Cospito trasferito in ospedale “in via precauzionale” di Mario Di Vito Il Manifesto, 12 febbraio 2023 È al San Paolo di Milano su decisione del Dap dopo la visita del medico di parte, resta al 41 bis. Dalle 18.39 di ieri sera Alfredo Cospito non è più nel carcere di Opera, ma nell’ospedale San Paolo, sempre a Milano, in una delle camere destinate ai detenuti in regime di 41bis. Il trasferimento è stato disposto “in via precauzionale” dal Dap, appena poche ore dopo la visita a Opera del medico di parte Andrea Crosignani. “I parametri tengono - ha detto il dottore dopo aver visto Cospito, che oggi raggiunge quota 115 giorni di sciopero della fame, rifiutando anche di assumere integratori -, ma è a rischio di edema cerebrale e aritmie cardiache potenzialmente fatali”. E ancora: “È lucido e cammina sulle proprie gambe. I parametri tengono ma basta poco perché la situazione precipiti senza dei segni particolari di allarme. Alfredo mi sembra determinato ad andare avanti sulla sua protesta, anche se ho cercato di convincerlo a riprendere il potassio per ridurre il rischio di queste aritmie”. La situazione, dunque, prosegue sul filo del rasoio, e il trasferimento di Cospito in ospedale, sia pure solo a fini precauzionali, apre interrogativi di non poco conto su quello che dovrà essere il comportamento delle istituzioni qualora - o quando - la situazione andrà a peggiorare. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio - che ha accompagnato il trasferimento dell’anarchico detenuto dicendo che “la salute viene prima di ogni altra cosa” - ha chiesto un parere al Comitato di Bioetica sulle disposizioni anticipate di trattamento che arrivano da un detenuto che, in modo volontario, abbia deciso di porsi in una condizione di rischio per la salute e che indichi il rifiuto o la rinuncia a interventi sanitari anche salvavita. Ovvero: cosa fare di Cospito se dovesse perdere conoscenza? Nel pieno delle sue facoltà, l’anarchico ha più volte dichiarato che rifiuta ogni forma di trattamento obbligatorio e questa sua posizione è da considerarsi valida qualsiasi siano le sue condizioni fisiche e facoltà intellettive. A questo proposito, il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick si è detto “perplesso” dall’istanza presentata da Nordio. Questo sulla base della legge numero 219 del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento. “Quella legge - spiega Flick - dice che una persona può rifiutare ogni trattamento sanitario anche se dal rifiuto può conseguire la morte”. Nordio, come già quando ha respinto le istanze della sua difesa e ha confermato formalmente il regime di 41 bis per Cospito, è alla continua ricerca di pareri tecnici che supportino quelle che, a tutti gli effetti, appaiono invece scelte politiche. Lo sottolinea ancora Flick: “La responsabilità è del ministro, non mi pare sia competenza del Comitato di Bioetica dirgli cosa fare”. L’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini, dà per scontato che il suo assistito non arriverà vivo al 24 febbraio, giorno in cui la Cassazione dovrebbe dire la sua sul regime di 41 bis a cui è sottoposto. La corsa contro il tempo è serrata, ma la faccenda viene vista da Nordio come parte di una battaglia politica, con l’anarchico che “usa il suo corpo come un’arma” per “orientare le iniziative di lotta della galassia anarco-insurrezionalista”. In questo senso, dunque, lo sciopero della fame sarebbe stato studiato “per finalità ideologiche”. Intanto, ieri a Milano, un corteo anarchico in solidarietà a Cospito e contro il 41 bis è finito con sette persone portate in questura per essere identificate. La manifestazione, che ha visto la partecipazione di circa 500 persone, era partita da piazza XXIV Maggio e, all’altezza di via Sabotino, ha visto un primo momento di tensione con le forze dell’ordine. Due lacrimogeni sono stati lanciati sulle prime file del corteo, poi sono seguite alcune cariche. Il percorso del corteo, blindato dall’ingente presenza di agenti in assetto antisommossa, ha visto gli anarchici sfilare in un’atmosfera quasi spettrale, frutto dei negozi sbarrati per paura di eventuali danneggiamenti. Una filiale del Credit Agricole è stata danneggiata. In Spagna, a Barcellona, è