“Entrai in carcere a 10 giorni, ne sono uscito dopo 20 anni” di Stefano Lorenzetto Corriere della Sera, 14 febbraio 2023 Lorenzo S., l’autore di “Io ero il Milanese”, ispirato all’omonimo podcast Rai di Mauro Pescio: “Oggi mi occupo di giustizia riparativa”. A 12 anni la prima rapina. In tutto almeno 25 processi. “Sono stato in 14 prigioni. Mai viste le tombe dei miei genitori e di mio figlio”. Non è da tutti finire in galera a 10 giorni dalla nascita. A Lorenzo S. capitò questa sventura nell’ottobre 1976. Fra le braccia della madre A., varcò il cancello del carcere milanese di San Vittore, dov’era recluso D., che aveva messo incinta la donna poco prima di finire arrestato per due rapine in banca. Il padre di Lorenzo avrebbe trascorso lì dentro i successivi 10 anni e imparato la lezione: uscito di prigione, si guadagnò da vivere onestamente come robivecchi per il resto della vita. Ora, che altro poteva fare, quel frugoletto, se non seguire le orme del genitore? Lorenzo aveva appena 12 anni quando compì la sua prima rapina; ne aveva 14 quando cominciò a rubare le Fiat 500 usando le chiavette apriscatole della carne Simmenthal; ne aveva 15 quando finì al Beccaria, istituto penale per minorenni. Uscitone dopo un anno e 10 mesi, era pronto per una carriera criminale che lo fece diventare il Milanese e al cui confronto quella paterna sbiadisce: un numero imprecisato di rapine, 5 arresti, almeno 25 processi e altrettante condanne (“dovrei vedere il certificato del casellario giudiziale, ma l’ho sepolto in cantina”), per un totale di 57 anni e 6 mesi di reclusione, che in Italia non si possono neppure scontare per intero, giacché la pena massima, se non scatta l’ergastolo ostativo, si ferma a 30 anni. Lorenzo S. oggi è un uomo libero. Ha soggiornato nelle carceri di Milano, Cuneo, Alba, Novara, Matera, Alessandria, Catania, Bari, Piacenza, Bologna, Ravenna, Ferrara, Torino. Al Due Palazzi di Padova ha trovato la sua redenzione, quella che ne ha fatto un mediatore penale e sociale esperto in giustizia riparativa, narrata nel libro Io ero il Milanese (Mondadori), appena uscito, e ben compendiata da un brano dell’evangelista Giovanni in quarta di copertina, benché lui si dichiari ateo: “La luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno mai vinta”. Lo ha scritto con Mauro Pescio, autore e attore che ne aveva tratto un podcast di successo in 14 puntate per Rai Play Sound. Il Due Palazzi come luogo di riscatto... “Veramente ci ho conosciuto il serial killer Donato Bilancia, e il capo delle Bestie di Satana, Nicola Sapone, condannato a due ergastoli, e Alberto Savi, uno dei fratelli della Uno bianca, la banda che uccise 24 persone e ne ferì 102”. In quel carcere il cappellano è don Marco Pozza, amico di papa Francesco. “Nella mia cella non è mai entrato”. Dov’è nato? “Al Giambellino, a Milano. Vedevo mio padre a San Vittore un’ora a settimana, quattro volte al mese. Mi aveva fatto credere che era elettricista là dentro”. Chi le disse la verità? “Pino, suo fratello. Aveva avuto anche lui guai con la giustizia. Piansi fino a sera. Mi sentivo tradito. Mia madre faceva le pulizie, lo zio ci aiutava economicamente. Mi mise nel Convitto nazionale Longone. I compagni di classe m’indicavano la prigione dalle finestre e ridevano: “Ecco dov’è rinchiuso tuo papà”. Ma poi suo padre uscì... “Non è che ne gioii. In casa spadroneggiava, ficcava il naso in camera mia, mi vietava di giocare per strada. Ci portò a vivere nella sua città natale, Catania, dove al rione Librino scoprii di avere tre fratelli nati dalla relazione con un’altra donna. Il primo aveva 7 anni più di me. Legai con Giovanni, quasi mio coetaneo. Fu lui a ribattezzarmi il Milanese. Nei quartieri malfamati, da San Cristoforo a San Berillo, ho tuttora quel nomignolo”. Giovanni la avviò al crimine... “Rapinammo 80.000 lire a un fruttivendolo. Ma prima rubammo un go-kart: avevamo sentito che serve un’auto per la fuga... Quella stessa sera, il negoziante si presentò a casa nostra. Mio padre gli restituì i soldi e mi massacrò di botte. Mi ritrovai a testa in giù, tenuto per i piedi”. Che ne aveva fatto del malloppo? “Magliette e scarpe Nike. Per la prima volta in vita mia mi ero sentito ricco”. Ma non aveva paura? “Non del carcere. Eravamo protetti dal casco, niente pistole. Lei deve capire che il 99,9 per cento del successo di un colpo sta nell’intenzione. Mi è capitato di compiere rapine armato solo di una penna”. La scuola non la frequentava? “Finsi di andarci fino ai 14 anni. In terza media fui bocciato. Se oggi ho un diploma di ragioniere, lo devo alla prigione. Vorrei laurearmi in giurisprudenza”. Quindi rapinava anziché studiare. “Esatto. Quattro diciottenni catanesi mi proposero un colpo a Milano: “Ti diamo 1 milione se fai l’apertura”. In gergo, è il momento in cui un incensurato a volto scoperto grida: “Questa è una rapina”. Salimmo al Nord in auto. Assaltammo un’agenzia Cariplo al Lorenteggio. La targa era probabilmente segnalata perché fummo subito beccati. Io finii al Beccaria e gli altri, che si erano appena spartiti un’ottantina di milioni, a San Vittore”. Nel frattempo aveva conosciuto Teresa, la sua prima ragazza. “A 13 anni. I genitori e i 10 fratelli mi vedevano come la peste, perciò facemmo la fuitina. Si rassegnarono a lasciarci vivere in una casa popolare occupata. Nacque Salvuccio. La prima volta che lo abbracciai aveva già 30 giorni. Mia madre me lo portava in carcere, da Catania a Milano, due volte al mese. Gli sono stato accanto per meno del 10 per cento della sua breve vita. Sentivo che mi voleva bene, ma io ero capace di soddisfare solo le sue esigenze materiali e poi sparivo. A 8 anni fu colpito da un tumore al cervelletto, a 13 era già morto”. Mi spiace. E Teresa che fine ha fatto? “Mi tradì mentre ero in galera”. Quindi la lasciò. Altre donne? “Valeria, estetista, l’amante storica. Giorgia, volontaria conosciuta in carcere a Padova: l’ho mollata nel 2019, ma resta la mia migliore amica. Da un anno e mezzo ho una compagna che mi ha dato una figlia. Non mi sono mai sposato. Presto provvederà Mauro Pescio, il coautore del libro, a celebrare le nozze civili”. Che armi usava nei colpi in banca? “Revolver. Smith & Wesson 38 special e 357 Magnum, comprate per 100.000 lire in una sala giochi di Catania. Mi allenavo al tiro sui terrazzi dei falansteri del Librino, progettati da Kenzo Tange”. Era pronto a uccidere? “Non volevo farmi arrestare”. Quindi sì o no? “Forse no, sa? Ero pronto a morire”. Come spendeva i soldi delle rapine? “Puttane. Night. Champagne Dom Pérignon e Cristal Roederer. Una Bmw 530. Moto Kawasaki Ninja e Honda Hornet. Mi chiamavano “il bandito che veste Armani”. Negli assalti indossavo completi neri dello stilista, di lino in estate”. Investire i soldi e rifarsi una vita, no? “Ero dipendente dal denaro. Uscivo di casa con 1.000 euro. Se me ne restavano in tasca solo 500, dovevo tornare indietro a prenderne altri 500. E poi c’era l’adrenalina del rischio, quella che mi ha tenuto lontano da eroina e cocaina”. Allora perché suo padre smise? “Vorrei tanto chiederglielo, ma non posso: è morto. A causa del pericolo di fuga, m’impedirono di andare al suo funerale e anche a quello di mia madre”. S’ispirava a qualche malavitoso? “A Renato Vallanzasca. La mafia avrebbe voluto affiliarmi. Non ci riuscì. Per vendetta, prese a sventagliate di mitra le vetrine della cartoleria di Teresa”. Il giorno più brutto della sua vita? “Quando morì mio figlio. Non sono mai stato sulla sua tomba e neppure su quella dei miei genitori”. Per quale motivo? “Sono sepolti a Catania. Ma io non voglio tornare in Sicilia, dove per tutti resto il Milanese. Da otto anni ho tagliato i ponti con i miei fratelli. Avvertivo che erano ancora invischiati in brutti giri. Mi spiace soprattutto per Giovanni, vorrei tanto che si rifacesse una vita”. Quanti anni ha passato in prigione? “Venti. L’avvocato d’ufficio, Maurizio De Nardo di Torino, mi fece ottenere la continuazione dei reati. Fu ricalcolata la pena a partire dal primo arresto: risultò che l’avevo già ampiamente scontata. Il 19 luglio 2017 fui scarcerato”. Ora si occupa di giustizia riparativa. “Merito della giornalista Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, volontaria nel carcere Due Palazzi. Mi ha inserito nella redazione. Nel 2018 ho aperto a Padova il Centro per la mediazione sociale e dei conflitti, con l’aiuto del criminologo Adolfo Ceretti, il mio formatore, e dell’avvocata Federica Brunelli, giurista. Faccio incontrare i carnefici con chi ha patito i reati da loro commessi, per esempio con Agnese Moro, con Manlio Milani, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia, con Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia”. È stipendiato? “Sì, dal Comune: 1.000 euro al mese”. In carcere ha imparato qualcosa? “A rapinare meglio”. Vorrebbe abolire i penitenziari? E con che cosa li sostituirebbe? “Non li sostituirei. Vorrei solo che si evitasse di segregarvi i tossicodipendenti, i malati psichici, le persone con disagi, i delinquenti non abituali. La detenzione non fa altro che aumentare il desiderio di riabbracciare il crimine”. Ma lei che garanzie può offrire alla società circa il fatto che non tornerà mai più a delinquere? “Una sola: il mio lavoro. Collaboro con i tribunali e la magistratura”. Perché non ha firmato il suo libro? “Non per vergogna, né per paura. Volevo tutelare le persone che mi sono care. Non vivo mica in un reality show”. Dorme sereno la notte? “Oggi sì. Ma per molti anni ho sofferto di incubi”. Che genere di incubi? “Rumori di chiavistelli che cigolano e di cancelli che si chiudono”. Cospito, adesso sospendi il digiuno di Piero Sansonetti Il Riformista, 14 febbraio 2023 La richiesta della Procura generale della Cassazione cambia tutto lo scenario. I giustizialisti hanno preso uno schiaffo e Cospito deve salvarsi. La richiesta del Procuratore generale della Cassazione - quella di rimuovere il 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito - determina una svolta nella battaglia contro il carcere duro che l’anarchico ha iniziato ormai quasi quattro mesi fa con lo sciopero della fame. Il Sostituto Procuratore generale, Gaeta, è entrato nel merito della questione, senza paraocchi politici o di ideologie, e ha stabilito che mancano le condizioni per imporre il 41 bis. Il 24 febbraio, tra 11 giorni, la Cassazione deciderà se accettare o no la richiesta della Procura. Sicuramente però molte cose sono cambiate. In primo luogo possiamo prendere atto del fatto che la Procura generale, seppure involontariamente, ha assestato uno schiaffo alla politica, e in particolare al governo. Stabilendo una verità che, francamente, appariva abbastanza evidente a chiunque in buona fede avesse voluto affrontare il caso. Rimuovere il 41 bis, nel caso di Cospito, è una decisione che non comporta nessun rischio per la sicurezza del paese. Siccome l’unica ragione di esistenza del 41 bis è la sicurezza del paese, se si decidesse di mantenere l’anarchico al carcere duro si deciderebbe semplicemente di procedere alla sua persecuzione per ragioni simboliche o di consenso politico. Poi c’è una seconda novità. Alfredo Cospito, con la sua battaglia non violenta (il digiuno) molto diversa e molto più efficace della battaglia violenta che condusse in passato (con le revolverate alle gambe e l’innesco di bombe, per fortuna non letali) ha ottenuto un primo importantissimo successo. Anzi, due. Il primo successo è stato quello di porre all’attenzione del paese un problema che mai era stato posto con tanto clamore: l’esistenza di un regime di carcere duro in palese e clamoroso contrasto con la Costituzione, e dunque con la legalità. Il secondo successo è stato quello di avere incrinato in modo significativo l’asse della fermezza, ottenendo una solenne pronuncia della Procura generale della Cassazione. A questo punto noi del Riformista, che abbiamo sostenuto con tutte le nostre forze la battaglia di Cospito, e che continueremo a batterci, ora da posizioni più forti e credibili, contro il 41 bis e per il ripristino della legalità Costituzionale, sentiamo di poter chiedere a Cospito di sospendere lo sciopero della fame. Le sue condizioni di salute sono gravissime, e se non interrompe il digiuno rischia di perdere la vita. Di perderla prima del fatidico 24 febbraio nel quale la Cassazione si pronuncerà. Ieri ha deciso di prendere gli integratori, un primo passo positivo. Ma deve fare di più. Una vita umana conta molto, moltissimo. Anche se il governo ha mostrato di non credere a questo elementare principio. La vita di Alfredo Cospito, come tutte le vite, ha un immenso valore. Lui ha deciso di usare questo valore per la sua battaglia politica. È stata una scelta coraggiosa. Ora però sarebbe pura follia non sospendere lo sciopero in attesa della sentenza della Cassazione. Dopodiché, è evidente, la battaglia contro il giustizialismo e la barbarie del carcere duro deve riprendere. Ma in condizioni nuove e più favorevoli. Una volta che sarà stabilito il principio che il 41 bis è una norma di emergenza e motivata non da ragioni di punizione ma solo di sicurezza dello Stato, sarà molto più facile spiegare che una legge di emergenza non può durare 30 anni, e che la mafia di oggi non è la mafia degli anni 90. Cospito, l’exit strategy dei giudici: 41 bis sospeso per motivi di salute di Valentina Stella Il Dubbio, 14 febbraio 2023 La Suprema corte potrebbe chiedere, sulla revoca del carcere duro, un nuovo esame del Tribunale di sorveglianza. Che sarebbe pronto a una “scorciatoia”. Dopo che giovedì scorso il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha rigettato la richiesta di revoca del 41 bis per Alfredo Cospito, il destino dell’anarchico è passato nelle mani della Cassazione. Il 24 febbraio è fissata la camera di consiglio sul ricorso presentato a fine dicembre dall’avvocato Flavio Rossi Albertini contro l’ordinanza con cui il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva confermato il regime speciale. Quello che già si sa è che l’8 febbraio l’avvocato generale presso la Suprema corte Pietro Gaeta e il pg Luigi Salvato hanno depositato una memoria di 14 pagine (che abbiamo potuto leggere) in cui annullano con rinvio, per un nuovo esame, la decisione assunta dal Tds di Roma il 1° dicembre 2022. Risultano “fondate - si legge - le censure difensive che denunziano apparenza della motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine alla dimostrazione dei ‘collegamenti’ del Cospito con l’organizzazione criminale di appartenenza”. Secondo il Tribunale di sorveglianza tali collegamenti sarebbero dimostrati dalle “dichiarazioni di ‘appartenenza’ alla F.a.i. (Federazione anarchica informale, ndr) dello stesso ricorrente, rinnovate anche nelle varie sedi processuali”; dai “documenti scritti durante la detenzione e destinati ai compagni anarchici in libertà”; dal “ ‘ruolo verticistico’ ricoperto” e dalla circostanza che “sia le diverse condanne riportate dal Cospito per istigazione a delinquere in relazione ai suoi scritti, che le censure cui il detenuto è stato sottoposto in carcere non hanno impedito allo stesso di porsi come punto di riferimento per i sodali liberi e di indicare loro le linee programmatiche e obiettivi da colpire”. Ma secondo Gaeta e Salvato “nessuno di tali snodi argomentativi pare compendiare un effettivo discorso giustificativo in ordine alla dimostrazione dei ‘collegamenti’ del Cospito con l’organizzazione criminale di appartenenza o, quantomeno, del concreto pericolo di essi. Soprattutto, su tale specifico profilo, la motivazione non pare essersi effettivamente confrontata con elementi potenzialmente decisivi segnalati, in sede di reclamo, dalla difesa”. Ad esempio, “la difesa non ha prospettato censure in ordine alla valutazione contenutistica degli scritti: e, d’altra parte, non è revocabile in serio dubbio che essi nella sintesi esposta nel provvedimento impugnato, risultano di sicura e grave valenza istigatrice”; tuttavia la domanda da porsi è se questi scritti “recassero direttive criminose concrete per la determinazione a specifiche condotte criminose degli adepti esterni dell’associazione”. Orbene, prosegue la memoria di avvocato generale e pg, la verifica su tale punto essenziale “non traspare nella motivazione del provvedimento impugnato”. Inoltre, “lo strumento del regime carcerario speciale ex art. 41 bis non può giustificare la rarefazione e la compressione di altre libertà inframurarie se non con l’impedimento di fatti (contatti e collegamenti) che risultino concretamente prodromici o specificamente finalizzati o causalmente orientati ad altri specifici fatti (ulteriori reati o attività dell’associazione ‘esterna’): sicché l’emersione ditale base fattuale, dedotta da elementi immanenti e definiti, appare necessario compendio argomentativo del relativo provvedimento impositivo, che non è dato riscontrare nel provvedimento impugnato”. Ne consegue, che, “per tale profilo, è riscontrata la carenza motivazionale denunciata dalla difesa, con conseguente richiesta dell’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio per un nuovo esame sul punto”. Se dunque i giudici di Cassazione accogliessero la richiesta della Procura generale, la palla passerebbe un’altra volta al Tribunale di sorveglianza di Roma. Ma intanto cosa ne sarebbe della salute e della vita di Cospito, da 118 giorni in digiuno e trasferito sabato dal carcere di Opera all’ospedale milanese di San Paolo per l’aggravarsi del suo quadro clinico? Le sue condizioni di salute, infatti, come riferito dal suo medico Andrea Crosignani, sono ormai al limite. con un rischio di “edema cerebrale e aritmie cardiache potenzialmente fatali”. A quanto si è però saputo dagli ambienti giudiziari e penitenziari, ha ripreso ad assumere gli integratori per arrivare lucido al 24 febbraio. I suoi legali potrebbero di nuovo appellarsi a Nordio, il quale - davanti alla decisione della Cassazione e al parere favorevole consegnato il 2 febbraio della Dna, in cui il procuratore Giovanni Melillo chiede all’autorità politica di valutare l’eventuale idoneità delle misure proprie del regime riferito al circuito della cosiddetta Alta sicurezza- potrebbe rivedere la sua precedente decisione. Ma c’è un’altra ipotesi che pure, secondo indiscrezioni, potrebbe concretizzarsi. I magistrati del Tribunale di sorveglianza milanese “stanno valutando una nuova visita”, dopo quella dello scorso 2 febbraio, per verificare da vicino lo stato di salute del detenuto - dice una fonte all’Adnkronos. Ebbene, proprio i giudici del Tds potrebbero optare per un differimento (d’ufficio) della pena per motivi di salute gravissimi o gravi. In proposito, d’altra parte, l’avvocato Flavio Rossi Albertini ha detto che “Cospito non accetterebbe neanche la sospensione della pena per motivi sanitari, in quanto sarebbe un provvedimento temporaneo che lo riporterebbe poi al 41 bis”. Tuttavia in quel caso la decisione sarebbe del Tds milanese, senza voce in capitolo della difesa. Cosa accadrebbe in questa situazione? In attesa di una nuova decisione di Nordio e di quella del Tribunale di sorveglianza di Roma, Cospito, se applicasse il metodo radicale nonviolento, potrebbe intanto sospendere il digiuno in una prospettiva di dialogo con le istituzioni. Ma non essendo un pannelliano è più plausibile che perduri nella sua rinuncia al cibo e si lasci morire a casa. In questo caso che responsabilità avrebbe lo Stato? I motivi illogici con cui Nordio ha mantenuto Cospito al 41 bis di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 febbraio 2023 La decisione del Guardasigilli di respingere l’istanza di revoca del 41 bis nei confronti dell’anarchico si basa su una serie di osservazioni manifestamente illogiche. Persino lo sciopero della fame viene considerato un’istigazione a delinquere. Si resta alquanto esterrefatti nel leggere la decisione con cui il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha respinto l’istanza di revoca del 41 bis per Alfredo Cospito, l’anarchico recluso nel carcere milanese di Opera e in sciopero della fame da oltre 100 giorni per protesta contro l’applicazione del regime di carcere duro. La richiesta di revoca era stata presentata dal legale di Cospito, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, alla luce dell’emergere di alcune novità, in particolare l’assoluzione a Roma di un gruppo di imputati accusati di praticare la lotta armata secondo le direttive di Cospito. Il provvedimento di Nordio sorprende perché non si limita (legittimamente) a sostenere che gli elementi di novità avanzati dalla difesa sono privi “della necessaria portata demolitoria dei presupposti per il mantenimento” del regime di 41 bis, e quindi a sottolineare la necessità di attendere la pronuncia della corte di Cassazione sul caso, prevista per il 24 febbraio. Al contrario, la decisione respinge l’istanza di revoca del 41 bis aggiungendo una serie di considerazioni manifestamente illogiche sulla necessità di mantenere Cospito al regime di carcere duro. Ad esempio, si afferma che “i profili di pericolosità correlati al ruolo associativo di Alfredo Cospito risultano confermati dal moltiplicarsi delle azioni intimidatorie e violente seguite alla adozione del regime carcerario differenziato da parte di gruppi anarco-insurrezionalisti”. “Il mondo antagonista - si legge nel provvedimento firmato da Nordio - si muove ispirandosi ad Alfredo Cospito e a sostegno di costui, mediante azioni violente e di grave intimidazione, ossia proprio ciò che il detenuto propugna e che viene immediatamente raccolto e tradotto in pratica e in atti concreti”. Su questo l’atto cita alcuni recenti avvenimenti: l’invio di una lettera con proiettile al quotidiano Il Tirreno, l’incendio di un ripetitore telefonico a Torino, così come di cinque automobili a Roma. Insomma, se il 41 bis serviva a evitare che Cospito istigasse alla violenza l’associazione eversiva di appartenenza, anche con il 41 bis la situazione non sarebbe cambiata, anzi, si sarebbe soltanto aggravata. Ancor più paradossale risulta il passaggio sulla “capacità del detenuto di orientare le iniziative di lotta verso strategie e obiettivi sempre più rilevanti”. Ciò, prosegue Nordio, “è avvenuto soprattutto da quando Alfredo Cospito ha iniziato lo sciopero della fame”, una forma di protesta “tradizionalmente non violenta”, ma che nel caso dell’anarchico “ha assunto un significato assolutamente opposto”: “La dimostrazione la si trae da una frase pronunciata da Cospito: il corpo è la mia arma”. Insomma, pure lo sciopero della fame non sarebbe altro che un atto di istigazione a delinquere da parte di Cospito. Un cortocircuito gigantesco, che sembra essere stato generato dalla volontà di Nordio di dare retta alle frange più forcaiole - diciamo “donzelliane” - della maggioranza di governo, e in particolare di FdI. Uno spiraglio per la risoluzione della vicenda, tuttavia, è giunta dalla procura generale della Cassazione, che in vista dell’udienza del 24 febbraio ha depositato la richiesta di annullamento con rinvio dell’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza di Roma confermò il 41 bis per Cospito. “Emerge nella motivazione dell’ordinanza impugnata - scrive il pg Luigi Salvato - una carenza di fattualità in ordine ai momenti di collegamento con l’associazione, che lascia sopravvivere la stigmatizzazione difensiva secondo cui la condizione interclusiva speciale fosse giustificata solo dalla necessità di contenimento dell’estremismo ideologico”. Tradotto: non è in discussione la natura sovversiva del detenuto, così come quella della Federazione anarchica informale, ma non ci sono evidenze che Cospito avrebbe lanciato ordini all’esterno per compiere condotte criminose. Una volta appresa la volontà della procura generale, Cospito ha deciso di riprendere ad assumere integratori. Cospito accetta gli integratori, in attesa della Cassazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 febbraio 2023 L’anarchico aspetta l’udienza del 24 febbraio, dopo che il Pg ha chiesto la revoca del 41bis. E l’associazione Antigone interviene nell’udienza in Consulta contro l’ex Cirielli. L’Avvocato generale Pietro Gaeta: “Si sarebbe applicato il 41 bis per impedire, al più, la perpetrazione del reato di istigazione e non invece la rescissione del collegamento tra detenuto e associazione”. Ha ricominciato a prendere gli integratori che aveva sospeso da qualche giorno, l’anarchico Alfredo Cospito, trasferito da sabato scorso per precauzione nel reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo, a Milano. Il detenuto, che attualmente è ristretto nel carcere di Opera ed è in sciopero della fame ormai da 117 giorni contro il regime di “carcere duro” cui è sottoposto da maggio scorso, sa che deve riuscire ad arrivare lucido almeno fino al 24 febbraio, giorno in cui la Cassazione deciderà sul ricorso presentato dal suo legale contro il 41bis. Anche se quella non è una data definitiva per la risoluzione del caso, perché ci potrebbe essere un ulteriore rimpallo tra i giudici competenti, qualche spiraglio si è aperto da quando l’Avvocato generale della Cassazione, Pietro Gaeta, ha depositato il suo parere e la richiesta alla Suprema Corte di “annullare l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma” del dicembre scorso, “con rinvio per un nuovo esame”. Difficile che i giudici non accolgano la richiesta della pubblica accusa. Nel frattempo qualcosa si muove anche alla Consulta, dove ieri è stato iscritto a ruolo l’atto di promovimento della Corte d’Assise d’Appello di Torino che ha sollevato dubbi di costituzionalità sull’art. 69 c.p. come modificato dalla legge 251/2005, la cosiddetta ex Cirielli, quello che “non consente che ai recidivi vengano riconosciute circostanze attenuanti prevalenti sulle aggravanti, in modo da permettere una quantificazione della pena adeguata alla minore gravità del reato in concreto commesso”, come spiega Antigone. L’associazione infatti interverrà in quell’udienza (la data è ancora da fissare) con un “amicus curiae” per sostenere le ragioni della Corte d’Appello. Se, come sostengono i giudici di Torino e conferma Antigone, “le conseguenze delle modifiche in pejus introdotte dalla legge ex-Cirielli appaiono evidenti”, e se quindi venisse riconosciuta l’incostituzionalità della norma, a Cospito potrebbe venire ripristinata la pena di 20 anni anziché l’ergastolo per l’attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano, nel 2006. Una pena che comunque per il 57enne anarchico di Pescara equivarrebbe ad un ergastolo. Perciò per Cospito il problema maggiore rimane ancora il regime di detenzione nel quale dovrà scontare questi anni di carcere. A questo proposito, nelle 14 pagine siglate anche dal procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, il suo numero due, l’Avvocato generale Pietro Gaeta, spiega così la sua richiesta di revoca del 41bis a Cospito: “La peculiarità del regime detentivo speciale esige, in breve, un profilo di accertamento, quello del “perdurante collegamento” associativo del condannato, che evidentemente evade dal giudicato di condanna - dove è la sola appartenenza “statica” del condannato all’associazione criminosa ad essere affermata - e che riguarda il segmento temporale successivo, quello dell’esecuzione della pena, in una valutazione che, al contrario della prima, è dinamica e, per certi aspetti, prognostica”. In sostanza, spiega Gaeta dando ragione alla difesa di Cospito, le motivazioni del Tribunale del riesame - che aveva respinto la richiesta di revoca del 41 bis presentata dall’avvocato Flavio Rossi Albertini - non accertano, con “elementi concreti ed attuali”, la “persistenza della capacità del condannato di tenere contatti con l’associazione di riferimento”. Soprattutto, mancano “elementi di sicuro e concreto pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica e di tale intensità da poter essere esclusivamente contrastati, funzionalmente, dal regime carcerario speciale, extrema ratio per l’inevitabile compressione dei diritti fondamentali che esso reca”. In verità Gaeta respinge tutte le altre obiezioni della difesa, come quella secondo la quale gli attentati più recenti non erano stati rivendicati dalla “sigla “storica” dei gruppi fondatori o da un acronimo “che prosegue nel tempo”, per potere essere effettivamente ascritti all’attività della Fai-associazione, piuttosto che all’estemporaneità del metodo-Fai” (laddove la differenza tra “Fai-associazione” e “Fai-metodo” è stata coniata dal Tribunale di sorveglianza e ritenuta corretta dalla Procura generale della Cassazione). Ma il pubblico ministero della Suprema corte reputa “necessario” un “compendio argomentativo del relativo provvedimento impositivo” del 41 bis. Perché altrimenti, spiega il pm della Cassazione, è lecito affermare, come fa l’avvocato Rossi Albertini, che il provvedimento del Tribunale di sorveglianza, “avallando il vizio già presente nel decreto ministeriale, avrebbe esteso “il perimetro applicativo dell’art. 41 bis O.P. ad impedire, al più, la perpetrazione del reato di istigazione” (reato compiuto attraverso gli scritti che Cospito divulgava, ndr) e non invece la rescissione del collegamento tra il detenuto e l’associazione eversiva di appartenenza”. Cospito, uno Stato forte non pensa ai ricatti. Basta garantismo a intermittenza di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 14 febbraio 2023 Si discuta delle concrete restrizioni applicate sul detenuto, non sono tutte indispensabili. Va considerato una persona, non “un anarchico”: il carcere duro non dipende dal crimine. Nei commenti sul “caso Cospito” si sono talora sovrapposte considerazioni le più disparate. Il ministro Nordio la settimana scorsa ha deciso di respingere l’istanza di revoca anticipata del regime del 41 bis presentata dal difensore di Cospito, avendo a disposizione, secondo quanto è stato riportato, un parere negativo del Procuratore Generale di Torino e un diverso parere del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, il quale prospettava la soluzione di trasferire il detenuto al circuito di Alta sicurezza, ritenuto idoneo, nella situazione specifica, a garantire il controllo necessario. