Caso Cospito, la requisitoria del Pg: “va annullato il 41bis” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2023 Sulla nota vicenda relativa al “caso Cospito”, in sciopero della fame da mesi per protestare contro il regime del 41 bis Op cui è sottoposto, in vista dell’udienza, prevista il 24 febbraio innanzi la Sezione prima penale della Corte di Cassazione, la Procura Generale presso la Corte di cassazione ha depositato la requisitoria scritta. In un interessante passaggio della requisitoria l’Avvocato generale, Pietro Gaeta, osserva come “La peculiarità del regime detentivo speciale esige, in breve, un profilo di accertamento, quello del ‘perdurante collegamento’ associativo del condannato, che evidentemente evade dal giudicato di condanna - dove è la sola appartenenza ‘statica’ del condannato all’associazione criminosa ad essere affermata - e che riguarda il segmento temporale successivo, quello dell’esecuzione della pena, in una valutazione che, al contrario della prima, è dinamica e, per certi aspetti, prognostica. Indubbio essendo che - trattandosi di una misura di prevenzione nell’ambito dell’esecuzione della pena - l’accertamento sia rivolto alla persistenza della capacità del condannato di tenere contatti con l’associazione di riferimento, non tanto verso l’effettivo mantenimento di tali relazioni (v. Cass. n. 18434 del 2021, cit.). Nondimeno, tale valutazione, benché dinamica e prospettica, deve necessariamente risultare ancorata, ai fini dell’armonia del sistema con la Carta, ad elementi concreti ed attuali: certamente da valutare secondo logica inferenziale, ma pur sempre univoci, concludenti e sintomatici di una protrazione ‘attiva’ del ruolo associativo, attuata mediante il ‘collegamento’ intramurario. Soprattutto, elementi di sicuro e concreto pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica e di tale intensità da poter essere esclusivamente contrastati, funzionalmente, dal regime carcerario speciale, extrema ratio per l’inevitabile compressione dei diritti fondamentali che esso reca. In ciò si traduce il potere- dovere del Tribunale di sorveglianza: esso non eserciterà un controllo sulla “congruità” del provvedimento rispetto ai fini di sicurezza, ma parimente - secondo l’insegnamento di Corte cost. n. 190 del 2010 - non potrà esimersi dal motivato controllo di legittimità sul contenuto dell’atto, in ordine all’eventuale violazione di diritti soggettivi del detenuto derivante dall’applicazione stessa del regime speciale, in assenza dei fini di sicurezza evocati dal collegamento”. Nordio: “La socialità tra detenuti non è azzerrabile, con Cospito regole rispettate” ansa.it, 17 febbraio 2023 Nel question time al Senato il ministro della Giustizia ha spiegato come è stata gestita l’ora d’aria dell’anarchico detenuto. “Ogni detenuto deve potere accedere all’attività trattamentale, che è fondamentale per il necessario tentativo di risocializzazione richiesto dall’art. 27 della Costituzione: il potere passare del tempo in socialità, altro non è che attività trattamentale, comprimibile negli stretti ed indispensabili limiti di cui ho riferito, ma non certamente azzerabile”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio durante il question time al Sernato, rispondendo a interrogazioni sul caso Cospito. I detenuti per mafia, terrorismo ed eversione inseriti nei gruppi di socialità “sono per definizione appartenenti a tale tipologia di criminali, con l’indispensabile accorgimento di evitare gruppi composti da appartenenti alla stessa consorteria criminale”. L’inserimento dell’anarchico Alfredo Cospito nel gruppo, e il successivo cambio è stato correttamente comunicato alle procure antimafia, ha specificato il ministro, riferendo che al suo arrivo nel carcere di Sassari il 20 maggio del 2022, “Cospito è stato inserito nel gruppo di socialità con 3 detenuti” e risultano “pienamente” rispettate dalla Direzione del carcere di Sassari le indicazioni stabilite dalla circolare sulla formazione di questi gruppi. Il successivo 25 giugno “per ragioni inerenti la necessità di riorganizzare le turnazioni delle ore all’aria aperta per i detenuti destinatari di ordinanza della magistratura di sorveglianza, è stato rimodulato il gruppo di socialità sostituendo due dei precedenti componenti con altri due, tra cui il famoso Francesco Presta”. Il 24 dicembre infine “Cospito è stato inserito in un ulteriore e diverso gruppo di socialità a causa dell’ingresso in carcere di un detenuto che non poteva essere unito a detenuti secondo il 41 bis della medesima area criminale”. Una variazione che “è stata comunicata alla DDA (direzione distrettuale antimafia, ndr) di Torino e alla DNA (Direzione Nazionale Antimafia, ndr) con nota del 30 dicembre 2022”, ha aggiunto. Il tema dell’ora d’aria goduta dal detenuto e delle conversazioni con condannati per mafia è stato sollevato in aula alla Camera lo scorso 31 gennaio dal deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, in un intervento nel quale ha fatto riferimento a documenti dell’Amministrazione penitenziaria fino a quel giorno mai divulgati in pubblico. Sull’episodio la Procura di Roma aveva inizialmente aperto un fascicolo a carico di ignoti per rivelazione di atti di ufficio, oggi si è appreso che è stato iscritto a registro il nome del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. “Per quanto riguarda le ragioni di diritto che avrebbero legittimato la revoca del 41 bis a Cospito, il parere della Dna è nettissimo: sono assolutamente fallaci”, ha poi ribadito Nordio, riconoscendo che però nello stesso parere si “prospetta l’eventualità di un trattamento diverso per Cospito”. Riguardo infine “il parere della procura generale della Cassazione sul caso Cospito”, Nordio spiega che “non poteva e non doveva essere inviato al ministero perché è un atto endoprocessuale. Questo ministero non ne era a conoscenza, se lo fosse stato, sarebbe stato una violazione della procedura ordinaria”. Nordio scarica sulla Polizia penitenziaria: sono loro che hanno messo Cospito con i mafiosi di Vanessa Ricciardi Il Domani, 17 febbraio 2023 Non si possono mettere insieme detenuti della stessa tipologia criminale, così hanno dovuto rifare i gruppi ha detto al Senato. La comunicazione alla direzione nazionale antimafia, ha aggiunto, è stata fatta dopo. Prima della “massima fermezza” propagandata dal governo, per De Cristofaro “quanto avvenuto è quantomeno una grave sottovalutazione dell’intera questione, se non un vero e proprio errore”. Il ministro rigetta anche il parere della Direzione nazionale antimafia, che riteneva si potesse tornare indietro sul carcere duro per l’anarchico. Intanto sono state inviate delle lettere minatorie a diverse aziende e a un giornale firmate “Fai”, Federazione anarchica informale, su cui la procura indaga per terrorismo. Il mittente indicato è Anna Beniamino, l’ex compagna di Cospito in carcere. Per questo per i legali della donna è “un falso”. Il ministro della “massima fermezza” Carlo Nordio, fino a dicembre non si era preoccupato del fatto che l’anarchico che ha portato avanti lo sciopero della fame contro il 41-bis Alfredo Cospito, passasse i suoi momenti di socialità con tre boss mafiosi. Adesso spiega che è accaduto perché lo ha deciso la polizia penitenziaria e lui lo ha saputo solo dopo. Questa la risposta al Senato del titolare della Giustizia a una interrogazione di Peppe De Cristofaro, parlamentare di alleanza Verdi e Sinistra allertato da un articolo uscito su queste pagine. Il ministro ha poi criticato la posizione della direzione nazionale antimafia, favorevole a un cambio di regime per Cospito. Intanto sono state inviate delle lettere minatorie a diverse aziende e a un giornale firmate “Fai”, Federazione anarchica informale, su cui la procura indaga per terrorismo. Manconi - Come raccontato da Luigi Manconi a Domani, fino al 23 dicembre 2022 i detenuti sottoposti al regime del 41-bis che avevano possibilità di comunicare con il detenuto Cospito, sottoposto al medesimo regime, erano considerati di scarso spessore criminale o, comunque, non costituenti più un pericolo attuale. Poi invece l’anarchico ha cominciato a interloquire con un casalese, uno ‘ndranghetista e un mafioso. Tra loro hanno parlato della battaglia di Cospito contro il carcere duro, prontamente sostenuta dalla criminalità organizzata. Discussioni intercettate e citate con indignazione dall’onorevole di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, alla Camera lo scorso gennaio, e usate arbitrariamente contro il Pd. Gli spostamenti - La procura di Roma ha indagato il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove per rivelazione di atti d’ufficio, visto che è stato lui a passare gli stralci al collega di partito. L’attenzione della politica adesso è alta anche per capire come si siano svolti i contatti al centro della rivelazione. Il ministro Nordio ha tenuto a specificare che la formazione dei gruppi è “a cura del direttore dell’istituto penitenziario”. Secondo una normativa specifica, il gruppo di socialità non può riunire carcerati al 41-bis parte della stessa consorteria criminale. Così gli stragisti possono parlare con i mafiosi, ma due mafiosi o due camorristi non possono circolare insieme. Il 25 giugno, per ragioni inerenti la necessità di riorganizzare le turnazioni delle ore all’aria aperta per i detenuti, ha spiegato il ministro, è stato rimodulato per la prima volta il gruppo sostituendo due dei precedenti componenti con altri due, tra cui il famoso Francesco Presta - ha proseguito, un killer della ‘ndrangheta. La vigilia di Natale ancora un altro gruppo. “Cospito è stato inserito, su proposta del responsabile G.O.M e conseguente disposizione del direttore del carcere di Sassari, in un ulteriore e diverso gruppo di socialità a causa dell’ingresso in carcere di un detenuto che non poteva essere unito a detenuti secondo il 41 bis della medesima area criminale”. Il Gruppo Operativo Mobile (G.O.M.) è il reparto specializzato della Polizia penitenziaria cui la legge demanda la custodia dei detenuti. “Importante sapere però che questa variazione è stata comunicata alla Dda di Torino e alla Dna con nota del 30 dicembre 2022”. Il motivo dell’ultima rimodulazione del gruppo sarebbe stato insomma l’ingresso in carcere di un detenuto che non poteva essere unito ad altri della stessa tipologia criminale. La replica - De Cristofaro non ha apprezzato la risposta, troppo burocratica per un caso che sta agitando il paese: “È poi quantomeno singolare il fatto che Cospito, già in sciopero della fame da due mesi per contestare il regime del 41 bis a cui è sottoposto, sia stato messo in un gruppo con tre boss della criminalità organizzata considerati attivi e attualmente pericolosi”. A cui si aggiunge la mossa di Donzelli: “Considero poi sospetta la coincidenza, vista anche l’assenza di comunicazioni nei mesi precedenti, tra il cambio del gruppo di socialità, l’inizio degli ascolti e delle trascrizioni delle conversazioni. Conversazioni poi usate dall’onorevole Donzelli per attaccare le opposizioni nell’Aula di Montecitorio”. Prima della “massima fermezza” propagandata dal governo, “quanto avvenuto è quantomeno una grave sottovalutazione dell’intera questione, se non un vero e proprio errore”. Terrorismo e Dna - Intanto sono arrivate delle lettere minatorie a diverse aziende e un giornale firmate “Fai”. Come mittente viene indicata Anna Beniamino, la ex compagna di Cospito in carcere, circostanza per cui i legali Gianluca Vitale e Caterina Calia lo ritengono “certamente un falso”. “Per Alfredo Cospito fratello e compagno”, comincia il testo. Tra le altre, sarebbe stata recapitata anche alla Iveco Defence Vehicles di Bolzano, azienda del gruppo Exor attiva nel settore della Difesa, insieme a un proiettile con la minaccia a un manager: “L’anima nera delle operazioni di mercato (...), al servizio della guerra che alimenta la morte in Ucraina”. La procura di Trento sta indagando per terrorismo, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha però ridimensionato: “Non bisogna fare preoccupare la gente”. No alla revoca - Il ministro Nordio intanto ha ribadito il suo no alla revoca del 41 bis ad Alfredo Cospito. Secondo la Direzione nazionale antimafia il passo indietro sarebbe stato legittimo: “Cospito non consegna ordini all’esterno, parla e rivendica, ma le azioni anarchiche non sono innescate da un suo ordine”, ha spiegato a Domani una fonte vicina al dossier. Per il ministro si tratta di ragioni “assolutamente fallaci”, ha detto rispondendo a un’altra interrogazione di alcuni senatori di Fratelli d’Italia. Cospito, ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano, si starebbe nutrendo di yogurt per arrivare lucido il giorno dell’udienza della Cassazione prevista il 24 febbraio, le sue condizioni starebbero lievemente migliorando. In quella sede saranno rivalutati i presupposti del 41-bis. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha commentato a Radio Onda Rossa: “Mi sembrano informazioni volte a disorientare”, il suo stato sarebbe ancora critico. Alfredo Cospito potrà essere alimentato forzatamente? di Luca Sofri ilpost.it, 17 febbraio 2023 Continuare lo sciopero della fame anche fino alla morte è un suo diritto, secondo gli esperti: il governo si sta interrogando su come comportarsi. Alfredo Cospito, il detenuto anarchico che protesta contro il regime carcerario 41-bis, è al 120esimo giorno di sciopero della fame. Il 24 febbraio la Corte di Cassazione si riunirà per decidere sul ricorso presentato dai suoi avvocati che chiedono la revoca del regime carcerario a cui è sottoposto. In base all’orientamento della Corte di Cassazione, Cospito deciderà se e come proseguire la sua protesta. Se decidesse di continuare lo sciopero della fame, il ministero della Giustizia e specificatamente il DAP, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, potrebbe tentare di “obbligarlo” a nutrirsi, sottoponendolo ad alimentazione forzata. E questo porrebbe una serie di questioni che girano intorno alla domanda se lo stato possa legalmente farlo. L’articolo 32 della Costituzione italiana dice che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Il punto, insomma, è quali siano le disposizioni di legge a cui si richiama la Costituzione, e se esistano leggi che possono scavalcare diritti individuali elementari, come quello di scegliere se alimentarsi o no, di essere curati oppure no. In questi giorni Cospito ha ricominciato ad assumere integratori, che aveva sospeso da alcuni giorni. Secondo notizie non confermate, avrebbe anche mangiato un vasetto di yogurt con il miele. Chi lo ha visitato recentemente nel reparto destinato ai detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano, dove è stato portato dopo alcuni giorni passati nel carcere di Opera (Milano) nel quale era stato trasferito dall’istituto penitenziario di Sassari, lo ha descritto come molto provato (all’ultimo controllo aveva perso 47 chili) ma determinato a essere lucido in attesa della decisione della Corte di Cassazione. La Corte dovrà decidere se dovrà rimanere o meno al 41-bis. Il procuratore generale, Pietro Gaeta, nella requisitoria scritta e depositata l’8 febbraio, ha chiesto che la Corte annulli con rinvio l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Roma che aveva confermato il regime carcerario 41-bis. Il procuratore generale ha scritto che per confermare il 41-bis avrebbe dovuto emergere “una base fattuale” con “elementi immanenti e definiti” che provassero il fatto che Cospito, dall’interno del carcere, dava indicazioni operative