stato arrestato il presunto responsabile dei danni al consolato italiano di qualche giorno fa. Si tratterebbe di un uomo di nazionalità italiana parte di un gruppo già sospettato di aver dato fuoco a un furgone della polizia nel 2021. La Procura della Cassazione ha chiesto di togliere il 41 bis a Cospito di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 febbraio 2023 La massima rappresentanza dell’accusa, in contrasto con la scelta del ministro della Giustizia Nordio, ha chiesto di annullare la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva confermato il 41 bis per l’anarchico, in sciopero della fame da oltre 110 giorni e da ieri ricoverato al San Paolo. Sul caso di Alfredo Cospito, rinchiuso al “41 bis” dal maggio scorso, la Procura generale della Cassazione si schiera al fianco della difesa e chiede l’annullamento della decisione del tribunale di sorveglianza che - a dicembre - ha confermato il “carcere duro” per l’anarchico detenuto dal 2012 e in sciopero della fame da 115 giorni. Nella requisitoria depositata in vista dell’udienza fissata per il prossimo 24 febbraio, la massima rappresentanza dell’accusa considera quella decisione da rivedere, e questo rappresenta un’ulteriore novità in contrasto con la decisione, presa appena venerdì scorso, dal ministro della Giustizia Carlo Nordio di confermare il “41 bis”. Respingendo una nuova istanza dell’avvocato Flavio Rossi Albertini, il Guardasigilli ha confermato la necessità del “carcere duro”, senza aderire all’ipotesi alternativa proposta dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo di “declassificare” il regime di detenzione in quello di “alta sicurezza”; una scelta - quella di Nordio - fatta sull’onda degli attentati e delle proteste di piazza che, secondo il ministro, lo stesso Cospito ha sollecitato dal carcere con il suo digiuno di protesta. Ora però, sul fronte giudiziario, arriva la novità della pubblica accusa che chiede di rivedere la situazione, considerando mal motivato il verdetto con il quale i giudici di sorveglianza avevano rigettato una precedente richiesta del difensore di Cospito di togliere il proprio assistito dal regime detentivo riservato (prima della decisione che lo ha riguardato) soltanto a esponenti della criminalità organizzata e a tre brigatisti dell’ultima generazione. All’udienza della Cassazione mancano ancora più di dieci giorni, e le condizioni di salute di Cospito sono peggiorate al punto che ieri è stato deciso il trasferimento in ospedale. I giudici di legittimità devono decidere sulla base della requisitoria del procuratore generale e delle ragioni della difesa illustrate nel ricorso, e hanno davanti a loro tre possibilità: - annullare definitivamente il decreto ministeriale che impone il “41 bis” a Cospito; - annullare con rinvio al tribunale di sorveglianza affinché prenda una nuova decisione o comunque la motivi in maniera diversa; - rigettare il ricorso contro le motivazioni esposte dalla difesa e - a questo punto - anche dall’accusa. In ogni momento, vista la situazione in continua evoluzione, sia sul piano giudiziario che delle condizioni di salute del detenuto, il ministro può decidere se intervenire nuovamente oppure attendere ulteriori esiti. Svolta su Cospito, il procuratore generale in Cassazione: “Via dal 41 bis” di Viola Giannoli, Liana Milella La Repubblica, 12 febbraio 2023 Dalla Suprema Corte un possibile spiraglio. L’anarchico in sciopero della fame trasferito nell’ospedale San Paolo di Milano per ordine del Guardasigilli, Carlo Nordio. Due colpi di scena, nel giro di poche ore, nel caso di Alfredo Cospito. L’anarchico da 115 giorni in sciopero della fame lascia il carcere di Opera e viene trasferito in ospedale. L’ordine arriva dall’alto, direttamente dal Guardasigilli Carlo Nordio. E, a sera, Repubblica viene a sapere che Piero Gaeta, il sostituto procuratore generale della Cassazione, la Corte che dovrà esprimersi il 24 febbraio sulla revoca del carcere duro, ha chiesto di “annullare il 41 bis” per Cospito. E questo cambia radicalmente tutta la storia. L’orologio dei medici del San Paolo segna le 18.39 quando l’anarchico entra in una delle camere riservate ai detenuti in regime di 41 bis dell’ospedale milanese. Cinque