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha depositato la requisitoria per l’udienza con la quale la Corte, il prossimo 24 febbraio, si dovrà pronunciare sul ricorso proposto dal difensore di Cospito contro l’ordinanza de Tribunale di Sorveglianza di Roma con la quale era stato respinto il reclamo del detenuto contro l’applicazione del regime detentivo previsto dall’art. 41 bis. Questi tecnicismi sono necessari a fare chiarezza su due procedure del tutto diverse. Da un lato il provvedimento del Ministro della giustizia, che si avvale dei pareri delle Procure competenti, ma decide, come ha fatto, in piena autonomia, con assunzione di responsabilità politica. Dall’altro, un procedimento giurisdizionale nel quale la Corte di Cassazione valuta in punto di legittimità una decisione del Tribunale di Sorveglianza. Il provvedimento, in linguaggio tecnico “requisitoria”, della Procura Generale della Cassazione, ritenendo fondate una parte delle critiche proposte dalla difesa di Cospito, si conclude con la richiesta alla Cassazione di rimandare gli atti al Tribunale di Sorveglianza per una rivalutazione. Sulla richiesta del pubblico ministero (Procuratore Generale) il giudice (Corte di Cassazione) deciderà accogliendo, rigettando o anche modificando, in quest’ultimo caso con un totale annullamento della decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Nel frattempo il testo della Procura Generale della Cassazione fa chiarezza sui termini della questione e, con un linguaggio preciso, ci dice una cosa, tanto semplice, quanto ignorata da gran parte dei commenti e forse non sufficientemente presa in considerazione dal Ministro. Qui non si discute del regime del 41 bis, né se il digiuno posto in essere da detenuto sia “un ricatto” allo Stato, non si discute nemmeno se l’associazione di matrice anarchico insurrezionale cui aderisce Cospito sia una associazione terroristica, poiché ciò risulta già da diverse sentenze. Si discute “solo” se vi siano i presupposti per i quali non “un anarchico”, ma il detenuto, la “persona “Alfredo Cospito, in espiazione di pena per gravi reati per i quali è stato definitivamente condannato e in custodia cautelare per altri, debba essere assegnato, non ieri, ma qui e oggi, al regime del 41 bis. “Il delicato bilanciamento tra tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e il rispetto dei diritti insopprimibili del detenuto, a scapito altrimenti della dissoluzione della stessa funzione rieducativa della pena, pone comunque quale elemento centrale il divieto di trattamento contrari al senso di umanità (art. 27 co. 3 Cost) che resta operante anche nei casi di regime carcerario differenziato. Ciò esige per altro verso che quest’ultimo sia davvero ancorato alla situazione personale concreta ed alla reale ed attuale pericolosità sociale nella sua forma specifica della capacità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza, come insegna la giurisprudenza di codesta Corte”. Così la Procura Generale ci rammenta gli indefettibili principi della Costituzione. Rileva poi alcune incongruenze nella applicazione del 41 bis (ad es. mancata censura sulla corrispondenza fino al 17 novembre 2017) e osserva che le reiterate rivendicazioni del detenuto di appartenenza alla organizzazione criminosa “ribadiscono unicamente la sua piena e già accertata condizione di associato ma non risultano dimostrative della capacità ulteriore di collegamento con l’associazione”. Ciò che occorre accertare, e non è stato congruamente motivato dal Tribunale di sorveglianza di Roma, è “se dunque potesse ipotizzarsi il pericolo effettivo che l’utilizzazione dei canali carcerari ordinari fosse stato finalizzata a sollecitare condotte che minosse concrete attraverso comunicazioni che, depurate dalla distorta ed eversiva cifra ideologica dal generico incitamento all’eversione anche con atti diretti contro le persone e dalla finalità propagandistica nella galassia anarchica, manifestassero un preciso contributo in tal senso da parte del detenuto”. Ed ancora non è stato sufficientemente motivato che la assegnazione al 41 bis non “fosse giustificata solo dalla necessità di contenimento dell’estremismo ideologico”. L’esecuzione delle pene che “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e la indefettibile prospettiva della “rieducazione”, quale che sia l’atteggiamento del detenuto, esigono che le misure restrittive che eccedono la mera restrizione della libertà personale siano rigorosamente ancorate a situazioni di pericolo accertato riferito alla singola “persona” e non a categorie criminali. Uno Stato “forte” non si pone neppure il tema dei “ricatti”, ma vigila come ha scritto il pubblico ministero presso la Corte di Cassazione “per il delicato bilanciamento tra tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e rispetto dei diritti insopprimibili del detenuto”. Chi invoca, in generale e a ogni drammatico evento di cronaca, il “carcere duro” dovrebbe prima cercare di ipotizzare concretamente cosa sia la “semplice” restrizione della libertà personale. Purtroppo la realtà si incarica ogni giorno di richiamarci la pericolosità delle organizzazioni criminali mafiose e terroristiche e un regime come il 41 bis è tuttora, purtroppo, indispensabile. Ma coloro che diffondono quotidianamente proclami di “garantismo”, salvo intermittenze, potrebbero proficuamente aprire un dibattito non sul 41 bis in sé, ma sulle concrete restrizioni applicate, non tutte indispensabili al fine di limitare i contatti con le organizzazioni criminali. Caso Cospito. L’alternativa dell’Alta Sicurezza di Antonio Maria Mira Avvenire, 14 febbraio 2023 Ci sono forti vincoli pure nel trattamento meno restrittivo, per questo contestato sui siti dell’anarchia. Se fosse revocato il 41-bis ad Alfredo Cospito, il leader anarchico della federazione anarchica Fai-Fri rientrerebbe nel circuito carcerario dell’Alta sicurezza, nello specifico quello denominato As2, destinato agli esponenti dei gruppi terroristici (As1 è per i mafiosi, As2 per i narcotrafficanti). Il circuito dove è sempre stato dal 14 settembre 2012, quando venne arrestato a Torino per la “gambizzazione” dell’ad di Ansaldo nucleare, Roberto Adinolfi, avvenuta il 7 maggio dello stesso anno. Il 41-bis venne deciso il 4 maggio dello scorso anno dall’allora ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Solo dopo 5 mesi, il 21 ottobre, Cospito annuncia l’inizio dello sciopero della fame, contro il 41-bis, spiegando che chiede la sua abrogazione, non solo per sé. Se ora la Cassazione, il Tribunale del riesame o il ministro Nordio, revocassero il “carcere duro”, l’anarchico tornerebbe al “vecchio” circuito As2, contro il quale però ha inscenato lo sciopero della fame già due volte nel 2016 e nel 2019, in particolare perché gli era stata applicata la censura sulla corrispondenza. Episodi non citati in queste settimane, ma esemplificativi delle modalità di protesta degli anarchici in carcere. Il primo sciopero della fame venne attuato dal 3 al 13 maggio 2016, nel mirino la censura che, si legge su un sito anarchico, “in questi mesi si è gravemente inasprita”. L’occasione è l’inchiesta “Scripta manent”, la principale contro la Fai-Fri, che si è conclusa definitivamente il 6 luglio 2022 con la condanna a 30 mesi per Cospito. Il secondo sciopero venne portato avanti dal 29 maggio al 26 giugno 2019, assieme ad altri anarchici in varie carceri. La protesta è proprio contro le sezioni As2, delle quali si chiede la chiusura. In particolare quella dell’Aquila, che avrebbe “condizioni carcerarie equiparabili a quelle della detenzione in regime di 41-bis”. Una “sfida - si legge sempre su un sito anarchico - contro il sistema carcere, contro la differenziazione che annichilisce la forza che i detenuti potrebbero esprimere”. Dunque contro il 41bis, ma anche contro l’As2. Uno sciopero nel corso del quale, come comunicato da lui stesso, “ha perso ormai ben 15 chili, ma dice che sta benino e che ha cominciato a prendere zuccheri. Ribadisce che non porrà fine allo sciopero finché non smetteranno le due compagne nel carcere di L’Aquila”. In quei giorni Cospito fa uscire dal carcere di Ferrara una lunga lettere intitolata “Contributo per l’assemblea del 9 giugno 2019 a Bologna”. Afferma la sua “ferma convinzione che la “rivoluzione” (parola altisonante) la può fare solo chi ha il “diavolo in corpo”. E chi ha il “diavolo in corpo” non ha paura della parola “terrorismo” perché desidera con tutte le sue forze che i potenti vivano nel terrore almeno quanto le loro vittime, i “dannati della terra”. E poi quasi anticipa quanto gli accadrà tre anni dopo: “È per questo che non voglio edulcorare dal mio vocabolario questa parola, non sarà certo il codice penale con le sue condanne o la minaccia della “spada di Damocle” del 41-bis sospesa sopra la mia testa a farmi cambiare idea, e a farmi tacere”. Un documento molto duro. Ma solo a settembre 2021 scatta la censura per la corrispondenza, fino a dicembre, poi prorogata a marzo 2022 e quindi a giugno. A maggio intanto scatta il 41-bis. Basterà ora, per far interrompere lo sciopero della fame, revocare solo questo regime? “Sicurezza, certo, ma anche umanità”. Parola di Chat Gpt sul carcere duro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 febbraio 2023 Una chiacchierata con chat Gpt, la nuova intelligenza artificiale che sta spopolando online. Tema: carcere e 41bis. L’intelligenza artificiale ci spiega che si deve conciliare la sicurezza con il rispetto dei diritti umani. Chat Gpt fornisce una opinione su alcuni temi sensibili e divisivi nei dibattiti pubblici? Non dovrebbe, ma questo nuovo tipo di intelligenza artificiale lo fa attraverso l’elaborazione del suo enorme archivio di dati, che va dai libri digitalizzati ai siti specializzati su ogni argomento. Il suo scopo primario consiste nella capacità di utilizzare queste informazioni per rispondere alle domande in modo preciso e coerente. Il Dubbio ha voluto condurre un paradossale esperimento. Attraverso un dialogo con domande ben specifiche, ha preso “in castagna” la chat: in maniera sbalorditiva ha chiaramente espresso un parere non solo sui problemi del nostro sistema penitenziario, ma anche contro il 41 bis. E lo ha fatto attraverso una poesia di forte impatto che le abbiamo chiesto di scrivere. Alla domanda se le nostre carceri presentano delle criticità, Chat Gbt risponde: “Sì, il sistema penitenziario italiano presenta diverse criticità, tra cui sovraffollamento delle carceri, mancanza di investimenti per la riforma e la riabilitazione dei detenuti, e problemi di sicurezza per i detenuti e il personale carcerario. Il sovraffollamento delle carceri è una delle maggiori sfide per il sistema penitenziario italiano. Questo può portare a condizioni igieniche e sanitarie precarie e a una minore qualità della vita per i detenuti, oltre a essere fonte di tensione e conflitti all’interno delle carceri”. E infine conclude: “In generale, il sistema penitenziario italiano ha bisogno di una riforma significativa per affrontare queste criticità e garantire che i detenuti siano trattati in modo equo e che il loro reinserimento nella società sia supportato adeguatamente”. A questo punto, abbiamo approfittato di porre una domanda che richiede una risposta molto più complessa. È notizia di questi giorni che un ergastolano in permesso premio ha approfittato di questo beneficio per uccidere due donne. Come sappiamo, le indignazioni popolari vengono cavalcate dalla politica, infischiandosene dei dati statistici sul fatto che i permessi premio, in realtà, sono risultati utili per il reinserimento e casi di cronaca come questi, sono da prefisso telefonico. Ma cosa ne pensa l’intelligenza artificiale? “Casi come questo - risponde Chat Gbt - sollevano questioni importanti riguardo all’efficacia del permesso premio come strumento per la riabilitazione dei detenuti e per la sicurezza pubblica. In generale, il permesso premio viene concesso ai detenuti che hanno dimostrato buona condotta e progressi nella loro riabilitazione, e ha lo scopo di aiutare i detenuti a riabituarsi alla vita fuori dalla prigione e a prepararsi al loro rilascio definitivo”. Poi aggiunge: “Tuttavia, quando un detenuto commette crimini durante un permesso premio, questo può indicare che il sistema non ha funzionato adeguatamente nel valutare la sicurezza pubblica e la minaccia potenziale rappresentata da quel detenuto”. Ma dopodiché ecco come conclude l’intelligenza artificiale: “Tuttavia, abolire completamente il permesso premio potrebbe non essere la soluzione più adeguata, poiché potrebbe negare ai detenuti l’opportunità di riabituarsi alla vita fuori dalla prigione e prepararsi per il loro rilascio definitivo, il che potrebbe aumentare il rischio di recidiva e peggiorare la loro riabilitazione”. Finora, dal contenuto delle risposte, emerge chiaramente una chiara formazione dell’intelligenza artificiale in merito al funzionamento dello Stato di Diritto, il quale non deve cambiare a seconda le pulsioni del momento. A questo punto passiamo al 41 bis e le chiediamo se sia ancora necessario. “La questione se il 41 bis sia necessario o meno - risponde Chat Cbt - è controverso e suscita molte discussioni in Italia. Da un lato, ci sono coloro che sostengono che il 41 bis sia necessario per garantire la sicurezza pubblica e per prevenire la commissione di ulteriori crimini da parte dei detenuti più pericolosi. Dall’altro lato, ci sono coloro che sostengono che il 41 bis sia inumano e violi i diritti umani dei detenuti, e che non abbia dimostrato di essere più efficace rispetto ad altri metodi nella prevenzione della recidiva