ai gruppi anarchici all’esterno attraverso le sue lettere e i suoi articoli pubblicati su riviste d’area. Questo, secondo il procuratore generale, non può essere “desumibile interamente e unicamente dal suo ruolo apicale”. Dalla decisione della Corte di Cassazione del 24 febbraio dipende come detto quella di Cospito sul proseguimento o meno dello sciopero della fame. Si torna così al quesito: se lo sciopero della fame proseguisse e le condizioni di Cospito si aggravassero, cosa succederebbe? Per rispondere a questa domanda il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha coinvolto, dal 6 febbraio, il Comitato nazionale di bioetica a cui ha chiesto il parere su alcuni punti. Il primo è: Alfredo Cospito può far riferimento alla legge 219 del 2017 che regola le Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), quelle in sostanza che riguardano il testamento biologico? Esiste per il ministero della Giustizia lo spazio giuridico per intervenire con la nutrizione forzata? Alcuni dei 32 componenti del comitato di bioetica hanno già spiegato che non spetta a loro esprimersi su casi singoli. Secondo alcune interpretazioni, il digiuno prolungato farebbe cadere la persona detenuta in uno stato di incoscienza simile allo stato di infermità mentale, quindi non sarebbe in grado di decidere liberamente se sottoporsi alle cure, se cioè essere alimentato o meno. Ma Cospito ha scritto quali sono le sue volontà in uno stato di completa lucidità. Chiara Lalli, giornalista bioeticista, spiega infatti che “Cospito ha fatto il testamento biologico, ha espresso cioè la sua volontà nelle Disposizioni anticipate di trattamento. Ha detto cioè chiaramente che non vuole essere alimentato forzatamente. Possiamo non essere d’accordo né con le sue giustificazioni, né con la sua decisione, possiamo perfino ignorare le ragioni per le quali ha deciso di non mangiare più e per cui è detenuto, ma la sua volontà va rispettata. La legge, la 219 del 2017, rinforza quello che già dice la Costituzione”. È dello stesso parere Mariella Immacolato, medica legale e bioeticista che fa parte del direttivo della Consulta Bioetica onlus: “Cospito ha sottoscritto le cosiddette DAT, Disposizioni anticipate di trattamento, che sono legittime e vincolanti per i medici e che non possono essere disattese. Non si potrebbe non tenere conto delle DAT in cui l’interessato ha espresso chiaramente di non volere essere sottoposto ad alimentazione forzata”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva chiesto che Cospito venisse sottoposto a visita psichiatrica, che però lui ha rifiutato. Su molti giornali si è ipotizzato che possa essere sottoposto a TSO, cioè a Trattamento sanitario obbligatorio: “Ma il TSO può essere esercitato nell’ambito di una malattia psichiatrica che in questo caso non è mai stata diagnosticata. Il codice deontologico dei medici, all’articolo 53, fa divieto agli stessi di assumere iniziative costrittive e di collaborare a “procedure coattive di alimentazione e nutrizione artificiale”“. La stessa legge 219 dice: “Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Il TSO deve essere disposto dal sindaco su richiesta di due medici, di cui almeno uno dell’Asl del territorio in cui il trattamento viene disposto. Nel caso di Cospito è già stata depositata una diffida preventiva. Però secondo il Fatto Quotidiano dell’11 febbraio, che cita “fonti giudiziarie”, “la diffida inviata dall’avvocato al ministero non vale nulla: i medici penitenziari hanno il dovere di salvare una vita. È come se un agente assistesse al tentato suicidio di un detenuto e non lo fermasse”. Secondo alcuni pareri giuridici il fatto che Cospito sia detenuto lo metterebbe in una condizione di soggezione tale da non potere prendere decisioni “libere”. Dice ancora Chiara Lalli: “I detenuti, compresi quelli al 41-bis, perdono molti diritti ma esistono diritti personalissimi che riguardano solo la loro vita e la loro salute. Sono quei diritti che riguardano esclusivamente loro, che non provocano danni ad altre persone. Attengono a uno spazio privatissimo”. Secondo Lalli, “la domanda alla fine è questa: la persona che sta facendo lo sciopero della fame è capace di capire le conseguenze delle sue decisioni, cioè è in grado di intendere e di volere, e la sua decisione è davvero la sua? Se rispondiamo di sì, allora sarà difficile non rispettare la sua volontà. E aggirarla se e quando non sarà più cosciente sarebbe un espediente grave che oltretutto violerebbe la legge costituendo un precedente”. Secondo Immacolato “il detenuto non perde diritti elementari come quello alla salute e quindi anche di decidere della sua salute”. La Consulta di bioetica, in un comunicato, ha sostenuto che: “La nota sentenza della Cassazione del 2007, n. 21748, sulla vicenda (Englaro, ndr) ha stabilito senza ombra di dubbio che la volontà dell’interessato, maggiorenne, capace di intendere e volere, in merito alle cure non può essere disattesa anche quando questa ha come conseguenza la morte. Ed ha riconosciuto il valore della volontà dell’incapace espressa antecedentemente alla perdita della capacità di esprimersi. La questione ruota quindi attorno a una domanda: lo stato di persona “in vinculis”, e cioè detenuta, impone allo Stato di riconoscergli un livello di integrità fisica superiore a quella di tutti gli altri individui? In sostanza, se un uomo libero può fare uno sciopero della fame fino a morirne, lo stesso vale per un detenuto che si trova in custodia dello Stato? Per l’avvocato Davide Steccanella, difensore dell’ex terrorista Cesare Battisti, che nel 2021 intraprese uno sciopero della fame contro il regime di isolamento a cui era sottoposto, lo sciopero della fame è “l’unica forma di protesta non violenta che i detenuti hanno a disposizione”. È una manifestazione estrema che deriva da una scelta libera e che il detenuto dovrebbe poter portare avanti “senza che gli venga imposta l’alimentazione forzata” per evitare che le sue condizioni di salute possano aggravarsi troppo, o perfino che possa morire. “Dall’altra parte”, dice ancora Steccanella, “l’amministrazione penitenziaria sostiene invece che il detenuto è affidato alla sua tutela, che ne ha quindi la responsabilità e per questo è tenuta a intervenire per salvaguardarne lo stato fisico”. Secondo il Corriere della Sera, i giuristi cattolici del Comitato di bioetica stanno preparando un parere da proporre all’assemblea straordinaria dei membri. La questione è quindi estremamente complessa ed è probabile che se lo stato di salute di Alfredo Cospito dovesse precipitare si aprirebbe una disputa giuridica. La Dichiarazione dell’Associazione medica mondiale riguardo agli scioperi della fame dei detenuti sostiene che i medici debbano: “Bilanciare la doppia lealtà. I medici che assistono i detenuti in sciopero della fame possono trovarsi in conflitto tra la loro lealtà verso l’autorità che li impiega (come la direzione del carcere) e la loro lealtà verso i pazienti. In questa situazione, i medici con una duplice lealtà sono vincolati dagli stessi principi etici degli altri medici, vale a dire che il loro obbligo primario è nei confronti del singolo paziente. Essi rimangono indipendenti dal loro datore di lavoro per quanto riguarda le decisioni mediche”. Inoltre, sempre secondo l’Associazione: “L’alimentazione artificiale, se utilizzata nell’interesse clinico del paziente, può essere eticamente appropriata se i pazienti in sciopero della fame competenti vi acconsentono. Tuttavia, in conformità con la Dichiarazione della WMA di Tokyo, se un detenuto rifiuta il nutrimento ed è considerato dal medico in grado di formarsi un giudizio non compromesso e razionale sulle conseguenze di tale decisione, non deve essere alimentato artificialmente. L’alimentazione artificiale può anche essere accettabile se le persone incapaci non hanno lasciato istruzioni anticipate non pressanti per rifiutarla, al fine di preservare la vita dello scioperante della fame o di prevenire una grave disabilità irreversibile”. Anche Gesù usò il suo corpo: senza l’uso del corpo non ci sarebbe la fede. E neppure l’uomo di Alberto Cisterna Il Riformista, 17 febbraio 2023 Nel respingere l’istanza di revoca del 41 bis, il ministro Nordio scrive che Cospito sta utilizzando il suo corpo come una pistola. Vero. Ma è stato proprio il Cristo, immolandosi sulla croce, a insegnarcelo. Senza l’uso del corpo non ci sarebbe la fede. E neppure l’uomo. Le parole hanno sempre un peso. Soprattutto se sono vergate in atti ufficiali e hanno le stimmate delle più alte autorità pubbliche. Soprattutto se sono adoperate da persone di cui sono note le fini letture e l’elegante formazione storica. Per questo le parole spese dal ministro Nordio per rigettare la richiesta di revoca del regime 41bis proposta dalla difesa di Alfredo Cospito, devono essere lette sotto il prisma di una particolare attenzione. Fuori da ogni mediazione burocratica e da ogni infingimento descrittivo, il provvedimento dice esplicitamente che il detenuto anarchico, con il suo estenuante sciopero della fame, “adopera il proprio corpo come un’arma”. Rispetto a un paese in cui la palude ministeriale giunge a chiamare “carico residuale” i migranti non ammessi ai centri di prima accoglienza, lo scarto qualitativo non è di poco conto e rende con estrema efficacia la posizione del Guardasigilli. Il ragionamento è chiaro: prospettando la possibilità di morire per effetto della prolungata astensione dall’assumere cibi, Cospito adopera sé stesso, la propria fisicità, il plesso organico vitale che gli appartiene senza alcuna altra mediazione, come una pistola puntata alla tempia dello Stato. Non stiamo a parlare delle nefaste e imprevedibili conseguenze che la sua morte potrebbe avere. A quel che pare altri soggetti istituzionali che hanno a disposizione notizie privilegiate ritengono che la morte di Cospito in regime di 41-bis, anche se in ospedale, avrebbe conseguenze pesantemente negative per la sicurezza e l’ordine pubblico. Legittimamente il governo ha ritenuto di non poter sottostare a quello che percepisce, a torto o a ragione, come un ricatto e all’inquilino di via Arenula è toccato lo sgradito compito di dare forma e sostanza a questa posizione. Tuttavia, che il corpo di un essere umano sia da costui adoperato come un’arma richiama alla mente altre contingenze e altre storie. In una ideale linea retta ai cui estremi si possono collocare, da un lato, i kamikaze islamici e, dall’altro, i martiri cristiani e Cristo stesso, il corpo è stato sempre percepito come la più estrema e convincente delle argomentazioni. Anzi come la più autentica delle testimonianze, persino di quelle più feroci dei terroristi che immolano sé stessi per rendere obbedienza alle proprie terrificanti ideologie. L’autodistruzione della corporeità come esordio capace di innestare una palingenesi, una successione di reazioni a catena che portino all’affermazione del proprio credo o anche solo del proprio fanatismo. È dubbio che Alfredo Cospito voglia iscriversi nell’albo nero dei terroristi morti con l’esplosivo in tasca; anzi ha espressamente detto che non ha alcuna intenzione di suicidarsi. Dal suo punto di vista, la perdita della vita, c’è da pensare, non sarebbe altro che un sacrificio, al pari di tanti altri nella storia del mondo, consumato questo come quelli per rendere pubblica testimonianza a una propria verità, a un’idea irrinunciabile e non negoziabile per quanto sbagliata agli occhi di quasi tutti. Nella storia dell’uomo, delle ideologie e delle religioni, si potrebbero rintracciare tanti episodi simili, in Irlanda nel Nord, nella Cecoslovacchia invasa dai sovietici, nei templi del Tibet, ovunque l’essere umano avverte la tentazione di poter vincere il nemico, di poter battere l’avversario immolandosi del tutto, annientando la propria corporeità. Nella traiettoria di questa sequenza ciclica di storie, ha ragione il ministro Nordio: la scelta del detenuto Cospito è un’arma rivolta contro sé stesso e, per ciò solo, puntata contro quelli che potrebbero essere additati come i responsabili della sua morte. Non si tratta di fare paragoni o rendere accostamenti improponibili, ma un punto merita attenzione: sono state proprio le parole di Nordio, queste precise parole, a flettere la discussione su un piano ulteriore; si badi bene non superiore, quanto diverso dalla ben più misera contesa politica. La completa sovrapposizione tra l’uomo Cospito e le sue idee, più detestabili e condannabili, si realizza esattamente nel momento in cui lo si accusa di “abusare” della sua fisicità come fosse una rivoltella e così facendo si innalzano alla sacralità della vita le sue convinzioni fallaci, quando non addirittura criminali. La storia del Cristianesimo si fonda sul credo che Dio abbia immolato il proprio figlio unigenito per la salvezza dell’umanità. La consunzione in croce del corpo e l’inizio della sua putrefazione nel sepolcro sono le conseguenze inevitabili, inarrestabili della libera scelta del Creatore di condividere sino in fondo e senza alcuna attenuazione la caduca corporeità umana del Creato. Da questo punto di vista non vi sarebbe quella fede che si è propagata nel mondo per millenni senza un corpo umano che - nell’ultima cena e nella fractio panis - si fosse tramutato addirittura in cibo. Un’arma potentissima che si è subito scagliata contro le idolatrie e contro ogni violenza e sopraffazione e che dal riscatto corporale, dalla consegna ai seviziatori proprio della carne e delle ossa prende le mosse per rendere testimonianza alla verità. Come scritto nel tragico dialogo tra Ponzio Pilato e il Nazzareno in cui si coglie, dopo secoli, tutte la ineluttabile necessità del sacrificio del corpo e della passione del sangue: allora Pilato gli disse “dunque tu sei re?” rispose Gesù “tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità”. Senza l’uso del corpo, senza la dirompente decisione di consegnarsi innocente al sacrificio, la fede non avrebbe avuto radici salde e si sarebbe trasformata in una mera credenza tra le tante consegnate all’oblio della storia. E come ignorare il completarsi del disegno divino con l’avverarsi della più mistica profezia fatta al popolo ebraico (“perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione” Salmo 15) e grazie al mistero della resurrezione, del ritorno misterioso e ineluttabile alla vita che pervade le membra corrose dalla morte. Caso Cospito, il ricatto sul 41 bis può costituire un pericoloso precedente di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2023 Attraverso il caso Cospito è accaduto ciò che temevo: si è cominciato “di nuovo” a parlare apertamente e confusamente anche dell’abolizione del regime speciale del 41 bis. Ricordo allora il curriculum di Alfredo Cospito per cui si sta mettendo in discussione l’istituto: militante anarchico insurrezionalista che ha gambizzato un dirigente della Ansaldo Nucleare e ha messo una bomba alla caserma di Fossano a Cuneo per fare una strage di carabinieri, fallita soltanto per fortuna. Il 41 bis - è bene chiarirlo - non è “carcere duro”, come spesso viene definito, non è un aggravamento della pena. È un regime, voluto da Falcone e Borsellino, che serve a impedire collegamenti con le organizzazioni criminali di appartenenza. E a chi se non a un potenziale stragista va impedito di avere contatti con la sua organizzazione? Cospito sta molto male non perché lo Stato lo stia torturando, ma perché rifiuta il cibo. Perciò è stato trasferito da Sassari al carcere milanese di Opera dove le strutture terapeutiche sono più all’avanguardia, come è giusto che