensibilizzazione verso il mondo carcerario. Il sussidio aiuterà le diocesi a vivere questa giornata a livello locale. In realtà, in tutte le diocesi c’è già una sensibilità verso le carceri. Infatti, i nostri vescovi sono molto attenti alle dinamiche e alle problematiche nelle carceri. Ora è molto importante che i pastori, unitamente ai cappellani, ai volontari e agli operatori nelle carceri, amplifichino attraverso la loro azione questo messaggio e facciano comprendere i drammi che si vivono all’interno dei nostri istituti. È molto bello che su invito della Conferenza episcopale italiana tutta la Chiesa prenda a cuore la sofferenza che si vive nei diversi istituti penitenziari, cercando di mobilitare le coscienze, di aiutare le comunità cristiane a prendere a cuore la situazione delle carceri. Questa provocazione da parte della Conferenza episcopale italiana è rivolta soprattutto alla società civile perché non soltanto la Chiesa è chiamata a prendere a cuore la situazione delle carceri, ma ancor di più la società civile deve prendere coscienza che è un modo isolato e abbandonato che ha bisogno di essere ascoltato. Il 2022 è stato un anno record, negativamente, per l’alto numero di suicidi in carcere… La questione carcere non si può risolvere con la bacchetta magica, da un momento all’altro. Sono situazioni delicate, difficili da affrontare, ma si può fare, con il buon senso di tutti, con la disponibilità del Governo - e rispetto a questo ci fa ben sperare che il ministro della Giustizia Carlo Nordio abbia messo in primo piano la necessità di un’attenzione al mondo carcerario -. Speriamo che il 2023 sia segnato meno dal dramma dei suicidi tra le mura delle carceri, anche se purtroppo, dall’inizio dell’anno, già ci sono stati dei casi di suicidio. Quali passi auspica per migliorare la situazione attuale? Occorre prendere a cuore la realtà delle carceri e soprattutto proporre dei cammini. Il carcere non deve essere l’ultima spiaggia per coloro che hanno commesso dei reati, ma un momento della vita che aiuta a decidere di cambiare vita e voltare pagina. Per questo sono importanti anche i cammini lavorativi perché dopo il carcere l’unica possibilità di recupero dell’ex detenuto è il lavoro, per evitare che commetta altri reati per un problema di sussistenza. Dal punto di vista umano e spirituale non pronuncerei la parola carcere perché il carcere emargina sempre, ma sappiamo bene che per chi compie reati gravi c’è anche una giustizia umana come risposta. Per alcuni tipi di reati la soluzione potrebbe non essere il carcere, non dovrebbe essere questa l’ultima parola. Il carcere deve aiutare il detenuto a comprendere il male compiuto e a rieducarlo, se non riesce in questo rischia di essere un fallimento. Il compito principale del carcere, infatti, non è quello di reprimere ma di redimere e aiutare la persona che ha sbagliato a riprendere in mano la propria vita e a usare, una volta fuori, bene la libertà, senza ricadere nella recidiva. Il problema sta proprio nel fatto che se gli ex detenuti sono emarginati e senza possibilità rischiano di delinquere ancora, c’è quindi anche una responsabilità della società che deve mettersi in ascolto e tendere una mano, accompagnando queste persone fragili che escono dal carcere e che, se non hanno supporti, rischiano di crollare. Dunque, al di là della presenza di cappellani e volontari nelle carceri, fondamentale per mantenere la vita negli istituti attraverso celebrazioni, catechesi, corsi, iniziative lavorative, progetti, quello che la Cei vuole dire è una parola alla società tutta perché è lì che si gioca la partita più importante per il detenuto che esce dal carcere. Poi ci sono detenuti e detenuti: ce ne sono alcuni che hanno una famiglia forte, che li tutela, ma anche tanta povera gente che esce dal carcere e non ha punti di riferimento. Noi cappellani, i volontari, le comunità cristiane ci siamo, ma soprattutto la società civile deve prendere a cuore proprio queste persone più fragili. Ci sono percorsi di giustizia riparativa? Soprattutto nelle carceri minorili ce ne sono, è lì che inizia un percorso diverso per gestire la giustizia, è una cultura nuova che ha bisogno di crescere nel cuore della gente per non puntare solo il dito in senso di condanna ma per aiutare a un cammino di riconciliazione. La giustizia riparativa è molto importante perché riguarda non solo i detenuti, ma anche le vittime o i loro familiari. Sappiamo, infatti, che sono in tanti a soffrire per le esperienze di morte o di dolore che hanno vissuto in quanto hanno subito violenza da altri. Il mondo carcerario minorile è stato rilanciato anche al Festival di Sanremo nl monologo di Francesca Fagnani... È bello che dal palco di Sanremo sia stato lanciato un messaggio. I ragazzi di Nisida hanno parlato attraverso la giornalista e hanno spiegato che, se anche hanno sbagliato, ora hanno bisogno di avere accanto persone che li aiutano. Il messaggio, che richiama una sensibilità particolare verso le carceri, rischia però di rientrare in una moda. È stato, quindi, importante lanciare un messaggio così forte da un palco nazionale e internazionale come quello di Sanremo ma bisogna ora, dopo aver compreso la sofferenza che c’è in questo mondo, accogliere quella provocazione e domandarci tutti cosa possiamo fare concretamente per aiutare questi ragazzi. L’emozione di un momento non aiuta nessuno. Un esempio concreto può essere costituito dai progetti lavorativi che stanno avviandosi negli istituti minorili, sostenuti da Caritas italiana grazie all’8xmille. Commissione toghe-politica. Dopo Delmastro FdI “minaccia” di istituirla di Rocco Vazzana Il Dubbio, 18 febbraio 2023 Potrebbe già esserci un “prima” e un “dopo” nei rapporti tra Giorgia Meloni e la magistratura. Prima dell’iscrizione nel registro degli indagati del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e dopo l’interrogatorio dell’esponente di Fratelli d’Italia per presunta rivelazione e utilizzazione del segreto di ufficio. Perché che l’atteggiamento dei meloniani nei confronti delle toghe da ieri sia cambiato è un dato di fatto testimoniato dalle parole dure pronunciate da alcuni dei colonnelli più vicini alla premier. A cominciare dal ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, nonché cognato della presidente del Consiglio, Francesco Lollobrigida, che ieri ha aperto più di uno spiraglio all’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della magistratura. La proposta - rilanciata tre giorni fa dal capogruppo forzista alla Camera Alessandro Cattaneo, a poche ore dall’assoluzione di Silvio Berluconi nel processo Ruby Ter - era stata inizialmente accolta con freddezza dagli alleati di governo, con parecchi distinguo e vari freni a mano tirati all’improvviso per scongiurare di inaugurare una nuova stagione di contrapposizione tra poteri dello Stato. L’interrogatorio di Delmastro, però, sembra aver cambiato le carte in tavola, soprattutto per gli esponenti del partito della prudenza: Fratelli d’Italia. “Non è solo Forza Italia che ha chiesto commissioni su questo tema”, ha sottolineato Lollobrigida, uno degli uomini più potenti del governo. Un approfondimento sul ruolo della magistratura è stato richiesto anche “da parte di forze che sono attualmente all’opposizione, ricordo proposte analoghe, perché quello che emerse dal libro di Palamara è un chiarimento che a mio avviso non c’è stato fino in fondo”, è il messaggio tutt’altro che criptico lanciato dal ministro. Perché, è ancora il ragionamento di Lollobrigida, serve “un chiarimento che non va fatto contro la magistratura ma insieme alla magistratura, con la gran parte dei magistrati che ritengo essere sani e latori di un messaggio agli italiani che verrà e può essere confortato proprio marginalizzando chi usa un potere dello Stato per condizionarne un altro in modo illegittimo e in contrasto aperto con quello che è il disegno costituzionale”. L’ipotesi commissione d’inchiesta, dunque, finora stoppata dalle colombe, potrebbe tornare utile per lanciare un segnale alle toghe. Perché, ed è sempre Lollobrigida a rimarcarlo a proposito delle indagini su Delmastro, “c’è una parte della magistratura che tenta di condizionare la politica violando i principi della separazione dei poteri insiti in qualsiasi sistema democratico. E seguendo le regole della Costituzione, questo principio va ristabilito”. E le regole costituzionali permettono alla politica di trasformarsi in inquirente e indagare, con i poteri di una Commissione, anche sui magistrati. Se le Commissioni d’inchiesta diventano “armi” politiche di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 18 febbraio 2023 La formazione di organismi parlamentari d’inchiesta spesso è sollecitata per “colpire” gli avversari. Ma se le commissioni nascono in queste condizioni difficilmente portano bene a chi le ha volute. Commissione parlamentare d’inchiesta. Detta così sembra una cosa seria. E dovrebbe esserlo visto che è prevista dalla Costituzione (articolo 82). E spesso lo è stata. Un esempio? La commissione sulla P2 presieduta da Tina Anselmi. Ma in un’Italia in cui la lotta politica non rinuncia a nessuno strumento questo organismo può diventare anche il mezzo con il quale i partiti e i loro leader si danno battaglia e regolano i conti con gli altri poteri dello Stato. L’idea che così facendo si svilisca la democrazia parlamentare e si allontanino i cittadini dalle istituzioni non sfiora la mente dei politici l’un contro l’altro armato. O, peggio, che le conseguenze possano essere queste a loro sembra non interessare affatto. Si pensi a ciò che sta accadendo adesso sulle commissioni di inchiesta. Forza Italia ne vorrebbe una sui magistrati “politicizzati” che si sono occupati di Berlusconi. Renzi da mesi reclama la commissione di inchiesta sul Covid. Il suo intento è dichiarato: dimostrare che Conte ne ha combinate di tutti i colori. Va detto però che l’utilizzo di questi organismi ai propri fini non è una novità. Andando indietro nel tempo si arriva alla Commissione Telekom Serbia, istituita sotto il governo Berlusconi, sulla scia delle denunce di un faccendiere svizzero secondo il quale il centrosinistra aveva preso tangenti per l’acquisizione, da parte di Telecom Italia, di Telekom Serbia. Le accuse erano infondate e la commissione morì come era nata. In tempi più recenti Renzi, che ce l’aveva con Ignazio Visco, promosse una commissione sulle banche. Mal gliene incolse: due suoi fedelissimi, Maria Elena Boschi e Marco Carrai, finirono nel mirino di una delle audizioni di quell’organismo, nel pieno dello scandalo di Banca Etruria. Già, perché c’è anche da aggiungere che quando nascono in queste condizioni difficilmente le commissioni d’inchiesta portano bene a chi le ha volute. Perché a sentire l’Anm viene voglia di una Commissione d’inchiesta sulle toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 febbraio 2023 Il sindacato della magistratura contro l’organo parlamentare chiesto da Forza Italia: “Basta leggere le motivazioni delle sentenze per capire le vicende”. Ma leggendo alcune sentenze (da Eni-Nigeria alla Trattativa) viene da mettersi le mani nei capelli. Esistono tanti motivi per dirsi contrari all’istituzione della commissione d’inchiesta sull’utilizzo politico della magistratura, proposta da Forza Italia dopo l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter. L’argomentazione più debole, però, è stata senza dubbio offerta dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia: “E’ una scelta errata perché anch’essa figlia di un’idea tanto diffusa in ambienti politici quanto infondata, e cioè che la magistratura perseguiti qualcuno quando fa i processi”, ha detto il presidente del sindacato delle toghe a Repubblica.it. “Invece di fare questa commissione - ha detto - sarebbe sufficiente leggere le motivazioni delle sentenze e capire bene cos’è avvenuto e comprendere le vicende che si ritengono pregiudizialmente oscure”. Leggendo le motivazioni di alcune delle più importanti sentenze degli ultimi anni, però, viene da mettersi le mani nei capelli. Prendiamo, ad esempio, il processo sulla presunta corruzione compiuta da Eni in Nigeria, terminato con l’assoluzione di tutti gli imputati. Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione di primo grado, poi diventata definitiva, il collegio giudicante non solo sottolinea la mancanza di prove a sostegno delle accuse, ma critica duramente anche alcune decisioni “irrituali” e “incomprensibili” dei pm milanesi, come il mancato deposito di elementi favorevoli agli imputati (per queste ragioni i pm titolari dell’inchiesta, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sono stati rinviati a giudizio). Per di più, la procura generale di Milano si è rifiutata di impugnare la sentenza di assoluzione scrivendo chiaro e tondo che i motivi d’appello erano “incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità”. Prendiamo un altro caso: il processo contro l’ex ministro Calogero Mannino per la cosiddetta trattativa stato-mafia. Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione di primo grado, poi confermata in appello e diventata definitiva, la giudice Marina Petruzzella parla di “prove inadeguate”, “suggestiva circolarità probatoria”, “interpretazioni di colpevolezza indimostrate”. Prima ancora, Mannino era stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ebbene, nel 2008 il procuratore generale presso la Corte di cassazione, nel chiedere (e ottenere) l’assoluzione di Mannino, definì la precedente sentenza di condanna “un esempio negativo, da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta”. E cosa dire del “sequestro avente primari fini esplorativi”, cioè a strascico, compiuto secondo la Cassazione dalla procura di Firenze nell’ambito dell’indagine sull’ex fondazione renziana Open? Oppure del “chiaro pregiudizio accusatorio” rintracciato dalla Cassazione nei confronti dell’ex governatore calabrese Mario Oliverio, indagato da Gratteri, e poi assolto? Insomma, a leggere alcune sentenze il Parlamento avrebbe dovuto istituire una commissione d’inchiesta su certi magistrati già da tempo. Toh, una crisi politica sulla giustizia. E chi l’avrebbe detto? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 18 febbraio 2023 Quella commissione d’inchiesta sulla magistratura proposta ad alta voce da Forza Italia, e da Fratelli d’Italia sdegnata con fastidio, non è poi forse così inutile. È Carlo Nordio il boccone grosso, anche se è stato il sottosegretario Andrea Delmastro il primo ad abboccare all’esca avvelenata, con un comportamento che è poco definire sconsiderato. Così oggi la premier Giorgia Meloni si ritrova in quella tenaglia in cui mai avrebbe voluto incappare, e cioè una crisi politica sulla giustizia. Proprio lei che, pur stimando Silvio Berlusconi, lo ha sempre guardato come uno un po’ strano con i suoi 136 processi e certe sue dichiarazioni come quella della necessità di sottoporre a controllo psichiatrico periodico i magistrati. Ma la premier ha anche vissuto un bel po’ di cammino politico al fianco di Gianfranco Fini, e dovrebbe aver imparato che la voracità del potere è un pozzo senza fondo e non c’è complicità del politico con il pm che lo tenga al riparo da inchieste a suo carico. Da quando la casta delle toghe, e non solo quelle “rosse”, è diventata un vero blocco di potere, nessun politico è al sicuro. Basta dare un’occhiata al comportamento degli esponenti del Pd, compresi quelli meno ossessionati dalle manette. Sono terrorizzati, e hanno tutti le ginocchia sbucciate per gli inchini quotidiani agli dei delle procure. Così oggi la premier si ritrova suo malgrado con due colossali problemi di giustizia. Uno è Delmastro, il primo esponente del governo e del suo stesso partito sottoposto a indagini per rivelazione di segreto d’ufficio e già convocato e interrogato dal procuratore capo della repubblica di Roma Francesco Lo Voi. L’altro è il ministro guardasigilli, da lei fortemente voluto, e già cannoneggiato in quanto riformista e garantista. “Maggiordomo”, lo ha definito ieri la Repubblica, in uno dei quattro servizi e commenti dedicati alla giustizia e con l’esplicito sapore del ritorno alle “dieci domande”. È chiaro che il problema è lui, e che l’agire sconsiderato del sottosegretario Delmastro e del portavoce Donzelli ha solo offerto il destro perché si aprisse la strada nella quale in particolare certa sinistra è maestra. Quella di aspettare, o sollecitare, come nel caso della denuncia del deputato verde Bonelli, la via giudiziaria alla crisi, le informazioni di garanzia e le iscrizioni nel registro degli indagati, per poter subito dopo dichiarare ipocritamente che il problema “è politico”. Per lo meno Travaglio dice espressamente di odiare gli indagati, che per lui sono non soltanto colpevoli ma proprio delinquenti mafiosi e stupratori. La banda delle dieci domande si crede più sofisticata, vanno in tv a fare i virtuosi: il punto non è il fatto che tizio sia indagato, ma c’è un problema di opportunità politica. Seguono richieste di dimissioni e mozioni di sfiducia. Stia attenta ora la premier Giorgia Meloni. E tenga d’occhio la magistratura. Sappia, se la sua storia politica non la ha ancora messa a contatto diretto con i veri burattinai del mondo delle toghe, che la corporazione difenderà con le unghie e i denti l’esistente e combatterà sempre ogni proposta di riforma, a partire da quella separazione delle carriere che è il grosso babau della casta. Quando si dice “combatterà” bisogna intendere con ogni strumento. Ricordi sempre quel che ha detto quel marpione di Luca Palamara: a un pm basta avere qualche poliziotto lesto e un amico cronista per distruggere qualunque politico. È vero che il ministro Nordio ha già mostrato molta disponibilità, dicendo che avvierà consultazioni di tutti i protagonisti del mondo della giustizia prima di avviare qualunque riforma. Ma, come dimostrano le situazioni di guerra, lo vediamo ogni giorno nello scenario tra Russia e Ucraina, è difficile trattare la pace se al tavolo qualcuno siede disarmato e altri con il coltello tra i denti. Non è un caso se, mentre la Repubblica insulta il ministro Nordio dandogli del maggiordomo e dichiarandosi “in attesa di conoscere il nome del vero ministro delle giustizia”, sulla Stampa, quotidiano gemello di quello delle dieci domande, il saggio Marcello Sorgi mette in guardia: “..sarà inevitabile che a Palazzo Chigi e dintorni si rifletta sul fatto che la mossa della Procura possa rappresentare un segnale”. Per li rami, da Delmastro a Nordio per arrivare a Meloni. Perché nessuno è immune, signora premier. E forse quella commissione d’inchiesta proposta ad alta voce da Forza Italia, e dai suoi sdegnata con fastidio, non è così inutile. La lasci fare oggi, per non piangere domani. C’è obbligatorietà dell’azione penale e c’è stupidità dell’azione politica di Maurizio Crippa Il Foglio, 18 febbraio 2023 Dopo il caso Cospito, il deputato di FdI Donzelli e il sottosegretario alla Giustizia Delmastro dovrebbero dimettersi, secondo voci autorevoli dell’opposizione. Ma perché non infilzarli in Aula, invece di passare per via giudiziaria? L’obbligatorietà dell’azione penale, istituto irriformabile come la gramigna e inestirpabile come i cavilli nei processi, produce a volte effetti esilaranti, soprattutto nella provincia dei tribunali annoiati di Piero Chiara. Come quando la procura di Imperia sfrigola d’eccitazione potendo aprire un fascicolo su Blanco. E nemmeno per suicidio come Tenco: per danneggiamento delle rose. Vedere però una procura importante, che ha un nome da difendere non fosse altro che quello sempiterno di Porto delle nebbie, doversi occupare di quisquilie come una fuga di notizie relativa a una notizia che nemmeno lo è mai stata, “diffusione limitata”; e vedere due pezzi da novanta del Terzo potere, il procuratore capo Francesco Lo Voi e il procuratore aggiunto Paolo Ielo, gente che per decenni ha fatto tremare rei e innocenti nelle inchieste di politica o di mafia, magistrati che hanno tenuto sul chi vive l’Italia, costretti ora a occuparsi di una obbligatorietà relativa ad Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia e al coinquilinato, e tutto per colpa di un garantista a fasi molto alterne come Angelo Bonelli, mette malinconia. Per come sono messe, la politica e i tribunali. È quasi più serio il Codacons. Lo Voi e Ielo, mitologie nell’Olimpo delle toghe, costretti insomma ad assistere per due ore i pm Rosalia Affinito e Gennaro Varone, e farsi quel che si sapeva già, “nessuna rivelazione, atto non secretato”. Somiglia a una pièce di Ionesco. Anche perché l’obbligatorietà di questa stanca e annoiata azione penale deriva da un esposto del capo dei Verdi, uno che però non ci ricordiamo avesse fatto chissà quali pressioni per ottenere risposte della magistratura quando in ballo c’era l’obbligatorietà di un’inchiesta che inzaccherava da vicino il suo caro Soumahoro. Disse che il ragazzo non andava di certo espulso, per un’indagine di provincia poi. Erano “un’alleanza che fa del garantismo un principio importante”. Ora il garantista a fasi lunari tuona: “Ora lui e Donzelli si dimettano”. C’è obbligatorietà dell’azione penale, e c’è stupidità dell’azione politica. Non parliamo di quella di Delmastro e dello sparuto Giovanni Donzelli, tanto è palese e inescusabile. Ma la stupidità politica di quelli come Bonelli, appunto, o del segretario che non se ne vuole andare, Enrico Letta: “Abbiamo da subito chiesto le dimissioni di Delmastro e Donzelli per la gravità politica e istituzionale del loro comportamento. Le parole di Nordio in Aula hanno aggravato la loro situazione. Le