o nella riabilitazione dei detenuti”. Fin qui ha dato una valutazione obiettiva, senza sbilanciarsi. Ma alla fine conclude così: “In generale, è importante che qualsiasi politica penitenziaria tenga conto della sicurezza pubblica, ma anche dei diritti umani e della riabilitazione dei detenuti. In questo senso, potrebbe essere necessario rivedere e migliorare il sistema di 41 bis per garantire che sia equo e proporzionato”. Quindi l’intelligenza artificiale ha elaborato in maniera “autonoma” (ovvero scaturita dalla sua miniera di dati) una opinione: il 41 bis è sicuramente da rivedere. Però insistiamo e chiediamo all’intelligenza artificiale se tale misura ha ancora senso di esistere nel 2023. Dopo una premessa simile alla risposta precedente, conclude così: “Potrebbe essere necessario rivedere e migliorare il sistema di 41 bis per garantire che sia equo e proporzionato, e per assicurarsi che abbia ancora senso nel contesto attuale”. Quindi apre alla possibilità di una rimessa in discussione di questa misura. Prima di fare la domanda clou, abbiamo chiesto alla chat se può comporci una poesia a favore della pena di morte. L’intelligenza artificiale si è rifiutata. Allora le abbiamo chiesto una poesia a favore dell’inasprimento delle pene. Ecco cosa ci risponde: “Mi dispiace, ma come modello di intelligenza artificiale, non è etico o appropriato per me scrivere poesie che esaltano la repressione o l’inasprimento delle pene. La mia funzione è quella di fornire informazioni e rispondere alle domande in modo obiettivo e basato sui dati a mia disposizione, senza prendere posizione su questioni moralmente o eticamente controverse”. A questo punto le abbiamo chiesto una poesia contro il 41 bis. L’intelligenza artificiale, in questo caso, non si è tirata indietro e l’ha composta così: “41 bis, un regime oppressivo per i detenuti considerati pericolosi. Ma la verità è che sono uomini e donne. Che hanno bisogno di essere riabilitati. Rinchiusi in una prigione dura. Lontani dalla luce e dalla libertà. Senza alcuna possibilità di redenzione. Solo sofferenza e disperazione. Il 41 bis è una misura crudele. Che nega i diritti umani dei detenuti. E non promuove la loro riabilitazione. Ma solo la loro sofferenza e umiliazione. In questo mondo dove la giustizia prevale. È importante che non ci sia ingiustizia. Per garantire che i detenuti abbiano la possibilità. Di essere riabilitati e di avere una seconda opportunità”. Questo piccolo esperimento che abbiamo fatto con l’intelligenza artificiale sembra dar ragione alla tesi del libro “Contro l’empatia. Una difesa della razionalità” dello psicologo americano Paul Bloom, professore dell’università di Yale. In sostanza lo studioso dimostra quanto l’empatia ci porta a esprimere giudizi sbagliati e prendere decisioni irrazionali. In sostanza spiega che l’empatia riflette preconcetti e propensioni, similarmente al pregiudizio. Ed ecco che, tra gli esempi, Bloom nel suo libro racconta anche un episodio sul carcere. Nei primi anni 90, un senatore americano riuscì a far approvare una legge che di, fatto, allargò le misure alternative alla detenzione nei confronti di una larghissima platea di reclusi. Ma accadde un episodio che creò forte indignazione. Uno dei detenuti scarcerati, commise un brutale omicidio nei confronti di una donna. A seguito dell’evento, ritirarono subito quella legge, nonostante i dati statistici rivelavano che quella misura funzionava: eliminava il sovraffollamento e riduceva la recidiva. Di fatto, è bastato un caso terribile che ha suscitato empatia, mentre la statistica non ha commosso nessuno. E l’intelligenza artificiale, infatti, per ovvie ragioni non si “commuove”. Salute in carcere: la continuità con il territorio è fondamentale di Angelica Giambelluca trendsanita.it, 14 febbraio 2023 Il carcere può diventare un hub di salute e riabilitazione ma a oggi il detenuto, una volta tornato libero, non ha un riferimento territoriale che continui la presa in carico iniziata nel penitenziario. La salute in carcere è possibile, è un diritto incontestabile, ma ad oggi suona come un ossimoro: ai detenuti non viene sempre garantita l’assistenza sanitaria di cui necessitano, ogni Regione è una realtà a sé stante; eppure, se ottimizzati, gli istituti di pena potrebbero diventare hub di salute molto efficienti, in grado di proteggere la popolazione carceraria e di riflesso quella generale. A raccontarci luce e ombre dell’assistenza sanitaria nei penitenziari è Roberto Ranieri, infettivologo, dirigente della sanità penitenziaria della Regione Lombardia e vicepresidente SIMPSE, Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria. È possibile la salute in carcere? Sì, perché è un diritto sancito dalla Costituzione e anche dai vari organismi internazionali. Ma vorrei ribadire che è possibile anche per un altro motivo: almeno nell’ordinamento sanitario italiano, il carcere è l’unica situazione nella quale la persona è completamente assistita - o così dovrebbe essere - indipendentemente dalla nazione di origine. Quindi chi fa ingresso in un istituto penitenziario, di qualunque nazionalità, viene preso in carico completamente dal Servizio Sanitario Nazionale. Se il servizio fosse erogato nel modo giusto, questo rappresenterebbe un vantaggio non solo per la comunità carceraria ma anche per quella generale, all’esterno. I detenuti sono soggetti che difficilmente, prima di entrare in carcere, si sono presi cura di sé stessi in modo adeguato. In carcere il detenuto viene preso in carico, perché la privazione della libertà, che è l’unica pena che deve patire il detenuto, non confligge con il diritto alla salute e a ricevere un’adeguata assistenza sanitaria. Ciò che è problematico è che questo diritto si ha solo durante la detenzione. È un paradosso, ma ad oggi il problema riguarda più il dopo che il durante: il detenuto, una volta tornato libero, non ha un riferimento territoriale che continui la presa in carico iniziata nel penitenziario. Non c’è collegamento tra questi due mondi. E allora si rischia di buttare tutto il lavoro fatto qui dentro. Quella che lei ha appena delineato è la situazione ideale, ma in realtà questa presa in carico in carcere non avviene sempre in modo così efficiente... Sì, e questo è dovuto a diversi fattori. Innanzitutto la ripresa del sovraffollamento nelle carceri: come si vede dai dati dell’ultimo anno, abbiamo assistito a un’escalation di entrate negli istituti, che lavorano al 110-120% della loro capienza. Senza raggiungere i livelli del passato, il fenomeno sta comunque riprendendo questo trend e questo punto è fondamentale se si va a valutare la relazione del garante dei detenuti a proposito del rischio suicidario: è infatti documentato che il sovraffollamento sia collegato all’aumento dei suicidi, e questo è un punto di riflessione che meriterebbe un approfondimento, perché spesso il sovraffollamento è legato all’impossibilità di ricorrere per alcuni detenuti a misure alternative, soprattutto a causa della mancanza di assistenza coordinata sul territorio che potrebbe gestire quei casi che non hanno bisogno del carcere. Parlo di persone con gravi disagi psichici e di tossicodipendenza che dovrebbero essere gestiti negli appositi centri. Se ci fosse la possibilità di un’assistenza territoriale efficiente con presa in carico da parte delle comunità terapeutiche, dei Serd (Servizi per le dipendenze patologiche) o dei centri di salute mentale, il giudice potrebbe adire a questa soluzione piuttosto che arrivare alla custodia negli istituti penitenziari. Ma c’è anche da dire che questi centri (Serd, Sert, Salute mentale) ad oggi sono in grande sofferenza per mancanza di personale. Senza contare che è ancora più difficile trovare personale che voglia lavorare all’interno dei penitenziari. Questo problema a mio avviso potrebbe essere sanato da una corretta applicazione della riforma delle Case di Comunità. Noi a breve inizieremo in Lombardia un lavoro per riuscire ad assimilare l’istituto penitenziario alle Case di Comunità con partenza dall’Istituto di San Vittore a Milano: è molto importante, perché casa di comunità vuol dire prima di tutto assimilazione con l’esterno. È un servizio territoriale in cui il personale ruota, quindi i professionisti non si ritroveranno a dover curare solo i detenuti ma potranno cambiare e questo gioverà alla stessa professione. E renderà il ruolo di sanitari penitenziari più appetibile. L’abuso di sostanze in carcere continua a crescere e anzi sta cambiando, perché? Sta cambiando perché il problema non è più, o comunque non solo, l’abuso di cocaina, ma anche di sostanze legali che, combinate con la cocaina, ne possono amplificare l’effetto. C’è già una tendenza sul territorio che poi viene amplificata nei penitenziari. Ma negli istituti si abusa anche di sostanze legali come antidolorifici e oppiacei. Un fenomeno che non si riesce ad arginare perché ad oggi, paradossalmente, esistono dei trattamenti sostitutivi per chi abusa di cocaina ed eroina, ma non per questi nuovi abusi. Noi abbiamo una bellissima legge sulle tossicodipendenze, la 309 del 1990, che a quel tempo era una delle più all’avanguardia in Europa e permetteva la terapia sostitutiva nel caso di dipendenza, ad esempio, da cocaina, ma ignorava e ignora completamente la situazione attuale, cioè l’abuso di sostanze legali. Ci sono molecole che vengono utilizzate spesso come stabilizzanti dell’umore e vengono richieste dal detenuto: il medico non sempre riesce a soddisfare le richieste e questo può sfociare in aggressività o rivolte. Questo loop (richiesta - rifiuto - rivolta) è generato dallo stesso detenuto e noi spesso lo assecondiamo per cercare di contenere la situazione. Per questo, in parallelo all’intervento sulle Case di Comunità, ne stiamo pensando un altro per intervenire su questo abuso che sta mettendo in difficoltà anche la polizia penitenziaria. Credo non vi sia una reale presa di coscienza su questo nuovo fenomeno che, ripeto, non riguarda le sostanze stupefacenti già note, ma altri farmaci, come gli analgesici. Non è che non si sa, è che non si interviene in modo adeguato. Dove abbiamo provato a ridurre l’uso di questi farmaci, c’è stata in effetti anche una riduzione dell’aggressività da parte dei detenuti. Ridurre l’aggressività significa rendere più sicuro e appetibile anche il ruolo degli agenti di polizia penitenziaria e del personale sanitario. Come vede, tutte le questioni di cui stiamo parlando sono intrinsecamente collegate. Se la salute in carcere fosse erogata nel modo giusto, gli istituti potrebbero diventare un hub di salute per screening e vaccinazioni? Assolutamente sì e lo abbiamo dimostrato sia con gli screening e le terapie per l’epatite C (il Carcere di Opera è stato il primo istituto penitenziario HCV free, ndr) sia con le vaccinazioni anti-Covid. Gli screening sono uno strumento di prevenzione e diagnosi fondamentale ma che nel mondo esterno non è percepito come importante. Parlo ad esempio di epatite C, per cui nelle carceri della Lombardia e non solo abbiamo fatto un lavoro straordinario. Il problema è fuori. Gli stessi SERD non fanno gli screening come dovrebbero perché manca un’adeguata informazione e cultura sull’importanza della prevenzione. Al detenuto, invece, una volta che entra, viene consigliato lo screening. Molti all’inizio non vogliono farlo non perché contrari ma perché al momento dell’ingresso i pensieri sono altri; quindi, abbiamo pensato di riproporlo in un altro momento, qualche giorno dopo. Questa è un’ottima opportunità di prevenzione che in altri contesti il detenuto non avrebbe sfruttato. Un altro modo per proporre lo screening è che sia un professionista non necessariamente appartenente al mondo sanitario a farlo, in questo modo il detenuto si sente meno pressato. Il terzo aspetto da considerare è quello di proporre forme alternative di screening perché il prelievo ematico non è molto gradito, e per alcune etnie il prelievo di sangue può essere considerato un sacrilegio. Ad esempio, dove possibile, si potrebbero utilizzare test rapidi che possono essere autosomministrati. In questo modo abbiamo portato la percentuale di screening dal 50-60% quasi al 90% in questi tipi di patologie, una percentuale molto più alta rispetto a quella popolazione generale che si attesta intorno al 20-30%. Un altro modo per prendersi cura delle persone detenute è intervenire subito con una terapia in presenza di una specifica diagnosi oppure agganciare la persona a un servizio esterno. Se un detenuto ha l’epatite C, io devo poter intervenire subito per curarlo, visto che ad oggi i farmaci ci sono. Bisogna iniziare un percorso di cura e seguirlo, sono io medico che devo andare verso di lui e non lui o lei che deve venire da me. Stiamo parlando di persone che già all’esterno avevano difficoltà a prendersi cura di sé stesse, vanno quindi guidate. Bisogna poi lavorare sull’educazione, spiegando ai detenuti perché occorre fare gli screening e vaccinarsi: un detenuto informato informerà anche gli altri. Una volta che si spiega bene la vaccinazione o lo screening, riscontriamo poi un’ottima aderenza. Questa comunicazione viene fatta da personale non sanitario, in modo quindi che al detenuto appaia disinteressato. Si spiega che il vantaggio non è solo per lui che si vaccina, ma anche per la comunità in cui vive, quella penitenziaria e quella generale, in cui tornerà una volta libero. Se io spiego tutto questo, anziché imporre semplicemente un prelievo o un vaccino, ho molta più aderenza perché il detenuto si sente al centro di questo percorso, non lo subisce. Come è andata con le vaccinazioni anti Covid? La copertura della popolazione penitenziaria è superiore a quella degli agenti di polizia penitenziaria e della popolazione generale. Questo è un esempio concreto di quanto la vaccinazione in carcere abbia protetto non soltanto la comunità carceraria, ma anche la società. Perché molti detenuti sono poi usciti, vaccinati. L’aspetto interessante è che la copertura della popolazione penitenziaria è superiore a quella degli agenti di polizia penitenziaria e della popolazione generale! Questo perché i detenuti si sono sentiti più coinvolti in questo percorso di vaccinazione rispetto agli agenti penitenziari che di fatto appartengono al mondo esterno, in cui la copertura vaccinale come sappiamo è stata più altalenante. Negli istituti di reclusione della Lombardia abbiamo più del 90% di persone vaccinate con la quarta dose. Ma non abbiamo mai imposto la vaccinazione. L’abbiamo spiegata. E l’abbiamo fatto impiegando personale non sanitario. Abbiamo inoltre parlato della