Cospito deve salvarsi: ha vinto lui e hanno perso i giustizialisti di Piero Sansonetti Il Riformista, 15 febbraio 2023 La richiesta del Procuratore generale della Cassazione - quella di rimuovere il 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito - determina una svolta nella battaglia contro il carcere duro che l’anarchico ha iniziato ormai quasi quattro mesi fa con lo sciopero della fame. Il Sostituto Procuratore generale, Gaeta, è entrato nel merito della questione, senza paraocchi politici o di ideologie, e ha stabilito che mancano le condizioni per imporre il 41 bis. Il 24 febbraio, tra 11 giorni, la Cassazione deciderà se accettare o no la richiesta della Procura. Sicuramente però molte cose sono cambiate. In primo luogo possiamo prendere atto del fatto che la Procura generale, seppure involontariamente, ha assestato uno schiaffo alla politica, e in particolare al governo. Stabilendo una verità che, francamente, appariva abbastanza evidente a chiunque in buona fede avesse voluto affrontare il caso. Rimuovere il 41 bis, nel caso di Cospito, è una decisione che non comporta nessun rischio per la sicurezza del paese. Siccome l’unica ragione di esistenza del 41 bis è la sicurezza del paese, se si decidesse di mantenere l’anarchico al carcere duro si deciderebbe semplicemente di procedere alla sua persecuzione per ragioni simboliche o di consenso politico. Poi c’è una seconda novità. Alfredo Cospito, con la sua battaglia non violenta (il digiuno) molto diversa e molto più efficace della battaglia violenta che condusse in passato (con le revolverate alle gambe e l’innesco di bombe, per fortuna non letali) ha ottenuto un primo importantissimo successo. Anzi, due. Il primo successo è stato quello di porre all’attenzione del paese un problema che mai era stato posto con tanto clamore: l’esistenza di un regime di carcere duro in palese e clamoroso contrasto con la Costituzione, e dunque con la legalità. Il secondo successo è stato quello di avere incrinato in modo significativo l’asse della fermezza, ottenendo una solenne pronuncia della Procura generale della Cassazione. A questo punto noi del Riformista, che abbiamo sostenuto con tutte le nostre forze la battaglia di Cospito, e che continueremo a batterci, ora da posizioni più forti e credibili, contro il 41 bis e per il ripristino della legalità Costituzionale, sentiamo di poter chiedere a Cospito di sospendere lo sciopero della fame. Le sue condizioni di salute sono gravissime, e se non interrompe il digiuno rischia di perdere la vita. Di perderla prima del fatidico 24 febbraio nel quale la Cassazione si pronuncerà. Ieri ha deciso di prendere gli integratori, un primo passo positivo. Ma deve fare di più. Una vita umana conta molto, moltissimo. Anche se il governo ha mostrato di non credere a questo elementare principio. La vita di Alfredo Cospito, come tutte le vite, ha un immenso valore. Lui ha deciso di usare questo valore per la sua battaglia politica. È stata una scelta coraggiosa. Ora però sarebbe pura follia non sospendere lo sciopero in attesa della sentenza della Cassazione. Dopodiché, è evidente, la battaglia contro il giustizialismo e la barbarie del carcere duro deve riprendere. Ma in condizioni nuove e più favorevoli. Una volta che sarà stabilito il principio che il 41 bis è una norma di emergenza e motivata non da ragioni di punizione ma solo di sicurezza dello Stato, sarà molto più facile spiegare che una legge di emergenza non può durare 30 anni, e che la mafia di oggi non è la mafia degli anni 90. Caso Cospito, Nordio non fa passi indietro: “È un pericolo, deve restare al carcere duro” di Francesco Grignetti La Stampa, 15 febbraio 2023 Oggi il ministro atteso in Parlamento. Difenderà ancora la tesi della procura generale di Torino: “Il detenuto ha usato il corpo come un’arma”. Alfredo Cospito per il secondo giorno ha mangiato un vasetto di yogurt con miele, gli integratori, e stavolta pure un cucchiaio di orzo. Ma nei suoi confronti è esercitata una linea dura, se non durissima. L’avvocato Benedetto Ciccarone ieri lo ha visitato in ospedale, e riferisce che all’anarchico non è ancora stata fatta avere la foto dei genitori come aveva chiesto nei giorni scorsi. “È incomprensibile la ragione per la quale gli venga negata”, dice il legale. Misteri del carcere duro, sottoposti a decisioni imperscrutabili e spesso arbitrarie. A Cospito, per dire, quand’era a Sassari, concedevano i libri acquistati al supermercato vicino, non quelli ordinati attraverso la biblioteca del carcere. Che Cospito abbia ripreso ad alimentarsi un minimo è indubbiamente una buona notizia che rasserena forse il clima. Oggi il ministro Carlo Nordio è atteso in Parlamento per un aggiornamento sulla sua vicenda di terrorista anarchico sottoposto al 41bis, in attesa che la Cassazione si esprima il 24 febbraio. Il ministro della Giustizia confermerà alle Camere le sue ragioni, ribadendo che non intende revocare il carcere duro per Cospito. Una decisione per metà politica, in quanto il governo al completo ha annunciato con la massima enfasi che “non intende trattare con gli anarchici”, per metà tecnica e appoggiata al parere del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, che ritiene indispensabile mantenere l’anarchico al 41bis. Nordio la settimana scorsa aveva fatto sue le valutazioni di Saluzzo - molto difformi da quelle del Superprocuratore Gianni Melillo e del pg di Cassazione Pietro Gaeta - e non vede il motivo di rovesciare la sua determinazione. Ha sposato la linea della fermezza che viene da Torino. “Postulare che la misura va revocata perché non ha raggiunto lo scopo - ha scritto il pg Saluzzo - sarebbe come dire che se la detenzione non raggiunge i fini che le sono assegnati, essa dovrebbe essere revocata”. Quanto alla pericolosità sociale dell’anarchico, sempre Saluzzo per primo ha teorizzato l’aspetto ideologico di questo sciopero della fame. “Ha usato il suo corpo come un’arma - ha scritto Saluzzo, poi ripreso da Nordio - per una chiamata di intenti e obiettivi, e le vicende che si sono verificate dimostrano che lo scopo è stato raggiunto. Il che dimostra che Cospito, ancorché detenuto, abbia la possibilità di mantenere contatti con una vasta area di gruppi ideologici. E nonostante si tratti di una galassia fluida, non vi è dubbio che il messaggio di Cospito raggiunga molti componenti di essa e che da questi venga tradotta in azioni concrete”. C’è una certa dialettica tra uffici giudiziari. Il tribunale di Sorveglianza di Roma a dicembre ha confermato il carcere duro per i prossimi 4 anni. Il Superprocuratore antiterrorismo ritiene invece che si potrebbe spostarlo nel circuito dell’Alta sorveglianza, con imposizione di censura. Anche il pg di Cassazione sostiene che la semplice propaganda, pur farneticante, non può giustificare un 41bis e che occorre motivare meglio l’esistenza di collegamenti con l’organizzazione all’esterno. Saluzzo scrive al contrario che “Cospito ha già violato il 41bis, l’Alta Sicurezza nulla potrebbe contro il diluvio di sue manifestazioni ideologiche. Lui vuole essere voce autorevole di gravi reati da commettere”. E ancora: “C’è un mondo che si muove su input di Cospito e a suo sostegno. Lui è riuscito a veicolare messaggi perniciosi e istigatori attraverso mezzi sfuggiti al tradizionale sistema di controllo: questo dimostra la sua totale dedizione alla causa per nulla scalfita né dal regime speciale intramurario né dalle condanne riportate”. Secondo il Guardasigilli, insomma, il detenuto Alfredo Cospito va tenuto al 41bis a dispetto dello stato di salute. Basta e avanza - dice - il monitoraggio da parte dei sanitari. E siccome sotto questo profilo la situazione è lievemente migliorata, già si profila il ritorno in carcere. La stanza dell’ospedale San Paolo che Cospito occupa, infatti, una delle sole due destinate ai detenuti del 41bis a Milano, è particolarmente preziosa. Il cuore del detenuto viene intanto “monitorato costantemente” perché uno dei rischi maggiori a cui va incontro sono le aritmie cardiache e i medici tengono sotto controllo il battito. “Su Cospito l’intransigenza ha accecato la politica: il 41 bis è stato un autogol” di Errico Novi Il Dubbio, 15 febbraio 2023 Intervista al magistrato Guido Salvini: “Non ci si è resi conto di aver favorito, tra gli anarchici, un’idea di martirio con relativo processo di emulazione”. La politica ci casca sempre. “Sembra preferire soluzioni di estrema intransigenza alle vie ragionevoli”. A dirlo non è un firmatario dell’appello per la revoca del 41 bis ad Alfredo Cospito. A deplorare il fatto che nel governo e in generale nel dibattito fra i partiti non sia prevalsa l’idea di assegnare l’anarchico “al più adeguato regime dell’Alta sicurezza 2” è un magistrato, Guido Salvini. In servizio come gip presso il Tribunale di Milano, da anni Salvini è considerato anche uno tra i più acuti e impietosi analisti della politica giudiziaria. Già nei giorni scorsi, con un intervento sul Foglio, il giudice aveva segnalato la “povertà della classe dirigente”. Insomma, ce lo lasci dire, dottor Salvini: ci volevano i magistrati, la Procura generale della Cassazione e prima ancora la Procura nazionale antimafia, perché il Paese uscisse dalla trappola Cospito... Mi sembra che gli ultimi sviluppi stiano portando la vicenda Cospito sulla strada più razionale che è nell’interesse di tutti, con soluzioni che il ministero non è riuscito a intravedere. È stato opportuno tenere un anarchico in quel regime del 41 bis concepito per i capi della mafia stragista? Premessa: Cospito non è un rivoluzionario romantico ma è quanto di più lontano si possa immaginare dall’anarchismo sociale di militanti come il ferroviere Pino Pinelli. È un nichilista, predica la distruzione di qualsiasi assetto sociale, che non può non essere, secondo lui, né riformato né sostituito, nemmeno con una rivoluzione. Qualsiasi sistema, Cospito lo sostiene in più di un’intervista, va semplicemente demolito. Non si comprende per fare posto a che cosa. Idee estreme, violente, con venature surreali: ma chi ha idee del genere va destinato al 41 bis? Ecco, bisogna comprendere che uno strumento quale il 41 bis è decisamente inadatto a isolare un detenuto di questo genere. Si tratta di un regime inadeguato, soprattutto a impedire gli effetti imitativi che sono tipici nell’ambiente di riferimento di Cospito. Cioè il 41 bis ha fatto da cassa di risonanza? Non ci si trova dinanzi al capo di un’organizzazione come quelle mafiose, o comunque assimilabile ai gruppi criminali in cui il capo detenuto deve poter continuare a dirigere i propri uomini e a controllare il territorio. Gli anarchici informali non agiscono su indicazione di vertici ma si basano semplicemente sull’imitazione anche anonima, cioè sul compiere azioni di affinità con quelle che hanno compiuto altri compagni in qualsiasi altro luogo. L’effetto paradossale che si è creato nelle ultime settimane è stato quello di moltiplicare l’immagine e quindi i possibili imitatori di Cospito, i suoi potenziali followers, come già si è visto con le azioni avvenute in vari paesi. Con un ingrediente che ha ulteriormente agevolato il proselitismo? Quale? Il martirio. Che, non si è riusciti a comprenderlo, è un vettore potentissimo nel determinare altri all’azione. Con tutte le necessarie e doverose distinzioni, è un processo che ritroviamo persino nella vicenda del Cristianesimo, nella quale forse sarebbe il caso di cogliere insegnamenti anche strettamente storiografici. E quindi ora come si rimedia a questa incredibile raffica di autogol? La via per uscire da questa situazione paradossale mi sembra sia quella in qualche modo prospettata dello stesso parere della Direzione nazionale antimafia e più decisamente, forse, da quello della Procura generale presso la Cassazione. In sostanza la collocazione di Cospito può essere non quella del 41 bis, appunto, perché Cospito non è il capo di una associazione mafiosa per il quale sia preminente recidere i contatti con l’esterno, ma in quella categoria carceraria che si chiama As2, e cioè l’Alta sicurezza, un regime comunque rafforzato e in cui sono normalmente collocati i detenuti per reati di terrorismo. Cospito metterebbe fine allo sciopero della fame, e lo Stato metterebbe fine alla meccanica del martirio che ha prodotto un’emulazione planetaria: giusto? L’As2 è un regime nel quale, con gli strumenti di controllo previsti, possono essere comunque seriamente monitorati i contatti con l’esterno ma nello stesso tempo non vigono quelle restrizioni relative alla vita carceraria quotidiana, al vitto, alla lettura di libri e giornali e alle altre attività, che di fatto trasformano il 41 bis in una pena accessoria. Quella dell’Alta sicurezza è la soluzione che sembra profilarsi anche tenendo conto del fatto che il detenuto pare aver rinunziato, in questo momento, alle modalità più estreme dello sciopero della fame che conduce da molto tempo. Addirittura il governo aveva invece già prefigurato l’ipotesi di un’alimentazione forzata, al punto da aver interpellato a riguardo il Comitato di bioetica... Bisogna assolutamente evitare di giungere a un punto in cui si ponga il dilemma se applicare o no al detenuto la nutrizione forzata, un problema che sarebbe di difficile soluzione, che susciterebbe scontri e contrasti anche ai più alti livelli politici e che effettivamente sarebbe di non facile gestione. Da un lato, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo non esclude l’alimentazione forzata, seppur solo quando le condizioni del detenuto siano davvero ad altissimo pericolo e l’alimentazione sia effettuata con il minimo coefficiente di violenza. Ma dall’altro lato la dichiarazione anticipata di trattamento, la Dat già redatta da Cospito in cui il detenuto afferma il rifiuto esplicito di qualsiasi tipo di nutrizione forzata anche quando perdesse conoscenza e si trovasse in una situazione di imminente pericolo di vita porrebbe quesiti ardui da risolvere. L’autorità politica e l’autorità giudiziaria, le cui competenze si intersecano, finirebbero in una situazione in cui sarebbe difficile trovare una via d’uscita indolore. Ci si è fatti irretire dal solito moloch giustizialista? Il fatto che un caso come quello di Cospito, in incubazione da mesi, abbia causato le più gravi polemiche in Parlamento da quando si è insediato il nuovo governo è purtroppo indicativo di una certa inadeguatezza e impreparazione della classe politica, che sembra preferire atteggiamenti di estrema intransigenza alla capacità di trovare quello che non è per nulla un cedimento ma una soluzione del tutto ragionevole. E che andava praticata subito, prima che si profilasse il rischio di precipitare in una situazione con poche vie d’uscita. La Procura generale chiede l’annullamento con rinvio al Tribunale di sorveglianza. Ma la Cassazione può anche accogliere immediatamente la revoca del 41 bis sollecitata dalla difesa di Cospito? Certo, tecnicamente è possibile. Ma l’esito probabile sembra un annullamento con rinvio in cui la Corte di Cassazione chieda al Tribunale di sorveglianza di motivare meglio la scelta di confermare il 41 bis, avvenuta nonostante fossero possibili adeguate soluzioni alternative Separazione carriere, Camere penali: i tempi sono maturi. Calendarizzata la Pdl costituzionale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2023 Terzo Polo, FI e Lega d’accordo ad intervenire subito. FdI chiede una riforma complessiva. Nella Pdl due Csm, concorsi separati e obbligatorietà dell’azione penale nei limiti previsti dalla legge. Si respira ottimismo nella sala delle conferenze stampa della Camera dei deputati per la presentazione della Pdl delle Camere penali sulla separazione delle carriere dei magistrati. “Ora il clima politico è cambiato e la riforma potrebbe vedere la luce entro la legislatura”, esordisce il responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, nell’introdurre i partecipanti. “E’ la nostra battaglia identitaria. Abbiamo portato avanti l’idea in solitudine per anni, ora c’è un’attenzione crescente nel Paese, è una delle battaglie più popolari che ci sia in questo momento”, conferma il Presidente della Camere penali Gian Domenico Caiazza. Il testo della Pdl - Presenti: Nazario Pagano, Presidente della Commissione Affari Costituzionali che ha “calendarizzato” in tempi record la proposta (il 2 febbraio scorso) di cui è anche Relatore; Roberto Giachetti di Azione-Italia Viva (che ha presentato un testo uguale a quello di Costa), Tommaso Calderone di Forza Italia (anche lui primo firmatario di un Ddl), Jacopo Morrone e la senatrice Erika Stefani della Lega (che hanno depositato due Ddl identici al Senato e alla Camera), oltre all’avvocato Beniamino Migliucci, past president delle Camere penali che nel 2017 aveva raccolto oltre 70.000 firme per cambiare sul punto la Costituzione. In sostanza, si tratta di quattro testi sovrapponibili eccetto che per quello di Forza Italia che non prevede modifiche all’obbligatorietà dell’azione penale. Assenza pesante, invece, quella di Fratelli d’Italia che ieri, attraverso il presidente della Commissione Giustizia della Camera, Ciro Maschio, ha fatto sapere di voler attendere prima la riforma complessiva del processo penale che sta mettendo a punto il Guardasigilli Carlo Nordio. Per Migliucci la separazione delle carriere contribuirà a “rafforzare l’autorevolezza del giudice” mentre non è vero che il Pm “finirà sotto il controllo politico come dicono in tanti”. E ribadisce l’importanza di rivedere il sistema dell’obbligatorietà dell’azione penale insistendo sul fatto che dovrà “essere la legge ad indicare le priorità” da seguire. Secondo Caiazza, i tempi per realizzare questa riforma “sono maturi” ed il legislatore è più determinato nel voler raggiungere l’obiettivo. “Serve un giudice terzo - assicura - e la sua terzietà non può essere lasciata alla volontarietà del singolo, ma deve essere consacrata in una dimensione ordinamentale”. La separazione delle carriere poi, afferma, esiste “nelle più grandi democrazie del mondo”. “Bisogna rimettere il giudice al centro della giurisdizione - incalza Caiazza - non il Pubblico ministero come accade ora”. Nella scorsa Legislatura, la proposta era stata esaminata dalla Commissione Affari Costituzionali ma al termine di numerose audizioni si era arrivati ad un nulla di fatto. Ora si riparte da lì, da quel testo che, nell’intento dei proponenti, attua l’articolo 111 della Costituzione che impone che il giudice sia non solo imparziale ma anche terzo. Se è così, prosegue il ragionamento, “controllore” e “controllato”, giudice e pubblico ministero, non possono appartenere a un unico ordine ed essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo, né condividere i medesimi meccanismi di selezione elettorale. Il primo dei dieci articoli della Pdl prevede infatti una modifica proprio del decimo comma dell’articolo 87 della Costituzione, inserendo dopo le parole, riferite al Presidente della Repubblica: “Presiede il Consiglio superiore della magistratura” le seguenti: “giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente”. Due Cms, dunque, per un “ordine giudiziario” costituito dalla “magistratura giudicante” e dalla “magistratura requirente” ma che resta “autonomo e indipendente da ogni potere”. Così nel Csm “giudicante” siederà di diritto il Primo presidente della Cassazione; ed in quello requirente il Pg della Cassazione. Cambia anche la composizione con la previsione di un pari numero di membri elettivi “togati” e “laici. Entrambi decideranno su assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari, ciascuno però soltanto sui propri membri di appartenenza. Non solo l’articolo 7, intervenendo sul primo comma dell’articolo 106 della Costituzione afferma che “Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”. Ed è questo un altro passaggio decisivo. Altro intervento di peso quello sulla obbligatorietà dell’azione penale. All’articolo 112 della Costituzione, dopo le parole: “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” sono aggiunte le seguenti: “nei casi e nei modi previsti dalla legge”. Sulla separazione delle carriere tra i magistrati il governo è separato in casa di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 febbraio 2023 Lega e Forza Italia, con il Terzo polo, rilanciano la proposta sulla separazione delle carriere tra giudici e pm, ma senza il consenso di Fratelli d’Italia e del Guardasigilli Nordio. Maschio (FdI) al Foglio: “Serve riforma complessiva”. Quattro proposte di legge costituzionali per rilanciare la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Sono state depositate nei giorni scorsi alla Camera, e presentate ieri in una conferenza stampa, da Lega, Forza Italia e Terzo polo (Azione e Italia Viva). Le proposte, che riprendono il testo di riforma costituzionale su cui nel 2017 l’Unione delle camere penali raccolse le firme di oltre 70 mila cittadini, rappresentano una netta accelerazione su uno dei temi più spinosi dell’organizzazione giudiziaria e da sempre fonte di tensioni tra politica e magistratura. Da qui l’attenzione sui due grandi assenti: il partito di maggioranza, cioè Fratelli d’Italia, che ha deciso di non unirsi all’iniziativa dei due alleati (nonostante la riforma sia citata nel programma di governo), e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che dopo le numerose parole spese nel corso degli anni, anche nelle sue linee programmatiche, in favore della separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, stavolta si è rinchiuso in un silenzio tombale. Una timidezza da diverse settimane che si è estesa anche su altri fronti (come la riforma delle intercettazioni e quella dell’abuso d’ufficio, sparite dai radar del governo), spiegabile solo con il timore di generare i soliti scontri con la magistratura associata. Un timore fondato. Basti pensare che ieri, appena conclusasi la conferenza stampa, l’Associazione nazionale magistrati twittava sul proprio profilo un messaggio dai toni piuttosto chiari: “Negli ultimi mesi si sono intensificate le proposte di riforma sulla separazione delle carriere per dare attuazione ad un progetto che minerebbe alle fondamenta l’attuale assetto costituzionale della magistratura italiana”. Il tweet rimanda alla mozione approvata pochi giorni fa dal comitato direttivo centrale dell’Anm, in cui si afferma che la separazione delle carriere (che prevede due concorsi separati per il reclutamento, due carriere separate e due Consigli superiori diversi, uno per i giudici e uno per i pm) metterebbe a rischio “i diritti costituzionali” e piegherebbe il pm “ai desiderata del potere politico”. Se il timore del governo di determinare dure reazioni dall’Anm è fondato, ciò non vuol dire però che la soluzione debba essere, come al solito, la fuga dalle promesse (e dalle toghe). Soprattutto quando gli alleati tentano di accelerare il passo, definendo la separazione delle carriere una riforma “assolutamente necessaria” (Forza Italia) e “ineludibile” (Lega). Intervistato dal Foglio, Ciro Maschio, presidente di FdI della commissione Giustizia alla Camera, nega tensioni tra i partiti di maggioranza: “Bene ogni iniziativa che va verso la separazione delle carriere, tema che è nel nostro programma di governo. FdI non ha ancora presentato una proposta di legge ‘copia e incolla’ identica alle altre su separazione delle carriere perché stiamo lavorando anche a una proposta che possa adeguare il processo penale alla riforma costituzionale”. La separazione delle carriere, essendo riforma costituzionale, tuttavia, ha bisogno di tempi diversi da quelli necessari per la riforma del processo. Su questo Maschio replica: “Ovvio che le due proposte potrebbero avere iter paralleli ma necessariamente andrebbero coordinati anche perché la prima per essere applicata concretamente necessita della seconda”. Insomma, l’impressione è che anche su questo tema, come sugli altri, FdI e Nordio non vogliano forzare la mano, che tradotto significa rischio di immobilismo. “Mi risulta che il ministro Nordio sia al lavoro su tutti i temi e quindi sarà lui a comunicare man mano il cronoprogramma”, replica Maschio. Dall’opposizione, Enrico Costa (Azione-Iv) prova a smuovere le acque: “Sono convinto che oggi ci siano le condizioni politiche, a differenza di quanto accadde nella scorsa legislatura, per procedere a una riforma così importante come quella che riguarda la separazione delle carriere in magistratura. Ritengo che anche FdI, partito di maggioranza relativa, possa contribuire a conseguire questo fondamentale risultato entro il 2025”. Casciaro (Anm): “A rischio l’autonomia delle toghe. E i cittadini hanno già detto no con un referendum” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 febbraio 2023 Ieri Forza Italia, Lega e Azione ed Italia Viva hanno convocato una conferenza stampa per illustrare le proposte di legge per la separazione delle carriere in magistratura che riprendono il testo di riforma costituzionale su cui nel 2017 l’Unione delle camere penali italiane raccolse le firme di oltre 70.000 cittadini. Ne parliamo con il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro. Tutti si dicono fiduciosi che in questa legislatura si porterà a casa la riforma perché c’è compattezza. Che ne pensa? Temo sia un argomento molto sentito in certi settori della politica ma che appassioni meno i cittadini, ne è riprova l’esito referendario dello scorso anno. Ricordo che sul quesito pubblicizzato dai promotori come “separazione delle carriere tra giudici e pm” si sono recati alle urne solo il 21% degli aventi diritto e uno su quattro ha detto di no. La questione, inoltre, non riveste particolare rilevanza pratica, come testimonia il fatto che nell’ultimo anno solo 21 magistrati hanno cambiato le funzioni, da requirenti a giudicanti o viceversa. All’obiezione sul fatto che i passaggi di funzioni sono minimi il presidente dell’Ucpi Caiazza ha risposto: la separazione delle carriere è un’altra cosa. Il pm e il giudice dovranno fare un percorso autonomo e appartenere a due ordinamenti diversi. Come replica? Francamente non comprendo come si possa avere timore di un pm collocato nell’alveo della giurisdizione e, come tale, tenuto a raccogliere le prove anche a favore dell’indagato. Non è forse una garanzia in più per i cittadini? Beniamino Migliucci, past presidente dell’Ucpi, durante la conferenza ha detto: nessuno vuole mettere in pericolo l’autonomia e indipendenza della magistratura ma conferire maggiore autorevolezza al giudice... Non mi spiego allora perché le proposte di riforma si muovono verso direttrici eccentriche rispetto ai propositi dichiarati, prova ne è il rafforzamento del numero dei membri laici nell’organo di governo autonomo, che cesserebbe così di essere tale; non mi pare questa una modifica volta a preservare l’indipendenza della magistratura. Quanto all’autorevolezza del giudice, essa è un patrimonio già acquisito, non avverto l’esigenza di un suo rafforzamento, al di là della fake che lo vorrebbe ripiegato sulle posizioni dell’accusa. Se così fosse, come spiega che il 50% circa delle sentenze penali di primo grado si chiudono con esito sostanzialmente assolutorio? Nel documento redatto recentemente dall’Anm si legge: “Del resto la formazione di due Csm separati renderebbe abnorme il potere dei pubblici ministeri”. Ma perché, visto che saranno compensati dalla presenza dei laici? Perché il pubblico ministero, se sradicato dalla giurisdizione e dalla sua collocazione identitaria di organo di giustizia, potrebbe correre il rischio dell’autoreferenzialità. Aggiungo che, se trasformato in un avvocato dell’accusa, sarebbe naturalmente portato a guardare altrove. E l’ipotesi più plausibile è che, al di là delle dichiarazioni di intenti dei fautori della separazione delle carriere, il pm venga fatalmente ricondotto nella sfera d’influenza del potere esecutivo. Questo, mi pare, sia lo sbocco naturale. L’Anm sarebbe pronta a scioperare per questo? L’Anm ha come suo scopo statutario la definizione e la difesa delle prerogative del potere giudiziario rispetto agli altri poteri dello Stato, secondo le norme costituzionali, e su questo c’è piena consapevolezza e forte unità di intenti. Si parla molto di cultura della giurisdizione. Secondo lei gli avvocati sono inclusi? Senza alcun dubbio, ne sono parte integrante ed essenziale, ma sarebbe un grave errore pensare di irrobustire il ruolo della difesa indebolendo altre componenti della giurisdizione. Dopo alcune esternazioni di Nordio, è filtrato che Meloni voglia tirare un po’ il freno per non avere scontri sulla magistratura. Secondo lei il presidente potrebbe intervenire anche sulla riforma delle carriere per non inimicarsi Anm? Mi limito a osservare che abbiamo attraversato una lunga stagione di riforme che hanno interessato ogni campo del diritto e di cui dobbiamo ancora saggiare la bontà sul piano applicativo. Più che dell’ennesima “riforma epocale”, avremmo piuttosto bisogno di affrontare i temi più urgenti, quotidiani mi verrebbe da dire, della giurisdizione, che stanno veramente a cuore ai cittadini. Penso in particolare alla riduzione dei tempi dei processi, ma salvaguardando la qualità delle decisioni, nonché all’implementazione e razionalizzazione delle risorse. Sono stati calati dall’alto ambiziosi target di produttività senza alcun confronto preventivo con gli operatori di giustizia. Negli anni dell’emergenza pandemica non sono più stati banditi i concorsi, e ora si registrano scoperture d’organico allarmanti al sud come al nord del Paese. In questo contesto, viene imposto ai magistrati uno sforzo crescente di produttività con carichi di lavoro talvolta non agevolmente sostenibili sui quali auspico una presa di posizione da parte del nuovo Csm. Ovvio che le due proposte potrebbero avere iter paralleli, ma necessariamente andrebbero coordinate, anche perché la prima per essere applicata concretamente necessita della seconda”. La separazione delle carriere, nell’ottica di Costa, “non è un fine ma un mezzo. Si tratta di un obiettivo la cui realizzazione non è più prorogabile perché è previsto nella nostra Costituzione ed è quello proclamato dall’articolo 111, il quale impone che il giudice sia non solo imparziale ma anche terzo. E terzietà non può che significare appartenenza del giudice a un ordine diverso da quello del pubblico ministero”. Dunque due ordini diversi e due organi di autogoverno distinti. Uno - quello dei pm - guidato dal pg di Cassazione, l’altro - quello dei giudici - guidato dal primo presidente della Suprema Corte. E a chi obietta che i passaggi da una funzione all’altra oggi sono solo 22 l’anno la risposta arriva da Caiazza: “Sono due questioni diverse - ha sottolineato -, l’obiettivo è separare i due percorsi” e garantire che il processo smetta di avere al centro il pm, mettendo al centro il giudice. Insomma, un colpo di spugna ai processi mediatici, basati solo sulle accuse delle procure, che nulla ha a che vedere con quella guerra alle toghe più volte evocata dai nemici di questa riforma. L’intento, ha spiegato Migliucci, “non è quello di danneggiare la magistratura, ma garantirle più autorevolezza”. E il pm non finirebbe sotto il tacco dell’esecutivo, grazie alla presenza di due Csm, composti equamente da laici e magistrati, il cui fine è quello di evitare che il giudice dipenda, per la propria carriera e per i procedimenti disciplinari, dal pm e viceversa. Ma non solo: anche l’accesso alla carriera avverrebbe con concorsi separati, dal momento che si tratta di “due mestieri assolutamente diversi”. Si tratta di una “battaglia identitaria” per le Camere penali, ha evidenziato Caiazza, che dopo anni di “solitudine” può ora contare sul supporto di più forze politiche. “La terzietà non può essere affidata alla virtù del giudice - ha evidenziato -, deve essere consacrata in una diversità ordinamentale. Questo schema appartiene a tutte le grandi democrazie del pianeta”. La strada è lunga e difficile: trattandosi di una riforma costituzionale, il percorso prevede quattro letture ed un eventuale referendum. Ma lo scopo è chiaro: “Restituire forza e credibilità al giudice ed alla giurisdizione”. La proposta era naufragata nel corso della precedente legislatura, ma ora i numeri starebbero dalla parte di Costa e compagni. “Penso che il prossimo Csm non sarà uno, ma due - ha sottolineato -. In due anni e mezzo questa riforma può vedere la luce”. I ddl sono già stati calendarizzati in Commissione Affari costituzionali, dove il presidente Pagano si è autonominato relatore. Una velocizzazione dell’iter dovuta alla presenza di quattro proposte della stessa portata da quattro gruppi differenti (solo Forza Italia ha evitato di inserire nella proposta il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale per evitare di appesantire l’iter), sintomo di una “evidente convergenza” su un tema “popolare” che la politica non può ignorare. Una riforma “assolutamente necessaria”, ha sintetizzato Calderone. E la stessa proposta è stata depositata al Senato dalla leghista Stefani, “per ampliare il coinvolgimento dei rami del Parlamento”. È obbligo del legislatore, ha aggiunto Morrone, “fare qualcosa per far tornare credibile il sistema giustizia”. Ma il timore di Giachetti è che sia FdI a mettersi di traverso. “Le dichiarazioni di Nordio sullo stato della giustizia non hanno dimostrato che c’è un clima per cui andremo lisci con le riforme ha evidenziato -. Spero che questo tema sia preservato da possibili problematiche interne alla maggioranza. I guasti del rapporto tra politica e magistratura sono colpa della politica, perché quando arriva al potere si gira dall’altra parte”. Margherita Cassano sarà la prima donna a guidare la Cassazione: voto unanime del Csm di Davide Varì Il Dubbio, 15 febbraio 2023 La quinta commissione di Palazzo dei Marescialli ha votato compatta per l’attuale presidente aggiunto del “Palazzaccio”. Il primo marzo Plenum presieduto dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Margherita Cassano sarà la prima donna della storia d’Italia a guidare la Corte di Cassazione. Il voto della V commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente per gli incarichi direttivi e che si è riunito oggi, ha indicato l’ex presidente della Corte di Appello di Firenze e attualmente presidente aggiunta della Suprema Corte di Cassazione. La conferma arriverà nelle prossime settimane con il voto del plenum del Csm che si riunisce ogni mercoledì. Il Plenum dedicato a questa proposta si terrà il 1 marzo alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale presiederà l’assemblea plenaria. Margherita Cassano, classe 1955, è entrata in magistratura nel 1980 e ha ricoperto le funzioni di sostituta procuratrice presso la Procura di Firenze, componente della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, componente del Csm e consigliera presso la Corte di Cassazione, oltre che componente delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione. Margherita Cassano alla guida della Cassazione, le reazioni - “Ci sono passaggi che segnano in positivo il cambiamento e la crescita culturale e sociale di un paese. La scelta unanime della Commissione incarichi direttivi del Csm di designare Margherita Cassano come presidente della Corte di Cassazione è uno di questi”. Il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, saluta così la decisione del Csm di scegliere per la prima volta nella storia d’Italia una donna per la guida della Suprema corte. “Ricordo - continua Giani - la professionalità e l’autorevolezza con cui la dottoressa Cassano ha presieduto la Corte d’appello di Firenze e sono certo che le sue qualità e competenze emergeranno nel nuovo altissimo incarico cui viene chiamata. A lei le felicitazioni mie personali e di tutta la giunta regionale toscana”. “Una straordinaria magistrata per il suo dotto diritto ed esemplare equilibrio alla quale vanno i più sentiti auguri”. Così Irma Conti, presidente dell’Associazione donne giuriste Italia (Adgi) interpellata dall’Adnkronos sulla nomina della presidente Margherita Cassano, prima donna della storia d’Italia alla guida della Cassazione. Apprendendo la notizia, Conti d’istinto ha pensato: “tutti in piedi dinanzi alla presidente Margherita Cassano”. “Un attimo dopo - ha proseguito- ho pensato a tutte le giuriste che nei diversi ambiti della giurisdizione ancora vivono e subiscono stereotipi, scarsa considerazione, gender gap, non sono ai vertici, vengono chiamate dottoresse dinanzi a dottori chiamati avvocati. Ecco, le ho viste, mi sono vista, più nitide e con il volto più roseo e meno affaticato nel dover dare prova di noi stesse. Un’emozione cui ha fatto seguito la condivisione nelle chat di molti colleghi uomini e la gioia è stata smisurata. Allora ho avuto una visione di un futuro in cui insieme supereremo gli stereotipi, retaggio del passato”. Cosa significa la nomina di Cassano, prima donna alla guida della Cassazione di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 febbraio 2023 Il Csm ha indicato il magistrato all’unanimità. Così si rafforza il blocco moderato di Magistratura indipendente a spese dell’area di sinistra di cui faceva parte il predecessore Curzio. Margherita Cassano, attualmente presidente aggiunto della corte di Cassazione, sarà la prima donna nella storia italiana a guidare la Suprema corte. La sua nomina è stata proposta all’unanimità dalla Commissione per gli incarichi direttivi del Csm. Il voto finale avverrà al plenum del primo marzo, alla presenza del capo dello stato, Sergio Mattarella. Cassano succederà a Pietro Curzio, che sta per andare in pensione. Fiorentina di origine lucana, Cassano è in magistratura dal 1980. Figlia d’arte: il padre, Pietro, è stato pure lui alto magistrato, impegnato nella lotta al terrorismo rosso e nero a Firenze. Ha iniziato alla procura di Firenze, dove si è occupata soprattutto di questioni relative alle tossicodipendenze e al traffico di droga, temi che ha continuato a seguire in tutta la sua carriera. A Firenze lavorò con assiduità col procuratore Pier Luigi Vigna, poi divenuto procuratore nazionale antimafia. Dal 1982 è stata componente del gruppo specializzato nelle indagini in materia di stupefacenti e di criminalità organizzata. Dal 1991 al 1998 è stata assegnata alla Dda di Firenze. Subito dopo è stata consigliera del Csm nelle file di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice delle toghe. Poi dal 2003 è stata in corte di Cassazione, anche in veste di presidente della prima sezione penale, occupandosi di reati di omicidio e violenze. Dal 2016 ha presieduto la corte d’appello di Firenze dove è rimasta circa quattro anni. Nel 2020 è stata la prima donna ad accedere ai vertici della Suprema corte. Significative le prese di posizione espresse da Cassano nel corso del tempo contro la lentezza del sistema giudiziario italiano (“Non possono essere sottaciute le drammatiche conseguenze sociali provocate dalla pendenza per lunghissimi anni di un processo penale che rende l’uomo unicamente un imputato in palese contrasto con la presunzione di non colpevolezza”), così come contro le ripercussioni dei processi mediatici: “Oltre ad alimentare una morbosa ed esasperata attenzione verso i fatti di cronaca più clamorosi, determinano un’impropria sovrapposizione tra la realtà e la dimensione virtuale. Non contribuiscono alla comprensione delle problematiche umani e sociali sottese ai vari accadimenti, calpestano la presunzione costituzionale di non colpevolezza creando dei veri e propri ‘mostri mediatici’ vanificano il principio di pari dignità di ogni persona, solennemente affermato dall’articolo 2 della Costituzione”. Ma al di là dell’importanza simbolica, la nomina di Cassano risulta influente anche perché andrà a rafforzare in seno al Csm il blocco moderato di Magistratura indipendente, a spese dell’area di sinistra (di cui è espressione Curzio). Un’egemonia, quella di Mi, che - come abbiamo già raccontato - arriva fin dentro via Arenula, se si considerano gli incarichi ai vertici del ministero affidati dal Guardasigilli Nordio. Che, in cambio, potrebbe sperare in un ammorbidimento delle posizioni togate rispetto alle sue riforme. La minaccia anarchica è una balla: lo dicono pure i nostri 007 di Alberto Cisterna Il Riformista, 15 febbraio 2023 Bisognerebbe leggere sul tema la relazione al Parlamento del 2022 dei servizi di intelligence e mettere da parte ogni enfasi. L’Italia non fa una bella figura a dirsi ricattata da Cospito e dai suoi. Con il decreto del ministro Nordio che rifiuta la revoca del regime a 41-bis la vicenda Cospito transita in un’altra dimensione dagli approdi imprevedibili al momento. Il governo, come suo diritto, ha scelto la linea dura e, a dire il vero, si ha l’impressione che ciò sia accaduto - non tanto perché lo Stato sia minacciato dai gesti dimostrativi e dalle proteste violente di quattro scalmanati - ma perché si è creata una irriducibile contrapposizione politica. La visita in carcere al detenuto di alcuni parlamentari dell’opposizione ha mutato l’asse della contesa e ogni diversa soluzione sarebbe apparsa un cedimento e una concessione impraticabile anche alla luce del caso Donzelli. Il prossimo tavolo è tutto giudiziario. La Cassazione tra una decina di giorni esaminerà il ricorso della difesa di Cospito contro il 41-bis e la Procura di Roma metterà sotto torchio esponenti di primo piano della maggioranza e del ministero della Giustizia per comprendere esattamente cosa sia successo nell’aula del Parlamento. Che la soluzione per Cospito fosse la conferma del carcere duro non è del tutto scontato. Si discute molto in questi giorni della necessità di evitare che il detenuto, dal regime ordinario, possa intrattenere rapporti e collegamenti con l’esterno e con i suoi accoliti che agiscono nel progetto di eversione anarchica. Gli attentati e le proteste di questi giorni hanno dato una mano importante alla linea rigorista, non c’è dubbio. Tuttavia, non si può dimenticare che tutti i detenuti italiani, a eccezione di quelli a regime di 41-bis, hanno costanti rapporti con l’esterno, molti di loro in carcere dispongono di telefoni cellulari, molti sono in cella per spaccio di droga e non si contano i casi in cui dal carcere si continuano a dirigere attività illecite. Non si può controllare tutto, spesso le imputazioni riguardano reati ritenuti meno gravi (lo spaccio, appunto) e la cosa passa in cavalleria. Quindi il problema non è quello dei “contatti con l’esterno” che, per essere eliminati, richiederebbero campi di concentramento e non le carceri di una nazione democratica. È, piuttosto, come recita l’articolo 41-bis, quello di accertare la effettiva sussistenza di “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”; solo questi, infatti, possono consentire che sia sospesa per il detenuto “l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti… che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. Il filosofo Massimo Cacciari, che pur giurista non è, ha in queste settimane colto pienamente la rilevanza della vicenda Cospito secondo questa, imprescindibile traiettoria. La Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, a quanto si legge, avrebbe reso al ministro Nordio un parere anfibio, prefigurando la possibilità di un transito del detenuto dal regime speciale 41bis a quello di “alta sicurezza”, sicuramente meno afflittivo. In punta di penna e di diritto non è questione da poco. È il principale osservatorio nazionale sui fatti di mafia e terrorismo; ha un polso sensibile sullo stato della sicurezza pubblica del paese nei suoi risvolti giudiziari (ovviamente), lo spiraglio che avrebbe aperto incrina la possibilità di poter pacificamente affermare che il carcere duro debba essere confermato “senza se e senza ma”. Per essere chiari: nessuno dubita che Cospito voglia avere contatti con l’esterno e che vi siano prove di questa intenzione nel fascicolo ministeriale; ma la questione è se questi contatti con l’ambiente anarchico possano davvero rappresentare “gravi motivi” che mettano in pericolo la sicurezza e l’ordine pubblico del Paese. Cacciari ne dubita, e non è il solo. Delle due l’una: o le frange anarchiche contigue a Cospito sono, come la mafia o il terrorismo islamico, una minaccia endemica e permanente, ma allora sarebbe stato e sarebbe lecito attendersi valanghe di arresti a dimostrazione di questa grave pervasività criminale oppure lo squadrismo violento e gli attentati dimostrativi sono l’espressione del fanatismo politico di gruppi di facinorosi che, certo, non mettono in fibrillazione la Nazione. In altri termini: non è che l’Italia ci faccia una gran bella figura a dirsi minacciata e ricattata da Cospito e dai suoi. Si è appena catturato Matteo Messina Denaro, si sta smantellando la rete delle sue complicità, in tutto il mondo si è plaudito alla sconfitta della mafia stragista e oggi si strepitano paure per un anarchico in cella. Sono necessari misura ed equilibrio, soprattutto quando l’intera politica si lascia trascinare in un dibattito che non avrebbe ragion d’essere in nessun altro paese per le circoscritte dimensioni della minaccia. Il 26 febbraio 2022 è stata presentata al Parlamento la relazione annuale dei Servizi di intelligence sullo stato della sicurezza in Italia e una parte, ovviamente, era dedicata all’eversione anarchica. Un indicatore, come dire, particolarmente attendibile e affidabile, posto che i Servizi di informazione di questi ultimi due decenni nulla hanno a che spartire con il loro opaco e controverso passato. Chiunque voglia partecipare al dibattito su caso Cospito dovrebbe prima leggere l’analisi sulle componenti anarchico-insurrezionaliste contenuta nella relazione (metà pagina 99 e pagina 100 sulle 136 complessive) e verificare quali siano le azioni poste in essere nel 2021: “Le compagini libertarie hanno partecipato in maniera crescente alle contestazioni contro le misure anti-contagio, facendo registrare, soprattutto sul finire dell’anno in alcune piazze del Nord Italia, tentativi di sobillare i manifestanti ad attaccare i dispositivi delle Forze dell’ordine poste a tutela dell’ordine pubblico” e, ancora, “in linea con tali assunti, è sembrato (si badi bene n.d.e.) porsi l’attacco incendiario del 14 marzo ai danni del portone d’ingresso dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma, rivendicato in forma anonima su un sito anarchico creato ad hoc nella primavera del 2020 per seguire in chiave libertaria l’evoluzione dell’epidemia” e, poi, “le evidenze raccolte hanno poi rimarcato il lancio di nuove pubblicazioni, rese particolarmente attrattive anche grazie al contributo teorico di esponenti di spicco dell’anarchismo che, dal carcere, nell’intento di rilanciare le progettualità eversive a marchio FAI/FRI (Federazione Anarchica Informale/ Fronte Rivoluzionario Internazionale), hanno tra l’altro richiamato più volte l’attenzione dei militanti sulla pratica della violenza insurrezionale”. Questo e poco altro. Se il procuratore nazionale e il Sistema di informazione per la sicurezza rendono queste valutazioni, sarebbe opportuno mettere da parte ogni enfasi e sotterrare l’ascia di guerra della propaganda che, a dire il vero, nuoce all’immagine stessa del paese e alla serietà delle tante questioni da affrontare. Negato permesso premio a un ergastolano ostativo: la Cassazione annulla l’ordinanza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2023 Il tribunale di Sorveglianza, in risposta al reclamo presentato dal Pm, ha revocato il