Cospito, Nordio: “Revoca del 41-bis aprirebbe le porte ai mafiosi” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2023 E sul caso Donzelli-Delmastro: “Nessuna violazione di segreto”. Il ministro ripete la difesa d’ufficio dei suoi compagni di partito: l’informativa del Nic, dice ancora una volta, “non rientra nella categoria degli atti classificati né rivela contenuti sottoposti a segreto investigativo”. Ma quando alcuni deputati di opposizione ne hanno chiesto copia, il ministero lo ha negato. De Raho (M5s): “Quell’atto conteneva notizie di reato, perché è venuto fuori?” “Le parole riferite in Aula da Donzelli non sono relative a documenti sottoposti a segretezza. La dicitura “limitata divulgazione” presente sulla scheda di sintesi esula dal segreto di Stato, si tratta di una mera prassi amministrativa ed è di per sé inidonea a connotare il documento trasmesso come atto classificato”. Carlo Nordio riferisce alla Camera sul caso dell’informativa riservata del Nic (il Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria) sui colloqui in carcere tra Cospito e alcuni detenuti mafiosi al 41-bis, passata dal sottosegretario alla Giustizia di FdI, Andrea Delmastro, al suo coinquilino Giovanni Donzelli, che il 31 gennaio l’ha citata in Aula per attaccare il Partito democratico. Una vicenda che ha scatenato una bufera politica e su cui è aperta un’indagine della Procura di Roma per rivelazione di segreto. Il ministro della Giustizia ripete la difesa d’ufficio dei suoi compagni di partito: quell’informativa, dice ancora una volta, “non rientra nella categoria degli atti classificati né rivela contenuti sottoposti a segreto investigativo, trattandosi di un appunto redatto sulla base degli elementi informativi frutto dell’attività di vigilanza”. Quando a chiedere copia dell’atto sono stati tre deputati di opposizione, però, il ministero lo ha negato, trasmettendo solo un estratto di tre pagine su (almeno) 54, dai contenuti guarda caso corrispondenti a quelli citati da Donzelli in Aula. Nordio giustifica la scelta così: “Il ministero, valutando le istanze quali espressione del potere di sindacato ispettivo, ha fornito copie degli atti nel rispetto della loro ostensibilità”. Smentendo così la giustificazione di Donzelli, secondo cui quel documento era “a disposizione di qualsiasi deputato”. “C’è chi in pochi secondi ha avuto accesso a quegli atti non classificati e chi, avendone fatta richiesta formale, dopo due settimane ha semplicemente le stesse frasi riportate da Donzelli. Mi rifiuto di pensare sia normale avere accesso perché coinquilino e non perché parlamentare”, commenta al fatto.it Marco Grimaldi di Alleanza Verdi-sinistra, uno dei deputati che avevano fatto richiesta d’accesso. E in Aula Federico Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale Antimafia e deputato M5s, attacca il ministro: “Quell’informativa non era ostensibile perché segreta, conteneva notizie di reato. È per questo che ci avete dato solo alcune pagine. E lei non ci ha dato spiegazioni sul perché sia venuta fuori”. Nordio ribadisce anche di non voler cambiare idea sull’applicazione del carcere duro a Cospito: “Qualora la modifica del 41-bis fosse legata alla modifica delle condizioni di salute del detenuto dovute a una scelta consapevole di deterioramento fisico, la norma perderebbe immediatamente di efficacia, perché chiunque adottasse la stessa strategia potrebbe ottenere la revoca”, comprese centinaia di mafiosi al carcere duro. “Vi è dunque una contraddizione logica tra la richiesta unanime di mantenere questa disciplina severa e quella di modularla sulle condizioni di salute dell’interessato, a cui, in ultima analisi, spetterebbe decidere sulla sua stessa applicazione”, sostiene Nordio La pericolosità di Cospito, argomenta, è confermata “dal moltiplicarsi delle azioni intimidatorie e dalle violenze che sono seguite all’adozione del regime carcerario differenziato da parte di gruppi anarco-insurrezionalisti. Gli appelli del detenuto non solo non vengono ignorati, ma si sono trasformati in un’onda d’urto propagatasi sul territorio nazionale e all’esterno”. Nordio conferma la linea dura ma rischia la smentita delle toghe di Giulia Merlo Il Domani, 16 febbraio 2023 Il ministro ribadisce che l’Antiterrorismo aveva dato giudizio negativo sul ricorso di Cospito, ma continua a leggere solo una parte del parere. La Dna, infatti, considera non superflua la seconda parte in cui spiega perché, anche alla luce del quesito posto dal legale, serva valutare complessivamente se il 41 bis è ancora necessario per Cospito. Nordio considera chiuso anche il caso Delmastro sulla divulgazione di atti del Dap, ma pende ancora una indagine della procura di Roma che rischia di smentirlo. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è tornato alla Camera per rispondere sul caso di Alfredo Cospito, l’anarchico al 41 bis in sciopero della fame da 116 giorni, che solo nei giorni scorsi ha ricominciato ad assumere gli integratori. La vicenda ha terremotato il dicastero di via Arenula sia sotto il profilo giuridico che sotto quello politico e Nordio si è trovato a dover fare da parafulmine ad entrambi e a doverne rendere conto in aula. Il dibattito è stato durissimo, con sospensioni di seduta e toni nervosi sia da parte della maggioranza che dell’opposizione. Nordio non ha potuto fare altro che confermare la linea del ministero tenuta in queste ultime settimane. Quanto al caso Donzelli-Delmastro, i due colleghi di Fratelli d’Italia che hanno divulgato una relazione del Dap sui colloqui in carcere tra Cospito e i suoi compagni di detenzione, ha di fatto ripetuto quanto già scritto in nota. L’atto non era coperto da segreto e la dicitura “limitata divulgazione” apposta sulle carte “rappresenta una formulazione che esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classificazioni di segretezza”. Le conversazioni sono state riportate perchè ascoltate dagli agenti della penitenziaria, dunque “nessuna intercettazione è stata divulgata, perchè non ce ne sono state”. Quanto alle richieste di accesso agli atti di altri parlamentari, le risposte sono state date limitatamente a quanto permetteva il sindacato ispettivo. Le spiegazioni, tuttavia, non sono bastate alle opposizioni, che hanno attaccato sul fatto che da parte di Giovanni Donzelli non ci fosse stata alcuna richiesta di atti, oltre che sull’elemento di delicatezza di informazioni comunque riservate perchè riguardanti un detenuto al 41 bis. La vicenda, che per Fratelli d’Italia è chiusa, in realtà avrà un ulteriore strascico la prossima settimana, con la prima convocazione del giurì d’onore, che valuterà le parole di Donzelli e l’accusa di connivenza con la mafia mossa ai deputati del Pd che erano andati a trovare Cospito in carcere. La relazione della Dna - Le parole più dure, tuttavia, Nordio le ha spese per rivendicare la correttezza della sua scelta di rigettare la richiesta di revoca del 41 bis. L’istanza al ministero, infatti, è stata respinta sulla base anche dei pareri forniti dalla magistratura e in particolare dalla procura generale di Torino e della Direzione nazionale antimafia. Proprio su questo il ministro è ritornato, rispondendo indirettamente alle ricostruzioni della stampa secondo cui il parere della Dna era positivo alla modifica del 41 bis in regime di alta sicurezza con censura della corrispondenza e dunque di segno opposto rispetto alla decisione finale di Nordio. Il ministro ha voluto sottolineare che la sua valutazione si è limitata a rispondere al quesito proposto: l’avvocato di Cospito chiedeva che l 41 bis fosse revocato in virtù di un fatto nuovo, ovvero una sentenza di assoluzione di altri anarchici a Roma che quindi non avevano subito condizionamenti di volontà leggendo i suoi scritti. Secondo tutti i pareri dei magistrati, Dna compresa, gli elementi presentati dal legale non eliminavano i presupposti del 41 bis, dunque Cospito doveva rimanere in quel regime. E, ha specificato Nordio, la valutazione “trova pieno riscontro nel parere del 31 gennaio fornito dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, per il quale i pericoli sono anche aumentati alla luce delle azioni messe in atto in maniera sinergica”. In quella che il ministro ha definito “una seconda parte” del parere, il capo della Dna, Giovanni Melillo, ha sì indicato la possibilità di applicare a Cospito la sorveglianza speciale. Tuttavia, secondo Nordio, il giudizio del ministero doveva limitarsi a rispondere al quesito dell’avvocato e non allagare le considerazioni alla questione generale. La precisazione di Nordio è stata volta a smentire le ricostruzioni secondo le quali il suo dicastero avrebbe ignorato le considerazioni della Dna, che funzionalmente è l’ufficio apicale con competenza su mafia e terrorismo. Tuttavia, dal documento firmato da Melillo, emerge come secondo la Dna anche la seconda parte del parere rispondeva al quesito proposto e dunque andava considerata nella decisone. Si legge infatti che, pur “ribadita la fallacia delle deduzioni difensive”, “si impone la ricognizione di ogni altro elemento utile ad una aggiornata valutazione degli elementi complessivamente rilevanti”. Questo perchè, “alla luce dei parametri costituzionali”, il 41 bis può essere applicato “solo ove sia indispensabile”. Dunque l’istanza del difensore di Cospito è giustificata dal fatto nuovo giudicato irrilevante, ma è “volta alla verifica dell’effettiva sussistenza dei presupposti del provvedimento”. Proprio questo, secondo la Dna, “impone di estendere il contribuito informatio al complesso degli elementi rilevanti alla valutazione”. Tradotto: secondo Melillo, quella che Nordio definisce “la seconda parte del parere” non è irrilevante rispetto al quesito dell’avvocato come ha ritenuto il ministro, ma è parte integrante della risposta. Il contrasto a distanza tra ministero e Dna, tuttavia, potrebbe essere superato dai fatti e dunque dalla pronuncia della Cassazione, attesa per il 24 febbraio. Il procuratore generale della Cassazione ha già aperto la via per la revoca del 41 bis, sostenendo che il decreto non abbia motivato a sufficienza la necessità della misura. Se i giudici della Suprema corte annullassero con rinvio la decisione, spetterebbe di nuovo alla magistratura di sorveglianza valutare nel merito se ancora sussistono gli estremi per il carcere duro. Tuttavia, un orientamento della Cassazione diverso rispetto a quello del ministero a sole due settimane di distanza sarebbe certamente clamoroso. L’unica certezza, per ora, è che il caso Cospito è ancora apertissimo e l’intransigenza dell’esecutivo sia nel difendere il duo Delmastro-Donzelli che nel rivendicare la linea della fermezza rischia di mettere in difficoltà soprattutto il suo ministro della Giustizia. “Non si può privare un detenuto anche della libertà morale” di Angela Stella e Valentina Ascione Il Riformista, 16 febbraio 2023 Oggi la riunione del Comitato di bioetica sui quesiti posti dal Ministero della giustizia sul caso Cospito. Tra i temi, il rifiuto dei trattamenti sanitari e le Dat. Grazia Zuffa: “Perché i diritti dovrebbero valere solo per le persone libere?”. Oggi pomeriggio il Comitato Nazionale di Bioetica si riunirà online per iniziare a trattare i quesiti posti dal Ministero della Giustizia sul caso di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da ormai 118 giorni per ottenere la revoca del 41 bis. In realtà nel documento pervenuto al Cnb, il nome Cospito non compare mai perché il Cnb non può dare pareri su casi singoli. Esso potrebbe non esprimere un giudizio unico ma elencare i membri a favore di una opinione e quelli a favore di un’altra. La decisione non è attesa per oggi ma per il 23 o 24 febbraio, giorno in cui anche la Cassazione si esprimerà sul caso. Come ci spiega la professoressa Grazia Zuffa, membro del Cnb, “è legittimo che il Governo ci chieda un parere ma la decisione finale appartiene a Nordio. Quello che facciamo noi è fornire un parere, illustrare i punti sensibili della questione dal punto di etico. E ci vuole un tempo adeguato per approfondire questioni non semplici. Per correttezza istituzionale, è importante che il CNB non sia strumentalizzato e conservi di fronte all’opinione pubblica la sua autonomia e autorevolezza”. Ma cosa chiede via Arenula? Il capo di gabinetto Rizzo è costretto a strani giochi di equilibrio verbale, non potendo nominare Cospito: “Si ponga il caso di un consenso al rifiuto o rinuncia di trattamenti sanitari, specie se salvavita, che sia però subordinato al conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica personale, come ad esempio l’ottenimento di un bene in discussione, sia esso materiale o immateriale (ex: rifiuto di alimentazione artificiale al fine dell’ottenimento della proprietà di una casa contesa, rifiuto di alimentazione artificiale al fine dell’ottenimento di un regime di libertà dalla detenzione carceraria)”. E allora chiede: “È possibile considerare questa espressione di volontà come un libero consenso informato in ambito sanitario?”. In pratica si chiedono dal ministero: “Rifiuto e rinuncia a trattamenti sanitari possono essere considerati una scelta sanitaria libera, se il fine non è la libertà di cura?”. Secondo quesito: “In condizioni di limitazione della libertà personale, come ad esempio la detenzione carceraria, rifiuto e rinuncia di trattamenti sanitari possono consistere in una condotta autoaggressiva, diventando una modalità per rivendicare i propri diritti, piuttosto che una scelta consapevole nell’esercizio della propria libertà di cura. In questo contesto, considerando che la persona è completamente affidata alle istituzioni statali, è eticamente accettabile che esse consentano a chi mette in atto questi comportamenti di lasciarsi morire?” Il terzo e quarto chiedono sostanzialmente se per un detenuto si possono applicare limiti al rispetto della legge 219/2017 sul Biotestamento e la sentenza della Corte Costituzionale 242/2019 sulla non punibilità in determinate circostanza dell’aiuto al suicidio (Caso Cappato/Dj Fabo). Come sappiamo Cospito ha scritto due lettere, indirizzate al suo avvocato Rossi Albertini. Vi ribadisce la sua volontà di rifiutare l’alimentazione forzata e qualsiasi altro trattamento sanitario finalizzato ad interrompere lo sciopero della fame. Per la professoressa Zuffa, “nel quesito non si affronta una questione importante: quella dello sciopero della fame e del suo significato. Inoltre si fa riferimento al suicidio ma in questo caso non è rilevante perché chi fa uno sciopero della fame non lo porta avanti per morire ma per aprire una discussione con le istituzioni su un tema”. “Il corpo è la mia arma” ha detto Cospito e Nordio lo ha considerato un gesto opposto alla nonviolenza, confermandogli il 41bis. “Le parole di Cospito possono essere strumentalizzate - prosegue Zuffa - Ma il punto è un altro: non si può mettere in discussione che lo sciopero della fame sia una azione di disobbedienza civile. Quello che trovo molto grave è pensare che un digiuno nonviolento fuori dal carcere sia considerato lecito, se fatto da un detenuto si trasformi in una pratica violenta”. L’altro nodo cruciale è il consenso ai trattamenti: “perché il diritto al rifiuto dovrebbe valere solo per i liberi e non anche per i detenuti? Guai se la limitazione della libertà fisica si trasformasse in una limitazione di libertà morale del detenuto”. Il caso Cospito e quella confusione tra martiri ed eroi di Giacomo Papi Il Foglio, 16 febbraio 2023 Con il suo sciopero della fame, l’anarchico sta raccogliendo più proseliti di quanti ne abbia mai raggiunti facendo attentati. Ma la disponibilità al martirio non dice nulla della bontà di un ideale. Pensare che un’idea valga più della vita è pericoloso e ha in sé un principio di totalitarismo. C’è una fotografia che non smetterei mai di guardare perché diventa più bella ogni volta. Fu scattata il 28 agosto 1936 a Barcellona durante la Guerra civile spagnola e ritrae un gruppo di giovani anarchici e anarchiche della colonna Aguiluchos, l’ultima delle grandi colonne anarcosindacaliste catalane. A sinistra stanno le ragazze, a destra i ragazzi, e tutti sorridono con i berretti e le bandiere rossonere (la foto è stata colorata). Presto sarebbero stati cancellati dalla violenza dei comunisti, che finirono il lavoro cominciato dai fascisti di Franco. Mi pare che quell’allegria strida con l’immagine tetra degli anarchici negli ultimi vent’anni, quella dei black bloc a Genova nel 2001 e quella di chi manifesta oggi in favore di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da mesi contro il regime carcerario del 41-bis. L’anarchia di oggi mi sembra richiamarsi alle lotte di fine Ottocento e inizio Novecento, quelle dei regicidi e degli attentati suicidi come quello cantato nella “Locomotiva” di Francesco Guccini. Nella protesta di Cospito intravedo un afflato