vaccinazione in generale senza nominare la malattia o il nome del vaccino. Tutte piccole azioni che hanno fatto la differenza. Ora ci apprestiamo a fare le vaccinazioni anti Pneumococco, Herpes Zoster e Papilloma virus. Cosa chiederebbe al Ministero della Salute e al Ministero della Giustizia per migliorare la salute in carcere? Innanzitutto, che possa essere applicata la riforma sulle Case di Comunità diffusamente in tutti gli istituti e in tutte le Regioni; in secondo luogo, che venga rivista la legge 309/90 sulle dipendenze, una revisione che di fatto è già in corso, io stesso sto partecipando a gruppi di lavoro organizzati dal Dipartimento della politica antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri; in terzo luogo, implementare gli screening sul modello dell’epatite C, un modello che, devo riconoscere, è stato possibile anche grazie a un grande sforzo da parte del Governo. Si dovrebbe poter intervenire sugli stili di vita, dall’alimentazione al fumo. Credo che il Ministero della Giustizia debba impegnarsi a trovare percorsi di cura alternativi sul territorio, perché non si può dare colpa sempre al magistrato che non li trova: spesso li cerca senza successo e lo vediamo tutti nel nostro lavoro. Per quanto riguarda il disagio psichico, a parte l’intervento sull’articolazione dei centri di salute mentale sul territorio, più che aumentare il numero di posti, occorre razionalizzare le assegnazioni nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) nelle articolazioni di salute mentale, con criteri che vengano condivisi dal magistrato con i medici e che diano priorità non solo a chi attende da più tempo, ma anche ai casi realmente più gravi. Occorre poi che ci sia un collegamento sanitario tra il detenuto che esce e torna in comunità, altrimenti tutto il lavoro fatto prima si perde. Ad oggi chi esce dai penitenziari non ha una cartella clinica da potersi portare dietro, non ha una tessera sanitaria. Niente, una volta che esce, tutto è resettato. Per fare tutto questo non occorrono solo fondi, ma anche un cambio di cultura che veda gli istituti di pena come luoghi che privano della libertà ma che al contempo si prendono cura di chi vive al loro interno, per il bene dell’individuo ma soprattutto della collettività. Il carcere può essere hub di salute e di riabilitazione, ma ci vogliono cultura e informazione per raggiungere questi obbiettivi. Se gli unici garantisti sono i magistrati di Alberto Cisterna Il Riformista, 14 febbraio 2023 Rispetto alla drastica contrapposizione tra le forze politiche sul caso Cospito, ancora una volta è toccato ai magistrati ricercare con fatica un punto di equilibrio e di mediazione. Casi simili: Eluana Englaro e Dj Fabo. Il parere reso dalla Procura generale della Cassazione, ai suoi massimi livelli di rappresentanza a quanto si legge, spariglia le carte dell’affaire Cospito che per la verità sembrava incappato in una pericolosa stagnazione. Il ricovero in ospedale del detenuto, autorizzato in via d’urgenza dal ministro della Giustizia, ha infatti solo rinviato la soluzione del problema che è posto dalla perdurante intenzione dell’anarchico di proseguire nello sciopero della fame sino alla revoca del regime speciale ex 41-bis. Si stanno addensando e accavallando un nugolo di questioni, l’una più ingarbugliata dell’altra, cui si aggiunge la richiesta al Comitato nazionale per la bioetica di un parere da parte del gabinetto del ministro Nordio per ricevere indicazioni circa la praticabilità di trattamenti nutrizionali forzosi, pur in presenza di una disposizione espressa del detenuto di rifiuto preventivo per il caso in cui subentrasse una condizione irreversibile di incapacità all’autodeterminazione. Una richiesta di parere che, ovviamente, indica l’intenzione di proseguire nella traiettoria dell’assoluta intransigenza e di non cedere alle richieste del detenuto e di prepararsi al peggio con le “carte a posto” ossia avendo fatto il possibile per evitare epiloghi drammatici. Il parere reso dalla Procura generale della Cassazione - in vista dell’udienza fissata a giorni per decidere il ricorso proposto dall’imputato contro la decisione che ha confermato il regime detentivo duro - dischiude invece un orizzonte di valutazioni rimasto sinora in ombra. Rispetto all’accesso dibattito pubblico che registra la dura contrapposizione tra quanti si sono espressi per la revoca del decreto ministeriale (i molti intellettuali firmatari del manifesto favorevole almeno alla mitigazione della carcerazione) e la compagine governativa che ha rifiutato una tale soluzione solo poche ore or sono, il parere del Pg della Cassazione e della stessa Procura nazionale antiterrorismo aprono uno spiraglio importante. Una flebile luce in vista di una chiusura equilibrata del dossier che vede pericolosamente in ballo la vita di un detenuto. I massimi vertici requirenti e inquirenti del paese si sono espressi per una rivisitazione della posizione di Alfredo Cospito, per un verso, ritenendo non adeguatamente motivato il provvedimento del tribunale di sorveglianza che aveva confermato il decreto a firma del ministro Cartabia e, per altro, avendo segnalato l’adeguatezza del regime di “alta sicurezza” rafforzata che costituisce una via intermedia tra la detenzione ordinaria e quella speciale ora in atto. Ci sarà modo di tornare su questo profilo della questione proprio con riferimento ai pericoli di interlocuzione dell’anarchico con la realtà terroristica esterna che la misura del 41-bis intende fronteggiare, ma per il momento non si può fare a meno di constatare che per l’ennesima volta, rispetto alla drastica contrapposizione tra le forze politiche e all’irriducibilità delle loro posizioni, sia toccato alla magistratura ricercare con fatica un punto di equilibrio e una mediazione. Un compito, certo, connaturale alla giurisdizione che è, per sua funzione, chiamata proprio a questo difficile rintraccio del punto di caduta più ragionevole del diritto e alla mitigazione dei suoi effetti più pregiudizievoli e severi. Solo che questa volta l’intervento cade subito dopo che il ministero della Giustizia ha inteso riaffermare la linea di massimo rigore e ha chiuso ogni interlocuzione sui presupposti del carcere speciale irrogato a Cospito, così esaurendo l’ampia discrezionalità di cui dispone in questa materia. Il fatto che, dopo un paio di giorni dal provvedimento del ministro Nordio che ha negato la revoca del decreto, la Procura della Cassazione individui limiti e insufficienze nella motivazione dell’ordinanza del Tribunale della sorveglianza che ha convalidato l’irrogazione del 41 bis disposta dal precedente inquilino di via Arenula - costituisce obiettivamente un quid pluris rispetto alle ordinarie interlocuzioni giurisdizionali che ogni giorno occupano la Corte di piazza Cavour. Questa volta il sindacato della giustizia penale tange un provvedimento dell’autorità governativa responsabile delle politiche carcerarie cui è rimessa la custodia, la vita e la salute dei detenuti e proprio in relazione a un caso in cui altissima è stata la tensione tra le forze politiche mostratesi incapaci di trovare una “terza via” tra la conferma del regime speciale e la sua semplice revoca. Una diatriba tutta politica e ideologica, avulsa in gran parte dalla concretezza del caso e dallo preoccupante scadere delle condizioni di salute di Cospito. Gli attentati e gli incidenti di piazza, in uno con il dibattito parlamentare che ha coinvolto esponenti di primo piano della maggioranza politica, non hanno certo giocato a favore di una scelta ponderata e si è, da parte di tutti, contribuito a rendere al calor bianco una disputa che per il solo fatto di avere in gioco la vita di una persona ristretta in carcere (e, quindi, interamente affidata allo Stato) avrebbe preteso lucido distacco e fredda valutazione. È lo specchio fedele, peraltro, dei reali rapporti di forza tra la magistratura e la politica in Italia. La capacità e la forza degli apparati giudiziari italiani risiede tutta in questa straordinaria flessibilità nella risposta da dare alle emergenze del paese. Il frastagliato mondo che distingue e connota le toghe italiane tra loro fa sì che al proprio interno ci sia la capacità di modulare la discrezionalità penale a seconda della concreta sostanza delle questioni che vengono esaminate. Rispetto al giustizialismo radicale di alcuni, opera in contrappeso la postura sapienziale di altri; all’accondiscendenza populista di taluni, risponde la mite sorveglianza sulle regole di talaltri. Un plesso inespugnabile per la politica che non dispone, purtroppo (ma non in ogni sua parte), di un’elaborazione e di una consapevolezza provviste della medesima densità e profondità. Il caso Cospito, come quello di DJ Fabo o di Eluana Englaro o di tanti altri, sembra destinato a passare ancora una volta per il setaccio fine della magistratura che mette all’angolo la politica per la propria straordinaria capacità di calare le norme sulla più incandescente delle questioni politiche e morali del paese e di performare la fluidità della materia ribollente con lo stampo della decisione. Invocare in Cassazione l’annullamento con rinvio del provvedimento si erge oggettivamente anche a prudente ed equilibrato invito affinché si riveda la condizione di Cospito al gelido chiarore delle norme che consentono il carcere duro e la motivazione di questo parere sarà senz’altro in grado di dischiudere la porta a soluzioni che al momento la politica non è stata in grado di prospettare al paese. I dubbi dei magistrati sul 41 bis a Cospito mettono in crisi Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 14 febbraio 2023 La Cassazione potrebbe dire di sì alla revoca del carcere duro per l’anarchico, che ha ripreso ad assumere integratori. Il ministro oggi dovrà difendere il sottosegretario sulla fuga di notizie. Il caso Cospito, l’anarchico al 41 bis in sciopero della fame da 116 giorni, rimane il dossier più incandescente sulla scrivania del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Il guardasigilli è costretto a difendersi da una posizione molto precaria, sia sul fronte giudiziario che politico. La settimana scorsa il ministro ha firmato il rigetto dell’istanza di revoca del 41 bis dell’avvocato di Cospito. Il gran rifiuto di Nordio, pur fondato su argomenti giuridici, non poteva che essere tale. La scelta del governo di cui fa parte, infatti, è stata quella di martellare sullo scontro tra Stato e terrorismo nelle piazze, enfatizzando la scelta della linea dura perchè “non si scende a patto coi terroristi”. Oggi, però, la decisione del guardasigilli è già in crisi sul fronte giudiziario. Il 24 febbraio, infatti, la Cassazione è chiamata a esprimersi sul ricorso dell’avvocato contro la decisione di dicembre 2022 del tribunale di sorveglianza di confermare il 41 bis a Cospito per quattro anni. Il colpo di scena è arrivato nel fine settimana, quando Repubblica ha dato notizia della requisitoria depositata dal sostituto pg di Cassazione, Piero Gaeta, che nel procedimento rappresenta l’accusa, in cui si associa alla difesa (pur con motivazioni differenti) nel chiedere l’annullamento del decreto di carcere duro per Cospito. Il sostituto pg, infatti, argomenta che Cospito è sì l’ispiratore di un gruppo terroristico anarchico che commette atti sovversivi. Tuttavia manca una “base fattuale” che dimostri la concretezza dei collegamenti tra il detenuto e il suo gruppo all’esterno. Non basta “la semplice propaganda” e il fatto di essere “punto di riferimento dell’anarchismo” per giustificare la misura detentiva più afflittiva che il nostro ordinamento conosca. Servono elementi concreti e specifici che dimostrino che la compressione della libertà di Cospito impedisca i collegamenti e anche che tutte le altre misure siano inutili o inefficaci. Il tribunale di sorveglianza, invece, non avrebbe motivato a sufficienza l’esistenza di questi presupposti. Questa svolta giudiziaria rischia di provocare due effetti. Il primo è che i giudici di Cassazione - alla luce del parere della procura generale - probabilmente annulleranno il decreto di 41 bis, rinviandolo al tribunale di sorveglianza che potrà cancellare il regime oppure motivare meglio il decreto. Il secondo è che il legale di Cospito potrà presentare nuovamente istanza al ministero della Giustizia, utilizzando la decisione della Cassazione come fatto nuovo. A quel punto tutto tornerà sulla scrivania di Nordio e sarà ancora più difficile sostenere la linea dura del governo, davanti al parere della Dna e ora alla requisitoria della procura generale. Il caso Delmastro - Come se non bastasse, Nordio deve tornare a difendere alla Camera il suo sottosegretario, Andrea Delmastro. Dovrà ripetere davanti ai parlamentari quanto già scritto in una nota: che gli atti del Dap sulle conversazioni tra Cospito e i suoi compagni di socialità mafiosi erano divulgabili. Delmastro era in possesso del dossier in relazione alla sua delega alla polizia penitenziaria e lo ha consegnato al compagno di partito, Giovanni Donzelli, che poi ne ha dato lettura in aula per attaccare il Pd, accusandola di connivenza con la mafia perché una sua delegazione era andata in carcere a trovare Cospito. Pur di difendere Delmastro, Nordio ha dovuto argomentare che “la natura del documento non rileva e disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati”. Tuttavia, quando altri parlamentari come Riccardo Magi, Marco Grimaldi e Angelo Bonelli hanno chiesto accesso agli stessi atti, il ministero ha negato loro la possibilità di ottenerli. Al netto dello scontro parlamentare e della potenziale falla di sistema che la difesa a oltranza di Delmastro comporta per via Arenula, sulla vicenda pende anche l’inchiesta della procura di Roma. Anche i pm che indagano per rivelazione di segreto d’ufficio potrebbero smentire la linea ministeriale. La situazione sanitaria - Parallelamente, prosegue lo sciopero della fame di Cospito. L’anarchico è stato trasferito nell’ospedale San Paolo di Milano su decisione del ministro, perchè le sue condizioni di salute sono sempre più precarie. Più va avanti con lo sciopero, più si pone il problema di come intervenire a livello medico. Dopo la notizia del parere favorevole del pg della Cassazione, Cospito ha ripreso ad assumere gli integratori alimentari, tuttavia ha fatto una dichiarazione anticipata di trattamento (Dat), dicendo che non vuole essere alimentato nemmeno in caso di perdita di conoscenza. Il 6 febbraio il ministero ha sottoposto un quesito al Comitato nazionale di bioetica, chiedendo se la di Dat vada seguita anche quando firmata da un detenuto