dimissioni sono l’unica via d’uscita a prescindere dalle decisioni dei magistrati”. A prescindere. Come Totò. Ma allora, evitando l’imbuto di una politica che si nasconde dietro le toghe e punta il ditino, evitando di disturbare Ielo e Lo Voi, perché non infilzarli in Aula, invece di chiedere le dimissioni per via giudiziaria? Col risultato che siccome l’inchiesta andrà più o meno in niente; e il ministro della zona grigia ha già fatto mezzo scudo, quando arriverà la richiesta d’archiviazione di un gip, e la condannuzza da sei mesi a tre anni, anzi “se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno”, sarà una cacchetta sulla giacca di Delmastro. E si potrà solo dire che questo modo provinciale di fare politica, questo modo codicillare di fare giustizia, annoierebbe persino a Imperia. La riforma Cartabia accentua per il pm il carattere di “accusatore” di Andrea Davola* Il Dubbio, 18 febbraio 2023 Pubblica accusa o organo di giustizia? Parte nel processo o garante della legalità? La natura del pubblico ministero è una vexata quaestio del dibattito giuridico, mai realmente conclusa. Nota è la definizione di parte imparziale, un bisticcio terminologico, come evidenziato anche dalla Cassazione. Il tema è di estrema rilevanza e di particolare attualità, essendo un nodo cruciale nella strada per la separazione delle carriere. I magistrati requirenti e la Anm propendono per il carattere dell’imparzialità. Al contrario, i penalisti italiani ritengono prevalente la natura di parte del pubblico ministero, a sostegno della necessità di costituire due distinti Csm, come ricordato da Giuseppe Benedetto nel saggio Non diamoci del tu. La nuova regola di giudizio per l’archiviazione e l’udienza preliminare, tra le più significative modifiche della riforma Cartabia, ha riacceso il dibattito sul punto. Già nel 2021, quando in Parlamento si approvava la legge delega, il Csm e il Procuratore Capo di Bologna, Giuseppe Amato, rilevavano che la prognosi di condanna attribuisse una inedita funzione di controllo al pm. Il vaglio più stringente sul bivio azione/ inazione sarebbe la nitida dimostrazione della natura super partes degli uffici di Procura, che non devono patire la chiusura delle indagini come una “sconfitta”. Ecco, allora, che sarebbero smontate tutte le tesi di coloro che domandano la separazione delle carriere. A giudizio di chi scrive, la novella in esame è indice dell’esatto contrario, perché, come si dirà, la nuova regola di giudizio avvicinerà molto il pubblico ministero italiano al public prosecutor degli ordinamenti di Common Law. Una premessa necessaria: il carattere di parte del pubblico ministero non può ovviamente emergere durante le indagini, quando la notizia di reato è ancora sfumata. È in dibattimento, dopo l’esercizio dell’azione, che prevarrà il carattere di “accusatore”. In tal senso, la riforma Cartabia ci fornisce un dato di nitida evidenza: il pubblico ministero eserciterà nel processo soltanto le funzioni d’accusa. Infatti, se ha agito ritenendo di avere elementi a sostegno di una prognosi di condanna, delle due l’una: o si giunge all’accertamento della responsabilità dell’imputato, o ha errato nelle sue valutazioni. Tertium non datur. Pertanto, il carattere di parte del requirente è accentuato dalla riforma, non ridotto. Non si trascuri, inoltre, il significativo condizionamento psicologico a cui potrebbe essere soggetto il giudice del dibattimento. Si troverà davanti a un fascicolo su cui il pm (e anche il Gup) si è già pronunciato in termini di probabile responsabilità penale. Ne consegue, allora, che le istanze per la separazione delle carriere siano ancor più fondate di prima. La riforma ha prodotto significativi effetti anche sull’azione penale. Non si dimentichi, infatti, che la Corte costituzionale ha dedotto dal principio dell’obbligatorietà il criterio del favor actionis (sent. 88/1991). In tal senso, l’art. 112 Cost. imporrebbe che l’azione sia esercitata ogni qualvolta manchi l’oggettiva infondatezza della notizia di reato. Questo elemento va letto in combinato disposto con la nuova regola per l’iscrizione della notitia criminis: il fatto deve essere determinato, non inverosimile e riconducibile ad una fattispecie incriminatrice. Si rende immediatamente percettibile il maggior ambito di valutazione di cui godrà il magistrato circa l’inizio delle indagini. L’azione penale obbligatoria, già oggetto di evidentissimi deficit di attuazione, potrebbe essere erosa ancor di più dalla riforma. In conclusione, emerge che la nuova regola di giudizio accentui il carattere di parte del pm e si allontani dalla stretta osservazione dell’obbligatorietà dell’azione. Vi è anche un dato empirico che appare schiacciante: l’evidential succiciency è il criterio fondamentale del pubblico ministero nord- americano, che va a dibattimento solo quando è certo della condanna. Infatti, i suoi progressi di carriera dipendono dal numero di “vittorie”. E allora, se così stanno i fatti, la strada non può che essere una: la separazione delle carriere. *Riercatore presso la Fondazione Luigi Einaudi e collaboratore presso lo Studio Avvocato Chiusano Delmastro ai pm: “Quelle carte non erano segrete”. Le opposizioni: “Deve dimettersi” di Paolo Comi Il Riformista, 18 febbraio 2023 I colloqui di Alfredo Cospito registrati dalla polizia penitenziaria lo scorso gennaio nel carcere di Sassari e trasmessi al Dap non erano “segreti”, secondo quanto previsto dalla normativa sul segreto di Stato del 2007, e non erano neppure coperti dal “segreto istruttorio”, secondo le disposizioni contenute invece nel codice penale. È stata questa la linea difensiva del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, interrogato ieri a Roma dal procuratore aggiunto Paolo Ielo dopo essere stato iscritto nel registro degli indagati per il reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio. Delmastro, assistito dall’avvocato Giuseppe Valentino, ha dunque ribadito quanto affermato fin da subito dal Guardasigilli Carlo Nordio che aveva escluso qualsiasi tipo di irregolarità, sottraendo l’accaduto alla normativa di riferimento che impone ai funzionari dello Stato l’obbligo del segreto relativamente a provvedimenti od operazioni amministrative ovvero a notizie di cui siano venuti a conoscenza a causa delle loro funzioni. La notizia da tenere segreta, in particolare, è non soltanto l’informazione sottratta all’accesso, ma anche, nell’ambito delle notizie accessibili, quell’informazione che non può essere data alle persone che non hanno il diritto di riceverla, in quanto non titolari dei prescritti requisiti. Al termine dell’interrogatorio, durato due ore, il sottosegretario ha lasciato Piazzale Clodio senza fare dichiarazioni ai giornalisti presenti. Nei prossimi giorni, da quanto si è appreso, depositerà ai pm una memoria esplicativa. La partita si giocherà tutta in punto di diritto. Premesso che Delmastro, in quanto sottosegretario a via Arenula era titolato ad acquisire la relazione del Dap, il tema sarà capire se il fine prettamente ‘politico’, dal momento che è stata poi utilizzata dal collega di partito Giovanni Donzelli per attaccare gli esponenti del Pd che erano andati a far visita a Cospito, sia legittimo o meno. Sulla vicenda il capogruppo alla Camera di Fd’I Tommaso Foti è passato al contrattacco: “Dobbiamo osservare che mentre Delmastro è indagato per aver rivelato un segreto d’ufficio, la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati l’abbiamo letta su un giornale: evidentemente qualcuno ancora una volta ha violato le regole del gioco e di giustizia”. Durissime, nei confronti del sottosegretario, anche ieri le opposizioni. “Non deve dimettersi perché indagato, ma perché è gravemente inopportuno che un sottosegretario dia delle carte riservate a un compagno di partito. Nordio, invece di mantenere una linea retta, gli ha coperto le spalle e l’indagine finirà in nulla”, il commento di Carlo Calenda. Dello stesso avviso anche Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione: “C’è un problema politico che, ogni giorno che passa, si estende, dalla figura del solo Delmastro, alla credibilità del Ministero della giustizia nel suo complesso che ha fornito spiegazioni tecnicamente fuorvianti”. “Dopo l’imbarazzante arrampicata sugli specchi del ministro Nordio - che ha confuso segreto di Stato con quello d’ufficio per costruire un alibi politico a Delmastro e Donzelli - gli chiedo di applicare almeno il principio di precauzione: tolga le deleghe al sottosegretario Delmastro”. Così in una nota il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli che aveva per primo denunciato il caso in Procura. Dimissioni immediate di Delmastro, infine, da parte del Pd, per una volta compatto da Elly Schlein a Stefano Bonaccini. Delmastro dai pm parla per due ore e nega tutto. Ma un segreto c’era di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 febbraio 2023 È durato due ore circa, ieri mattina, l’interrogatorio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove davanti ai sostituti procuratori Rosalia Affinito e Gennaro Varone, coordinati dall’aggiunto Paolo Ielo e dal capo della procura di Roma Francesco Lo Voi. Un lasso di tempo che lascia intuire come non sia stato affatto semplice, per l’esponente di Fratelli d’Italia, convincere gli inquirenti che sul “caso Cospito” alla Camera non vi sia stata alcuna rivelazione illecita e che l’atto passato brevi manu da Dalmastro al suo coinquilino, il vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli, non era secretato. Tanto deve essere stato complicato che - stando a quanto riportato all’uscita da Piazzale Clodio dal suo legale, l’avvocato Giuseppe Valentino, altro “camerata” di partito - il sottosegretario depositerà a breve in procura una sua memoria sulla vicenda. Dovrà ricostruire tutto il percorso di quegli atti contenenti le trascrizioni dei dialoghi intercorsi tra l’anarchico Alfredo Cospito e gli altri detenuti con i quali condivideva l’ora d’aria nel reparto 41 bis del carcere Bancali di Sassari. A partire dal modo in cui è riuscito ad ottenere quei documenti dal Dap, che li redige e li custodisce, fino all’approdo degli atti sugli spalti della Camera dove Donzelli il 31 gennaio li ha divulgati, rendendo vana la censura cui è finalizzato il regime speciale 41 bis e usando quelle frasi per attaccare i deputati dem che si erano recati il 12 gennaio in visita a Cospito, per verificarne le condizioni di salute dopo più di 80 giorni di sciopero della fame. Va precisato che il sottosegretario Delmastro presentò all’amministrazione penitenziaria una precisa richiesta di quegli atti il 29 gennaio, in quando non poteva riceverli automaticamente perché la sua delega al Dap è condivisa con il suo omologo leghista Andrea Ostellari, ma è quest’ultimo l’addetto alla “direzione