sia. Ma nonostante la migliore assistenza sanitaria, continua a rifiutare il cibo e ha intenzione di farlo finché il 41 bis non sarà abolito non solo per sé, ma per tutti, mafiosi compresi. Fermo restando che la decisione spetta alla Corte di Cassazione, sapete come si chiama questo? Ricatto. E può costituire un pericoloso precedente. Se domani Matteo Messina Denaro comincia uno sciopero della fame, cosa facciamo? Discutiamo se togliergli il 41 bis? I mafiosi non temono il carcere. I mafiosi temono il regime speciale del 41 bis: ne vogliono l’abolizione perché l’isolamento li allontana dal gruppo criminale e incide sul loro potere di controllo e comando nelle cosche. Il pericolo è che adesso ci siano le condizioni perché questo accada. L’istituto del 41 bis è imprescindibile per la lotta alla mafia, perché ostacola la trasmissione di messaggi e rompe i legami tra detenuto e organizzazione mafiosa, tuttavia, al momento è tutto al di fuori di un regime “duro”. Il regime di massima sicurezza, oggi, di fatto, è totalmente disatteso, esistono spazi di comunicazione continua, le celle sono poste le une di fronte alle altre favorendo gli scambi di messaggi. L’unica struttura idonea è quella di Bancali a Sassari. Tutto ciò rende difficile, se non impossibile, l’attività di contrasto e di controllo degli agenti del Gruppo Operativo Mobile. Ma soprattutto la richiesta impermeabilità di questo regime diventa utopia. Nella scorsa legislatura in Commissione Antimafia abbiamo condotto un’inchiesta senza precedenti per approfondire il funzionamento e le criticità dell’istituto. Abbiamo svolto oltre 60 audizioni tra direttori penitenziari, comandanti di reparto, operatori e sindacati. L’indagine è confluita in una relazione a mia prima firma, votata all’unanimità, in cui si rappresenta la necessità di investire risorse per mettere a norma i dodici regimi di 41 bis e di potenziare il Gruppo operativo mobile attraverso la copertura della pianta organica, la formazione, l’addestramento e l’equipaggiamento affinché gli operatori siano messi in condizione di svolgere in sicurezza il proprio lavoro. È stata depositata, inoltre, la proposta di legge volta ad introdurre l’aggravante dell’istigazione o apologia di mafia, in quanto ci siamo accorti che le foto che i boss mafiosi fanno una volta all’anno venivano messe sui principali social network, mandando messaggi di odio contro chi collabora con la giustizia, contro i magistrati e forze dell’ordine. In sottofondo di solito canzoni neomelodiche con migliaia di condivisioni soprattutto fra i giovanissimi. La nostra legislazione antimafia ci ha resi un modello per l’Europa e abbiamo il dovere di non indietreggiare di un passo e di non cedere a nessun ricatto. Perché la mafia è ancora viva, sempre più liquida e tutt’altro che sconfitta. Per questi motivi il 41 bis non può essere oggetto di nessun tipo di ricatto, ma soprattutto deve essere a norma! *Avvocata e deputata Paita (Iv): “Trovo assurdo che nel centrosinistra si metta in discussione il carcere duro” di Laura Cesaretti Il Giornale, 17 febbraio 2023 La senatrice del Terzo polo: “È uno strumento fondamentale e sul caso dell’anarchico la parola spetta solo al ministro e ai giudici”. “Ho trovato profondamente sbagliato che alcuni dem, fra cui l’ex ministro della Giustizia Orlando, abbiano messo in dubbio il 41 bis per l’anarchico Cospito dopo averlo visitato in carcere, pur difendendo il sacrosanto diritto di ogni parlamentare di visitare qualunque detenuto”. Lella Paita, capogruppo renziana del Terzo Polo in Senato, non fa sconti né a sinistra né a destra, sulla gestione del caso Cospito. Senatrice Paita, è di oggi la notizia che il sottosegretario Delmastro è indagato per la divulgazione di relazioni riservate del Dap. Che idea si è fatta? “Penso che il sottosegretario Delmastro e l’onorevole Donzelli abbiano commesso un fatto molto grave, sintomo di totale mancanza di senso delle istituzioni. Un comportamento che stigmatizzo ma che avrei lasciato nell’alveo del dibattito parlamentare, non della magistratura”. Lei ha definito “sconcertanti” sia le provocazioni di alcuni esponenti Fdi contro le opposizioni sul caso Cospito, che le iniziative di alcuni dirigenti del Pd. Perché? “Trovo gravissimo che Fdi abbia accusato il Pd di vicinanza alla mafia o quasi: si può non condividere nulla della linea dei dem ma accusarli di qualcosa di simile è inaccettabile. Voglio dirlo con chiarezza. Non si fa politica infangando l’avversario, un vizio che troppo spesso ha caratterizzato il dibattito in questi anni. Detto questo, ripeto, ho trovato profondamente sbagliata anche la messa in discussione del 41 bis per Cospito da parte di diversi esponenti del centrosinistra, ex Guardasigilli incluso”. Per il governo Cospito deve restare al 41bis, nonostante dalla stessa magistratura che segue il caso siano arrivate aperture ad un cambio di regime carcerario. Non si rischia così di offrire un martire agli squadristi anarchici? “Sul 41 bis decide il ministro, sentito appunto il parere fondamentale della magistratura. Non decido io né tanto meno Andrea Orlando. Lo si fa sulla base di rilievi tecnici e non dell’opportunità politica. Soprattutto, deve essere chiaro: lo Stato non si piega ai terroristi. E Nordio ha più volte messo in luce l’importanza di salvaguardare la salute di tutti i detenuti, e anche di Cospito”. Voi di Italia viva, per bocca dello stesso Renzi, vi siete schierati fermamente a difesa dell’istituto 41 bis. Molti giuristi (e la stessa Consulta) lo definiscono uno strumento eccessivamente vessatorio, e anche assai datato, in tempi in cui la guerra della mafia contro lo Stato non c’è più, e il controllo dei detenuti può essere fatto con ben altri mezzi... “Riteniamo che il 41 bis sia stato e sia uno strumento essenziale nella lotta alla mafia, una vittoria della politica, anche se all’ex magistrato ora senatore grillino Scarpinato non piace sentirlo dire. Si vuole discutere di 41 bis? Noi riteniamo che sia uno strumento ancora fondamentale. Poi si può discutere di tutto, ma di certo non si fa una discussione su questo mentre gli anarchici minacciano giornalisti e diplomatici. Essere garantisti significa agire nell’alveo delle garanzie costituzionali, e la Corte è stata chiara: il 41 bis non è incostituzionale. Si rischia una emergenza sicurezza a causa dei gruppetti anarchici, e come andrebbe gestita? “Non so se ci sia un’emergenza, so che questi squadristi stanno minacciando lo Stato. Vengo da un territorio, la Liguria, che conosce bene la piaga del terrorismo, delle Brigate Rosse. Credo sia sbagliato drammatizzare ma anche sottovalutare”. Caso Cospito, Delmastro indagato per rivelazione di segreto d’ufficio di Valentina Stella Il Dubbio, 17 febbraio 2023 Il sottosegretario sarà sentito domani dai pm di Roma. Nordio in Senato: “Il parere della procura generale della Cassazione non poteva essere inviato al ministero”. Nordio aveva appena finito di rispondere al question time in Senato sul caso Cospito che Bianconi sul Corriere lancia la notizia: “Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio nell’inchiesta della Procura di Roma sulle conversazioni ascoltate in carcere tra l’anarchico Alfredo Cospito e un paio di boss della criminalità organizzata, rinchiusi come lui al carcere duro nel penitenziario di Sassari”. Lo ribadiamo: una indagine non equivale a colpevolezza, ma questa notizia politicamente rappresenta una bella grana per il ministro, visto che solo 24 ore prima aveva difeso l’operato del suo sottosegretario e di Donzelli in una informativa alla Camera. Ma torniamo al Senato. Prima interrogazione presentata da Fdi, per sapere perché ha mantenuto il 41 bis all’anarchico ma soprattutto se era conoscenza, quando ha rigettato la richiesta di revoca, del parere del Procuratore generale di Cassazione che chiede al tribunale di sorveglianza di Roma di rivedere, o almeno motivare meglio, la decisione di far permanere Cospito al carcere duro. Sul secondo punto il Guardasigilli ha sottolineato: “Il parere della procura generale della Cassazione sul caso Cospito non poteva e non doveva essere inviato al ministero perché è un atto endoprocessuale. Questo ministero non ne era a conoscenza, se lo fosse stato, sarebbe stata una violazione della procedura ordinaria”. L’altra interrogazione è stata presentata dal senatore De Cristofaro (Avs) a partire da un articolo del Domani in cui si riportava una perplessità espressa da Luigi Manconi: fino al 23 dicembre i detenuti al 41-bis che potevano comunicare con Cospito erano considerati di scarso spessore criminale; successivamente, il gruppo di socialità è stato modificato e Cospito è stato messo insieme a tre boss di alto livello: “Le frasi estrapolate dai colloqui e riportate nella relazione del Dap, i cui contenuti sono stati letti il 31 gennaio 2023 in Aula, alla Camera, dal deputato Donzelli, si riferiscono esclusivamente a quest’ultimo gruppo di socialità”. L’interrogante si chiede perché sia avvenuto il cambio del gruppo di socialità, perché solo allora si iniziano ad ascoltare le conversazioni dei detenuti, poi rivelate in Aula. Proviamo a tradurre noi: forse c’è una regia per far emergere ipotetiche collusioni con la mafia e iniziare una campagna di diffamazione contro Cospito? Nordio ha risposto che sono state rispettare le regole e che la modifica è avvenuta “su proposta del responsabile Rom e conseguente disposizione del direttore del carcere di Sassari, in un ulteriore e diverso gruppo di socialità a causa dell’ingresso in carcere di un detenuto che non poteva essere unito a detenuti secondo il 41 bis della medesima area criminale”. Insoddisfatto della risposta De Cristofaro: “Dal ministro Nordio una risposta burocratica che sostanzialmente non risponde alla nostra domanda sul perché a Cospito è stato cambiato il gruppo di socialità. Nordio non chiarisce in nessun modo le ragioni di questo cambio”. Intanto il ministro Piantedosi ha fatto una breve dichiarazione sulle recenti lettere di minacce con proiettile inviate dagli anarchici ad alcune aziende: “Gli episodi delle lettere con proiettili di matrice anarchica inviate ad aziende e manager sono al vaglio degli inquirenti, ma sono modalità già viste su cui le forze dell’ordine hanno un livello di attenzione già alto. Dobbiamo però lanciare messaggi sempre molto equilibrati, non di sottovalutazione ovviamente, ma neanche bisogna far preoccupare la gente”. Le acrobazie di Nordio che ha difeso il suo vice anche se sapeva tutto di Liana Milella La Repubblica, 17 febbraio 2023 Da Guardasigilli è stato costretto prima a subire la presenza di Delmastro, poi a difenderlo. Non si sa se gli ritirerà almeno le deleghe. Da pm Carlo Nordio avrebbe indagato Delmastro. Da Guardasigilli è stato costretto prima a subirne la presenza (“L’hanno commissariato” era la vulgata), e poi a difenderlo. Se Nordio l’abbia fatto per intima scelta, o per costrizione, è la sua conversione politica a spiegarlo. Nuovo mestiere, nuovi obblighi, nuova obbedienza. Né Meloni, né il potente sottosegretario Mantovano (ex toga anche lui), gli avrebbero consentito di fare diversamente. Un gesto in autonomia però Nordio lo ha fatto, forse ricordando di essere stato per 40 anni pm a Venezia. Quando mercoledì mattina - giusto poche ore prima del suo speech in Parlamento su Delmastro - gli ufficiali della polizia giudiziaria hanno bussato in via Arenula, per perquisire l’ufficio del sottosegretario e notificargli l’avviso di garanzia, chi era presente ha cercato di non farli entrare. Poi hanno chiamato Nordio. E lui ha dato il via libera. La rivelazione del segreto d’ufficio - In due settimane di “Delmastrogate” è stato questo il gesto più forte di Nordio. A cui, certo non a caso, è seguita poche ore dopo una rivelazione da lui fatta a Montecitorio. Nordio ha detto che era stato Delmastro, il 29 gennaio, a chiedere al capo delle carceri Giovanni Russo “una relazione aggiornata sul detenuto Cospito sia da parte del Nic che del Gom”. Relazione inviata da Russo il giorno seguente, e subito “trasmessa” da Delmastro al coinquilino Giovanni Donzelli. Nonostante l’evidente stampigliatura “a diffusione limitata”. Qui si radica la rivelazione del segreto d’ufficio. E il Nordio pm non può non saperlo. Ma, evidentemente, lo tace al Nordio Guardasigilli. Il tentativo di difesa - Tant’è che questo ministro a Montecitorio glissa per assolvere Delmastro, a meno che non sia la procura di Roma a muoversi. Per gli agenti giunti in via Arenula, lui già sa il destino di Delmastro. Ma parla di carte non sono sottoposte “a formali apposizioni di segretezza” e neppure a “ulteriori diverse classificazioni”. Minimizza il valore della dicitura a “limitata divulgazione”. Di certo non possono essere recitate in Parlamento, come ha fatto Giovanni Donzelli il primo febbraio contro il Pd. Nordio lo sa sicuramente. Ma sa pure che “non deve sapere” perché così vuole Meloni. Quindi derubrica gli atti come “non sottoposti a segreto investigativo”, e senza intercettazioni. Alla fin fine si tratta solo di un “appunto”. Eppure il primo febbraio alla Camera era stato più dubitativo parlando di “atti per loro natura sensibili” perché connessi al 41bis. Per cui “ai fini della loro ostensione, occorre una preventiva verifica e una valutazione del contenuto”. Un fatto è certo, Delmastro non ha fatto verifiche con Nordio prima di “ostenderli”. Un sottosegretario scomodo - Certo, Nordio ha sempre citato la procura di Roma, a cui sarebbe spettata l’ultima parola. E ora che è giunta si apre un altro calvario. Lui, che si proclama tuttora pm nell’animo, come fa a tenersi un sottosegretario indagato? Come fa a lasciargli la parziale delega alle carceri di cui ha palesemente approfittato? Perché - e basta leggere il sito della Giustizia per saperlo - Delmastro è titolare della delega “alla direzione del personale, dei beni e servizi, all’edilizia penitenziaria, alla formazione”. Il vice ministro di Fi Francesco Paolo Sisto ha “la giustizia minorile e l’esecuzione penale esterna per gli adulti”. Il leghista Andrea Ostellari “la direzione generale dei detenuti e il trattamento”. Quindi Nordio non può non sapere che Delmastro si è “allargato” quando ha chiesto notizie al Dap. La sua delega non glielo consentiva. Il ministro si è chiuso nel riserbo. È tornato a casa a Treviso. Non ha risposto alla domanda se, almeno, ritirerà le deleghe a Delmastro, ché parlare di dimissioni sarebbe troppo visto che il potente sottosegretario a palazzo Chigi Mantovano lo ha già assolto. L’ex Guardasigilli Annamaria Cancellieri, per una telefonata all’amica, nonché moglie di Salvatore Ligresti, fu costretta a dimettersi. Ma se Meloni ha già assolto Delmastro, Nordio deve solo obbedire. Per difendere Donzelli, Nordio inventa la “semi segretezza”. Ora sembra Conte di Salvatore Merlo Il Foglio, 17 febbraio 2023 Conduceva battaglie contro la diffusione illecita delle intercettazioni, criticava le fughe di notizie dalle procure, sosteneva anche le virtù della chiarezza e della semplicità espressiva. Dov’è finito tutto questo? Per difendere l’onorevole Donzelli, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha inventato una nuova sfumatura di colore. Nasce infatti il “grigio Nordio”, la zona inafferrabile, quella che sta a metà, un colore buono per le sfilate politiche della prossima primavera: il segreto che non è segreto, le conversazioni dell’anarchico Cospito con i mafiosi che non erano precisamente sensibili, né del tutto riservate, ma quasi. Perché erano a “diffusione limitata”. Ma limitata a chi? A tutti tranne che a Giovanni