Cospito, i dubbi del pg della Cassazione: “Non c’è prova che guidi gli anarchici” di Viola Giannoli, Liliana Milella La Repubblica, 13 febbraio 2023 La richiesta alla Suprema corte di sospendere il 41 bis: “Il carcere duro serve solo a impedire altri reati”. Il detenuto in sciopero della fame è entrato in ospedale rifiutando la sedia a rotelle: “Scusate per il disturbo”. L’unico a non aver letto il parere del procuratore generale della Cassazione su Alfredo Cospito, che di fatto lo libera dal 41 bis, è Carlo Nordio. Lo leggerà solo oggi, se lo riceverà nel suo ufficio di via Arenula. Sembra incredibile, ma è così. Parola dello stesso Nordio. Che si appresta a vivere un’altra settimana difficile. Da una parte il 41 bis di Cospito, divenuto misura dai piedi d’argilla dopo il knockout della Suprema corte. Dall’altra, dopodomani alla Camera, la seconda puntata del Delmastro gate, quando Nordio dovrà di nuovo difendere il sottosegretario dall’aver divulgato le note del Gom “a diffusione limitata”. A piazzale Clodio c’è aria di reati in vista. Ma l’ex pm Nordio dovrà fare l’avvocato difensore di Delmastro che fa politica con le carte del Dap. Tant’è. Via Arenula non finisce di stupire. Accade così anche per la crociata contro Cospito che il ministro e i suoi considerano tuttora un capo operativo in grado di incitare alla rivolta perché ha detto “il corpo è la mia arma”. La procura generale della Cassazione non la pensa affatto così e chiede ora al tribunale di sorveglianza di Roma di rivedere la decisione sul 41 bis. Occhio alle date. Il 9 febbraio Nordio ufficializza il suo “sì” al carcere duro. Peccato che il giorno prima il sostituto procuratore della Corte, Piero Gaeta, depositi l’atto che libera Cospito dal 41 bis. I giudici, secondo lui, hanno sbagliato e devono rivalutare la loro decisione di prorogarlo per altri 4 anni. Parole come pietre quelle di Gaeta, che tutto è fuorché una toga rivoluzionaria. Eccolo scrivere che c’è “una carenza di fattualità in ordine ai momenti di collegamento” di Cospito con gli anarchici. E “la verifica su tale punto essenziale non traspare nelle motivazioni” ma è “necessaria “ e non può essere “desumibile interamente e unicamente né dal ruolo apicale né dall’essere divenuto punto di riferimento dell’anarchismo in ragione dei suoi scritti e delle condanne riportate”. Cospito sarà stato anche un capo, ma per tenerlo al 41 bis bisogna dimostrarlo con i fatti, non con semplici teorie. Gaeta è lapidario: il 41 bis non può giustificare “la rarefazione e la compressione di altre libertà inframurarie” se non con l’impedimento di “contatti e collegamenti” che risultino “concretamente” e “specificamente” finalizzati a evitare “ulteriori reati o attività dell’associazione esterna”. Insomma, “è necessario che emerga una base fattuale con elementi immanenti e definiti”, e questo “non è dato riscontrare” nell’ordinanza. Ebbene sì, aveva ragione il legale della difesa Flavio Rossi Albertini a ricorrere in Cassazione e a premere su Nordio perché si assumesse la responsabilità politica. Perché Gaeta condivide la ragione principale della difesa, e cioè la “carenza di motivazione “ sul “collegamento funzionale “ tra le forti limitazioni del 41 bis e la tutela dell’esigenza di ordine e sicurezza, nonché sull’effettiva “idoneità” degli scritti di Cospito per provare la sua capacità di mantenere legami con l’esterno. Toccherà ora ai giudici della Suprema Corte, il 24 febbraio, decidere se ha ragione il pg Gaeta o il tribunale di sorveglianza. Ma in un caso come questo, in cui la parte del duro spetta al pm che chiede il 41 bis, è difficile che i giudici vadano oltre le sue considerazioni. Che succede fino ad allora? Cospito resta al 41 bis all’ospedale San Paolo. Ci è arrivato sulle sue gambe rifiutando la sedia a rotelle e chiedendo scusa per il disturbo. “Le sue condizioni sono stabili” per i medici. Ma Rossi Albertini ha diffidato l’ospedale da trattamenti e alimentazione forzati. I tempi non giocano per Cospito e dovrebbero spingere Nordio a valutare la proposta fatta su Repubblica dall’ex ministro Giovanni Maria Flick di sospendere il 41 bis in attesa che la giustizia, con i suoi di tempi, prenda una decisione definitiva. Nordio, l’ora dei dubbi sul caso Cospito: intervenire o attendere la Cassazione di Francesco Grignetti La Stampa, 13 febbraio 2023 Il pg in vista dell’udienza del 24 febbraio: “Mancano le basi fattuali dei collegamenti con l’organizzazione”. Va ripensato il 41bis per Alfredo Cospito, il terrorista anarchico-insurrezionalista che sta portando avanti uno sciopero della fame da 115 giorni. Questa in sintesi la posizione della procura generale della Cassazione, in vista dell’udienza del 24 febbraio, dopo avere esaminato il ricorso della difesa e l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva confermato il carcere duro a Cospito per i prossimi 4 anni. Ebbene, secondo il pg di Cassazione è pacifico che Cospito sia il capo e l’ispiratore di un gruppo terroristico, la Federazione anarchica informale, ed è altrettanto pacifico che questo gruppo è da considerarsi un’organizzazione sovversiva ai sensi di legge, come stabilito da due sentenze della magistratura di Torino del 2019 e 2020, ribadite dalla corte di Cassazione stessa nel luglio 2022. C’è però un problema che riguarda la posizione del detenuto Cospito. Manca, a giudizio del vertice della pubblica accusa, una “base fattuale” e comprovata dei collegamenti tra il detenuto e la sua organizzazione. Già perché il 41bis non può giustificare la “rarefazione e la compressione di altre libertà inframurarie se non con l’impedimento di contatti e collegamenti”. Ma questi collegamenti devono risultare nel concreto, e spetta al tribunale di Sorveglianza motivarli. Questi collegamenti, peraltro, devono essere “specificamente” finalizzati ad evitare “ulteriori reati o attività dell’associazione esterna”. Una semplice propaganda, che pure nel caso Cospito è inoppugnabile non basta. Tutto ciò, appunto, nel provvedimento del tribunale di Sorveglianza non c’è. E quindi, secondo il pg, quel provvedimento va annullato dalla Cassazione con rinvio al tribunale medesimo affinché motivi meglio, se crede, o cancelli il tutto. Già, perché in assenza di prove concrete di questo collegamento - scrive la procura generale - avrebbe persino un senso “la stigmatizzazione difensiva secondo cui la condizione interclusiva speciale fosse giustificata solo dalla necessità di contenimento dell’estremismo ideologico”. Fuori di gergo, la procura generale dice che, senza prove, non è peregrina la tesi di Cospito, che aveva commentato: “Mi trovano troppo sovversivo e perciò mi hanno tumulato in un sarcofago di cemento armato”. In buona sostanza, il pg di Cassazione ritiene che ci sia una carenza di motivazioni nel provvedimento del tribunale di Sorveglianza. Motivazioni che sono invece necessarie, quanto al collegamento tra il dentro e il fuori, pur in presenza di un evidente ruolo ideologico. “Non può essere desumibile interamente ed unicamente, - scrive la procura generale, retta da Luigi Salvato - né dal ruolo apicale, né dall’essere egli divenuto punto di riferimento dell’anarchismo in ragione dei suoi scritti e delle condanne riportate”. E qui la questione diventa squisitamente politica, perché proprio il suo ruolo di “ispiratore” della galassia anarchista è alla base del recentissimo provvedimento del ministro Carlo Nordio. Per il Guardasigilli, come era stato anche per il tribunale di Sorveglianza di Roma, ma anche per la procura generale di Torino, tanto basta per considerarlo il capo di una organizzazione. Ora la procura generale di Cassazione sostiene il contrario con un provvedimento molto articolato, depositato mercoledì scorso, poche ore prima che arrivasse la pronuncia del ministro. E che farà a questo punto il ministro Nordio? Aspetterà l’udienza del 24 febbraio, pur davanti a una situazione sanitaria che rischia di precipitare ad ogni momento? Oppure ripenserà le sue posizioni? A caldo, tutto sembra fermo. Sono trascorse solo 72 ore dal rigetto dell’istanza dell’avvocato Flavio Rossi Albertini e tutto lascia pensare che il Guardasigilli ci vorrà pensare sopra. Un margine di manovra ci sarebbe: la procura generale, così come la Superprocura antiterrorismo, hanno messo in evidenza che negli ultimi 9 anni Cospito era stato ristretto nel circuito dell’Alta sorveglianza, ma senza l’imposizione della censura. Un’inspiegabile sottovalutazione che ha permesso la diffusione di cinque suoi documenti nei circuiti dell’anarchismo. “Risultano di sicura e grave valenza istigatrice”, li definisce la procura generale. Cospito si vanta di avere “colpito nella carne viva uno dei maggiori responsabili del nucleare in Italia” e approva eventuali “azioni contro strutture del potere”. Eppure, al di là della truculenza - dice la procura generale - il tribunale di Sorveglianza e il ministro Carlo Nordio devono valutare se sono solo parole farneticanti oppure indicazioni operative. Solo su questa base è ammesso un 41bis. Quei pm più garantisti di Nordio di Donatella Stasio Il Dubbio, 13 febbraio 2023 Il ministro Nordio che smarrisce il suo teorico garantismo, i Pm che mostrano il volto del “diritto mite”, e il governo Meloni che fa un uso improprio della faccia feroce per fini elettorali. Si alza il sipario sui ruoli giocati finora nel caso Cospito e si scopre che i Pm sono ben più garantisti del guardasigilli. Giovanni Melillo, che guida la Procura antimafia e antiterrorismo, e Piero Gaeta, Avvocato generale presso la Corte di cassazione, hanno dato a Nordio una lezione con la loro interpretazione “mite” del diritto, che non è né rinuncia né rassegnazione ma, al contrario, applicazione saggia e responsabile delle regole nei casi difficili della vita. È questa la strada che trasforma il diritto in giustizia e che avrebbe potuto/dovuto portare il ministro a revocare il 41 bis - con trasferimento al circuito dell’Alta sicurezza - per l’anarchico Alfredo Cospito, da 116 giorni in sciopero della fame e da sabato ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano. Una soluzione “mite”, appunto, ma purtroppo incompatibile con la gestione esasperatamente politica di questa vicenda (almeno fino alle elezioni regionali), che contribuisce ad alzare il livello di tensione e di esposizione al rischio della collettività. Un braccio di ferro tragico e malinconico. Non ce n’era bisogno e ieri se n’è avuta la conferma. È di ieri, infatti, la notizia, anticipata da questo giornale, secondo cui la Procura generale della Cassazione ha chiesto, in vista dell’udienza del 24 febbraio su Cospito, l’annullamento della decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, che aveva confermato il 41 bis, con rinvio allo stesso Tribunale affinché riveda la motivazione di quella decisione, ritenuta lacunosa. Ovviamente bisognerà attendere il verdetto della Cassazione, che potrebbe invece confermare la pronuncia del Tribunale o annullarla senza rinvio oppure seguire il Pg e rimettere la palla ai giudici della sorveglianza di Roma per una nuova valutazione. Tempi non brevissimi, insomma. Ma resta il fatto che le conclusioni di Gaeta, un magistrato di grande esperienza, sono un segnale di estrema importanza, perché provengono dall’organo dell’accusa. La requisitoria è stata depositata in cancelleria mercoledì 8 febbraio ed è difficile credere - sebbene sia un atto interno - che in via Arenula non ne sapessero proprio nulla. Tanto più che c’era molta attesa sulla Cassazione. La prassi vuole che il ministro non si pronunci su un’istanza di revoca anticipata del 41 bis (come quella presentata dal difensore di Cospito) se sull’annullamento della misura è pendente anche il giudizio della suprema Corte, come in questo caso. E all’inizio della scorsa settimana, Nordio sembrava intenzionato a seguire la prassi, per evitare contraddizioni tra la valutazione politica e quella giudiziaria. Evidentemente, però, c’è stato un ripensamento, un contrordine, qualcosa che ha indotto il ministro - il giorno dopo il deposito della requisitoria - a firmare il rigetto della revoca del 41 bis. Per la seconda volta, quindi, Nordio ha chiuso la porta a una soluzione mite della vicenda. La prima volta lo ha fatto, una settimana fa, con il parere del Procuratore antimafia, nel solco del quale si inserisce la requisitoria di Gaeta. Melillo aveva proposto, in alternativa alla conferma del 41 bis, che Cospito venisse trasferito al circuito dell’Alta sicurezza (AS2) dove transitano alcuni 41 bis, detenuti di un certo calibro di pericolosità, sottoposti a un controllo più rigoroso rispetto ad altri circuiti penitenziari. Una soluzione offerta al ministro su un piatto d’argento per uscire, senza morti e feriti, da questo tunnel, in cui forse non ci si sarebbe mai dovuti ficcare. Non una deroga, ma un’applicazione rigorosa del diritto, che fra l’altro avrebbe messo nell’angolo Cospito visto che il suo sciopero della fame è legato al mantenimento del 41 bis. Ma forse, in questa stagione politica, la forza del diritto mite è un “lusso” che non possiamo più permetterci. Azzariti: “Il 41 bis è una forzatura della civiltà, lo Stato decida o cede ai ricatti” di Serena Riformato La Stampa, 13 febbraio 2023 Il costituzionalista: “Non è incostituzionale, ma va ammesso solo se indispensabile. Il ministro ragioni a mente fredda, sui principi e non condizionato dalle violenze”. “Il ministro della Giustizia Carlo Nordio dovrebbe riprendere in considerazione la sospensione del 41 bis per Alfredo Cospito prima del 24 febbraio”. Secondo Gaetano Azzariti, costituzionalista dell’Università La Sapienza di Roma la richiesta del procuratore generale della Cassazione Piero Gaeta di revocare il carcere duro per l’anarchico e rinviare a un nuovo esame “è l’ultimo segnale di una situazione assai complessa ed in rapida evoluzione in cui è difficile ragionare freddamente”. Qualcuno leggerebbe persino la sospensione come un cedimento a quello che il governo considera un “ricatto” portato avanti da Cospito con lo sciopero della fame... “Trovo l’argomento del ricatto decisamente fuorviante. Penso che farsi condizionare dall’argomento di un’ipotetica lotta agli anarchico-insurrezionalisti da parte dello Stato finisca per non tenere conto della situazione di fatto. Uno Stato che non si fa ricattare è uno Stato che sa decidere freddamente senza legare la vicenda di detenuto alle violenze che vengono portate avanti nel suo nome, le quali devono essere perseguite a prescindere dalla situazione del singolo detenuto. La tutela della vita di Cospito deve semmai operare come acceleratore delle decisioni, non necessariamente condizionare l’esito. Anche la Cassazione ha anticipato già due volte l’udienza sulla revoca del 41 bis proprio perché diventa sempre più impellente il tentativo di arrivare in tempo”. La procura antimafia e antiterrorismo guidata da Giovanni Melillo, pur senza negare la pericolosità di Cospito, ha aperto alla possibilità che sia sufficiente un regime di alta sorveglianza con censura delle comunicazioni. Perché il ministro Nordio ha ignorato questo parere? “La decisione del ministro della Giustizia rientra nella sua esclusiva responsabilità ministeriale. È evidente che Nordio non sia obbligato a dare seguito all’opinione dei magistrati soprattutto perché, in questo caso, le indicazioni sono state differenti. La procura di Torino, ad esempio, si è espressa in senso opposto all’Antiterrorismo, chiedendo la conferma del regime speciale. La situazione è molto complessa anche dal punto di vista strettamente giuridico, permettendo più interpretazioni. Non c’è dubbio quindi che per la scelta del ministro sia decisiva la sua sensibilità politica”. Il ministero della Giustizia, lo scorso 6 febbraio, ha inviato al comitato nazionale di bioetica un quesito relativo alle disposizioni anticipate di trattamento, qualora arrivino da un detenuto che in modo volontario abbia deciso di porsi in una condizione di rischio per la salute. Lo Stato può obbligare Cospito a nutrirsi? “Lo escludo perché l’articolo 32 della Costituzione è chiaro: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Soprattutto perché in questo caso non c’è un rischio per altri. Il rifiuto di cure è un diritto riconosciuto. Cospito ha espresso chiaramente e consapevolmente la volontà di non proseguire nelle cure. La sua condizione di detenuto non cambia questo dato di fatto. È vero che lo Stato ha degli obblighi verso la salute dei carcerati, ma se il rifiuto dei trattamenti è espresso, non si può non rispettare”. Quindi in ogni caso l’organo competente non sarebbe il Comitato di bioetica? “Il ministero può chiedere un parere al Comitato. Ma il trattamento obbligatorio andrebbe stabilito con una disposizione di legge che in questo momento non c’è, e che probabilmente sarebbe incostituzionale porre”. In un’intervista a La Stampa, l’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky ha detto che la “Costituzione è la coscienza di uno Stato” e che l’idea di alcuni che il 41 bis sia “tanto più efficace quanto più è crudele” sia lontana dalla Carta... “Sono d’accordo con il professor Zagrebelsky. La Costituzione