generale dei detenuti e al loro trattamento”. Non solo: al manifesto risulta che Delmastro abbia dovuto insistere per ottenere quella relazione e che l’amministrazione penitenziaria abbia infine deciso di trasmettergliela ma avvisando contestualmente il capo Gabinetto del ministro Nordio. Viceversa invece, quel documento è stato negato al deputato di Alleanza Verdi e sinistra Angelo Bonelli che il 3 febbraio aveva chiesto “copia o visione delle relazioni inviate al Dap da parte del Gom riguardanti le conversazioni dei detenuti Presta, Di Maio, Rampulla e Cospito a decorrere dall’inizio dello sciopero della fame di quest’ultimo, nonché della scheda di sintesi del Nic relativa alle conversazioni succitate già a conoscenza dell’On. Giovanni Donzelli”. Il deputato verde aveva chiesto inoltre “se tali documenti possono essere divulgati pubblicamente dal sottoscritto” e “in caso di diniego”, “le motivazioni giuridiche”. In quattro pagine, il ministero della Giustizia ha risposto a Bonelli che le frasi citate da Donzelli erano state estratte dalla scheda di sintesi del Nic, il Nucleo investigativo della polizia penitenziaria, e che - ribadendo quanto detto più volte da Nordio - questa non “disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati”, e la sua trasmissione “esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classifiche di segretezza, disciplinate dalla legge 124/07”. Dunque: né segreto di Stato (che viene apposto solo dal Presidente del consiglio dei ministri con preciso atto formale) e neppure segreto investigativo o istruttorio. E infatti in questo caso si tratta di segreto d’ufficio: è su questo che i pm indagano Delmastro. “Ed è su questa ambiguità che ha giocato Nordio per costruire un alibi politico a Delmastro e Donzelli”, dice al manifesto Bonelli che sulla vicenda presentò subito un esposto in procura. “Incredibilmente però nella stessa risposta il ministero di Giustizia mi dà ragione - aggiunge il deputato verde - perché respinge la mia richiesta di accesso agli atti scrivendo “ai sensi degli artt. 22 e 24 della legge n. 241/1990”, che disciplina l’inaccessibilità degli atti riservati della Pubblica amministrazione, e “del D. M. 25 gennaio 1996 n. 115”, che riguarda la segretezza degli atti del Dap. Dunque a me, anche in qualità di deputato, è stato negato l’accesso a quei documenti che sono stati dati a Donzelli”. Unico contentino, la trascrizione delle parole riportate dal vicepresidente del Copasir in Aula, rintracciabili ovviamente anche nello stenografico della Camera, ma trasmesse a Bonelli come “informazioni estratte dalle pagg. 49, 53 e 54 della indicata scheda Nic”. Bonelli, come anche tutta l’opposizione, chiede al ministro Nordio di revocare la delega al Dap al sottosegretario Dalmastro, “almeno per il principio di precauzione, in attesa degli esiti dell’inchiesta”. Intanto mercoledì prossimo è convocata la prima seduta del Giurì d’onore presieduta dal vicepresidente della Camera Sergio Costa (M5S): saranno auditi dapprima i deputati del Pd Debora Serracchiani, Silvio Lai ed Andrea Orlando, che visitarono Cospito, e poi Giovanni Donzelli. La linea della fermezza di FdI su Delmastro dà segni di cedimento di Giulia Merlo Il Domani, 18 febbraio 2023 La linea di Meloni rimane quella della difesa a oltranza del suo fedelissimo, tuttavia si fa strada l’ipotesi di cambiare strada se dall’inchiesta emergessero altre responsabilità. Delmastro ha garantito alla premier di non aver commesso alcun reato e lo stesso avrebbe ribadito ai magistrati, rispondendo a tutte le domande e spiegando di non aver rivelato nulla di vietato perché l’atto non era segreto. Meloni è decisa a continuare sulla linea dura contro gli anarchici: nessuna dimissione di Donzelli, è in corso attacco in corso allo Stato, che non intende cedere ai terroristi. La parola d’ordine tra i ranghi di Fratelli d’Italia è cautela. La fase è delicata su molti fronti e quello della giustizia lo è doppiamente. Il caso Cospito, l’anarchico in sciopero della fame contro il 41 bis, è un problema sia per il governo, con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio che rischia di essere smentito dalla magistratura, che per il partito di maggioranza. Non è stata una sorpresa perché la voce era già arrivata a palazzo Chigi, tuttavia la notizia dell’iscrizione del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, nel registro degli indagati dalla procura di Roma non è stata indolore. Il fedelissimo di Meloni è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio per aver dato al compagno di partito, Giovanni Donzelli, relazione del Dap su Cospito e ieri è stato ascoltato per due ore dai pm, alla presenza del suo avvocato, il penalista romano Giuseppe Valentino (candidato forte e poi ritirato per il posto di vicepresidente del Csm in quota FdI). Delmastro ha garantito alla premier di non aver commesso alcun reato e lo stesso avrebbe ribadito ai magistrati, rispondendo a tutte le domande e spiegando di non aver rivelato nulla di vietato perché l’atto non era segreto. L’obiettivo degli inquirenti è quello di mettere a fuoco anche se Delmastro avesse diritto a ricevere quegli atti dal Dap.La prossima settimana la sua difesa depositerà anche una memoria, per confutare l’ipotesi accusatoria secondo cui Delmastro avrebbe rivelato un segreto amministrativo, perchè l’atto del Dap era a divulgazione limitata e conoscibile solo ai pubblici ufficiali che, nell’esercizio della loro funzione, potevano avervi accesso. I primi distinguo - Il sottosegretario continua a godere della protezione politica di Meloni, che ha dettato una linea chiara: la posizione non cambia, nè sul 41 bis a Cospito, nè sulla posizione di Delmastro, che non deve dimettersi. A puntellarla, del resto, è stato messo il ministro Nordio, che in aula alla Camera ha ribadito che l’atto divulgato non era classificato nè segreto. La posizione è granitica e formalmente unica, tuttavia si è scelto che l’unico ad intervenire sia il capogruppo alla Camera, Tommaso Foti. L’ordine viene rispettato alla lettera dai deputati di FdI: l’obiettivo è evitare qualsiasi sbavatura su una vicenda già complessa, che viene gestita ai piani alti di via della Scrofa. Tuttavia, accanto al blocco compatto dei vertici di FdI non è passato inosservato il silenzio dal fronte della Lega e di Forza Italia. L’unica difesa d’ufficio è arrivata da FI, che ha ribadito come un politico non debba dimettersi a causa di un’indagine a suo carico. Nulla più, però: la tensione è ancora alta per il no di FdI ad una commissione d’inchiesta sulla magistratura dopo l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter. Sotto promessa di anonimato, il parere diffuso tra gli alleati è che l’imbarazzo per il comportamento di Delmastro sia fortissimo, anche dentro FdI. A testimoniarlo, anche il racconto di un incontro molto teso tra Delmastro e Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio ed ex magistrato. Umbria. Tempi lunghi e disagi: i problemi in carcere e le ricette delle Camere penali di Egle Priolo Il Messaggero, 18 febbraio 2023 Sovraffollamento, spazi lesivi nella dignità dei detenuti, ma anche personale medico sotto organico e soprattutto il paradosso di tempi troppo lunghi per le scarcerazioni anticipate. Sono alcuni dei disagi vissuti nelle carceri, come emerso dalle visite itineranti negli istituti penitenziari di Perugia, Terni e Spoleto promosse dalle Camere penali umbre insieme all’associazione Nessuno tocchi Caino. Visite effettuate in settimana i cui risultati sono confluiti nell’interessante dibattito “Carcere: luogo di privazione non solo della libertà”, organizzato in Provincia e moderato dal presidente della Camera penale Marco Angelini. Conferenza a cui hanno partecipato Rita Bernardini e Sergio D’Elia (presidente e segretario di Nessuno tocchi Caino), Antonio Minchella (presidente del tribunale di sorveglianza di Perugia), Stefania Sartarelli (docente di diritto penale dell’Università di Perugia), il garante regionale dei detenuti Giuseppe Caforio insieme ad Alberto Catalano e Vincenzo Bochicchio (segretario e past president della Camera penale di Perugia) e a Bernardina Di Mario, direttore del carcere di Capanne. Nel corso degli interventi di grande livello sono stati sollevati problemi pratici, come la necessità (spesso dimenticata) che il Comune dia la residenza ai detenuti perché ottengano l’affidamento in prova o alle comunità o il disagio vissuto da molti detenuti a cui il sistema risponde ancora con un numero inadeguato di medici, psicologi o psichiatri: tutte realtà effettive che creano tensione, come dimostrato dai recenti fatti di cronaca culminati anche con aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria. Uno dei problemi più attuali - come confermato da molti relatori - sono i tempi lunghi delle liberazioni anticipate, con il presidente Minchella, sempre propositivo, che ha ribadito l’impegno dei suoi uffici a velocizzare le pratiche nonostante i problemi di organico anche nelle cancellerie. La presidente Bernardini ha ribadito la necessità di tutelare chi è ristretto in carcere, dal punto di vista fisico e morale, come previsto dalla Costituzione, perché se la pena è legittima la sua esecuzione deve essere altrettanto conforme alle leggi e alle convenzioni internazionali, a partire dalle cure a chi ne ha bisogno. Interessante il ragionamento condiviso da tutti i presenti sui costi del sistema carcerario e delle recidive: costo molto più alto rispetto alla realizzazione di benefici come i percorsi di lavoro. Benefici che facilitano il reinserimento e che appunto evitano che chi li ottiene torni a delinquere: un doppio risparmio per la società. Da qui la proposta di puntare a misure alternative, sanzioni sostitutive, affidamento ai servizi sociali e lavori socialmente utili, che - è stato detto - offrono un recupero superiore rispetto al detenuto che sconta la sua pena in carcere. Una conferenza che il presidente Angelini ha definito utile e importante per i diritti dei detenuti e dopo la quale, pur mantenendo lo stato di agitazione e il ruolo “di pungolo nei confronti del tribunale di sorveglianza, ma per aiutare e concorrere a risolvere problematiche di personale e organizzative”, la Camera penale tornerà a Capanne in autunno per monitorare l’evolversi della situazione. Mentre in Parlamento si discute la proposta di disporre la liberazione anticipata su relazione del direttore del carcere e poi, in caso di diniego, valutata dal tribunale di sorveglianza. Un progetto per alleggerire molto il lavoro dei magistrati e per dare l’idea ai detenuti che una buona condotta può portare al beneficio, limitando le tensioni e i casi di violenza. Insomma, un circolo virtuoso - si è concluso - in cui si lavori tutti insieme per la sicurezza e la dignità delle persone, anche se dietro le sbarre. Sassari. Detenuto morto, la senatrice Ilaria Cucchi: “Non chiare le cause del decesso” L’Unione Sarda, 18 febbraio 2023 L’episodio nell’ottobre scorso: “Procedere con l’autopsia, per la famiglia non è stato un suicidio”. Era l’ottobre del 2022 quando al carcere oristanese di Massama un detenuto è stato trovato morto. Un caso sul quale ora interviene la senatrice Ilaria Cucchi (Sinistra Italiana). “Oggi nel nostro Paese in carcere si muore ancora così - scrive su Facebook -. Mi è pervenuta segnalazione e relativa richiesta di intervento circa il decesso del signor Stefano Dal Corso, deceduto il 12 ottobre 2022 nel carcere di Casa Massama, Oristano. In base agli elementi che mi sono stati consegnati, e che sono anche all’attenzione degli uffici competenti, mi chiedo per quale motivo si sia ritenuto di non dover procedere con l’esame autoptico sul corpo di Stefano Dal Corso. Risulterebbe, da quanto mi viene segnalato, che le cause del decesso non appaiono chiare. La famiglia non crede nel suicidio in quanto il detenuto Stefano Dal Corso, al quale mancavano pochi mesi per concludere la pena, parlava di futuro con loro proprio qualche giorno prima del decesso”. “Sarebbe a mio avviso opportuno, anzi doveroso - aggiunge Cucchi -, mettere in essere tutte le iniziative per dare risposta ai legittimi dubbi che questo caso solleva. Va fatta l’autopsia, a garanzia di tutti. O forse qualcuno ritiene che non ne valga la pena per quel detenuto?”