ore prima del trasferimento in ospedale, era stato il medico di parte, Andrea Crosignani, a visitarlo per la prima volta da quando era a Opera: “Ormai Cospito pesa 71 chili ed è a rischio di edema cerebrale e aritmie cardiache potenzialmente fatali. Le sue condizioni sono serie. È lucido, presente a sé stesso, cammina ancora, ma basta poco perché la situazione precipiti senza segni particolari di allarme preventivo”. Crosignani affida le sue drammatiche considerazioni a una serie di audio e li invia all’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini. Sono vocali che scuotono anche perché il professore non indora di certo la pillola, come quando dice che “Cospito non ha alcuna intenzione di fermare il suo digiuno”. Poco prima, il colloquio tra l’anarchico e un’altra legale della difesa, Maria Teresa Pintus, viene interrotto dagli infermieri per una serie di prelievi. Tra questi non ci sono quelli più strategici perché, come dice lo stesso medico, non è possibile farli a Opera. Il responso dettagliato del medico esce in agenzia e viene letto subito dal ministro Nordio che si trova a Treviso. L’ex pm capisce che la situazione sta precipitando, e a chi gli chiede, come Repubblica ha fatto, cosa pensa di fare, risponde: “Me ne sto occupando adesso”. E ai suoi dà un ordine: “Cospito va trasferito”. Il destino dell’anarchico diventa all’improvviso un altro. Venerdì era blindato ad Opera. Ieri, quando finalmente dopo due settimane di pressioni del suo avvocato contrapposte alla lenta burocrazia carceraria, il professore di parte lo visita e con voce pacata lancia l’allarme, la storia cambia. Si mette in moto tutta la catena che porta, poco più tardi, al viaggio di Cospito verso l’ospedale che dista giusto 15 minuti di auto. “Un trasferimento in via precauzionale su indicazione dei sanitari”, dice il ministero della Giustizia. E qui scoppia la contraddizione: giovedì quel ministero e lo stesso Nordio hanno negato la revoca del 41 bis a Cospito, attribuendo un enorme peso probatorio a una sola frase, quella in cui Cospito dice “il corpo è la mia arma”. Adesso, dopo quella visita medica giustamente allarmista, ecco il ministro dire: “La salute di ogni detenuto costituisce priorità assoluta”. È furibondo invece Rossi Albertini che ha scoperto del trasferimento “dai giornalisti e non, come sarebbe stato normale in un paese civile, dalla direzione dell’istituto”. Negli stessi minuti, però, la storia di Cospito muta una volta ancora. Perché Repubblica scopre che è la pubblica accusa - il sostituto procuratore generale della Cassazione Gaeta - a scrivere che il 41 bis per Cospito non serve più. È l’esatto opposto di quanto ha scritto Nordio. La richiesta di Gaeta è netta: “annullare il 41 bis” all’anarchico. Una richiesta depositata in vista dell’udienza del 24 febbraio sul ricorso presentato da Rossi Albertini contro la decisione del tribunale di sorveglianza di Roma di confermare il regime del carcere duro a Cospito. E il no di Gaeta al 41 bis a questo punto può stravolgere del tutto e definitivamente lo scenario dell’intera vicenda. La sua richiesta fa capire anche perché il capo della procura nazionale Antimafia, Giovanni Melillo avesse già indicato, nel suo parere, una via alternativa per Cospito: non più il 41 bis ma un regime di Alta sorveglianza con censura. Obbligatorio porsi una domanda: com’è possibile che Nordio non fosse al corrente della richiesta di Gaeta? La conosceva e l’ha considerata non dirimente oppure non ne sapeva nulla? Di certo i giudici della Suprema corte non potranno ignorare la richiesta dell’accusa. E se dovessero annullare definitivamente il 41 bis, lo sciopero di Cospito finirebbe per mano dei giudici, e non della politica. Caso Cospito, in Cassazione lo spiraglio per revocare il 41 bis di Francesco Grignetti La Stampa, 12 febbraio 2023 Secondo il procuratore generale il carcere duro per l’anarchico è superato dagli eventi. Il futuro di Alfredo Cospito dipende ormai dall’ultima decisione possibile, in Cassazione, il prossimo 24 febbraio. Sarà lì, nel monumentale Palazzaccio, emblema del potere giudiziario, che si deciderà la vita e la morte del terrorista anarchico in sciopero della fame ormai da 114 giorni. E si