permesso premio di un giorno concesso al detenuto Salvatore Biondo, che sta scontando l’ergastolo ostativo. Parliamo dell’uomo della famiglia mafiosa di San Lorenzo, da non confondersi con il suo omonimo Salvatore Biondino, coinvolto anch’egli nella strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di scorta. Il Tribunale ha sostenuto che il giudice aveva concesso il permesso premio non esaminando se il detenuto aveva legami con la criminalità organizzata o se vi era il pericolo che questi si ristabilissero. Il detenuto ha presentato ricorso per Cassazione, sostenendo che l’ordinanza era contraddittoria e illogica e che non aveva esaminato i presupposti per la concessione del permesso premio. Il ricorso è stato accolto, perché il Tribunale non aveva effettuato le verifiche necessarie. Da ricordare che la concessione del permesso premio richiede che il detenuto abbia una condotta regolare e non rappresenti una minaccia per la società. Ripercorriamo i fatti. Con l’ordinanza indicata nel preambolo, il Tribunale di sorveglianza di Napoli, in accoglimento del reclamo proposto dal Pubblico ministero, ha revocato il provvedimento con cui il magistrato di Sorveglianza aveva concesso a Salvatore Biondo, detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo, il permesso premio di un giorno. Osserva che, pur appartenendo i reati in esecuzione alla categoria di quelli ‘ostativi’ ai sensi dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, il magistrato di Sorveglianza non aveva esaminato il profilo della sussistenza di collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata né il pericolo di un loro ripristino. L’istante, da parte sua, non aveva fornito elementi utili a confortare la tesi della rescissione dei collegamenti con Cosa nostra né aveva presentato istanza volta al riconoscimento della collaborazione impossibile, anche se - da ricordare - nel frattempo quest’ultima opzione è stata tolta dalla recente riforma dell’ergastolo ostativo. Ricorre quindi per Cassazione il detenuto Biondo, per il tramite del difensore di fiducia, chiedendo l’annullamento della ordinanza sulla base di un unico motivo. In sostanza sottolinea che il tribunale ha preso una decisione ingiusta perché non ha fatto le verifiche necessarie per valutare se Biondo ha o meno legami con la criminalità organizzata o se rappresenta un pericolo per la società. Inoltre, sempre nel ricorso in cassazione, il detenuto sostiene che il tribunale ha interpretato erroneamente una sentenza della Corte costituzionale. La sentenza dice che il detenuto ergastolano ha il compito di fornire informazioni sulle circostanze in cui si trova e sul suo comportamento in prigione per dimostrare di essere idoneo a ricevere il permesso premio. Cosa che in realtà avrebbe dimostrato, documentando di essere detenuto da oltre venticinque anni nel corso dei qui aveva sempre tenuto una condotta rispettosa delle norme e partecipativa rispetto alle attività trattamentali. La Cassazione, parliamo della sentenza numero 5954, ritiene fondato il ricorso. Premette che tale beneficio previsto dalla legge ha una funzione pedagogico-propulsiva e premiale, ma il giudice deve accertare la regolare condotta del detenuto, la sua assenza di pericolosità sociale e la funzionalità del permesso premio alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro. La procedura di richiesta di permesso- premio prevede l’acquisizione di informazioni adeguate e la valutazione del tribunale di sorveglianza, che deve decidere se confermare o riformare la pronuncia censurata, anche rilevando le carenze istruttorie, con l’obbligo di apprezzare la fondatezza della domanda e di acquisire le informazioni necessarie. Per corroborare tali assunti, i giudici supremi fanno riferimento anche ad alcune sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione stessa. Quest’ultima, ovvero la n. 33743 del 14 luglio 2021, stabilisce che il richiedente del permesso premio non può essere chiamato a ‘riferire’ su circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva e non può fornire la prova negativa ‘diretta’ di una condizione relazionale, come il ‘pericolo di ripristino dei contatti’. Il giudice deve invece valutare i fattori che indicano la cessazione di tale pericolo, come la regolare condotta carceraria e la partecipazione positiva alle attività trattamentali. Per tutti questo motivi, la Cassazione ha deciso di annullare il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Napoli e di rinviarlo per un nuovo giudizio in cui si applicano i principi sopra enunciati. Puglia. Carceri sovraffollate e senza personale, l’allarme del Garante Piero Rossi di Paola Marano ledicoladelsud.it, 15 febbraio 2023 “La carenza di personale nelle carceri ha raggiunto un livello tale che se i detenuti di Italia decidessero di fare un’evasione di massa semplicemente ci riuscirebbero, non lo fanno perché sono dei cittadini anche loro”. Ne è convinto Piero Rossi, garante regionale dei detenuti della Puglia, che lancia l’allarme anche sulla mancanza di professionisti del settore sanitario, medici e infermieri, all’interno degli istituti di pena e si scaglia contro le parole pronunciate dal ministro della Giustizia Nordio al momento del suo insediamento. La Puglia è tra le Regioni in cima alla classifica per il sovraffollamento nelle carceri. Quale criticità emerge nei primi mesi del 2023? “Abbiamo un difetto di garanzia del diritto alla Salute. Ci sono pochissimi medici e infermieri. Una situazione riscontrabile a livello nazionale della sanità ordinaria e che di riflesso diventa un problema anche negli istituti di pena. Il sovraffollamento, a fronte di una scarsità di agenti della polizia penitenziaria, rischia poi di mettere in crisi anche il sistema del terzo settore e del volontariato che tradizionalmente entra in carcere. Ma senza personale che deve svolgere attività di controllo non si può dar vita alle iniziative”. Nel mese scorso un detenuto è morto in cella all’interno dell’istituto penitenziario di Lecce… “Lì si discute la tempestività dell’intervento che non può che essere commisurata alle postazioni di vigilanza. Se poche persone devono controllare tanta gente può capitare che ci sia una mancata presa in carico tempestiva. Una cosa è certa: i presidi medici dovrebbero essere proporzionati al numero di persone che risiedono nella struttura”. Cosa serve, allora? “Quello che manca è un investimento serio. Servono soldi anche per le carceri che vanno ristrutturate. Non bisogna crearne di nuove, ma sostituire quelle vecchie. Prendiamo ad esempio il carcere di Bari, è strutturalmente incompatibile con la detenzione di persone ed ha addirittura un piccolo ospedale interno. È un edificio storico come quello di Turi, che è il luogo dove sono stati Gramsci e Pertini: sarebbe il caso diventasse visitabile ma non è vocato alla residenzialità dei detenuti. Mancano spazi di socialità, sacrificati sull’altare del sovraffollamento. L’umanizzazione del carcere deve passare innanzitutto dalla sua architettura”. Per rivedere questa architettura servono fondi. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio alla sua prima uscita pubblica aveva annunciato che “le carceri sarebbero state una priorità”. Cosa rimane di quelle parole? “L’ha detto quando si è insediato e poi se lo è rimangiato. Quando abbiamo ascoltato le sue affermazioni noi addetti ai lavori abbiamo esclamato: “Finalmente”. Ma non ha dato nessun seguito alla promessa. Queste riforme non si possono fare a saldo zero”. Il Sappe chiede la chiusura del carcere di San Severo. “È un doppione in piccolo di quello di Foggia”, è l’obiezione mossa. Cosa ne pensa? “Dire che a San Severo possiamo rinunciare ad un istituto di pena, che vorrebbe dire riversare la popolazione penitenziaria in altri istituti, non è molto prudente. Pur essendo molto rispettoso di chi è abolizionista, allo stato attuale c’è bisogno di ragionare con pragmatismo”. In che modo la riforma Cartabia può incidere sul sistema carcerario? “Trovo che sia una riforma perfettibile, che auspica una riconciliazione sociale. Il fatto che sia il giudice di cognizione a far partire delle misure alternative è una grande cosa, ma va fatta con forze in campo nuove. Ci vogliono molti più fondi e risorse professionali adeguate”. Santa Maria Capua Vetere. Violenze in carcere, detenuto in aula: “Picchiato per venti giorni” di Nico Falco fanpage.it, 15 febbraio 2023 Processo per le violenze a Santa Maria Capua Vetere, un detenuto ha raccontato in aula di essere stato picchiato per 20 giorni, prima della “orribile mattanza”. Lo avrebbero picchiato per venti giorni consecutivi, dal 10 marzo, quando arrivò nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, fino al successivo 6 aprile, quando ci fu quella che il giudice per le indagini preliminari ha definito “orribile mattanza”, con circa 300 agenti della Polizia Penitenziaria che picchiarono oltre 200 detenuti per punirli della protesta del giorno prima. La storia è emersa durante il processo, con rito abbreviato, a carico di due degli agenti imputati, per i quali ieri la Procura ha chiesto 3 anni e otto mesi e 6 anni di reclusione. Fakhri Marouane, 30enne marocchino, difeso dall’avvocato Lucio Marziale, era stato trasferito nel carcere sammaritano da quello di Velletri, dove c’era appena stata una protesta per il Covid appena esploso; ha spiegato di non avervi partecipato ma di essere stato trasferito nel Casertano insieme a tutti i detenuti della sua sezione. Al giudice per l’udienza preliminare Pasquale D’Angelo ha raccontato di essere stato picchiato per venti giorni, fino al 6 aprile, quando compare nei nastri della videosorveglianza interna mentre gli agenti lo fanno inginocchiare e lo colpiscono. Per il pestaggio da lui subito il 10 marzo la Procura (procuratore aggiunto Alessandro Milita, sostituiti Daniele Pannone e Alessandra Pinto) ha chiesto la pena di 3 anni e 8 mesi per il poliziotto, che non sarebbe stato riconosciuto nelle immagini della videosorveglianza interna del carcere del 6 aprile. Il 30enne si è costituito parte civile sia in questo processo sia in quello che si sta svolgendo con rito ordinario nei confronti degli altri 105 imputati, tra funzionari del Dap, agenti della Penitenziaria e medici dell’Asl. Dopo i pestaggi a Santa Maria l’uomo era stato trasferito nel carcere di Pescara, dove ha seguito un percorso rieducativo, si è diplomato e ha ottenuto la semilibertà. Napoli. A Secondigliano i detenuti incontrano i familiari delle vittime innocenti di camorra di Francesca Sabella Il Riformista, 15 febbraio 2023 Esiste una giustizia che cura le ferite, che lenisce e non annulla il dolore procurato, una giustizia nella quale il “carnefice” si specchia negli occhi dei familiari della vittima, per comprendere, per scendere nell’abisso del male che ha fatto e per risalire in superficie. Magari tornando a respirare. È la giustizia riparativa. A differenza della giustizia retributiva che ha come scopo primario attribuire colpe, quella riparativa è tesa a identificare bisogni e compiti in modo che le cose possano ritrovare il loro giusto posto, e soprattutto incoraggia al dialogo. E nel carcere di Secondigliano c’è stato un dialogo tra i detenuti e i familiari delle vittime innocenti di camorra. “Le occasioni di riflettere sui propri errori e di avere una seconda chance devono essere date a tutti, a prescindere da che si ci penta oppure no” ha spiegato il Garante delle persone private della libertà personale della Campania, Samuele Ciambriello, nel corso di un incontro nell’ambito del progetto Parole in libertà che si è tenuto nella Casa circondariale di Secondigliano tra i detenuti di Alta sicurezza - reparti Ionio, Tirreno e Ligure - e due familiari di vittime innocenti della camorra. A portare le proprie testimonianze Bruno Vallefuoco, padre di Alberto, ucciso insieme ai suoi due amici Salvatore De Falco e Rosario Flaminio il 20 luglio del 1998, e Giuseppe Miele, fratello di Pasquale, freddato il 6 novembre del 1989 perché si opponeva al pagamento del pizzo sulla loro azienda. All’appuntamento ha preso parte anche don Tonino Palmese, presidente della Fondazione Polis, che ha ricordato come “la bellezza salva il mondo, intendendo la bellezza come condivisione di amore e di dolore”. “Chi si trova recluso - ha aggiunto Ciambriello - deve avvertire la responsabilità; le famiglie che ha lacerato, la sua stessa famiglia che non si trova più a vivere. Si deve chiedere come posso riparare. Del resto, è anche quello che afferma la riforma Cartabia, esprimendo il concetto di giustizia riparativa”. Domani il dialogo si ripeterà nella Casa circondariale di Poggioreale con i detenuti del reparto Firenze. Perché la consapevolezza di voler cambiare vita, e che si è sempre in tempo a farlo, passa per la consapevolezza del dolore procurato. Montichiari (Bs). La scuola incontra il carcere: un progetto alla Don Milani quibrescia.it, 15 febbraio 2023 Gli studenti di 5B del liceo scienze umane hanno avviato un progressivo avvicinamento alla realtà della detenzione che avrà il suo culmine con la visita al carcere di Verziano il prossimo 28 febbraio. “La scuola incontra il carcere”: con questo progetto gli studenti di 5B del liceo scienze umane del Don Milani di Montichiari (Brescia) hanno avviato un progressivo avvicinamento alla realtà della detenzione che avrà il suo culmine con la visita al carcere di Verziano il prossimo 28 febbraio. Coordinati dalla docente referente Roberta Chiari, i ragazzi sono stati guidati dai volontari dell’associazione bresciana FI.LI., Fiducia e Libertà, che sostiene i carcerati durante la detenzione e, soprattutto, li aiuta nel reinserimento sociale a fine pena. “Il percorso - dichiara la professoressa Chiari - nasce dalla consapevolezza che la scuola riveste un ruolo fondamentale nella prevenzione del disagio e nella diffusione tra i giovani della cultura della legalità. Grazie alla mediazione dei volontari, gli studenti hanno conosciuto storie di vita difficili, complesse e faticose perfino da ascoltare, insieme alla testimonianza di chi è riuscito a ricominciare e sta vivendo la sua seconda opportunità”. Il tutto è divenuto occasione per riflettere su devianza e disagio, su fatica di vivere e conseguenze di scelte sbagliate, anche in vista delle prossime responsabilità che i giovani saranno chiamati ad assumersi con la fine della scuola superiore, pure queste frutto di scelte che comportano rischi e valutazioni da non affrontare con superficialità. La disposizione a comprendere, pur senza giustificare, non è immediata e anche per questo i ragazzi sono entrati gradualmente in contatto con le persone che tra poco conosceranno: nei mesi scorsi hanno avviato una corrispondenza epistolare che ha suscitato emozioni anche molto forti e li ha aiutati ad abbandonare molti stereotipi sulla vita in carcere e sugli stessi detenuti. Il lavoro di focalizzazione e confronto su carcere immaginato e carcere vissuto ha alimentato il dialogo e nutrito per entrambe le parti coinvolte la consapevolezza di quanto l’istruzione possa diventare strumento di recupero e l’educazione sia fondamentale per il reinserimento in società. L’incontro in classe con i volontari e un ex detenuto è stato inoltre l’occasione per riflettere su temi come diversità, prevenzione, giustizia, legalità, pentimento/perdono, rieducazione e integrazione nel mondo lavorativo e delle relazioni. A questo punto gli studenti sono pronti per la visita al carcere che li coinvolgerà per un’intera mattinata, insieme ai detenuti conosciuti finora solo per lettera, ai loro insegnanti tra le mura del penitenziario e ai volontari di FI.LI., in particolare i monteclarensi Aldo Alberti e Maria Maddalena Schena. “Per la riuscita di un percorso di inclusione - sottolineano i volontari - è fondamentale costruire una rete intorno alla