. Benevento. Detenuto morto, due medici a giudizio: il giudice dispone una perizia di Enzo Spiezia ottopagine.it, 18 febbraio 2023 Una perizia che serva a superare le opposte conclusioni alle quali sono giunte le consulenze del Pm, della parte civile e le due della difesa. L’ha disposta il giudice Fallarino, che il 3 marzo affiderà l’incarico, nel processo a carico dei due sanitari (avvocati Vincenzo Regardi e Fabio Russo), due medici che, operando presso la casa circondariale di contrada Capodimonte in base a una convenzione con l’Asl, sono stati chiamati in causa nell’indagine sulla morte di un detenuto, Agostino Taddeo, 59 anni, già noto alle forze dell’ordine, avvenuta il 13 ottobre del 2016 al Rummo. Taddeo stava scontando una condanna a tre anni, diventata definitiva, che gli era stata inflitta per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Accusava dolori nella zona sinistra del torace ed intercostali che aumentavano con il respiro, il 6 ottobre era stato trasportato in ambulanza al Rummo, dove era stato sottoposto ad alcuni accertamenti e gli era stata praticata un’angioplastica coronarica per un infarto del miocardio. Era stato successivamente ricoverato nel reparto di rianimazione, dove, a distanza di alcuni giorni, il suo cuore si era fermato per sempre. La salma era stata sequestrata all’epoca su ordine del pm Iolanda Gaudino, titolare di un’indagine inizialmente contro ignoti. Il medico legale, la dottoressa Monica Fonzo, aveva eseguito l’autopsia, ravvisando elementi di presunta responsabilità a carico dei dottori in servizio presso il carcere e non di quelli del Rummo. Tre i professionisti tirati in ballo inizialmente per aver visitato Taddeo dal 3 al 5 ottobre, nel mirino degli inquirenti presunte condotte colpose: non avrebbero diagnosticato in tempo, né avrebbero ordinato il suo trasferimento d’urgenza in ospedale, il problema che affliggeva l’uomo. Uno dei medici era stato assolto nel gennaio del 2020, per non aver commesso il fatto, al termine di un rito abbreviato, mentre gli altri due erano stati spediti a giudizio. Per i familiari della vittima, parti civili, gli avvocati Vincenzo Sguera e Luca Russo. Brescia. Canton Mombello: scatta la protesta “responsabile” elivebrescia.tv, 18 febbraio 2023 Un allarme che non suona come nuovo quello lanciato questa mattina dal garante dei detenuti in merito al sovraffollamento e alle cattive condizioni per quanto riguarda la qualità della vità a Canton Mombello. Dicevamo non nuovo perché il garante lo aveva già messo nero su bianco nel 2019, ma a distanza di tre anni e di una pandemia nulla è cambiato se non in peggio. Perciò sono proprio i detenuti a lanciare uno sciopero, una protesta interna che però sia pacifica e non vada a ledere alcun diritto. La loro volontà, espressa in una lunga lettera aperta, è quella di far sentire la loro voce all’esterno del carcere. Hanno deciso di chiamarla “Mir”, Manifestiamo insieme responsabilmente. Ma non è semplice protestare in cella senza creare scompiglio. Quindi come fare? “Abbiamo deciso di sperimentare una forma di manifestazione alternativa del nostro disagio, una manifestazione consistente nel rifiuto consapevole dei mezzi che tradizionalmente i detenuti sono costretti a usare per far parlare di loro - scrivono - Non faremo nulla di irresponsabile qui dentro ma chiediamo fortemente di essere ascoltati e considerati”. La tematica indubbiamente più pressante è quella del sovraffollamento che per chi lo vive non è solo una problematica relativa ai metri quadrati disponibili. Va ben oltre abbracciando la speranza per la mancanza del persona educativo, la sanità che non può raggiungere tutti al momento del bisogno, la famiglia con la difficile gestione dei contatti e l’impossibilità o quasi di lavorare. Secondo i detenuti mancano però anche le forniture di beni igienici e di pulizia che il carcere non riesce a sostenere per tutti. “Non chiediamo di evitare la nostra pena - la richiesta finale - ma urliamo a gran voce che vogliamo scontarla con dignità e con la possibilità di tornare non solo liberi ma migliori”. Novara. Protocollo d’intesa con il Comune per il reinserimento spociale dei detenuti di Luca Mattioli avocedinovara.com, 18 febbraio 2023 Ieri mattina la firma nell’aula consiliare di Palazzo Cabrino. Previsto ancora una volta l’utilizzo di una decina di reclusi per la realizzazione di percorsi di inclusione sociale a supporto di Assa e Atc. Con la firma avvenuta stamattina, venerdì 17 febbraio, nell’aula consiliare di Palazzo Cabrino, è stato rinnovato il protocollo d’intesa fra il Comune e tutti i soggetti coinvolti nel progetto per la realizzazione di percorsi di inclusione sociale dedicati al recupero del patrimonio ambientale, del decoro urbano, ma anche dell’edilizia sociale attraverso l’utilizzo di una decina di “ospiti” della casa circondariale di via Sforzesca. “Un progetto già conosciuto che si era purtroppo interrotto - ha esordito il sindaco Alessandro Canelli - Sono bastate un paio di riunioni per rimetterci d’accordo per dare continuità a un’attività che reputo molto importante, perché da una parte va in una direzione della finalità di recupero di coloro i quali sono detenuti e dall’altro offre una grande mano alla città. Grazie a questo protocollo molto spesso abbiamo ottenuto risultati straordinari anche nelle scuole”. “La città di Novara - ha aggiunto la direttrice del carcere Rosalia Marino - è stata quella che ha avviato questo progetto quasi vent’anni fa. Con il territorio c’è sempre stata collaborazione. E’ logico che poi questo progetto sia andato affinandosi. Per noi è importantissimo perché ha una duplice valenza: dare un significato a quella che è la pena come rieducazione e restituzione sociale offrendo un beneficio al territorio ma anche allo stesso personale di Polizia penitenziaria”. La “scelta” di questa opportunità che viene offerta ai detenuti avviene dopo un’accurata selezione e, soprattutto, il via libera da parte del magistrato sorveglianza. Ruolo ricoperto da Marta Criscuolo, che ha voluto ricordare come il progetto, “partito nell’ambito circoscritto al recupero del patrimonio ambientale, ora si estende anche al settore dell’edilizia sociale con l’Atc, impiegando i detenuti in tutte le opere di manutenzione di questi alloggi, ma anche interventi di sgombero e pulizia. Lavori tutti utili alla collettività e che consentono ai soggetti coinvolti di avere a disposizione forza lavoro”. Ancora per il Comune l’assessore Luca Piantanida è ritornato sul “grande valore sociale del progetto, proprio per dar modo ai detenuti di potersi in qualche modo “riscattare”. Da qui il coinvolgimento dell’Atc, perché in questo momento storico abbiamo bisogno di appartamenti. I detenuti con le loro capacità e professionalità possono veramente fare la differenza e aiutare nella sistemazione degli alloggi in tempi più brevi e consentire di poterli assegnare a chi ne ha diritto”. Un “grazie” è giunto dalle due aziende coinvolte, l’Atc Piemonte Nord, rappresentata dal suo presidente Marco Marchioni, e Assa, con il suo direttore Alessandro Battaglino: “Un protocollo che si applica nel nostro piano di operatività - ha detto il primo - Gestiamo per conto di Regione e Comuni alloggi per i nuclei familiari in difficoltà; questo ulteriore passaggio ci aiuta a intervenire in favore di un reinserimento sociale di soggetti che si trovano quasi a fine pena con una qualifica lavorativa che potranno sfruttare un domani. Si innesca un circolo virtuoso che può essere esportato anche in altre realtà”. “Novara ha una grande peculiarità - ha concluso Battaglino - Quella di avere una grande attenzione per il verde e il decoro urbano. L’impiego dei detenuti in quest’ambito aiuta a migliorare la qualità cittadina. Dopo averla già sperimentata negli scorsi anni stiamo cominciando a guardare al futuro, mettendo in condizione queste persone non solo di poter mantenere quelle professionalità che li aiuteranno a un reinserimento successivo”. Infine qualche dato. I detenuti coinvolti saranno una decina, con la previsione di un’attività da svolgersi a cadenza settimanale. Nel periodo 2014-’15 sono state coperte 350 giornate - uomo che hanno coinvolto complessivamente 57 soggetti; cifre poi salite - negli anni pre Covid (sino quindi al 2019) c’è stato un ampliamento della gamma di interventi per mille giornate - uomo e la partecipazione di 140 detenuti. Rimini. Il carcere “modello” di impegno per prevenire la recidiva. Firmato il protocollo di Kristian Gianfreda sanmarinortv.sm, 18 febbraio 2023 Carcere di Rimini come “modello” di impegno per prevenire la recidiva tra i detenuti. Firmato in Comune il Protocollo per la “giustizia riparativa”. Il percorso, come sottolineato nel corso dell’incontro con la stampa, da Comune, Casa circondariale, Centro giustizia minorile Emilia-Romagna e Marche, Ufficio di esecuzione penale esterna di Forlì-Cesena, e cooperativa sociale ‘L’Ovile’ di Reggio Emilia, rientra in “un percorso già avviato di attenzione e cura verso i detenuti”. Dopo la formazione degli operatori, lo sportello, il cui percorso informalmente è già avviato, lavorerà all’organizzazione di un incontro che con l’aiuto di mediatori e contribuirà ad una sorta di “riparazione”: dalla dichiarazione di scuse a un risarcimento monetario, qualora il tribunale in sede civile non abbia già provveduto. “Quello siglato - sottolinea Palma Mercurio, direttrice de “I Casetti” - è il primo protocollo sulla giustizia riparativa in Regione, inaugurerà un percorso che va oltre la logica del castigo, necessita di preparazione e consapevolezza”. Ricordata, nell’occasione, la carenza di personale per la struttura: quattro assistenti sociali, di cui uno in malattia, seguono 776 persone. Ed anche la Polizia Penitenziaria è sotto organico di almeno 30 unità. “L’arrivo della nuova direttrice - ha detto l’assessore Kristian Gianfreda - è un canale indispensabile per affrontare questi problemi che purtroppo non sono nuovi”. “La recidiva, spiega Valerio Maramotti, si riduce se ai detenuti in misura alternativa si offre un percorso rieducativo legato al lavoro”. Lo sottolinea il presidente della cooperativa sociale L’Ovile, che accoglie persone in esecuzione penale alternativa offrendo reinserimento lavorativo, che riduce la recidiva, senza però colmare la frattura di un danno non riparato per la vittima e la società. Pestaggi e torture. 