è l’espressione della civiltà di un popolo. Il 41 bis è una forzatura di questa civiltà. Non le sto dicendo che sia incostituzionale, ma che si debba basare su un bilanciamento stretto e può essere ammessa solo se indispensabile a salvaguardare la sicurezza pubblica”. Sarebbe quindi necessaria una revisione della norma sul carcere duro? “Il 41 bis è nato nel 1986 come misura antiterrorismo, nel 1992 è stato riattualizzato dopo stragi di mafia. È evidente dalle origini che si tratti di una misura del tutto eccezionale, in antitesi rispetto all’articolo 27 della nostra Costituzione perché la pena non ha un valore rieducativo e all’articolo 13 perché ci sono aspetti di violazione morale a chi è ristretta nella sua libertà. La legge sul carcere duro è stata scritta sul sangue di Capaci. Si tratterebbe oggi di riflettere però se la situazione non sia cambiata. Purtroppo il clima creato non è dei migliori per una riflessione di questo tipo”. C’è il rischio che il caso Cospito affossi questa discussione anziché darle spazio? “Si stanno sovrapponendo troppi piani. Se non riusciamo a ragionare in base ai principi, inevitabilmente la decisione sarà determinata dalla drammaticità della vicenda di Cospito. Il dibattito sul 41 bis fra i costituzionalisti va però avanti da sempre, è evidente che sia una misura critica, che andrebbe sottoposta a una riflessione di carattere complessivo”. Caso Cospito, Cacciari: “Nordio mi stupisce. Lo conoscevo come garantista, non si tortura un uomo così” di Liana Milella La Repubblica, 13 febbraio 2023 Intervista al filosofo, firmatario dell’appello per l’anarchico: “Che possa minacciare la sicurezza dello Stato è davvero fantapolitico”. “Oggi il 41 bis per Cospito è solo una perfetta ingiustizia e una tortura”. Focosamente, e con l’entusiasmo verbale di sempre, Massimo Cacciari sta dalla parte di chi contesta questa pena inflitta a Cospito. Un mese fa ha firmato l’appello dei giuristi per revocare il 41 bis e adesso eccolo pronto a dire: “Nordio non l’ha tolto? Io avrei fatto diversamente”. Per il Pg della Cassazione il 41 bis non serve più. Lei che farebbe? “Non è cambiato proprio nulla. Non mi risulta che Cospito abbia commesso nuovi reati da 41 bis. E tantomeno sono venute fuori prove di chissà quale fantasiosa capacità da parte di un anarchico in galera di suggerire e dirigere attività criminali da compiere fuori dal carcere. Quindi l’applicazione del 41 bis nei suoi confronti è solo una perfetta ingiustizia, che somiglia molto a una tortura”. Nordio conferma il carcere duro... “Io avrei fatto diversamente. Ma posso capire la sua decisione, perché se le autorità che giudicano la pericolosità di un detenuto condannato in via definitiva danno al ministro indicazioni differenti, è difficile che lui possa ignorarle”. È stato pm, e sa chi è Cospito... “Sono stupito che una persona come Nordio, che ho sempre conosciuto come un garantista, abbia deciso di avallare un simile trattamento, alla stregua dei più pericolosi terroristi e stragisti mafiosi. Che poi Cospito possa minacciare la sicurezza dello Stato è davvero fantapolitico”. Nordio è il Guardasigilli di Meloni. Questo spiega tutto? “Io non ho mai fatto dietrologie, giudico gli atti politici, l’avesse fatto anche Berlinguer l’avrei giudicato come un atto politico infame”. In Italia e all’estero però c’è una grande effervescenza anarchica. C’è chi lo addebita a Cospito e al suo sciopero della fame... “Ma lei ci crede davvero? Non succedeva neppure all’epoca di Bakunin, si figuri se possono farlo adesso quattro anarchici, come se davvero potessero contare su un’organizzazione centralizzata come quella delle Br, per non dire della mafia. Se siamo al punto di non capire queste differenze e di trattare allo stesso modo gli uni e gli altri, allora abbiamo davvero portato il cervello all’ammasso”. Nordio può sospendere il carcere duro? “Il 41 bis ha una sua logica, giusta o sbagliata che sia. Nasce in una situazione che lo giustifica, in cui era acclarato che i capi di organizzazioni potentissime e stragiste arrivavano a far saltare in aria i Falcone e i Borsellino, dirigendo le loro operazioni pure dal carcere. Era necessario tenerli isolati. È la logica che sostiene la norma. Si può discutere se sia umana o no, ma il ragionamento è fondato”. Il punto è se Cospito merita questa durezza... “Appunto. Il 41 bis non può essere usato come uno strumento normale, nel caso di reati anche gravi, ma che nulla hanno a che vedere con quelli di mafia e terrorismo. Un anarchico come Cospito non è Riina. E il 41 bis è una misura estrema che non può essere usata a capocchia. Più grave è la pena e più dev’essere motivata e usata con estremo rigore e misura. Questa è civiltà giuridica”. Guardi che ha gambizzato un dirigente dell’Ansaldo... “Va punito con pene proporzionate. Ma a chi altro, per reati simili, è stato dato il 41 bis?” Fuori crescono le azioni anarchiche... “Scusi, ma dov’è la logica? Se lei mi arresta, e fuori c’è qualcuno che uccide e ammazza (cosa che per fortuna non è avvenuta), lei dà l’ergastolo a me? Ma siamo pazzi?”. Toglierebbe il 41 bis a Cospito? “Certo. E dopo si discuterà se questa detenzione va mantenuta, modificata o abolita”. In isolamento prolungato il cervello si deteriora: un rischio che corrono i carcerati al 41 bis di Giuseppe Iaria* Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2023 Una bella vita frenetica è quella che viviamo in un’era digitale che ci mantiene in contatto con il mondo giorno e notte. Messaggi, chiamate, spese, uscite, lavoro, sport, figli, cene, film, podcast e tanto tanto ancora. Una stimolazione sensoriale continua che, seppur arricchendo la nostra vita da molte prospettive, di certo ha effetti negativi sul nostro cervello. Reagire a uno stress cronico del genere, però, si può. Con tecniche di rilassamento, yoga e approcci terapeutici (o meno) che altro non fanno che ridurre al minimo la nostra stimolazione sensoriale creando una forma di isolamento che crea benessere fisico e mentale. Lo si può fare anche a casa. Il mio caro amico e collega Peter Suedfeld dell’University British Columbia in Canada (con il quale ho la grande fortuna di chiacchiere di tanto in tanto) ha dedicato la sua intera vita a studiare gli effetti benefici di quella che è conosciuta come “tecnica di stimolazione ambientale ridotta” (restricted environmental stimulation technique - Rest). Insieme ai suoi colleghi, Peter ha dimostrato in molti studi l’effetto positivo dell’isolamento (e ridotta stimolazione sensoriale) sul corpo e la mente di persone sane sottoposte a stress quotidiano e pazienti con trauma di generi diversi. Insomma, una certa dose di isolamento - e quindi ridotta stimolazione sensoriale - fa bene. Ma come in tutte le cose, fa bene solo in una certa misura. Nelle neuroscienze è ormai assodato infatti che una deprivazione sensoriale sostenuta nel tempo ha un effetto negativo sulla capacità del cervello di svilupparsi, di ricordare, di ragionare e di monitorare funzioni vitali importanti. Infatti, in una condizione di isolamento prolungato, la capacità di aree cerebrali di comunicare tra di loro diminuisce e quelle aree cerebrali dedicate a un determinato senso (per esempio la vista o l’udito) perdono completamente quella funzione. Il risultato è un cervello che produce stati d’ansia, depressione, allucinazioni e un deterioramento mentale tale da portare spesso al suicidio. In una forma lieve abbiamo tutti provato sulla nostra pelle gli effetti di una deprivazione sensoriale durante questa pandemia. Abbiamo sofferto tutti l’impossibilità di fare attività fuori casa con la libertà che abbiamo sempre avuto, seppur minima - considerando l’infinita stimolazione disponibile (e contatti con il mondo esterno) che abbiamo avuto dentro le mura di casa nostra. La pandemia ha avuto e continuerà ad avere un impatto devastante sulla salute mentale di noi tutti. A conferma di quanto sia veramente importante limitare l’isolamento per evitare disfunzioni mentali molto serie. La Nasa (e molte altre agenzie spaziali) stanno facendo diventare una priorità la ricerca sullo studio degli effetti che l’isolamento - durante una missione spaziale - ha sulla salute mentale degli astronauti e sulle loro capacità cognitive. Posizioni politiche e giustizialiste a parte, senza entrare nel merito di una giusta pena detentiva - che in un paese civile dovrebbe essere “rieducativa” quanto e quando possibile - detenere un individuo in isolamento prolungato con una grande deprivazione sensoriale significa dal punto di vista neurologico creare un deterioramento mentale così grave da produrre la morte. Io non penso che riuscirei a sopravvivere in una condizione di isolamento tale per più di qualche mese. E tu? *Docente di Neuroscienze Cognitive Università di Calgary, Canada Evitare l’evitabile: una scelta di umanità per Cospito di Rosalba Famà comunitadiconnessioni.org, 13 febbraio 2023 Scuote le coscienze, o almeno dovrebbe, il “Caso Cospito”, storia di un anarchico - detenuto da oltre 10 anni e dal mese di maggio sottoposto al regime di carcere duro - che da 114 giorni prosegue lo sciopero della fame. La volontà del detenuto è chiara: lasciarsi morire lentamente e sotto i nostri occhi. Lo si evince dal mandato conferito pochi giorni fa al suo legale per impedire, attraverso vie giudiziarie, ogni forma di alimentazione forzata ove dovesse perdere conoscenza. Un uomo senza mangiare resiste in media 70 giorni. I rischi per la vita del detenuto hanno portato l’amministrazione giudiziaria al suo trasferimento nel carcere di Opera di Milano, dove sono presenti le attrezzature necessarie per un’eventuale cura. La storia di Cospito fa da eco a quelle di altri 84 detenuti che nel 2022 hanno scelto di togliersi la vita in un carcere italiano. La protesta utilizza il corpo come strumento per manifestare il proprio pensiero. Tornano alla mente le proteste non violente di matrice orientale denominate “Sathiaghra”, dal sanscrito, forza e fermezza. Il termine ha in sé anche la parola “ahima” ossia assenza di danneggiamento. L’anarchico mira a contestare il c.d. art. 41-bis della legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario e l’ergastolo ostativo, la pena più grave: la reclusione si protrae per tutta la durata della vita del detenuto senza possibilità. Il regime di cui all’art. 41-bis è stato applicato poiché il detenuto avrebbe dato prova di “essere perfettamente in grado di collegarsi all’esterno, anche in costanza di detenzione intramuraria al regime ordinario, inviando documenti di esortazione alla prosecuzione della lotta armata di matrice anarchico insurrezionalista”, si legge nelle motivazioni del provvedimento, riportate sul Sole24Ore. Entrambi gli istituti penalistici sono da molto tempo oggetto di dubbi sia in punto di legittimità costituzionale che di compatibilità con la Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). La nostra Costituzione all’art. 27 afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. In Italia la pena ha una funzione rieducativa e mira a reinserire chi la subisce nella comunità dei consociati. I condannati che svolgono durante la detenzione un’attività lavorativa mostrano un tasso di recidiva particolarmente basso, pari al 3%, contro una media di oltre il 60% per chi non ha un’opportunità simile. Reinserire, piuttosto che lasciare ai margini, non è solo una scelta etica, ma anche uno strumento per assicurarsi maggiore sicurezza. Anche l’art. 3 della CEDU stabilisce che nessuno può essere sottoposto né a pene o trattamenti inumani e degradanti. La ratio dell’art. 41 bis - concepito in una fase emergenziale - è quella di impedire che il detenuto considerato pericoloso possa continuare ad intrattenere contatti con i suoi sodali e dirigere dal carcere attività illegali. Sebbene la sua ragione sia comprensibile, le modalità attuative sono spesso sproporzionate e non necessarie per il perseguimento di questi fini. Cospito e tutti gli altri detenuti soggetti a tale regime vedono il trattamento loro riservato esacerbato. Come si può immaginare le comunicazioni con l’esterno sono ristrette e controllate, ma non solo. L’ora d’aria è ridotta a trascorrere due ore in un cubicolo di pochi metri quadrati con un tetto. Sono limitati al minimo i momenti di socialità con gli altri detenuti, aspetto che porta alcuni di loro a disimparare l’uso del linguaggio. La possibilità di ricevere libri di lettura è limitata ad un libro al mese. Vietato il materiare pornografico. È possibile portare con sé solo 10 fotografie care. E si potrebbe continuare. Non ci sono molti dubbi sul fatto che queste prescrizioni siano qualificabili come trattamenti inumani e degradanti. Su questi temi urge che giuristi e società civile si interroghino ancora più nel profondo di quanto fatto finora, affinché si avvii un processo di riforma che metta al centro l’Uomo e la vita umana. Cospito è detenuto per la gambizzazione dell’AD di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, per aver promosso e diretto la Federazione Anarchica Informale e per degli attentati, pur in assenza di morti o feriti. “La gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua, ma deve passare in secondo piano”. Lo ha scritto alcuni giorni fa, sulle pagine di Avvenire, un gruppo di giuristi in un appello al Guardasigilli e urge ribadirlo. Né si può considerare un ricatto il gesto di chi sceglie di rifiutare il cibo e con esso la vita per manifestare il proprio disagio. Si rischierebbe di tradire la nostra Costituzione, che pone ai vertici, tra i valori che lo Stato è chiamato a proteggere, la vita umana e la dignità della persona. “Sta qui - come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo - la differenza tra gli stati democratici e i regimi autoritari.”, continua l’appello. Se da un lato è evidente che il pericolo di ulteriori azioni criminali vada sterilizzato, è altrettanto chiaro che non si possa restare indifferenti rispetto ad una morte certa. La scienza giuridica è abbastanza avanzata per individuare modalità alternative altrettanto efficaci per garantire la sicurezza dei cittadini, senza perdere di vista l’umano. Applicando i principi di extrema ratio, proporzionalità e sussidiarietà si può trovare una soluzione che raggiunga l’obiettivo securitario senza scadere in un trattamento degradante. Questa scelta scongiurerebbe anche i rischi eversivi che in questi ultimi giorni si stanno manifestando in tutta Europea. Il richiamo è quello che la politica lasci da parte le proprie logiche a favore di una scelta di coraggio e umanità. Decade prima il 41 bis o cade prima Cospito? di Federica Olivo huffingtonpost.it, 13 febbraio 2023 Il parere del procuratore generale di Cassazione sul 41 bis: “Collegamenti con gli anarchici da dimostrare”. Uno spiraglio in vista della decisione del 24 febbraio. Ma intanto c’è il nodo dell’alimentazione forzata: cosa fare se la situazione precipita? Sono stabili le condizioni di Alfredo Cospito, che da ieri è stato trasferito dal carcere di Opera al reparto riservato ai detenuti del carcere San Paolo di Milano. L’anarchico in sciopero della fame da 115 giorni contro il 41 bis ha rifiutato la sedia a rotelle e si è mosso con le sue gambe, chiedendo, a quanto si apprende “scusa per il disturbo” al personale sanitario che lo ha preso in cura. La scelta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è stata definita dal ministero “precauzionale”, dopo che da una visita medica era emerso che rischiava peggioramenti improvvisi: “La salute di ogni detenuto costituisce priorità assoluta”, ha ribadito via Arenula. Mentre la sua salute desta sempre più preoccupazione, tanto che si inizia a ragionare su cosa accadrà nel momento in cui dovesse perdere conoscenza e necessitare di alimentazione e idratazione forzata, si apre uno spiraglio per la modifica del regime carcerario imposto a Cospito. Dopo il “no” di Nordio, che non ha revocato il 41 bis, si attende la Cassazione il 24 febbraio. Il procuratore generale, Pietro Gaeta, nella requisitoria ha dato chiesto che il provvedimento di carcere duro sia annullato. Perché? Perché, scrive il pg, non è sufficientemente dimostrato il legame attuale, presente, tra Cospito e gli anarchici che sono fuori dalle carceri. Nella requisitoria, anticipata dall’Ansa, si legge che per dimostrare che questi collegamenti esistano e che possano causare la commissione di altri reati “è necessario che emerga una base fattuale” fondata su “elementi immanenti e definiti”. Base che, al momento, “non è dato riscontrare”. La posizione della procura generale lascia dunque aperta la possibilità che la decisione giudiziaria sul 41 bis a Cospito sia diversa da quella politica, arrivata il 9 febbraio per mano del Guardasigilli. Si tratterebbe di una svolta di non poco conto, ma prima che ciò accada bisogna aspettare ancora due settimane. Che per una persona in sciopero della fame possono essere fatali. Più urgente è, invece, la questione sanitaria. E delle eventuali cure di emergenza. Cosa succederebbe se, a causa del lunghissimo digiuno che sta compromettendo la sua salute, Cospito perdesse conoscenza, se si trovasse sul punto di non