al martirio su cui credo sia utile fermarsi a pensare. Pensare che un’idea, qualunque idea, valga più della vita è pericoloso e ha sempre in sé, mi pare, un principio di totalitarismo: se per affermare la mia fede sono disponibile a morire, allora probabilmente sono disponibile anche a uccidere perché trionfi. Vale per i cristiani, i comunisti, i fascisti, per gli indipendentisti irlandesi, i kamikaze giapponesi e i fondamentalisti islamici. E vale anche per gli anarchici. L’idea che la vita abbia senso soltanto in relazione a un ideale più alto, che sia il dio o il paradiso dei cristiani oppure quello dei musulmani, la dittatura del proletariato, la patria o la libertà degrada la vita e i viventi a uno stadio provvisorio di mediocrità imperfetta, da superare anche a costo di usare violenza contro gli altri e contro se stessi. La conseguenza coerente è che per affermare l’idea sia possibile, anzi doveroso, sbarazzarsi dei tiranni, delle streghe e degli eretici, dei nemici del popolo o della patria. Come si vede dagli esempi la disponibilità al martirio non dice nulla della bontà dell’ideale (e questo anche se credo sia giusto mettere radicalmente in discussione il 41-bis). Eppure la disponibilità a mettere in gioco la propria esistenza funziona sempre come una straordinaria macchina di propaganda, forse la più potente in assoluto. La sua forza deriva dalla testimonianza: il martire è disposto a testimoniare con la sua morte quello in cui crede (l’etimologia della parola “martire”, infatti, è “testimone” e il suo uso originario è giuridico, ma slittò in ambito religioso con la persecuzione dei primi cristiani). E la forza dell’esempio del martire deriva dall’equiparazione: la morte è la moneta con cui si attribuisce il valore della causa. Per questa ragione, con il suo sciopero della fame, Alfredo Cospito sta raccogliendo più proseliti di quanti ne abbia mai raggiunti facendo attentati. La sua disponibilità a morire per l’anarchia mostra al mondo che l’anarchia esiste ancora e trasforma il 41-bis in un fattore di reclutamento, cioè nell’opposto di quello per cui è stato creato (l’unica contromossa efficace sarebbe revocarglielo o almeno, per civiltà, dargli la benedetta foto dei genitori che gli viene negata). Qualcuno ha detto che gli esseri umani non credono alle cause giuste, ma al coraggio di chi le incarna. Accade così che coraggio e disponibilità al martirio vengano confusi e considerati quasi sinonimi, quando invece i termini sono quasi contrari. Il coraggio è il rischio che qualcuno si prende per migliorare il mondo e la vita, la propria o quella degli altri. Il sacrificio di sé, invece, non è un istinto o una reazione: è un’azione frutto di una scelta consapevole. Se il martirio non è volontario l’uso del termine è improprio, per quanto diffuso (se la morte non è consapevolmente cercata e decisa, ma subita, allora non si può parlare di martiri, si deve parlare di vittime. E la corsa a definire martiri chiunque sia vittima di violenza è un tentativo di arruolarli a una causa e di darsi pace dando un significato alla loro morte). Nella scelta del martirio, cioè, la posta in gioco non è una futura vita migliore, ma la morte giusta che retrospettivamente darà un senso alla vita che si è vissuta. L’obiettivo è rendere bella la propria vita, sacrificandola. Per questo, in fondo, sotto a ogni martirio respira il culto della bella morte che, sola, giustifica la vita. Quando non c’è più. Per questo, nell’uso comune, martiri ed eroi si sovrappongono e confondono. Come cantava Guccini nella “Locomotiva” nella fantasia “gli eroi son tutti giovani e belli”. Anche quando non lo sono. Quella società che si crede migliore dell’anarchico di Iuri Maria Prado Il Riformista, 16 febbraio 2023 Adesso gli fanno le pulci perché si è mangiato uno yogurt. Dicono che in quel modo Alfredo Cospito ha confessato di essere un magliaro, di aver intrapreso una battaglia farlocca, falsamente intestata all’abolizione per tutti del 41bis e in realtà rivolta soltanto a vederlo revocato per sé. E questo - tu guarda che immoralità - non appena ha avuto speranza che appunto in proprio favore, dopo la requisitoria del procuratore generale della Cassazione, potesse aprirsi una prospettiva di cambiamento. Una specie di vigliacco, insomma. È difficile trovare le parole per descrivere a quale grado di empietà si debba giungere per esercitarsi nel dileggio di una persona che per mesi si è sottoposta a privazioni e sofferenze serissime e infine, sul bordo del precipizio, per spossatezza, per disperazione o forse, come in questo caso, per un palpito di speranza, fa un passo indietro e concede al proprio corpo esausto qualche grammo di nutrimento. E si noti che a sbertucciarlo non è chi mostrava qualche considerazione della sua iniziativa, reclamando attenzione pubblica sull’ingiustizia, in linea di principio e per tutti, di quel regime carcerario. Non è che gli han detto bravo, hai ragione, ma vai fino in fondo: un atteggiamento che sarebbe stato crudele - perché la pelle era di quello lì, non di chi l’avesse in quel modo sostenuto - ma dopotutto coerente. No: a fargli lo scrutinio morale son quelli per cui a Cospito il 41bis stava bene non una volta ma due volte, a lui e a tutti gli altri; quelli che anzi condannavano lo sciopero della fame dell’anarchico proprio perché era teso a favorire i criminali, la mafia, i terroristi. E adesso? E adesso è un cialtrone - ah ah ah, lo vedi? - uno che appena ha sentore di poterla spuntare ecco che si fa la scorpacciata, altro che balle, altro che battaglia garantista. Vedremo come andrà a finire ma, comunque vada a finire, resta che su una importante questione di giustizia l’Italia si è divisa in due fronti oscenamente diseguali: da un parte la demagogia maggioritaria, pervasiva a destra e a manca, il populismo della gente perbene e della politica corrispondente, la politica Cappio & Rosario, nella competizione a chi era più affidabile, più risoluto, più credibile nell’inflessibilità del maltrattamento dei detenuti; e dall’altra parte un galeotto, un criminale, uno che ha commesso e rivendicato delitti molto gravi e che tuttavia, da quella sua condizione di colpa e di prigionia, ha dato a questo Paese una possibilità di giustizia e civiltà che altri non ha saputo difendere. Ci sono le responsabilità di Cospito per i delitti che egli ha commesso, e nessuno si è mai sognato di mandarle assolte. Ma ci sono i meriti di cui ha dato prova con questa sua iniziativa, e praticamente nessuno glieli ha riconosciuti. È un disonore per la società che si pretende meglio di lui. Nordio si ripete alla Camera: snobba il pg della Cassazione e salva Donzelli di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 febbraio 2023 Il ministro di Giustizia Carlo Nordio torna alla Camera per una nuova informativa sul caso Cospito e a tratti sembra di assistere ad una replica di quella pronunciata un paio di settimane fa dagli stessi banchi. Nel frattempo molto è cambiato: il parere depositato l’8 febbraio dall’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta, a favore di un allentamento del regime di carcerazione cui è sottoposto il detenuto che il 20 ottobre aveva iniziato a rifiutare il cibo, è ormai di dominio pubblico. E perciò l’anarchico, che è ancora ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano ma sempre in regime di 41bis, da tre giorni ha parzialmente interrotto il suo sciopero della fame e ha ricominciato a nutrirsi con yogurt, miele e integratori. Una decisione necessaria per arrivare lucido almeno al 24 febbraio, giorno in cui la Cassazione deciderà sul ricorso presentato dal suo legale. Ma l’avvocato Flavio Rossi Albertini avverte: se quel giorno la Suprema Corte “non dovesse annullare senza rinvio l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza, disponendo la revoca del 41 bis per Cospito, qualsiasi successivo provvedimento di favore per Alfredo dovrà essergli notificato al cimitero. Le condizioni di salute del detenuto sono infatti prossime al tracollo, Alfredo deambula a fatica, costantemente monitorato da uno strumento medicale portatile per la verifica del battito cardiaco, la sua salute non può attendere ulteriori rinvii”. Eppure per il Guardasigilli sembra che nulla sia accaduto: stessa posizione, stesso muro, stessi argomenti. Per Nordio infatti dallo stato di salute di Cospito, attentamente valutato, “non emerge, fortunatamente, alcun decadimento cognitivo del detenuto, unico elemento valutabile ai fini della incidenza sulla pericolosità sociale che viene in rilievo nella procedura di revoca del regime del cosiddetto carcere duro (lo chiama proprio così, ndr)”. Pericolosità “confermata dal moltiplicarsi di azioni intimidatorie e violente”, per cui “permane la sua capacità di orientare la galassia anarco-insurrezionalista”. In ogni caso, aggiunge il ministro, la modifica del 41 bis non può essere subordinata alle sue condizioni di salute, “a loro volta determinate dalla scelta consapevole” dello sciopero della fame, perché “con la medesima strategia” anche i mafiosi potrebbero “ottenere una modifica”. Del parere del Pg della Cassazione - secondo cui nel caso di Cospito il 41bis è servito ad “impedire, al più, la perpetrazione del reato di istigazione” - nulla sapeva: “È un atto endoprocessuale - spiega Nordio - che il ministero non può conoscere e come tale non è mai stato richiesto né comunicato”. Eppure prima di respingere, il 9 febbraio, la richiesta di revoca, Nordio aveva atteso il parere di “tutti i magistrati” che si stavano occupando del caso, almeno così disse. E invece ancora ieri il Guardasigilli ha fatto riferimento solo agli “elementi di novità addotti dalla difesa” che, ha affermato, “non hanno la necessaria portata demolitoria del 41bis”, come confermato anche “nel parere del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo”. Stesso muro anche sul versante parlamentare: “Le parole riferite in aula da Donzelli non sono relative a documenti sottoposti a segretezza”, ha ribadito Nordio spiegando che i brani di conversazione tra i detenuti al 41bis divulgati dal deputato di Fdi sono stati estratti da una “scheda di sintesi” del Nucleo investigativo della polizia penitenziaria, catalogate con la “dicitura “limitata diffusione” che “è solamente una prassi del Dap”. Quei colloqui “non sono stati oggetto di un’attività di intercettazione di comunicazioni, ma frutto di mera attività di vigilanza amministrativa”. E invece, ad alcuni parlamentari del centrosinistra che ne avevano fatto richiesta dopo le dichiarazioni di Donzelli, il ministero ha fornito sì gli atti richiesti, ma “epurati dai dati sensibili”. Come fa notare la presidente dem, Debora Serracchiani, però “nessuna richiesta agli atti è mai stata fatta da Donzelli”. Per la maggioranza naturalmente tutto è chiarito, caso chiuso. Se poi la protesta di Cospito ha avuto una cassa di risonanza, questa, dice provocatoriamente il deputato di Noi Moderati Pino Bicchielli, è colpa del dibattito parlamentare, “e anche noi involontariamente ci stiamo facendo usare”. Piccola bagarre per la protesta delle opposizioni; seduta sospesa per qualche minuto. Fine. “Tutto regolare”. Nordio blinda Delmastro e Donzelli di Valentina Stella Il Dubbio, 16 febbraio 2023 Il ministro: Non c’è stata alcuna irregolarità nella divulgazione dei documenti su Cospito. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ieri ha tenuto una informativa alla Camera dei deputati. Nordio ha fatto quadrato intorno al suo sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove e all’onorevole di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli: “la comparazione tra le dichiarazioni rese nel corso del dibattito parlamentare del 31 gennaio e le informazioni contenute nelle relazioni GOM e NIC citate evidenzia che l’affermazione dell’on. Donzelli “dai documenti che sono presenti al Ministero della Giustizia” è riferibile ad una scheda di sintesi del NIC, indicata dal DAP come “relazione”, sulla quale non risultano apposizioni formali di segretezza e neppure ulteriori diverse classificazioni”. Ha poi precisato: “La rilevata apposizione della dicitura “limitata divulgazione”, presente sulla nota di trasmissione della scheda di sintesi, rappresenta una formulazione che esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classifiche di segretezza” “di per sé inidonea a connotare il documento trasmesso come atto classificato”. Su questo punto ha concluso il Guardasigilli: “Quanto poi al contenuto dei colloqui tra Cospito e altri detenuti e desumibili dalla medesima scheda di sintesi del NIC, è chiaramente emerso che gli stessi non sono stati oggetto di un’attività di intercettazione di comunicazioni e/ o conversazioni, ma frutto di mera attività di vigilanza amministrativa”. La questione cospito - Il Ministro poi si è addentrato nel merito della vicenda Cospito, rivendicando la sua decisione di non revocare il 41 bis e polemizzando a distanza anche con quei giornali che avrebbero dato atto solo di una parte della relazione del Procuratore Nazionale Antimafia che suggeriva anche l’Alta sicurezza per Cospito. In realtà ha detto Nordio per Melillo “i profili di pericolosità correlati al ruolo associativo del detenuto… risultano confermati, smentendo le deduzioni difensive”. Per il responsabile di via Arenula “l’incessante succedersi di eventi critici legati indubitabilmente alla galassia anarco- insurrezionalista, cui appartiene l’associazione criminale FAI - FRI comandata da Alfredo Cospito, mi ha determinato a ritenere immutata, ed anzi aumentata, la sua pericolosità sociale. I profili di pericolosità correlati al ruolo associativo del detenuto risultano confermati dal moltiplicarsi delle azioni intimidatorie e violente seguite alla adozione del regime carcerario differenziato da parte di gruppi anarco insurrezionalisti. Permane, dunque, la capacità di Cospito di orientare le iniziative di lotta della galassia anarco insurrezionalista verso strategie e obiettivi sempre più rilevanti”. A ciò si aggiunge il fatto che “Gli elementi di novità addotti dalla difesa non hanno la necessaria portata demolitoria del regime 41 bis”. Per quanto concerne le condizioni di salute dell’anarchico l’ex pm ha ribadito che “lo Stato ha il dovere di tutelare sempre e comunque le condizioni di salute di ogni detenuto”. “Dalle risultanze della documentazione medica - ha proseguito - non emerge, fortunatamente, alcun decadimento cognitivo del detenuto, unico elemento valutabile ai fini della incidenza sulla pericolosità sociale che viene in rilievo nella procedura di revoca del regime del cd. carcere duro. In ogni caso, l’eventuale compromissione dello stato di salute generale è attentamente valutata anche dalle competenti Autorità Giudiziarie, le uniche deputate a verificarne la compatibilità con il mantenimento della restrizione carceraria”. Infine quella di Alfredo Cospito è una “scelta consapevole di deterioramento fisico”. E dunque, in caso di revoca del 41bis per le sue condizioni di salute, “chiunque adottasse la stessa strategia potrebbe ottenere la revoca” e “si aprirebbe la strada per le richieste di una moltitudine di mafiosi sottoposti al 41 bis”. Le reazioni politiche - L’informativa di Nordio non soddisfa l’opposizione. La dem Debora Serracchiani ha replicato infatti: “In occasione delle richieste che sono state presentate di accesso agli atti dai colleghi Bonelli, Lai e Grimaldi il suo ministero ha dichiarato che sono atti riservati e non divulgabili e non si può avere copia perchè lo dice espressamente la legge”; tuttavia “nessuna richiesta di accesso agli atti è mai stata fatta dall’onorevole Donzelli, mai, mai”, ha aggiunto l’esponente del Pd e “prima del 31 gennaio non è stato presentato nessun atto di sindacato ispettivo da parte dell’onorevole Donzelli e da parte di Fratelli d’Italia. In un Paese normale basterebbe questo per chiedere scusa e lasciare l’incarico di vicepresidente del Copasir. Ancora peggio per il sottosegretario” Andrea Delmastro, “perchè ha la delega al Dap, non poteva non sapere che quelle informazioni erano riservate e se non lo sapeva meglio togliergliela quella delega”. Chiaro scuro il commento di Cafiero de Raho del M5S: “Lo Stato non arretra, né su Cospito né su nessun altro”. Quanto alle affermazioni di Giovanni Donzelli, l’ex magistrato ha detto “che si trattava di atti segreti e non divulgabili. Non capiamo perché egli vi abbia avuto accesso. Si deve dimettere da vicepresidente del Copasir”. Per la Capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera Luana Zanella: “Ci aspettavamo che chiarisse il caso Donzelli- Delmastro ma il ministro Nordio ha solo alzato il muro. I due esponenti di Fratelli d’Italia hanno usato informazioni sensibili contro le opposizioni ma il governo e il ministro della Giustizia li proteggono a scapito della trasparenza delle istituzioni e del