2001 e 2020 di Lorenzo Guadagnucci omune-info.net, 18 febbraio 2023 Che impressione, leggere “Pestaggio di Stato” di Nello Trocchia (editore Laterza) avendo in mente la notte della Diaz e le inchieste, i processi seguiti alle violenze di stato al G8 genovese del 2001. Quante storie familiari, quante sinistre somiglianze. La scena del libro di Trocchia è nota: carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua a Vetere, 6 aprile 2020. Un reparto speciale di polizia penitenziaria interviene - ufficialmente - per sedare una violenta rivolta dei detenuti, originata dalle proteste contro le misure prese dalla direzione per “limitare” il rischio di diffusione del contagio da coronavirus. In realtà nel carcere non c’è alcuna rivolta in corso e l’intervento può essere tranquillamente classificato come una spedizione punitiva. È la prima assonanza con la notte della Diaz: il blitz nel 2001 fu giustificato con la necessità di arrestare fantomatici teppisti appartenenti al Black Bloc e si disse che gli occupanti della scuola si opposero con violenza alla perquisizione, obbligando gli agenti a reagire, ma erano false l’una e l’altra affermazione; si trattò, né più né meno, di una spedizione punitiva, appunto, chiusa con 93 arresti privi di qualsivoglia fondamento giuridico. Nel 2020 le prime notizie di quanto avvenuto in carcere furono diffuse, via social, da familiari dei detenuti e riprese dai locali Garanti delle persone private della libertà; Nello Trocchia, sul quotidiano “Domani”, fu il primo a scriverne, uno scoop corroborato da testimonianze confidenziali. Scoop nello scoop, tempo dopo, la rivelazione dei filmati ripresi dalle telecamere interne, provvidenzialmente sequestrate dal magistrato prima che qualcuno si ricordasse di cancellare le registrazioni. I filmati - inequivocabili - confermano le violenze denunciate dai detenuti ai loro familiari: l’intervento dei 283 agenti di polizia penitenziaria è una spedizione punitiva in piena regola, fatta di “colluttazioni unilaterali”, per citare la descrizione delle violenze alla Diaz offerta da uno dei comandanti del reparto entrato per primo nella scuola genovese, ma anche evocativa delle violenze praticate e del terrore istituito nel 2001 nella caserma di polizia di Bolzaneto. Alcuni filmati di Santa Maria Capua a Vetere, per esempio quelli in cui si vedono i detenuti, in un lungo corridoio, passare fra due file di agenti per essere umiliati, insultati e colpiti con manganelli, pugni, sputi, calci, potrebbero essere sovrapposti alla lettura delle testimonianze dei torturati di Bolzaneto e difficilmente ci si accorgerebbe che immagini e letture si riferiscono a luoghi e tempi diversi. A Bolzaneto questa tecnica di pestaggio era chiamata dagli agenti “Comitato di accoglienza”. La reale natura dell’intervento nel carcere “Francesco Uccella” è stata coperta, come a Genova, con omissioni, allusioni e palesi menzogne; non sono mancati, nemmeno a Santa Maria Capua a Vetere, dettagli quasi surreali. Se alla Diaz abbiamo avuto l’agente accoltellato con arresto del coltello ma non dell’accoltellatore, misteriosamente sfuggito alla cattura (era tutto falso, ovviamente), e le bombe molotov possedute collettivamente da 93 persone, ma in realtà introdotte nella scuola dalla stessa polizia; nel caso del carcere campano si è detto che i detenuti in rivolta avevano preparato olio bollente (!) da lanciare sugli agenti… Più o meno come in certe vignette della Settimana enigmistica. La storia raccontata da Nello Trocchia è dettagliata e angosciante: un detenuto, Lamine Hakimi, è morto nemmeno trentenne un mese dopo la “spedizione” in una cella d’isolamento; un decesso, scrive Trocchia, tutto da chiarire, “originato dall’assunzione di un mix di oppiacei, su un corpo violato, su una mente labile, su un ragazzo schernito e umiliato. Ma come fa un detenuto in isolamento a morire per un mix di oppiacei?”, si chiede il giornalista, lasciando ai giudici il compito di accertare fatti ed eventuali responsabilità sul tragico episodio. La vicenda di Santa Maria Capua a Vetere è gravissima e riguarda l’intera collettività. Tali e tanti sono stati gli abusi, tali e tante le falsità, che le vicende raccontate in Pestaggio di Stato sono da considerare un attentato allo stato di diritto, al principio di dignità della persona, alla credibilità delle forze dell’ordine e per estensione delle stesse istituzioni democratiche. Sui fatti avvenuti il 6 aprile 2020 è in corso un processo con 105 agenti imputati, accusati a vario titolo di una serie di reati, dal falso alle lesioni, dalla calunnia al crimine principe di questa fattispecie, la tortura, punita dal nostro ordinamento solo dal 2017. Toccherà alla Corte d’assise ricostruire i fatti e valutare le singole responsabilità, ma già incombono dei rischi, ossia la “improcedibilità” prevista dalla riforma Cartabia (massimo due anni per celebrare il processo di appello, quando a Napoli la media attuale è di quattro anni) e anche la prescrizione, visto che la legge del 2017 - lo fa notare Enrico Zucca, pm nel processo Diaz, citato da Trocchia - non accolse il principio della imprescrittibilità della tortura, per quanto richiesto dalle convenzioni internazionali. Vedremo come andrà a finire. Intanto, a noi, da cittadini che abbiamo visto o conosciamo i fatti di Genova del 2001, e quindi non dimentichiamo i precedenti, restano le domande più inquietanti. Ci chiediamo: come si trasmettono fra gli agenti le conoscenze sulle pratiche di pestaggio e tortura, visto che si ripetono tali e quali a vent’anni di distanza? Che tipo di lezione hanno appreso le nostre forze dell’ordine dopo i documentati disastri - cioè una lunga serie di abusi intollerabili - avvenuti nel 2001? Perché il falso e la menzogna, anche negli atti ufficiali, accompagnano regolarmente gli errori e gli abusi che arrivano alla conoscenza dell’opinione pubblica? Perché alle denunce iniziali non è seguita una seria iniziativa culturale e politica per pretendere trasparenza? Perché lo Stato non avvia un’operazione di verifica dello stato di salute democratica - nella formazione, nella cultura professionale, nel rapporto col resto della società - delle nostre forze dell’ordine? L’eredità di Lidia Poet è la forza di lottare per il diritto all’uguaglianza di Giulia Merlo Il Domani, 18 febbraio 2023 Il libro “Lidia e le altre” di Chiara Viale ripercorre la storia della prima avvocata italiana, Lidia Poet, e della battaglia per arrivare a indossare la toga in un paese in cui la giustizia non era per le donne. La storia di Lidia Poet, la prima donna avvocato nella Torino a cavallo tra Otto e Novecento, è stata per troppo tempo patrimonio quasi esclusivo dell’avvocatura. La lotta della prima avvocata, che affrontò e superò gli ostacoli che le impedivano in quanto donna di esercitare la professione, oggi diventa storia collettiva di tutte le donne grazie alla riscoperta della sua figura. Dal 15 febbraio, infatti, è in onda su Netflix una miniserie che racconta la sua vita e le sue battaglie, mentre in libreria è arrivato il volume Lidia e le altre, pari opportunità ieri e oggi: l’eredità di Lidia Poet, edito da Guerini e scritto da Chiara Viale con la presentazione dell’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine”. E anzi, sarebbe stato “disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano”, scrissero i giudici della Corte d’Appello di Torino, quando nel novembre 1883 cancellarono dall’albo degli avvocati di Torino la prima donna iscritta. Lidia Poet si era laureata nel 1881 a pieni voti alla facoltà di giurisprudenza di Torino, con una tesi sulla condizione femminile in Italia e sul diritto di voto per le donne. Poi si era iscritta alla pratica forense, aveva superato l’esame di procuratore legale e, come tutti i suoi colleghi uomini, aveva inoltrato la richiesta di iscrizione all’ordine. Nessuna giustificazione: la legge nulla diceva sul genere e non prevedeva espliciti divieti alle donne. La sua fu la prima domanda di una donna e anche solo l’idea che una donna volesse iscriversi all’albo suscitò polemiche nel mondo giuridico torinese. Alla fine Poet venne iscritta dopo un voto a maggioranza - Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, recitava un brocardo latino - ma la sua presenza suscitò scandalo nei tribunali sabaudi. Tanto che fu un magistrato, il procuratore generale del re, a decidere di opporsi alla presenza di una donna in toga nelle aule giudiziarie, che pretendeva di confrontarsi con lui alla pari. Denunciò l’anomalia in corte d’appello, Poet si difese ma le ragioni del procuratore vennero accolte e decise che quello di avvocato fosse da considerarsi un ufficio pubblico e, in quanto tale, la legge vietava espressamente che una donna potesse ricoprirlo. La presenza di una donna al banco della difesa avrebbe compromesso “la serietà dei giudizi e gettato discredito sulla magistratura stessa” perché, se l’avvocata avesse vinto la causa, le malelingue avrebbero potuto malignare che la vittoria sarebbe stata dovuta “alla leggiadria dell’avvocatessa più che alla sua bravura”, era scritto nella motivazione. Poet arrivò fino al giudizio di Cassazione, che confermò la sentenza d’appello. Lei, pur senza toga, continuò comunque a esercitare la professione anche senza il titolo formale di avvocato: pur non potendo patrocinare, rimase a lavorare nello studio legale del fratello Enrico, partecipò al primo Congresso Penitenziario Internazionale a Roma e nel 1890 venne invitata come delegata a San Pietroburgo, alla quarta edizione del Congresso. Per i 37 anni successivi alla cancellazione dall’albo, continuò di fatto il suo lavoro, specializzandosi nella tutela diritti dei minori e delle donne. Alla fine, dopo molti anni, ottenne anche ragione