Donzelli, pare, che le ha rese pubbliche nell’Aula della Camera in diretta televisiva. E così in un lampo Nordio sembra quasi Giuseppe Conte, il body builder dell’opaco. Conduceva battaglie contro la diffusione illecita delle intercettazioni, criticava le fughe di notizie dalle procure. Da commentatore e saggista, sosteneva anche le virtù della chiarezza e della semplicità espressiva. Specialmente nella scrittura delle leggi. A dicembre, sintetizzava infatti così le sue idee, per esempio, sul contrasto alla corruzione: “Servono poche leggi ma chiare”, spiegava. “Responsabilità e competenze devono essere sempre ben individuate”, aggiungeva. Perché Carlo Nordio è sempre stato infastidito dal linguaggio degli azzeccagarbugli, nell’attività legislativa come in quella amministrativa, nei tribunali come in Parlamento. E dunque in pubblico citava Tacito perché egli si rappresentava come l’avversario (veneto, quindi funzionalista) del contorsionismo semantico (spesso meridionale). Quel fenomeno da “intellettuali della magna Grecia”, per così dire, dietro al quale questo ex magistrato liberale ha sempre ritenuto che si nascondessero le patacche, i pasticci e i peggiori imbrogli d’Italia. Eppure adesso, con la “diffusione limitata” che evidentemente non vale per la Camera dei deputati e per la diretta televisiva, ecco che la figura del “ministro della chiarezza” va quasi sovrapponendosi a quella del “leader della vaghezza”. A Giuseppe Conte, insomma. Il politico astratto per prudenza, generico per forza, vaporoso per necessità, contorto per formazione. L’avvocato pugliese che ama le parole difficili credendo, da quando fa il professore a Roma, che la semplicità sia provinciale. Così, facendo il Conte in barile, adesso Nordio parla di “diffusione limitata”, si appoggia al concetto pensile della semi-segretezza, all’ossimoro del documento “quasi riservato”, proprio come il capo dei Cinque stelle inventava “l’obbligo flessibile” sui vaccini o proponeva, pensate un po’, la tecnologia della “ossicombustione” per il termovalorizzatore a Roma, ovvero come Prometeo inventava il fuoco senza fiamma. Un concetto che va ben oltre l’ossimoro perturbante di Freud e sfiora l’universo semantico di Wanna Marchi. Così, se la difesa di Donzelli è politicamente comprensibile, resta tuttavia umanamente straziante questa trasfigurazione di Nordio. Ora mancano soltanto gli “affetti stabili” e “i congiunti” per completare la mutazione del ministro ben intenzionato che ormai ha preso a nuotare a rana nel grigio stagno della tortuosità e dell’imbonimento. A diffusione limitata. Caso Delmastro, gli errori di Meloni e la difesa dei peggiori di Emiliano Fittipaldi Il Domani, 17 febbraio 2023 Al netto dell’esito giudiziario della vicenda, è un fatto che Delmastro abbia svelato nella buvette del parlamento conversazioni riservatissime a un suo compagno di partito, che poi le ha usate come manganello politico contro il Pd. Un’azione che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Delmastro non si era dimesso quando doveva. Lo faccia ora. Non per l’avviso di garanzia, ma per il rispetto che un politico deve alle istituzioni che rappresenta. Un avviso di garanzia non è una condanna, ed è possibile che il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Roma per rivelazione di segreto d’ufficio, esca penalmente immune dalla vicenda. La mossa della procura certifica però che le granitiche certezze del ministro della Giustizia Carlo Nordio e della premier Giorgia Meloni sul corretto comportamento del suo ex avvocato erano mal riposte. E che la copertura politica data da Palazzo Chigi a Delmastro e al suo coinquilino Andrea Donzelli - capaci di spiattellare documenti riservati del Dap sull’anarchico Cospito e su tre boss della mafia solo per attaccare l’opposizione - è stata una scelta scellerata. Figlia di un metodo politico (imparato nella sezione dell’Msi Colle Oppio, dove Meloni si è formata) che non si basa sul merito, ma sulla fedeltà. Un cerchio magico dove chi sbaglia, non paga mai. L’inadeguatezza - L’inadeguatezza di parte dei dirigenti di Fratelli d’Italia rischia di essere una spina nel fianco della presidente del Consiglio, almeno fino a quando Meloni non capirà che l’Italia non si può governare dando fiducia a chi sembra non conoscere neanche le basi delle prassi istituzionali. Al netto dell’esito giudiziario della vicenda, è un fatto che Delmastro abbia svelato nella buvette del parlamento conversazioni riservatissime a un suo compagno di partito, che poi le ha usate come manganello politico contro il Pd. Un’azione che non ha precedenti nella storia della Repubblica. L’operazione ordita dagli ex camerati, di cui uno è pure vicepresidente del comitato che controlla informazioni sensibili dei nostri servizi segreti, avrebbe dovuto portare a un’unica conseguenza: le dimissioni immediate di entrambi. Meloni, se con i due amici in privato è stata durissima, ha scelto in pubblico una difesa a oltranza, sintetizzata in una lettera al Corriere della Sera che conteneva menzogne, come la leggenda che le carte divulgate dal suo sottosegretario a Donzelli (non indagato perché per i magistrati è Delmastro il solo detentore del segreto amministrativo) erano state già “anticipate da alcuni media”. Una bugia sesquipedale. Come quelle ripetute dal capogruppo alla Camera di FdI, che aveva giurato di aver chiesto e ottenuto il rapporto segreto della polizia penitenziaria dagli uffici di Nordio, e che qualsiasi altro deputato avrebbe potuto fare lo stesso. Balle. E gli arzigogoli giustificazionisti di Nordio hanno alzato sullo scandalo una cortina fumogena, che ora la procura ha squarciato. Delmastro non si era dimesso quando doveva. Lo faccia ora. Non per l’avviso di garanzia, ma per il rispetto che un politico deve alle istituzioni che rappresenta. Gli anarchici minacciano di vendicare Cospito. Il governo alza l’attenzione, l’idea di introdurre un nuovo reato di Federica Olivo huffingtonpost.it, 17 febbraio 2023 L’attenzione è alta. Più alta dei giorni scorsi, perché le lettere inviate a firma della Federazione anarchica informale ad alcune aziende, con minacce specifiche nei confronti di un manager, “destano preoccupazione”. Al momento, però, si affida il caso alla magistratura, si attende di capire l’autenticità dei volantini anarchici che inneggiano ad Alfredo Cospito, minacciano di uccidere un manager “davanti alla sua famiglia” e riportano come mittente il nome della compagna dell’anarchico in sciopero della fame contro il 41 bis. Il governo si tiene pronto ad alzare l’allarme. Ma solo se dovesse servire. Tra il Viminale e gli ambienti di polizia la cautela e il timore si mescolano in queste ore. Perché le parole riportate in quei volantini di minaccia - “La Fai, federazione anarchica informale, non dimentica Alfredo e gli altri compagni e per risposta all’attacco alla libertà del movimento anarchico colpirà gli uomini per far morire le strutture”, è una delle frasi che si possono leggere - non sono da sottovalutare. Ma bisogna evitare anche che si crei uno stato di allerta, e di paura, generale nella popolazione. Intanto l’ennesima grana relativa al caso Cospito si abbatte sul governo. Il sottosegretario Andrea Delmastro è indagato per la vicenda della relazione del Dap il cui contenuto è stato raccontato da Giovanni Donzelli in Parlamento. A riferire del contenuto di quella relazione era stato proprio Delmastro, che domani sarà sentito dalla procura di Roma. “Gli episodi delle lettere con proiettili di matrice anarchica inviate ad aziende e manager sono al vaglio degli inquirenti, ma sono modalità già viste su cui le forze dell’ordine hanno un livello di attenzione già alto. Dobbiamo però lanciare messaggi sempre molto equilibrati, non di sottovalutazione ovviamente, ma neanche bisogna far preoccupare la gente”, ha spiegato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Mentre scriviamo, non ci risulta siano prese misure specifiche a tutela del manager menzionato in una delle lettere di minaccia, che lavorerebbe in un’azienda di Bolzano, l’Iveco Defence Vehicles, che produce veicoli per la difesa. Più procure, nel nord Italia, sono al lavoro principalmente per accertare la veridicità del messaggio - arrivato anche ad altre aziende e a un giornale - e per capire se effettivamente sia stata inviata dalla Fai. Per quanto non si ritenga ci sia un pericolo imminente: “Verme della società che orienta e determina le guerre per fare ricchezza ingiusta con qualsiasi mezzo, traditore di ogni ideale per arricchire il sistema - sono i termini minacciosi della lettera - indossa mille maschere ma vende morte e non lo racconta nemmeno ai figli (...). Verrà colpito a morte davanti alla famiglia”. Parole che vanno vagliate con attenzione dagli addetti ai lavori, anche per capire se il legame con Cospito sia effettivo, o se la solidarietà al detenuto militante del Fai sia solo millantata. Le condizioni dell’anarchico al momento restano fragili ma stabili: da qualche giorno ha ripreso a mangiare yogurt e ad assumere gli integratori. Resterà ancora in ospedale, nell’attesa che i rischi cardiaci rientrino. È atteso per i prossimi giorni il parere del Comitato nazionale di bioetica sull’eventualità dell’alimentazione forzata. Eventualità che, però, dovrebbe essere esclusa da una disposizione anticipata di trattamento di Cospito stesso, come ha ribadito tanto il suo avvocato quanto gli esperti della materia. Intanto, proprio all’indomani dell’informativa del ministro Carlo Nordio sul 41 bis a Cospito e sul caso Delmastro Donzelli - nel corso della quale il Guardasigilli ha rivendicato il mantenimento del carcere duro per l’anarchico - la maggioranza coglie l’occasione per ribadire la pericolosità dell’anarchico che al momento si trova nell’ospedale San Paolo di Milano: “Le gravi minacce dei gruppi anarchici che annunciano un omicidio per rivendicare la situazione di Alfredo Cospito, ci confermano che le valutazioni di Nordio sulla permanenza del 41 bis sono corrette e che manca una condanna unanime sulle attività eversive degli anarchici”, sostiene Alfredo Antoniozzi, vice presidente del gruppo parlamentare di FdI. “Siamo stanchi delle continue intimidazioni da parte degli anarchici e dei sostenitori di Cospito. Nell’esprimere solidarietà per le minacce di morte rivolte a diverse aziende e ad un giornale, ribadiamo la ferma condanna ad ogni azione violenta o criminale. Non ci lasceremo intimidire da queste azioni provocatorie”, dice Maurizio Gasparri, che lancia un attacco all’opposizione: “Tutti uniti contro il terrorismo della mafia. E basta al turismo carcerario di Pd e altre sinistre a sostegno di Cospito e dei suoi vicini di cella mafiosi”. Per Simona Malpezzi, capogruppo dem in Senato, si tratta di “parole gravi e francamente inaccettabili”. Il Guardasigilli tiene il punto anche durante il question time in Senato: “Il parere della procura nazionale antimafia è nettissimo”. La Dna, però, ha aperto anche alla revoca del 41 bis in favore dell’alta sicurezza. Da giorni, infine, si fa largo la proposta di introdurre un nuovo reato, quello di terrorismo di piazza, per reprimere le manifestazioni violente. I primi sostenitori di questa prospettiva sono alcuni sindacati di polizia, come Fsp: “Si delinei un’apposita fattispecie che lo preveda e lo punisca severamente, e soprattutto che ci fornisca strumenti adeguati per intercettare eventi del genere, impedendogli prima della prossima guerriglia”, sostiene Valter Mazzetti, leader del sindacato. Un parlamentare di FdI, Riccardo De Corato, ha dato seguito alla richiesta, presentando una proposta di legge. Ma la prospettiva non entusiasma tutte le sigle sindacali di categoria: “Non è con le leggi speciali che si gestiscono fenomeni apparentemente straordinari. Il diritto penale pone già le condizioni per perseguire gli autori di atti violenti durante le manifestazioni. Creare un altro reato potrebbe addirittura essere controproducente”, dice ad HuffPost Pietro Colapietro, segretario Silp Cgil. “Faccio - continua - presente che una norma ad hoc per reprimere le manifestazioni violente potrebbe essere applicata non solo agli anarchici ma, ad esempio, alle manifestazioni per il diritto all’abitare, a chi in generale protesta per un diritto. La politica deve fare la politica, senza strumentalizzare il fenomeno del momento, ma cercando di non trasformare i fenomeni di allarme sociale in fenomeni di ordine pubblico. Piuttosto, si investa in assunzioni straordinarie e in formazione a tutto tondo. Servono risorse effettive, non proclami”. La mafia non è di destra né di sinistra, è scivoloso giocare con le eredità di Attilio Bolzoni Il Domani, 17 febbraio 2023 Il dibattito aperto dallo storico Enzo Ciconte sul Domani (“La destra non ha titolo per parlare di antimafia”) dopo le deliranti accuse lanciate da Fratelli d’Italia sull’“inchino” che avrebbe fatto il Pd sul 41 bis all’anarchico Cospito, trascina in una materia scivolosa dove non bisogna confondere il passato con il presente. Quale partito o movimento politico, oggi in Italia, non si dichiara apertamente antimafia? A parole tutti. E chi si sognerebbe mai di manifestare pubblicamente apprezzamento a un Matteo Messina Denaro o ai rappresentanti di una famiglia di Cosa nostra o di ‘ndrangheta? Non siamo più negli anni Cinquanta quando il ministro degli Interni Mario Scelba, in un celebre discorso alla Camera, tentò di persuadere i suoi onorevoli colleghi che mafia era semplicemente sinonimo di “bellezza”. I tempi sono cambiati ed è cambiato pure il linguaggio: la mafia fa schifo a tutti. Anche ai mafiosi che ormai in svariate occasioni, non potendo più negare l’esistenza in vita della loro organizzazione, provano a mischiare le carte. Ma le cose stanno proprio così? Materia molto scivolosa - Il dibattito aperto dallo storico Enzo Ciconte sul Domani, con l’articolo La destra non ha titolo per parlare di antimafia, dopo le deliranti accuse lanciate da Fratelli d’Italia sull’“inchino” che avrebbe fatto il Pd sul 41 bis all’anarchico Cospito e continuato da Nello Trocchia, trascina in una materia molto scivolosa dove non bisogna confondere il passato con il presente. E’ vero che storicamente la sinistra italiana, e in particolare il partito comunista, si è schierata nettamente dall’altra parte pagando le sue scelte con il sangue. I dirigenti del Pci assassinati in Calabria e in Campania, i quasi cinquanta sindacalisti uccisi in Sicilia nel secondo dopoguerra, l’omicidio eccellente di Pio La Torre nella Palermo del 1982. La lapide e il postfascista - La figura di Pio La Torre è però diventata un po’ come la famosa foto di Falcone e di Borsellino, ritratti uno accanto all’altro. Per molti magistrati basta mettersela sulla scrivania per sentirsi in qualche modo uguali a loro, avere una sorta di patente, un marchio doc. E’ così anche per l’eredità antimafia rivendicata per La Torre. Personaggio sempre più ingombrante nei vari passaggi e trasformazioni dal Pci al Pds, dai Ds sino al Pd, siamo proprio sicuri che quell’eredità sia stata adeguatamente tutelata, che i discendenti di quella storia politica abbiano sempre tratto insegnamento dal quel lascito? Nel 2009, ventisettesimo anniversario del delitto La Torre, il presidente della Camera Gianfranco Fini invitò i familiari di La Torre a Montecitorio per la scopertura di una lapide in onore di un comunista caduto per mano di Cosa Nostra. Non ci avevano pensato mai i suoi predecessori - Nilde Iotti, Giorgio Napolitano e Luciano Violante - tutti provenienti dal Pci. L’ha voluta un postfascista, uno che aveva mosso