persona. Tale rete è caratterizzata da istituzioni, volontari, associazioni, organizzazioni, oltre che dalla famiglia. Attraverso un percorso di formazione, detenuti ed ex detenuti avviano un processo di cambiamento per riprendere in mano la propria vita, evitando la recidiva. Le testimonianze di ex carcerati hanno proprio l’obiettivo di dimostrare concretamente che questo nuovo progetto di vita è fattibile”. “La peculiarità del progetto - conclude la referente Chiari - consiste proprio nel ruolo da protagonista assegnato a ogni soggetto coinvolto, concorrente necessario e di uguale livello, senza alcuna gerarchizzazione o discriminazione”. Modena. Detenuti attori a teatro, 30 mesi di opere in cinque Paesi Corriere della Sera, 15 febbraio 2023 Il progetto da Modena fino in Germania, Polonia, Romania e i Balcani Orientali. Trenta mesi di progetti culturali e opere teatrali che coinvolgeranno organizzazioni e istituti penitenziari di cinque Italia, Germania, Polonia, Romania e i Balcani orientali. Un progetto partito a inizio febbraio a Modena dal titolo Ahos, All Hands On Stage - Theatre as a tool for professionalisation of inmates. Ovvero il Teatro come strumento di professionalizzazione per i detenuti. Il progetto, cofinanziato da Creative Europe, è stato ideato dalla compagnia Teatro dei Venti. Il progetto è stato presentato Partito nella sala di Rappresentanza del comune di Modena alla presenza di Anna Albano, direttrice della casa circondariale di Modena, Simona Pugliese, capo area trattamentale della casa di reclusione di Castelfranco Emilia, Stefano Tè, direttore artistico del Teatro dei Venti, Holger Syrbe rappresentante del partner tedesco aufbruch e degli altri partner di progetto, di Andrea Bortolamasi e Roberta Pinelli, assessore alla Cultura e assessora alle Politiche Sociali del Comune di Modena. L’obiettivo è di organizzare tirocini formativi per detenuti internati ed ex detenuti che avranno svolto percorsi di formazione all’interno degli istituti detentivi di Modena e Castelfranco Emilia. Il titolo “All Hands on Stage” è ispirato a un detto marinaresco inglese, “all hands on deck”, letteralmente “tutte le mani sul ponte”, che si usa per dire che è necessario l’aiuto di tutti per raggiungere un obiettivo. Il progetto Ahos mette in relazione il mondo del teatro e quello della detenzione, stabilendo un contatto di collaborazione profonda per contribuire alla creazione di buone pratiche a livello europeo. Con gli obiettivi di sviluppare e sperimentare un percorso di formazione e accompagnamento per la professionalizzazione dei detenuti in ambito teatrale (recitazione, tecnica, scenografia, costumi, luci e audio); rafforzare e valorizzare le competenze degli operatori professionali che già svolgono attività teatrali in carcere, attraverso un confronto a livello europeo; sviluppare e pilotare un corso di formazione per gli operatori culturali che intendono lavorare in carcere, finalizzato a diffondere e incrementare le buone pratiche del teatro in carcere su tutto il territorio nazionale; sensibilizzare il pubblico teatrale e i principali stakeholder sull’importanza di questo nuovo percorso professionale non solo per il singolo detenuto, ma per la società nel suo complesso. “Questo nuovo progetto ufficializza un percorso che abbiamo da tempo avviato all’interno delle carceri di Modena e Castelfranco Emilia — dice Stefano Tè, direttore artistico del Teatro dei Venti — un percorso che ha a che fare col teatro e con le diverse professioni del teatro. Quindi non solo quella parte che consideriamo prettamente artistica, ma anche quella legata alla formazione di tecnici luci, tecnici audio, scenografi. Questa è una occasione importante perché si condivide soprattutto con altri partner europei una modalità, una modalità che può essere vincente perché risponde a una doppia necessità. La necessità del mondo culturale di trovare tecnici formati e la necessità di detenuti ed ex detenuti di far fronte al post detenzione, a questo passaggio estremamente delicato tra il dentro e fuori. Quindi questo progetto vuole dare una possibilità non solo di formazione, ma anche di lavoro, e questo è l’elemento innovativo. Fare teatro abbraccia un concetto più ampio, non solo stare in scena, ma stare anche dietro la scena. Anche pensare a un disegno luci, pensare una soluzione per una scenografia, per una pedana, per un allestimento è fare teatro, è pratica teatrale. Noi crediamo che questa visione possa dare possibilità concrete, perché l’accesso al mondo del teatro, se è solo pratica artistica, rischia di essere un limite, perché è molto complesso fare del teatro un’esperienza lavorativa permanente, probabilmente l’esperienza tecnica può essere più concreta e immediata”. Milano. “Così curo la spiritualità dei detenuti” di Soraya Galfano chiesadimilano.it, 15 febbraio 2023 Don Fabio Fossati è dal 2005 cappellano del carcere di Bollate, Comune alle porte di Milano: un percorso, dice, “avvenuto per volontà di Dio, come accade tutto quanto. Sono entrato in Seminario nel 1988, avevo diciassette anni e da lì in poi ho sempre avuto amici cappellani, il loro operato mi ha sempre incuriosito e affascinato. Nel 2003 il cappellano di Bollate faceva fatica a star dietro a tutti i detenuti del carcere, così mi sono proposto come volontario. Dal 2005 il mio servizio è diventato effettivo”. Quindi Bollate ha due cappellani? Sì, ogni 800 detenuti serve un cappellano. Bollate a oggi, se non sbaglio, ne conta circa 1300. Spesso si sente parlare di Bollate come di un carcere d’eccellenza rispetto ad altre realtà del nostro Paese. Qual è la sua differenza? Questo carcere è nato con l’idea di mettere in pratica quanto scritto nella nostra Costituzione e ha avuto una spinta propulsiva pazzesca. Purtroppo, a oggi, gli effetti del Covid-19 si vedono anche sulla realtà carceraria. Con la pandemia i detenuti non potevano uscire dalle proprie celle e non era loro permesso di effettuare i colloqui in presenza con i familiari. Anche ora le celle dell’infermeria sono chiuse. Questa situazione ha inasprito molte realtà già difficili di per sé. Bollate, però, grazie alla spinta dei suoi amministratori e memore delle sue origini, ha fatto di tutto per venire incontro alle esigenze dei detenuti, come per esempio aumentare il numero di colloqui telefonici da 10 minuti ciascuno una volta a settimana a 10 minuti ciascuno tutti i giorni. Sono inoltre stati favoriti sistemi quali email e video-chiamate. Qual è il suo compito? Mi occupo di favorire il benessere di ciascun detenuto, cercando di aiutare dove posso, per esempio mantenendo vivi i contatti con la famiglia di origine o aiutando la persona a concepire la propria responsabilità in merito al crimine commesso. Se dovessi dirla in modo più complesso, direi che mi occupo della crescita spirituale dei detenuti. Nelle carceri, così come nella società odierna, vige il pluralismo religioso. Riesce a lavorare bene con ogni detenuto? A Bollate sono presenti, oltre ai cattolici, numerosi ortodossi, tanti musulmani e alcuni pentecostali. Laddove c’è apertura e sincera voglia di confronto, si riesce bene a lavorare con chiunque. Con gli ortodossi abbiamo anche cercato di trovare un padre ortodosso, ma ahimè non c’è nessuno che ad oggi si sia assunto il compito di farlo in modo continuativo. Quelli con cui riscontro più difficoltà sono i pentecostali perché, a mio parere, hanno interpretazioni molto estremiste della Bibbia, ma anche qui varia da soggetto a soggetto. Gli appartenenti alla criminalità organizzata spesso si presentano come dei fedeli devoti. Qual è la sua esperienza con loro? Faccio una premessa: Bollate non ha la massima sicurezza. Quindi io non ho mai avuto a che fare con i cosiddetti “irriducibili”. Gli appartenenti alla criminalità organizzata che ho conosciuto sono tutti soggetti che hanno alle spalle già una trentina d’anni di carcere. Molti di loro fanno quello che chiamo “passo in più”, riescono cioè a scindere la fede dal sentimento religioso e capiscono che l’unico modo per essere figli di Dio è quello di pentirsi. Quando un detenuto richiede il sacramento della Riconciliazione, lo affido a volontari che leggono con lui il Vangelo, lo commentano e lo aiutano a capire di cosa deve pentirsi, la confessione vera e propria avviene solo dopo qualche mese, quando nella mente del detenuto è tutto più chiaro. Qual è secondo lei il più grande problema del sistema carcerario italiano? L’unico modo per pentirsi davanti a Dio e davanti agli uomini è quello di comprendere ciò che si è fatto e prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Il carcere non aiuta la responsabilizzazione dell’individuo perché, dal momento in cui lo si priva di tutto, egli subisce passivamente la punizione e non riesce a fare altro. Se potesse chiedere a Dio di portare qualcosa del carcere al mondo esterno, cosa sarebbe? Il tempo, senza dubbio il tempo. La realtà carceraria regala ai detenuti molto tempo libero e quando sei solo, dopo un po’ sei costretto a fermarti e parlare con te stesso, riflettere, porti delle domande… Noi che abbiamo il dono della libertà vogliamo aver sempre più tempo libero e quando lo otteniamo alla fine lo utilizziamo per il disbrigo di altre faccende. Siamo fagocitati dalla frenesia. Il molto che resta da fare di Sabino Cassese Corriere della Sera, 15 febbraio 2023 Si tratta di un programma per più generazioni, quindi è bene festeggiare i tre quarti di secolo di vita della Costituzione italiana, ma anche rinfocolare il patriottismo costituzionale nazionale. “Ce nto anni di esperienza hanno mostrato il limitato valore di tutte le formule di Carte costituzionali, di trattati internazionali, di codici. Non è possibile che un foglio di carta sbarri la via alle passioni umane, agli interessi, nonché alle aberrazioni o alle follie. Se dietro ogni garanzia costituzionale non c’è una forza vigile, non ci sono cuori caldi, la Carta sarà travolta dal fatto”, così scriveva, il 2 gennaio 1948, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana italiana, il grande giurista e storico delle relazioni tra Stato e Chiesa Arturo Carlo Jemolo. È quindi bene non solo festeggiare i tre quarti di secolo di vita della Costituzione italiana, ma anche rinfocolare il patriottismo costituzionale nazionale. Se una nazione è una storia comune e un’anima, come scriveva lo storico del cristianesimo francese Ernesto Renan nel 1882, quest’anima è oggi scritta nella Costituzione. In questa sono registrati la reazione del popolo italiano al regime illiberale fascista, ideali ed esperienze appartenenti alle culture liberale, popolare e socialista, nonché quelle che Piero Calamandrei, nel 1955, chiamava “le grandi voci lontane di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini”. La Costituzione è un programma per più generazioni, scritto attingendo ai principi racchiusi nell’”officina di idee” del secondo dopoguerra: la “Rivista trimestrale di diritto pubblico” dedicò il primo fascicolo del 2018 a censire gli “ideali costituenti”. Questo non deve però far dimenticare i punti deboli del testo e della sua storia. Parlando, il 4 marzo 1947, alla Costituente, sul progetto di Costituzione, Piero Calamandrei, favorevole a una Repubblica presidenziale, “o almeno a un governo presidenziale”, aggiungeva: “di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto di Costituzione non c’è quasi nulla”. Più tardi, nel 1995, un altro dei protagonisti della storia costituzionale, Massimo Severo Giannini, riassumeva così il suo giudizio sulla Costituzione: “splendida per la prima parte, banale per la seconda (struttura dello Stato) che è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato”. Infatti, per quarant’anni, cioè per più di metà della vita della Costituzione repubblicana, si è cercato, senza riuscirci, di modificare la seconda parte. Il secondo punto debole consiste nella “lentissima fondazione dello Stato repubblicano” (sono ancora parole di Giannini). Fu necessario un decennio per istituire la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura. Dovette passare più di un decennio per la parificazione dei diritti delle donne negli uffici pubblici. Molte altre norme vennero ancora più tardi e furono spesso scritte con la tecnica del rinvio a leggi future. Le regioni cominciarono la loro vita 22 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, nel 1970, ma bisognò aspettare il 1972 e il 1977 per il trasferimento delle funzioni statali, poi completato e arricchito nel 1998 e nel 2001. Quindi, se è vero che non tutto il fascismo è stato fascista, è anche vero che non tutta l’Italia repubblicana è stata liberale e antifascista: basta pensare alla censura cinematografica e all’uso della polizia per schedare gli orientamenti politici dei cittadini. La Costituzione non è solo stata attuata molto lentamente, ma contiene anche promesse non mantenute, e addirittura dimenticate. Le comunità di lavoratori o utenti per la gestione delle imprese di servizio pubblico, il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, la promozione dell’accesso del risparmio popolare ai grandi complessi produttivi, il fine rieducativo della pena, l’accesso all’istruzione fino ai livelli più alti, l’obbligo di registrazione dei sindacati e il loro ordinamento interno a base democratica, sono solo alcune delle promesse non mantenute. Il divario tra costituzione formale e costituzione vivente è quindi ancora forte. La Costituzione prevedeva la “valorizzazione” del Mezzogiorno e delle isole, per unire effettivamente un Paese diviso in due, ma è rimasta inattuata. Anzi, la modifica costituzionale del 2001 ha cancellato la parola Mezzogiorno, prevedendo solo “interventi speciali” per regioni ed enti locali. “La Costituzione dimenticata” era intitolato il primo fascicolo della “Rivista trimestrale di diritto pubblico” del 2021, nel quale sono censiti tutti i “tradimenti” post-costituzionali della Costituzione. Infine, la Costituzione non è riuscita a contenere i poteri dello Stato nell’ambito loro assegnato. Ha consentito l’esondazione dell’ordine giudiziario in quello legislativo, in quello politico e in quello esecutivo; del governo in quello legislativo; del legislativo in quello amministrativo. L’ultima modificazione costituzionale, quella del 2022, introduce nella Costituzione “l’interesse delle future generazioni”. Si apre così un capitolo nuovo della storia costituzionale, quello del costituzionalismo “trasformativo”, in nuce già nel secondo comma dell’articolo 3, relativo all’eguaglianza sostanziale, che affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano libertà, uguaglianza, sviluppo della persona e partecipazione all’organizzazione del Paese. Ma per fare tutto questo occorrerà sia dare piena attuazione al programma scritto nel 1946-47, sia dotare il Paese di un corpo esecutivo duraturo. Il peso del merito di Emma Ruzzon* La Stampa, 15 febbraio 2023 Stanchi di piangere i suicidi dei nostri coetanei. A noi studenti viene richiesto di eccellere nella precarietà e con aspettative asfissianti. Non si tiene conto dei tempi di ognuno di noi né degli ostacoli economici e sociali. “A 20 anni è il più giovane laureato d’Italia”. “Studente trovato morto, da mesi non dava esami”. “Gemelli laureati insieme: “Il segreto? Una sana competizione”. “Si suicida all’università: aveva mentito alla famiglia, gli esami erano inventati”. “A 23 anni è medico: “Per me il sonno è tempo perso”. “Studentessa di 19 anni si suicida nella sua Università: “La mia vita è un fallimento”. Cara comunità studentesca, Magnifica Rettrice, Ministro Bernini, autorità, cara comunità dell’Università di Padova: credo siano evidenti a tutti le profonde contraddizioni della narrazione mediatica intorno al percorso universitario. Ci viene restituito il quadro di una realtà che fa male. Celebrate eccellenze straordinarie facendoci credere che debbano essere ordinarie, facendoci credere che siano normali. Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi, nei propri modi. Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei e vogliamo che tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire, insieme a noi, come attivarsi per rispondere a questa emergenza, ma serve il coraggio di mettere in discussione l’intero sistema merito-centrico e competitivo. Ci viene insegnato che fermarsi significa deludere delle aspettative, sociali e molto spesso familiari. Fermarsi vuol dire rimanere indietro. Ma quand’è che studiare è diventato una gara? Tutto quello che sappiamo è che una vita bella, una vita dignitosa, non ci spetta di diritto, ma è qualcosa che ci dobbiamo meritare [...]. Il mancato raggiungimento di un risultato è da attribuirsi esclusivamente alla colpa del singolo di non essersi “impegnato abbastanza”. Ricordiamoci però che molti degli ostacoli che incontriamo nel nostro percorso accademico sono strutturali e sono, per esempio, non potersi permettere una casa da fuori sede, non poter frequentare le lezioni, non avere una borsa di studio, ed è codardo che si deleghi al singolo studente la responsabilità di trovare un modo per arrivare alla fine del percorso indenne, superando degli ostacoli che è compito delle istituzioni rimuovere. Quest’anno a Padova 2.426 studentesse e studenti avevano diritto a ricevere una Borsa di Studio che non è mai stata erogata. Come possano avere fiducia nel loro Ateneo, nella loro Regione, nel loro Stato, se vedono non rispettato un loro diritto costituzionale, quello di poter studiare? Sono domande che esigono risposta [...]. Queste politiche di disimpegno e trascuratezza colpiscono sempre e solo chi è già condizioni precarie, spesso quegli stessi studenti che non si sono potuti adeguare a un mercato immobiliare che specula sulle carenze del pubblico. Quella abitativa, così come quella economica, sono emergenze, e come tali vanno affrontate [...]. Non godere di un reale diritto allo studio pesa sul percorso universitario, così come insiste sulle nostre spalle la costante competizione corrosiva a cui siamo sottoposti e un ragionamento sul benessere psicologico ancora in fase embrionale, che non fornisce nemmeno a tutte le Università uno sportello di assistenza e ascolto, e che dove è presente lo vede sottofinanziato. Vogliamo lo psicologo di base. E anche se sentiamo solo il contrario, ricordiamoci che non è una sessione o la nostra media a definire chi siamo, ricordiamoci che è legittimo chiedere aiuto e pretendere che ci siano delle strutture adeguate a darcelo. Stare male non deve essere normale. Se però si aspira a proseguire il proprio percorso accademico, è d’obbligo prendere atto di come il nostro Paese considera l’Istruzione e il mondo della Ricerca. Il 55% tra dottorandi e dottorande non riesce a risparmiare nemmeno 100 euro al mese. Una volta conseguito il titolo, ciò che li attende in Italia è l’incertezza. Saltare da un assegno all’altro, senza possibilità di accedere ai basilari diritti dei lavoratori, come maternità e tredicesima [...]. Pochi mesi fa la ministra Bernini riportava alle Camere che sarebbe un contratto lavorativo a limitare la libertà di un ricercatore. Ebbene no: è l’assenza di tutele che limita la libertà, impedendogli di immaginare un progetto di vita stabile nelle attuali condizioni. In questo contesto di precarietà ci viene richiesto di eccellere, con i mezzi a disposizione, qualunque essi siano, dentro e fuori l’Università. Sempre di più, sempre meglio, sempre più veloci, senza arrestarsi mai, nemmeno davanti alle difficoltà. Chi vuole può, giusto? Dobbiamo chiederci se è vero che tutti abbiamo la possibilità di arrivare ovunque e accettare che la risposta, per quanto possa fare paura, è “no” [...]. Ci troviamo davanti un Governo che sceglie deliberatamente di ignorare le grida di allarme dei suoi giovani. [...]. La civiltà e la forza di uno Stato si misurano su come questo tratta chi è messo ai margini dalla società stessa: come osano mentire raccontandoci che non toccheranno il diritto all’aborto? Non avete paura di cosa ne sarà dopo i tre disegni di legge che lo mettono in discussione? Non vi indigna il silenzio delle istituzioni davanti agli 84 suicidi dei detenuti in carcere nel 2022? Oppure che, in questo momento, alla Camera si stia proponendo l’aberrante tentativo di legittimare l’omissione di soccorso? L’accanimento verso gli ultimi e il calpestamento dei diritti civili e sociali sono atteggiamenti che appartengono a uno dei periodi più bui della storia del nostro Paese. Ma dalle sue macerie è nata la nostra Costituzione, costruita sulle fondamenta della democrazia, dell’uguaglianza, della libertà e dell’antifascismo. Principi che oggi dobbiamo al coraggio ed al sacrificio delle giovani generazioni di allora, anche studenti come noi, che si schierarono con coraggio contro l’oppressione del regime [...]. Il presente non è facile e altrettanto avere fiducia nel futuro. Forse la sfida più grande consiste nel non adeguarci al poco che ci viene concesso, pretendendo sempre di più. Possiamo esserne in grado solo mettendo da parte gli individualismi, in un’ottica di solidarietà, “per la fede che ci illumina e per lo sdegno che ci accende”. *Presidente del Consiglio degli studenti dell’Università di Padova La studentessa di Padova: “Stanchi di piangere i nostri coetanei, basta competizione” di Gabriele Fusar Poli e Andrea Pistore Corriere Veneto, 15 febbraio 2023 All’inaugurazione dell’anno accademico il discorso per sensibilizzare sui suicidi: “Studiare non è una gara”. Le sue frasi davanti al ministro Anna Maria Bernini hanno lasciato il segno com’era stato nel maggio del 2022 davanti a Mattarella. “Siamo stanchi” ha detto convinta Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli studenti dell’Università di Padova che lunedì ha appeso a lato del leggio una corona di alloro in memoria di chi è arrivato a compiere gesti estremi quali il suicidio per problemi legati alla carriera universitaria. “Mettetevi a disposizione per capire” - “Siamo stanchi - le sue parole - di piangere i nostri coetanei e vogliamo che tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire, insieme a noi, come attivarsi per rispondere a questa emergenza, ma serve il coraggio di mettere in discussione l’intero sistema meritocentrico e competitivo”. La rappresentante degli studenti padovani ha quindi affrontato a propria volta la tematica del diritto allo studio: “Molti degli ostacoli che incontriamo nel nostro percorso accademico sono strutturali e sono, per esempio, non potersi permettere una casa da fuori sede, non poter frequentare le lezioni o non avere una borsa di studio, ed è codardo che si deleghi al singolo studente la responsabilità di trovare un modo per arrivare alla fine del percorso indenne, superando degli ostacoli che è compito delle istituzioni rimuovere. Quest’anno a Padova 2.426 studentesse e studenti avevano diritto a ricevere una borsa di studio che non è mai stata erogata: mi chiedo come si possa immaginare che vivano serenamente il loro percorso universitario quando la preoccupazione principale diventa come sostenersi economicamente”. Fiducia nell’Ateneo - Ruzzon ha poi proseguito: “Come possano avere fiducia nel loro Ateneo, nella loro Regione, nel loro Stato, se vedono non rispettato un loro diritto costituzionale, quello di poter studiare. Sono domande che esigono risposta, e vorrei porle direttamente a lei, assessora Donazzan (peraltro assente dato in rappresentanza della Regione era presente soltanto Roberto Marcato, ndr) alla luce della mancata copertura delle borse di studio che la nostra Regione reitera da anni, così come da anni non si impegna in una reale azione di residenzialità pubblica studentesca. Queste politiche di disimpegno e trascuratezza colpiscono sempre e solo chi è già condizioni precarie, spesso quegli stessi studenti che non si sono potuti adeguare a un mercato immobiliare che specula sulle carenze del pubblico. Quella abitativa, così come quella economica, sono emergenze, e come tali vanno affrontate. Dal 2018 il nostro Ateneo si è impegnato nell’anticipare i fondi destinati alle borse di studio che la Regione manca di stanziare, dimostrando di riconoscere l’importanza di garantire il diritto allo studio: ci aspettiamo che alla luce dei finanziamenti del Pnrr in arrivo, questo impegno venga nuovamente mantenuto”. Il precedente con Mattarella - A maggio del 2022 la studentessa era già stata protagonista di un discorso rivolto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Come tutti sanno, il motto e il vanto di questo ateneo sono racchiusi nelle parole “Universa universis patavina libertas”. Ovvero: “Tutta intera, per tutti, la libertà nell’Università di Padova”. Però mi chiedo se si possa circoscrivere il concetto di libertà accademica alla sola libertà formale, giuridica e politica di istruirsi e fare ricerca. Forse no, se scienza e ricerca continuano ad essere subalterne a dinamiche di profitto che niente hanno a che vedere con la ricerca stessa”. E ancora: “Forse non è libera l’istruzione in un Paese in cui l’accesso alla carriera universitaria è ancora ad appannaggio di pochi privilegiati, se il nostro è uno dei sistemi di tassazione più alti d’Europa e se, di contro, solo il 29% dei giovani riesce a laurearsi, penultimi nell’Unione”. E infine: “Trenta, cinquant’anni fa, quale futuro vi eravate immaginati per noi? Noi non siamo più il futuro, ma il presente. E se siamo il presente, siamo specchio di un sistema passato che evidentemente non ha funzionato”. Eutanasia. Paola, suicida in Svizzera: il pm chiede l’archiviazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 febbraio 2023 La procura di Bologna scagiona Marco Cappato, Felicetta Maltese e Virginia Fiume. “Un fatto molto importante perché il pm ha accolto la discriminazione tra malati” Paola, suicida in Svizzera: il pm chiede l’archiviazione. Ha impiegato meno di cinque giorni, compreso il weekend, il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato, a formulare la richiesta di archiviazione del fascicolo aperto per l’aiuto fornito a Paola R., una signora bolognese di 89 anni malata irreversibile di Parkinson che l’8 febbraio è morta suicida in una clinica svizzera. Ad autodenunciarsi, il giorno dopo, presso la stazione dei carabinieri di via Vascelli, sono stati tre attivisti dell’associazione Soccorso civile: Marco Cappato, Virginia Fiume e Felicetta Maltese. Una richiesta di archiviazione che è una nuova pietra miliare sulla via del suicidio assistito legale in Italia. È infatti la prima volta che accade da quando l’associazione Luca Coscioni (e la neonata Soccorso civile, che ha già raccolto 17 volontari pronti alla disobbedienza civile) ha iniziato ad aiutare gli aspiranti suicidi che non rientrano nella casistica contemplata dalla Corte costituzionale nella sentenza 242/2019, Cappato/Dj Fabo, non essendo dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, e che dunque non possono ottenere in Italia il suicidio medicalmente assistito. Nulla infatti si è mosso per i casi precedenti: a Milano sono ancora in stand by i fascicoli aperti per l’aiuto a raggiungere la Svizzera fornito da Cappato a Elena e Romano, mentre a Firenze sotto inchiesta per il suicidio di Massimiliano c’è anche Felicetta Maltese. I tre attivisti - Virginia Fiume e Maltese che hanno accompagnato la signora Paola nel suo ultimo viaggio, e Marco Cappato come responsabile legale dell’associazione che ha fornito sostegno economico e procedurale - rischiano da 5 a 12 anni di carcere. “Ci siamo assunti un rischio molto grande - commenta Cappato in una conferenza stampa tenuta ieri online - Non sappiamo se il Gip accoglierà la richiesta della procura ma il fatto di per sé è già molto importante, perché il pm Amato ha accolto pienamente un punto che è alla base della nostra disobbedienza civile: la discriminazione nei confronti di quei pazienti che sono costretti ad andare all’estero in quanto ancora non dipendono da trattamenti di sostegno vitale pur avendo scelto liberamente di porre fine alle sofferenze provocate da malattie terminali come il cancro, il Parkinson e così via”. Spiega l’avvocata Filomena Gallo, coordinatrice del pool di avvocati di Soccorso civile e segretaria nazionale dell’associazione Coscioni, che “il procuratore Amato fa una disamina attenta della decisione 242/2019 della Consulta e riporta anche le sentenze di assoluzione di Cappato e Mina Welby per il suicidio di Davide Trentini emesse dalla Corte d’Assise di Massa nel 2020 e dalla Corte d’Appello di Genova nel 2021”. Nel caso di Trentini, i giudici infatti, ricorda Gallo, “allargarono il concetto di trattamento di sostegno vitale a situazioni ulteriori rispetto al collegamento della persona con un macchinario, includendo anche i farmaci e l’assistenza fornita al malato non autosufficiente”. Dunque la procura di Bologna, che aveva iscritto i tre volontari nel registro degli indagati per istigazione e assistenza al suicidio, assume che la nozione di trattamento di sostegno vitale debba essere intesa “come comprensiva anche di quei trattamenti di tipo farmacologico, interrotti i quali si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida”. E così, continua Gallo, “traendo un’interpretazione costituzionalmente orientata, in forza degli articoli 2, 3, 13 e 32 comma 2 della Carta, il pm giunge in breve a chiedere l’archiviazione”. Ma va anche oltre: il procuratore prospetta il caso che se il Gip non accettasse la sua richiesta, si potrebbe ricorrere alla Corte costituzionale. Ad essere precisi, spiega l’avvocata, “l’archiviazione di questo fascicolo costituirebbe un precedente giurisprudenziale ma che non impedirebbe però ad altri tribunali di giungere a decisioni opposte”, mentre “per far sì che il precedente diventi di portata generale occorre un pronunciamento della Consulta”. Che naturalmente può avvenire a prescindere dalla decisione del Gip di Bologna. “Se il Giudice per le indagini preliminari non accogliesse la richiesta di archiviazione - puntualizza l’avvocata Francesca Re che fa parte del collegio difensivo - ha tre mesi di tempo per fissare l’udienza davanti al Gup”. “Noi - chiosa Gallo - siamo pronti ad andare avanti in qualunque caso: archiviazione, processo, condanna o rinvio alla Consulta”. D’altronde, conclude Cappato, “sono passati ormai quasi cinque anni dalla prima sollecitazione della Corte costituzionale al Parlamento. In assenza di un intervento politico forse è il caso che la Consulta torni sul tema”. Migranti. “Decreto Piantedosi”, oggi l’ok della Camera di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 febbraio 2023 Mediterraneo. Approvata la fiducia. Va convertito in legge entro il 3 marzo. FdI: “Non è vero che vieta di rispondere agli Sos”. Lettera di 66 deputati tedeschi ai colleghi italiani: non rispetta diritto internazionale. La Camera ha approvato la fiducia al “decreto Piantedosi” sulle navi delle Ong con 202 favorevoli, 136 contrari e 4 astenuti. Oggi si terrà il voto finale, poi il provvedimento passerà al Senato. Deve essere convertito in legge entro il 3 marzo. In aula Lega e Forza Italia hanno citato l’ex ministro dell’Interno dem Marco Minniti, sostenendo che la norma si inserisce nel solco del suo operato. M5s e Pd hanno fatto appello ai valori umanitari e cristiani violati da una misura che scoraggia l’aiuto a persone in pericolo. L’unica sorpresa dall’intervento della deputata di Fratelli d’Italia Sara Kelany: “Non è scritto da nessuna parte, come pretestuosamente affermato dalle opposizioni, che se un comandante, mentre fa rotta verso un porto assegnato, si imbatte in altri naufraghi non possa effettuare ulteriori soccorsi”. In realtà, oltre che le opposizioni, su questo punto si sono concentrati giuristi, esperti e autorità internazionali: dal Consiglio d’Europa alla commissione Libertà civili dell’europarlamento, fino ai 66 parlamentari tedeschi di Spd, Verdi e Linke che ieri hanno scritto ai colleghi italiani sostenendo che la norma non rispetta il diritto internazionale. In tutti questi casi le critiche principali hanno riguardato la lettera D dell’articolo 1: la nave deve raggiungere “senza ritardo” il porto assegnato. Si era supposto che stesse lì il divieto di soccorsi multipli promesso dal governo. Anche perché la sua formulazione esplicita era presente nelle bozze ma è sparita dal testo ufficiale del decreto. Troppo alto il rischio di illegittimità. Come illegittimo sarebbe stato applicare le sanzioni previste dalla norma - multe tra 10 e 50mila euro e detenzioni - a navi che hanno risposto ad altri Sos dopo il primo salvataggio. Infatti i prefetti di Napoli e La Spezia non hanno sanzionato le Sea-Eye 4 e Geo Barents per i soccorsi multipli. Se si toglie questa previsione, che sarebbe stata effettivamente innovativa, non si capisce quali nuove regole abbia introdotto il decreto. Informare le autorità sui soccorsi e i naufraghi sulle richieste d’asilo? Avveniva già. Collaborare per l’individuazione dei presunti “scafisti”? Era già un obbligo, se richiesto. Evitare che le modalità di ricerca e soccorso creassero un pericolo la nave? Ovviamente era dovere del comandante anche prima. Avere “certificazioni e documenti” rilasciati dalle competenti autorità di bandiera? È chiaro che senza quei documenti nessuna nave può operare. Parallelamente al decreto, meglio: alcuni giorni prima, il Viminale ha introdotto la prassi di spedire le navi Ong a centinaia di chilometri appena terminato il primo salvataggio. Prassi indipendente dalla norma che, questa sì, costituisce un grosso ostacolo per i soccorritori: ogni volta li taglia fuori per molti giorni dall’area di intervento. Al momento delle tre navi che erano in missione resta solo la Life Support di Emergency. La Geo Barents è stata mandata ad Ancona con 49 persone e la Ocean Viking a Ravenna con 84. Non arriveranno prima del fine settimana. Migranti. 