farcela? La questione è molto delicata e ne abbiamo parlato con Francesco Di Paola - avvocato, componente dell’associazione Luca Coscioni nonché uno dei legali Marco Cappato e di Mina Welby - e con Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze e co-autore del libro Vendetta pubblica in cui, con storie e numeri, racconta il carcere e la rieducazione. Intervenendo sull’eventualità dell’alimentazione forzata, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, che assiste l’anarchico, ha spiegato: “Alfredo Cospito è stato chiaro e sarebbe irrispettoso alimentarlo artatamente lui ha lasciato disposizioni precise e lo ha fatto in condizione di perfetta lucidità. Una volontà che non possono violentare”. Nonostante ciò, la questione resta aperta. Il ministro della Giustizia ha chiesto un parere al Comitato nazionale di bioetica, recentemente rinnovato, dopo la nascita del governo Meloni. Si tratterebbe, in ogni caso, di un parere né obbligatorio, né vincolante. A suscitare dubbi è il fatto che Cospito non è un uomo libero, ma un detenuto. Sono dubbi che, però, per l’avvocato Di Paola non hanno ragione di esistere: “Non c’è nessuna differenza, sotto questo aspetto, tra un detenuto e un uomo libero. Cospito ha firmato una disposizione anticipata di trattamento (Dat), anche se non nelle forme ufficiali previste dalla legge. La sua volontà di rifiutare un trattamento sanitario è chiara. Ha deciso di dire no all’alimentazione e all’idratazione forzata e ha tutto il diritto di farlo, perché è previsto dalla legge. Il fatto che sia recluso al 41 bis non lo diversifica da un altro essere umano. La sua vita è nella sua totale disponibilità”. Cospito, come ha raccontato al Dubbio il suo avvocato, ha scritto due documenti, che sono stati inoltrati al Dap. In queste carte dice con chiarezza che rifiuta l’alimentazione forzata. Ma il fatto che tecnicamente non si tratti di una vera e propria disposizione anticipata di trattamento - che per la legge avrebbe un iter diverso - potrebbe rendere il documento non valido? Per l’avvocato Di Paola no: “Non possono appigliarsi a questo, devono tener conto del contenuto del documento. E lo dovranno fare anche se Cospito dovesse perdere conoscenza. Lo scopo delle Dat è proprio quello di rendere attuale il consenso anche quando un soggetto non sarà più capace di intendere e di volere”. Secondo Marcello Bortolato la questione è più articolata. Per il magistrato, infatti, la disposizione che l’anarchico al 41 bis ha rilasciato tramite il suo avvocato, non essendo stata fatta secondo la procedura canonica, “non sembrerebbe valida ai sensi della legge 219 del 2017”. Il riferimento è al provvedimento sulle disposizioni anticipate di trattamento. Ma è anche vero, precisa il magistrato, “che quella stessa legge ha stabilito che l’alimentazione e l’idratazione forzata sono trattamenti sanitari, che possono essere rifiutati”. E Cospito, nel pieno delle sue facoltà mentali, come ha ripetuto anche di recente il suo avvocato, ha scelto preventivamente di rinunciarvi. Una dichiarazione del genere prima del 2017 non sarebbe stata ricevibile e il medico avrebbe avuto l’obbligo di continuare ad alimentare il paziente. Ma ggi non è più così. Nonostante questa legge contribuisca a rendere più chiari i confini della materia, i problemi restano, perché non ci sono precedenti. Almeno per quanto riguarda i detenuti al carcere duro: “Quello di Cospito è il primo caso noto di detenuto al 41 bis in sciopero della fame per il quale si pone, o si potrebbe porre, il tema dell’alimentazione forzata. Ma, in linea generale, problemi di questo genere si sono posti varie volte per altri reclusi”, sostiene ancora Bortolato. “In quei casi - aggiunge - la conclusione a cui si è arrivati era che lo Stato, (rappresentato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha un obbligo di custodia, un obbligo di protezione, nei confronti della persona detenuta. Obbligo che si manifesta ad esempio quando si interviene per salvare un detenuto che sta tentando il suicidio. In linea generale, le stesse regole valgono anche in caso di sciopero della fame. In altre parole: non esiste il diritto a morire in carcere. Il caso Cospito è, però, molto più complicato”. Ad essere dirimente potrebbe essere il livello di consapevolezza che sta avendo Cospito - che, ad eccezione di zucchero, sale, miele e, fino a pochi giorni fa degli integratori, non si alimenta dal 20 ottobre - nel portare avanti la sua protesta. Ha contezza dei rischi estremi cui va incontro? Stando a quello che dice il suo difensore sì. “Nel momento in cui ogni altra strada si è chiusa, la dissuasione non ha funzionato, e lui ha chiarito di voler portare la sua scelta di non alimentarsi fino alle estreme conseguenze, la volontà di Cospito andrebbe rispettata - spiega ancora il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze - Perché qui non siamo di fronte a un atto dimostrativo, compiuto magari per poco tempo e da parte di detenuti per cui si ipotizza che non abbiano piena consapevolezza del rischio cui vanno incontro se smettono di alimentarsi. Qui ci troviamo di fronte a una protesta che ha anche un contenuto politico, quindi il livello di consapevolezza con cui agisce Cospito è diverso. La sua volontà pare chiara”. Quali strade sono percorribili allora? Qualcuno ha parlato di possibile Tso, ma né Di Paola né Bortolato credono che sia un’opzione praticabile: “Dovrebbe essere autorizzato dal sindaco del Comune in cui al momento si trova, quindi dal primo cittadino di Milano, ma a mio parere - argomenta l’avvocato Di Paola - questa procedura si può seguire per casi psichiatrici, non quando si pone solo un problema clinico. Qualcuno sostiene che Cospito possa non rendersi pienamente conto di quello che potrebbe succedergli se continua a rifiutare alimentazione e idratazione forzata, e che quindi, in quest’ottica si potrebbe giustificare il Tso, ma secondo me è una forzatura. Anche perché l’incapacità di intendere e di volere che potrebbe sopraggiungere in caso di perdita di conoscenza è comunque superata dalla Dat”. Su una linea simile anche Bortolato: “La procedura del Tso mi sembra difficilmente applicabile in questo caso, perché può essere utilizzata quando c’è evidente alterazione psichica”, argomenta il magistrato. In astratto, ci sarebbe un’altra norma applicabile: “L’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario - sostiene ancora il magistrato - stabilisce che possono essere utilizzati mezzi di coercizione, con l’utilizzo di forza fisica, per impedire la violenza dei detenuti. Anche se è autoinferta”. Una norma, questa, che è stata “applicata in rarissimi casi per quanto riguarda l’alimentazione forzata”, ma che può essere utilizzata “quando il rifiuto di alimentarsi non è pienamente consapevole”. Ma, come spiegato in precedenza, non è questo il caso di Cospito: “La situazione è delicata - prosegue Bortolato - e l’aspetto più importante su cui ragionare è, appunto, il grado di consapevolezza del detenuto. In questo caso ha espresso una volontà lucida, in forme chiare”. E allora, alla luce di tutto questo, la risposta, come spesso accade, è data dalla Costituzione: “Nel secondo comma dell’articolo 32 si legge che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Ecco, la chiave è qui - chiosa il magistrato - non ci si può mai spingere a violare il rispetto della dignità della persona. In questo caso, quindi, significherebbe rispettare la volontà pacifica di portare alle estreme conseguenze una decisione, quella dello sciopero della fame, che porta con sé anche delle ragioni politiche”. Intanto proseguono le manifestazioni in sostegno dell’anarchico e ieri ci sono stati degli episodi di violenza a Milano e 11 persone sono state denunciate. Matteo Salvini annuncia la linea dura: “Da vicepremier porterò in Consiglio dei ministri la richiesta di intervenire duramente contro questi delinquenti, chiudendo covi e bloccando siti”. Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia in commissione Affari costituzionali, ha già pronta una proposta di legge per introdurre un nuovo reato per reprimere le manifestazioni violente: terrorismo di piazza. Ci si dimentica, in questo caso come in tanti altri - e il decreto rave insegna - che i comportamenti di chi scende in piazza ed esercita la violenza sono già abbondantemente perseguibili. E le denunce delle scorse ore lo dimostrano. Ma il 41 bis è davvero efficace nella lotta alla mafia? Sembrerebbe di no di Alessandro Ferretti osservatoriosullalegalita.org, 13 febbraio 2023 Il caso Cospito ha riacceso l’attenzione sul 41 bis: molti commentatori hanno ribadito che il carcere duro è indispensabile per contrastare le organizzazioni mafiose. Sono andato quindi a vedermi qualche dato sul 41 bis per provare a comprenderne l’efficacia. Innanzitutto, i numeri dei detenuti. Dal 1992 al 2022 sono lentamente aumentati, da 498 a 729. Altro dato: in trent’anni, ben 2735 persone sono state inviate al 41bis. Tra queste, solo 262 (meno di una su 10) hanno cominciato a collaborare con la giustizia. Negli ultimi sei anni ci sono state in tutto solo 13 collaborazioni: due all’anno, a fronte di oltre 700 detenuti sepolti vivi. Cosa dicono questi numeri? Stando alle motivazioni ufficiali del 41 bis, i detenuti in tale regime non sono “manovali” ma dirigenti delle organizzazioni mafiose cui viene impedito di comunicare con i loro sottoposti in libertà. Gli oltre 700 dirigenti in carcere testimoniano quindi che ci sono migliaia e migliaia di sottoposti liberi, per non parlare dei dirigenti non catturati: si direbbe quindi che il carcere duro non abbia stroncato la mafia. Anche il dato sui collaboratori di giustizia mostra la forza della mafia. Il regime 41bis è, a detta di tutti, estremamente duro: eppure, oltre il 90% di chi l’ha subito ha preferito vivere per almeno quattro anni da sepolto vivo pur di non collaborare. Le motivazioni sono piuttosto ovvie: se si mantiene l’omertà, la mafia si prenderà cura del benessere economico della famiglia del detenuto, mentre se la si infrange la mafia si prenderà cura di esercitare vendette... ma entrambe le motivazioni mostrano che la mafia è tutt’altro che sconfitta, anzi è in grado di esercitare potere e influenza. Ma se neanche un regime inumano come il 41bis riesce a stroncare il fenomeno, cosa si può fare? Nel desolante clima politico attuale, è facile sentirsi rispondere che bisogna ulteriormente inasprire la repressione: peccato che ci sia ben poco margine di inasprimento, se non si vogliono instaurare torture di stato o pena capitale. E quindi? Forse dovremmo riesumare il vilipeso pensiero di sinistra, che individua nelle condizioni economiche e sociali un potente determinante nella genesi della criminalità. Non è un caso se le mafie prosperano principalmente nel Mezzogiorno, dove l’assenza di lavori dignitosi e prospettive di sviluppo genera un amplissimo bacino di potenziali reclute. Non solo: bisogna considerare che le mafie hanno fonti di reddito garantite grazie alle leggi dello stato. Mentre moltissimi paesi occidentali hanno legalizzato la cannabis e applicano politiche di riduzione del danno per le droghe “pesanti”, da noi vigono ancora divieti assoluti e indiscriminati che creano un enorme mercato illegale dal quale le mafie traggono giganteschi profitti. Anche la prostituzione e la criminalizzazione dell’immigrazione generano mercati illegali e conseguenti profitti (e potere) per le organizzazioni mafiose. Per combattere davvero le mafie è necessario un miglioramento delle condizioni socio-economiche del Sud. In questo senso, la guerra al reddito di cittadinanza non è un regalo solo per tanti datori di lavoro che sfruttano i lavoratori, ma anche per i mafiosi. Allo stesso modo una revisione della legislazione sulla droga, sulla prostituzione e sull’immigrazione avrebbe effetti sicuramente positivi. Ovviamente, nel dibattito vacuo promosso dai politici e dai media nostrani non c’è neanche l’ombra di queste considerazioni. I benpensanti di destra e di sinistra hanno ormai assimilato la logica hobbesiana della repressione come unico argine alla barbarie. In questo contesto, Alfredo Cospito è un granello di sabbia in un ingranaggio mortale: il rischio che ne venga stritolato è, purtroppo, molto alto. “Terrorismo dì piazza”, arriva il nuovo reato per fermare i violenti di Massimo Sanvito Libero, 13 febbraio 2023 La Polizia vuole strumenti per prevenire le guerriglie urbane. Pronta una proposta di legge di Fdi. “Sei poliziotti del Reparto mobile di Milano rimasti feriti, di cui uno seriamente alla gamba, lanci di bombe carta, schegge, botte, danni gravi a locali e automobili, undici persone fermate. È l’ennesimo bollettino di guerra dopo l’ultima manifestazione anarchica, rigorosamente non autorizzata, che si è conclusa con la consueta follia di cui come sempre fanno le spese cittadini onesti e forze dell’ordine. Ci chiediamo per quanto dovremo restare ostaggio di soggetti senza controllo, senza alcun senso civico, sprezzanti delle leggi e costantemente proiettati alla violenza”. Lo afferma, in una nota, Valter Mazzetti, segretario generale Fsp Polizia di Stato, dopo gli incidenti che si sono verificati a Milano, dove si è tenuta una manifestazione non preavvisata a sostegno dell’anarchico Alfredo Cospito. “Ci chiediamo - prosegue Mazzetti - cosa dovrà accadere perché si prenda la decisione di contrastare con fermezza adeguata fenomeni di proteste subdole e selvagge che, per come sono minuziosamente organizzate, e per quanto sono finalizzate a produrre danni reali, specie al personale in divisa che è il primo e più odiato bersaglio insieme allo Stato che rappresenta, rappresentano una vera e propria forma di terrorismo. ‘Terrorismo di piazza’, come Fsp lo definisce da anni, chiedendo che si delinei un’apposita fattispecie che lo preveda e lo punisca severamente, e soprattutto che ci fornisca strumenti adeguati per intercettare eventi del genere, impedendoli prima della prossima guerriglia”. Durante gli scontri sei poliziotti sono rimasti feriti, di cui uno seriamente a una gamba per ustioni dovute a una bomba carta, e sono stati portati all’ospedale Niguarda per ricevere soccorso. Bar e auto danneggiati lungo il percorso del corteo, oltre al lancio di oggetti e violenze di vario genere da parte di soggetti presenti, undici dei quali alla fine sono stati fermati e condotti in Questura. E dopo gli scontri e le devastazioni a Milano, il deputato di Fratelli d’Italia Riccardo De Corato si farà portavoce in Parlamento della richiesta dei poliziotti: “Raccolgo l’appello del sindacato della Fsp Polizia di Stato e sono pronto a presentare in Parlamento una proposta di legge per l’introduzione del reato di ‘terrorismo di piazza’ all’interno del codice penale. Quello che proporrò è, da un lato l’introduzione di due norme - gli articoli 613 quater e quinquies del Codice penale - che prevedono l’inasprimento delle pene per chiunque provochi incidenti nelle manifestazioni e anche la punibilità di chi istiga alla violenza e, dall’altro, proporrò che si consenta l’arresto differito, quando non sia possibile procedere in flagranza, anche grazie alla prova video o fotografica. Questa proposta di legge tenderà a contrastare, come chiedono le stesse Forze dell’Ordine, con fermezza adeguata, proteste come quelle di ieri sera tese a produrre danni reali agli uomini e alle donne delle FF.OO. che diventano una vera e propria forma di terrorismo, come nel caso di Milano con il ferimento di un agente per ustioni dovute allo scoppio di una bomba carta, oltre al danneggiamento di esercizi commerciali, auto incendiate e violenze di vario genere da parte di questi teppisti anarchici, supportati da antagonisti, no-global, centri sociali e in generale da tutta la Sinistra milanese e italiana”. Emilia Romagna. Interdittive antimafia a +120%, mentre nel resto del Paese diminuiscono di Paolo Bonacini Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2023 A livello nazionale il drastico calo delle comunicazioni e le informazioni antimafia è collegabile (da 2.078 a 1.495) anche all’entrata in vigore delle nuove norme che tutelano maggiormente le aziende ma allungano i tempi e allargano gli elementi discrezionali di valutazione. Eppure c’è una regione in controtendenza: l’Emilia Romagna. Sono 1.495 le interdittive antimafia in Italia nel 2022, contro le 2.078 del 2021. Un calo consistente, pari al 28,1%. Quasi un terzo in meno. Eppure c’è una regione in controtendenza: l’Emilia Romagna. Qui le comunicazioni e le informazioni antimafia firmate dalle prefetture provinciali sono state complessivamente 266 nel 2022, contro le 121 del 2021: +120%. Più di una interdittiva su sei del paese arriva dall’Emilia Romagna. Sono numeri piuttosto impressionanti che trovano spiegazione in almeno due considerazioni. A livello nazionale il drastico calo delle interdittive è collegabile, in primo luogo, all’entrata in vigore delle nuove norme previste dalla legge 233 del 2021, che al titolo IV prevede “Investimenti e rafforzamento del sistema di prevenzione antimafia”. Più che rafforzare il sistema di prevenzione quelle norme, inserite nel Codice Antimafia, rischiano di ostacolarlo, introducendo il “contraddittorio” e la “prevenzione collaborativa” nella fase di rilascio della interdittiva. La prima norma prevede che le imprese interessate abbiano un termine di venti giorni per inoltrare osservazioni o chiedere una audizione. Entro due mesi la società può apportare le modifiche necessarie a scongiurare l’interdittiva e la procedura si può concludere con l’adozione da parte del Prefetto della cosiddetta “prevenzione collaborativa”. In questo caso l’azienda può continuare ad operare per altri 12 mesi sotto lo stretto controllo dell’autorità statale, partendo dal presupposto che il pericolo di infiltrazione mafiosa sia temporaneo, occasionale, o vi si possa porre rimedio. Le aziende sono certamente più tutelate ma i tempi si allungano e gli elementi discrezionali di valutazione si allargano. L’Emilia Romagna fa invece storia a sé soprattutto grazie al grande lavoro della prefettura di Reggio Emilia che nel 2022 ha emesso 106 interdittive, quasi la metà di quelle dell’intera regione. Il Prefetto Iolanda Rolli (nella foto), ormai prossima alla pensione, spiega questo forte incremento con il recupero di numerose pratiche sospese del passato. Segno che anche nelle prefetture i risultati sono legati all’impegno e al rigore dei funzionari. Ma anche alle tante indagini sfociate in processi, da Aemilia a Grimilde, da Perseverance a Billions, che hanno consentito di puntare i fari su una miriade di società operanti nel territorio potenzialmente infiltrate dalla ‘ndrangheta calabrese. La dottoressa Rolli parla di “moderni e più precisi metodi di analisi del contesto” adottati dalla sua prefettura. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Che l’Emilia Romagna faccia scuola nel male (‘ndrangheta economica profondamente radicata) e nel bene (azioni di contrasto repressivo della Dda e preventivo delle prefetture), lo sottolinea anche il primo presidente della suprema Corte di Cassazione nella sua relazione di apertura dell’anno giudiziario. Il dott. Pietro Curzio parla di due “successi di Stato” negli ultimi dodici mesi: la cattura di Matteo Messina Denaro e la sentenza in giudicato del processo Aemilia. L’accostamento non è solo temporale e Curzio individua nelle due vicende il tratto comune della “mafia degli affari” che si infiltra nel tessuto socio economico. Il capo di Cosa nostra che ha sfruttato i legami con l’imprenditoria e la politica a protezione della propria latitanza e la potente cosca cutrese figlia di Nicolino Grande Aracri che ha cambiato il volto della ‘ndrangheta nella sua infiltrazione al nord. Presentandosi come un operatore del mercato affidabile, efficiente, in grado di sbaragliare la concorrenza. La stessa Corte di Cassazione il 20 ottobre 2022, depositando le motivazioni della sentenza di Aemilia, sottolineava con una nota stampa la “natura autonoma del gruppo criminale emiliano di ‘ndrangheta”. Un gruppo “supportato da un’ampia dotazione di uomini e mezzi, finalizzato ad accrescere il controllo sul territorio in settori nevralgici del tessuto imprenditoriale emiliano, quali gli autotrasporti e l’edilizia, anche attraverso il riciclaggio di capitali illeciti. Nell’arco decennale di attività, l’associazione mafiosa ha compiuto una progressiva evoluzione strutturale, passando dagli schemi tradizionali della ‘ndrangheta verso un più sofisticato metodo di penetrazione criminale nel tessuto sociale, contraddistinto anche dalla prospettiva di realizzare progetti dominanti in svariati settori imprenditoriali e della società civile”. Merito della grande indagine coordinata dai sostituti procuratori antimafia Marco Mescolini e Beatrice Ronchi avere portato a processo questo nuovo sistema di penetrazione criminale e alla condanna i suoi ideatori. Milano. Luis suicida a 21 anni a San Vittore, il carcere: “Era seguito con attenzione” di Andrea Siravo La Stampa, 13 febbraio 2023 Era entrato nel carcere milanese di San Vittore il 31 dicembre. Un mese dopo si è impiccato nel bagno della sua cella. Luis V., ventunenne peruviano, è morto venerdì sera all’ospedale Policlinico dopo più una settimana di agonia. Le porte del penitenziario si erano aperte dopo un arresto per furto aggravato. Il giovane prossimo a compiere ventidue anni aveva problemi di tossicodipendenza. E come in tutti questi casi la sua gestione per gli agenti della Penitenziaria e gli operatori sociali era complessa. Tuttavia - fanno sapere da San Vittore - il ventunenne, senza fissa dimora, era seguito con attenzione. Poi il 2 febbraio, però, Luis ha scelto di farla finita. L’allarme lanciato dal compagno di cella ha attivato i primi soccorsi, ma le sue condizioni erano già compromesse. Tra fine maggio e inizio giugno 2022 altri due ventenni si erano ammazzati nello stesso carcere. Uno di 24 anni e un altro di 21 anni. Il più giovane neanche ci doveva stare ed era in attesa che si liberasse un posto in una Rems, gli ex ospedali psichiatrici. Quello di Luis è il primo suicidio in carcere dell’anno a Milano e in Lombardia. Il quinto in tutta Italia dal primo gennaio. Biella. L’alleanza Verdi e Sinistra: “Il Governo prenda posizione sulle carceri” primabiella.it L’alleanza Verdi e Sinistra all’attacco sulla spinosa questione del carcere di Biella. “Pestaggi, umiliazioni e vessazioni. In una parola: tortura”. Inizia così l’intervento di Marco Grimaldi, vice-capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra, riguardo gli episodi avvenuti fra giugno e agosto dello scorso anno nel carcere di Biella. Lo stesso avrebbe richiesto poi da parte del Governo un maggiore impegno per fare delle carceri dei luoghi sicuri, dove i diritti e la dignità dei detenuti siano rispettati. “28 agenti di polizia penitenziaria indagati dalla Procura - commenta Grimaldi - fra loro un commissario per cui è stata chiesta la detenzione domiciliare. Tre episodi gravissimi avvenuti fra giugno e agosto dello scorso anno nel carcere di Biella. L’inchiesta chiarirà le responsabilità individuali, ma intanto si apre un altro squarcio su casi di tortura nelle carceri piemontesi, dopo le inchieste su Torino e Ivrea. Vorremmo che il Governo sentisse l’urgenza di fare di tutto affinché ciò non possa più avvenire, affinché le carceri italiane diventino luoghi in cui nessuno viene violato, maltrattato e privato della propria dignità. Vedo, purtroppo, tutt’altro atteggiamento”. Risolvere il problema è una questione di civiltà - “Il Governo - prosegue Grimaldi - dovrebbe ritenere prioritario e urgente approvare il d.lgs. 150/2022, promuovere pene sostitutive al regime carcerario per combattere il sovraffollamento e riformare e aggiornare il Regolamento penitenziario nel senso di una maggiore tutela dei diritti dei detenuti e delle detenute. Invece siamo di fronte a una retorica di recrudescenza e punizione fine a se stessa nei confronti di chi è privato della libertà personale”. Brescia. “Biblioteca vivente”: i detenuti di Canton Mombello si raccontano giornaledibrescia.it, 13 febbraio 2023 Una “Biblioteca vivente in carcere” per parlare, conoscere, scambiare idee e abbattere i pregiudizi. Far incontrare chi vive in libertà e chi è detenuto. L’iniziativa partirà giovedì 9 marzo: cinque gli incontri in programma nella biblioteca della Casa Circondariale di Canton Mombello dalle 14 alle 16. Durante gli incontri, a cui potranno partecipare massimo due persone, i detenuti racconteranno la loro storia, come sono entrati in carcere, le tappe fondamentali vissute (arresto e la condanna definitiva) o le difficoltà incontrate nella fase di reinserimento. I partecipanti “da fuori” potranno liberamente interagire con i detenuti alla presenza di un mediatore che garantirà che il dialogo avvenga nel rispetto reciproco e senza la condivisione di dati sensibili. Alla fine del percorso tutti gli interventi rilevanti emersi dal confronto fra detenuti e cittadini verranno raccolti in un documento finale, libro o dispensa, da condividere con la cittadinanza. “La speranza è quella di poter contare sulla partecipazione di persone non solo interessate a conoscere da vicino il mondo dell’esecuzione della pena - scrivono dall’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti -, ma anche disponibili a superare pregiudizi e luoghi comuni a favore di un confronto autentico”. Come partecipare: gli interessati potranno fare richiesta di partecipazione inviando una mail, entro mercoledì 15 febbraio, all’indirizzo p4hr@act-bs.it, corredata di copia del documento di identità per consentire le necessarie verifiche precedenti al rilascio dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione penitenziaria. Biblioteca Vivente nasce in Danimarca negli anni Ottanta ed è un metodo per promuovere il dialogo, ridurre i pregiudizi e favorire la comprensione reciproca. È riconosciuta dal Consiglio d’Europa. Consente di affrontare gli stereotipi e pregiudizi. Info: www.bibliotecavivente.org. Torino. Dopo 168 anni, Don Bosco “torna” tra i giovani detenuti di Roberta Barbi vaticannews.va, 13 febbraio 2023 Il Rettor Maggiore dei Salesiani, don Ángel Fernàndez Ártime, fa visita all’istituto di pena per minori di Torino Ferrante Aporti in occasione delle celebrazioni per i 125 anni dalla morte di San Giovanni Bosco. Don Bosco c’era stato 168 anni fa: era il 1855 quando visitò la “Generala”, come allora si chiamava il riformatorio, cioè il carcere per i minorenni. Qualche anno prima, nel 1841 aveva visitato le carceri senatorie di Torino, ma tra i giovanissimi è diverso: un pugno dritto nello stomaco. Si rende conto che si può e si deve fare qualcosa ed ecco che si accende la scintilla che lo porterà a creare gli oratori come “soluzioni preventive” alla delinquenza giovanile e in risposta al disagio minorile. “Mi basta che siate giovani perché io vi ami”: con queste parole del fondatore, il Rettor Maggiore dei salesiani don Ángel Fernàndez Ártime, in occasione delle celebrazioni per i 125 anni dalla morte di Don Bosco, ha bussato alla porta dell’istituto di pena per minori di Torino Ferrante Aporti, carcere minorile di Torino, dove da anni i novizi salesiani animano “il cortile dietro le sbarre”, una sorta di oratorio interno all’istituto di pena. “Ne ho incontrati 35, abbiamo anche mangiato insieme una pizza e alcuni hanno voluto parlare in privato - racconta a Vatican News il Rettor Maggiore - ma prima hanno fatto una scenetta tratta dalla vita di Don Bosco, mi hanno fatto tante domande su di lui; mi hanno molto colpito la loro curiosità e il loro rispetto per la figura del nostro Santo, il quale era convinto che nel cuore di ogni ragazzo, perciò anche in ognuno di loro come ho tenuto a sottolineare, ci sia un seme da cui può germogliare il bene”. Credere nelle loro possibilità - Questo era il modo con cui Don Bosco amava i suoi giovani ed è il modo con cui i Salesiani li amano ancora oggi: “Crediamo in voi e nelle vostre possibilità, sappiamo che quello in carcere è solo un momento della vostra vita, non è tutta la vostra vita”, ha detto don Ángel agli ospiti del Ferrante Aporti, “l’anno prossimo vorrei trovarvi in un altro posto, magari tra le centinaia di giovani che festeggiano con noi la solennità del fondatore”. Con questa visita il Rettor Maggiore racconta di essersi sentito ancor più vicino a San Giovanni Bosco e di aver percepito la gioia che lui provava a stare tra i giovani, ma al tempo stesso anche l’amarezza di vederli in un luogo come il carcere, dolore che lo condusse alla creazione di uno spazio pulito, libero e condiviso come l’oratorio. La speranza oltre le sbarre - “Sono qui perché ho dato retta alle persone sbagliate, ma voglio un’altra vita”: sono parole che don Ángel ha sentito spesso pronunciare dai detenuti delle carceri che ha visitato, anche all’estero. E ancora: “A cosa mi serve essere qui?”. “Essere qui, se ci fossi per sempre, non ti servirebbe a nulla - è la risposta di Artime ai giovani detenuti - ma esserci per un periodo ti serve a riflettere, a far tesoro di quest’esperienza per trovare il modo di non tornarci più”. E questo è un altro insegnamento prezioso che viene da Don Bosco, non a caso definito “il Santo dei giovani” da un altro Santo che di giovani se ne intendeva: Giovanni Paolo II. Roma. Sfida per la libertà tra Lazio e Roma di Stefano Liburdi Il Tempo, 13 febbraio 2023 A Rebibbia detenuti ed ex calciatori in campo insieme per il derby. Un pallone giallo che corre lungo la fascia di un campo da calcio, un ragazzo con la maglia celeste e un altro con quella della Roma a rincorrerla fino a raggiungerla. Un calcio al loro passato e una traiettoria verso il futuro che gonfia la rete. Un muro, alto e grigio, che delimita uno dei lati lunghi del terreno ma che, per un giorno, fa meno paura, anzi sembra quasi che si possa abbattere. Un derby tra detenuti carico di significati e di emozioni quello che si è disputato ieri mattina al carcere di Rebibbia Penale in una limpida giornata in cui il sole ha reso meno aggressivo il freddo ai tanti presenti. Capitani delle due squadre i giornalisti Piero Torri per la Roma e Guido De Angelis per la Lazio che hanno portato le rispettive divise da indossare. A incitare i giocatori Giancarlo Oddi, Tonino Tempestilli, Bruno Giordano, Michelangelo Sulfaro e Massimo Piscedda, indimenticabili bandiere delle due squadre capitoline. Una giornata di festa e di sport realizzata grazie all’impegno di “Seconda Chance”, fondata dalla giornalista Flavia Filippi, associazione nata per aiutare il reinserimento di detenuti ed ex detenuti nel mondo del lavoro. Gli ospiti sono stati accolti da reclusi e personale del Penale con sorrisi e strette di mano. Visibile l’emozione sul volto di chi qui sta scontando la sua pena, grato agli ospiti perché hanno reso questa giornata non uguale agli altri gironi. Emozionati anche gli ex calciatori, colpiti da tanto affetto e sorpresi per le sensazioni che un luogo così può regalare. Il più applaudito Bruno Giordano che poteva contare sul tifo dei laziali e su quello dei napoletani che ricordavano il primo scudetto vinto all’ombra del Vesuvio e quel meraviglioso trio “Ma.Gi.Ca.” composto da lui, Maradona e Careca. La partita, combattuta e avvincente, ha visto un avvio equilibrato con la Lazio che dopo un quarto d’ora di gioco ha provato l’allungo con un gol di ottima fattura del suo centravanti. La risposta della Roma non si è fatta attendere con un gran tiro da fuori del difensore centrale che ha sorpreso l’ottimo portiere laziale fuori dai pali. Da bordo campo i più attivi nel dispensare i consigli erano Giordano, che mostrava i movimenti da fare agli attaccanti e Oddi alla mezz’ ala laziale che aveva provato ripetutamente il calcio da fuori. “Hai un bel tiro, - ha detto l’ex difensore della Lazio di Maestrelli - però devi prendere la porta!”