rispetto della dialettica democratica”. Ovviamente plaude a Nordio Fdi: “Da quello che lei ci ha detto (riferito a Nordio, ndr) e confermato, rimane scolpito in quest’Aula che nessuno da questi banchi ha violato qualsiasi norma di legge o ha fatto atti contrari ai propri doveri d’ufficio. Questo non lo accettiamo”, ha detto in Aula il capogruppo di Fdi alla Camera, Tommaso Foti. Sul caso Cospito sono quasi venuti alle mani. Non è una piazza ma l’Aula di Federica Olivo huffingtonpost.it, 16 febbraio 2023 A Montecitorio è andata in scena la dimostrazione plastica di quanto ancora il caso Donzelli e Delmastro faccia male ai patrioti di FdI. Al punto che non riescono a contenersi, né verbalmente né fisicamente. “Onorevole, onorevole, la richiamo all’ordine”. Ma c’era ben poco ordine in Aula, al termine dell’informativa di Nordio sul caso Cospito e soprattutto sulla vicenda della diffusione del contenuto delle carte del Dap da parte di Giovanni Donzelli, che a sua volta aveva ricevuto le informazioni dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. E siccome la situazione non si rasserenava, anzi alcuni deputati di FdI e alcuni di Avs, con qualche comparsa del Pd, stavano per venire alle mani, il presidente della Camera è stato costretto a sospendere l’Aula per qualche minuto. A metà pomeriggio nel pieno dell’emiciclo è andata in scena la dimostrazione plastica di quanto ancora il caso Donzelli e Delmastro faccia male ai patrioti di FdI. Al punto che non riescono a contenersi, né verbalmente né fisicamente. Ma cosa è successo? Il Guardasigilli aveva finito di parlare da un po’. Un discorso in cui ha nuovamente salvato Delmastro e Donzelli, sforzandosi di nascondere tutto l’imbarazzo che pure qualcuno ha notato: “Non lo avete notato che parlava con il suo perfetto accento veneto ma sotto sotto si sentiva il rumore delle unghie di chi prova ad arrampicarsi sugli specchi?”, scherza qualcuno dell’opposizione in Transatlantico. Era il momento del dibattito parlamentare: un inizio senza guizzi, con un’appassionata difesa di Foti nei confronti del collega Donzelli, che - presente, questa volta, in Aula con il dolcevita d’ordinanza - al termine dell’intervento gli dava una pacca sulla spalla e gli stringeva la mano con riconoscenza. Seguiva un’altrettanto appassionata replica di Debora Serracchiani che metteva il ministro davanti alle contraddizioni sue e del suo dicastero. Accusandolo di aver usato un “arzigogolo giuridico” per salvare i due meloniani ma al contempo non dare agli altri parlamentari gli stessi atti che Donzelli aveva divulgato, come HuffPost ha spiegato qui. A un certo punto, in un’Aula fin troppo sonnacchiosa, prende la parola la Luana Zanella, di Alleanza Verdi e Sinistra e ribadisce la posizione del gruppo: “Non si può - è il senso del suo ragionamento - dare ancora fiducia a un vicepresidente del Copasir che diffonde atti riservati”. Neanche il tempo di finire di parlare, che dall’altro lato dell’emiciclo si sono levate urla ferine: “Cosa dici?”. Non è un parlamentare comune a parlare: è Tommaso Foti, capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, che si risente perché ritiene che Zanella abbia accusato il suo collega Donzelli di aver commesso un reato, alludendo alla violazione del segreto. Ne nasce quella che Elisabetta Piccolotti, parlamentare di Sinistra italiana, uscendo dall’Aula definisce “colluttazione verbale”. Perché i meloniani e i parlamentari di Avs iniziano a urlarsi contro. “Manco fossimo nei peggiori bar di Caracas”, è il commento a caldo di Marco Grimaldi, anche lui parlamentare di Avs. A rispondere a Foti è direttamente Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana: “Lei è un cafone! Presidente - dice, rivolgendosi a Lorenzo Fontana - spieghi al collega le regole della buona educazione”. Insomma, una parola tira l’altra, un gesto poco elegante tira l’altro, e le fazioni finiscono per scendere dai loro scranni per approdare davanti ai banchi del governo. L’intervento dei commessi scongiura che la cosa finisca male e che la colluttazione verbale si trasformi in rissa. Non che così sia finita bene, visto che il teatro di questo scontro è stato un’aula parlamentare e non un bar qualsiasi, per riprendere la citazione di cui sopra. Per qualche minuto nessuno, tranne i diretti interessati, capisce cosa sia successo, perché i meloniani parlano, o meglio urlano, a microfoni spenti e non è facile ricostruire tutto subito. Quando la situazione inizia ad essere chiara Enzo Amendola, parlamentare dem, esce dall’Aula, guarda i cronisti, allarga le braccia: “Siamo alle comiche”. Peppe Provenzano è più netto e, nervoso, decide di non usare giri di parole: “Foti è un fascista! Conosce solo quel linguaggio”. Dal canto suo Foti, prova a chiarire qualche minuto dopo. E, sollecitato da HuffPost, sostiene: “Accusare una persona (Donzelli, ndr) di violazione del segreto di stato mi sembra quantomeno inopportuno, a meno che uno non abbia le prove”. La sua reazione come minimo scomposta in Aula ce la spiega lanciando direttamente la palla nel campo degli avversari: “Se Provenzano, vicesegretario di un partito, fa così (mima il gesto fatto dal parlamentare dem, che alludeva al fatto che stesse facendo solo chiacchiere, ndr), non penso che sia degno di ricoprire l’incarico. Ma farà giustizia il congresso”. E al “cafone” di Fratoianni risponde: “Dalla sua bocca non può uscir che quello”. In questo spettacolo poco edificante, Grimaldi tiene a precisare: “Abbiamo semplicemente spiegato i motivi per cui c’è chi in pochi secondi ha avuto accesso a documenti che non sono pubblici, o che almeno sono riservati. Si tratta degli stessi documenti che poi abbiamo chiesto noi e che non ci sono stati dati. Noi rivendichiamo le parole di Zanella e le mettiamo nero su bianco”. Verso sera, è la diretta interessata che lascia aperta la questione: Ho detto nel mio intervento in Aula, è lo ribadisco, che Donzelli si deve dimettere dalla vicepresidenza del Copasir per evidente inadeguatezza nella cura dei segreti di Stato e della sicurezza della nazione”. Quello che doveva essere un momento di chiarimento, si è trasformato dunque in un momento di bagarre. Ma cosa ha detto Nordio? Sostanzialmente salvato ancora una volta il parlamentare di FdI e il suo sottosegretario e ribadito la linea del governo - che si può facilmente sintetizzare in: “Il 41 bis per Cospito non si tocca” - sottolineando che l’anarchico ha ripreso a mangiare qualcosina e che le sue condizioni di salute sono monitorate. Alfredo Cospito, ha dichiarato il Guardasigilli, “non è affetto da una patologia cronica invalidante ma si sta volontariamente procurando uno stato di salute precario, perseverando nel suo comportamento nonostante i reiterati inviti da parte dell’autorità sanitaria a desistere da questa condotta”. Ma questa scelta, ha continuato, “non può imporre l’assunzione di decisioni derogatorie rispetto ai princìpi generali che disciplinano l’istituto previsto dall’articolo 41 bis, sterilizzandone, di fatto, le finalità”. Il Guardasigilli ha chiarito che quando ha emesso il suo parere - dicendo no alla richiesta di revoca del carcere duro - non era a conoscenza della requisitoria del procuratore generale della Cassazione. Né avrebbe potuto esserne a conoscenza, per il principio di divisione dei poteri. La parola, ora, spetta alla Suprema corte, che si esprimerà il 24 febbraio. E che, se dovesse dare seguito alle richieste del pg, potrebbe chiedere al tribunale di Sorveglianza di valutare se è il caso di annullare il provvedimento di 41 bis. Come chiesto dall’avvocato dell’anarchico in sciopero della fame da quasi 120 giorni e paventato anche dal procuratore nazionale antimafia. Nordio, con le sue parole di oggi, ha chiarito un concetto: se il 41 bis sarà revocato, sarà solo ed esclusivamente ad opera della magistratura. Il governo, sul punto, sta da un’altra parte. Dalla parte opposta, quella della linea dura. Mafia, Melillo: “Fare fronte comune, evitare le strumentalizzazioni politiche” di Alessia Candito La Repubblica, 16 febbraio 2023 Il capo della Procura nazionale antimafia ha convocato stamani a Reggio Calabria un tavolo operativo con i vertici della procura antimafia reggina, guidata da Giovanni Bombardieri, e il procuratore capo di Milano, Marcello Viola. “Le leggi ci sono, mancano uomini e mezzi soprattutto in Calabria”. La lotta alle mafie non può e non deve essere oggetto di polemiche politiche, “occorre costruire un tessuto di collaborazione istituzionale più ampio e solido possibile”. Più che un appello, quello del capo della Procura nazionale antimafia Giovanni Melillo, sembra un monito. Da Reggio Calabria, dove in mattinata ha riunito attorno a un tavolo magistrati della Dna, vertici della procura antimafia reggina, guidata da Giovanni Bombardieri, e il procuratore capo di Milano, Marcello Viola, per un “tavolo operativo”, Melillo lancia un messaggio chiaro: “Il quadro legislativo italiano è assolutamente adeguato alla gravità dei fenomeni criminali e ovviamente va non soltanto difeso ma perfezionato, rafforzato e integrato”. Perché la ‘ndrangheta non è un problema solo calabrese, così come le mafie non lo sono del Sud, o dell’Italia. “Bisogna essere consapevoli che è un problema che hanno tutti gli Stati e che la nostra azione si svolge in una cornice normativa che non si definisce soltanto a livello nazionale ma che trova definizione in ambito sovranazionale e nel diritto internazionale”. Fare fronte comune - Sulle mafie, spiega il procuratore capo della Dna, è urgente fare fronte comune. “Credo sia importante che diventi terreno di coesione istituzionale e terreno di virtuosa collaborazione tra istituzioni diverse”. Dal canto suo, lui sin dall’inizio del mandato ha lavorato per cucire sempre più il lavoro dei vari uffici territoriali. Per Reggio Calabria non è un’assoluta novità. Capitale della ‘ndrangheta e sede dell’intelligenza strategica dell’organizzazione, da decenni la procura collabora e coopera con gli uffici territoriali competenti sui territori che i clan calabresi hanno sempre più infiltrato. Con Milano poi, il rapporto è antico, risale addirittura alla metà degli anni Novanta, quando la “capitale morale” del Paese si è scoperta non solo inondata della droga gestita dalle ‘ndrine, ma soprattutto intossicata dai capitali, contatti e relazioni imprenditoriali e istituzionali che ne derivano. Un’infezione che dura da allora, più volte finita al centro di processi e inchieste, come quella sviluppata insieme da Milano, Reggio Calabria e Principato di Monaco che oggi ha scoperchiato un gigantesco traffico internazionale di rifiuti e il giro di riciclaggio collegato. Tra Italia, Germania e Ungheria, una serie di società cartiere, che altro non erano che scatole vuote, hanno pulito e permesso di reinvestire più di 90 milioni di euro. Uno schema che sempre più di frequente emerge nelle indagini di mafia e non che vanno oltre gli assetti militari e puntano al versante economico e finanziario. “Non vedo perché ci sia tanto stupore” per questa riunione, ha commentato Melillo. “È una normale giornata di lavoro. Siamo qui per una riunione operativa come ne facciamo tante”. Temi all’ordine del giorno? Melillo glissa: “Meglio non parlarne”. Segno che le indagini ci sono e sono in corso, ma qualcosa si lascia scappare. Al centro dell’incontro, la necessità di fare “il punto della situazione su tante indagini e su tanti profili di collegamento negativo che occorrerà sviluppare”. Dunque forse non a caso il capo dell’Ufficio milanese Marcello Viola sottolinea: “la nostra presenza qui potrebbe diventare una prassi operativa comune”. Del resto, sottolinea, “senza un’azione come quella che cerchiamo di porre in essere con il coordinamento della Procura nazionale non si possono contrastare fenomeni che ormai hanno questa dimensione e queste caratteristiche”. Gli fa eco il procuratore della Dda reggina, Giovanni Bombardieri, che afferma: “Siamo a disposizione degli altri uffici perché non siamo gelosi del nostro lavoro, anzi riteniamo che sia fondamentale lavorare insieme perché questo accresce la forza dell’investigazione e l’impatto che si può avere nel contrasto alla criminalità organizzata”. In Calabria mancano uomini e mezzi - Certo per combattere una guerra sono necessari uomini e mezzi. E da ormai troppo tempo Reggio Calabria, a dispetto della densità criminale, fa molto con troppo poco. Solo in procura mancano due aggiunti e dopo la recente sentenza del Consiglio di Stato anche la nomina del capo dell’Ufficio dovrà essere riconfermata, in Corte d’appello, attualmente affidata a un reggente dopo il pensionamento del presidente Luciano Gerardis, la scopertura è pari a metà della pianta organica prevista, mentre arrivano richieste di rinforzi anche dagli uffici di Locri e Palmi. “Ho sollevato subito, appena insediato nel mio ufficio, il tema. Non mancano soltanto i due aggiunti a Reggio Calabria - ha detto Melillo - ma ci sono Procure distrettuali importanti che attendono la nomina del Procuratore della Repubblica. Ci sono uffici distrettuali che hanno bisogno di integrazione degli organici”, ha detto Melillo, sottolineando “il lavoro della Procura di Reggio Calabria è tanto più importante e meritorio considerate le condizioni di difficoltà nelle quali si svolge, fra cui la mancanza appunto di una quota significativa della struttura direttiva dell’ufficio”. Traduzione, “sforzi supplementari” per il procuratore capo Giovanni Bombardieri e l’unico aggiunto sui tre previsti, Giuseppe Lombardo, costretti - spiega - “a degli sforzi supplementari, ma vi assicuro che l’operatività della Procura di Reggio Calabria è assolutamente intatta e lo dimostrano i risultati e i metodi di lavoro adottati” Messina Denaro è in gravi condizioni, l’avvocato: “Non so se lo stanno curando bene, non ho visto sedie per la chemio” Il Messaggero, 16 febbraio 2023 Messina Denaro è malato, è le sue condizioni “sono molto gravi”. A parlare, per la prima volta con RaiNews24, è l’avvocatessa Lorenza Guttadauro, legale di fiducia oltre che nipote del boss, a proposito del primo interrogatorio avvenuto nel carcere de L’Aquila due giorni fa, il 13 febbraio, tra il capo mafioso da lei assistito e il procuratore Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido che avevano trovato il detenuto “lucido, sereno e con tutte le cure necessarie”. “Non credo che la cella possa essere paragonata ad un ambulatorio medico. Non so se lo stanno curando bene”, ha aggiunto il legale. La replica dei medici: “Condizioni sono buone” - “Le condizioni generali del paziente sono buone”. È quanto emerge da fonti sanitarie e carcerarie sullo stato di salute del boss mafioso. Affetto da un tumore al colon, sta combattendo contro il male sostenendo le sedute di chemioterapia in un ambulatorio ad hoc ricavato di fronte alla cella. Replicando ha quanto detto dall’avvocato Guttadauro, le stesse fonti sottolineano che quanto riportato dal legale “non corrisponde al quadro clinico”. “Il paziente viene seguito con puntualità e sta facendo terapie neoplastiche ambulatoriali che sono compatibili con la sua malattia. Se fosse servito il ricovero, avrebbe fatto cure in ospedale” spiegano ancora fonti sanitarie che non nascondono una certa irritazione. Secondo quanto si è appreso, in seguito alla seconda chemio, somministrata il 6 febbraio scorso, il 60enne non ha avuto problemi legati agli effetti collaterali. Intanto, lo staff di oncologi guidato dal primario dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila, Luciano Mutti, è pronto ad assolvere il compito assegnato nel rispetto del piano terapeutico già predisposto. L’interrogatorio - I due magistrati erano arrivati intorno alle 14.30 nel carcere dove Denaro è detenuto e curato nella stessa saletta dove si è svolto il colloquio. E sono andati via dopo circa tre ore. Ma gran parte del tempo è stato impiegato per la preparazione del confronto. Pare che le risposte del padrino non abbiano dato alcun contributo importante, o almeno significativo, al quadro dell’inchiesta. Tanto è vero che tutto si è risolto in poco tempo e il verbale non è stato neppure secretato. Se ne deduce che non contenga colpi di scena né elementi decisivi. Ma non per questo il velo del riserbo da parte dei magistrati si è allargato. Se per la forma questo era il vero interrogatorio del boss dopo 30 anni di latitanza va ricordato che Messina Denaro aveva già visto per pochi minuti i magistrati subito dopo l’arresto. Il tempo necessario perché De Lucia potesse dirgli che era “nelle mani dello Stato” e che “riceverà piena assistenza medica”. Cosa che si sta realmente facendo nel carcere aquilano di massima sicurezza. I sospetti - Anche se non ci sono indiscrezioni sul contenuto del colloquio, è facile ritenere che le domande dei magistrati abbiano cercato di approfondire il tema delle protezioni, con