65 parlamentari tedeschi all’Italia: “Fermate il decreto Piantedosi, viola il diritto del mare” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 febbraio 2023 Domani il testo va al voto finale alla Camera con la fiducia posta dal governo. La lettera di alcuni membri del Bundestag: “La norma riduce le capacità di salvataggio nel Mediterraneo in modo consistente”. Dopo la lettera della commissaria del Consiglio d’Europa Mijatovic e l’appello del presidente della commissione libertà civili e immigrazione della Ue, dall’Europa arriva un altro appello al Parlamento italiano a non approvare il decreto Piantedosi, che proprio domani va al voto finale alla Camera con la fiducia posta dal governo. Oggi sono 65 deputati del Parlamento tedesco a intervenire con una lettera, chiedendo ai colleghi italiani di non approvare il decreto anti Ong senza alcune modifiche ritenute necessarie. Nella lettera, scritta su iniziativa di Julian Pahlke dei Verdi e di Hakan Demir dell’Spd, i parlamentari si dicono “preoccupati” e chiedono ai colleghi italiani di “battersi per il rispetto senza riserve del diritto internazionale”. Secondo i tedeschi l’assegnazione del porto subito dopo il primo salvataggio delle navi Ong “riduce le capacità di salvataggio nel Mediterraneo in modo consistente e comporta che i salvataggi vengano rallentati o che non si facciano proprio, viola il diritto internazionale del mare, le prescrizioni internazionali sui diritti umani e il diritto europeo secondario”. Un appello al Parlamento a non convertire in legge il decreto Piantedosi arriva anche dalle Ong e dalle associazioni che compongono il Tavolo Asilo: “L’Italia - dicono - deve garantire una maggiore tutela dei diritti delle persone in cerca di protezione e non ostacolare chi salva le persone che rischiano di morire in mare”. Bevande alcoliche, linee guida e alert sanitari di Franca Beccaria Il Manifesto, 15 febbraio 2023 La Commissione Europea ha dato il via libera all’introduzione in Irlanda delle etichette che avvertono il consumatore sui rischi legati al consumo di bevande alcoliche. Tornerò più avanti sulla questione etichette che, confesso, non mi appassiona in modo particolare. Ciò che invece sta attirando la mia attenzione sono i toni terroristici sui rischi del basso o moderato consumo. È ormai consolidato a livello scientifico che il rischio zero non esiste, e io non intendo assolutamente mettere in discussione questo assunto. Le mie perplessità stanno invece tutte nei toni e nei contenuti della comunicazione sui rischi. Quante sono le attività rischiose nella nostra vita? Salire in auto la mattina, sciare, vivere o lavorare a Torino e respirare ogni giorno l’aria di una delle città più inquinate d’Italia? Quanti i rischi di sviluppare malattie importanti, come il cancro, legati alle bevande gassate, cibi processati, carne? Possiamo immaginare una società i cui tutti i prodotti siano identificati con warning più o meno terrificanti? Quando il mio treno entra in stazione a Torino, la voce gentile del conduttore dovrebbe salutarmi così: “Ben arrivata a Torino, ricordati di indossare la mascherina oppure respira di meno perché rischi di contrarre il cancro”? Nel dibattito in corso, gli esperti fanno a gara a elencare i danni che l’alcol può provocare all’uomo, in una rincorsa a chi fa più citazioni dotte. Sono andata alla fonte a leggerne alcune. L’affermazione “l’alcol danneggia il cervello” è suffragata da uno studio inglese che ha rilevato gli effetti che il consumo di bevande alcoliche ha sul volume cerebrale e sulla microstruttura della materia bianca. Lo studio evidenzia come anche un consumo basso o moderato riduca la massa cerebrale, ma nessuno degli autorevoli esperti entra nel dettaglio dei risultati: rispetto al cervello di un astemio di cinquant’anni, chi consuma un bicchiere al giorno ha un cervello invecchiato di 6 mesi e di 2 anni se i bicchieri sono due. Questa informazione è cruciale. Quanto per me sono importanti 6 mesi di “invecchiamento” in più? E come si concilia tutto ciò con le evidenze scientifiche sulla riduzione dei rischi di demenza tra i bevitori moderati? L’altro rischio riguarda la cancerogenicità dell’alcol. È ormai assodato che non esista una soglia di sicurezza. Ma come trattiamo in termini di comunicazione il rischio infinitesimale? Uno studio ha stimato il numero di tumori causati in Europa ogni anno dal consumo basso e moderato di alcol: due bicchieri al giorno provocherebbero lo 0,62% di tutti i tumori. È un rischio accettabile? Nessuno si interroga però sugli effetti che una ridondanza di messaggi terroristici sui rischi può avere sulla vita sociale e relazionale delle persone. Mangiare e bere non sono azioni che si compiono in un vacuum, ma sono azioni fortemente sociali. Se prendiamo dunque in considerazione tutti gli aspetti legati al bere, i rischi e il piacere che un bicchiere di vino o un boccale di birra possono dare per il gusto o per il contesto di consumo, credo non siamo in grado a oggi di dire da che parte penda la bilancia. Ciò che possiamo fare è prendere atto che la bilancia è composta dai due piatti ed evitare di essere strabici e dunque di vederne solo uno. Eccomi così arrivata all’appassionante dibattito che sta mobilitando le lobby per la difesa del nostro prodotto nazionale di eccellenza, il vino. Personalmente non avrei difficoltà ad accettare alcune avvertenze e penso che neppure molti produttori siano nel profondo contrari. Tuttavia, visto che le evidenze sull’efficacia delle warning labels sono deboli, sarei propensa ad affiancare a etichette informative un messaggio meno terroristico: “Se ti fa piacere bere, bevi meno e meglio”. Oms: “Un detenuto su tre in Europa soffre di disturbi mentali” quotidianosanita.it, 15 febbraio 2023 “Il suicidio è la causa di morte più comune tra la popolazione carceraria”. Lo rilevano i dati del nuovo rapporto presentato oggi sullo stato della salute carceraria che ha monitorato la situazione di oltre 600mila carcerati nella Regione Europea dell’Oms. Il rapporto ha richiamato l’attenzione su diverse aree di preoccupazione, tra cui il sovraffollamento e la mancanza di servizi per la salute mentale, che rappresenta per l’appunto il più grande bisogno di salute tra le persone in carcere in tutta la regione. L’Oms Europa ha lanciato oggi il suo secondo “Rapporto sullo stato della salute carceraria nella regione europea dell’OMS” in occasione di un evento ospitato dal governo portoghese. Il rapporto fornisce una panoramica delle prestazioni dei sistemi sanitari penitenziari nella Regione sulla base dei dati del sondaggio di 36 paesi. I dati mostrano che la risposta dei paesi al COVID-19 nelle carceri è stata generalmente buona, tuttavia, evidenzia anche aree di preoccupazione, tra cui il sovraffollamento e la mancanza di servizi per la salute mentale, che rappresenta il maggior bisogno di salute tra le persone in carcere in tutto il mondo Regione. L’indagine, condotta nel 2021, ha uno sguardo retrospettivo sull’anno precedente. Di seguito sono riportati i principali risultati del rapporto. Nel 2020, un totale di 613.497 persone (il numero include persone non condannate e condannate che sono detenute in carcere) sono state incarcerate nei 36 paesi esaminati. Ciò mostra un calo di circa il 6,6% rispetto al 2019, dovuto principalmente alle misure COVID-19. La quota di persone non condannate in carcere è aumentata nel 2020, probabilmente anche a causa della pandemia di COVID-19. La condizione più diffusa tra i detenuti sono i disturbi mentali, che colpiscono il 32,8% della popolazione carceraria. Questa cifra probabilmente rappresenta una significativa sottostima poiché la maggior parte delle malattie non trasmissibili è stata registrata in modo inadeguato e le stime erano inferiori al previsto. Meno della metà dei paesi intervistati ha fornito dati. La causa più comune di morte nelle carceri è stato il suicidio, con un tasso molto più alto che nella comunità più ampia. La continuità delle cure richiede maggiori investimenti, con solo la metà degli Stati membri che garantisce l’accesso ai servizi sanitari di comunità alle persone in uscita dal carcere. La risposta complessiva al COVID-19 nelle carceri di tutta la regione è stata buona, con vaccini offerti universalmente in tutti gli Stati membri e l’isolamento dei casi di COVID-19 nella maggior parte delle carceri. Uno Stato membro su cinque ha segnalato il sovraffollamento, che ha varie conseguenze negative per la salute. Anche per questo dovrebbero essere prese in considerazione misure alternative non detentive per i reati che non presentano un rischio elevato per la società e laddove esistano misure più efficaci, come la deviazione verso il trattamento dei disturbi da uso di stupefacenti. Persistevano carenze nei servizi di prevenzione, compreso l’accesso alla vaccinazione. Il 16,7% degli Stati membri non ha offerto la vaccinazione contro l’epatite B o la difterite-tetano-pertosse (DTP) in nessuna prigione, entrambe raccomandate per tutte le persone che entrano in carcere. “Le carceri sono integrate nelle comunità e gli investimenti effettuati nella salute delle persone in carcere diventano un dividendo della comunità “, ha affermato il dott. Hans Henri P. Kluge, direttore regionale dell’ufficio regionale dell’OMS per l’Europa aggiungendo che “l’incarcerazione non dovrebbe mai diventare una condanna al peggioramento della salute” e che “tutti i cittadini hanno diritto a un’assistenza sanitaria di buona qualità indipendentemente dal loro status legale. “Quando le carceri sono escluse dal sistema sanitario generale, le comunità locali possono essere le più colpite”, ha ammonito il dott. Kluge. Alternative necessarie - Carina Ferreira-Borges, consulente regionale dell’OMS per alcol, droghe illecite e salute carceraria, ha affermato che “sostenere le persone rilasciate dal carcere per reintegrarsi nella comunità e accedere ai servizi sanitari può ridurre la probabilità di recidiva”. “La questione del sovraffollamento nelle carceri, evidente in questo rapporto, è un importante promemoria della nostra eccessiva dipendenza dall’incarcerazione e della necessità di alternative”, ha affermato. “I ministeri della salute svolgono un ruolo fondamentale nella protezione del diritto umano fondamentale alla salute. Questo rapporto - ha aggiunto Ferreira-Borges - evidenzia il valore di un approccio incentrato sulla salute e sui diritti umani nel trattare con i criminali, fornendo importanti spunti sui passi specifici che possono essere adottati per migliorare i nostri sistemi, per le persone in carcere e per tutta la società”. Eva Kaili e il trattamento delle detenute con figli. Come funziona in Europa di Sara Tirrito* Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2023 Dalle lacune del Belgio all’eccellenza della Germania. Giovedì 16 febbraio l’udienza sui domiciliari per l’ex vicepresidente del Parlamento Ue finita al centro dello scandalo mazzette da Qatar e Marocco. La politica greca denuncia di aver potuto vedere poche volte la figlia. L’analisi della situazione belga e il confronto con gli altri Paesi. Su carceri e figli di persone detenute l’Unione europea non ha soluzioni uniformi. Lo dimostra il caso di Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento Ue finita al centro dello scandalo delle mazzette da Qatar e Marocco, che ha denunciato di aver visto la bambina di due anni soltanto due volte, a gennaio. Secondo la legge belga, la politica belga avrebbe potuto tenerla con sé in prigione fin dall’inizio. Kaili però chiede misure alternative alla custodia in carcere, che in Belgio significa braccialetto elettronico, finora negato: giovedì 16 febbraio ci sarà una nuova udienza e la difesa avanzerà di nuovo la richiesta di domiciliari. Il problema è che nel sistema belga mancano strutture adeguate a tutelare sia le esigenze giudiziarie che il rapporto mamma-bambino. La situazione è simile in tutta Europa, con punte di eccellenza in Germania, dove esistono prigioni aperte attrezzate per l’infanzia. All’opposto la Grecia: qui c’è un solo istituto per detenute con figli piccoli ed è un carcere standard. Convenzioni europee tracciano linee guida sui genitori reclusi, ma sono raccomandazioni, non leggi. E l’Italia è l’unico Paese ad avere una carta nazionale sul tema. Come funziona in Belgio - “Un bambino entra in prigione quando non ci sono alternative”, spiega a ilfattoquotidiano.it Maurice Jansen, responsabile di Relais enfants parents (Rep), associazione non profit belga che tutela il legame detenuti-figli. Si esamina il contesto familiare, la posizione di entrambi i genitori, l’età infantile, la presenza di altri fratelli e le possibilità abitative. Se nessun’altra soluzione è praticabile, il minore finisce in carcere. Quello di Haren, dov’è detenuta Kaili, “non è concepito per accogliere bambini - dice Jansen - ma può farlo”. Chi decide di tenere suo figlio all’esterno, invece, deve rispettare i regolamenti sui colloqui. La norma federale della Vallonia ne prevede cinque a settimana per chi è in custodia cautelare, tre per i condannati. In più, in 11 prigioni del Belgio, tra cui Haren, la rete Rep organizza almeno due visite al mese in spazi ad hoc per i bimbi. Questi colloqui, però, hanno un iter burocratico lungo. “Spesso - dice Jansen - passa del tempo prima che un detenuto in custodia cautelare faccia richiesta. Di solito spera di uscire presto e non vuole che i bambini vadano a trovarlo in carcere”. A ostacolare le procedure sono anche le difficoltà quotidiane, come gli scioperi che da ottobre a gennaio hanno coinvolto il sistema carcerario: “Erano organizzati di mercoledì - dice Jansen - giorno di incontri genitore-bambino, e