giuridica: con la legge Sacchi, approvata nel 1919, le donne furono autorizzate ad entrare nei pubblici uffici, ad esclusione della magistratura, della politica e dei ruoli militari. Così, nel 1920, Lidia Poet ripresentò domanda di iscrizione all’ordine degli avvocati e, a 65 anni e dopo una carriera alle spalle, potè finalmente tornare ad indossare la toga e ad usare il titolo di avvocato. Prima di morire, a 94 anni nel 1949, fece in tempo a vedere avverato anche il suo altro sogno: la conquista del voto femminile. Poet, infatti, fu anche presidente del comitato italiano pro voto per le donne e nel 1946 votò alle prime elezioni a suffrago universale. Il libro di Viale - Il libro di Chiara Viale non è solo il racconto della vita eccezionale di una donna che hanno lottato per la parità dei diritti. Viale, anche lei avvocata, infatti ha compiuto un minuzioso lavoro di ricerca degli atti che permettono di ricostruire non solo le vicessitudini processuali di Poet, ma anche frammenti della sua vita. Il più significativo è forse l’ultimo episodio noto della vita di Poet, raccontato da un’altra avvocata. Pochi mesi prima di morire, vecchia e malata, lei è in prima fila in Corte d’Assise a Torino ad assistere all’udienza che vede per la prima volta all’opera una penalista donna: è Lina Furlan che difende proprio una donna. Alla lettura del dispositivo con cui la cliente viene assolta, “ormai minuta e fragile, Lidia va verso di lei e la abbraccia, con un gesto liberatorio per entrambe”. Proprio questo è il gesto che Viale prende ad esempio per contenere tutto l’insegnamento di Poet, che ha combattuto una battaglia non solo per sè, per vedere riconosciuto quello che lei ritiene un suo diritto e, perchè no, anche ricompensata la sua ambizione. Lei ha combattuto per tutte le donne e tutte le avvocate venute dopo di lei. La forza di Poet, infatti, sta nella sua caparbietà di andare avanti nonostante le sconfitte, fino ad ottenere la definitiva vittoria di quel principio di uguaglianza - nella professione e nella politica - che è stata la battaglia della sua vita. Viaggio tra i 96mila invisibili che sopravvivono in mezzo a noi di Jacopo Storni Corriere della Sera, 18 febbraio 2023 Nel 2022 le persone senza fissa dimora decedute in Italia sono state 393, più di una persona al giorno, con un incremento del 55% rispetto al 2021 e dell’83% rispetto al 2020. Ci passiamo accanto tutti i giorni, ma fatichiamo a vederli davvero. Si chiamano invisibili ma sono dappertutto: lungo i marciapiedi, nelle stazioni, nei sottopassaggi, sotto i portici delle nostre città. Si avvolgono dentro cartoni, coperte, tende. E sopravvivono così, giorno dopo giorno, spesso in condizioni estreme, al freddo, in condizioni igieniche precarie, afflitti da malattie. A volte non resistono e si spengono lentamente, fino a morire. Nel 2022 le persone senza fissa dimora decedute in Italia sono state 393, più di una persona al giorno, con un incremento del 55% rispetto al 2021 e dell’83% rispetto al 2020. E’ il bilancio più pesante degli ultimi tre anni. Numeri impietosi, presentati dalla Fiopsd, la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora. I senzatetto non muoiono soltanto d’inverno, anzi. Le morti avvenute in estate sono state 109, mentre sono state 101 in autunno, 86 in inverno e 97 in primavera. Le citta? con il maggior numero di decessi sono Roma (32) e Milano (21), ma dati allarmanti provengono anche da Napoli, Firenze, Genova e Bologna. Ogni numero è una storia, ogni cifra una vita. A raccontarle sono le testimonianze degli operatori di strada raccolte dalla Fiopsd: “Un uomo di 51 anni è stato trovato a terra nelle vicinanze dell’ambulatorio. Era un dipendente di una grande azienda del territorio e da qualche tempo viveva per strada”. E poi:”“G., 19 anni, è stato trovato in coma in un parco. Overdose. Era stato allontanato da casa e aveva il divieto di avvicinarsi ai genitori”; “S., 57 anni, di origini siciliane, è stato trovato nelle acque del fiume Reno. Era noto per i suoi dipinti ed era stato premiato dall’Accademia di Belle Arti. Si è suicidato gettandosi da un ponte. Gli era stato assegnato un alloggio Erp”; “A ., 44 anni, teramana, è stata trovata asfissiata dal monossido di carbonio esalato da un braciere di fortuna, che aveva acceso per difendersi dal freddo dentro una sistemazione di fortuna”; “M. bulgara di 67 anni è stata trovata morta in una piazza di Roma. Era accampata lì con la figlia e il figlio”. Persone malate a livello fisico e psichico, senza legami familiari o che condividono la condizione di grave marginalità con figli e compagni, persone dipendenti da sostanze, che entrano ed escono dal carcere, talvolta persone con un lavoro ma che per estrema necessità si sono trovate a vivere, e a morire, in strada. E’ proprio la strada il luogo in cui sono stati ritrovati i corpi spezzati della gran parte, circa il 30%, delle persone decedute nel 2022; ma i decessi sono avvenuti anche in stazione (10%), lungo corsi d’acqua (8%), in edifici e aree dismesse (7%), in ospedale (6%), in carcere (4%) e in rifugi di fortuna (3%). La grande maggioranza delle persone decedute nel 2022 erano uomini (91%) e una piccolissima quota comprende anche persone transgender (1%). Muoiono persone di ogni età, dai giovani sotto i 30 anni, che rappresentano il 15% del totale, alle persone over 70, pari all’8%, ma le fasce centrali di età sono tuttavia quelle più rappresentate. “Lasciare che le persone vivano e muoiano in strada, nell’indifferenza e nell’invisibilità, non è una condizione accettabile per le società avanzate - ha detto la presidente della Fiopsd Cristina Avonto - Garantire a chi vive in strada e in condizione di vulnerabilità estrema l’accesso ad una casa, alle cure e a percorsi di reinserimento sociale è il primo passo per poter vivere una vita dignitosa e fornire a chi ne ha più bisogno una rete di protezione che può salvare la vita”. In ogni città italiana, ci sono numerose unità di strada che assistono queste persone, salvandole con pasti caldi, coperte e vestiti, oppure strappandole dalla marginalità. Spesso però queste persone rifiutano l’accoglienza. I motivi sono svariati. C’è chi non vuole sottostare alle regole delle strutture, c’è chi non si sente abbastanza libero. Secondo la Fiopsd, sul fronte della marginalità si potrebbe e dovrebbe fare di più. “Seppur indispensabili, i servizi tradizionali come la distribuzione di pasti, vestiti e coperte non sono più sufficienti. Negli ultimi anni sono state stanziate ingenti risorse destinate al contrasto della grave marginalità adulta e questi stanziamenti dovrebbero creare le condizioni per innescare un cambiamento nella mentalità con cui viene affrontato il fenomeno”. Secondo l’ultima stima dell’Istat del 2021, sono oltre 96mila i senza dimora in Italia. Proprio nei giorni scorsi è arrivato un appello ad aiutare dalla comunità di Sant’Egidio: “Di fronte a temperature vicine allo zero in tutta Italia e alla durezza della vita di chi non ha casa, lanciamo un appello alle istituzioni e a tutti i cittadini a non restare indifferenti di fronte a chi vive per strada, ma a fermarsi e aiutare”. Migranti. Gli sbarchi non si fermano per decreto, né a colpi di propaganda di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 febbraio 2023 In tre giorni a Lampedusa arrivate quasi 2.500 persone. Senza navi delle Ong chi parte da Tunisia e Libia ha l’isola come unica destinazione. I numeri non sono allarmanti ma fanno a pugni con gli slogan di Meloni. Quasi 2.500 sbarchi a Lampedusa in meno di tre giorni. In totale 9.254 dall’inizio dell’anno, contro i 4.263 dello stesso periodo 2022. Numeri che non devono allarmare un paese di 60 milioni di abitanti, in cui i nuovi arrivati spesso restano solo il tempo di rifocillarsi e riprendere il viaggio verso l’Europa del nord. Numeri che, però, fanno a pugni con la propaganda delle destre, di lotta e di governo. Ad agosto 2022 Giorgia Meloni affermava che “sui migranti l’unica soluzione è il blocco navale”. Archiviata l’irrealizzabile opzione militare il giorno dopo l’investitura da premier, il suo governo ha virato su un nemico più alla portata: le Ong. Da fine dicembre il Viminale spedisce le navi umanitarie in porti distanti centinaia di chilometri subito dopo il primo soccorso. Obiettivo? Tenerle lontane dall’area dei salvataggi. Risultato? Aita Mari e Life Support in navigazione verso Civitavecchia, Geo Barents e Ocean Viking ad Ancona, Mediterraneo centrale sguarnito di soccorritori e tutti i barconi partiti da Libia e Tunisia con Lampedusa come unico orizzonte. Ieri gli ultimi numeri dall’hotspot nascosto nella pancia dell’isola parlavano di 2.270 persone. La capienza è di 400 posti. Matteo Salvini non dice nulla. Sono lontani i blitz della campagna elettorale, due soltanto lo scorso agosto, quando il leader del Carroccio si presentava con telecamere a seguito. Parlava di “invasione”, “tolleranza zero” e puntava il dito contro l’ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Adesso che al Viminale c’è Piantedosi non vola una mosca. Silenzio anche dai leghisti lampedusani. Come il vicesindaco Attilio Lucia che in passato era molto attivo a lanciare allarmi. Per esempio il 24 luglio 2022 supplicò Salvini di “venire al più presto sull’isola” perché “abbiamo disagi enormi e il degrado è tornato all’hotspot”. E ancora: “La ministra Lamorgese si è dimostrata inadeguata. Lo dicono i numeri”. Quel giorno nell’hotspot, riporta l’Ansa, c’erano 1.184 ospiti. La metà di ieri. Secondo l’ex sindaco Totò Martello l’amministrazione comunale “pensa sia più conveniente non infastidire il governo così da Roma arrivano i soldi per chiudere il bilancio”. 2,5 milioni quelli previsti nel Milleproroghe “in considerazione dello straordinario aumento degli sbarchi”. I migranti arrivati in questi giorni sono partiti principalmente dalla Tunisia, e in particolare da Sfax, ma sono quasi tutti subsahariani. Lo scorso anno i cittadini di altre nazionalità che hanno raggiunto l’Italia dallo Stato nordafricano sono stati 14.050 sui 32.371 totali. “Nel paese c’è una situazione difficile che colpisce migranti e residenti - spiega Flavio di Giacomo, portavoce per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) - Molti subsahariani che vivevano lì da tempo stanno lasciando il paese, spesso diretti verso mete europee diverse dall’Italia, a causa della crisi economica esplosa dopo il covid. Tra i tunisini registriamo l’arrivo di molti più nuclei familiari, anche di classe media o medio-alta. Quest’estate su una barca c’erano due docenti universitari”. Insomma partono un po’ tutti, con o senza navi Ong al largo. Appena un mese e mezzo fa Libero sosteneva che la volontà del nuovo governo di fermare gli sbarchi aveva convinto molti “africani” a rinunciare al viaggio. Immigrazione, tam-tam: “Ora c’è la Meloni, non partiamo più” il titolo dell’articolo pubblicato il 2 dicembre. Una macchietta, se non fosse che Fratelli d’Italia lo ha ripreso sui suoi account social ufficiali con tanto di foto della premier e lo slogan: “Dopo anni di politiche immigrazioniste attuate dalla sinistra, l’Italia torna a difendere i confini”. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Mai come questa volta. Anna Politkovskaja. “Avevo 26 anni quando fu uccisa. Mi dicevo: è popolare, non lo faranno” di Vera Politkovskaja Corriere della Sera, 18 febbraio 2023 La figlia della giornalista uccisa nel 2006 ha dedicato un volume alla storia della madre reporter: “Con la guerra sono tornate le minacce”. Vera, anche lei reporter, ha scritto con Sara Giudice “Una Madre”, in uscita per Rizzoli il 21 febbraio. Il libro, del quale pubblichiamo alcuni estratti, è dedicato al ricordo del lavoro della madre Anna e alla lunga battaglia per ottenere la verità sul suo omicidio. Vera incontrerà i lettori alle presentazioni del volume a Roma, il 20 febbraio, all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone; a Torino, il 21 febbraio, alle Officine Grandi Riparazioni; e il 22 febbraio a Milano, alla Fondazione Feltrinelli, con la vicedirettrice vicaria del “Corriere” Barbara Stefanelli. Mia madre è sempre stata una persona scomoda, non solo per le autorità russe, ma anche per la gente comune che sfoglia un giornale e ne legge gli articoli. Purtroppo la maggioranza della popolazione russa crede a quello che le viene detto dagli schermi dei canali di Stato: un mondo virtuale creato dalla propaganda, dove, nel complesso, tutto va bene. E i problemi, che periodicamente vengono segnalati all’opinione pubblica, hanno origine nei Paesi occidentali o, come si dice in Russia con un sorrisetto, “nell’Occidente in decomposizione”. Nei suoi articoli mia madre parlava raramente di cose piacevoli e quasi sempre era messaggera di cattive notizie. Scriveva la verità, nuda e cruda, su soldati, banditi e gente comune finita nel tritacarne della guerra. Parlava di dolore, sangue, morte, corpi smembrati e destini infranti. Il 7 ottobre 2006, il giorno in cui è stata uccisa, avevo ventisei anni e mi stavo preparando a diventare madre. Fino ad allora avevo voluto credere che la sua popolarità in Occidente avrebbe potuto in qualche modo salvarla da possibili rischi o da una morte violenta. Mi sbagliavo. I dittatori hanno bisogno di offrire sacrifici umani per consolidare il loro potere. L’unico modo per proteggere la libertà è combattere la menzogna e dire la verità. In Russia la libertà manca, eppure non me ne sarei mai voluta andare. Il Paese che aveva dato i natali agli assassini di mia madre era anche il Paese dove volevo vivere e lavorare. In Russia tutti si sono dimenticati in fretta di Anna Politkovskaja, soprattutto la gente che conta, perché mantenere la memoria di persone come mia madre è pericoloso. È molto più comodo perderne le tracce e dimenticare la sua verità. In Occidente il nome Politkovskaja è fonte di orgoglio. A mia madre intitolano piazze e vie, la sua attività giornalistica viene studiata nelle università, i suoi libri si vendono in tutto il mondo. In Russia quel nome è avvolto dal silenzio. La Cecenia, al centro delle più importanti inchieste di mia madre, è adesso pacificata e il potere nella repubblica si è stabilizzato. Comanda Ramzan Kadyrov, che ha sempre mostrato apertamente il suo odio per lei. La guerra in Ucraina ha stravolto la nostra vita. Dopo il 24 febbraio 2022 il nostro cognome è tornato ad avere un peso, a essere oggetto di minacce, ancora di morte, questa volta contro mia figlia, che è solo un’adolescente. Da quando a scuola hanno iniziato a parlare del conflitto in Ucraina, i compagni si sono scagliati contro di lei. Pesantemente. Così abbiamo scelto l’esilio volontario, la fuga in un altro Paese. Da un giorno all’altro abbiamo fatto le valigie e ce ne siamo andate da Mosca, che già ci aveva tolto tanto. A me la madre, a mia figlia la nonna. Ho deciso di scrivere questo libro per ricordare la lezione che mia madre ci ha lasciato: siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi. Nel 1999 mia madre approdò al giornale dove sarebbe rimasta fino alla fine dei suoi giorni, la Novaja Gazeta. La Cecenia entrò nella sua vita attraverso la storia di una casa di riposo a Groznyj, i cui ospiti, circa novanta persone, si erano ritrovati nel mezzo delle operazioni militari. Insieme allaNovaja Gazeta , mamma organizzò la loro evacuazione in un posto sicuro al di fuori del Paese e in seguito si occupò di trovare loro una sistemazione definitiva. Da quel momento cominciò una serie infinita di storie e di questioni legate al Caucaso: campi profughi, indagini sui crimini commessi dai militari in Cecenia e molti, molti altri temi. [...] Appena uscirono i primi articoli, la sua popolarità crebbe. Così, con il tempo, le missioni in Cecenia, e in generale nella regione del Caucaso, si trasformarono in vere e proprie operazioni di intelligence. Mia madre mi raccontò che una volta, per superare uno dei posti di blocco in Cecenia, l’avevano fatta sdraiare sotto il sedile posteriore di un fuoristrada Uaz, ricoprendola di stracci e coperte. Oltrepassato il checkpoint, era rimasta in quella posizione per un centinaio di chilometri. Quando mamma era via, in pratica non avevamo alcun contatto con lei, perché non esistevano linee telefoniche adeguate. Eppure non sono mai rimasta a casa ad aspettare che tornasse. Del resto, lei non l’avrebbe voluto. Mia madre era una donna estremamente indipendente e con questo spirito ha cresciuto anche noi Il nonno veniva spesso anche quando c’era mamma. Discutevano di politica davanti al caffè mentre io e mio fratello ci preparavamo per uscire. Veniva per controllare sua figlia, per capire se dovesse partire ancora. “Perché devi andare lì, Anjutik? È pericoloso, figlia mia” si lamentava. [...] “È necessario, papà” rispondeva lei, provando a tagliare corto, poi si avvicinava e mi diceva all’orecchio di non parlare ai nonni delle sue prossime partenze, per non farli preoccupare troppo. Tanto poi lo avrebbero saputo comunque. Anche i parenti più stretti le chiedevano spesso perché continuasse ad andare in Cecenia. Succedeva ogni volta che ci incontravamo, per esempio alle feste di compleanno. E lei rispondeva sempre allo stesso modo: “Perché nessuno lo fa e quelle persone hanno bisogno di aiuto!”. O, più semplicemente: “E chi ci andrebbe, se non io?”. Congo. Omicidio Attanasio, dai documenti mai forniti all’ombra delle torture sugli imputati di Giusy Baioni e Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2023 I punti oscuri del processo congolese che sta per concludersi. È stata fissata per il 1 marzo l’ultima udienza del procedimento a carico di sei persone, di cui una latitante, considerate gli esecutori materiali del triplice omicidio in cui persero la vita l’ambasciatore italiano, il carabiniere Iacovacci e l’autista Milambo. Ma tra l’ostruzionismo di Kinshasa verso Roma, interrogatori ritrattati e documenti bollati come “falsi”, sono diversi i punti ancora da chiarire sul filone congolese del caso Attanasio Imputati che sostengono di trovarsi in carcere nelle ore del triplice omicidio, versioni contrastanti, l’ombra delle torture sulle testimonianze degli accusati e dossier mai forniti da Kinshasa alle parti civili. C’è tutto questo, oltre alle difficoltà di reperire informazioni ufficiali e affidabili, dietro al caos che si è scatenato sul processo congolese ai sei imputati, di cui uno latitante, per l’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e dell’autista del Programma alimentare mondiale Mustapha Milambo. Nonostante tutto questo, il 1 marzo è stata convocata l’udienza finale, dopo la quale verrà ufficializzata la ‘verità’ di Kinshasa sull’imboscata che il 22 febbraio 2021 provocò la morte dei due italiani e dell’autista congolese. L’ombra delle torture - Sono sei le persone a processo nella Repubblica Democratica del Congo per l’attacco al convoglio del Pam in cui persero la vita Attanasio, Iacovacci e Milambo. Sei come i componenti del commando individuati anche dai magistrati di Roma che hanno chiesto il rinvio a giudizio per il vicedirettore dell’Agenzia Onu nel Paese, Rocco Leone, e il suo responsabile della sicurezza, Mansour Rwagaza. Sono però soltanto cinque quelli finiti alla sbarra a Kinshasa: uno di loro, colui che è considerato il capo della banda, Amos Mutaka Kiduhaye alias Aspirant, ha fatto perdere le proprie tracce. Le accuse nei loro confronti, dopo gli arresti avvenuti in momenti diversi, si basano soprattutto sulle confessioni raccolte nel primo interrogatorio dagli inquirenti congolesi. Confessioni immortalate in vari video in cui si vedono gli imputati Bahati Kiboko, Balume Bakulu, Issa Seba Nyani, Amidu Sembinja Babu e Marco Prince Nshimimana ammettere le proprie responsabilità, con quest’ultimo che è stato indicato da più di un membro del commando come colui che ha premuto il grilletto del Kalashnikov che ha ucciso Attanasio e Iacovacci. Testimonianze presto sconfessate dai diretti interessati. Il motivo: “Sono state estorte con la tortura”. Ed è proprio sull’accertamento di queste accuse che si sono concentrate le ultime udienze di un processo basato quasi esclusivamente su ammissioni poi ritrattate. Dall’esame dei filmati, secondo fonti della Farnesina sentite da Ilfattoquotidiano.it, non emergerebbero però evidenze che facciano pensare a delle violenze, anche per la “calma” con la quale gli uomini avrebbero ammesso le proprie responsabilità. Non sono d’accordo gli avvocati della difesa, secondo i quali sono evidenti invece i segni sulla faccia di uno degli imputati. Il mistero sulla carcerazione di Kiboko - Non ci sono solo le accuse di tortura ad alimentare i dubbi sullo svolgimento del processo. Ne è un esempio il caso di Bahati Kiboko, uno dei sei imputati. L’uomo sostiene di aver passato in carcere, a Goma, le settimane precedenti al triplice omicidio e di essere stato liberato solo nella mattinata del 22 febbraio 2021, proprio mentre si stava compiendo l’assalto al convoglio del Pam nel quale viaggiavano le tre vittime. A sostegno della sua versione, che renderebbe impossibile per l’accusa collocarlo sul luogo dell’agguato, i suoi legali hanno presentato, ormai diverse settimane fa, un documento carcerario. Documento che, però, l’accusa ha ritenuto essere falso, chiedendo di poter ricevere il dossier riguardante l’imputato dalla prigione della città del Nord Kivu. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia difensiva disastrosa, con l’imputato esposto dal proprio avvocato a una pesante smentita. Attanasio, dai documenti mai forniti all’ombra delle torture sugli imputati: i punti oscuri del processo congolese che sta per concludersi