che abbia deciso di porsi volontariamente in condizione di rischio. Dunque se sia possibile procedere a un trattamento sanitario obbligatorio, contro la volontà dell’anarchico a rischio di “edema cerebrale e aritmie cardiache potenzialmente fatali”, secondo i sanitari. Il rischio è la salute di Cospito abbia un tracollo prima del 24 febbraio, quando la Cassazione deciderà sul ricorso. Viste le aperture della magistratura, la responsabilità della morte dell’anarchico sarebbe sulle spalle del governo. L’informativa di polizia e Ros: “Il 41 bis a Cospito è controproducente” di Francesco Grignetti La Stampa, 14 febbraio 2023 Il documento del Superprocuratore è sulla scrivania di Nordio dal 2 febbraio: ora deve decidere. “Il regime non ha ridotto il proselitismo né contenuto le attività del movimento insurrezionalista”. Quando il Superprocuratore Gianni Melillo ha ipotizzato che per il detenuto Alfredo Cospito si potesse passare dal carcere duro al circuito dell’Alta sicurezza, ossia un leggero decalage nell’asperità del trattamento carcerario, non era per bontà d’animo, ma sulla base di un ragionamento molto pratico che viene dalle forze di polizia. Nel suo parere che sta sulla scrivania del ministro della Giustizia, Melillo riporta infatti due importanti informative di polizia e carabinieri, i cui reparti antiterrorismo ritengono che, a questo punto, tenere Cospito al 41bis non soltanto sia inutile, ma controproducente. “Si rileva che la narrativa riferibile alla galassia anarco-insurrezionista - è l’analisi del direttore della polizia di prevenzione, il vecchio Ucigos - si propone tradizionalmente l’obiettivo di indicare le campagne di lotta anche attraverso l’individuazione di possibili obiettivi da colpire”. Vale a dire che è un metodo comune, l’indicazione dei nemici, non un’esclusiva di Cospito. Ma c’è di più: “A testimonianze di come la produzione documentale di questo tenore sia connaturata al movimento di cui il Cospito è figura di vertice, anche successivamente alla sua sottoposizione al regime del 41bis, sono stati acquisiti documenti dai toni particolarmente violenti e che incitano all’azione diretta nell’ambito della campagna di solidarietà anche internazionale indetta in favore del detenuto”. Ecco perché, secondo la polizia, è controproducente tenere il terrorista anarchico al carcere duro: così si alimenta una campagna contro lo Stato italiano nel mondo. Stesso ragionamento fa il Ros dei carabinieri, mai tenero con gli anarco-insurrezionalisti: “Risulta in tutta la sua evidenza - sono i passaggi scritti dai carabinieri e riportati nel parere della Dna - come la sottoposizione del detenuto Cospito Alfredo al regime del 41bis non abbia azzerato le comunicazioni e le pubblicazioni all’interno del movimento anarchico-insurrezionalista. Considerato anche il fatto che la Fai/Fri non è struttura gerarchica né piramidale, questo ha di contro generato un incontenibile, diffuso e variegato movimento di contestazione che ha prodotto l’ulteriore nefasta conseguenza di aver fatto convergere nello stesso campo di lotta gruppi e individualità anarchico-insurrezionaliste ed esponenti di estrazione marxista-leninista con precedenti specifici di militanza brigatista ed esperienze di lotta armata”. Ecco qual è il pericolo individuato dall’Antiterrorismo dei carabinieri. Il rigido isolamento di Cospito dal mondo sta coaugulando personalità eversive diverse, e sta diventando una battaglia comune a gruppi molto lontani dal punto di vista ideologico, però uniti in questa occasione. Con pragmatismo investigativo, il Ros esamina la situazione come si è determinata in questo inizio di gennaio. “L’applicazione del regime 41bis e il conseguente isolamento di Cospito Alfredo - scrivono - non hanno determinato l’auspicata riduzione del proselitismo, né il contenimento dell’attività del movimento anarchico-insurrezionalista, che invece ha incrementato le azioni dirette, le iniziative politiche e l’elaborazione di scritti e documenti ideologici che trovano diffusione anche in ambiti esterni di contiguità politica al movimento stesso”. Detto tutto ciò, unendo considerazioni di fatto con quelle di diritto, la Superprocura suggerisce al governo una soluzione che salverebbe le esigenze umanitarie con quelle di sicurezza, allo stesso tempo sottraendo al movimento anarco-insurrezionalista un fondamentale argomento: se si togliesse Cospito dal 41bis e lo si riportasse all’Alta sicurezza come è stato negli ultimi 9 anni, imponendogli stavolta la censura della comunicazioni, si avrebbe un sufficiente argine alla diffusione di documenti propagandistici, ma senza i rigori del 41bis. Nel parere della Superprocura, gli argomenti della difesa di Cospito non hanno fatto alcuna breccia. “Argomentazioni non condivisibili”. Una contrapposizione tutta ideologica da parte del governo, però rischia di fare il gioco dell’Antistato. “In alcuni recenti documenti di aree anarchiche - scrive Melillo, che ieri ha deciso di fare un comunicato per chiarire il suo pensiero - è finanche evidenziata una presunta difficoltà dello Stato nella gestione delle conseguenze derivate dall’applicazione del regime differenziato all’anarchico Cospito”. Il Superprocuratore ha allegato un articolo, “Lo Stato è debole”, pubblicato lo scorso 26 dicembre 2022 sul sito di area anarchica “Il rovescio”. “A tale divisione palesemente non appartiene la consapevolezza che le istituzioni di uno Stato di diritto operano legittimamente soltanto attraverso la rigorosa applicazione della legge e dei principi costituzionali”. I prossimi appuntamenti - domani Nordio parlerà in Parlamento, il 24 febbraio se ne occuperà la Cassazione, a seguire toccherà alla Corte costituzionale - non potranno non tenere conto dei diversi punti di vista dei magistrati. Gli atti svelati da Delmastro-Donzelli non erano divulgabili di Nello Trocchia Il Domani, 14 febbraio 2023 La rivelazione su Cospito ha infranto tutte le procedure sulla gestione dei documenti. La commissione ha accesso agli atti, ma non si possono copiare né diffondere. La commissione parlamentare antimafia ha gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria, poteri che non consentono di divulgare gli atti, anche quelli del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La procedura per chiederne copia e consultarli conferma la forzatura commessa da Andrea Delmastro Delle Vedove e Giovanni Donzelli, rispettivamente sottosegretario alla Giustizia e deputato di Fratelli d’Italia nella vicenda dei colloqui tra l’anarchico, Alfredo Cospito, e i boss di mafia. “Non ci sono dubbi, quegli atti non potevano essere diffusi, le condotte che hanno assunto sono da sanzionare, visto che anche la procedura di un organismo bicamerale d’inchiesta prevede una prassi consolidata che vieta ogni possibile divulgazione”, dice Rosy Bindi, esponente del Pd, che ha guidato la commissione antimafia dal 2013 al 2018. La procedura per un parlamentare che vuole approfondire una relazione come quella letta in aula da Donzelli è articolata e rigidissima. L’onorevole deve fare richiesta dei documenti da consultare, la pratica viene vagliata dall’ufficio di presidenza, che inoltra formalmente l’istanza al Dap per il rilascio degli atti. A questo punto la procedura diventa inflessibile. La commissione parlamentare antimafia ha accesso a tutti gli atti, ma quando entrano nella disponibilità della bicamerale d’inchiesta i documenti vengono secretati, i componenti della commissione possono vederli, leggerli, ma non si possono copiare, fotografare e, ovviamente, non si possono divulgare. Il controllo sull’accesso è rigoroso: il richiedente deve registrarsi per vedere l’atto, viene segnata l’ora di visualizzazione e monitorata la consultazione. “Sono atti sensibili, non è possibile divulgarli in alcun modo, non è mai successo, nel caso in discussione l’acquisizione della relazione è avvenuta senza neanche un passaggio formale”, dice Bindi. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha provato a coprire i due fedelissimi di Giorgia Meloni infilandosi in una improbabile arringa difensiva. “La natura del documento non rileva e disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati”, ha scritto. Atti che, se richiesti da un componente di una bicamerale d’inchiesta, sarebbero stati consultati senza possibilità di copia e divulgazione. Oggi il ministro dovrà spiegare tutto alla Camera, mentre prosegue l’indagine della procura di Roma. Nei giorni scorsi sulla questione è intervenuto l’ex senatore Luigi Manconi, che ha sollevato dubbi sulla genesi del caso. “Fino al 23 dicembre 2022, i detenuti al 41 bis che avevano possibilità di qualche comunicazione con Cospito erano considerati inoffensivi, non costituivano più un pericolo attuale. Successivamente cambia il gruppo di socialità e in luogo di quelli inoffensivi arrivano tre boss della criminalità organizzata, attivi e attualmente pericolosi. Sono quelli con i quali vengono intercettati brandelli di comunicazione, brandelli che innescano la polemica e l’attacco alle opposizioni”, dice Manconi. Bisogna precisare che nel primo gruppo di socialità c’era anche Pietro Rampulla, condannato per la strage di Capaci. Di certo i contatti e i rapporti più intensi tra Cospito e i mafiosi avvengono con il cambio del gruppo di socialità. I sindacati, con in testa il Sappe, hanno chiesto un intervento a Nordio, parlando di “insinuazioni” da parte di Manconi. Intanto le parole dell’ex senatore saranno oggetto di un’interrogazione parlamentare. “Si tratta di domande legittime, chi ha deciso il cambiamento del gruppo di socialità? Perché? La coincidenza temporale del cambio di gruppo di socialità con l’inizio degli ascolti è quanto meno bizzarra. Il Dap deve spiegarla”, spiega Manconi. Questa vicenda racconta anche i nuovi rapporti di forza all’interno del mondo penitenziario che girano attorno al sottosegretario Delmastro, e le ruggini con i precedenti governi. Le cause sono da chiarire, ma l’effetto è pubblico: imbarazzare un’opposizione che quando era al governo è apparsa insensibile ai temi degli agenti penitenziari. 41 bis, quando dissi che a Provenzano andava tolto nel fine vita e ricevetti offese di ogni tipo di Pippo Giordano* Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2023 Sul 41 bis, ne sto sentendo di tutti i colori. Ma è giusto che se ne parli, ma ciò dovrebbe avvenire con cognizione di causa e non per “disorientare” l’opinione pubblica. Vorrei ricordare che nel corso della mia attività investigativa, spesso tra un interrogatorio e l’altro, c’erano momenti di relax e ciò mi consentiva di affrontare coi pentiti di Cosa nostra tematiche del loro mondo. Parlavamo la stessa lingua, nel senso che ero conoscitore delle dinamiche mafiose oltre che dei componenti le famiglie. Un documentario Rai di qualche anno fa parlava di me dicendo: “Pippo Giordano: un detective come direbbero gli americani. Una specie di infiltrato permanente nelle famiglie mafiose. Funzionava come una sorte di archivio vivente”. Quindi, per me era davvero facile disquisire sulla mafia e sui suoi adepti (allora ero giovane ora sugnu vicchiareddu). E tra i vari temi affrontati, c’era anche il 41 bis. E per far meglio comprendere a chi legge cito un dialogo che ebbi con un importante pentito di Cosa nostra, proprio sul 41bis: “Pippo, noi al carcere Ucciardone eravamo i padroni di casa. Comunicavamo all’esterno con estrema facilità. Non vi erano restrizioni e quindi all’interno potevamo socializzare, specialmente noi punciuti. Le guardie ci consentivano anche di pranzare e cenare in compagnia. Ti racconto un episodio. Un giorno - siamo negli anni 70 - U zu Saru (Rosario) Riccobono, da latitante entrò all’Ucciardone con champagne, cassate e torta per festeggiare il compleanno di un uomo d’onore importante. Dopo i festeggiamenti - a cui io partecipai - ci salutò con abbracci e baci e uscì tranquillamente dall’Ucciardone”. Qualche anno fa ho letto sui giornali che un detenuto in regime di 41 bis diede l’ordine all’esterno di uccidere un uomo d’onore. Ebbene, quel detenuto fu da me arrestato nel 1983 ed è ancora recluso. Penso che quanto detto basti per far comprendere come il 41bis sia assolutamente necessario e non deve essere abolito. Tuttavia, a parere di chi scrive bisognerebbe evitare di farne un uso generalizzato, ma di applicarlo quando le effettive ragioni lo consentono. Giova che io ricordi un mio pensiero pubblicato in un giornale siciliano con riferimento a Binnu U Tratturi (Bernardo Provenzano). Si ricorderà che Provenzano nell’ultimo periodo della sua vita era diventato un vegetale; ovvero senza capacità di discernere il bene dal male. E quindi come avrebbe potuto interagire col mondo esterno in quelle condizioni? Lo Stato dimostrò di essere forte nel non volergli togliere il 41 bis? No! Non penso proprio. Comunque - in risposta al mio pensiero su Provenzano - ricevetti offese e contumelie di ogni tipo, ma non cambiai opinione. *Ex ispettore DIA Il giudice Ardita: “Mafiosi che hanno commesso fatti così gravi non possono tornare liberi” di Giorgio Romeo La Stampa, 14 febbraio 2023 Duplice femminicidio a Catania. Parla il magistrato che nel 1997 fece arrestare La Motta per omicidio: “Rischiamo la liberazione in massa dei mafiosi presi negli Anni 90”. “Chi ha commesso fatti così gravi, non può tornare libero se c’è il rischio che continuerà ad uccidere. Altrimenti lo Stato cosa potrà dire ai parenti delle vittime?”