i suoi primi passi nel Fronte della Gioventù, portato da Giorgio Almirante al vertice del Movimento Sociale, poi leader di Alleanza nazionale e poi ancora vice di Berlusconi nel suo secondo governo. Più passano gli anni e più Pio La Torre in quel partito sembra un santino sbiadito, alla bisogna tutti lo citano ma non mi pare che qualcuno abbia rilanciato con convinzione la sua azione politica e parlamentare contro le mafie. Di esempio contrari invece ce ne sono. A cominciare dalle promiscuità del Pd romano ad Ostia o in alcune zone dell’aversano e della Calabria, per non parlare poi della Sicilia - proprio nella terra di La Torre - dove il Pd è entrato corpo e anima nel cosiddetto sistema Montante, quello che una giudice ha definito “mafia trasparente”. Fornendo come fantoccio a una rete criminale addirittura il governatore Rosario Crocetta, appoggiando in giunta e fuori i signori dei rifiuti, non muovendo un dito mentre una banda saccheggiava la regione. Assai difficile ritrovare l’eredità di Pio La Torre in quel Pd. L’appoggio al sindaco Lagalla - Ma le parole valgono per tutti. Che dire allora del partito di Giorgia Meloni, lei che si riempie la bocca del “suo” Paolo Borsellino e che alle comunali di Palermo del giugno scorso ha prima candidato la fedelissima Carolina Varchi a sindaco, poi l’ha ritirata per appoggiare il candidato Roberto Lagalla voluto dai due condannati per reati di mafia Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro? Il passato è lontanissimo ed è fuorviante dare oggi un colore politico alla mafia, che è trasversale e cangiante. La mafia non è di destra e non è di sinistra, la mafia non ha ideologia, non è soggetto politico, non c’è un partito della mafia. La mafia sta semplicemente con il potere, è sempre attaccata al potere. Con la politica l’attrazione è reciproca. Un pezzo grosso della Cupola, Antonino Giuffrè, raccontava: “Per noi la politica è come l’acqua per i pesci”. Che fine fanno i pesci senza acqua? Muoiono. Napoli. Dall’inferno di Poggioreale le 5 proposte di Md per migliorare le carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 febbraio 2023 Una delegazione di Magistratura Democratica, Camera penale di Napoli e Antigone ha visitato il carcere napoletano. Topi, muffa, umidità. Questo è stato il primo impatto alla visita del carcere di Poggioreale effettuata da una delegazione di componenti di Magistratura democratica, della Camera penale di Napoli e dell’associazione Antigone. Dalla visita dello scorso 4 febbraio è emerso un quadro deprimente sotto ogni punto di vista. Ci viene in aiuto il resoconto da poco pubblicato nel sito di Md. In premessa viene spiegato che l’obiettivo di questa visita, che rientra in un progetto più ampio iniziato nel novembre 2022 con la visita a Sollicciano, è quello di esaminare le criticità del sistema carcerario e individuare gli strumenti più idonei per rendere più dignitosa la vita dei detenuti e offrire loro nuove possibilità di reinserimento sociale, come previsto dalla Costituzione. Uno dei problemi più gravi riscontrati a Poggioreale è il sovraffollamento, con un numero di detenuti superiore alla capacità massima della struttura. Viene sottolineato che la riforma Cartabia ha introdotto delle norme per ridurre la popolazione carceraria, ma queste rischiano di restare lettera morta se non si potenziano le strutture dell’esecuzione penale esterna, che già mostravano criticità anche prima della riforma. Oltre al sovraffollamento a Poggioreale si riscontra una grave carenza di personale sanitario, soprattutto in ambito psichiatrico e psicologico, che determina un’incapacità nella tutela della salute fisica e mentale dei detenuti. Le prestazioni mediche specialistiche non riescono a essere effettuate nella struttura penitenziaria e spesso subiscono ritardi burocratici. Il resoconto dell’esecutivo di Magistratura Democratica evidenzia quindi la necessità di individuare soluzioni per migliorare il sistema penitenziario italiano, garantendo un’adeguata assistenza sanitaria ai detenuti e riducendo il sovraffollamento. Si auspica che in futuro si possano individuare strumenti più efficaci per rendere più dignitosa la vita dei detenuti e offrire loro opportunità di reinserimento sociale, al fine di prevenire la recidiva e tutelare la loro dignità e salute psicofisica. Entrando nello specifico della visita al carcere napoletano ci si è concentrati sui tre padiglioni dell’istituto, in particolare sulla situazione delle celle e delle strutture presenti, evidenziandone le numerose criticità. Il primo padiglione visitato è stato il “Roma”, dove sono ospitate donne transessuali, soggetti affetti da dipendenza da stupefacenti e sex offenders. Sono in corso lavori di ristrutturazione al piano terra e al primo piano, a causa delle pessime condizioni strutturali delle celle. In particolare quelle del piano terra che ospitavano le donne transessuali erano prive di doccia e avevano il wc in ambiente non separato dal letto e dalla zona cucina. Inoltre i piani del padiglione presentano ancora i ballatoi che impediscono la mobilità dei detenuti e le stanze per la socialità. Il secondo padiglione visitato è stato il “Milano”, con detenuti in circuito di media sicurezza e quelli sottoposti al circuito ex art. 32 o.p. Questi ultimi sono coloro che compromettono la convivenza nei reparti o soggetti che rifiutano la socialità, e vivono in stato di isolamento. In questo padiglione mancano le docce all’interno delle celle al piano terra e al primo piano, e alcune stanze sono particolarmente affollate e prive dell’area socialità. Il terzo padiglione visitato è stato il “Napoli”, dove ci sono i detenuti in media sicurezza, molti dei quali stranieri. In questo padiglione ci sono numerosi problemi strutturali e igienici. In particolare, le celle sono umide, e i detenuti hanno dovuto applicare della carta alle pareti per isolare l’ambiente dall’umidità e dei cartoni per impedire l’ingresso dei ratti. Inoltre, il funzionamento dell’impianto di riscaldamento è precario, e i detenuti hanno a disposizione poche stufe elettriche per un numero troppo elevato di stanze. Anche le strutture di svago sono praticamente inesistenti. In generale la visita ha evidenziato una situazione strutturale gravemente compromessa sotto diversi profili, a fronte degli sforzi dell’amministrazione per migliorare le condizioni dei detenuti. Il tutto contrasta con il rispetto dei principi costituzionali che vietano i ‘ trattamenti contrari al senso di umanità’ e la necessità di offrire un’opportunità ai detenuti per evitare future recidive. Magistratura democratica propone cinque misure per migliorare la situazione carceraria. Per prima cosa lo stanziamento di risorse economiche a favore delle strutture dedicate all’esecuzione di pene alternative alla carcerazione, per incidere sul sovraffollamento delle carceri. La seconda misura proposta è l’incremento dell’utilizzo di strumenti alternativi alla carcerazione intramuraria, come gli arresti domiciliari, per salvaguardare le esigenze di cautela sociale. La terza proposta è relativa al l’implementazione di opportunità di lavoro all’interno delle strutture carcerarie per tutti i detenuti, indipendentemente dalla predisposizione di formali graduatorie, e la partecipazione a corsi specializzati per acquisire competenze e professionalità, al fine di favorire un futuro reinserimento nella società. La quarta misura prevede una maggiore presenza dei magistrati di sorveglianza all’interno delle carceri. Infine, come quinta misura, si propone l’aumento del numero di psicologi e psichiatri per garantire una seria prevenzione del rischio suicidario e dei funzionari giuridico- pedagogici e mediatori culturali per assicurare un reale accompagnamento nel percorso trattamentale. In sintesi, Md evidenzia la necessità di adottare misure concrete per migliorare la situazione penitenziaria, che deve rispettare i principi costituzionali e offrire opportunità ai detenuti per evitare future recidive. Le proposte, in definitiva, riguardano lo stanziamento di risorse, l’incremento dell’utilizzo di strumenti alternativi alla carcerazione, l’implementazione di opportunità di lavoro e di formazione, la maggiore presenza dei magistrati di sorveglianza e l’aumento del personale medico e pedagogico. Palermo. I detenuti del Pagliarelli chiedono una telefonata al giorno. La risposta di Fiandaca di Egidio Morici tp24.it, 17 febbraio 2023 Durante il periodo più duro della pandemia, al carcere Pagliarelli di Palermo erano state sospese le visite. A causa dell’emergenza Covid, in alternativa, era stata concessa la possibilità di una telefonata al giorno per parlare con familiari e avvocati. Finita l’emergenza, la struttura carceraria, già dal 16 dicembre scorso, aveva comunicato il ritorno alla normalità, ovvero la ripresa delle visite in presenza ed un colloquio telefonico a settimana. A fine gennaio scorso però è stata fatta una petizione, firmata da 793 detenuti, inviata tramite l’avvocato Vito Daniele Cimiotta, alla direzione del carcere e al Dap, ma anche al Tribunale di sorveglianza di Palermo, alla Commissione giustizia della Camera, all’associazione Antigone e al professore Giovanni Fiandaca, garante regionale per i diritti dei detenuti. In questa istanza il legale aveva chiesto di revocare l’avviso del 16 dicembre con effetto immediato “al fine di consentire a tutti i detenuti di avere contatti più frequenti, anche se telefonici, con i propri familiari e legali”. Il 15 febbraio è arrivata la risposta del professore Fiandaca, che ha comunicato all’avvocato Cimiotta di aver sollecitato più volte la direttrice del Pagliarelli sollecitandola a “prendere in considerazione nel modo più comprensivo possibile, quanto richiesto dalla maggioranza della popolazione carceraria”. “Da quel che ho compreso - ha aggiunto Fiandaca - in linea tendenziale si è favorevoli a consentire un numero di telefonate maggiore di quello regolamentare, tenendo anche conto delle motivazioni che nei casi concreti i detenuti interessati addurranno a giustificazione del loro contingente bisogno di contatti telefonici; ma non si potrà perpetuare il regime eccezionale delle telefonate giornaliere, una volta che occorre ritornare a un regime di normalità. Non è escluso che in proposito saranno date indicazioni anche da parte del Dap”. Palermo. Rieducazione detenuti. “È giusto considerare la scuola luogo di cambiamento e riscatto” di Ludovica Iacovacci tag24.it, 17 febbraio 2023 La preside dell’istituto Falcone di Palermo Daniela Lo Verde è intervenuta ai microfoni di Radio Cusano Campus per parlare di rieducazione dei detenuti. Il tema della rieducazione dei detenuti è una materia difficile. La rieducazione è un argomento particolarmente importante e delicato perché l’obiettivo è non far ricadere i detenuti negli stessi errori e convertirli in persone nuove. Quanto i titoli di studio favoriscono il riscatto sociale? Ne ha parlato ai microfoni di Radio Cusano Campus la preside dell’istituto Falcone di Palermo Daniela Lo Verde. Quanto la scuola contribuisce al riscatto di alcune persone, è davvero il luogo del cambiamento? “Io credo che lo sia o che lo possa essere. Sono 10 anni che abito alla scuola Falcone che si trova al quartiere Zen, un quartiere di periferia, degradato, con un’etichetta di quartiere con alta densità criminale. I modelli che hanno questi bambini non sono sempre modelli positivi, c’è un alto grado di analfabetismo nel quartiere. Quello che proviamo a fare è essere dei modelli per loro, accoglierli e provare a indirizzarli verso nuove prospettive di vita, anche alla scoperta di passioni o talenti che spesso hanno ma che non sanno neanche di avere. La scuola li deve mettere nella condizione di poter scegliere”. A conti fatti, quante di loro sono persone nuove? “In questi 10 anni a me pare diversa la scuola, la dispersione scolastica che si contava in termini di abbandono anche alla scuola media inferiore adesso si è trasformata in frequenza irregolare. Quello che mi preoccupa fortemente è la dispersione implicita, cioè il grado di apprendimento che viene raggiunto e che condiziona il percorso scolastico futuro. Per questo bisogna lavorare sulla motivazione, sulla crescita di autostima e sul riscatto sociale, specie in confronto alla generazione precedente. La scuola rimane l’unico luogo sicuro che possa consentire loro di essere sereni, perché possono sorridere e vengono assecondati e ascoltati. Non è raro. È un processo delicato quello di riscattare gli studenti. Non si può considerare solo l’aspetto cognitivo e degli apprendimenti. La persona va guardata a 360 gradi, dal punto di vista della affettività, delle emozioni, anche la cura e la conoscenza delle emozioni che provano e che non sanno gestire, penso alla rabbia che si trasforma in aggressività: a volte è solo il loro modo di relazionarsi perché hanno avuto questo come modello di riferimento. La scuola deve rimanere aperta il più tempo possibile, deve essere dotata di apprendimenti altri, oltre all’apprendimento: attività di laboratorio, ludiche, tutto comporta un apprendimento. Gli stimoli devono essere tantissimi e devono andare a compensare altre fonti”. È più facile ottenere riscatto da ragazzi o ragazze? “Lo stereotipo di genere è ancora molto radicato. Dai ragazzi ci si aspetta che inizino a lavorare precocemente, dalle ragazze che si prendano cura della famiglia. Stiamo portando avanti un processo di crescita”. Cosa servirebbe per migliorare ancora alla scuola? “C’è un problema di contesto territoriale. Consideri che allo Zen mancano edicole, teatri, cartolerie. Manca qualsiasi spunto possa regalare un sorriso. Questi ragazzi sono privati e vengono fatti crescere fin troppo in fretta. L’altro giorno - a causa o per fortuna di quest’opera che stiamo facendo di diventare scuola, come tutte le scuole del mondo - tre fanciulle sono venute e hanno detto: “Preside dato che siamo all’ultimo anno anche noi faremo il viaggio d’istruzione?”