particolare attenzione alla rete di complicità che l’inchiesta sta giorno dopo giorno rivelando. Uno dei punti da chiarire è il ruolo del medico Alfonso Tumbarello il quale ha curato e assistito, con 137 prescrizioni, il boss che andava in giro con l’identità del geometra Andrea Bonafede. Tumbarello, affiliato a una loggia massonica di Campobello di Mazara dalla quale è stato sospeso, sostiene di non avere mai avuto sospetti sull’uso di un nome di comodo. Ma gli investigatori hanno messo sempre in discussione la credibilità del medico, che per questo è stato arrestato. Un altro focus dell’inchiesta prende di mira il covo di Campobello di Mazara, messo a disposizione da Bonafede, dove sono state trovate molte tracce della vita clandestina, ma vissuta alla luce del sole, dell’uomo più ricercato d’Italia. Oltre a indumenti femminili, appartenuti a donne con cui Messina Denaro si incontrava, sono stati ritrovati documenti e “pizzini”: uno era in una busta indirizzato alla figlia, ma mai giunto alla destinataria. Non è da questi elementi che sarà possibile ricomporre la rete di relazioni che hanno assicurato al boss la lunga latitanza. Ma servono a delineare un quadro di scambi e di contatti, un terreno nel quale Messina Denaro non sembra disposto a portare i magistrati e gli investigatori. Qualche traccia può dare invece il senso e la natura di alcune relazioni. Indicativa la dedica stampigliata nel portachiavi che il boss portava in tasca nel giorno dell’arresto. La persona che glielo aveva regalato aveva fatto incidere la frase: “L’uomo, il mito, la leggenda sei tu”. Ingiusta detenzione. Il senatore Fina: “Governo risponda”, caso Petrilli in Parlamento abruzzoweb.it, 16 febbraio 2023 “Torniamo a rivolgere un appello al governo e alla maggioranza perché prendano in considerazione la necessità di un dibattito e di un approfondimento sul delicato argomento della riforma dell’articolo 314 del Codice di Procedura Penale, in applicazione del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, riconosciuto dall’articolo 24 della Costituzione. Sul tema ho sottoscritto anche l’interrogazione della senatrice Ilaria Cucchi, rimasta senza risposta”: lo dichiara Michele Fina, senatore del Partito Democratico. Fina ricorda: “L’articolo 314 c.p.p. è inefficace e in larga parte inattuato. Sulla questione sono mobilitato, condividendo la battaglia di Giulio Petrilli. La norma sull’ingiusta detenzione risponde ad un dovere di giustizia e umanità di cui lo Stato si deve far carico, rispondendo all’alto rispetto dei principi fondanti della Costituzione, in particolare come detto di quanto esprime l’articolo 24. Spetta a maggior ragione a un governo e a un ministro che si sono voluti distinguere sin dall’inizio del loro percorso con dichiarazioni fondate sul garantismo. Ma occorrono i fatti, e la coerenza”. Lazio. Suicidi in cella e sovraffollamento: carceri malate di Stefano Liburdi Il Tempo, 16 febbraio 2023 Viaggio nei 14 istituti del Lazio dove c’è carenza di personale e si vive in pochi metri quadrati. A Regina Coeli il triste primato di detenuti che si sono tolti la vita lo scorso anno. Di lui non conosciamo il nome, sappiamo che era nato in Libia, senza fissa dimora aveva trent’anni. Verso l’ora di pranzo del 18 gennaio scorso si è impiccato nella sua cella nel carcere di Regina Coeli. È il primo detenuto che si è tolto la vita nei penitenziari del Lazio nel 2023. L’uomo era entrato in prigione da tre giorni e si trovava nella VII sezione in isolamento Covid. Dopo l’anno nero del 2022 che ha visto il record di suicidi nelle carceri italiane con 85 persone che hanno deciso di farla finita, anche il 2023 non sembra portare buone notizie su questo drammatico tema: già cinque le vittime in un mese e mezzo. L’ultima è morta la sera del 10 febbraio dopo più di una settimana di agonia. Luis V., ventunenne peruviano, era entrato nel carcere milanese di San Vittore il 31 dicembre. Un mese dopo si è impiccato nel bagno della sua cella. Secondo i dati di “Ristretti Orizzonti” nel Lazio durante i dodici mesi del 2022 ci sono stati sette suicidi più almeno due morti da accertare. Un detenuto italiano si è tolto la vita a Frosinone, uno straniero e una donna italiana a Rebibbia e quattro stranieri al Regina Coeli dove, riferisce il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, si sono verificati anche 259 atti di autolesionismo e 46 tentati suicidi. Nel carcere di via della Lungara dal 2012 al 31 gennaio 2023, si sono uccise 14 persone e in 204 hanno tentato di farlo. Analizzando i dati, appare evidente come in molti casi a suicidarsi sono stati cittadini stranieri: cinque su sette nel Lazio durante lo scorso anno, più il primo del nuovo anno. Le persone non italiane detenute nei 14 penitenziari del Lazio sono 2.205 (circa il 37% del totale). Tra loro il 32% in attesa di giudizio (per gli italiani il dato è 29%). Nella regione sono presenti detenuti di 95 nazioni differenti. Quelli con maggior presenza sono i cittadini rumeni (19,7%), poi albanesi (8,7%) e i marocchini (8,2%). La triste tendenza che spesso ha accomunato i suicidi avvenuti nel 2022 è che questi si sono verificati durante i primi giorni di detenzione: a livello nazionale il 40% nei primi 90 giorni e il 60% nei primi sei mesi, il 20% nei primi dieci giorni. Anche questo scorcio del nuovo anno sembra confermare la pericolosità dei primi momenti trascorsi dietro le sbarre, che iniziano con l’isolamento previsto dalle disposizioni anti Covid. Il trauma della carcerazione, mette a dura prova il sistema emotivo della persona che la subisce, soprattutto se si trova ad affrontare questa situazione per l prima volta. Spesso a finire in carcere è anche chi si è macchiato di reati minori oppure chi non ha ancora affrontato il processo e si trova ristretto per via della ormai abusata carcerazione preventiva. Ci si chiede allora se in alcuni casi non sia meglio fare ricorso a delle misure alternative al carcere, peraltro previste dal legislatore. Sarebbe un modo per contrastare anche altri gravi problemi che attanagliano i penitenziari. A cominciare dal sovraffollamento che contribuisce a rendere insopportabile la vita nelle quattro mura da condividere con quattro, cinque e a volte anche sei persone. Non sembra un caso che nel Lazio, il carcere con il numero più alto di suicidi è il Regina Coeli che per struttura sarebbe più adatto a ospitare un museo che delle persone. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 gennaio 2023, nell’edificio in pieno centro della Capitale, stanno scontando la loro pena 996 detenuti a fronte di una capienza che ne prevede 628. La struttura non ha aree verdi o cortili adeguati dove praticare dello sport e la convivenza tra persone con età, culture e abitudini diverse è difficoltosa in spazi così ristretti. Anche a Rebibbia Nuovo Complesso il sovraffollamento è un problema: qui sono ospitati 1.473 detenuti, esattamente trecento in più dei 1.176 previsti. Sempre nel Lazio, la situazione più critica è alla casa circondariale di Latina con 110 persone recluse in una struttura che ne prevede 77. A Rieti ci sono 35 detenuti “in eccesso”, a Civitavecchia N.C. 129. L’uso di misure alternative al carcere, renderebbe più agevole il lavoro del personale che opera nelle carceri da sempre in carenza di organico. Secondo i dati dell’associazione “Antigone” “Le piante organiche del Ministero della Giustizia prevedono 37.445 agenti di polizia penitenziaria, 908 funzionari giuridico-pedagogici”. E invece nei 190 istituti penitenziari italiani “gli agenti di polizia penitenziaria effettivamente impiegati sono 31.680 (-5.765 rispetto a quelli previsti), gli educatori 681 (-227). Il rapporto tra il numero totale dei detenuti e il numero totale degli agenti è di 1,7 detenuti per ogni agente di polizia penitenziaria. Il rapporto rispetto al numero totale di funzionari giuridico-pedagogici effettivamente impiegati è di 80,5 detenuti per ogni educatore (a Velletri si arriva 201 detenuti per ogni educatore)”. Numeri troppo bassi per dare assistenza a chi ne ha bisogno. Realtà rispecchiata anche nella tutela della salute mentale e dalla carenza di copertura psichiatrica. Frosinone. Detenuto muore nel carcere, il Garante: “Malato grave, non doveva stare lì” di Alessia Rabbai fanpage.it, 16 febbraio 2023 Un altro morto nelle carceri del Lazio, il secondo nel 2023. È un 69enne deceduto lunedì scorso a Frosinone. Il garante: “Era malato e in gravi condizioni”. Un detenuto di sessantanove anni è morto nella Casa Circondariale Giuseppe Pagliei di Frosinone. I fatti risalgono allo scorso lunedì 13 febbraio. Si tratta di un uomo di origini egiziane con fine pena nel 2029, che si trovava dietro alle sbarre, nonostante fosse in gravi condizioni di salute. A renderlo noto è il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa: “Un altro morto in carcere. Condannato per furto, ricettazione e spaccio di stupefacenti, era recluso nonostante fosse Hiv positivo, con problemi respiratori e un quadro clinico cardio-circolatorio compromesso. Un’altra vittima delle leggi sulla droga e sull’immigrazione, e dell’ostinazione a tenere in carcere persone in gravi condizioni di salute”. La salma è stata messa a disposizione dell’Autorità Giudiziaria, per l’autopsia. I risultati degli esami serviranno a chiarire le cause esatte che hanno determinato il decesso. “Quella che avuto un esito drammatico è la triste storia di un uomo straniero in Italia, fatta di irregolarità e prodotto di leggi che non consentono l’effettivo recupero e inserimento sociale - spiega Anastasìa contattato da Fanpage.it. Una riflessione sulla vicenda va fatta, ossia se fosse strettamente necessario che questa persona, di sessantanove anni, Hiv positiva e in condizioni gravi, dovesse stare in carcere o se magari si poteva fare un altro tipo di scelta. Per quanto mi riguarda era auspicabile che non si trovasse lì. I reati di cui era stato dichiarato colpevole erano palesemente legati ad una difficoltà d’inserimento sociale e al non avere altro modo per sopravvivere”. Il secondo morto in carcere nel Lazio nel 2023 - Il detenuto sessantanovenne deceduto lunedì a Frosinone è il secondo morto in carcere del 2023. Il primo è stato un detenuto deceduto al Regina Coeli lo scorso 18 gennaio, in quel frangente si è trattato di un suicidio. Rispetto a quest’ultimo aspetto il 2022 è stato l’anno peggiore in assoluto dei suicidi nelle carceri italiane, con circa 84 decessi. Lecce. Detenuti ma anche studenti universitari: in 20 vogliono laurearsi di Mattia Chetta quotidianodipuglia.it, 16 febbraio 2023 Una sfida per le istituzioni e insieme un’opportunità per i detenuti: lo studio e la formazione all’interno delle case circondariali in Italia sempre più spesso restituiscono a chi è dietro le sbarre dignità e speranze. Oltre a contribuire a costruire nuove chance lavorative in prospettiva futura. I detenuti pugliesi studiano, dunque. Lo dicono i dati: quelli diffusi dal provveditorato regionale che contava 705 iscritti ai corsi di ogni ordine e grado nell’anno scolastico 2021-2022. E se i detenuti iscritti all’Università degli Studi “Aldo Moro” (Facoltà di Scienze Politiche e Discipline dell’Audiovisivo, Musica e Spettacolo) di Bari sono 16 (di cui 15 provenienti dalla casa circondariale di Taranto e uno dalla casa circondariale di Bari), UniSalento conta 20 universitari in regime carcerario. La convenzione - Attraverso una convenzione sottoscritta meno di due anni fa tra il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale della Puglia e Basilicata e le università pugliesi), in venti, tra donne e uomini, cercano oggi riscatto scegliendo di contrastare la povertà educativa e divenendo così i protagonisti del loro sviluppo culturale. Archeologia, Management digitale, Sociologia, Lingue, Scienze motorie, Comunicazione pubblica e istituzionale ma anche Ingegneria aerospaziale, Filosofia, Consulenza pedagogica, Dams, Economia aziendale e Giurisprudenza: sono i corsi di laurea scelti dagli studenti di Borgo San Nicola. Per la maggior parte di loro lezioni ed esami si svolgono all’interno del penitenziario mentre per tre di loro il percorso universitario si svolge da remoto da Biella, Melfi e Rossano Calabro, a causa dei recenti trasferimenti. Non solo semplici nozioni ma prospettive di una vita diversa, opportunità di riflettere sulla propria condizione investendo su sé stessi e preparandosi - allo stesso tempo - per quello che potrà accadere al termine del periodo di detenzione. Chiave di svolta, verrebbe da dire, dei detenuti è anche il lavoro. I detenuti lavoratori - Nel primo semestre del 2022 in Puglia erano 1.090 i detenuti lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria mentre 102 quelli occupati da un impiego diverso e non alle dipendenze dell’amministrazione. E ancora. In Puglia dal primo gennaio al 30 giugno 2022 49 detenuti risultavano iscritti a 5 corsi attivati rispettivamente presso la casa circondariale di Brindisi e quella di Trani. Ma nei penitenziari pugliesi, come precisano dal provveditorato regionale, sono in corso ulteriori percorsi di formazione professionale, grazie alle intese con l’Assessorato al Lavoro e alla Formazione Professionale della Regione Puglia (che ha cofinanziato il progetto) ed in virtù dei finanziamenti della Cassa delle Ammende del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che continueranno fino a tutto il 2023. Una sfida per migliorare se stessi - “La formazione migliora il percorso trattamentale sia all’interno del carcere che una volta usciti fuori - ha commentato la professoressa Marta Vignola, delegata del rettore per il Polo penitenziario universitario -. niSalento consente alla popolazione carceraria la possibilità di migliorare sé stessi e il proprio bagaglio culturale, ottenendo così gli strumenti per comprendere meglio il mondo che li circonda. In ogni caso studiare fa bene. Il rettore, il professore Fabio Pollice, ha dato un grande impulso alla formazione universitaria in carcere abolendo le tasse per i detenuti e in Italia non è un atto di poco conto: rappresenta la vicinanza dell’istituzione e incentiva altri detenuti a intraprendere percorsi simili”. Studio e cultura per sentirsi liberi, anche in un carcere, dunque. “Lo studio ha una doppia valenza - ha aggiunto Silvia Cazzato, responsabile gestione studenti universitari e rapporto con le case circondariali -. Innanzitutto, è un’occasione di riscatto morale. Il detenuto si sente finalmente un essere umano e non un semplice detenuto; già la dicitura “studente” nobilita l’uomo o la donna che sia, indicando positività e propositività per la propria vita. Poi, il percorso formativo è utile a tutti: gli autori di reati ostativi, che possono sfruttare poco la laurea conseguita, costruiscono la loro emancipazione; gli altri detenuti, invece, all’esterno sfruttano il percorso a pieno il titolo”. Alba (Cn). Paola Ferlauto è la nuova Garante comunale dei detenuti lanuovaprovincia.it, 16 febbraio 2023 Paola Ferlauto è la nuova Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Alba, figura istituita con deliberazione del Consiglio comunale n. 56 del 26/06/2015. Sabato 11 febbraio il sindaco Carlo Bo ha firmato il provvedimento di nomina, dopo il via libera ricevuto dalla conferenza dei capigruppo sulla candidata selezionata sulla base delle domande pervenute in Municipio con il bando lanciato dall’ente nel dicembre scorso. Laureata in Scienze Infermieristiche nel 2004, Paola Ferlauto ha lavorato all’interno della Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba dal 2004 al 2016 e dal 2018 è Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Comune di Asti. Il Garante interagisce con i detenuti, riceve segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei reclusi, violati o parzialmente attuati, e si rivolge all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il sindaco di Alba Carlo Bo: “In questo momento così delicato per il nostro carcere, con l’intervento di ristrutturazione nelle sue fasi iniziali e con al suo interno una Casa Lavoro con casi non semplici da gestire, siamo felici di poter nuovamente contare sulla figura del Garante dei detenuti. La candidata scelta è una persona competente e preparata che ricopre già lo stesso ruolo ad Asti e conosce la realtà del Montalto per avervi lavorato per oltre un decennio. Sono sicuro che collaboreremo al meglio e le auguro buon lavoro”. “Credo di poter dare il mio contributo alla struttura albese - dice la Garante comunale Paola Ferlauto - essendo specializzata in criminologia e laureanda in psicologia clinica e considerando che il carcere è un contesto molto particolare. Ringrazio l’Amministrazione albese per avermi nominata e sono certa che lavoreremo in sinergia perché la Casa di Reclusione Montalto possa essere una realtà di eccellenza”. Tra i primi eventi a cui prenderà parte la Garante