profila una clamorosa novità. La procura generale presso la Cassazione, ovvero la più alta espressione della pubblica accusa, ha depositato martedì scorso il testo di quella che sarà la sua requisitoria. E secondo il procuratore generale, il 41 bis per Cospito è ormai superato dagli eventi. Le necessità che indussero più uffici giudiziari a richiedere il carcere duro per Cospito un anno fa, nel febbraio 2022, secondo la procura generale a questo punto sarebbero sopravanzate da altre valutazioni. Nessuno ne ha ancora potuto prendere visione, neppure la difesa dell’imputato. Ma ciò significa che la procura generale - dal giugno scorso è guidata da Luigi Salvato, un giurista tutto d’un pezzo, molto critico con Nordio all’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario - è giunta a conclusioni opposte a quelle del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, irremovibile nel richiedere il 41 bis per Cospito, e più affini a quanto sostenuto dalla Superprocura, retta da Giovanni Melillo, che aveva lasciato aperta la possibilità di un “décalage” nelle misure carcerarie per l’anarchico. Per la Superprocura antiterrorismo, infatti, sarebbe più che sufficiente un trattamento da Massima Sicurezza, con censura delle comunicazioni. Proprio a questo appuntamento del 24 febbraio in Cassazione sono legate le ultime speranze del legale di Cospito, l’avvocato Flavio Rossi Albertini. Ma la domanda a questo punto è: possibile che il ministro Nordio, quando pochi giorni fa ha confermato il 41 bis per l’anarchico, non conoscesse la requisitoria della procura generale presso la Cassazione? Pur pessimista sulla decisione del 24, che Rossi Albertini ritiene inevitabilmente contaminata dalla decisione del ministro Nordio (“sarebbe davvero ingenuo pensare il contrario”, diceva due giorni fa), se mai la Cassazione decidesse di annullare la decisione del tribunale di Sorveglianza, con rinvio, si aprirebbe uno spiraglio importante. A quel punto, non soltanto Rossi Albertini cercherebbe di ottenere un’udienza urgentissima dal giudice di Sorveglianza di Milano, ma soprattutto potrebbe avanzare una nuova istanza al ministro affinché riveda la sua decisione. Un percorso in punta di diritto, tutto interno alla giurisdizione, che però stavolta poggerebbe su una posizione davvero di peso, quella della procura generale presso la Cassazione. E se davvero la massima espressione della pubblica accusa ritenesse che è ormai anacronistica la posizione di Cospito al 41 bis, forte anche della considerazione che un anno di censura totale con l’esterno non ha affatto affievolito le proteste degli anarchici, anzi, ovviamente un ministro ed ex procuratore come Carlo Nordio difficilmente potrebbe non tenerne conto. C’è però un secondo aspetto che forse cambierà le carte in tavola ancora prima del 24 febbraio. Il Guardasigilli nel suo rigetto aveva segnalato che non “occorre attendere che le condizioni di salute del soggetto ristretto siano irreversibilmente compromesse, sino a giungere per ipotesi a una situazione di oggettiva incompatibilità con la stessa permanenza in carcere”. In sostanza, il ministro rimarcava che il giudice di Sorveglianza, di fronte a un precipitare delle condizioni di salute del detenuto, dato che a quel punto la restrizione in carcere “si rivelerebbe oggettivamente contraria al senso di umanità”, potrebbe di sua iniziativa decidere per un “rinvio della esecuzione della pena”. Il che significa, fuor di gergo giuridico, aprirgli il portone del carcere e mandarlo in una clinica e poi a casa ai domiciliari. C’è al riguardo un caso famoso: nel 1998 il condannato Ovidio Bompressi, all’ergastolo per l’omicidio del commissario Calabresi, fu inviato ai domiciliari dal tribunale di Sorveglianza in quanto le sue condizioni di salute si erano gravemente compromesse in carcere. Anche Bompressi aveva perso decine di chili. Non volontariamente, però, ma per un fortissimo esaurimento nervoso. Ovviamente anche nel caso di Cospito sarebbe una sospensione solo temporanea della pena, strettamente legata allo stato di salute. Non appena i medici lo giudicassero di nuovo in forze, tornerebbe dentro. Proprio perché soluzione-tampone, Cospito la rifiuta e il suo avvocato non