. Proprio allo scadere del primo tempo il raddoppio dei biancocelesti. I due fischi di Aniello, da Napoli, rispettato arbitro per l’occasione, hanno mandato le squadre al riposo. All’inizio della ripresa la Roma si è riversata nella metà campo laziale riuscendo a ribaltare il risultato portandosi avanti per 3-2. La Lazio è apparsa stordita ma piano piano ha ripreso a macinare gioco trovando quattro volte la via della rete fissando il punteggio sul 6-3 per i biancocelesti. Il triplice fischio di Aniello decretava la fine delle ostilità e l’inizio dei festeggiamenti con autografi, dediche e la foto di gruppo che ha visto insieme detenuti (giocatori e tifosi), ex giocatori, il direttore del Penale Antonella Rasola, la Garante comunale dei diritti dei detenuti Gabriella Stramaccioni, il comandante della Penitenziaria Luigi Ardini, la sua vice Caterina Franzè e il capoarea Sara Macchia. Media & giustizia. Troppo spazio al potere dei pm di Glauco Giostra Corriere della Sera - La Lettura, 13 febbraio 2023 Il decreto del 2021 che regola l’accesso dei giornalisti agli atti giudiziari consegna agli organi inquirenti una discrezionalità assoluta nella comunicazione di notizie sui procedimenti in corso. È necessario cambiare rotta. Nel comune sentire l’imputato è presunto colpevole sin dall’inizio del procedimento penale, talvolta anche dopo che questo si sia concluso con un proscioglimento o addirittura con un’assoluzione: il solo fatto di essere risucchiato negli ingranaggi della giustizia è percepito come inequivoco indizio di colpevolezza. Persino quando gli sgherri di Augusto Pinochet trascinarono via, i polsi legati con filo spinato, i ragazzi della guardia del corpo di Salvador Allende per torturarli e ucciderli, “i testimoni che non avevano visto nulla mormorarono: “Qualcosa avranno fatto, non per niente li portano via”“ (Luis Sepúlveda, Il generale e il giudice). Ogni volta che la “tv del dolore” va morbosamente a frugare nella disperazione delle vittime alla ricerca di qualche dichiarazione, la risposta più frequente e scontata è “vogliamo giustizia”, ma in realtà si vuole soltanto un colpevole e subito. L’individuazione di un accusato appaga nell’opinione pubblica la comprensibile ansia di dare un responsabile all’azione criminale: un sollievo che difficilmente si lascia turbare da distinguo, precisazioni e cautele, dovute all’estrema provvisorietà degli elementi a carico. È significativo, d’altra parte, che l’esclamazione “giustizia è fatta” sia riservata all’esito di un processo conclusosi con la condanna. Non a molto è valso finora il “contro-istintivo” principio enunciato nell’articolo 27 comma 2 della Costituzione secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Da ciò il proposito di imporre regole alla rappresentazione delle vicende giudiziarie, perseguito, poco più di un anno fa, dal decreto legislativo 188/2021 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza (d’ora in poi, Decreto). Un proposito meritorio e di pregnante significato culturale, ma che ha avuto una traduzione normativa largamente inadeguata. Basterebbe pensare al suo limite, per così dire, “genetico”, di rivolgersi inopinatamente solo alle autorità pubbliche e non anche agli operatori dell’informazione. Ma a preoccupare ancor di più sono le sue deleterie “ricadute” sulle modalità con cui il giornalista può prendere conoscenza delle vicende giudiziarie in corso: cioè, da chi e come può informarsi per poter informare. Il Decreto prefigura, infatti, un sistema in cui l’autorità giudiziaria inquirente è messa in grado di manovrare a piacimento il rubinetto delle notizie riguardanti i “propri” procedimenti penali. E pur vero che nei suoi confronti usa toni ostentatamente perentori - “la diffusione di informazioni sui procedimenti penali” è consentita “solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico” - ma le prescrizioni sono di plastilina normativa. Di fatto, la “somministrazione” della notizia processuale è sostanzialmente affidata all’arbitrio del detentore della stessa. Ad essere rimessa all’insindacabile valutazione dell’autorità inquirente, infatti, non è soltanto - come è ovvio - la sussistenza del primo dei due presupposti, legato com’è alle esigenze investigative. Anche la presenza di specifiche ragioni di interesse pubblico può essere asserita praticamente ad libitum, specie se si considera che ricorre sempre un interesse pubblico alla conoscenza di ogni processo penale (Raccomandazione 13 del 2003 del Consiglio di Europa). Ma soprattutto, poi, l’eventuale sussistenza dei presupposti richiesti dalla nuova normativa, consente, non impone al magistrato di fornire informazioni. Ne deriva, ad esempio, che l’autorità giudiziaria potrà legittimamente omettere qualsiasi comunicazione, benché ritenga il “proprio” procedimento di rilevante interesse pubblico. È come se la norma gridasse al pubblico ministero: ti ordino di comunicare ciò che vuoi! Prospettiva preoccupante se si considera che queste arbitrarie intermittenze informative rischiano di costituire l’unica legittima fonte di approvvigionamento delle notizie per gli organi di stampa. Infatti, l’orientamento che già in passato disconosceva al giornalista il diritto ad ottenere il rilascio di copie di atti non più segreti, potrebbe uscirne rafforzato dal fatto che il Decreto aggiunge oggi che i rapporti della Procura della Repubblica con gli organi di informazione devono essere mantenuti “esclusivamente tramite comunicati ufficiali o conferenze stampa”. Ne scaturirebbe un sistema in cui il controllato - cioè l’autorità giudiziaria - decide quando e cosa sottoporre all’attenzione pubblica affinché la collettività possa controllare come viene amministrata la giustizia in suo nome. Una stampa già oggi sin troppo appiattita sulle prospettazioni offerte dalle proprie fonti, non potrebbe fare altro che limitarsi a riportare notizie selezionate arbitrariamente dall’autorità inquirente. Dimostrando consapevolezza della inaccettabilità democratica e costituzionale di un siffatto rapporto con gli organi di informazione, alcune Procure per la verità hanno riconosciuto il diritto dei giornalisti di accedere agli atti non segreti e non segretati. Non è tuttavia tollerabile che in un settore democraticamente così delicato si registri una realtà a macchia di leopardo. È necessario ed urgente rimettere mano alla disciplina in questione, non solo come è ovvio estendendo anche ai giornalisti il dovere di non rappresentare mai l’inquisito come colpevole, ma anche attribuendo agli operatori dell’informazione maggiori diritti e maggiori responsabilità. Le notizie non più segrete dovrebbero essere patrimonio di una stampa libera e pluralistica, rendendo infruttuose le deleterie compiacenze tra autorità inquirente e informazione. Una volta riconosciuto espressamente il diritto di accesso del giornalista agli atti non segreti, si dovrebbe predispone una risposta sanzionatoria alla violazione del divieto di pubblicazione dell’atto coperto da segreto meno risibile dell’attuale, in grado di garantire un’effettiva persecuzione delle indebite rivelazioni e di scoraggiare fortemente il traffico sotterraneo di tali ghiotte e perniciose indiscrezioni. Un analogo divieto dovrebbe essere introdotto rispetto alla pubblicazione di dati sensibili processualmente irrilevanti, salvo che la loro conoscenza non rivesta eccezionalmente interesse pubblico; interesse, la Cui sussistenza nel caso concreto deve rimanere diritto ed onere del giornalista, rispettivamente, accertare e dimostrare. Reddito di cittadinanza, via alla stretta: 200 mila famiglie non lo percepiscono più di Enrico Marro Corriere della Sera, 13 febbraio 2023 La stretta sul Reddito di cittadinanza, decisa dal governo con l’ultima legge di Bilancio, unita al rafforzamento dei controlli sembra già aver ottenuto un primo effetto: le famiglie beneficiarie del sussidio sono in calo. Secondo i dati diffusi dall’Inps e relativi a dicembre 2022, il reddito viene erogato a un milione e 45 mila famiglie per un totale di 2 milioni e 350 mila persone. Si tratta di circa 200 mila nuclei familiari in meno rispetto a dicembre 2021, che aveva invece visto un aumento dei nuclei percettori rispetto allo stesso mese del 2020 che, a sua volta, era stato in crescita rispetto a dicembre 2019 (allora le famiglie beneficiarie del Reddito erano 906mila). La tagliola di luglio - Trarre conclusioni dall’andamento di un solo mese potrebbe rivelarsi azzardato, anche perché nel 2020-21 l’andamento del sussidio è stato fortemente condizionato dalla crisi innescata dalla pandemia, ma la sensazione è che il cambiamento del quadro politico abbia indotto una maggiore cautela nel presentare la domanda, anche in considerazione della maggiore severità dei controlli e delle regole già decisi dal governo Draghi, che ha abbassato da 3 a 2 le offerte di lavoro che possono essere rifiutate dal beneficiario e, soprattutto, ha introdotto il danno erariale in caso di mancata verifica dei requisiti di residenza da parte dei comuni. Solo lo scorso 24 gennaio, inoltre, è stato firmato il protocollo tra Inps e ministero della Giustizia che consente di verificare l’eventuale stato detentivo dei richiedenti il Reddito, prima dell’erogazione del beneficio. Ma più di tutti pesa il fatto che il governo Meloni ha deciso che i cosiddetti “occupabili” tra 18 e 60 anni non potranno più avere il sussidio dopo il prossimo luglio. Una tagliola che starebbe scoraggiando una parte dei potenziali richiedenti. La parabola dei beneficiari - In attesa di verificare la tendenza con i dati dei prossimi mesi (a gennaio sulla frenata potrebbe incidere anche la necessità di presentare l’Isee aggiornato), va detto che, su base annua, l’andamento del Reddito di cittadinanza ha seguito una parabola. I nuclei familiari beneficiari di almeno una mensilità di Reddito o Pensione di cittadinanza sono stati 1,1 milioni nel 2019, anno di debutto del sussidio, per un totale di 2,7 milioni di persone coinvolte. Nel 2020, anche sulla spinta della crisi innescata dal Covid, la platea è aumentata a 1,6 milioni di famiglie, per un totale di 3,7 milioni di persone coinvolte. I numeri sono saliti ulteriormente nel 2021: infatti i nuclei beneficiari di almeno una mensilità sono risultati quasi 1,8 milioni, per un totale di poco meno di 4 milioni di persone coinvolte. Nel 2022, invece, già prima dell’arrivo del governo Meloni, è cominciata la flessione: 1,7 milioni di nuclei per un totale di 3,7 milioni di persone. Andamento analogo anche per le revoche dal sussidio, passate da appena 864 nel 2019 (ma il Reddito partì da aprile) al picco di 107mila nel 2021 per scendere a 72mila nel 2022. E così per le famiglie decadute dal diritto, salite da 79mila nel 2019 a 344mila nel 2021 e poi calate a 268mila l’anno scorso. Che ne sarà degli “occupabili”? - Detto questo, decisa la stretta, l’esecutivo Meloni non ha ancora dato seguito alle disposizioni che dovrebbero accompagnare la fine del Reddito per gli “occupabili”. Manca il piano formativo che dovrebbe coinvolgere queste persone in corsi di aggiornamento e preparazione all’inserimento lavorativo. Di conseguenza manca anche il previsto controllo sulla presenza obbligatoria a tali corsi da parte delle Regioni che dovrebbero comunicare all’Anpal i nominativi di chi non partecipa, così da disporre la decadenza dal sussidio. Manca il protocollo tra i ministeri del Lavoro e dell’Istruzione per organizzare la formazione scolastica per i percettori del Reddito sprovvisti di titolo di studio dell’obbligo. Manca la nuova definizione di offerta congrua di lavoro, dopo che la legge di Bilancio ha disposto che basta anche un solo rifiuto per perdere il sussidio. Infine, nulla si sa di cosa sostituirà il Reddito di cittadinanza per i cosiddetti occupabili che perderanno l’assegno ma non avranno trovato un lavoro. Homeless, popolo in crisi: crescono italiani e donne. “I servizi non bastano mai” di Giulio Sensi Corriere della Sera, 13 febbraio 2023 Aumenta il numero di chi vive in strada o si adatta a soluzioni d’emergenza. I senza dimora concentrati nelle metropoli. FioPsd: “Bisogna superare le politiche emergenziali”. L’impegno del Terzo settore. Fanno notizia quando muoiono di stenti o di freddo per strada, ma per ogni vita persa ce ne sono migliaia salvate da enti e associazioni che si prendono cura degli invisibili. Roma è la capitale dei senza dimora: quasi un quarto di tutti quelli che in Italia non hanno un tetto sotto cui dormire vivono nell’area metropolitana capitolina. “In città sono circa ottomila - racconta Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio - e un terzo di loro vive nelle strutture del Comune o della rete delle parrocchie e associazioni, un altro terzo dimora in alloggi impropri e di fortuna. Un terzo sta per strada”. Non sono soli, ma stanno aumentando. “Tante cose migliorano - aggiunge D’Angelo - sul versante dei servizi e dell’accoglienza anche grazie a una nuova sensibilità delle amministrazioni e all’aumento del 42 per cento dei posti letto in strutture più piccole e disseminate sul territorio. Negli ultimi cinque anni la Sant’Egidio ha strappato dalla strada, accompagnandole, più di 300 persone. Ma la crisi cronica che stiamo vivendo ne sta spingendo molti altre nella spirale della povertà”. Non esiste un numero preciso dei senza dimora in Italia: l’ultima stima dell’Istat, datata 2021, è di oltre 96mila, ma nel computo ci sono anche quelli che pur non avendo una abitazione fissa non vivono comunque in condizioni di indigenza e possono tornare ogni sera sotto un tetto dignitoso, magari da parenti, amici o in strutture mobili. Nel 2015, il dato più recente specificatamente dedicato ai senza dimora in condizioni di marginalità, la stima fatta sempre da Istat con il supporto delle associazioni era di oltre 50mila. Una parte consistente è composta da stranieri con o senza permesso di soggiorno, ma gli italiani sono in forte crescita. “È allarmante - spiega Caterina Cortese, responsabile dell’Osservatorio di FioPsd, la federazione nazionale in cui sono riunite circa 146 realtà che si occupano del fenomeno - l’aumento delle donne in genere e dei giovani problematici fuoriusciti da percorsi istituzionali che hanno perso rapporti con le famiglie di origine. E sta crescendo il numero degli italiani: oltre a quelli che hanno una storia di marginalità risalente nel tempo, c’è un’accelerazione dello scivolamento di nuclei che con la perdita del lavoro e poi della casa si ritrovano per strada”. “La nostra stima - spiega la presidente di FioPsd, Cristina Avonto - è una crescita del 30 per cento rispetto al 2015. C’è una quota di cronicizzati, ma ciò che inquieta è la facilità maggiore con cui si scivola in basso. Assistiamo ad uno sfaldamento delle reti di tenuta: la perdita del lavoro, una malattia, una rottura familiare portano più facilmente le persone per strada. Il reddito di cittadinanza ha permesso a tanti di accedere ad alloggi dignitosi. E la presidente sottolinea: “Certo, è giusto ridiscuterlo, ma ricordandoci che è stato fondamentale per molti”. Le parole d’ordine delle associazioni sono “housing first”: prima la casa, poi ricostruire una vita dignitosa. I servizi non bastano mai, specie nelle grandi città come Roma e Milano, ma funzionano e danno assistenza insieme alle tante associazioni e ai volontari. L’Italia, a livello nazionale e locale, non è indietro nelle politiche di contrasto al fenomeno, ma a parere delle associazioni serve un cambio di passo e un lavoro di squadra per rendere accessibili le abitazioni. “Rischiamo - aggiunge Avonto - di tornare alle politiche emergenziali. Panini, docce, mense sono importanti, ma non bastano, servono politiche più strutturali e di lungo periodo e il mantenimento dei fondi di contrasto alla povertà che permettono sui territori di fare interventi efficaci”. Con prezzi di affitto più accessibili almeno una parte del problema si potrebbe risolvere. “Cosa che a Milano - commenta Alessandro Pezzoni di Caritas Ambrosiana - è quasi impossibile. Le abitazioni sono ancora poche, troppo poche, e continua a prevalere l’offerta del solo posto letto. Stiamo lavorando alla costruzione di interventi più ampli per accompagnare le persone, che peraltro vivono spesso condizioni di precaria salute mentale e di dipendenze, a ricostruire la propria vita. Caritas, come molte altre realtà, cerca di fare un lavoro di attivazione della comunità: non vogliamo creare ghetti, ognuno di loro ha certo fragilità, ma anche potenzialità e risorse da mettere in gioco”. Un’impresa a volte quasi impossibile, che richiede tempi molto lunghi e la riattivazione dei legami sociali. A Bologna Piazza Grande sperimenta l’approccio del lavoro di comunità per costruire un contesto sociale che riaccolga le persone emarginate. Gestisce cento appartamenti e ad oggi ha accolto 73 persone che hanno ritrovato un tetto e una vita grazie al progetto housing first. La presidente della cooperativa sociale, Ilaria Avoni, spiega: “Lavoriamo su due fronti. Da una parte l’empowerment delle persone per cambiare la loro condizione, dall’altra la necessità di andare oltre l’assistenzialismo e il superamento dell’idea del singolo servizio per coinvolgere la comunità. Associazioni e volontari partecipano all’animazione delle strutture, contribuendo a ricostruire una socialità che quando viene meno è spesso una delle cause della perdita di tutto”. Testamento biologico ignorato dal 99% degli italiani di Valentina Stella Il Dubbio, 13 febbraio 2023 Da un’indagine dell’associazione Coscioni emerge che solo lo 0,4 per cento ha depositato le Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento, percentuale esigua per la mancanza di conoscenza dello strumento, entrato in vigore cinque anni fa con la legge 219/2017. Il dato reso noto dall’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica è drammatico: secondo una loro indagine interna solo lo 0,4% degli italiani ha depositato le DAT, Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. 