. Lì capisci che hai fatto un buon lavoro perché li stai portando ad affermare diritti che non pensavano nemmeno di avere, dall’altra capisci che devi metterti sottosopra per trovare finanze che ti permettano di portarli in viaggio di istruzione, solo che noi non chiediamo neanche i soldi per l’assicurazione, quindi facciamo fatica. Io non chiedo mai soldi alle famiglie perché so che la maggior parte entrerebbe in difficoltà, e nessuno può rimanere in classe e qualcuno uscire solo per un problema economico. Si chiede aiuto a persone di buon cuore e cerco di partecipare a tutti i bandi e finanziamenti pubblici che ci sono, o cercare progetti che possano far fare la mensa. Ci sono diversi bandi sia europei che nazionali che regionali che ci aiutano da questo punto di vista. Il lavoro è notevole”. Lo Stato nei vostri confronti dovrebbe avere un occhio di riguardo? “Noi veniamo trattati come vengono trattate tutte le altre scuole d’Italia, senza alcuno sconto o facilitazione. Né in termini di organici - intendo come numero di personale, sia a livello docenti che collaboratori scolastici - né in termini di agevolazioni finanziarie, né in termini di graduatoria di progetti. Con lo svantaggio che in scuole come queste è difficile trovare qualcuno che abbia voglia di venire o di restare. Abbiamo ogni anno un gran numero di docenti che chiedono trasferimenti. Si ricomincia ogni anno a dover spiegare come prendere le misure con questi ragazzi che hanno tanto da dare ma che hanno anche tantissimi bisogni”. Pavia. Carceri, l’emergenza cresce: pochi agenti e troppi reclusi di Umberto Zanichelli Il Giorno, 17 febbraio 2023 I mali cronici che affliggono le case circondariali sono la carenza d’organico della Penitenziaria e il sovrannumero di detenuti, mentre problemi gravi riguardano anche il fronte sanitario. Una carenza di personale che si fa sempre più sentire. Nella casa di detenzione della frazione Piccolini di Vigevano sono attualmente in servizio 201 agenti della Polizia penitenziaria anche se la pianta organica ne prevede 40 in più. Una difficoltà comune alla stragrande maggioranza degli istituti di pena che costringe il personale a lavorare in condizioni generali e di sicurezza al di sotto degli standard previsti. “C’è una gravissima carenza di organico - conferma Mirco Savastano, segretario aggiunto del Sindacato di Polizia penitenziaria - e questo è il primo problema. C’è uno stato di sofferenza che non credo che si sia mai riscontrato in passato. In più si registra un crescente numero di richieste di trasferimento a fronte di un numero limitato di nuovi ingressi. È già accaduto che dopo un doppio turno di servizio il personale sia stato richiamato nel cuore della notte per far fronte alle emergenze. Problemi gravi riguardano anche l’area sanitaria: è già accaduto di trovarsi senza medici in grado di garantire la copertura nell’arco delle 24 ore”. A Vigevano le carenze si registrano anche negli uffici: a fronte di 23 posizioni previste sono solo 15 gli operatori amministrativi in servizio e anche gli educatori si trovano sotto organico con quattro addetti anziché i sei previste. Ma la condizione di disagio è una costante in tutti i 19 penitenziari della Lombardia, dove il sovraffollamento tocca il 131%. Un dato che riguarda anche gli istituti della provincia di Pavia: a Vigevano i posti previsti sono 242 ma i detenuti effettivamente reclusi sono 368, con un sovraffollamento del 152 per cento: e si tratta di un dato in miglioramento rispetto agli anni passati. A Torre del Gallo a Pavia ci sono attualmente 613 detenuti a fronte di una capienza ufficiale di 520 (118%). In quello di Voghera i reclusi sono 361 a fronte di una capacità di accoglienza ufficiale di 341 (105%). Il dato in assoluto più preoccupante di tutta la regione riguarda il carcere di Como dove a fronte di 226 posti i detenuti sono 387 (171%). Complessivamente in tutta la Lombardia i detenuti sono oggi 8.109 contro una capacità di accoglienza ufficiale che si ferma a 6.161 posti. Le carceri con il maggior numero di detenuti sono quelle di Bollate (1.358 reclusi) e Opera (1.334). Corato (Ba). Gli ex detenuti protestano davanti al Comune: “Vogliamo lavorare” di Giuseppe Cantatore coratolive.it, 17 febbraio 2023 “Siamo ex detenuti o persone con altre restrizioni, non abbiamo possibilità di lavorare e il Comune non ci aiuta”. Da questa mattina alle 10 ai piedi del Palazzo di città, un gruppo di ex detenuti ha dato vita a un presidio di protesta per chiedere all’amministrazione la possibilità di lavorare. Ai piedi del Comune è stato anche posto uno striscione sui si legge “Riprendiamo il diritto del lavoro”. “Quando chiediamo di lavorare ci domandano il casellario giudiziario che ovviamente presenta dei precedenti e quindi nessuno ci assume” spiega la portavoce Rosa Pannarosa. “Abbiamo proposto al sindaco di realizzare una cooperativa per svolgere lavori socialmente utili tipo pulire erba, fare servizio ai bagni pubblici o al cimitero. Lui, però, ci ha negato anche questa speranza. Di qui non ci muoviamo fino a quando il sindaco non ci fornisce un lavoro degno che ci consenta di portare il pane sulla tavola e di non delinquere più” afferma. “La richiesta di lavorare per conto del Comune, anche costituendo una cooperativa, si imbatte nelle limitazioni poste dalla legge” replica il sindaco Corrado De Benedittis spiegando la posizione dell’amministrazione. “Questi cittadini - ha replicato De Benedittis - esprimono il diritto legittimo di lavorare che per loro è complesso perché chi ha precedenti penali non può prestare lavoro per conto di un ente pubblico. La risposta è un’altra: quella di definire progetti di inserimento lavorativo e introduzione al lavoro. Si tratta di un percorso che deve andare in un segno che non sia solo quello dell’assistenzialismo. Aver commesso un reato non deve essere uno stigma per la vita, ma non può nemmeno essere un lasciapassare. Sono tanti i cittadini che rivendicano il diritto al lavoro e bisogna garantire il giusto equilibrio nel segno della correttezza. In più, la pubblica amministrazione non può essere messa sotto scacco con richieste ultimative”. Firenze. Lavoro gratuito per i detenuti? Un grave caso di sfruttamento Ristretti Orizzonti, 17 febbraio 2023 La denuncia de “L’Altro diritto” che critica il protocollo tra Comune di Firenze, Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e gli Istituti penitenziari fiorentini per impiegare, senza retribuzione, persone ristrette nella libertà in programmi di manutenzione del verde fiorentino. È di alcuni giorni fa la notizia di un protocollo che Comune di Firenze, Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e gli Istituti penitenziari fiorentini sono in procinto di sottoscrivere, anche con il contributo del Garante comunale dei detenuti, per l’impiego dei detenuti in attività di pubblica utilità (prevista dall’art. 20 ter o.p.). L’accordo, secondo quanto riportato dalla stampa, prevede un percorso di formazione di Cna per 20 detenuti semi-liberi al quale seguirà lo svolgimento di un programma di manutenzione del verde pubblico. L’intesa è presentata come uno strumento per favorire il reinserimento sociale dei detenuti, ma, secondo l’associazione L’altro diritto, nasconde una grave forma di sfruttamento: l’attività lavorativa prestata è infatti gratuita. L’assenza di una retribuzione sminuisce il valore del lavoro che, secondo la nostra Costituzione, deve sempre essere accompagnato da una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità” del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia “un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36). Non si comprende perché questo principio fondamentale non debba valere per chi è ristretto in una struttura penitenziaria, non si comprendono le ragioni per le quali i detenuti, che già stanno scontando la pena della privazione della libertà personale, debbano scontare questa ulteriore umiliazione del lavoro gratuito. A subirne le conseguenze, poi, sono anche le famiglie che già si trovano private del reddito del familiare detenuto. Il lavoro e l’accesso al reddito sono gli unici strumenti che possano garantire percorsi veri di reinserimento sociale. L’assenza di un reddito finisce per privare il lavoro della sua funzione educativa: il salario corrisposto ai detenuti, secondo i principi stabiliti dalla nostra Corte costituzionale (n. 1087/1988), serve a ribadire che l’unica forma legittima di guadagno è il lavoro. È già emerso che in altri grandi Comuni italiani, come quello di Roma dove è utilizzata, questa pratica basata sull’uso di manodopera gratuita produce forme di concorrenza sleale a danno delle imprese del settore della manutenzione del verde pubblico: in molti casi si tratta di cooperative sociali che impiegano soggetti svantaggiati (tra i quali anche ex-detenuti) che si sono visti privati di occasioni di lavoro vero e retribuito. Si ricorda, infine, che la manutenzione del verde pubblico si è rivelato uno degli ambiti che ha consentito, attraverso l’impiego (con retribuzione), l’ammissione di persone detenute al lavoro all’esterno o semi-liberi, ovvero l’accesso a misure alternative che permettono di ridurre la pressione del sovraffollamento nelle carceri e allargare la potenzialità educativa delle pene detentive. “In carcere si diventa un numero. Ma lì dentro ho incontrato l’umanità” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 febbraio 2023 L’ingiusta detenzione del medico Rizzo diventa un libro, dal titolo “25 giorni”: “I detenuti come animali in gabbia dimenticati dal mondo e dallo Stato”. In carcere si diventa un numero. Antonino Rizzo nei venticinque giorni di custodia cautelare è stato la matricola numero 60731. Il medico catanese racconta la sua esperienza dietro le sbarre nel libro “25 giorni”, dopo essere stato coinvolto in una inchiesta con al centro presunte truffe e falsi certificati per fare ottenere pensione di invalidità, accompagnamento e riconoscimento dei benefici della legge 104 a chi non ne aveva diritto. Il titolo del libro rievoca l’esperienza di detenuto per quasi un mese, partendo dalla “visita” dei carabinieri a casa alle prime luci dell’alba per prelevarlo e strapparlo dai suo affetti: la moglie e i figli. “25 giorni” non è solo una testimonianza che vuole tenere accesi i riflettori sull’universo carcerario. È un diario che raccoglie sensazioni, desideri, esperienze e paure. Le paure di chi da un giorno all’altro vede stravolta la propria esistenza e quella dei propri cari, che vivono con chi viene privato della libertà personale le stesse angosce. L’esperienza del carcere non è solo un fatto prettamente personale; è una valanga che travolge amici, familiari, vita privata e vita professionale. Occorrono nervi saldi e grande forza interiore per rialzarsi. “Sono un detenuto - scrive Rizzo -, per caso, certo, ma sempre un detenuto e quando stai dentro un carcere, per tutti, comunque, qualcosa hai certamente combinato. Anch’io spesso, colpevolmente, ho pensato così per fatti analoghi: non c’è mai la presunzione d’innocenza per un arrestato, piuttosto c’è quella di colpevolezza. E questa sensazione, che ho provato in quel momento, mi accompagnerà poi per tutta la detenzione e non potrò mai scacciarla via: per molti, tanti, troppi, non c’è mai spazio per incertezze o dubbi su un eventuale errore giudiziario”. Proprio quello che ha riguardato Antonino Rizzo. Anche nel suo caso la carcerazione preventiva e la gogna mediatica sono state due facce della stessa medaglia. “Il termine carcerazione preventiva - dice Rizzo al Dubbio -, teoricamente, dovrebbe esser stato bandito dal nostro ordinamento, poiché etimologicamente volto a conciliare due istituti tra loro incompatibili, in quanto diversi per natura e funzione: ossia la pena detentiva, il carcere, e la misura cautelare, che, per antonomasia, una pena non è e non dovrebbe mai essere, ciò in quanto la sua applicazione postula la pendenza di un processo penale, il cui esito definitivo si avrà soltanto con l’irrevocabilità della sentenza. Tuttavia, posso affermare, con assoluto rammarico e preoccupazione, che l’esperienza che mi ha visto coinvolto ha inciso sulla mia persona come, probabilmente, soltanto una pena dovrebbe fare. Come racconto nel mio libro, ho trovato strutture fatiscenti, che rendono il soggetto sottoposto a misura cautelare una sorta di animale in gabbia, dimenticato dal mondo, dimenticato dal nostro Stato. Non voglio scadere nei luoghi comuni, ma mi sono sentito come fossi meno di un numero. Mi sentivo innocente e avevo voglia di difendermi, di spiegare le mie ragioni. Nella realtà dei fatti, però, sono stato trattato come un colpevole abbandonato in una struttura che, a sua volta, è abbandonata a se stessa”. Mai il medico Rizzo, stimato ed affermato professionista catanese, avrebbe immaginato di fare un’esperienza così dolorosa. La realtà carceraria si tende sempre a tenerla lontano dalla vita quotidiana. La società tende a non pensarci e quando ciò accade cerca di rimuoverla subito da ogni ragionamento. “È stata certamente un’esperienza dura - commenta - durissima, fatta di umiliazioni, promiscuità, fatiscenza della struttura, burocrazia asfissiante e vessatoria. Se si sopravvive al carcere, lo si fa solo grazie agli altri detenuti non allo Stato che ti ci ha scaraventato dentro. Ho conosciuto sentimenti che non avevo mai incontrato nella mia vita: solidarietà, fratellanza, sostegno e tutti senza alcun secondo fine, ma con il solo intento di aiutare gli altri, chi ha più bisogno. Una lezione di umanità che non dimenticherò mai”. Forza di volontà e desiderio di non considerare l’esperienza carceraria, seppur molto limitata nel tempo, una parentesi da appallottolare e gettare nel cestino dei ricordi. Per Antonino Rizzo i venticinque giorni con altri detenuti sono stati l’occasione per far conoscere, attraverso le pagine di un diario, intimo e al tempo stesso rivolto all’opinione pubblica, la vita senza la libertà. “Il mio libro - aggiunge - l’ho scritto in carcere, a penna, su fogli di carta raccattati quando ero in isolamento e poi su un quadernone acquistato con il sopravvitto. Ho graffiato quei fogli con tutta la rabbia e la disperazione che avevo e che potevo, ho cercato di metterci dentro tutta quella tempesta di emozioni che mi esplodeva dentro. E sono uscito certamente migliore di quello che ero non certo per la lezione che hanno tentato forse di darmi, ma per aver conosciuto un’umanità che non sapevo neanche che esistesse”. Pagine scritte con l’intento di non dimenticare un’esperienza personale e l’umanità insperata, che si cela dietro mura massicce e gelide sbarre. Storia di Pierdonato Zito, dalla prigione alla “cattedra” di Alessandro Gargiulo e Manuela Palombi Il Riformista, 17 febbraio 2023 La sua tesi di laurea con lode in sociologia è diventata un libro: “Lo studio negli istituti penitenziari: Education and Imprisonment”, collana Carcere e Società. Pierdonato Zito è nato a Montescaglioso, è stato condannato all’ergastolo ed è rimasto in carcere ininterrottamente per 25 anni, di cui 8 al 41 bis. Dal 2020 è in regime di semilibertà. Pierdonato è la rappresentazione vivente del fine rieducativo della pena, quello sancito dalla nostra Costituzione, e che si sposa malissimo col “fine pena mai” e il “carcere duro”. Anche se in un’ottica machiavellica, nel belpaese, il fine - quello rieducativo - non giustifica mai i mezzi della detenzione italiana, anzi, proprio questi finiscono, troppo spesso, per cancellare del tutto le previsioni costituzionali. Grazie al percorso didattico nel carcere di Secondigliano, Pierdonato è riuscito a fare di se stesso e con se stesso un esperimento di auto-etnografia penitenziaria, dimostrando come ci si possa tras-formare e prendere cura del sé rifuggendo senza evadere l’assoggettamento dell’istituzione carceraria per costruire una nuova e diversa soggettività. Specialmente, con la sua vita (tra le mura del carcere e fuori da quelle mura), Pierdonato ha confessato, cioè ha testimoniato e ha detto il vero su se stesso; ha fatto penitenza, cioè ha portato, prima ai suoi compagni di carcere e, poi, anche nelle scuole, se stesso come esempio. Certo, viene a mente un tal Foucault, proprio quello delle tecnologie del sé, ma Pierdonato ce lo abbiamo davanti, è vicino a noi, di fianco, trasformatosi, quindi, in un delizioso e gentile grillo parlante di collodiana memoria. Viene da chiedersi come sia stato possibile tutto questo, tenuto conto che Pierdonato Zito non è solo (e non è il solo) in questo percorso di tras-formazione. Ovviamente ci sono per lo mezzo gli uomini e le donne che costellano il panorama carcerario italiano, i magistrati di sorveglianza, gli agenti di polizia penitenziaria, gli operatori, i direttori, gli insegnanti, i docenti dell’Università “Federico II” di Napoli - Polo Universitario Penitenziario di Secondigliano. Ed è sempre vero che l’uomo ha continuativamente bisogno di un Maestro, è sempre allievo senza mai superarlo, perché il Maestro, quello vero, non si supera, semplicemente si sostituisce con la presenza di un nuovo allievo; ma allievo e Maestro, nel loro personalissimo rapporto, a un certo punto, possono