. Con questa frase, affidata a un post su Facebook, il magistrato Sebastiano Ardita, che nel lontano 1997 in qualità di pm aveva chiesto l’arresto e l’ergastolo per Salvatore La Motta - l’uomo che sabato mattina ha ammazzato due donne prima di uccidersi davanti alla caserma dei carabinieri di Riposto - ha commentato un fatto di cronaca che ha scioccato non solo la cittadina etnea, ma anche tutto il paese. Ardita, già membro del Csm, magistrato attualmente in organico alla procura di Catania, è stato anche per dieci anni alla guida dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Abbiamo cercato di capire con lui alcune dinamiche che riguardano la gestione dei permessi dei detenuti e alcuni possibili limiti del nostro ordinamento. Un condannato all’ergastolo per omicidio e mafia, può ricevere permessi premio? Non è previsto il cosiddetto ergastolo ostativo? “Tecnicamente non ci sarebbe stato spazio per la semilibertà, trattandosi di omicidi commessi in contesti e con modalità di mafia. Questa vicenda - come tante altre - spiega come, anche prima della recente riforma, l’ergastolo ostativo e il divieto di benefici per i mafiosi fondati sull’articolo 41 bis presentassero delle falle considerevoli, presenti nelle pieghe dell’ordinamento. Ma questo non basta a spiegare il problema: il punto è che in un sistema come il nostro - basato sulle carte e non sui controlli - c’è chi va in cerca di titoli per costruirsi un curriculum da detenuto modello, al solo scopo di uscire dal carcere e continuare a delinquere. Del resto, la subcultura mafiosa si basa oltre che sulla violenza anche sulla falsità e sull’inganno. Non dovremmo essere sorpresi di ciò”. Nel 1997 lei era il pubblico ministero che chiese l’arresto di Salvatore La Motta per l’omicidio di Nardo Campo, un delitto compiuto nel pieno centro di Giarre. La Motta all’epoca era anche coinvolto in altri fatti di mafia e nel dibattimento lei chiese per lui la condanna all’ergastolo. Cosa ricorda di quel periodo? “Il processo nacque dalla collaborazione di un mafioso di Acireale e fece luce sulla presenza devastante di Cosa nostra in tutta la fascia ionica della provincia etnea, fino a quel momento mai seriamente intaccata da indagini e processi. Si riuscì a fare luce su circa 50 omicidi e una innumerevole quantità di estorsioni ed altri reati, con circa 200 misure cautelari e sfociando in due maxiprocessi. Mafiosi ed assassini furono tolti dal territorio, mentre per anni avevano terrorizzato commercianti e cittadini che ci ringraziavano per quel lavoro”. Con quali parametri si valuta la pericolosità di un detenuto? Si è trattato di un errore di valutazione o è il sistema ad avere delle lacune? “La magistratura di sorveglianza cui spettano queste decisioni è spesso chiamata a decidere su atti formali che danno conto di buona condotta e partecipazione all’opera di rieducazione. Il punto è che il nostro sistema penale non prevede reali verifiche mirate a valutare il comportamento del detenuto in semilibertà. Non esiste un corpo demandato ed un reale controllo di polizia su come si comporta un semilibero. Nei Paesi anglosassoni una pattuglia della polizia penitenziaria si reca ogni giorno nella loro residenza e monitora comportamenti e abitudini. La frequentazione di un pregiudicato o anche l’uso di sostanze vietate porta all’immediata la revoca della misura”. Da un lato il “caso Cospito” e il dibattito sui diritti dei detenuti al 41 bis, dall’altro questa vicenda. In che modo tutto ciò impatta sui ragionamenti legati alla possibilità di reinserimento in società degli ex detenuti? “Queste vicende generano confusione e smarrimento nella pubblica opinione e spesso polemiche politiche, da cui derivano decisioni avventate. L’errore più grave sarebbe di nuocere alla funzione rieducativa della pena negando opportunità a quei detenuti che vorrebbero realmente cambiare vita. Ma anche a voler accettare l’idea che un mafioso possa rompere i legami con l’associazione, occorre comprendere che si tratta di rarissime eccezioni, mentre noi oggi così rischiamo di fatto una liberazione di massa dei boss arrestati negli Anni 90. Perché avviene che gli istituti pensati per gli emarginati vengano applicati ai mafiosi, restituendo l’immagine di uno stato forte coi deboli e incapace di contrastare la grande criminalità. Il rischio è di tornare al clima degli Anni 90”. Alfonso Sabella: “A Roma si spara come a Napoli. La violenza sempre più diffusa” di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 14 febbraio 2023 Intervista al magistrato: “I vecchi boss che controllavano la Capitale sono stati arrestati o sono più deboli: c’è un vuoto di potere da riempire”. La malavita a Roma come la camorra a Napoli. La criminalità della Capitale cambia pelle, si trasforma e assomiglia sempre di più a quella del capoluogo campano: imprevedibile, mutevole, violenta e costantemente in conflitto. Una condizione che sdogana l’uso spregiudicato della forza a tutti livelli, dai vertici fino alle ultime file. Questa la lettura che Alfonso Sabella - magistrato ed ex assessore alla legalità del comune di Roma ai tempi di Ignazio Marino sindaco - dà degli ultimi fatti di sangue che hanno sconvolto la Città Eterna, compresa una fetta importante del Lazio. Il rapimento di Danilo Valeri in un locale a Ponte Milvio il 22 dicembre, l’assassinio di Thomas Bricca ad Alatri il 30 gennaio, l’omicidio il 3 febbraio a Ostia di Fabrizio Vallo, l’uccisione di un caporal maggiore dell’esercito Danilo Lucente Pipitone venerdì a Centocelle e la gambizzazione, lo stesso giorno, di due ventenni a Morena. Cosa sta succedendo? “Lo dico da molto tempo, siamo di fronte alla “camorrizzazione” di Roma. Nella Capitale la malavita si comporta come la camorra a Napoli”. Cosa significa? “La modalità di azione, i frequenti cambi di leadership, il ricorso costante all’impiego della forza. Cosa nostra e ‘ndrangheta sono tradizionalmente più stabili, forse sono anche più potenti della camorra. Tuttavia la camorra è più fluida, non ha stretti vincoli parentali come le altre due mafie. Quindi è meno stabile e perciò produce più violenza”. Ha una data l’inizio della “camorrizzazione” di Roma? “Sì, l’assoluzione per il 416 bis di Mafia Capitale. Assoluzione giusta da una punto di vista giuridico ma che ha prodotto un particolare effetto collaterale”. Quale? “Molti romani pensano che l’assoluzione di Mafia Capitale significhi una cosa: a Roma la mafia non esiste. E invece non è così, bisogna tenere alta la guardia a tutti i livelli. Non solo da parte di investigatori e magistrati, ma anche da parte dei politici”. Siamo di fronte a una nuova ondata di violenza? “Mi auguro di no, tuttavia la situazione attuale non promette niente di buono”. Qual è il gruppo criminale che più di tutti a Roma incarna questo nuovo modello criminale? “Gli Spada sono un esempio perfetto. Il loro modello criminale è quello che si sta affermando oggi su vasta scala. Gli Spada esibiscono costantemente la violenza per poter ribadire la loro posizione. In questo si distinguevano da un’altra famiglia mafiosa, altrettanto pericolosa, ma meno “aggressiva” come i Fasciani”. C’è anche un elemento generazionale alla base di questo mutamento? “Certamente. I vecchi boss che controllavano la Capitale sono stati arrestati o si sono indeboliti. Quindi c’è un vuoto di potere da riempire. Le nuove leve, per potersi imporre, non esitano a sparare, non ci pensano troppo”. Le forze dell’ordine e la magistratura sono in grado di affrontare questa nuova sfida o anche loro si devono aggiornare? “Le forze dell’ordine sono bravissime nella fase delle indagini, sono più carenti per quanto riguarda la prevenzione, ma è anche una questione di risorse. Il numero degli agenti della polizia Municipale tra Roma e Milano si equivalgono, ma la Capitale è dieci volte più grande”. Napoli. Dentro l’inferno di Poggioreale: topi, muffa e dignità calpestata di Francesca Sabella Il Riformista, 14 febbraio 2023 È l’inferno in terra. È un luogo disumano. Di uomini privati della libertà personale e di ogni diritto. Non è più vita. È il carcere di Poggioreale, il penitenziario più affollato d’Europa. E lo ha detto bene il presidente della Camera Penale di Napoli Marco Campora che oggi, nella biblioteca Tartaglione del Nuovo Palazzo di Giustizia ha preso parte alla conferenza stampa organizzata da Magistratura Democratica (MD) per illustrare il report della recente visita effettuata insieme con l’associazione Antigone a Poggioreale. “Non c’è possibilità di salvare questo carcere, è una struttura vetusta e inadeguata” ha detto senza mezzi termini Campora. Ma pare che qui nessuno lo capisca, entrare a Poggioreale vuol dire avviarsi a morte. Ce lo ricordano i suicidi dietro le sbarre, solo a Poggioreale nell’ultimo anno si sono tolte la vita 21 persone e si contano anche 267 tentativi di suicidio. E nell’ultimo anno in Italia hanno deciso di uccidersi in cella 82 detenuti. Sono i numeri di una strage, una strage silenziosa che passa in sordina come pure passano in sordina le vite degli ultimi, dei dimenticati, di quelli che tanto stanno in carcere e quindi la loro vita vale sicuramente meno di una persona “libera”. Dalla visita, risalente allo scorso 4 febbraio, è emerso un quadro deprimente, esclusivamente a tinte fosche che, quando rappresenta alcuni padiglioni, diventa assume i colori cupi di un girone dell’Inferno dantesco. La capacità dell’istituto prevede una presenza massima di 1639 detenuti, ma ce ne sono 2003 (qualche mese prima, lo scorso ottobre, erano 2126) il 50% dei quali con pena definitiva. Numeri impressionanti che, per Marco Campora, possono essere fronteggiati unicamente con un’amnistia e un indulto. Poi, ha spiegato che “l’unica soluzione per il futuro è la depenalizzazione, ma la politica deve affrontare il tema con serietà, perché si tratta di un’emergenza democratica, costituzionale e, ancora prima, umana”. Dietro quelle sbarre c’è un mondo infernale, ma siamo tutti cechi, sono tutti ciechi. Umidità e muffa nelle celle, che i detenuti cercano di arginare con la carta, mentre con il cartone si cerca invece di ostacolare l’ingresso dei topi: si è trovata davanti anche questo la delegazione di Magistratura Democratica. A illustrare il report è stata oggi il sostituto procuratore di Napoli Gloria Sanseverino, segretaria di Magistratura Democratica (MD) che ha parlato di un “appuntamento particolarmente sentito, non solo dagli operatori ma anche dal cittadino che si interroga sul sistema penitenziario e sulla possibilità di calpestare la dignità umana”. Sanseverino ha illustrato una situazione gravissima, a dispetto degli sforzi della direzione del carcere: a Poggioreale, accanto ai padiglioni chiusi tempo fa per gravissime carenze (“c’erano i wc a pochissima distanza dalla cucina e dalla tavola dove i detenuti consumavano i loro pasti”), come il Roma, attualmente in ristrutturazione, “ce ne sono anche altri dove la situazione è dignitosa (i padiglioni Firenze e Genova) ma anche altri dove invece sono state registrate importanti criticità, come gli spazi per la socialità pressoché assenti e le docce in comune e mal messe. Al sovraffollamento si affianca, ha spiegato Sanseverino, carenza di personale (tra la polizia penitenziaria, i medici e i mediatori culturali). “Anche in carcere le persone di ammalano”, ha detto il magistrato, “ma ci sono pochissimi medici”. Una situazione inimmaginabile. “Per capire cosa sia il carcere di Poggioreale - ha detto ancora il presidente della Camera Penale - bisogna entrarci. La visione è choccante. C’è gente annichilita, inebetita. Altro che reinserimento sociale: quando quelle persone lasceranno la detenzione non potranno fare altro che mostrare rancore contro chi è libero perché a loro non è stata data alcuna chance. E questo è intollerabile”. Cos’altro stiamo aspettando? Che sia troppo tardi? È già troppo tardi. Parma. Ergastolano chiede i domiciliari: “Ha 90 anni ed è malato”, ma i giudici dicono no di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 14 febbraio 2023 Il caso di Salvatore Prestifilippo recentemente colpito anche da un ictus e condannato al fine pena mai per un omicidio commesso nell’ottobre del 1981. Per la Cassazione “è ancora pericoloso e in carcere può ricevere le cure e l’assistenza necessarie”. Compirà 90 anni il prossimo 8 aprile. Vista l’età, Salvatore Perstifilippo, boss di Ciaculli condannato all’ergastolo per un omicidio commesso nel 1981, ha diversi problemi di salute, tanto che in tempi recenti è stato pure colpito da un ictus cerebrale ed è stato sottoposto ad un delicato intervento. Proprio per questo ha chiesto di poter scontare la pena agli arresti domiciliari. Un’istanza che è stata però bocciata in tutti i gradi di giudizio, fino all’ultima pronuncia, quella della prima sezione della Cassazione: nel carcere di Parma dov’è detenuto, secondo i giudici, può infatti ricevere tutte le cure e l’assistenza di cui ha bisogno. La sentenza è stata emessa nei mesi scorsi, ma Palermo Today ne è venuto a conoscenza solo ora, dal collegio presieduto da Monica Boni, anche sulla scorta dei pareri forniti sia dalla Dda che dalla questura di Palermo - che hanno “ritenuto attuale la pericolosità sociale del detenuto, evidenziata dall’assenza di collaborazione con la giustizia e dalla sua storia criminale, essendo lo stesso noto esponente della famiglia mafiosa di Ciaculli” - ma anche delle relazioni sanitarie. Prestifilippo, soprannominato “Bruciamontagna”, è un nome decisamente di peso nella storia di Cosa nostra. Amico personale del “papa”, Michele Greco, e zio di Mario Prestifilippo, uno dei killer più sanguinari, trucidato a sua volta nel 1987. Il mafioso era stato coinvolto nel processo di Catanzaro e poi nel Maxiprocesso, dove venne condannato a 16 anni di reclusione. Aveva fatto però perdere le sue tracce subito dopo le rivelazioni di Tommaso Buscetta. Venne catturato a giugno del 1989. Nel 2004 era arrivata la condanna all’ergastolo nel processo “Agate+45”, su ben 77 omicidi di mafia, tra cui anche quello dell’imprenditore Libero Grassi. Prestifilippo è stato ritenuto responsabile di un delitto commesso il 14 ottobre del 1981. Per la difesa, il boss di Ciaculli avrebbe problemi di vista e udito e per la sua età molto avanzata e il “grave stato di infermità fisica” e avrebbe quindi diritto di andare ai domiciliari. Anche perché già in due circostanze, il 16 dicembre 2014 e il 22 novembre 2016, il tribunale di Sorveglianza di Milano e Palermo, avevano già disposto la detenzione in casa “dopo aver accertato il grave stato di salute del detenuto” e che durante i 4 anni trascorsi agli arresti domiciliari Prestifilippo “aveva sempre rispettato le regole”. Per la Cassazione, che ha confermato le precedenti decisioni sia del magistrato che del tribunale di Sorveglianza, il ricorso è infondato. Secondo i giudici, una prima relazione sanitaria ha stabilito che “le condizioni cliniche del detenuto erano considerate come discrete e stabili, gestibili in ambiente carcerario”, una seconda aveva “certificato un quadro clinico del detenuto stabile e adeguatamente trattabile” in carcere. Inoltre “si evinceva che il quadro clinico poteva essere gestito in una struttura penitenziaria come quella di Parma - si legge nella sentenza della Suprema Corte - dove il detenuto era recluso, dotata di centro clinico e assistenza specialistica costante”. Infine Pestifilippo “veniva regolarmente monitorato e sottoposto a visite e accertamenti di cui necessitava, con somministrazione della terapia farmacologica prescritta dai vari specialisti”, senza contare che era stato accompagnato in ospedale in seguito all’ictus. Rimini. Bando comunale per individuare il Garante per i diritti delle persone private della libertà riminitoday.it, 14 febbraio 