Paola Ferlauto, il seminario sulla Casa Lavoro “Le esperienze italiane e la situazione nel carcere albese. Le misure di sicurezza “non detentive” nel nuovo millennio: un residuato giuridico da superare? Una sfida difficile o un’impresa ormai priva di senso?” in programma sabato 18 febbraio alle ore 10,30 nella Sala della Resistenza del Palazzo comunale, alla presenza Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte Bruno Mellano, del sindaco Carlo Bo e dell’assessore comunale ai Servizi sociali e assistenziali Elisa Boschiazzo. Milano. “Cerchiamo di trasformare le ferite in parola” di Francesco Lo Torto Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2023 La storia del laboratorio di scrittura che fa nascere poesie nel carcere di Opera. Da 29 anni Silvana Cerutti, ogni sabato mattina, si siede intorno al tavolo ovale della struttura penitenziaria e coordina un percorso creativo insieme a un gruppo di persone detenute: “Ci disponiamo tutti intorno a questo tavolone, come fosse un ponte che collega le nostre vite, le nostre esperienze, e in queste tre ore facciamo un pezzo di viaggio insieme”. Il 21 febbraio sarà presentata a Milano l’edizione 2023 del “Calendario poetico”, nato proprio grazie al laboratorio. “Con la poesia è possibile scendere in profondità dentro di sé, tirar fuori quello che dilaga dentro. E questo è fondamentale per chi è in carcere. Se non si riesce a dargli forma, a nominarli, questi sentimenti ti possono rompere”. Silvana Ceruti conosce bene il dolore, la rabbia e la frustrazione delle persone detenute. Da 29 anni, ogni sabato mattina dalle 9 alle 12, si siede con loro intorno a un tavolo ovale e condivide un progetto: il “Laboratorio di lettura e scrittura creativa” da lei stessa fondato nel 1994 nel carcere di Milano Opera. Non si tratta di lezioni. Non c’è una cattedra, né una gerarchia tra insegnante e alunni. È un percorso di condivisione di vissuto, di emozioni, a cui partecipano tutti attivamente, siano essi volontari o persone detenute. “Ci disponiamo tutti intorno a questo tavolone, come fosse un ponte che collega le nostre vite, le nostre esperienze, e in queste tre ore facciamo un pezzo di viaggio insieme”, racconta Ceruti a ilfattoquotidiano.it. Dopo essersi laureata in pedagogia e in filosofia e aver fatto per anni l’insegnante elementare a Milano, ha scelto di dedicarsi con passione a questo percorso di reinserimento delle persone detenute: “È gratificante. Non è facile fare incontri di questo tipo fuori”, spiega. Nella prima parte dell’incontro si respira un’energia particolare. “Le persone arrivano molto cariche perché hanno atteso tutta la settimana di poter leggere ciò che hanno scritto. Hanno proprio l’urgenza di leggere le poesie, gli aforismi e le riflessioni su cui hanno lavorato”, continua Ceruti, descrivendo come si articola il laboratorio. La prima ora e mezza è dedicata a fare il giro di ciò che ciascuno ha portato. Ogni componimento viene commentato, partendo sempre dal valorizzare ciò che è positivo: un bell’incipit, una metafora utilizzata in modo efficace. Ognuno ascolta l’altro con partecipazione. Dedica attenzione a ciò che gli altri compagni di viaggio hanno tirato fuori. “Poi facciamo una piccola pausa, in cui mangiamo insieme qualcosa. È un elemento di convivialità molto importante”, racconta ancora Ceruti. E scherza: “Qualcuno viene anche solo perché sa che ci sarà una merenda. E va bene così, fa parte della relazione che si crea tra chi partecipa agli incontri. Sono proprio le relazioni a salvare le persone. Chi è dentro non ne ha avute molte”. Dopo la pausa, l’incontro prosegue: si leggono opere di poeti e scrittori famosi, ci si confronta con ospiti invitati di volta in volta, e si scrive. “Anche noi volontari lo facciamo. Scriviamo di tutto, come per esempio della carta di una caramella. La poesia non sta negli oggetti, è un modo di guardare”. In un ambiente maschile e complesso come quello del carcere è difficile trovare una via per esprimersi, per accettare che è possibile condividere un pezzo di strada con qualcun altro. Senza sentirsi giudicati, senza sentirsi deboli. Leggere e scrivere poesia permette di scoprire un linguaggio nuovo e autentico. Una lingua perfetta per imparare ad ascoltarsi e ad ascoltare gli altri. “Cerchiamo di trasformare le ferite in parola”, spiega Ceruti. In questo modo è possibile ricostruire il rispetto e la stima di sé di cui la prigione può privarti. Sono fondamentali per evitare la recidiva una volta fuori. Le attività aiutano a non cadere nell’ozio durante la detenzione, un modo per cercare di conservare la salute, soprattutto mentale, in condizioni di vita difficili: “Mi raccontano dei problemi che vivono quotidianamente. Il sovraffollamento è il principale. Forse dovremmo rivalutare l’utilità del carcere, almeno per alcuni tipi di reati”. Secondo gli ultimi dati diffusi a ottobre dal ministero della Giustizia, ad Opera i posti regolamentari sono 918, ma la casa di reclusione ospita 1334 persone detenute. In cella non ci stanno, per vestirsi devono alzarsi uno per volta, altrimenti non c’è spazio. “Mettono sul foglio un vissuto difficile. Ne parliamo solo attraverso la poesia. Non chiediamo mai a chi partecipa perché è dentro. Ci sono persone di 28 anni e di 70, condannati a diverse pene, anche all’ergastolo”. In tutto ora le persone detenute che partecipano al laboratorio sono 12. Prima del Covid erano 20, poi la pandemia ha minato il gruppo che, però, appena possibile si è ricostituito con nuovi ingressi. All’iniziativa prendono parte dieci volontari, un piccolo gruppo che negli anni si è innamorato del progetto e ha affiancato Ceruti: il giornalista e poeta Alberto Figliolia, da 15 anni co-coordinatore del laboratorio; Gerardo Mastrullo che con la sua casa editrice “La vita felice” ha pubblicato dieci antologie, raccogliendo i testi scritti durante il laboratorio. Queste opere ospitano le prefazioni di alcuni importanti nomi della cultura italiana, e non solo. Tra questi, Umberto Veronesi, Marco Garzonio, Maurizio Cucchi e Vito Mancuso. Infine, il gruppo di volontari può contare sulle fotografie di Margherita Lazzati, grazie al cui lavoro, da oltre dieci anni, viene realizzato il “Calendario poetico” - l’edizione del 2023 verrà presentata il 21 febbraio, dalle ore 16 alle ore 19, nella sala Alessi di Palazzo Marino, a Milano. Dopo 29 anni, Silvana Ceruti è ancora appassionata come il primo giorno: “Si possono fare esperienze straordinarie creando dei rapporti con queste persone”. Prova a fare mente locale, per ricordarsi di qualche momento che l’ha colpita maggiormente dal 1994 a oggi. Ma sono i piccoli gesti di gentilezza a colpirla quotidianamente. “È nel piccolo che ci scopriamo”, dice. Poi si ricorda un episodio particolare, una grande soddisfazione, quando una persona detenuta, rileggendo quello che aveva scritto, l’ha guardata e le ha detto: “Sai, io non sapevo di avere queste cose dentro”. Saluzzo (Cn). Progetto “Sostegno dei detenuti a fine pena e contenimento della recidiva” di Bruna Chiotti* Ristretti Orizzonti, 16 febbraio 2023 Nella Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo, che ospita detenuti tutti in Alta Sicurezza, è iniziato il progetto “Sostegno dei detenuti a fine pena e contenimento della recidiva”. Tale progetto è stato finanziato dalla Chiesa Valdese nell’ambito dell’otto per mille 2022 ed è stato presentato dall’Associazione di volontariato “Liberi Dentro ODV” di Saluzzo. È stato considerato come termine di fine pena 2023 - 2024 coinvolgendo 25 persone su una presenza totale di oltre 400 detenuti mentre nella fascia 2023 - 2026 sarebbero interessate oltre 50 persone. Il progetto è gestito dalla dott.sa Maggio, counselor e docente presso i corsi professionali carcerari, con la collaborazione dell’area educativa e dei volontari di Liberi Dentro e prevede anche il coinvolgimento di una ditta esterna e una cooperativa sociale nell’ambito di una prospettiva di inserimento lavorativo Prevede anche uno Sportello di ascolto esterno per un sostegno al detenuto nel momento più difficile del suo inserimento sociale, dopo lunghi anni di detenzione Parlare del “dopo” affinché non sia un salto nel buio: diventa fondamentale una preparazione alla vita esterna perché chi esce senza alcun punto di riferimento, senza una graduale preparazione non può reggere all’impatto con la società esterna *Associazione Liberi Dentro ODV Alessandria. Il pane della pace fatto con il grano ucraino dai detenuti del carcere San Michele di Adelia Pantano La Stampa, 16 febbraio 2023 Progetto d’intesa con la città di Leopoli: la materia prima arriva dal Paese in guerra, a cui va parte del ricavato delle vendite. C’è un camion che nei mesi scorsi più volte è partito dalla regione di Leopoli, in Ucraina, carico di grano con destinazione l’Italia. La prima tappa era Parma, dove la materia prima viene trasformata in farina, la seconda ad Alessandria, nel carcere di San Michele, dove 8 detenuti lavorano quella farina per fare pane e grissini. Una parte del ricavato dalla vendita serve a sostenere gli agricoltori ucraini da cui tutto è partito. È una “filiera per la pace”, inclusiva e solidale quella costruita dalla cooperativa Pausa Café insieme a Nova Coop, grazie al contributo della Camera dell’Agricoltura di Leopoli e dell’Università di Kiev. Lo hanno chiamato “Bread for peace” che significa “Pane per la pace” e l’idea è nata all’indomani dello scoppio della guerra e della difficoltà dell’Ucraina ad esportare il grano, di cui è uno dei maggiori produttori al mondo. “È un progetto in cui si trova la sicurezza alimentare, i rifugiati, il pane, la pace: tutti temi di cui oggi più che mai è necessario parlare e a cui abbiamo affiancato anche la dignità dei detenuti” racconta Marco Ferrero, presidente della coop che da anni gestisce il forno nel carcere di San Michele per la produzione da parte degli stessi detenuti di prodotti fatti a mano con il lievito madre e cotti nel forno a legno della struttura. “Il lavoro in carcere è una delle prime cose che cerchiamo di garantire alle persone - commenta Elena Lombardi Vallauri, direttrice dei due penitenziari di Alessandria -. Non è una semplice attività: cerchiamo di dare loro gli strumenti di un mestiere da poter usare fuori una volta terminata la loro pena”. Il progetto “Bread for peace” ha però qualcosa in più. “Il pane che produciamo ha un valore aggiunto che è quello della solidarietà internazionale - spiega la direttrice -. Da parte dei detenuti c’è sempre una forte partecipazione quando si tratta di aiutare chi ha bisogno: si attivano spontaneamente, in silenzio e con umiltà, di fronte a situazioni di sofferenza come la guerra in Ucraina”. È da qui che parte la filiera della solidarietà (e dell’inclusività), dai piccoli agricoltori della regione di Leopoli che lo stesso Ferrero ha conosciuto personalmente. La cooperativa importa (via terra e senza intermediazioni) il grano tenero, riconoscendo ai produttori un prezzo leggermente superiore a quello di mercato. Il grano è macinato a pietra e trasformato in farina di tipo 1 nel Molino Grassi di Parma. Viene quindi usata per produrre pane e grissini nel laboratorio del carcere, prodotti che poi vengono rivenduti nella rete commerciale di Nova Coop. Per ogni confezione di farina, pane e grissini venduta, 30 centesimi sono destinati all’acquisto di sementi e attrezzature per gli agricoltori ucraini. Il ringraziamento per il progetto arriva anche dall’Ucraina. “È un lavoro di squadra che ci ha permesso di superare i momenti più difficili del conflitto”, il commento di Igor Vuytsyk, rappresentante della Camera dell’Agricoltura di Leopoli. Ieri il progetto è stato presentato al carcere di Alessandria da Pausa Café da Nova Coop e Legacoop Piemonte davanti agli esponenti della giunta regionale e della politica locale. “Bread for peace” adesso inizierà la sua seconda fase: da marzo 50 famiglie ucraine, ospitate in sei rifugi, saranno sostenute attraverso la distribuzione di generi di prima necessità - latte, formaggio, carne, frutta, verdura - forniti da piccoli produttori locali, finanziati dalle realtà ideatrici del progetto. “L’obiettivo - conclude Ferrero - è quello di rafforzare la capacità produttiva delle piccole e medie aziende costrette a vivere in un territorio in guerra”. Lecce. Verso la Giornata del fratello detenuto. Un appello dal cappellano di Borgo San Nicola di Francesco Capoccia portalecce.it, 16 febbraio 2023 La prossima prima domenica di marzo si celebra anche nella Chiesa di Lecce, la Giornata del fratello detenuto ed è l’occasione per fermarsi a pregare e sensibilizzare verso le problematiche della reclusione e trovare un ponte tra la comunità diocesana e quanti, per vari motivi, hanno sbagliato durante il percorso della loro vita e si trovano reclusi, privi della loro libertà. Per questo, in vista della Giornata, tutte le comunità parrocchiali sono invitate con le loro realtà a un particolare momento di preghiera per i fratelli detenuti e, per una più concreta vicinanza e assistenza, il cappellano del carcere, Padre Angelo e l’associazione di volontariato carcerario Comunità Speranza, chiedono a tutte le comunità della diocesi di farsi sentire vicine, nelle loro possibilità, inviando aiuti e sostegni per le detenute e i detenuti più indigenti e con più difficoltà. In particolare, si necessita di tutti i prodotti per l’igiene personale, capi di vestiario, anche usati, per decoro di chi li dona e di chi li riceve ovviamente in buone condizioni e puliti, in quanto dopo i relativi controlli da parte della polizia penitenziaria, saranno consegnati alle sorelle e ai fratelli detenuti. Occorrono in particolar modo tute, accappatoi, giubbini non imbottiti e senza cappuccio, pantaloni, maglioni, asciugamani, biancheria. Questo può essere un vero segno concreto di vicinanza e sostegno per chi si trova a scontare la propria pena dinanzi alla giustizia per riacquisire dignità e un posto onesto nella nostra società, che non è altro che la finalità degli istituti penitenziari oltre che il nostro obiettivo come cristiani e in questo particolare giorno far sì che ogni giorno non prevalga il pregiudizio, ma uno sguardo compassionevole e misericordioso verso i nostri fratelli e sorelle. Roma. Inquinamento, a Rebibbia murale mangia-smog di Giulia D’Aleo Il Manifesto, 16 febbraio 2023 L’opera “mangia smog” porta la firma dello street artist cremonese Luogo Comune e il contributo di 100 attiviste e attivisti under 30 arrivati a Roma da tutta Italia. Un anomalo sole cocente di febbraio è la cornice più calzante per la presentazione del murale contro la crisi climatica che da ieri colora Rebibbia. L’opera “mangia smog” porta la firma dello street artist cremonese Luogo Comune e il contributo di 100 attiviste e attivisti under 30 arrivati a Roma da tutta Italia per partecipare alle iniziative promosse da Coop in occasione della Giornata nazionale del risparmio energetico del 16 febbraio. Nello stile riconoscibile dello street artist - un flat design con una palette contenuta di colori - una figura femminile sprigiona un vortice di energia attraverso un megafono: un grido d’allarme per la crisi climatica in atto, ma anche una “chiamata alle armi” della collettività intera per un cambiamento ancora possibile. “Ogni progetto è sempre una storia a sé - racconta Jacopo, in arte Luogo Comune -. Spero che l’immagine parli da sola e restituisca l’idea di vitalità e gioventù che ho voluto sintetizzare”. Il disegno prende vita grazie all’impiego di una vernice fotocatalitica, che consente al murale di “respirare” le emissioni inquinanti e restituirle in forma di sale inerte, neutralizzando ogni giorno lo smog generato da circa 24 auto a benzina. Se negli ultimi 50 anni la temperatura media di Roma è salita di 2 gradi, le rilevazioni segnalano come l’area più inquinata della città sia proprio la zona est, Rebibbia inclusa. Le mura della piazza antistante la metro si sono trasformate in un’enorme tela di 100 metri quadri, uno spazio d’espressione - per una volta ricevuto in concessione e non conquistato a fatica - in cui giovani attivisti hanno potuto dare voce alla loro idea di futuro. Futuro è la parola che Giulia, di un’associazione bolognese di street art, ha impresso accanto a quelle degli altri attivisti. “L’ho scelta - spiega - perché mi fa un po’ paura. Il mondo che ci hanno lasciato è ingiusto e pieno di problemi, ma sono convinta che la nostra generazione possa essere la spinta che serve per cambiarlo”. L’evento - patrocinato dal ministero dell’Ambiente e dall’assessorato alla Cultura di Roma e realizzato in collaborazione con Atac, il municipio IV e l’associazione no profit Yourban 2023 - è la conclusione di due giorni di sensibilizzazione sulla transizione energetica. Un’installazione temporanea, ideata da studenti di un liceo artistico, il giorno prima aveva illuminato