sostituirsi a vicenda, trasformando in poesia un antico rapporto di subalternità. Questo è quello che accade con Pierdonato. Da detenuto aveva necessità di trovare maestri e li ha trovati, ma, poi, le tecnologie del sé hanno funzionato bene e negli anni molti compagni hanno trovato in lui un Maestro, molti maestri hanno trovato in lui un esempio, fino ad arrivare alle scolaresche che spesso lo ascoltano, fino ad arrivare a Papa Bergoglio che lo ha ricevuto, lo ha ascoltato nell’evento “Francesco e gli Invisibili, il Papa incontra gli ultimi”. Il suo libro serve perché troppo spesso chi parla del carcere, anche in punto di scienza, in carcere non c’è mai stato e in tal senso Pierdonato Zito con la sua opera va ad inserirsi in quel panorama internazionale oggi definito col termine di Convinct Criminology ove “i reclusi sono al contempo testimoni individuali delle criticità del sistema penale e attori sociali che reagiscono consapevolmente al processo di stigmatizzazione di cui sono stati oggetto o destinatari e continuano ad esserlo”; non a caso, “l’istituzione carceraria è sociologicamente interessante poiché è la rappresentazione dell’intera società e dei conflitti che in essi si agitano”, nella specie, siamo di fronte ad una conoscenza empirica antropologica che si trasforma in vera e propria analisi sociologica. Insomma, le contraddizioni, le incongruenze, le s-torture che caratterizzano la materialità dell’esecuzione penale prendono forma con e in Pierdonato Zito, il quale, con la sua attività di Convinct Criminology va a riempire un vuoto, tenuto conto che nelle carceri italiane la sociologia non trova albergo, nemmeno in funzione rieducativa e risocializzante, facendola da padroni la psicologia e l’assistenza sociale. Pierdonato e la ‘sua’ Convinct Criminology ci porta testimonianze dirette, contrasta gli stereotipi negativi della cultura dominante che vuole i detenuti come ‘mostri’, che nega e calpesta, senza nascondersi, il fine rieducativo della pena. Pierdonato, proprio come Victor Hugo, con la sua detenzione, il suo studio, la sua trasformazione, apre una scuola e chiude una prigione, del che c’è stata effettiva testimonianza il 27 gennaio scorso quando alla Federico II, alla presenza di insigni giuristi, mentre si presentava altro libro - quello di Elio Palombi, “Magistratura e Giustizia in Italia. Dal 1970 alla riforma Cartabia” - si è visto cedere la sedia di relatore da Vincenzo Maiello e per qualche minuto ha intrattenuto una platea decisamente interessata. Delitti, detenuti, pene. Lo studio è sul Kenya ma sembra l’Italia di Sergio D’Elia Il Riformista, 17 febbraio 2023 La ricerca sui condannati a morte condotta da docenti dell’Università di Oxford prova che la terribilità e certezza della pena non sono un deterrente. Si fosse parlato di ergastolo e 41bis i risultati non sarebbero stati diversi. La terribilità e la certezza della pena non possono costituire un deterrente, se neanche i condannati sanno cosa prevede il codice penale. È questa la conclusione di una ricerca condotta in Kenya nel 2022 tra i prigionieri del braccio della morte. Lo studio s’intitola “Vivere con una condanna a morte in Kenya…”, è stato commissionato dal Death Penalty Project del Regno Unito e dalla National Commission on Human Rights (KNCHR) del Kenya ed è stato condotto da Carolyn Hoyle e Lucrezia Rizzelli dell’Università di Oxford. Le due ricercatrici hanno intervistato 671 persone, di cui 33 donne, detenute nel braccio della morte in 12 carceri del Paese. Il 44% del totale era condannato per omicidio, il 56% per rapina violenta. Secondo lo studio, solo un detenuto su cento sapeva che la pena di morte era una punizione prevedibile per il reato commesso. Inoltre, ha rilevato la ricerca, nel braccio più duro e isolato del carcere non erano reclusi i più pericolosi e i peggiori tra i peggiori. Lo studio è stato condotto in Kenya. Fosse stato fatto in Italia, i numeri non sarebbero stati diversi. La ricerca ha riguardato la pena di morte. Fosse stata la pena fino alla morte, il risultato non sarebbe cambiato. I detenuti intervistati erano tutti nel braccio della morte. Fossero stati detenuti al 41 bis, le risposte sarebbero state le stesse. Quindi, continua a leggere questo articolo e dove vedi scritto Kenya puoi anche tradurre Italia. Dove è scritto “pena di morte” leggi pure “pena fino alla morte”. Dove è scritto “braccio della morte” pensa al “41 bis”. Molti detenuti nelle carceri keniote hanno affermato che gli sono stati negati i diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti gli indagati e imputati di un reato, come il diritto a non essere costretti a fare una confessione. Più della metà non ha potuto comunicare con un avvocato. Il diritto al silenzio di poco meno della metà non è stato rispettato. Oltre la metà ha dichiarato di essere stata sottoposta a forme psicologiche di tortura, più di un terzo (37%) ad abusi fisici e a quasi un quarto (23%) è stata negata l’assistenza medica. In condizioni coercitive di detenzione, molti potrebbero quindi aver rilasciato dichiarazioni incriminanti su sé stessi. È quasi scontato che le prove ottenute in questo modo dalla polizia siano inaffidabili, abbiano portato a condanne errate nei tribunali e persone innocenti nel braccio della morte. Per quanto riguarda il luogo comune sul valore deterrente della pena, i dati della ricerca non lasciano margini a dubbi: mancano i presupposti necessari. Per essere scoraggiati dalla pena di morte, le persone devono sapere che la pena di morte è la punizione prevista per il loro reato. E devono sapere anche che è probabile che saranno giudicate colpevoli e condannate a morte. Quindi, devono essere consapevoli che gli eventuali vantaggi derivanti dal crimine possono essere vanificati dal potenziale castigo. Invece, secondo la rilevazione effettuata nel braccio della morte, solo l’uno per cento dei detenuti intervistati ha detto di essere stato a piena conoscenza prima del crimine che la pena di morte era una punizione a disposizione dei tutori della legge. E solo il quattro per cento dei condannati per rapina e l’otto per cento per omicidio avevano pensato alla possibilità di essere condannati a morte. Se non erano certi di correre questo rischio, come potevano essere scoraggiati da una pena che sarebbe arrivata inesorabile e certa come la morte. Uno può pensare che la legge del taglione sia giustificata per i colpevoli più atroci e contemplata per i reati più gravi. Invece, la ricerca dell’Università di Oxford mostra che coloro che sono nel braccio della morte del Kenya non sono necessariamente i peggiori dei peggiori, perché oltre la metà di loro era stata condannata per un reato non mortale. Quasi tutti avevano poca o nessuna istruzione di base ed erano di basso status sociale ed economico - i più svantaggiati e vulnerabili. Di conseguenza, si sono trovati invischiati in un sistema di giustizia penale che chiaramente offriva una protezione legale inadeguata, esponendoli a un alto rischio di essere condannati ingiustamente. Se ciò è molto preoccupante in uno Stato che mantiene la pena di morte, non è meno preoccupante in uno Stato che prevede la pena fino alla morte. La vita dei clochard. Coperte, libri, solidarietà e cibi caldi: “Così sopravviviamo all’inverno” di Laura Vincenti Corriere della Sera, 17 febbraio 2023 Le storie dei senzatetto finiti in strada tra progetti falliti e traumi. L’aiuto dei volontari Arca. “La cosa più difficile del vivere in strada? Il freddo” racconta Salvatore che dorme sotto i portici di via Verri, tra le vetrine spente delle boutique di lusso. Ma per fortuna l’inverno sembra superato e le temperature non dovrebbero più scendere sotto lo zero come le scorse notti. “Il centro città è più sicuro, c’è tanto passaggio. Qui si è riparati dalla pioggia, dalla neve: io m’infilo dentro al sacco a pelo e mi isolo il più possibile dal pavimento gelido”. E poi c’è la paura: “Quella interiore, l’incertezza per il futuro, la stanchezza”. Cinquant’anni, milanese, fa questa vita da 12. “A causa di una scelta sbagliata: l’ho pagata cara - spiega. Una volta avevo tanti progetti, andati in fumo. Adesso vivo alla giornata. Per fortuna ci sono i volontari che mi aiutano e mi assistono”. Portando bevande e pasti caldi, abiti, coperte, beni di prima necessità. Anche conforto. Vincenzo è più fortunato: “Da cinque anni dormo su una panchina in via Hoepli, ma tra pochi giorni l’Aler mi dà la casa”, racconta il 68enne con un sorriso, trascinando un secchio pieno di bottiglie vuote. “Facevo il cuoco, poi ho avuto un incidente in motocicletta e non ho più potuto lavorare”. Secondo i dati forniti da Arca, i senzatetto che vivono in strada a Milano sono 500. Molti non vogliono andare nei dormitori “perché sono pericolosi e rumorosi”, spiegano. Ivan, 46 anni, ha dovuto lasciare il mestiere di manutentore per problemi fisici: “Dormo all’aperto da quando è iniziato il Covid” rivela il 46enne di Como. Al suo fianco un libro: La ragazza che giocava con il fuoco di Stieg Larsson. “Io sono un tipo solitario... Mi piace leggere e stare per i fatti miei”. Per ripararsi Kevin tutte le sere monta la tenda: “Poi la tolgo alle 7.30 quando ci svegliano i vigili. Sono gentili, comunque”, assicura. Varesino, ha 27 anni e vive in strada da quando è scappato da una comunità ancora minorenne. “Non sono solo, però”. Con lui c’è il suo cane, Nerone: “Ci siamo adottati a vicenda”. Si scaldano l’un l’altro. “Di notte qui scatta la guerra tra i poveri, c’è gente che ruba anche a noi che non abbiamo niente”. Luca, responsabile della cucina mobile della Fondazione Progetto Arca onlus, gli porta da mangiare, con anche i croccantini e una copertina per Nerone. “Le associazioni ci assistono, anche dal punto di vista medico e sanitario” assicura Kevin, che ha un piano per il futuro: “Sono in lista per una casa popolare, poi voglio trovare un lavoro: ho fatto un corso da parrucchiere. Per adesso, non mi lamento”. Intanto, in corso Europa si è formata la fila per le lasagne alla cucina mobile, che ogni settimana distribuisce 720 pasti in diversi quartieri della città grazie al lavoro dei tanti volontari che di notte scendono in strada. “Mi piace dare una mano ma anche il fatto che si crea un rapporto con le persone: molte ci aspettano” dice Martina, 31 anni. “L’inverno è stato duro, alcuni amici ci hanno lasciato - racconta, commosso, Fabio, 66 anni -. Come Willy, scomparso da poco. Lo avevamo visto giusto la sera prima. Aveva poco più di 40 anni. Per quanto facciamo non è mai abbastanza, c’è tanto bisogno”. Cristina, 65 anni e adesso pensionata, è volontaria da ben nove anni: “Lavoravo qui in centro e ogni sera vedevo tante persone dormire all’aperto. Mi sono sempre domandata come mai facessero questa scelta. Dalla mia esperienza posso dire che c’è sempre una storia dolorosa, un trauma alle spalle”. Come chi ha vissuto separazioni drammatiche e poi ha perso anche il lavoro. Oppure chi ha subito la terribile scomparsa di una persona cara, come la moglie o un figlio. “Di solito - conclude la volontaria - hanno bisogno di parlare, di confidarsi, quindi è importante esserci sempre. Quando torno a casa ho sempre tanto dispiacere nel vedere tutte queste persone negli angoli della città all’addiaccio. Però mi sento anche arricchita perché ho portato un po’ di sollievo”. Migranti. L’Onu contro il governo Meloni: “Ritiri la legge che ostacola i soccorsi” di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 febbraio 2023 Mediterraneo. Per la conversione in legge del “decreto Piantedosi” manca il passaggio al Senato. L’Alto commissario delle Nazioni Unite Türk accusa: “punirebbe sia i migranti che chi cerca di aiutarli”. Intanto il procuratore di Trieste punta il dito contro il reato di clandestinità: “una zavorra per gli uffici giudiziari”. Il decreto contro i soccorsi in mare che il parlamento si appresta a convertire in legge, manca solo il passaggio al Senato, piace solo alle destre. Dopo le bocciature di Consiglio d’Europa, commissione Libe dell’europarlamento, organizzazioni umanitarie e mondo cattolico anche l’Onu chiede al governo italiano di ritirare il provvedimento. Ieri l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk ha dichiarato: “È semplicemente il modo sbagliato per affrontare la questione”. Secondo Türk la stretta rischia di moltiplicare le vittime delle traversate del Mediterraneo, costringere chi ha subito torture e violenze a ulteriori ritardi nell’accesso alle cure e aumentare i respingimenti in Libia. Paese che, ribadisce, “non può essere considerato un porto sicuro di sbarco”. L’efficientamento del meccanismo di cattura dei migranti da parte della sedicente “guardia costiera” libica è peraltro sostenuto dal governo italiano, anche attraverso fondi europei, su più livelli. Solto dieci giorni fa il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha consegnato alle autorità di Tripoli la prima di cinque nuove motovedette. “La legge punirebbe sia i migranti che chi cerca di aiutarli - accusa l’Alto commissario - e potrebbe trasformarsi in un deterrente per il lavoro cruciale delle organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti umani”. Intanto, nonostante la prassi di assegnare porti lontanissimi dopo il primo soccorso che il Viminale ha adottato a fine dicembre, le Ong continuano a salvare vite. Due i soccorsi realizzati dalla Life Support di Emergency nelle acque internazionali davanti alla Libia tra martedì notte e mercoledì mattina. A bordo ci sono ora 156 naufraghi provenienti da Bangladesh, Pakistan, Sudan, Eritrea, Egitto, Gambia, Chad, Camerun, Senegal, Mali, Nigeria, Costa d’Avorio e Guinea Konakri. 32 i minori. L’Ong fondata da Gino Strada denuncia di aver subito intimidazioni da un mezzo delle forze di sicurezza libiche. “Ha fatto manovre molto pericolose vicino al nostro scafo rifiutando di identificarsi”, denuncia il capomissione Emanuele Nannini. Altre 31 persone sono state soccorse dalla Aita Mari nelle acque tra Tunisia e Lampedusa. Sono originarie di Costa d’Avorio, Senegal e Guinea Conakry. 