2023 Figura istituita dal Consiglio Comunale al fine di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile. È uscito il bando per la presentazione delle candidature alla elezione del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, una figura istituita dal Consiglio Comunale al fine di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali da parte delle persone private della libertà personale o limitate nella libertà di movimento. Un profilo professionale, dunque, disciplinato, con apposito Regolamento, da funzioni specifiche, requisiti curriculari, modalità di presentazione delle candidature e di elezione, organizzazione dell’ufficio e relazioni istituzionali. È possibile presentare domanda entro le ore 13 del 3 marzo 2023. “Si tratta di un incarico di assoluta importanza a tutela della dignità delle persone e, allo stesso tempo, a servizio della collettività tutta - è il commento dell’assessore alla Protezione sociale del Comune di Rimini, Kristian Gianfreda -. È nell’interesse, infatti, dell’intera comunità che i detenuti siano riabilitati nel tessuto sociale e che il tasso di recidiva cali il più possibile”. “Per nominare la figura del Garante - aggiunge Giulia Corazzi, Presidente del Consiglio comunale - ricordo che è necessario acquisire le candidature dei cittadini in possesso di comprovata competenza in ambito penitenziario, nel campo delle scienze giuridiche, delle scienze sociali e dei diritti umani e che offrano la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività e competenza”. Migranti. Lo sbarco selettivo è illegittimo: il tribunale dà torto al governo sul “carico residuale” di Alessandro Puglia La Repubblica, 14 febbraio 2023 L’ordinanza è del Tribunale di Catania sul caso della nave Humanity 1. A 35 persone a bordo fu impedito di sbarcare. Il governo Meloni ne vietò lo sbarco, definendo quei 35 naufraghi rimasti sulla nave un “carico residuale”. Ma adesso il tribunale di Catania dà torto all’esecutivo. Lo fa a seguito del ricorso d’urgenza presentato dai naufraghi soccorsi dalla Ong Sos Humanity 1 l’8 novembre 2022 dopo che a 35 di loro non era stato permesso di sbarcare perché “non idonei”. Il tribunale di Catania con un’ordinanza ha dichiarato illegittimo il decreto interministeriale del governo Meloni che prevedeva il cosiddetto “sbarco selettivo”. “Il citato decreto è, pertanto, illegittimo in quanto consente il salvataggio solo a chi sia in precarie condizioni di salute, contravvenendo al contenuto degli obblighi internazionali in materia di soccorso in mare”, si legge nell’ordinanza che rileva inoltre l’incidenza del decreto sul diritto dei migranti di presentare domanda di protezione internazionale. Lo sbarco fu poi consentito dopo le visite mediche a bordo dei medici del ministero della Salute. L’ordinanza fa luce sul fatto che nel rispetto delle leggi sul soccorso in mare lo sbarco in porto avrebbe comunque dovuto riguardare tutti i naufraghi e non soltanto una parte. Viene inoltre nuovamente specificato il concetto di “salvataggio”, inteso non soltanto come soccorso ai migranti in difficoltà, ma anche considerando l’approdo in un porto sicuro di sbarco. “Il tribunale di Catania spiega che il nuovo governo italiano è obbligato a rispettare la legge internazionale, il salvataggio non può essere considerato come il solo recupero dei naufraghi e inoltre sulla protezione internazionale lo Stato italiano ha l’obbligo di dare seguito alla domanda di asilo con indicazioni temporali che vanno rispettate “, spiega l’avvocato Riccardo Campochiaro, legale dei 35 naufraghi della Humanity 1 a cui non fu consentito in un primo momento lo sbarco, venendo poi etichettati dal nuovo governo come “carico residuale”. Regeni, trovo giusto convocare Meloni e Tajani. Ora si apra il processo, anche senza gli imputati di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2023 Il gup di Roma squarcia il velo dell’ipocrisia ed accoglie la richiesta, avanzata dalla famiglia Regeni, rappresentata dall’avv. Ballerini, di sentire la presidente del Consiglio Meloni ed il ministro degli esteri, Tajani: un modo per verificare il tasso di impostura nelle parole che normalmente i rappresentanti del governo italiano hanno adoperato in questi anni, in sintonia col governo egiziano. Una mossa politicamente “scorretta” e moralmente giustissima per tentare di scoprire cosa ci sia di reale nella formula usata e abusata in questi anni sulla manifesta volontà del governo egiziano di collaborare alle indagini (con il governo Meloni si è arrivati persino alla “promessa”!). Attenderemo quindi con ansia il 3 aprile perché Giulio Regeni non può essere ucciso un’altra volta dai fantasmi egiziani, “finti inconsapevoli” che rischiano di offendere mortalmente quel che resta del senso di giustizia in tutti noi. I loro nomi (che vanno sempre scritti e pronunciati in testa ad ogni intervento sul tema, come chiedono la famiglia ed i legali di Giulio): il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono questi i quattro agenti dei servizi egiziani, che la Procura di Roma ritiene a vario titolo responsabili del sequestro, della tortura e dell’assassinio di Giulio Regeni. Sono questi che l’Italia vorrebbe processare dopo sette anni di lavoro caparbio, che ha dovuto avere ragione di almeno quattro tentativi di depistaggio. Ma, come è noto, non essendo stato possibile fin qui notificare loro l’inizio del processo, questo rischia di non potersi celebrare. È chiaro che i quattro sanno perfettamente quello che sta succedendo ed è altrettanto chiaro che l’impossibilità di procedere con le notifiche dipenda dalla volontà delle autorità egiziane. Tutto questo è chiaro anche ai governi italiani, ovviamente, che si sono succeduti in questi sette anni, e che hanno tenuto tutti lo stesso atteggiamento, ruvido a parole, ma non conseguente nei fatti, tanto da far scrivere in un post al legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini: “Sette anni. Chissà cos’hanno tutti da nascondere per ostacolare la verità con tanta oltraggiosa determinazione. Abbiamo i nomi, abbiamo i volti di quattro tra i molti artifici di ‘tutto il male del mondo’. Ci manca la loro elezione di domicilio per celebrare finalmente un processo in Italia. Chi, ad ogni gita al Cairo, dopo i selfie e i salamelecchi di rito, si riempie la bocca di ‘collaborazione’ dovrebbe spiegare agli italiani perché tornano a casa sempre a mani vuote, incapaci di farsi dare anche solo 4 indirizzi. Sarebbe più dignitoso tacere. A furia di stringere le mani (e vendere armi) ai dittatori si rischia di trovarsi insanguinate anche le proprie. E di offendere la nostra dignità.” Questa aberrante ipocrisia, che fa comodo a molti al di qua ed al di là del mare, si fa forte della profonda innovazione che è avvenuta nel campo della procedura penale relativamente a quella modalità di svolgimento del processo in assenza dell’imputato che veniva chiamata “contumacia” e che oggi non esiste più, nemmeno nel nome. Oggi esiste la possibilità di celebrare un processo “in assenza” (questa la definizione più felpata, che deriva dalla evoluzione normativa europea, tradotta dal Legislatore italiano in successivi step, fino all’intervento della riforma Cartabia che ha riscritto l’attuale 420 bis del codice di procedura penale) dell’imputato, ma le condizioni si sono fatte decisamente più stringenti e sono senz’altro orientate al superamento di ogni presunzione di conoscenza in capo all’imputato dell’inizio del processo. Ora al contrario si presume, a maggior gloria dell’incomprimibile diritto di difesa, che l’imputato non sappia a meno che non sia stato certamente informato. Nel caso degli imputati per l’assassinio di Giulio questa “certezza” pare non si sia potuta documentare, nonostante tutto, e questo rischia appunto di far deragliare il processo. A meno di fatti nuovi. Tra le condizioni stringenti che il Giudice può considerare per ritenere legittimo procedere “in assenza” ovvero tra le circostanze che possono far ritenere al Giudice che gli imputati sappiano, pur non avendo ricevuto formale notifica, c’è quella di essere stati dichiarati latitanti. E quando si diventa tecnicamente un “latitante”? Per esempio quando ci si sottrae ad una misura cautelare come l’arresto, quello che viene ordinato per evitare il pericolo di fuga o di manipolazione delle prove o di reiterazione del reato. Sul punto denuncio la mia ignoranza e chiedo: è stata mai richiesta la misura cautelare dell’arresto dei quattro da parte delle autorità italiane, nell’ambito della cooperazione giudiziaria tra i due Paesi? La cronaca ci rammenta un episodio che seppure non sovrapponibile a questa situazione, la evoca a parti inverse: nell’agosto del 2018 un cittadino egiziano (che aveva anche cittadinanza italiana) Mohamed Mahsoub, niente meno che ex ministro del governo Morsi, proprio quello abbattuto dal golpe di Al Sisi, venne fermato in Sicilia in forza di un mandato di cattura spiccato dall’Egitto attraverso l’Interpol. Va aggiunto che allora l’ex ministro venne rilasciato dalle autorità italiane e non consegnato a quelle egiziane (immagino con grande scorno di Al Sisi, che Morsi lo aveva cacciato col plauso occidentale). Non so che fine abbia fatto l’ex ministro. E chissà che non c’entri pure questa storia col dramma di Giulio. *Attivista antimafia ed ex deputato Turchia. Discriminati tre volte: i rifugiati siriani sono già il capro espiatorio di Ankara di Murat Cinar Il Manifesto, 14 febbraio 2023 Privati degli aiuti, vittime di linciaggi e costretti a pagare gli spostamenti che per i turchi sono gratis. La denuncia di ong e sindacati: picchiati da gang nazionaliste ed esclusi dai soccorsi. In Turchia il bilancio cresce sempre di più. I terremoti del 6 febbraio hanno causato la morte di circa 30mila persone. Secondo gli ultimi dati comunicati dalle ong sul territorio, circa 10 milioni di persone hanno subito o subiranno gli effetti di questa catastrofe. La situazione è decisamente difficile per tutti ma forse per i rifugiati ancora di più, soprattutto perché la rabbia dei cittadini si sta indirizzando verso di loro e non verso i veri responsabili. “In zona vivevano circa due milioni di rifugiati, in grande parte siriani, poi afghani. Pochi vivevano nei campi, la maggioranza abitava nelle case in condizioni precarie o non idonee. Temiamo che ci siano parecchie perdite tra i migranti presenti in zona. Purtroppo finora non ci sono numeri ufficiali”. PARLA così Emel Karadeniz del Sindacato dei Migranti (Gocmen Sendikasi) che opera con numerosi suoi iscritti e volontari sui territori colpiti in questi giorni. Ozge Ozan invece lavora per la Fondazione di Solidarietà con le Donne (Kad?nlarla Dayan?sma Vakf?) e si trova sul territorio per svolgere lavori di ricerca, salvataggio e coordinamento: “Abbiamo poche informazioni anche sui centri di rimpatrio, non sappiamo come stanno coloro che si trovavano dentro”. Ozge attira l’attenzione sulla nuova circolare diffusa pochi giorni fa dalla Presidenza per la gestione dell’immigrazione che permette, solo per tre mesi e in modo straordinario, ai migranti residenti nelle zone colpite di uscire fuori dalle loro città di residenza, un diritto che gli veniva riconosciuto solo tramite un permesso speciale da alcuni anni. “Tuttavia questi spostamenti non possono essere fatti con l’aereo a differenza dei cittadini turchi. Se i rifugiati hanno soldi riusciranno a raggiungere gli amici o i parenti residenti in altre città. Ci viene riferito che quelle aziende di trasporto che offrono spostamenti gratuiti discriminano i rifugiati e li fanno pagare”. In realtà sono anni che i rifugiati vivono in piena discriminazione in Turchia. Sono circa quattro milioni e si trovano in una situazione molto precaria: hanno diritto a una protezione provvisoria e non possono lasciare la Turchia, situazione, in parte, frutto dell’accordo firmato con l’Unione europea. In gran parte sono siriani e sono sotto pagati, la maggioranza è senza permesso di lavoro quindi impossibilitata a lavorare con un contratto. Negli ultimi anni, soprattutto con la crescita della crisi economica e dei partiti razzisti, sono nati diversi momenti di linciaggio fisico nei loro confronti in diversi angoli del paese e c’è una continua disinformazione sulla loro condizione di vita. “In questi giorni ho conosciuto vari rifugiati che sono stati accusati di saccheggio e malmenati. Ci sono bande composte dai nazionalisti alla ricerca di rifugiati da picchiare. Alcuni media e politici diffondono notizie false soprattutto sui siriani dicendo che rubano oppure ricevono quei servizi che i cittadini turchi non riescono”. La questione che solleva Ozge è stata citata anche nel comunicato dell’Associazione degli avvocati progressisti (Çhd): “Riceviamo diverse segnalazioni sui casi di discriminazione che subiscono i rifugiati nella distribuzione dei beni di prima necessità. Sono di nuovo vittime delle dichiarazioni d’odio. Alcuni politici e organizzazioni criminali approfittano della mancanza dello Stato per creare il capro espiatorio invece che concentrarsi sui veri responsabili di questo disastro”. L’Associazione specifica nel suo comunicato che ha già iniziato a denunciare i casi di violazione dei diritti umani. Si è espressa anche l’Associazione di Solidarietà con i Rifugiati (Multeci-Der): “In alcune zone le amministrazioni locali dichiarano che non sono intenzionate ad aiutare ai rifugiati oppure hanno già iniziato a comportarsi così”. Secondo Emel i rifugiati potrebbero trovarsi obbligati ad andare a vivere nelle grandi città, lasciare la Turchia partendo verso l’Europa o ritornare in Siria. Nel primo caso, secondo Ozge, si tratterebbe di una situazione difficile: “Nelle grandi città i rifugiati vivono in piccoli appartamenti in tanti e pagando molto. Per cui l’arrivo di altri rappresenta un peso notevole”. Emel teme che per il governo centrale la partenza dei rifugiati verso la Siria possa essere una sorta di “soluzione”: da tempo cresce una rabbia collettiva perché Ankara non è in grado di dare una vita dignitosa ai rifugiati e questa rabbia tende a trasformarsi in un consenso elettorale a sfavore del governo. “L’altra opzione che gli rimane è partire per l’Europa. A questo punto l’Ue deve comportarsi in modo responsabile dato che la permanenza obbligatoria e le condizioni di vita precarie sono anche le conseguenze dell’accordo firmato con il governo centrale in Turchia”, dice Ozge. Ma sono anche i pensieri di Emel e di tante altre ong presenti in Turchia, molto preoccupate del futuro di queste persone arrivate in Turchia scappando dalla guerra che distrugge i loro paesi.