piazza del Popolo con 340 lampade ricaricabili. “Le istanze dei più giovani non sono state fermate dalla pandemia né dalla guerra, che spinge per soluzioni semplicistiche come il ritorno ai combustibili fossili - ha ricordato Marco Pedroni, presidente di Ancc-Coop -. È giusto, quindi, che pretendano tanto dalle istituzioni e dalle imprese”. Battaglie di retroguardia per far avanzare la scuola di Tommaso Giani Corriere Fiorentino, 16 febbraio 2023 Il nemico numero uno? Secondo il mio ex prof (e modello) Massimo ora è la competizione. A due chilometri da casa mia, il dormitorio per persone senza tetto di Santa Croce sull’Arno, abita Massimo, il mio professore di italiano al liceo. Sono passati più di vent’anni dalla mia maturità: nel frattempo lui è andato in pensione e io sono diventato un professore molto simile a lui. Quando ero un suo studente si faceva a gara, all’uscita da scuola, per salire per primi sulla Panda del prof sempre piena di libri e giornali e mai chiusa a chiave, e per vincere un passaggio a casa o un pranzo fuori porta insieme a lui. Ora invece sono io a guidare la Panda, a offrire la pizza e a fare il tassista gratis per i miei amati studenti. Io e Massimo ci assomigliamo anche per la famiglia che non abbiamo e per la cura molto sopra la media che possiamo dedicare alla preparazione di lezioni sempre nuove per le nostre classi. L’unica differenza è nell’appartenenza di fondo che mi connota e che connotava Massimo ai tempi in cui era il mio professore: per me la Chiesa cattolica, per lui il Partito comunista (poi Pds, poi Pd, ora cane sciolto di estrema sinistra); organizzazioni che entrambi abbiamo servito fino a oggi restando sempre al piano terra delle rispettive gerarchie interne, io diacono e lui semplice attivista di partito. Appartenenze che fra l’altro, ai tempi della Chiesa di papa Francesco e del suo chiodo fisso contro le ingiustizie sociali, sono diventate molto meno lontane di quello che potevano sembrare qualche decennio fa. Ogni tanto io e Massimo ci diamo appuntamento per parlare della vita, ma soprattutto della scuola, che lui anche da pensionato continua a frequentare, restando un bel punto di riferimento per i colleghi più giovani che, come faccio io quando ci incontriamo al bar dei cinesi, non smettono di chiedergli consigli e punti di vista. “Io glielo racconto ai colleghi più giovani delle mie gite extrascolastiche con gli alunni al concertone del Primo maggio a Roma, o degli innumerevoli viaggi di istruzione che ho fatto con le mie classi in giro per l’Italia e per l’Europa. Gli racconto che grazie a quel tempo più dilatato che ho trascorso con loro, fuori dall’aula scolastica, è aumentata tantissimo la disponibilità dei miei studenti nel cimentarsi con l’aoristo e con le altre diavolerie della lingua greca. Chiaro, io e te abbiamo una libertà di tempo che tanti nostri colleghi con figli o doppio lavoro si sognano. Però io lo consiglio sempre, ognuno con il suo stile e ognuno secondo le sue possibilità, di investire del tempo nelle relazioni con la classe e con i singoli: i dieci minuti a ricreazione a chiacchiera con loro, un’ora di buco dedicata a fare conversazione a tu per tu con quel ragazzo più in difficoltà, o anche semplicemente una gita di un giorno con la scolaresca. Quelle che possono sembrare delle perdite di tempo o dei sovrappiù, rispetto alla didattica in senso stretto, in realtà ci servono a conoscere meglio i nostri studenti e quindi a trovare delle vie sempre nuove per trasmettere loro la passione per la materia che insegniamo”. Quando gli chiedo quale sia secondo lui il nemico pubblico numero uno della scuola italiana oggi, Massimo non si rifugia nelle risposte classiche - la burocrazia, lo smartphone compulsivo, i tagli del governo - che pure avrebbero il loro perché, ma opta per una risposta meno scontata: “Il nemico numero uno è la competizione. Le mamme del liceo la instillano ai loro figli, e causano dei danni gravi: la paranoia infinita per avere il voto più alto è cresciuta rispetto al liceo di vent’anni fa, e rischia di far perdere di vista ai ragazzi il piacere in sé dell’apprendimento, dello sviluppare un pensiero critico e del confrontarsi senza rete con insegnante e compagni. Quindi una delle sfide più importanti per noi professori è combattere questo individualismo esasperato e insegnare la solidarietà e la giustizia sociale. È una battaglia di retroguardia, ma quando seguo i miei ex studenti su Facebook o li incontro per strada a distanza di anni, e mi raccontano la vita piena di spinta ideale che fanno mi dico che nonostante tutti i miei errori qualcosa di buono ho seminato pure io”. Un diritto uguale per tutti: così il caso di Bologna traccia la rotta sul suicidio assistito di Chiara Lalli Il Dubbio, 16 febbraio 2023 Il 13 febbraio il procuratore della Repubblica Giuseppe Amato ha chiesto l’archiviazione del procedimento per il reato di aiuto al suicidio a carico di Felicetta Maltese, Virginia Fiume e Marco Cappato. Le prime due hanno accompagnato Paola in Svizzera, Cappato è legale rappresentante di Soccorso Civile e si erano denunciati quattro giorni prima a Bologna. La premessa è la sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 che “ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli articoli 2, 13 e 32, comma 2, della Costituzione, l’articolo 580” del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi aiuta qualcuno nella esecuzione del proposito di suicidio quando quella decisione è stata presa autonomamente e liberamente, quando la persona “è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitali e affetta da una patologia irreversibile”, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche e capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Insomma, ci sono delle condizioni nelle quali l’agevolazione non si configura più come reato. Le disobbedienze - da Elena Altamira, lo scorso agosto, a Paola di Bologna, di pochi giorni fa e rispetto alla quale Amato chiede l’archiviazione - sono causate da quel particolare del trattamento di sostegno vitale. O meglio dalla sua interpretazione “ristretta”. Paola aveva un Parkinson atipico in una forma molto avanzata ma non aveva alcun supporto vitale (inteso come un respiratore o un altro macchinario). Però quella interpretazione ristretta andrebbe ammorbidita, ed è quello che fa il procuratore Amato richiamando la sentenza della Corte d’assise di Massa nell’estate 2020 nel caso di Davide Trentini. Affetto da sclerosi multipla, Trentini aveva dolori insopportabili che conteneva parzialmente con dei farmaci antidolorifici ma nemmeno lui dipendeva da sostegni meccanici. In quella sentenza i confini semantici di “sostegno vitale” vengono allargati fino a comprendere i trattamenti farmacologici la cui interruzione provocherebbe la morte anche in tempi non rapidi. Quella sentenza era stata poi confermata in Corte d’assise a Genova e in quella sentenza si ricorda anche che l’articolo 580 del codice penale risale a un periodo storico in cui il concetto di vita era molto diverso da quello attuale, precedente alla Costituzione e quindi all’affermazione della nostra libertà come bene più forte della sopravvivenza. Ma poi ci sono cinque parole importantissime: “senza ingiustificate disparità di trattamento”. Già, perché interpretare restrittivamente quel requisito di sostegno vitale causerebbe proprio questo, una ingiustificata disparità tra persone, una violazione del principio di uguaglianza, tanto più odioso perché a danno di persone con malattie devastanti come le neoplasie o le patologie degenerative. E sarebbe insensato, perché trasformerebbe un particolare di nessuna importanza in un requisito necessario per esercitare il diritto a “una morte autodeterminata”. Ecco perché è doverosa una interpretazione estensiva della 242, una sua “rilettura [in modo costituzionalmente orientato]”, la sua applicazione a casi “diversi, ma assimilabili, rispetto a quello oggetto del giudizio di costituzionalità”. Ecco perché Amato chiede l’archiviazione, imponendosi una “soluzione liberatoria”. Perché altrimenti si dovrebbe porre la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale per contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione “laddove si ritenesse ancora di rilievo penale la condotta di aiuto al suicidio intendendo la condizione dell’essere ‘ tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale’ come impeditiva dal ricomprendervi anche la somministrazione di farmaci non immediatamente ‘ salvavita’”. La soluzione liberatoria è preferibile anche come corretta applicazione della riforma Cartabia: la prognosi sfavorevole rispetto alla condanna suggerisce di archiviare e il quadro giurisprudenziale di merito fonda un ragionevole “diritto vivente”. Come ha sottolineato nella conferenza stampa del 14 febbraio Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica e coordinatrice del collegio legale di studio e difesa sulle disobbedienze civili, se il giudice per le indagini preliminari deciderà di archiviare, sarà una decisione importante. Poi certamente ogni caso di disobbedienza è a sé e così sarà valutato, ma ci sarebbe un altro precedente che indica la giusta direzione, cioè l’eliminazione di una discriminazione particolarmente odiosa. In caso di non archiviazione e quindi di un processo, l’obiettivo è quello di arrivare a una nuova questione di costituzionalità sul requisito del sostegno vitale che è insensato e ingiusto. Migranti, con la destra affonda la speranza di Simonetta Gola* La Stampa, 16 febbraio 2023 Ieri, alle ore 14, la Camera ha votato a favore della conversione in legge del decreto sulla gestione dei flussi migratori. Qualche ora prima, un tweet dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni riportava che sarebbero 73 i dispersi di una barca partita da Qasr Alkayar e di cui si sono perse le tracce. Sono 11 finora i cadaveri recuperati sulle coste della Libia. Non sappiamo se avrebbero potuto essere soccorse da una nave della flotta civile, ma sappiamo che non ne hanno neanche avuto la possibilità. La politica applicata dal Governo Meloni per mano del ministro dell’Interno Piantedosi - non solo con il decreto del 2 gennaio - ha svuotato il mare dalle navi umanitarie, riducendo drasticamente per chi attraversa il Mediterraneo la probabilità e la speranza di arrivare vivo in Europa. Esigere l’immediata rotta verso il porto assegnato si traduce in navi che devono tornare in Italia con un decimo dei naufraghi rispetto a quanto ne potrebbero soccorrere, come è successo con la Geo Barents. Assegnare porti che richiedono 900 miglia di viaggio equivale a giorni di assenza - tre? Quattro? - da uno dei luoghi più caldi del pianeta, com’è successo per la Ocean Viking. Di quante vite che potrebbero essere salvate e non lo saranno stiamo parlando? Sono numeri facili da stimare, e sarà indispensabile farlo nei prossimi mesi, anche se non è mai solo una questione di numeri quando si parla di persone. A guardarli dalla Life Support di Emergency, unica nave presente oggi nell’area Sar libica, gli effetti appaiono con chiarezza brutale: da giorni gli strumenti di monitoraggio del traffico navale tipo Vessel Finder non tracciano i movimenti in questa area del Mediterraneo, in cielo volano droni in pattugliamento, una motovedetta della guardia costiera libica - sempre la stessa - ci si materializza intorno appena cambiamo rotta o velocità. Siamo diventati noi il centro dell’attenzione, mentre dovrebbe esserlo la sorte dei disperati che sognano l’Europa dei diritti dalle coste di Zuwarah o Zawiyah. In questi giorni manca anche il monitoraggio aereo civile - non quello di Frontex - e Alarm Phone non sta comunicando la presenza di barche in “distress”. Sono rimasti tutti bloccati sulle coste, nonostante le buone condizioni del mare? Vengono intercettati prima? Vediamo relitti di barche bruciate e diversi segnali di fumo in lontananza, ma non sappiamo se siano i resti delle barche intercettate dai libici, che solitamente danno fuoco alla barca dopo aver recuperato le persone a bordo. Ci limitiamo a mettere in fila i fatti. Dalla visita recente della presidente Meloni n Libia qualcosa in queste acque è cambiato. La questione però rimane sempre la stessa: oltre 20 mila persone sono morte su questa frontiera dal 2014, dopo la cancellazione di Mare Nostrum; nell’ultimo anno sono state 1.385. Oltre 100 quest’anno. Almeno quelle note. Serve allora facilitare i soccorsi, invece che impedirli. Serve che l’Europa coordini una missione di soccorso per fermare l’espandersi di questo cimitero, non intimidire o vessare la società civile che si è assunta la responsabilità di colmare questo vuoto ingiustificabile con sforzi enormi. Il controllo dell’immigrazione non può avvenire lasciando morire chi attraversa questo mare in cerca di una vita decente o esternalizzandolo a un Paese in guerra e allo sbando. Sono ormai decine i report delle organizzazioni internazionali che denunciano maltrattamenti e abusi compiuti dai miliziani libici. Eppure adesso sappiamo che si può aver letto Primo Levi o celebrare la giornata della Memoria, anche con sincera commozione, e votare in Parlamento - compattamente e trasversalmente - per il rinnovo degli accordi con la Guardia Costiera libica. Bisognerebbe guardare anche solo una volta le facce di chi racconta i giorni passati nelle sue carceri per capirne la gravità. Le migrazioni sono un fenomeno strutturale al nostro tempo: o le gestiamo con decenza, o interveniamo sulle cause alla loro origine, essendo pronti a scoprire quanto hanno a che fare con lo stile di vita del nostro Occidente. O continuiamo a ignorare i morti. *Direttrice comunicazione Emergency Processi contro le Ong e decreto migranti: l’Onu accusa il governo italiano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 febbraio 2023 “Basta criminalizzare le organizzazioni non governative che effettuano salvataggi in mare!”, così Mary Lawlor, relatrice speciale dell’ONU per la situazione dei difensori dei diritti umani, ha lanciato l’allarme riferendosi al governo italiano. Ha condannato la criminalizzazione e la repressione dei difensori dei diritti umani coinvolti in organizzazioni di salvataggio in mare in Italia, in vista del processo dei membri dell’equipaggio dell’ONG in Sicilia. Parliamo del processo, ancora in fase preliminare, nei confronti di alcuni membri dell’equipaggio della nave Iuventa, impegnata nel soccorso in mare, per presunta collaborazione con i trafficanti di esseri umani e per aver favorito l’immigrazione irregolare. “I procedimenti in corso contro i difensori dei diritti umani delle ONG di ricerca e salvataggio rappresentano una macchia oscura sull’impegno dell’Italia e dell’UE per i diritti umani”, ha dichiarato Mary Lawlor. Nel maggio 2022 sono stati avviati procedimenti penali preliminari contro 21 persone presso il tribunale di Trapani, tra cui quattro membri dell’equipaggio di ricerca e salvataggio della Iuventa e difensori dei diritti umani di altre imbarcazioni civili, per presunta collaborazione con trafficanti di esseri umani. Sono accusati di aiutare e favorire l’immigrazione clandestina in relazione a diverse missioni di salvataggio condotte nel 2016 e nel 2017. Prima del sequestro nel 2017, la nave Iuventa aveva partecipato al salvataggio di 14.000 persone in difficoltà in mare. ‘Sono criminalizzati per il loro lavoro sui diritti umani. Salvare vite non è un crimine e la solidarietà non è contrabbando’, ha sottolineato sempre la rappresentante dell’Onu. Mary Lawlor ricorda che il 19 gennaio 2023 la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno hanno chiesto al Tribunale di costituirsi parte civile e questa decisione - osserva sempre la relatrice dell’Onu- “contrasta con il principio in base al quale gli Stati che tutelano i diritti umani, promuovono il lavoro dei difensori dei diritti umani”. Ma c’è anche un riferimento al decreto legge emanato dal governo italiano il 2 gennaio 2023 che ha stabilito che i comandanti di navi delle Ong non possono effettuare più di un salvataggio durante una missione e devono obbligatoriamente sbarcare nel porto indicato dalle autorità competenti, indipendentemente dalla distanza rispetto all’imbarcazione che ha a bordo persone salvate in mare. Mary Lawlor esprime preoccupazione per il fatto che questo decreto legge può ostacolare le attività di salvataggio e mettere a rischio vite e diritti delle persone coinvolte. Inoltre, afferma che la legislazione italiana è incompatibile con gli obblighi internazionali in materia di salvataggio in mare. Questo significa che, sempre secondo la relatrice dell’Onu, il decreto legge viola le norme del diritto internazionale e potrebbe avere conseguenze negative sulla sicurezza e sui diritti umani delle persone coinvolte. E a proposito dei salvataggi in mare, per capire meglio le criticità denunciate