11 le donne, di cui tre incinte, e dieci i bambini, oltre a un bebè di soli tre mesi. A entrambe le navi è stato assegnato il porto di Civitavecchia, lontano centinaia di chilometri. Dovrebbero raggiungerlo tra sabato e domenica. La Geo Barents e la Ocean Viking, con 49 e 84 naufraghi sui ponti, si stanno invece dirigendo ad Ancona. Così tutte le navi umanitarie sono state allontanate dall’area dei soccorsi. Sulle norme di contrasto dell’immigrazione arrivano dichiarazioni pesanti anche dal fronte orientale. Il procuratore capo di Trieste Antonio De Nicolo ha affermato che il reato di clandestinità “è una zavorra che complica la vita degli uffici giudiziari, non produce nulla per lo Stato, se non delle spese, e rende più difficile l’accertamento dei reati veri”. La fattispecie penale è stata ideata nel 2009 dagli allora ministri dell’Interno Roberto Maroni e della Giustizia Angelino Alfano e introdotta a completamento di uno dei tanti “pacchetti sicurezza” votati dalle destre nel corso degli anni. Prevede una pena pecuniaria tra 5 e 10mila euro. Soldi di fatto inesigibili da persone che a causa della condizione di irregolarità non possono neanche aprire un conto in banca. “Questo reato non ha senso e va cancellato - commenta Gianfranco Schiavone, componente dell’Asgi - Non ha prodotto alcun impatto sulla gestione delle migrazioni. I destinatari, nella maggior parte dei casi, sono persone che arrivano in Italia per fare domanda di asilo”. La lezione del Donbass: ora l’Europa rivaluta la leva obbligatoria di Gianluca Di Feo La Repubblica, 17 febbraio 2023 In Ucraina sono tornati cannoni, tank e fanti. Contro la sindrome da “caserme vuote” riecco la voglia di naja. Non bastano la tecnologia, né la qualità: i conflitti totali sono questione di numeri. E la ricomparsa della guerra in Europa sta animando dibattiti che sembravano cancellati dalla Storia e relegati nel libro dei ricordi: dopo la riscoperta dei carri armati e dei cannoni, ecco la discussione sul servizio militare obbligatorio. La naja, incubo per generazioni di ventenni spediti con il fucile in mano a vigilare sulla “soglia di Gorizia”, torna protagonista nel clima bellicoso causato dall’invasione dell’Ucraina. Le ondate di fanti mandati all’assalto da Putin e il ritmo di combattimenti che proseguono da dodici mesi mettono governi e stati maggiori davanti a una nuova realtà: gli eserciti di professionisti della Nato sono troppo piccoli per affrontare una carneficina del genere. Sono stati concepiti per l’epoca delle “missioni di pace”, quando bastavano squadre altamente specializzate e contingenti ridotti, non per battaglie combattute su un fronte di centinaia di chilometri. Il massimo impegno italiano in Afghanistan - ad esempio - ha coinvolto circa quattromila uomini e donne, mentre un singolo scontro nel Donbass vede schieramenti cinque volte superiori. Nei Paesi della Nato però la leva è stata abolita da anni, con l’eccezione di Grecia, Lituania e Danimarca, e le caserme sono state svuotate. Di fronte a un’offensiva di massa l’Europa avrebbe a disposizione solo “una sottile linea rossa”, come quella dei granatieri scozzesi che a Balaclava si immolarono per fermare la carica russa. Così si torna a parlare di servizio obbligatorio persino in Germania, dove la tradizione pacifista è fortissima. Il neoministro della Difesa Boris Pistorious l’ha rilanciato, mescolando esigenze militari e civiche, tanto da lasciare vaghezza tra farlo nell’esercito o nella protezione civile. “Abolirlo è stato un errore e potrebbe dimostrare l’importanza di queste istituzioni per il funzionamento della nostra società”, ha detto il socialdemocratico Pistorius, riecheggiando le parole del leghista Matteo Salvini: “Penso che un anno di insegnamento delle regole, della buona educazione e dei doveri formerebbe dei buoni cittadini”. Motivazioni simili a quelle con cui Ignazio La Russa a dicembre ha annunciato un disegno di legge: la mini-naja volontaria di 40 giorni per “imparare cosa è non solo l’amore per la Patria, ma il senso civico, il dovere che ciascuno di noi ha di aiutare gli altri in difficoltà”. A Berlino il ministro liberale della Giustizia ha tagliato corto: “È un’idea completamente fuorviante perché i giovani sono già stati eccessivamente provati dall’effetto della pandemia”. E quello delle Finanze l’ha definita “una discussione sui fantasmi”. Altrove però l’attenzione è più focalizzata sulle lezioni che arrivano dall’Ucraina. Dopo quindici anni, a gennaio la Lettonia ha reintrodotto la leva obbligatoria e la Danimarca vuole estenderla pure alle donne. Gli olandesi, che faticano a trovare reclute, stanno ipotizzando di adottare il modello svedese: sorteggiare ogni anno 4-5mila diciottenni per una ferma di undici mesi. Ma la Polonia, che pure ha lanciato il più colossale programma di riarmo del continente, ritiene che i coscritti nelle guerre moderne siano più o meno inutili: “Solo i russi usano i cittadini come carne da cannone”, ha sostenuto un generale polacco. Un’opinione condivisa dai vertici dell’Alleanza Atlantica, come ha scritto Franz-Stefan Gady su Foreign Policy: i costi economici e sociali della leva sono superiori ai possibili benefici. Quella che viene indicata come la strada maestra, invece, è la creazione di una riserva numerosa: personale addestrato e pronto a entrare in azione con un minimo preavviso. Come avviene negli Usa con la Guardia Nazionale, che si è fatta carico pure di campagne ad alta intensità in Iraq e Afghanistan. O in Gran Bretagna, che unisce a 153mila professionisti altri 75mila ex militari che ogni anno si esercitano per 27 giorni. In teoria pure la Francia ha una riserva di 40mila uomini, la Germania di 30mila e la Polonia addirittura di 114mila ma la gran parte non indossa la mimetica dalla fine della leva e non riuscirebbe a pilotare un tank o utilizzare un missile teleguidato. Le cose stanno cambiando. Parigi ha organizzato per la prossima primavera grandi manovre che includeranno una quota consistente di richiamati. E anche in Italia l’Esercito sta proponendo di rivitalizzare le “forze di completamento volontarie”: vennero create con la sospensione della naja, quando l’organico della Difesa scese da 350mila a 150mila uomini, e sulla carta contano oltre 17mila riservisti. Un’armata in sonno, che potrebbe venire risvegliata dai terribili venti di guerra che soffiano sull’Europa. “Noi” e “loro” tra le macerie: non basterà l’empatia della prima notte di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 17 febbraio 2023 Non è tutto così indistinto e lontano: ci sono cose che possiamo fare anche se non siamo volontari o missionari. Due terremoti insieme, otto scosse devastanti. Migliaia di morti, forse saranno ventimila alla fine. Ventitré milioni di persone coinvolte, mani che hanno scavato nude per seguire fino all’ultima traccia di vita. Un’energia totale liberata dal sisma pari a 660 atomiche. Famiglie disperse nel vuoto, senza casa, senza niente se non il pieno di rabbia per l’ingiustizia che si è accumulata nel tempo strato su strato. È l’unico muro che non è caduto, che non cade. Il fiume di numeri che dall’Anatolia e dal Nord della Siria è arrivato straripando verso di noi, per giorni, ci ha consegnati a quello stato di sbigottimento da remoto che rischia di smorzarsi presto nel torpore. All’inizio leggiamo tutto. Ci sconvolgono i racconti dall’unico valico aperto tra Turchia e Siria dove, nelle prime ore, venivano fatti passare soltanto i corpi nei sacchi neri, con i nomi tracciati con la biro su fogli di quaderno: i corpi di uomini e donne siriani che, in fuga dalla guerra, negli anni si erano rifugiati dall’altra parte cercando sistemazioni “di fortuna”. Ora tornano in patria per essere sepolti. I parenti li aspettano al gelo, sotto un’assurda e impietosa pioggia mista a neve, a Bab al-Hawa: “Li riportiamo a casa”. I corpi più piccoli, chiusi nelle coperte, sono quelli dei ragazzini che forse non avevano neppure più ricordi della terra che ne custodiva le origini. Per questo ci emoziona la storia di quell’incredibile neonato, con una zazzera nerissima di capelli, strappato alle pietre mentre è ancora collegato alla madre dal cordone ombelicale. Gli algoritmi che mettono in classifica gli articoli più cliccati rivelano come progressivamente si comincino a scartare gli aggiornamenti. Ci fermiamo sui titoli che spiegano dove arriva la faglia, se c’è un reale pericolo di Big Bang verso Istanbul e nel Mediterraneo. Prende forma quell’altra frattura. Quella che divide “noi” da “loro”, loro che ci sembrano subito diversi, forse un po’ più mortali, un po’ meno individui. Ha detto la scrittrice turca Elif Shafak, in un’intervista a Monica Ricci Sargentini sul Corriere, dopo aver denunciato la corruzione, l’avidità, le derive nazionaliste ed autoritarie del governo di Erdogan: “Credo nella solidarietà globale, nella sorellanza globale, in un cambiamento che porti ogni essere umano a essere trattato con dignità, allo stesso modo”. Ma gli sfollati, innocenti e dannati, sopravvissuti al sisma e magari prima ai bombardamenti, tutti raggruppati nell’insieme degli “altri”, si spostano già nei nostri pensieri, si allontanano dalla possibilità di un aiuto concreto. Quali diritti saremo pronti a riconoscere alla loro disperazione, al loro status di più sfortunati? L’universalismo sta sempre lì, sul baratro della generica empatia. L’avversione, invece, sa essere specifica. E l’intolleranza precisa. Nelle stesse ore Zein al Assad, figlia 19enne del dittatore di Damasco, metteva in guardia via social i suoi amici: non mandate aiuti seguendo questo link perché porta a Idlib (area controllata dai ribelli; ndr), puntate verso Aleppo, Latakia, Hama (città controllate dal padre; ndr). Non è tutto così indistinto, indecifrabile, lontano. La complessità delle tragedie che si sommano alle ingiustizie - quei due minuti di terra che trema sotto le macerie di una guerra lunga 12 anni - non giustifica l’equidistanza. Sappiamo che cosa possiamo fare, quel poco che sappiamo fare rispetto ai volontari e ai missionari che ogni volta si spingono oltre le crepe. Essere informati ed essere capaci di ascoltare; scegliere di restare aperti e accoglienti, cercando le soluzioni migliori che poi sono quelle possibili: questo ci salverà dalla tentazione di scivolare nel dormiveglia davanti agli “altri”. Corno d’Africa, l’aumento dei migranti verso i Paesi del Golfo con migliaia di donne e bambini che viaggiano da soli La Repubblica, 17 febbraio 2023 Lo afferma l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite. Il cambiamento climatico è un motore sempre più potente che produce l’aumento delle migrazioni. Il numero di donne e bambini che migrano dal Corno d’Africa verso i paesi del Golfo attraverso lo Yemen aumenta di giorno in giorno ed è motivo di preoccupazione - si apprende dal sito di Al-jazeera - secondo il capo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), l’agenzia ONU dedicata ai flussi migratori di tutto il mondo. Il pericoloso viaggio dall’Etiopia, Somalia e Gibuti attraverso lo Yemen, identificato come la Rotta Migratoria Orientale, ha visto un aumento del 64% nell’ultimo anno, con persone in cerca di mezzi di sussistenza migliori e con un numero maggiore di donne e bambini che viaggiano da soli. Il clima che cambia è la spinta principale. Il cambiamento climatico è un motore sempre più potente dell’aumento della migrazione. In passato, donne e bambini spesso rinunciavano al viaggio attraverso il deserto, fatto principalmente a piedi. In precedenza, gli uomini lasciavano le loro famiglie e facevano il viaggio nella speranza di trovare lavoro e inviare denaro a casa. “La pressione sta aumentando” mentre il numero dei migranti aumenta, ha affermato Antonio Vitorino, direttore generale dell’OIM, che era in Kenya per lanciare un appello da 84 milioni di dollari per sostenere più di un milione di migranti che utilizzano la rotta attraverso lo Yemen. Il responsabile dell’OIM ha poi sottolineato la necessità che i migranti seguano rotte migratorie legali, aggiungendo che sebbene il processo sia complicato, non può essere paragonato alle condizioni di pericolo di vita lungo le rotte illegali. I migranti preda di bande criminali. I migranti disperati sono vulnerabili alle bande criminali lungo il percorso e hanno bisogno di protezione contro stupri, violenze, trafficanti e contrabbandieri, ha affermato. Alcuni dei migranti non sono consapevoli dei pericoli, inclusa la guerra nello Yemen, e l’organizzazione delle Nazioni Unite per la migrazione deve migliorare la consapevolezza dei pericoli, ha affermato. Per i migranti che scelgono ancora di intraprendere il viaggio, l’organizzazione dovrebbe offrire assistenza sanitaria di base e altri servizi e in alcuni casi riportarli nei loro paesi di origine, ha affermato. “L’anno scorso abbiamo riportato volontariamente in Etiopia 2.700 migranti e all’arrivo abbiamo fornito assistenza post-arrivo per aiutarli a tornare nelle loro regioni di origine”, ha aggiunto Vitorino. Aumenta anche il flusso migratorio Africa occidentale-Europa. In aumento è anche la migrazione di persone dall’Africa occidentale attraverso la Libia verso l’Europa, e la difficile situazione di quei migranti, in particolare quelli detenuti nella Libia colpita dal conflitto, è una preoccupazione globale, ha affermato. “Sappiamo dove si trovano i centri di detenzione ufficiali e vi abbiamo accesso, non permanentemente, mai da soli, ma sotto la sorveglianza delle guardie di sicurezza. Ma abbiamo accesso per fornire assistenza”, ha detto Vitorino. Ma l’organizzazione delle Nazioni Unite non ha accesso ai centri di detenzione non ufficiali, che sono particolarmente preoccupanti, in quanto vi sono segnalazioni di abusi diffusi, ha affermato. L’instabilità politica della Libia rende difficile avere la cooperazione politica necessaria per smantellare i centri di detenzione non ufficiali, ha aggiunto. L’OIM si sta impegnando per coinvolgere più migranti nei programmi di rimpatrio volontario al fine di ridurre quelli in detenzione, ha affermato. È difficile perché il numero di migranti che vogliono tornare è molto più alto dei voli disponibili dalla Libia, ha detto. Stati Uniti. Alabama, detenuto di 33 anni muore di freddo in un carcere La Stampa, 17 febbraio 2023 La madre: “Lo avevano chiuso nella cella frigorifera”. La donna ha denunciato il caso a un tribunale federale. La vittima, aveva una temperatura corporea interna di soli 22 gradi. A confermare i maltrattamenti, un video fornito da una dipendente poi licenziata. Tenuto in cella completamente nudo, e forse anche rinchiuso in una cella frigorifera, un detenuto è morto di freddo in un carcere dell’Alabama. La terribile vicenda viene riportata oggi dai media americani, dopo che la madre dell’uomo ha presentato denuncia al tribunale federale. Anthony Mitchell, 33 anni, è morto il 26 gennaio dopo 14 giorni di detenzione. Portato in ospedale dalla polizia, aveva una temperatura corporea rettale di 22 gradi. Secondo il referto medico non è chiaro perché la temperatura fosse così bassa, ma la morte è chiaramente dovuta all’ipotermia. Le autorità hanno detto alla famiglia che la temperatura di Mitchell era precipitata improvvisamente durante un esame di routine e per questo era stato portato in ospedale. Ma la madre non ci ha creduto. “L’unico modo per cui la temperatura di Tony possa essere precipitata fino a 22 gradi in così breve periodo di tempo é che sia stato posto su una sedia di contenzione nella cella frigorifera della cucina del carcere o in un ambiente similmente gelato, e lasciato lì per ore”, si legge nella denuncia, dove di sottolinea che la famiglia non ha potuto vedere le immagini video di dove sia stato tenuto l’uomo la notte prima del decesso. Mitchell era stato arrestato il 12 gennaio, dopo che un cugino aveva segnalato alle autorità il suo preoccupante stato mentale e fisico. Anthony, che aveva perso da poco il padre ed aveva un passato di tossicodipendenza, era apparso emaciato ed aveva fatto un racconto incoerente su presunti portali presenti dentro casa per accedere all’aldilà. Ma il “wellness check”, ovvero il controllo per stabilire se aveva bisogno di aiuto o cure, si era risolto con Mitchell che aveva minacciato i poliziotti con una pistola ed era stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio. La madre ha presentato una denuncia dopo che una dipendente del carcere le ha fatto vedere le immagini video della detenzione, che raccontavano una storia ben diversa da quella ufficiale. Mitchell appare sempre completamente nudo, rinchiuso in una cella di cemento, dove c’è solo un pozzetto di scolo. Apparentemente non aveva vestiti per il protocollo di sorveglianza anti suicidio. Secondo la denuncia, nei primi tre giorni di detenzione era stato colpito con una pistola elettrica, perdendo una protesi dentale che non gli è stata più restituita. Per questo Mitchell non avrebbe più potuto mangiare cibi solidi. Karen Kelly, la dipendente che ha mostrato i video alla madre del detenuto, ha fatto causa contro lo sceriffo che nel frattempo l’ha licenziata.