0,4 per cento significa soltanto 185.500 italiani. Questo numero è conoscibile grazie a un accesso agli atti generalizzato con cui l’Associazione Luca Coscioni ha avviato nei mesi scorsi un’indagine, condotta da Matteo Mainardi e Alessandro De Luca, in collaborazione con le Cellule Coscioni di tutta Italia, per richiedere a 6500 comuni quante DAT sono state ricevute dall’entrata in vigore della legge sul biotestamento (il 31 gennaio 2018) a oggi e quante di queste sono state trasferite alla Banca dati nazionale. La regione in cui sono state compilate maggiori Dat è la Lombardia (36476), l’ultima in classifica è la Valle d’Aosta (521). Secondo l’Associazione Coscioni la percentuale è così esigua a causa di un vuoto determinato innanzitutto dalla mancanza di conoscenza dello strumento entrato in vigore esattamente cinque anni fa, con la legge 219/2017. Secondo un sondaggio di Swg del 2019 il testamento biologico è conosciuto dall’83 per cento degli intervistati, ma il 71 per cento ignora le procedure per il rilascio delle Disposizioni anticipate di trattamento. Per l’84 per cento la causa di questa difficoltà è da legare alla scarsa informazione da parte delle istituzioni. Da parte del Ministero della Salute infatti non è mai stata condotta alcuna campagna informativa a beneficio delle persone, come invece dovrebbe avvenire e indicato nella legge stessa (“Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero della salute, le regioni e le aziende sanitarie provvedono a informare della possibilità di redigere le DAT in base alla presente legge, anche attraverso i rispettivi siti internet”) denunciano Filomena Gallo e Marco Cappato. Non esistono nemmeno dati ufficiali, in quanto il ministero della Salute non ha mai presentato una Relazione annuale al Parlamento. Il Segretario e Tesoriere dell’Associazione annunciano: “Abbiamo chiesto ufficialmente un incontro anche all’attuale Ministro della Salute, Orazio Schillaci, per parlare di questo e altri temi cruciali legati alle libertà fondamentali e al diritto alla salute”, hanno scritto in un comunicato. Ma cosa prevede la legge? Proviamo a fare un po’ di informazione. La legge 219/2017 “... nel rispetto dei princìpi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”. Con le DAT puoi quindi, spiega bene la Coscioni, esprimere oggi le tue scelte fornendo indicazioni sui trattamenti sanitari con cui potrai essere - o non essere - sottoposto. Indicazioni importanti nel caso eventuale e futuro in cui non fossi in grado di esprimere - attraverso il diritto al consenso informato - le tue scelte. Se sei maggiorenne e capace di intendere e volere puoi quindi redigere il tuo biotestamento. Con il biotestamento non si possono esigere trattamenti sanitari contrari alle leggi. Come fare? Si può scrivere di proprio pugno, scaricare il modulo dal sito dell’associazione o, se le condizioni fisiche non ti permettono di usare le precedenti forme, puoi esprimere le tue volontà e “fare biotestamento” attraverso una videoregistrazione e/o con dispositivi tecnologici che consentono alle persone con disabilità di comunicare. Si può anche nominare un fiduciario che faccia le tue veci e ti rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Facciamo qualche esempio sulle scelte che si possono compiere. “Qualora fossi in una condizione di malattia giudicata irreversibile associata a grave disturbo cognitivo tale da compromettere le mie capacità di coscienza o giudizio o di comprensibile espressione, dispongo che: in caso di arresto cardio-respiratorio si pratichi la rianimazione cardiopolmonare SI - NO; si pratichino forme di respirazione meccanica SI - NO; si pratichi idratazione artificiale SI - NO; si pratichi nutrizione artificiale SI - NO; si pratichi dialisi SI - NO; si pratichino interventi di chirurgia d’urgenza SI - NO; si pratichino trasfusioni di sangue SI - NO; si somministrino terapie antibiotiche SI - NO”. Si può anche scegliere, tra l’altro, se donare in caso di morte il proprio corpo alla scienza o donare gli organi. Dopo aver compilato il tuo biotestamento si hanno a disposizione due opzioni: consegnare personalmente il tuo testamento biologico presso l’ufficio di stato civile del tuo Comune di residenza. L’ufficiale di stato civile, verificate la tua identità e residenza, provvederà a registrare un ordinato elenco cronologico delle disposizioni presentate; trasformare il tuo testamento biologico in “atto pubblico”, rivolgendoti a un notaio. Cesare Mirabelli: “C’è un diritto alla vita, ma lo Stato non assicura un diritto alla morte” di Simona Musco Il Dubbio, 13 febbraio 2023 Il presidente emerito della Corte Costituzionale: “Penso sia opportuno che su questi temi si rifletta con grande tranquillità e che ci sia una legislazione che detti in maniera più chiara le regole”. “Esiste un diritto alla vita, ma non un diritto alla morte”. A dirlo è il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli. Esiste o non esiste un diritto alla morte? Mi rifarei agli orientamenti della Corte costituzionale: al di là di della sentenza sull’aiuto al suicidio, che pure afferma il diritto alla vita, in quella con la quale è stato dichiarato inammissibile il referendum sull’omicidio del consenziente si afferma che esiste un diritto dello Stato a proteggere la vita ma non un diritto a che lo Stato pratichi o consenta di praticare la morte. Ma la sentenza sul caso dj Fabo non ha aperto un varco per una legge che contempli anche questa esigenza? La sentenza e l’ordinanza che la precede stabilisce alcuni criteri da tenere presente. Cioè che, mentre in linea generale la punizione dell’aiuto al suicidio non è illegittima costituzionalmente, ci sono delle eccezioni a questa possibilità di imporre sanzioni anche penali. Questo è un terreno sul quale anche la Corte di Strasburgo lascia agli Stati un margine per decidere il tipo di disciplina da adottare. Quali sono le condizioni che prevede la Consulta? Che la persona sia affetta da una patologia irreversibile, che ci siano sofferenze fisiche o psicologiche che la persona non riesce a tollerare, che sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale e che ci sia la capacità di prendere scelte consapevoli. La persona potrebbe già decidere di morire rifiutando questi trattamenti e allungando tuttavia le sue sofferenze. Aggiungo che la Corte ha anche ritenuto nella sua sentenza che occorre il parere del Comitato etico competente e che le condizioni siano verificate da una struttura pubblica, ma non che l’aiuto al suicidio sia praticato dal Servizio sanitario nazionale. Dunque non viene configurato come un diritto a prestazione anche nei casi indicati e previsti. Il problema che viene posto è se ci siano altre ipotesi in cui l’aiuto al suicidio non possa essere punito penalmente. È un quadro che non qualificherei, però, come eutanasia. Secondo un sondaggio Swg del 2019 a chiedere l’eutanasia legale è il 93 per cento dei cittadini. Anche la raccolta delle firme per il referendum un milione e 200mila firme dimostra un interesse pubblico ad affrontare questa questione politicamente. Non sarebbe il caso di andare incontro a queste richieste? Due considerazioni: è vero, il dibattito è opportuno e richiede un approfondimento culturale e una valutazione approfondita di temi così difficili e sensibili. Che difficilmente, peraltro, possono essere messi a fuoco nei sondaggi, nei quali è anche il tipo di domanda a determinare la risposta. Ma l’altro punto sul quale inviterei a riflettere è che in chiave di diritti/doveri fondamentali l’esigenza di garanzia domina sulla diffusione della volontà. Ci potrebbe essere una volontà non è certo questo il caso - di eliminare uno o più diritti fondamentali, ma non mi pare che sia giuridicamente giustificato. Cosa bisognerebbe dire a chi ritiene che la propria vita non sia più dignitosa? Ci sono casi in cui molte persone hanno denunciato di vivere una non-vita... Mi permetto di fare un’osservazione: mai qualificare la vita come non dignitosa. Su questa linea abbiamo un’esperienza, sia pure dal senso comune valutata come negativa, che è stata orrida in passato. La tutela della vita è essenziale. La legge, in parte inattuata, prevede uno sviluppo delle cure palliative, del prendersi cura e perciò anche del dolore e della condizione della persona. Se è in stato di difficoltà, di minore accudimento e cura, di dolore, solitudine, abbandono, allora certamente la richiesta di morte può affacciarsi. In questa discussione si affrontano due visioni filosofiche: il principio di sacralità della vita e quello della disponibilità della propria esistenza. Come si risolve questa contrapposizione? Io non li contrappongo. L’autodeterminazione ci può essere nella misura in cui non richiede il coinvolgimento di altri. E dal punto di vista culturale attenzione anche al piano inclinato che si determina e le scelte che persone più deboli potrebbero compiere. Ci sono condizioni in cui è agevole essere indotti a seguire questa via. Probabilmente le iniziative che sono in atto porteranno o tenderanno a riportare la questione davanti alla Corte costituzionale sotto il profilo di eguaglianza delle situazioni rispetto a quelle già considerate. Ma nell’impostazione della Corte siamo fuori dal quadro dell’eutanasia, ovvero il diritto a morire che era alla base della richiesta referendaria considerata inammissibile perché in contrasto con l’esigenza di protezione minima necessaria per la vita, sulla base del principio che c’è un diritto alla vita, mentre lo Stato non assicura un diritto alla morte. Ma non lo dico in chiave polemica, assolutamente: è opportuno che su questi temi si rifletta con grande tranquillità e per quanto riguarda l’attuazione della sentenza della Corte che ci sia una legislazione, come il Parlamento si era avviato a fare nella scorsa legislatura, che detti in maniera più chiara le regole. Mario Riccio: “Non mi aspetto nulla da questo Parlamento. Anzi, temo qualcosa” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 13 febbraio 2023 “In passato quando mi indicavano come il medico che ha staccato la spina a Piergiorgio Welby, mi arrabbiavo. Oggi, invece, non ci faccio più caso”. Mario Riccio è da pochi giorni in pensione. È l’anestesista che seguì in prima persona la vicenda di Piergiorgio Welby, aiutandolo a lasciare questo mondo. Dottor Riccio, sul fine vita si attende l’intervento del Parlamento. Nutre fiducia in questa legislatura? La passata composizione parlamentare non ha messo mano alla materia, nonostante l’intervento della Consulta nella vicenda di Dj Fabo e Cappato. L’attuale legislatura penso che escluda del tutto la volontà di mettere mano al tema della morte medicalmente assistita. Non dimentichiamoci mai della vicenda di Eluana Englaro. Quello fu uno dei casi in cui assistemmo ad una sorta di conflitto tra istituzioni. In Italia esiste la possibilità dell’assistenza al suicidio nei casi descritti dalla Corte Costituzionale. Pensiamo al caso, unico al momento, di assistenza al suicidio del giugno scorso che ha riguardato Federico Carboni, detto Mario. Io sono stato il medico che ha dato l’apporto tecnico. Quello che chiedono i cittadini affetti da gravissime patologie è cessare le loro sofferenze. Come va nel resto del mondo? I richiedenti la morte medicalmente assistita in Olanda, in Belgio, in Canada, sono affetti, circa il 70%, da tumore. Il paziente affetto da questa grave patologia non è quasi mai tenuto in vita da una funzione vitale. È giunto nel suo iter clinico e terapeutico a una condizione in cui preferisce, invece che vivere tra la sua residua prognosi, accelerarne la morte. Tradotto vuol dire: se ho un tumore al polmone e so che morirò fra sei-otto mesi, preferisco non vivere questo periodo di sofferenza e voglio accelerare il mio decesso. La prognosi ridotta a diciotto mesi è uno dei termini necessari per arrivare al suicidio assistito in Canada. In Italia, secondo la sentenza della Corte Costituzionale, che si è tradotta in un caso clinico, io non posso accedere alla morte medicalmente assistita in quanto manca il requisito di tenuta in vita della funzione vitale. L’unica cosa è attendere lo sviluppo giuridico e giudiziario del caso di Marco Cappato, che ha accompagnato Elena, una donna veneziana, affetta da tumore polmonare, in Svizzera. Vedremo quali saranno gli esiti legati a questa vicenda, che potrebbe aprire la strada per poter accedere al suicidio assistito. Le questioni legate al fine vita si intrecciano con potenziali interventi legislativi, della Consulta e al dibattito politico. Arriveremo, secondo lei, a delle conclusioni condivise dal legislatore? Nel 2006, quando Piergiogio Welby chiese che gli venisse interrotta la ventilazione meccanica sembrava impossibile che ciò avvenisse. C’è stato un rapido procedimento giudiziario nei miei confronti, chiuso con il proscioglimento dall’accusa di omicidio del consenziente. Ci sono voluti dodici anni per chiarire giuridicamente e normativamente le questioni sorte con i casi Welby ed Englaro. Nell’opinione pubblica i tempi per una legge sulla morte medicalmente assistita erano già maturi. Dal 2018 abbiamo avuto una certa accelerazione e nel 2022 siamo arrivati al primo suicidio assistito. Adesso rimane il limite del quarto punto della Corte Costituzionale. Da questa legislatura non mi aspetto assolutamente niente. Anzi, temo qualcosa. Potrebbe però arrivare qualcosa di interessante tramite una nuova sentenza. Una pavida classe politica credo che non metterà mano alla materia. Visto l’orientamento dell’attuale maggioranza parlamentare, ritengo possibile uno stallo o un peggioramento per quanto riguarda i diritti individuali. Quali sono i punti di incontro, a partire dalla sua esperienza professionale, tra medicina e diritto? La medicina deve dare dei diritti alla persona. Il principio base di come deve essere la medicina lo troviamo nella Costituzione. La nostra Carta Costituzionale afferma che è tutelata la salute “come fondamentale diritto dell’individuo”. È evidente, quindi, che la medicina debba essere orientata a garantire il diritto alla salute. A questo principio base si affianca un altro aspetto. Tutelare la salute della persona, oggi, può voler dire anche permettergli una fine dignitosa. Mi spiego meglio. Dica pure… Una fine che il cittadino vuole. Il concetto per cui la morte apparteneva alla sfera unicamente religiosa o filosofica non esiste più. La medicina può aiutare la persona a morire. Io penso che sia un dovere morale del medico portare a morte il paziente, se lo richiede e in presenza di certe condizioni. Questo è il mio orientamento. La stessa medicina conduce il tentativo di salvare il paziente a delle condizioni che il paziente rifiuta. Mentre un tempo si poteva accettare che la morte fosse un evento del tutto naturale, che sopravveniva, su cui il medico non doveva agire, oggi la medicina nel tentativo di migliorare le condizioni del paziente lo conduce a una condizione quasi peggiorativa. Fino a trent’anni anni fa, per esempio, quando si faceva una diagnosi di tumore, si verificava pure una prognosi, indicando il periodo di vita che restava al paziente. Oggi la medicina permette di andare incontro a interventi chirurgici e trattamenti vari. Molto spesso la medicina allunga la vita in condizioni più che accettabili. Ci sono però situazioni in cui la medicina, pur tentando di migliorare certe condizioni, porta a condizioni peggiori. Tutto quello che lasciamo fuori dai muri di Nuccio Ordine Corriere della Sera, 13 febbraio 2023 In Europa si torna a parlare di costruire muri contro i migranti, Borges mette in relazione l’impresa di edificare muraglie con quella di ardere libri. Ora che in Europa si torna a parlare di costruire muri contro i migranti non ho potuto fare a meno di rileggere un bellissimo racconto di Jorge Luis Borges intitolato “La muraglia e i libri”, in cui lo scrittore argentino mette in relazione l’impresa di edificare muraglie con quella di ardere libri: “Lessi giorni addietro, che l’uomo che ordinò l’edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel primo imperatore, Shi Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui. Il fatto che le due vaste imprese - le cinque o seicento leghe di pietra opposte ai barbari, la rigorosa abolizione della storia, cioè del passato - procedessero da una persona e fossero in un certo modo i suoi attributi, inesplicabilmente mi soddisfece e, al tempo stesso, mi inquietò”. In effetti, si tratta di due azioni che hanno in comune l’ambizione di “bruciare” il passato: i chilometri di barriere di pietre contro i presunti “barbari” e il rogo delle biblioteche tendono inevitabilmente non solo ad “abolire la storia” ma anche a cancellare qualsiasi traccia della nostra umanità. Costruire muri, di fatto, significa rinchiudere la propria vita all’interno di un asfittico perimetro, di uno spazio delimitato, di un carcere senza osmosi con l’esterno. Significa coltivare una visione insulare e misera degli esseri umani e della conoscenza. I muri materiali e i muri mentali si alimentano a vicenda. Sono frutto di una pericolosa ignoranza e di terribili pregiudizi (ideologici o razziali, poco importa!). Tendono a giustificare la propria esistenza con le “buone intenzioni” di proteggersi dall’altro, dallo sconosciuto, dallo straniero. Fa male vedere Paesi europei che hanno cancellato il loro passato: non ricordano più i migranti che hanno cercato di riconquistare altrove la loro dignità perduta. Per questo Italo Calvino, nel Barone rampante, ci aveva messo in guardia: “Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori!”