questo ha generato ritardi nelle pratiche”. Tra le domande rallentate potrebbe esserci quella di Kaili, che lamenta di aver visto la figlia quasi un mese dopo l’entrata in prigione. Un periodo lungo, contestato anche da associazioni come Children of prisoners of Europe (Cope), che monitora i diritti dei figli di detenuti in Ue. “Non è stata rispettata la Raccomandazione del Consiglio d’Europa” denuncia Cope in un comunicato. Si riferisce a un documento siglato nel 2018 anche dal Belgio, per cui “I bambini dovrebbero far visita a un genitore detenuto entro una settimana dall’ingresso in carcere e, su base regolare e frequente da quel momento in poi” (art. 17). Tuttavia, se in Belgio esistessero istituti adatti a madri con figli, i giudici potrebbero mandare Kaili fuori prigione senza rischi per le indagini. L’unico carcere abituato a ricevere bambini è a Lantin, a una decina di chilometri Liegi. Ma è un penitenziario femminile con celle standard riadattate per l’infanzia. Come funziona in Italia - Per la legge 62/2011, in Italia un genitore con figli da zero a sei anni non dovrebbe mai andare in carcere, tranne per “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. La misura prevista sarebbe la casa famiglia protetta o - per i reati gravi - l’Istituto a custodia attenuata per madri (Icam). Per anni questa norma è stata disattesa, assegnando di default alle sezioni nido delle carceri femminili le madri con figli fino ai tre anni, a prescindere dal reato commesso. Dal 2018 la sensibilità è cambiata e oggi è in corso una riforma che esclude quasi del tutto la detenzione in carcere. Si preferiscono gli Icam, strutture penitenziarie a tutti gli effetti ma con spazi e sorveglianza concepiti per attenuare l’impatto dei bambini con il carcere. In Italia sono cinque: a Torino, Milano, Venezia, Lauro e Cagliari. L’assegnazione a case protette finora è più rara, anche perché ne esistono due, a Milano e Roma, gestite da privati. Esclusi gli ospiti delle strutture protette, che non rientrano nel circuito penitenziario, sono 17 i minori al seguito di madri detenute secondo l’ultimo dato ministeriale, aggiornato al 31 gennaio 2023. Vivono tutti in Icam, tranne uno nella sezione nido di Rebibbia. Più numerosi i minori che dall’esterno incontrano i genitori detenuti, almeno 100mila all’anno. Per loro, dal 2014 il Ministero della Giustizia riconosce la Carta nazionale dei diritti dei figli di genitori detenuti, che si basa sulla Convenzione Onu per i diritti dei minori (1989) e ha ispirato le Raccomandazioni europee. Non è vincolante sul piano giuridico, ma osservata quasi al pari di una legge. Rinnovata periodicamente (l’ultima volta nel dicembre 2021), a volerla è stata soprattutto l’associazione Bambini senza sbarre, che insieme a Cope ha portato il testo al Consiglio d’Europa. “Ogni giorno in carcere entrano migliaia di bambini per mantenere un legame strutturante con i genitori - spiega a ilfattoquotidiano.it Lia Sacerdote, presidente di Bambini senza sbarre e promotrice del documento - Nessuno pensa che quando un adulto è in carcere c’è una conseguenza diretta sulla sua famiglia. Con la Carta, i loro bisogni fondamentali diventano diritti”. Nel resto dell’Ue - Secondo le Raccomandazioni della Commissione europea sui diritti dei detenuti, approvate l’8 dicembre 2022, tutti i Paesi Ue dovrebbero prevedere “un’infrastruttura speciale e prendere misure ragionevoli a favore dei bambini, per garantire loro salute e benessere” per il periodo in cui sono in carcere col genitore (art. 66). Nella realtà, se è vero che ovunque in Europa è concesso l’ingresso dei bambini in carcere con la madre fino ai tre anni di età, c’è un divario enorme nella possibilità da parte dei giudici di scegliere misure attenuate o alternative. Germania - È forse il Paese meglio attrezzato, con nove strutture per l’accoglienza di madri detenute con figli. La più importante è a Vechta, nella Bassa Sassonia. Aperta nel 1997, fa capo al sistema penitenziario ed è divisa in due parti: una risponde alle logiche dell’esecuzione della pena definitiva e accoglie bambini entro i tre anni, l’altra ospita donne in regime di semilibertà con bambini fino a sei anni. La struttura di Vechta è particolarmente attenta ad affiancare le madri anche una volta fuori in modo che vengano accompagnate nell’inserimento lavorativo. Durante la reclusione, i nuclei mamma-bambino sono seguiti da un educatore responsabile, il supporto è continuo e ogni sei mesi gli assistenti sociali redigono un rapporto sul comportamento madre-figlio. Il personale penitenziario ha requisiti specifici e viene formato anche a gestire le questioni educative e domestiche. Spagna - A ospitare le donne in misura alternativa è per lo più la struttura di Nuevo Futuro. Si trova a Madrid e può accogliere fino a 55 madri con 66 bambini in totale. È paragonabile alle case protette italiane: regime aperto, vita simile a quella reale, con libertà per spesa, pasti e uscite. Le detenute osservano un regolamento interno e le donne arrivano dietro provvedimento di un magistrato che dispone eventuali limiti. La differenza, grande, rispetto all’Italia è che il personale è composto da educatori dell’Istituto penitenziario, e un assistente sociale fa una visita almeno ogni 15 giorni. Le donne possono anche lavorare o studiare, mentre i bambini sono seguiti da operatori. Francia - Non ci sono strutture esterne per l’accoglienza di detenute madri con figli. Sono 25 le carceri abilitate ad accogliere i nuclei mamma-bambino, con una capacità totale di 66 posti. Si tratta di sezioni nido interne ai penitenziari, equipaggiate in modo da essere confortevoli per i bambini ma senza sostanziali differenze con il carcere ordinario. Gli accorgimenti riguardano le basi: acqua calda nelle celle, separazione tra spazio della madre e quello del bambino, apertura delle porte durante il giorno, ampiezza minima di 15 metri quadri. Grecia - È tra i paesi più arretrati sui diritti delle donne detenute, incluse le madri. Lo dimostra il numero di carceri femminili: due in tutto il Paese. Le case protette non esistono. Secondo l’ordinamento greco, chi intende portare con sé i figli al di sotto dei tre anni è condotta nel penitenziario di Eleonas, a Tebe. Questo implica quasi sempre l’allontanamento da casa, il che rende più difficile mantenere i legami con i propri familiari, uno dei principi su cui si basa il sistema penitenziario mondiale. Nel mondo - A stabilire gli standard minimi per il trattamento delle madri detenute in tutto il mondo sono le Regole di Bangkok (Bangkok rules). Settanta norme approvate nel 2010 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite e racchiuse in un documento che rappresenta l’unico strumento internazionale sui bambini in carcere con i genitori. Secondo questa carta, gli istituti dovrebbero prevedere servizi specifici per le detenute con figli al seguito (regole 40-56) e prediligere sempre misure non detentive tranne in caso di reati gravi (regola 64). La gravità del reato però è sempre valutata dai giudici, che devono fare i conti con la mancanza strutture detentive adatte a bambini. *Sociologa, istituto di ricerca Eclectica La riforma della giustizia in Israele, spiegata di Luca Sofri ilpost.it, 15 febbraio 2023 La proposta del governo di Netanyahu contro cui ci sono proteste da settimane toglierebbe poteri alla Corte suprema e secondo i critici sarebbe un pericolo per la democrazia. Da settimane migliaia di persone in Israele protestano contro la riforma del sistema giudiziario proposta dal nuovo governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, il più di destra della storia di Israele. I manifestanti sostengono che la riforma, che toglie poteri di controllo alla Corte suprema per affidarli al governo, sia un pericolo per la democrazia israeliana, perché di fatto elimina ogni contrappeso al potere del governo in carica. Il governo e i suoi sostenitori, al contrario, sostengono che la riforma sia un necessario ribilanciamento dei poteri dello stato, che negli ultimi decenni avrebbero favorito eccessivamente il potere giudiziario, e in particolare avrebbero amplificato troppo la capacità d’intervento della Corte suprema in diversi ambiti. Le proteste vanno avanti da tempo: lunedì a Gerusalemme hanno protestato circa 100 mila persone, e la manifestazione è considerata particolarmente importante sia perché si è tenuta in un giorno infrasettimanale (le manifestazioni precedenti erano state tutte di sabato) sia perché si è tenuta a Gerusalemme, dove sono molto forti i conservatori e i fondamentalisti religiosi ebraici. In precedenza le proteste più grosse erano state a Tel Aviv, la città più laica del paese. La riforma è stata presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin, e all’interno del governo è sostenuta sia dai partiti della destra nazionalista laica, come il Likud di Netanyahu e dello stesso Levin, sia dai partiti ultraortodossi. Entrambi i gruppi hanno ragioni per essere scontenti delle decisioni della Corte suprema. Netanyahu è in questo momento è sotto processo per corruzione e altri reati, e ritiene che le accuse contro di lui siano politicamente motivate. Gli ultraortodossi invece accusano la Corte di limitare le loro libertà religiose, perché negli anni avrebbe cercato di limitare le numerose esenzioni e i privilegi di cui godono. Per esempio, il servizio militare è obbligatorio per tutti i cittadini israeliani, maschi e femmine, ma non per gli ultraortodossi. La Corte suprema ha un ruolo eccezionalmente importante nella vita politica di Israele perché il paese non ha una costituzione (ha tuttavia una serie di Leggi fondamentali che sanciscono i diritti individuali e le relazioni tra cittadini e stato) e ha relativamente pochi contrappesi al potere del governo in carica al momento. Per esempio il parlamento è unicamerale, cosa che impedisce la dialettica tra camera alta e camera bassa che esiste in molte democrazie, e il presidente di Israele ha ancora meno poteri che negli altri sistemi parlamentari: il presidente non può mettere il veto alle leggi approvate dal parlamento e non può “rimandare una legge alle camere”, come può fare in alcune occasioni particolari il presidente della Repubblica italiana. Per questo soprattutto a partire dagli anni Novanta (anche grazie a una serie di riforme giudiziarie approvate al tempo proprio dal Likud) la Corte suprema israeliana ha assunto il ruolo di principale contrappeso al potere esecutivo, con una serie di sentenze che le hanno dato il potere di abolire qualunque legge approvata dalla Knesset, cioè il parlamento israeliano. Attualmente, la Corte suprema non si limita soltanto ad abolire le leggi che sono contrarie alle Leggi fondamentali, come fa per esempio la Corte costituzionale italiana, ma ha il potere di abolire qualunque legge. Questo potere, inoltre, si estende ai provvedimenti amministrativi del governo e degli altri enti. Questo avviene sulla base della cosiddetta “clausola di ragionevolezza”: se i giudici della Corte suprema ritengono che un provvedimento sia in qualche modo “irragionevole”, lo possono abolire senza che il parlamento possa fare niente per intervenire. È successo anche di recente, quando la Corte ha fatto dimettere dal suo incarico da ministro Arye Deri, il leader del partito ultraortodosso Shas che era stato nominato da Netanyahu ministro dell’Interno e della Salute. Nel gennaio del 2022 Deri era stato processato per evasione fiscale, ed era riuscito a evitare una condanna (che probabilmente avrebbe compreso un’interdizione dai pubblici uffici per 7 anni) grazie a un patteggiamento con sospensione della pena. Allora, Dery aveva fatto credere al tribunale che lo stava giudicando che si sarebbe ritirato dalla vita pubblica, ma non è avvenuto. Per questo, il mese scorso la Corte suprema ha usato la “clausola di ragionevolezza” e ha decretato che fosse “irragionevole agli estremi” che Deri mantenesse il suo posto al governo. Il ministro si è dimesso qualche giorno dopo. La riforma - Semplificando alcuni passaggi, la proposta di riforma del sistema giudiziario voluta dal governo ha due elementi principali. Il primo elemento è un profondo cambiamento delle modalità di nomina dei giudici. Attualmente tutti i giudici del paese, sia quelli della Corte suprema sia quelli delle corti inferiori, sono selezionati da una commissione composta da nove membri di cui soltanto quattro, cioè la minoranza, sono scelti dal governo (i membri della commissione sono: tre giudici della Corte suprema stessa, due rappresentanti dell’associazione forense israeliana, due membri del parlamento e due ministri del governo). Il governo vorrebbe portare a 11 i membri della commissione che seleziona i nuovi giudici, e portare a otto i membri di nomina politica. In questo modo, il governo avrebbe il dominio totale delle nomine, sia dei giudici della Corte suprema sia dei giudici delle corti inferiori. Il secondo elemento importante della riforma colpisce il potere della Corte di abolire le leggi approvate dal parlamento. Anzitutto, il governo vorrebbe eliminare la “clausola di ragionevolezza”, lasciando alla Corte suprema il compito di esaminare esclusivamente se una legge è aderente o meno ai princìpi espressi dalle Leggi fondamentali. Il governo Netanyahu vorrebbe poi indebolire anche questo potere residuo, dando al parlamento la facoltà di annullare le decisioni della Corte suprema. Funzionerebbe così: se la Corte suprema decide di annullare una legge approvata dal parlamento, il parlamento può votare di nuovo per ignorare la decisione della Corte suprema e mantenere la validità della legge. Basta un voto a maggioranza semplice e la sentenza della Corte suprema può essere ignorata. È stata in particolare quest’ultima proposta a preoccupare l’opposizione e parte della società civile, che ritiene che in questo modo la Corte suprema finirebbe assoggettata al controllo politico. Questo, dicono i critici, sarebbe un danno enorme per la democrazia in Israele. Cosa se ne dice - Non soltanto l’opposizione è contraria alla riforma del sistema giudiziario del governo di Netanyahu, ma la maggior parte degli esperti legali ritiene che la legge sia un potenziale pericolo per la democrazia. Di recente anche il presidente di Israele Isaac Herzog ha detto che la riforma provoca “gravi preoccupazioni per gli impatti negativi sulle fondamenta democratiche dello stato di Israele” e ha chiesto che le forze politiche facciano una pausa nei lavori parlamentari per consentire una più ampia discussione all’interno della società su come riformare la giustizia nel paese. Le forze politiche di governo però l’hanno ignorato, e il percorso legislativo della riforma sta proseguendo. Che in questo momento la Corte suprema israeliana abbia poteri probabilmente eccessivi e che abbia un ruolo molto interventista nella vita politica del paese è una considerazione condivisa non soltanto dalla destra nazionalista e dagli ultraortodossi al governo, ma anche dalle forze di centro e di sinistra che compongono l’opposizione. La gran parte delle forze politiche in Israele ritiene che attualmente ci sia uno squilibrio di poteri che favorisce il sistema giudiziario. Il problema, dicono i critici, è che la soluzione proposta dal governo di Netanyahu finirebbe per creare un nuovo squilibrio, potenzialmente più pericoloso: da un sistema in cui la Corte suprema ha troppi poteri, si passerebbe a un sistema in cui la maggioranza al governo è decisamente dominante, e soprattutto non avrebbe più nessun limite e contrappeso. Se fosse approvata la riforma, una volta che il parlamento ha approvato una legge non ci sarebbe più nessun organo superiore che ne sorveglia l’operato e che, eventualmente, avrebbe il potere di correggere gli errori e le storture, come avviene nella maggior parte dei paesi democratici.