dalla relatrice dell’Onu, è utile rendere noto anche le osservazioni del Garante nazionale delle persone private della libertà pervenute a fine dicembre al ministero dell’interno. Si sottolinea come le Convenzioni internazionali, che sono vincolanti per l’Italia, limitino la potestà legislativa dello Stato e come il diritto internazionale e le Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia non possano essere derogati dalla legislazione interna. Dopodiché il Garante affronta specifici punti, in particolare il soccorso in mare e le norme di diritto internazionale che lo regolamentano. Viene citata la Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha stabilito che il mancato accesso alla procedura d’asilo o a qualsiasi altro rimedio legale all’interno del porto di attracco costituisce una violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione. Le sentenze di riferimento sono il caso Sharifi c. Italia e Grecia del 21 ottobre 20142 (ricorso n. 16643/ 09) e nel caso (Grande Camera) Hirsi Jamaa c. Italia del 23 febbraio 20123 (ricorso n. 27765/ 09). Inoltre, il Garante ha sottolineato come debbano essere garantiti il transito e la sosta nel territorio nazionale per assicurare il soccorso e l’assistenza a terra delle persone prese a bordo, senza che questo faccia venir meno alcuna responsabilità dello Stato che ha effettuato il soccorso. Viene affrontata anche la questione della possibilità e dell’obbligo di fornire assistenza alle persone migranti a bordo delle navi che hanno effettuato il soccorso: il Garante pone la dicotomia tra “possibilità” e “obbligo”, che rappresenta un’accentuazione di vulnerabilità irragionevole. Si sottolinea come la seconda ipotesi esporrebbe il Paese al rischio di censure internazionali e come non possa essere la finalità di radicare la responsabilità per l’accoglimento o il respingimento della domanda d’asilo in capo agli Stati di bandiera delle navi soccorritrici. In sostanza, il Garante osserva che “Imporre” e non “dare la possibilità” di domanda di protezione internazionale agli Stati di bandiera delle navi delle Organizzazioni non governative potrebbe degenerare verso una situazione di immediatezza del respingimento degli altri non richiedenti e, quindi, entrare in contrasto con il citato articolo 4 del Protocollo n. 4 della Convenzione. Ricordiamo che parliamo di osservazioni fatte prima del testo definitivo, ma che rivelano le criticità espresse dagli organismi internazionali dopo l’approvazione del decreto legge. Il Garante ci ha tenuto a specificare che ha voluto instaurare un dialogo costruttivo. Ovvero - scrive nelle conclusioni delle osservazioni - “un dialogo che tiene presenti i diritti e le necessità primarie, incluso il soccorso, di chi mette in mare la vita propria e quella dei suoi cari in cerca di un “altrove” migliore, il diritto della collettività a essere rassicurata circa la presenza di persone irregolari sul proprio territorio, il diritto dell’Ordinamento a non essere esposto a rischi di censura rispetto a quegli impegni che costituiscono l’ossatura del proprio sistema democratico”. Ma le osservazioni sono arrivate anche dalla commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic. Il 26 gennaio ha inviato una lettera al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi nella quale ha chiesto il ritiro o la modifica del decreto legge poiché esso impone lo sbarco di persone salvate in mare in porti lontani, allungando i tempi di navigazione e così aumentando i rischi insiti nella navigazione. Inoltre, la Commissaria ha sottolineato che, malgrado le flagranti violazioni dei diritti umani in Libia, l’Italia ha consentito il rinnovo automatico del Memorandum of Understanding con la Libia. Il 30 gennaio, sempre il Consiglio d’Europa, attraverso il gruppo di esperti sulle ONG ha presentato un parere sul contrasto realtà agli standard europei del decreto legge n. 1 del 2 gennaio 2023 sulla gestione dei flussi migratori. Anche in questo caso, tenendo conto degli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e da numerosi altri atti internazionali, risulta chiara la contrarietà delle norme interne al diritto internazionale e l’effetto “bloccante” che queste misure determinano sul lavoro degli attivisti dei diritti umani e degli operatori delle ONG impegnati nel salvataggio in mare. Migranti. “Questa legge è una vergogna per il nostro Paese” di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 febbraio 2023 Mediterraneo. Associazioni, cattolici e Ong criticano la misura votata ieri alla Camera e la prassi introdotta a fine dicembre dal Viminale. Forti pressioni dall’Italia sulla Geo Barents: raggiunga Ancona a tutta velocità. È un coro unanime quello di associazioni e Ong, impegnate nell’assistenza dei migranti a terra o nel loro soccorso in mare, contro la conversione in legge del “decreto Piantedosi”. Votata ieri dalla Camera, sarà presto in Senato. “Il giorno in cui arriva l’ennesima notizia di un naufragio davanti alle coste libiche il parlamento italiano, con pessimo cinismo, approva l’ennesimo provvedimento con cui ostacolare i salvataggi delle persone in fuga da morte, violenze, schiavitù. Una vergogna per il nostro Paese”, dice Filippo Miraglia, responsabile migranti Arci, nella conferenza del Tavolo asilo e immigrazione (Tai) che si è tenuta ieri a pochi metri da piazza Montecitorio. “La mancanza di vie legali di ingresso in Europa costringe migliaia di persone a rischiare la vita affidandosi ai trafficanti. Non si può continuare a lasciarle morire in mare rimanendo fermi e persino inasprendo le procedure per il soccorso e l’approdo in Italia”, afferma invece padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. Duri anche i toni delle organizzazioni impegnate nel Mediterraneo centrale. “Dai tempi di Mare Nostrum non esiste un sistema di ricerca e soccorso proattivo e adeguato. Il decreto del governo non interviene su questa lacuna, ma ha come obiettivo limitare la capacità di soccorso delle navi umanitarie. A rimetterci non sono tanto le Ong, ma le persone che affrontano la rotta migratoria più letale al mondo”, afferma Juan Matías Gil, capomissione di Msf. Gil si trova a bordo della Geo Barents e denuncia le pressioni che il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma (Imrcc) sta facendo sulla nave affinché si diriga a tutta velocità e senza deviazioni verso il porto di Ancona, assegnato lunedì scorso dopo il soccorso di 48 persone. “Non hanno alcuna considerazione per il benessere dei naufraghi a bordo”, dice Gil, che sottolinea la contraddizione tra la richiesta di fare presto e l’indicazione di un porto lontanissimo. L’Ong Sos Humanity chiede un intervento dell’Ue perché “la nuova legge è contraria al diritto internazionale ed europeo. La Commissione, in qualità di custode della legge, agisca contro queste violazioni di uno Stato membro”. Per Sea-Watch si tratta di una “legge propaganda” che “causerà più vittime”. “Le morti in mare sono la diretta conseguenza di scelte politiche”, accusa la presidente di Emergency Rossella Miccio. Nella sua presa di posizione Sos Mediterranée pone l’accento anche su un altro aspetto della vicenda: “il “combinato disposto” del decreto e delle prassi di coordinamento applicate alle navi Ong si traduce in una mortale riduzione della capacità di soccorso nel Mediterraneo”. La prassi di assegnare porti subito dopo il primo soccorso ma lontani centinaia di miglia nautiche è infatti indipendente dal decreto (e lo precede di due settimane, con le Sea-Eye 4 e Life Support spedite a fine dicembre nella città di Livorno). Le sanzioni previste dalla norma dovrebbero servire a scoraggiare potenziali forme di disobbedienza a queste indicazioni di dubbia legittimità. Finora non ce ne sono state e nemmeno nei casi di soccorsi multipli sono stati applicati fermi o multe. “La legge ha l’obiettivo di svuotare il Mediterraneo dai dissidenti, da coloro che non accettano la logica di morte del regime dei confini - afferma Luca Casarini di Mediterranea - La prassi, però, è molto più avanti: i porti lontani ne sono un esempio. Le vittime di questa guerra sono sempre le stesse: i civili. Donne, uomini e bambini”. Secondo Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della guardia costiera e membro del comitato per il diritto al soccorso, “questa norma ha una scarsissima valenza applicativa perché dichiara ciò che le leggi italiane e le convenzioni internazionali già prevedono: la necessità di concludere i soccorsi in maniera rapida e tempestiva, l’obbligatorietà delle comunicazioni alle autorità e la possibilità di informare i naufraghi sulle procedure d’asilo”. I principali effetti, continua Alessandro, vengono da ciò che non è scritto, come le assegnazioni di porti lontani, e dal piano simbolico, perché “si aggiunge un carico di diffidenza e rancore verso chi esercita attività di soccorso nel Mediterraneo”. Migranti. Il “campo profughi d’Europa” non esiste. Il 20% dei centri di accoglienza è vuoto di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 febbraio 2023 La narrazione di uno stato d’emergenza perenne non ha riscontri nella realtà, come spiega un nuovo report di OpenPolis e ActionAid, secondo cui sono irrazionalità e assenza di programmazione a rappresentare il vero male irrisolto dell’immigrazione in Italia. La narrazione di uno stato di emergenza perenne sul fronte dell’accoglienza dei migranti si ripete ostinatamente di governo in governo, a prescindere dal colore politico. Formule magiche come “non possiamo essere il campo profughi d’Europa” o “i centri sono al collasso” hanno dimostrato di pagare in termini di consenso. Poi però c’è la realtà che, per quanto si possa far finta di nulla, è ben diversa dalla propaganda. Lo ricordano i numeri impietosi elencati nel nuovo rapporto in uscita oggi di OpenPolis e ActionAid sullo stato dell’accoglienza in Italia nel 2022. Si intitola laconicamente “Il vuoto dell’accoglienza” e dimostra come siano irrazionalità e assenza di programmazione a rappresentare il vero male irrisolto dell’immigrazione in Italia. Secondo lo studio, tra il 2018 e il 2021 i posti lasciati liberi nei centri sono stati il 20 per cento del totale. Nel 2019 i posti vacanti hanno raggiunto addirittura il 27 per cento della capienza complessiva. Il dato riferito alla Sicilia, aggiornato al 31 dicembre del 2021, è ancora più significativo perché lì i posti liberi sono arrivati persino al 30,5 per cento del totale mettendo insieme i Centri di accoglienza straordinaria (Cas), il sistema di accoglienza diffusa (Sai) e gli hotspot. Una smentita netta della favola dei “porti del sud congestionati” ripetuta negli ultimi mesi dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi per giustificare le rotte vessatorie imposte alle navi delle ong, costrette a percorrere centinaia e centinaia di miglia in più per raggiungere i porti del centro e del nord, da Ancona a Genova. Il rapporto, che si avvale finalmente di dati forniti dalle prefetture come imposto dalla sentenza del 2019 del Consiglio di stato, conferma inoltre l’assenza di controlli del governo su quasi il 60 per cento dei centri e la carenza di investimenti nei Sai, rimasti vittima dei decreti Sicurezza di Salvini. Così, dal 2018 a oggi, sono stati chiusi più di 3.500 centri (-29,1 per cento). Sempre nel 2021, i posti messi a disposizione nel sistema erano poco più di 97 mila, di cui però il 60,9 per cento nei Cas. Una contronarrazione che dimostra come accogliere nell’emergenza sia una scelta, non una fatalità. Nel Parlamento europeo hanno un problema con le ong di Marco Perduca huffingtonpost.it, 16 febbraio 2023 Il Qatargate ha fatto riemergere antiche antipatie di buona parte degli eletti di centrodestra (coi leghisti in prima fila) nei confronti delle associazioni della società civile che, nella stragrande maggioranza dei casi, fanno della lotta alla corruzione politica uno dei loro pilastri. Lunedì 13 febbraio il Parlamento europeo ha tenuto una sessione interamente dedicata alle organizzazioni non-governative, ONG. L’onda lunga, anche se depotenziata, del Qatargate ha fatto riemergere antiche antipatie di buona parte degli eletti di centrodestra (coi leghisti in prima fila) nei confronti delle associazioni della società civile che, nella stragrande maggioranza dei casi, fa della lotta alla corruzione politica uno dei suoi pilastri. Come spesso accade, specie dopo fiammate mediatiche che bruciano la complessità delle questioni, i danni di un’attenzione istituzionale e pubblica volta a passare all’incasso di visibilità immediata sul clamore dello scandalo emergono col passare del tempo perché innescano dinamiche che tendono a sacrificare il rispetto delle regole sull’altare dei “rimedi”. Il 15 dicembre scorso, a neanche una settimana dagli arresti del Qatargate, il Parlamento europeo ha adottato all’unanimità una risoluzione per rafforzare la trasparenza e le regole etiche dei funzionari in linea con le tutele previste per i whistleblower. Al contempo il documento non manca però di “sottolineare il ruolo della Procura europea (EPPO), dell’Agenzia dell’UE per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust), di Europol e dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) nella lotta alla corruzione” chiedendo il rafforzamento delle capacità e cooperazione tra l’EPPO e l’OLAF oltre che “norme anticorruzione comuni applicabili ai membri e al personale degli organi dell’Ue”. Probabilmente era già chiaro a dicembre 2022, ed è purtroppo la prassi in diversi Stati membri, ma a due mesi dall’inizio del Qatargate è stato confermato che sbilanciare il potere inquisitorio nelle mani delle procure può creare enormi rischi, se non rischi, per il pieno rispetto dei diritti umani di chi è al centro delle indagini. In queste settimane abbiamo visto ripetersi scenari da “mani pulite” un italian Job che va dalla carcerazione preventiva, spesso in luoghi inappropriati, a tempi indeterminati della custodia cautelare in carcere, da misure premiali previo “pentimento” dei detenuti, al privilegio dato alle dichiarazioni di chi collabora con la giustizia rispetto alla ricerca di prove fattuali - drammatici déjà vu che a quanto pare hanno lasciato il segno solo nella “pars construens”. Il PE ha anche invitato a copiare alcune pratiche già in uso in vari Stati Membri, come l’Italia, che prevedono la pubblicità della dichiarazione patrimoniale degli eletti, salvo prevederla solo all’inizio e alla fine di ogni mandato ovvero renderla accessibile “solo alle autorità competenti per consentire loro di verificare se i beni inclusi corrispondono ai redditi dichiarati a fronte di casi di accuse fondate”. È vero che per ottenere il voto unanime dell’Assemblea occorre trovare compromessi sulle varie proposte, ma risulta difficile capire quale sia il punto di caduta politico generale di una trasparenza consigliata e della cancellazione della privacy a prescindere sapendo che già oggi non ne esiste più quando si parla di conti bancari. Ultima, ma non ultima, la decisione demagogica per affermare l’intransigenza contro il nemico: il PE ha sospeso “tutti i lavori sui fascicoli legislativi relativi al Qatar” dalla liberalizzazione dei visti all’accordo aereo dell’UE con il Paese del Golfo fino alle visite programmate “fino a quando le accuse non saranno state confermate o respinte”. Nella foga nessuno si è posto il problema di uno scenario in cui si potrebbe non arrivare a un processo. Il Partito popolare europeo (PPE), quello della Presidente del Parlamento Roberta Metsola e della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen aveva anche presentato una risoluzione, poi respinta, per abolire le risoluzioni urgenti sui diritti umani fino a quando non si sarebbe garantito “con certezza che l’integrità del processo non sia violata da paesi terzi come il Qatar”. Dopo quella sconfitta il PPE è tornato alla carica con questo dibattito sulle ONG. Sul ruolo di “cane da guardia” delle organizzazioni non-governative e la lora forza trainante in materia di diritti umani si è già detto, il dibattito di lunedì 13 conferma alcuni “sospetti” che da dicembre stavano prendendo una loro forma: questo Qatargate è solo in parte uno scandalo relativo a presunte influenze e corruzione da parte di Qatar e Marocco, sta venendo fuori la natura introvertita della politica istituzionale europea che, sapendo di valere e fare poco, crea barriere difensive nei confronti della società civile organizzata che alla fine non potrà non rivoltarglisi contro. C’è chi ritiene che le dichiarazioni dei Popolari siano una sorta di vendetta tardiva nei confronti della mobilitazione contro la ratifica dell’accordo Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) tra UE e USA, secondo alcuni eurodeputati tedeschi la Commissione finanziava ONG “opposte ai valori europei”. Markus Pieper della CDU ha persino insinuato