. Non mi fate sentire un’italiana: avete vinto voi razzisti, per ora di Karima Moual La Stampa, 13 febbraio 2023 Io e tanti figli di immigrati ci siamo illusi di far parte di un “noi” ma il Paese non è pronto. Oggi posso dire di aver perso, ha ragione Egonu: non siamo ingrati, molti non ci meritano. Lo ammetto, saranno almeno 8 anni che intimamente ci lavoro, ci penso con dolore e profonda sofferenza, ma alla fine mi avete convinta. Avete vinto voi. E credo che sia una consapevolezza di tantissimi come me, figli di immigrati proprio come Paola Egonu. Mi avete convinta. Non sono italiana. Anzi, non saremo mai italiani abbastanza come voi. I nostri nomi sono troppo stranieri, le nostre facce, i tratti, il colore della pelle, ancor più se è nera, non passa. Sono ormai adulta e una mamma e forse è giunto il momento di tirare le somme. Almeno è questa la presa di coscienza di un percorso di una parte della mia generazione arrivata dopo molti anni, dall’infanzia all’età adulta, a inserirsi pienamente nella società italiana, con sacrifici, dedizione e amore, portando successo a se stessa e al Paese in cui è cresciuta, l’Italia. Mentre scrivo queste parole, mi leggo anche al passato e percepisco l’ingenuità che ho avuto in tutti questi anni pensando di far parte di un “noi”, parlando e scrivendo ogni volta di un “noi italiani”. In ogni passo, atto d’amore o critica. Rabbia, frustrazione o gioia. Certo, arrivare a quel “noi” non è stato facile. È stato un crescendo. Eppure, più diventavo e mi sentivo italiana e più qualcuno mi ricordava che non lo ero poi del tutto. Più si costruiva la mia identità, mi appassionavo ed entravo nel profondo del mio sentimento e più arrivava chi mi dava la sveglia: ehi tu, non sei italiana e non sarai mai italiana. Era un po’ il sapore della stessa sveglia che mi dava mia madre quando per paura di perdermi, perché ero invece troppo italiana per lei in molte mie scelte anche divisive e di ribellione, mi ricordava in modo dispregiativo: ehi tu, tanto per loro sei e sarai solo una marocchina. Oggi ho la consapevolezza che ho perso. Mia madre non c’è più da qualche anno, ma forse aveva ragione proprio lei, che è insieme le mie radici straniere e la figura che combattevo e sfidavo da adolescente con la mia “italianità”. Perché alla fine hanno vinto coloro che dicono a Paola Egonu che è un’ingrata quando denuncia l’Italia razzista. Hanno vinto loro per ora, perché non sono pochi, e noi siamo sempre più soli, afoni e stanchi. Hanno vinto coloro che non riescono a capire e accettare chi proprio per amore e frustrazione arriva a fare una denuncia così forte, proprio perché sente di essere tirato fuori con violenza da quel “noi” e quindi grida la propria esasperazione provando a difendere qualcosa che sente suo e della quale viene continuamente depredato, un pezzo alla volta. “Ingrata che sputa nel piatto dove mangia, nel Paese che l’ha accolta invece di ringraziare”. È la sintesi delle accuse a Paola Egonu, identiche a quelle che io stessa ho ricevuto in questi anni per il solo fatto che, come giornalista, partecipo pienamente e animatamente al dibattito politico e sociale di un Paese che ho ingenuamente considerato mio. Ma non ci siamo solo Paola e io, il problema è che ci saranno decine di migliaia di figli di immigrati, cittadini italiani, che hanno preso coscienza del fatto che in questo Paese sono e saranno sempre cittadini di serie B a cui è negata la critica, perché semmai devono dire solo grazie. Grazie “Badrone”. I figli di immigrati naturalizzati sono una sfida per l’Italia e per l’Europa. Una sfida che ha evidenziato già qualche falla, comprovando che in verità la cittadinanza acquisita non è proprio piena. Volendo allargare lo sguardo, basti pensare alla Francia e alla questione fondamentalismo islamico, che ha messo in discussione anche il tema della cittadinanza da togliere in caso di radicalizzazione jihadista. Insomma, la questione è molto complessa. È un esempio che porta una domanda: il cittadino naturalizzato rimane tale solo quando non sbaglia? Ora, tornando all’attualità di questi giorni, tra tutte le urla contro Paola c’è un titolo che più di tutti racconta una sfida persa dall’Italia ma anche da noi seconda generazione che abbiamo in questi anni creduto di potercela fare. È quello di Libero: “Noi le diamo la maglia azzurra, la Egonu ci dà dei razzisti”. In questa frase c’è tutto il fallimento del significato della parola integrazione che è un percorso da fare in due. Lo straniero e la comunità che lo accoglie. È una frase così razzista, paternalista e classista che servirebbe maggior spazio per scardinarla. È certamente ingeneroso descrivere l’Italia tutta come razzista, ma purtroppo bisogna avere il coraggio e l’onestà intellettuale di dire che vi è una fetta importante di italiani convintamente conservatori e razzisti, un’altra di italiani semplicemente ignoranti, un’altra ancora di italiani sentimentalmente e culturalmente non pronti a percepire l’altro come parte di un “noi”. E infine solo una piccolissima parte, invece, interconnessa con il mondo e in una dimensione che non conosce confini, e quindi senza pregiudizi, che è più accogliente e meno timorosa di vivere il nuovo come parte di uno spazio di crescita da condividere insieme. Ecco, non basta. La verità che dobbiamo dirci è che oggi l’Italia non è ancora pronta ad accogliere la mia italianità, come quella di tanti altri cittadini che continuano a essere percepiti e raccontati come immigrati per sempre. La nostra storia di crescita e integrazione è un affronto troppo alto ed è per questo che quando denunciamo da dentro il razzismo o facciamo critiche appassionate sul futuro di quello che consideriamo il nostro Paese, ci guardano come marziani o addirittura ingrati. Il concetto di “ingratitudine” è quello che maggiormente viene utilizzato per attaccare chi, figlio di immigrati, osa farsi avanti con una critica, quale che sia. Sembra che la condizione di cittadino immigrato o figlio di immigrato (con cittadinanza italiana) debba escludere qualsiasi critica, denuncia o lamento, perché “è già tanto che l’Italia ci ha accolti”. Ora, se non è razzismo questo, che cosa è? Certo, l’Italia, come ogni Paese in cui si emigra, rappresenta uno spazio di opportunità, ma tale opportunità viene accolta dal migrante che a sua volta produce ricchezza per sé e per il Paese che lo ospita. Usufruisce di diritti ma ha anche dei doveri. Lavora, guadagna ma paga anche le tasse che fanno crescere il Paese ospitante. In estrema sintesi non è un peso morto sulle spalle dei contribuenti italiani, ma è un segmento di crescita che non solo agisce sul nostro Pil, ma anche sulle casse delle nostre stesse pensioni. Se all’inizio i nostri genitori migranti potevano dire grazie all’Italia per l’opportunità ricevuta, rimboccandosi le maniche e sgobbando come pochi per dare senso alla propria scelta di emigrare, migliorando le proprie condizioni di vita, mi chiedo cosa c’entrino i loro figli nati e cresciuti in Italia, grazie proprio a quel viaggio della speranza dei genitori e ai sacrifici che hanno permesso loro una vita migliore. Se mio padre Mohamed ringrazia l’”opportunità Italia” per essere arrivato dov’è, io mi sento in dovere di ringraziare soprattutto lui e mia madre Khadija per i tanti sacrifici e la sofferenza che hanno vissuto da stranieri adulti al fine di dare a me l’opportunità di arrivare dove sono, mentre l’Italia diventa naturalmente la mia casa il mio Paese di adozione. È proprio questo passaggio che manca a una buona parte di questo Paese, il quale sull’integrazione non è cresciuto perché continua a vederci solo come immigrati con il dovere di tenere la testa bassa, di restare zitti e grati. Ecco, no grazie. A tutti voi che avete questo pensiero dico che continuerò a esservi ingrata, vi confermo che il piatto in cui mangio è quello che mi sono conquistata non certo per vostra pietà o concessione ma per sacrifici miei e dei miei genitori migranti, come il passaporto rosso con scritto cittadinanza italiana, acquisito soddisfacendo i requisiti richiesti. Dire “sono italiana” difendendo e combattendo per quello che vale questa parola, era una dichiarazione d’amore frutto di una storia e un percorso che in questi anni non è stato riconosciuto e oggi mi sento di dire che non ho più bisogno di avere il vostro patentino di “italianità”. Oggi più che mai ho la consapevolezza che non sono io o siamo noi gli ingrati, ma siete voi che non meritate la nostra evoluzione identitaria di nuovi cittadini italiani. Sì, avete vinto voi, ma sappiate che sta perdendo l’Italia. Ucraina. “I diritti umani sono schiacciati da veti e ricatti, va ripensata la loro protezione” di Riccardo Maggiolo huffingtonpost.it, 13 febbraio 2023 Intervista alla giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi: “Se di fronte ai crimini di guerra provati a conclamati, alle fosse comuni, a un’aggressione militare, non ci sarà una giustizia nazionale e internazionale, allora è evidente che da un’aspettativa delusa di giustizia possa nascere un pericoloso sentimento di vendetta” Francesca Mannocchi, a che punto siamo coi diritti umani nel mondo? Se parliamo di quelli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che è una delle conquiste più importanti del secolo scorso, credo che siamo di fronte a una crisi di credibilità di chi dovrebbe tutelare quei diritti e sanzionare chi li viola. Pensiamo alla Libia: se dopo numerosi rapporti delle Nazioni Unite, molto chiari e documentati sulle violazioni dei diritti umani che avvengono regolarmente in quel Paese, non seguono sanzioni che possano davvero essere attuate per fare pressione e modificare la condotta dei paesi e dei governi che non li tutelano, quello che è scritto, per quanto nobile, rischia di perdere autorevolezza. Questa crisi di credibilità può anche trasformarsi in una crisi di legittimità di queste stesse istituzioni? Il rischio esiste. Dobbiamo interrogarci su quanto davvero i diritti descritti dalla Dichiarazione del ‘48 siano oggi nelle condizioni di essere protetti e garantiti. Sono appena tornata dal campo profughi di Dadaab, al confine tra Kenya e Somalia. Fu creato nel 1991 dalle Nazioni Unite in via emergenziale, e ancora oggi ci sono persone che ci vivono, dopo 32 anni. Sono 350 mila persone che vedono spesso non garantiti diritti fondamentali, quali l’accesso all’istruzione, al lavoro, il diritto alla mobilità. È un classico esempio che mostra quanto la sovranità nazionale vinca sul rispetto dei diritti umani. Se questo accade, e accade spesso, allora l’intero meccanismo di tutela va ripensato. È cambiato fondamentalmente lo scenario geopolitico che, nel secondo dopoguerra, consentì quella forte e condivisa dichiarazione di principi comuni? Mi pare evidente. Intorno ai diritti umani si è innescato un meccanismo di veti e ricatti incrociati. Oggi negli equilibri tra le potenze internazionali sono sempre più influenti le cosiddette “democrature”: paesi come la Turchia con cui l’Europa continua a stringere accordi. Tra tutti quello del 2016, siglato affinché la Turchia controllasse di fatto il flusso di persone migranti verso l’allora emergenziale rotta balcanica. Un patto costato già sei miliardi di euro, e che ora ci pone in una condizione di drammatica ricattabilità. La posizione occidentale risulta quindi contradditoria ed ipocrita agli occhi del mondo? La sensazione è certamente quella di un doppio standard. Pensiamo all’Afghanistan. Per vent’anni l’Occidente ha cercato di promuovere dei diritti, quali quello all’istruzione o quello della rappresentanza politica, con l’inclusione di donne e minoranze in parlamento. Poi però, un giorno, ha mollato tutto, battendo la ritirata in maniera maldestra, senza alcun piano B, e soprattutto senza lasciare alcun perimetro a tutela di quelle piccole realtà che in quei diritti avevano creduto. Ma al fondo c’è anche un problema culturale? Vale a dire la nostra convinzione che i nostri valori siano universali, quando non necessariamente lo sono? Ritenere che quello che è libertà per noi sia libertà in assoluto è sempre un grande errore. Così come pensare che i nostri tempi di acquisizione e difesa dei diritti debbano dettare il ritmo a tutti. Un errore che svuota il valore della parola “autodeterminazione”. Perché è chiaro che non possiamo rispettare questo concetto solo quando si esprime in forme a noi prossime. Guardiamo di nuovo all’Afghanistan: dal loro punto di vista i talebani hanno vinto la guerra contro l’esercito americano e contro gli alleati: gli “invasori”. C’è una fetta della popolazione afgana che ha sostenuto e continua a sostenere i talebani, nonostante la drammatica crisi umanitaria che vive il Paese, al suo secondo inverno di freddo, fame e povertà. Su questo credo che l’Occidente debba interrogarsi con più razionalità, e capire quante responsabilità abbiamo dopo vent’anni di guerra nel non aver capito una cultura e le tradizioni di un paese così profondante diverso da noi. Se i governi non sembrano in grado di difendere davvero i diritti umani, possono farlo le organizzazioni umanitarie? Le organizzazioni umanitarie svolgono un ruolo fondamentale, preziosissimo in luoghi al centro dell’attenzione mediatica e anche, soprattutto, in luoghi dimenticati dalla cronaca. Il problema è la gestione delle crisi croniche. Lo si vede anche nel recente terremoto in Turchia e Siria: subito si attiva una macchina di aiuti internazionale, e con grande afflato e orgoglio si cerca di dare una mano con l’invio di generi di conforto e unità di supporto. Ma poi, quando finisce il tempo delle tende, del primo soccorso, dei pacchi alimentari, sembra che i governi siano incapaci di leggere gli eventi, sviluppare progetti di lungo e medio periodo, prevedere le crisi di domani. Questa logica emergenziale rischia anche di innescare una “vittimizzazione” delle persone che hanno bisogno di aiuto? Sì. Raccontare le persone come vittime produce due distorsioni. Anzitutto una asimmetria per cui chi aiuta si pone in posizione superiore, quasi dominante, che impedisce all’altro di essere davvero indipendente. In secondo luogo, induce una sorta di distacco e rassicurazione, perché dà la sensazione che quello che è capitato all’altro - ritenuto vittima - non accadrà mai a chi lo aiuta. Una cosa che mi hanno insegnato le persone in guerra è che non vogliono essere descritte come vittime: vogliono giustizia. Non vogliono essere accompagnate nel lutto e nella sofferenza: vogliono che chi ha sbagliato paghi. Un discorso, questo, che si potrebbe applicare anche all’Ucraina? Certamente. Se di fronte ai crimini di guerra provati a conclamati, alle fosse comuni, a un’aggressione militare, non ci sarà una giustizia nazionale e internazionale, allora è evidente che da un’aspettativa delusa di giustizia possa nascere un pericoloso sentimento di vendetta. Credo che se riuscissimo a essere più capaci di preservare e amministrare la giustizia allora riusciremmo anche a fermare alcune spirali di violenza e di conflitto che poi nel tempo diventano quasi insanabili. Spirali che aumentano la distanza tra questi luoghi e il cosiddetto “Primo mondo”. Il tema della disuguaglianza è quindi sempre più centrale? Sì, credo che sia un tema che rompe le barriere e i confini. In particolare coinvolge le nuove generazioni, che sono generalmente post-ideologiche. Lo si vedeva già in diverse manifestazioni in Medio Oriente e Nord Africa nel 2019: proteste in cui il filo conduttore era la lotta alla corruzione e in favore della redistribuzione della ricchezza. Mi ha colpito molto vedere nelle piazze di Beirut le persone manifestare senza bandiere, cioè senza affermare appartenenze religiose o etniche. Persino in un Paese così settario come il Libano il tema oramai più sentito è quello della disuguaglianza di risorse e di opportunità. Dovremmo allora raccontare più le nostre somiglianze delle nostre differenze? Il “noi” e “loro” è un approccio che cerco di evitare. Provo invece a far sì che le storie personali diventino parte e tessitura della Storia con la “S” maiuscola; che vadano quindi oltre un livello intimo, magari anche empatico, che però si dissipa rapidamente. La domanda che vorrei innescare nel pubblico è “Cosa farei io se fossi nella stessa condizione?”; “Cosa farei se avessi i carri armati sotto casa?”; “Cosa farei se cadesse un missile sulla scuola di mio figlio?”