che “le ONG che non rispettano gli obiettivi strategici della politica commerciale e di sicurezza dell’UE non dovrebbero ricevere finanziamenti dell’UE”. La caccia alle streghe può essere uno sport che tiene in forma chi non ha molto altro da fare, ma dall’esplosione del Qatargate la ricerca del capro espiatorio eccellente tra le ONG si è però arenata davanti al fatto che Fight Impunity non ha mai ricevuto finanziamenti da parte della Commissione europea e che l’ultraventennale relazione di Non c’è pace senza giustizia / No Peace Without Justice con la Commissione, quasi 10 milioni di euro ricevuti, ha portato a casa obiettivi di portata mondiale che, purtroppo, l’UE non sempre si ricorda di aver cofinanziato oltre che co-promosso. L’aver congelato una tranche di 1,4 milioni per un progetto in Libia proposto dalle Nazioni unite non farà altro che complicare quel poco di progresso che si registra in quel paese in termini di ratifica degli strumenti internazionali in materia di diritti umani. Manca poco più di un anno alle prossime elezioni europee e la pressoché totalità degli eletti si sta dissociando da certe pratiche e distanziando da chi - per ora - le praticava scaltramente e/o per tornaconti personali. Il Qatargate non è ancora chiuso; dopo la liberazione senza condizioni di Niccolò Figà-Talamanca, segretario di No Peace Without Justice, presto ci sarà una nuova udienza per la detenzione della ex-vicepresidente del PE Eva Kaili che ha una bambina di due anni e che conferma la propria estraneità ai fatti contestatigli. Da qualche giorno l’eurodeputato belga Marc Tarabella è in carcere a Bruxelles mentre l’espulso dal PD Andrea Cozzolino fermato a Napoli si sta opponendo all’estradizione. Le accuse - ripeto accuse - di corruzione sono talmente maleodoranti che nessun collega si è premurato di apprezzare le circostanze della detenzione o offerto di risolvere questioni “logistiche” come consentire a una madre di vivere con la figlia anche in mancanza di libertà. La decisione politicamente più rilevante, o strabiliante, è che si sono preparate restrizioni agli ex eletti, alle ONG e al Qatar ma non una parola è stata spesa relativamente ad altre relazioni pericolose come quelle denunciate a maggio scorso nel rapporto “UNDUE INFLUENCE” sull’ingerenza straniera degli Emirati Arabi Uniti nei processi democratici dell’Unione Europea con tanto di nomi e cognomi - non smentiti - che non ha fatto gridare allo scandalo per un minuto. Il Parlamento ha obbedito immediatamente alla Procura federale belga e ai suoi segreti istruttori e non ha fatto nulla rispetto a dettagliate denunce trasparenti da parte di una ONG che peraltro ha ricevuto fondi Ue. “Pace, non guerra”: perché l’America Latina rifiuta di inviare armi all’Ucraina di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 16 febbraio 2023 I Paesi della regione puntano alla neutralità per motivi politici, ma soprattutto economici e commerciali. L’America Latina vuole la pace, non la guerra. Non è una questione ideologica legata al ritorno della sinistra nella maggioranza di Paesi della regione. Ha motivi diversi: punta alla neutralità, riesuma il vecchio fronte dei non-allineati. Per motivi politici, certo. Ma soprattutto economici e commerciali, di relazioni internazionali con i colossi del mondo. Se oggi vedono gli Usa non più come il gigante da cui dipendono e che, nel secolo scorso, ha finito per condizionare scelte imponendo spesso con la forza, con i golpe, gli stessi regimi, ma un partner commerciale, allo stesso modo guardano con interesse a mantenere saldo il rapporto con Cina, Russia, India e Sudafrica. La proposta americana - Si spiega in questo modo il rifiuto zella proposta americana svelata la settimana scorsa dal generale Laura Richardson, capo del comando militare meridionale degli Stati Uniti: concedere all’Ucraina le vecchie armi russe attualmente in dotazione agli eserciti latinoamericani in cambio di quella nuove americane. La risposta è stato un secco no. Lo ricorda il Financial Times in un lungo articolo nel quale esamina le reazioni negative di tutti i governi sudamericani a cui era stata lanciata questa offerta. “Anche se finiscono come rottami in Colombia”, aveva risposto il presidente Gustavo Petro, “non consegneremo armi russe per farle portare in Ucraina e prolungare una guerra. Non stiamo con nessuna delle due parti. Siamo per la pace”. Stessa risposta è arrivata da Inácio Lula da Silva. Durante la visita del cancelliere Olaf Scholz che lo sollecitava a inviare munizioni a Kiev ha replicato: “Il Brasile non ha alcun interesse a inviarle. Non vogliamo alimentare la guerra tra Russia e Ucraina. Il Brasile è un paese di pace, una parola che finora è stata usata pochissimo”. Così l’Argentina di Alberto Fernández: “Il nostro Paese non coopererà con la guerra”, si è sentito dire il cancelliere tedesco dal ministro della Difesa. “Non è appropriato cooperare inviando armi al conflitto in Europa”. Solo il presidente del Cile, Gabriel Boric, ha offerto il contributo del suo Paese. Ma per fini umanitari e sempre all’insegna della pace. “Siamo disposti a inviare una squadra di sminatori degli ordigni che punteggiano l’Ucraina”, hanno fatto sapere dal ministero degli Esteri. Posizione equidistante - Il Continente latinoamericano sente lontana la guerra che scuote mezza Europa. La osserva con distacco ma anche con grande preoccupazione. Per le conseguenze che in parte ha già subito, soprattutto per l’inflazione non tanto sul piano energetico, e per le prospettive che comporterà nel futuro. La penuria di fertilizzanti ucraini non è una emergenza. Mantenere una posizione equidistante non espone i paesi a cambi nelle relazioni commerciali e industriali che potrebbero rivelarsi un vero boomerang. Persino Jair Bolsonaro, su posizioni opposte a quelle di Lula, è sempre stato freddo rispetto al conflitto in Ucraina. Anzi, se ha compiuto qualche gesto lo ha fatto nei confronti di Vladimir Putin: si è recato in visita ufficiale a Mosca alla vigilia dell’invasione russa. Una mossa fortemente sconsigliata da tutti i suoi collaboratori ma che l’allora presidente considerava di natura commerciale e non come attestato di solidarietà. Comunque andranno le cose nel conflitto, tutti i paesi della regione hanno interesse a non rompere le relazioni con la Russia. Le armi russe ancora efficienti - Prendere una posizione netta alienerebbe loro anche i rapporti con gli altri grandi attori internazionali, come la Cina e l’India e lo stesso Sudafrica che restano neutrali. Il Financial Times ha cercato una replica al rifiuto interpellando la stessa Richardson. La risposta è stata una non risposta: “La nostra politica”, ha detto, “è quella di non rilevare i dettagli delle discussioni private in corso coni nostri partner democratici, discutere i dettagli sulle risorse di difesa di altre nazioni sovrane, o speculare su un eventuale sostegno all’Ucraina”. Eppure, la richiesta Usa non è peregrina. Gran parte dei Paesi dell’area possiede armi preziose per l’Ucraina. Il Cile e il Brasile usano entrambi i carri armati Leopard di fabbricazione tedesca che Kiev cerca disperatamente e che Berlino ha concesso, dopo molta resistenza, a partire dalla fine di marzo. Colombia, Perú, Argentina, Messico, Brasile e Ecuador posseggono tutti elicotteri da trasporto Mig e alcuni missili terra-aria e anticarro di fabbricazione russa. Sono compatibili con quelli usati dall’esercito ucraino. Il Perú, inoltre, avrebbe acquistato jet militari Mig o Sukhoi perfettamente funzionanti. Condanna unanime dell’invasione - Ma il problema resta identico: evitare di schierarsi per non pagarne le conseguenze in futuro. Nonostante la condanna unanime per l’invasione esiste anche una tradizione neutrale, di non ingerenza, che caratterizza la maggioranza dei paesi latinoamericani. “Inviare armi”, conferma al quotidiano britannico Marcelo Ebrard, ministro degli Esteri messicano, “non mi sembra neanche molto intelligente. I costi saranno alti per l’Unione Europea, per la Russia e in certa misura per tutti gli altri. L’America Latina guarda alla pace, cerca di immaginare a una soluzione politica più che militare del conflitto”. La collega della Colombia, la ministra degli Esteri Maria Angela Holguín, è convinta che “la regione sta tornando alla sua posizione non allineata. I paesi sentono che Russia e Cina in futuro potrebbero offrire loro un utile supporto se si allontanano dagli Usa. Non vogliono entrare in conflitto con due importanti partner economici e commerciali”. Il rilancio dei Brics - Celson Amorim, ascoltato consigliere di Lula, già ministro degli Esteri nei precedenti governi del neoeletto presidente, non fa mistero del nuovo progetto globale del leader della sinistra brasiliana: “Il Brasile viene indicato da numerosi paesi come possibile intermediario per il suo ruolo nei Brics. Non vuole squalificarsi da qualsiasi negoziato che potrebbe intraprendere”. L’obiettivo primario resta la pace. “Dobbiamo pensare a come raggiungere i negoziati”, aggiunge Amorim. Una posizione largamente condivisa dalla popolazione dell’America Latina: il 73 per cento, secondo ultimi sondaggi, boccia un sostegno militare all’Ucraina. “Non possiamo permettercelo, dobbiamo fare i conti con la grave crisi economica”. Russia. Denunciò la strage di Mariupol, condannata a sei anni di carcere di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 16 febbraio 2023 La giornalista Maria Ponomarenko aveva raccontato l’attacco al teatro (300 morti) Un tribunale di Mosca l’ha giudicata colpevole di aver diffuso delle “false notizie”. Sei anni di reclusione e l’esclusione dall’attività giornalistica per ulteriori cinque anni. La colpa è quella di aver diffuso notizie ritenute false secondo le draconiane leggi di guerra introdotte dopo l’invasione dell’Ucraina. E questa la pena alla quale e stata condannata la cronista russa Maria Ponomarenko. Era stata arrestata nell’aprile scorso perche sulla testata su cui scriveva, il sito di notizie RusNews, aveva pubblicato un post, in realtà un articolo, nel quale affermava che l’attacco sul tristemente noto teatro di Mariupol, era stato compiuto da aerei da guerra russi. Si e trattato di uno degli episodi più drammatici della guerra in corso, all’interno del teatro infatti circa 1200 civili avevano trovato riparo durante l’assedio della città martire, nonostante i rifugiati avessero scritto in russo sulla neve la parola bambini per evitare un bombardamento, i caccia russi, da ciò che e stato stabilito dopo diverse indagini, non risparmiarono la struttura provocando una strage. Secondo le autorità ucraine 300 persone rimasero uccise, anche se un’inchiesta dell’Associated Press ha rivelato che il numero delle vittime è stato quasi il doppio, più vicino a 600. Molti dei corpi senza vita furono ritrovati nel seminterrato, segno evidente che non ci fu nessuna possibilità di fuga. Anche Amnesty International ha affermato che si è trattato di un crimine di guerra compiuto dalle forze russe mentre il gruppo di monitoraggio internazionale dell’OSCE ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna indicazione a sostegno delle accuse russe secondo cui sarebbe stato un battaglione ucraino che avrebbe fatto saltare in aria il teatro. Una verità che a Mosca è stata propagandata dal ministero della Difesa per cui il solo metterla in dubbio equivale a un reato penale. Il tribunale di Barnaul, in Siberia, che ha giudicato la giornalista 44enne dunque l’ha condannata in quanto rea di aver diffuso fake news che ledono l’onore dell’esercito russo. Secondo i pubblici ministeri infatti Maria Ponomarenko ha commesso un reato pubblicando informazioni consapevolmente false sulle forze armate. A nulla e valsa la difesa della giornalista che poco prima della sentenza di condanna si e rivolta alla Corte affermando di non aver compiuto nulla di sbagliato. Ponomarenko ha detto: “Se avessi commesso un vero crimine, sarebbe stato possibile chiedere clemenza, ma ancora una volta, a causa delle mie qualità morali ed etiche, non lo faccio”. La riaffermazione della propria integrità e convinzione nonostante la lunga carcerazione preventiva per la quale la giornalista, che ha due figli piccoli, ha sofferto di problemi psichici. Il suo avvocato, l’anno scorso, ha paragonato le sue condizioni in detenzione simili alla tortura. Di fronte ai giudici Ponomarenko si è dichiarata una persona patriottica ma pacifista lanciando poi un attacco al potere putiniano: “Nessun regime totalitario è mai stato così forte come prima del suo crollo”. La vicenda che si è consumata, è solo l’ultima che ha coinvolto persone note all’opinione pubblica russa. Le cronache ormai raccontano di una giornaliera persecuzione di ogni pur piccolo dissenso rispetto a quella che veniva chiamata eufemisticamente l’operazione militare speciale. Ormai si può finire in carcere per un post sui social media, per una canzone, una scritta di protesta o magari semplicemente per un discorso pronunciato con qualcuno che poi denuncia alle autorità di polizia. Neanche i politici regolarmente eletti vengono risparmiati dalla implacabile legge sulle notizie false. La scorsa estate, un consigliere della municipalità di Mosca, Alexei Gorinov, è stato condannato a sette anni di reclusione dopo essere stato filmato mentre parlava contro la guerra in Ucraina durante una riunione del consiglio comunale. All’inizio di questa settimana un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite ha chiesto il suo rilascio, concludendo che la sua detenzione era arbitraria e contraria alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Stessa sorte per Ilya Yashin, una delle figure più importanti dell’opposizione, spedito in prigione con una condanna a otto anni e mezzo per un video su YouTube nel quale condannava l’uccisione di centinaia di civili ucraini da parte delle forze di occupazione russe a Bucha, vicino a Kiev. Il figlio muore in carcere in Francia, le colleghe le donano le ferie per indagare sull’accaduto di Ilaria Quattrone fanpage.it, 16 febbraio 2023 Daniel Radosavljevic è stato trovato impiccato in una cella del carcere di Grasse in Francia. Né la madre né il resto della famiglia credono che possa essersi tolto la vita: “Vogliamo giustizia per Daniel, vogliamo sapere come è morto, chi sono i responsabili e anche se ci vorranno degli anni, non ci fermeremo”. “C’è stata tanta solidarietà e le mie colleghe mi hanno donato qualche giorno delle loro ferie per farmi stare a casa. Io non riesco ancora a credere alla morte di mio figlio, era pieno di vita”: è quanto ha raccontato Branka Milenkovic al quotidiano Il Giorno parlando di quanto accaduto al figlio ventenne Daniel Radosavljevic, trovato impiccato in una cella del carcere di Grasse, in Francia. “In questi giorni non siamo mai rimasti soli. Gli amici di Daniel ci sono stati vicini”, afferma la donna. Il corpo del giovane è stato rivenuto lo scorso 18 gennaio. Il ventenne si trovava nell’istituto penitenziario francese dall’8 ottobre 2022. Da quel 18 gennaio, Branka non si dà pace. Vuole risposte. Né lei né il resto della famiglia credono che Daniel possa essersi tolto la vita. Il mistero dei biglietti - Ci sarebbero poi alcuni biglietti scritti a mano dal ragazzo, nei quali - come descritto da Il Giorno - emergerebbe la paura di morire e quella per gli altri detenuti che lo avrebbero considerato “un infame”. Nella giornata di oggi, mercoledì 15 febbraio, si è svolto il funerale nella chiesa San Vittore. In serata ci sarà anche una fiaccolata organizzata dalla sorella Iris nella frazione di Lucernate. “La mia verità la so già, Daniel non si è tolto la vita. E vogliamo giustizia per Daniel, vogliamo sapere come è morto, chi sono i responsabili e anche se ci vorranno degli anni, non ci fermeremo”, ha ribadito la madre che ha precisato di aver visto segni sul corpo del figlio che non sarebbero riconducibili a “un’impiccagione”. L’esposto presentato in tribunale a Roma - Inoltre, quando sarebbe andata a ritirare gli effetti personali del figlio in carcere, avrebbe chiesto di avere un libro che il ragazzo stava scrivendo: “e allora a quel punto ci hanno dato altre due scatole dove c’era il quaderno con i suoi scritti, ma con molte pagine strappate. Chi ha strappato quei fogli? Cosa c’era scritto?”. Inoltre il ragazzo, proprio il giorno in cui è stato trovato il suo corpo, avrebbe avuto un appuntamento con un giudice perché stava scadendo la sua misura di custodia cautelare: “Perché togliersi la vita proprio quel giorno?”. “In quel carcere qualcuno lo ha ucciso e non ha avuto nessuna pietà e nessun cuore per lui”: la famiglia è rappresentata dall’avvocata Francesca Rupalti che ha presentato un esposto al tribunale di Roma. La legale chiede di aprire un’indagine sul carcere di Grasse. Sono anche attesi gli esiti dell’autopsia che è stata effettuata lo scorso 8 febbraio.