. Si può così anche comunicare e portare speranza? Col mio lavoro non cerco di portare speranza, ma consapevolezza. Quello che mi piacerebbe uscisse dai racconti che faccio è la comprensione del contesto, dello scenario. Il mondo si gestisce meglio conoscendolo. Egitto. La sorella di Alaa Abd El-Fattah: “Non dimenticate mio fratello nelle carceri di Al Sisi” di Antonello Guerrera La Repubblica, 13 febbraio 2023 Mona Seif racconta la detenzione dell’attivista - che ha la cittadinanza britannica - e accusa il Regno Unito di non fare abbastanza: “Come l’Italia, troppa paura di rovinare i rapporti con il Cairo”. “Vi prego, non dimenticate mio fratello Alaa. Come Giulio Regeni, anche lui è vittima del brutale regime di Al Sisi”. Mona Seif è incinta al quinto mese, si è appena trasferita a Londra ma continua a lottare ogni giorno per Alaa Abd El-Fattah: 41 anni, programmatore di software e attivista per la democrazia in Egitto, che lo ha rinchiuso in carcere da 9 anni dopo la fallita Primavera Araba con le accuse, false e strumentali per famiglia e Amnesty International, di “disinformazione” e “sovversione”. “Mio fratello è stato torturato, lo considerano il nemico n.1, non vede il sole da settembre 2019”, ci racconta Seif, 36 anni, biologa e attivista come tutta la sua famiglia, che incontriamo vicino al palazzo dei servizi segreti inglesi MI6, nella londinese Vauxhall. Mona, come sta Alaa? “Rispetto all’autunno durante il vertice sul clima Cop27, quando era in sciopero della fame e sete, Alaa sta meglio, fisicamente e psicologicamente. Ma non è ottimista, affatto. Passa le giornate dalla rabbia allo sconforto: mesi fa ha anche pensato di suicidarsi. E da un anno e mezzo non riesce a vedere neanche suo figlio 11enne Khaled (chiamato così in onore di un ragazzo egiziano ucciso all’inizio della rivoluzione del 2011, ndr): è autistico, non parla e non riesce ad interagire in una cabina con le cuffie. Ma in carcere non ci hanno concesso alcuna eccezione”. Cosa vi dice quando lei, sua sorella Sanaa e sua madre Laila andate a trovarlo in prigione? “Alaa ha esclamato: ‘Sono così felice che tu avrai un bambino, spero di essere lì quando nascerà’. Per la prima volta, di recente, ha pensato al futuro fuori da quella cella di massima sicurezza: ‘Spero di raggiungerti presto e ricominciare la mia vita a Londra’. Almeno, da qualche settimana, ci permettono di dargli giornali e libri quando andiamo a visitarlo e gli hanno permesso di guardare anche la Coppa del Mondo di calcio. Per la prima volta in tre anni Alaa ha visto la tv”. Un segno di ammorbidimento della posizione dell’Egitto su Alaa? “Di certo, il regime si è spaventato quando mio fratello ha rischiato la vita qualche mese fa durante lo sciopero della sete. Allo stesso tempo, tuttavia, se lo trattano meglio è anche perché probabilmente hanno intenzione di farlo marcire in carcere il più a lungo possibile. Oramai la legge non conta più nulla in Egitto, le pene detentive vengono decise sommariamente. Inoltre, Alaa è arrabbiato e deluso dalla mancanza di azione del governo britannico”. Perché? “Sono 14 mesi che abbiamo chiesto una visita del console britannico ad Alaa in carcere e ancora non è stata organizzata. È vero che il premier britannico Rishi Sunak ha parlato con Al Sisi del caso di mio fratello durante la Cop27 e le autorità britanniche citano Alaa in ogni circostanza con i loro omologhi. Ma è un approccio soft, dettato dalle esigenze geopolitiche e commerciali tra Londra e il Cairo. Solo due settimane fa l’ambasciatore britannico celebrava la nuova missione commerciale con Egitto e Marocco. Con un atteggiamento simile, non si ottiene mai niente da Al Sisi”. Insomma, secondo lei Londra che pure nel 2021 ha concesso la nazionalità britannica ad Alaa, teme di cambiare lo status quo? “Esatto, e non porre vera pressione sull’Egitto, che pure è un Paese alleato. Tutto questo è vergognoso. Altre nazioni come il Canada, Francia e gli Stati Uniti, soprattutto dopo la morte di Mustafa Kassem (il cittadino amerucano morto durante lo sciopero della fame in un carcere egiziano dopo sei anni di detenzione, ndr) tre anni fa, hanno un atteggiamento molto più severo. Il regime di Al Sisi non ascolta le richieste formali. Si muove solo quando si sente davvero in pericolo o sotto pressione”. Anche il governo italiano è accusato da tempo di avere una mano molto morbida sull’Egitto, dopo il tragico assassinio di Giulio Regeni e la detenzione dello studente bolognese Patrick Zaki. Voi familiare di Alaa ricordate sempre Giulio durante le vostre manifestazioni... “Il caso di Giulio è esemplare: spiega la brutalità crescente del regime egiziano ma anche l’agenda di molti governi occidentali, incluso quello italiano. Roma dovrebbe lottare per Giulio. Ma non lo fa. Al Cairo basta minacciare di aprire il ‘rubinetto dei migranti’ e l’Italia chiude volentieri un occhio”. Crede che l’Italia abbia un obbligo morale anche per dare l’esempio ad altri Paesi, dopo la tragedia di Giulio? “Purtroppo Giulio e Alaa non interessano al governo italiano e a quello britannico. Sono solo una interferenza, un dettaglio insignificante. Per i governi contano solo la stabilità, il commercio, le armi. Se noi famiglie non lottassimo per loro giorno e notte, Alaa e Giulio sarebbero stati completamente dimenticati e ignorati da Londra e da Roma. Per fortuna, molti cittadini ci ascoltano e sono con noi nella lotta per la giustizia”. Voi famiglie di Giulio e Alaa siete in contatto? Crede che il sogno democratico dell’Egitto sia oramai impossibile?? “Per la mia generazione, penso di sì purtroppo. Ma anche per quella successiva sarà molto difficile: Al Sisi e i generali hanno violato ed eroso qualsiasi struttura democratica e di giustizia nel Paese. Il regime tiene i cittadini sotto assedio costante. Oramai gli egiziani non pensano più al futuro, ma solo a sopravvivere al presente”. Ritorno in Iraq, vent’anni dopo di Giovanni Porzio La Repubblica, 13 febbraio 2023 Nel marzo 2003 scattava l’offensiva Usa contro Saddam. Che ne è stato di quel Paese? Da Baghdad a Mosul reportage tra le macerie di ieri e di oggi. Con pochi spiragli. Baghdad. Fummo svegliati da un boato alle 5,34 quel giovedì 20 marzo 2003: il primo missile Cruise aveva colpito il palazzo presidenziale sulla sponda destra del Tigri. Era l’inizio di Iraqi Freedom, l’offensiva lanciata da George W. Bush contro il regime baathista di Saddam Hussein. Una guerra costata tra i due e i cinque trilioni di dollari con un bilancio di 4.806 vittime tra i militari della coalizione e di oltre un milione di civili iracheni. Una guerra formalmente terminata nel dicembre 2011, prolungata dall’insorgere del Califfato islamico, dall’inasprimento dei conflitti settari, dallo strapotere delle milizie. Sono passati ormai quasi vent’anni e a Baghdad esercito e polizia continuano a presidiare i ministeri, gli uffici pubblici, le banche e gli accessi alla Green Zone, l’area protetta dove ci sono ministeri e ambasciate. Ma in città si respira un’atmosfera più rilassata di allora: spariti i check point, rimosse le postazioni armate e gran parte delle barriere che avevano trasformato i quartieri in fortilizi. Persino in alcune aree della Zona Verde è oggi possibile transitare senza controlli e perquisizioni. Al Palestine Hotel, quartier generale dei media durante la guerra, protezioni di calcestruzzo, reticolati e sbarramenti anti-kamikaze sono stati ridotti al minimo. E al 17esimo piano i segni del proiettile sparato dal tank americano che l’8 aprile 2003 uccise i colleghi José Couso, della rete spagnola Telecinco, e il fotografo polacco Taras Protsyuk, sono stati cancellati. Si moltiplicano invece gli alberghi, i negozi di elettronica, le concessionarie di automobili di lusso, le società di import-export, gli shopping mall. In riva al fiume si accendono i fuochi del masgouf, il pesce alla brace, mentre nel distretto della borghesia sunnita di Mansur i clienti affollano i ristoranti, i caffè e le boutique che spacciano griffe italiane taroccate. A ricordare l’epoca di Saddam restano la spianata delle quattro sciabole monumentali, i palazzi del raìs trasformati in caserme e il profilo grigio della Grande moschea incompiuta, con le gru pericolanti che incombono sulle cupole di cemento. Dall’hotel Palestine a Zaha Hadid - Il nuovo totem della più popolosa città araba dopo il Cairo (dieci milioni di abitanti) è la torre di 170 metri della Banca centrale, progettata dall’archistar irachena Zaha Hadid e quasi ultimata: 37 piani che dovrebbero simboleggiare l’inizio di una nuova era. Una ripartenza, dopo decenni di massacri, autobombe, scontri confessionali e lotta al terrorismo, che però rimane nel libro delle speranze, o dei sogni. Le milizie sciite, nazionaliste e filoiraniane, tengono in ostaggio il governo centrale e il parlamento. Alle ultime elezioni (ottobre 2021) il movimento del mullah Muqtada al Sadr aveva ottenuto il maggior numero dei seggi, ma dopo un anno di stallo e di veti incrociati per la formazione di un esecutivo i suoi seguaci, esasperati, hanno assalito la Zona Verde scontrandosi con i paramilitari al soldo di Teheran. Almeno 34 i morti. Muqtada ha allora annunciato il temporaneo ritiro dalla politica e le dimissioni dei suoi 73 deputati, a tutto vantaggio delle fazioni filo-iraniane che, con l’appoggio dei partiti curdi e sunniti, hanno partorito il nuovo governo di Mohammed al Sudani. Una capitale al buio - La cronica instabilità politica non è l’unica piaga del Paese. La corruzione ha raggiunto livelli che non si erano visti neppure nell’immediato dopo Saddam. Ministeri e settori chiave dell’economia, dalla sanità alla difesa, sono preda di affaristi, militari e amministratori che operano nell’ombra e prosciugano miliardi dalle casse dello Stato. In novembre il ministro della Sanità ha chiuso 79 cliniche della capitale definendole “centri di sfruttamento e ladrocinio”. Nel contempo, poco o nulla viene fatto per migliorare i servizi pubblici al collasso e le condizioni di vita di una popolazione che per un quarto è al di sotto della soglia di povertà. I blackout sono quotidiani anche nel centro di Baghdad, dove si formano lunghe code ai distributori di carburante. Le scuole sovraffollate, e in molte zone del Paese manca l’acqua potabile. Nello slum di al Dezam, insediamento abusivo di 14 mila abitanti ai margini di Sadr City, le autobotti distribuiscono l’acqua a 500 dinari la tanica (un dinaro iracheno equivale a 0,00063 euro). Fitte ragnatele di fili elettrici e stendardi con l’effigie di Hussein e Ali fanno ombra ai vicoli allagati dalle piogge. Le fognature sono intasate, le case fatiscenti, gli ambulatori inesistenti. “Non c’è lavoro” si lamenta Rashid che vende legumi al mercato. “E i prezzi continuano ad aumentare. Mio figlio è malato e devo comprare i medicinali alla borsa nera”. L’Iraq non è soltanto diviso, e reso politicamente fragile, dalle insanabili fratture tribali, settarie e religiose ma anche dalle mire geopolitiche dei suoi vicini. Nel Nord curdo e turkmeno è sempre più evidente il peso economico e commerciale della Turchia. Nell’Anbar sunnita, confinante con la Siria, allungano i tentacoli Arabia Saudita, Emirati e Qatar, mentre gli onnipresenti ritratti di Khomeini, del generale iraniano Qassim Soleimani, comandante della forza Quds dei pasdaran, e di Abu Mahdi al Mohandes, vice comandante delle PMF, Forze popolari di mobilitazione - entrambi uccisi il 3 gennaio 2020 da un missile americano - fanno sembrare Baghdad, e ancor più il Sud del Paese, una provincia iraniana. Kerbala, Iran - Il generale Ali al Hamdani, che comanda le PMF nell’area a Sud di Baghdad, mi riceve nel suo ufficio di Kerbala: un compound fortificato tappezzato di foto dei martiri e dei ritratti del grande ayatollah Ali al Sistani, suprema autorità spirituale sciita. “Nel giugno 2014 l’Isis era alle porte di Baghdad. In due anni, con l’aiuto dell’Iran che forniva armamenti e consiglieri, abbiamo respinto Daesh e riconquistato Mosul. Ci accusano di essere al servizio di Teheran: l’Iran ci appoggia, ma ora siamo parte integrante dell’esercito iracheno. Addestriamo i volontari, sviluppiamo l’intelligence, organizziamo la logistica. E poi armi e munizioni non arrivano solo dall’Iran: le compriamo anche in Russia e nell’Europa dell’Est”. utto, a Kerbala, arriva dall’Iran: auto, pezzi di ricambio, generi alimentari e droga, il cui consumo è incentivato dal divieto di assumere alcolici. Le donazioni di milioni di pellegrini sciiti finanziano la costruzione di ostelli, università, moschee e madrasse. Ma ancor più consistenti sono i profitti illeciti derivanti dai furti di greggio e dal contrabbando di medicinali. “Se l’Iraq non è ancora uno Stato fallito è solo grazie alle immense riserve di petrolio, 95 per cento del bilancio statale”, afferma Yousif al Eshaiker, uomo d’affari che fa la spola tra Londra, Kerbala e il Pakistan. “Dovremmo cercare di diversificare l’economia, puntando sul turismo, sulla modernizzazione dell’agricoltura e del decrepito tessuto industriale. Ma nessuno se ne cura. E nessuno paga le tasse”. A Fallujah, l’“antro del male”, già baluardo qaedista e teatro della più sanguinosa offensiva americana del dopo-Saddam, l’ex sindaco Mohammed al Mehemdi non nasconde il risentimento della comunità sunnita. “L’Iran è stata la nostra rovina” dice lo sceicco. “Più di 700 membri della mia tribù sono stati trucidati dalle PMF e i loro corpi fatti sparire. Con Saddam almeno avevamo sicurezza. Gli Usa non hanno tenuto fede alle promesse: abbiamo un governo settario e supercorrotto”. Gli affari, invece, sembrano andare a gonfie vele: edilizia, commercio, trasporti, contrabbando. Da alcuni anni l’Anbar è diventato uno snodo del traffico di droghe sintetiche che dalla Siria transitano in direzione di Arabia Saudita, Emirati e Kuwait. Il grande business è il Captagon, un mix di amfetamina e caffeina utilizzato in battaglia dai gruppi armati e oggi diffuso soprattutto tra i giovani delle petromonarchie del Golfo. Solo nel 2021, anno in cui i sequestri hanno raggiunto la cifra record di 250 milioni di pillole, la Siria avrebbe esportato Captagon per un valore di 5,7 miliardi di dollari. Nella Mosul dell’Isis - L’autostrada per Mosul, che attraversa villaggi cannoneggiati e discariche di veicoli carbonizzati, è addobbata di ritratti dei martiri sciiti e dei comandanti iraniani: per mettere in chiaro chi ha sconfitto l’Isis e chi comanda anche nei territori sunniti del nord. Ad al Awjah, paese natale di Saddam, le tombe del raìs e dei suoi due figli, Qusay e Uday, sono state distrutte durante i combattimenti nel 2015, ma i corpi erano già stati traslati in una località segreta. Nella borgata agricola di Mkishifeh, lo sceicco Abu Abdallah Hatim al Khiraim si aggira tra i resti delle case bombardate: “Da Baghdad” mi dice “non riceviamo niente. La ricostruzione è finanziata dal governatorato di Salah ad Din”. Mosul, a più di cinque anni dalla sconfitta dello Stato islamico, è semidistrutta e scuole e ospedali versano in condizioni pietose. Qualche famiglia è tornata ad abitare nelle casupole pericolanti della città vecchia, circondate da montagne di macerie e di edifici sbriciolati. Sentieri di pietre e mattoni si arrampicano tra le rovine, dove bandierine rosse segnalano la presenza di ordigni inesplosi. I bambini giocano tra le lamiere contorte, le auto accartocciate, i frantumi delle facciate dei palazzi ottomani. L’Unesco sta restaurando la moschea al Nouri, dove Abu Bakr al Baghdadi proclamò il Califfato, e alcuni degli antichi luoghi di culto cristiani. “Questa chiesa” spiega l’architetto Mukdad Kozbaker “era il tribunale dell’Isis. Quest’altra la prigione. Il vescovado era una fabbrica di cinture esplosive e di autobombe: non è ancora stata bonificata”. Trentacinque chiese sono state danneggiate o rase al suolo. “Nel 2003” racconta il vescovo Emmanuel Raad Adel “c’erano 50 mila cristiani a Mosul, il 10 per cento della popolazione. Nel 2014, quando l’Isis ha occupato la città, non ne era rimasto nemmeno uno. Ora sono tornate solo una settantina di famiglie”. Generazione perduta - Lo spettro del Califfato non ha abbandonato l’Iraq. Il campo di al Hol, in territorio siriano, dove tra i 60 mila profughi di guerra ci sono migliaia di sospetti terroristi e di foreign fighters con donne e bambini il cui destino è ancora incerto, è stato definito dal generale Michael Kurilla, comandante dell’US Central Command, “un terreno di coltura per le nuove reclute dell’Isis”. Durante un rastrellamento in ottobre le forze di sicurezza hanno effettuato 226 arresti, scoperto 25 tunnel e sequestrato armi e munizioni. Quasi la metà dei detenuti ad al Hol è di nazionalità irachena. Alcune centinaia sono stati spostati in tre campi nei dintorni di Mosul. Ma migliaia di mogli e figli dei combattenti uccisi o incarcerati, privi di diritti e di documenti, campano di espedienti negli slum, negli edifici abbandonati o nelle comunità tribali della cintura urbana. “È una tragedia umanitaria” commenta Yusif, coordinatore dei progetti sanitari di Medici senza frontiere. “I bambini non vanno a scuola. Le donne subiscono violenze e molte sono costrette a prostituirsi per sopravvivere”. La chiamano “ashbal al Khilafi” la generazione perduta del Califfato. Al Intisar è un quartiere malfamato, ex roccaforte di Al Qaeda e dello Stato islamico. È Ahmed, 16 anni, a farsi avanti: sua madre Mariam, per i postumi di una ferita, non riesce a parlare. “Mio padre, Ali Mohammed Hussein, era un miliziano di Daesh ed è morto nella battaglia di Mosul. Eravamo asserragliati nella città vecchia. I bombardamenti erano incessanti: elicotteri, aerei, mortai. L’acqua dei pozzi era marcia. Andavamo al fiume con le taniche ma i cecchini ci sparavano. Io sono stato colpito a un braccio e a una gamba. Mangiavamo gli avanzi di pane che trovavamo in strada. Dopo la guerra io mi sono messo a lavorare in una fabbrica di yogurt. Non potevo andare a scuola. Prendo 200 dollari al mese. I parenti non ci aiutano, ci considerano una famiglia di terroristi. Nessuno viene a trovarci”. Kalashnikov e Rpg - A sud di Mosul, a poca distanza dai templi dell’antica città di Hatra, una trincea si allunga nella sabbia: carri armati, pezzi di artiglieria, uomini armati di Kalashnikov e Rpg, telecamere per la visione notturna. La linea di difesa delle milizie di Ansar al Marjai sembra fronteggiare un deserto disabitato, ma il nemico è in agguato. S’infiltra con i beduini che muovono le greggi. Sbuca nel cuore della notte. “Il mese scorso” racconta Jalil al Jeiashi, vicecomandante di un battaglione di 1.500 volontari sciiti, “abbiamo perso due uomini, ma abbiamo ucciso dieci terroristi”. Negli ultimi mesi le imboscate e gli attentati suicidi si sono intensificati nel Nord e nell’Ovest del Paese, dove le cellule jihadiste si stanno riorganizzando e attaccano i civili e le forze di sicurezza con la consueta ferocia: nella provincia di Kirkuk, in novembre, quattro soldati iracheni sono stati trucidati e decapitati.