intende farvi ricorso. Ma il giudice di Sorveglianza può decidere a prescindere. E chiaramente, sentite le parole di Nordio, il ministero sarebbe lieto se qualcuno gli togliesse le castagne dal fuoco. Flick: “Il quadro è cambiato, ora Nordio ci ripensi e sospenda il carcere duro” di Liana Milella La Repubblica, 12 febbraio 2023 Come uscire dal caso Cospito? “Di fronte a questo drammatico problema chi ha l’autorità per decidere deve scegliere tra la vita e la morte. O meglio, tra la legge e la volontà del singolo”. L’ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick non ha dubbi, e dopo la novità del parere del Pg della Cassazione Piero Gaeta dice: “Potrebbe indurre il ministro a una sospensione provvisoria del 41bis in attesa della pronuncia della Cassazione”. Lei, da ministro, che avrebbe fatto? “Avrei fatto di tutto per non farlo morire”. In che modo? “Da quello che leggo sui giornali posso solo dire che c’è un imperativo etico fondamentale ricordato da San Paolo, “non è l’uomo per la legge, ma è la legge per l’uomo”. Cospito fa lo sciopero della fame da 115 giorni contro il 41 bis. Per evitare la sua morte non è sufficiente togliere questa misura? “La legge impone di farlo se il 41 bis non è più necessario secondo il suo fine originario, cioè solo quello di impedire le comunicazioni tra il detenuto e i suoi complici”. Un passo c’è stato, il sostituto Pg della Cassazione Piero Gaeta, nel processo che si terrà il 24 febbraio sulla conferma del 41 bis, ha chiesto di annullare la misura…. “Se le cose stanno in questi termini, si tratta di un progresso molto significativo rispetto alle perplessità che vi sono state fino a oggi, e rispetto all’apertura già espressa dal procuratore nazionale Antimafia Giovanni Mettilo, cioè il passaggio in Alta sorveglianza”. Questo può cambiare anche il parere di Nordio? “Dovrebbe chiederlo a lui. Ma Nordio forse dovrebbe valutare la novità che è intervenuta con questo parere. Se fossi io il ministro, in questa situazione, cercherei in tutti i modi di considerare la novità rispetto alla rigidità che c’è stata fino a ieri”. Quindi va tolto il 41 bis a Cospito? “La novità del parere positivo del Pg della Cassazione modifica profondamente la situazione. E a me sembra che potrebbe indurre il ministro a una sospensione provvisoria del 41 bis in attesa della pronuncia della Cassazione, sostituendola con un’altra misura adeguata, e ripeto, già suggerita dal procuratore nazionale Antimafia. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità alla luce dell’evoluzione drammatica che la vicenda sta subendo”. Il ministro può farlo? “È una questione che solo lui, il ministro della Giustizia, può decidere, al di là di ogni valutazione di tipo politico più generale. E che si pone su un piano ben diverso dalla richiesta, che a me non sembra ben diretta, di un parere al Comitato etico”. Per lei è inaccettabile far morire in carcere un detenuto. Nordio invece condanna un anarchico che dice “il corpo è la mia arma”... “Un’affermazione di questo genere merita più plauso che censura. La conclusione del Pg dimostra che evidentemente non c’è la certezza di poter qualificare l’affermazione ideologica di quel detenuto come comunicazione con i complici ai sensi dell’articolo 41bis. Dopo il passo compiuto dal Pg della Cassazione mi pare che la situazione sia cambiata”. Però due giorni fa Nordio ha respinto la richiesta di Cospito perché sarebbe un leader anarchico in piena attività e quindi non deve avere contatti con l’esterno…. “Io non so se il “fare propaganda” rientri più nella libera manifestazione del pensiero ai sensi dell’articolo 21 della Costituzione piuttosto che nella comunicazione ai complici esterni di cui si occupa l’articolo 41 bis. La qualificazione della condotta spetta alla Cassazione e l’orientamento della procura generale è di estrema importanza in questo senso”. Cospito, il costituzionalista Ruotolo: “La sua volontà va rispettata, la legge impedisce trattamenti forzati” di Viola Giannoli La Repubblica, 12 febbraio 2023 Il professore dell’Università di Roma Tre: “Il diritto a non essere curati vale anche per i detenuti”. I medici potranno assisterlo e intervenire con cure salvavita ma non alimentarlo contro le sue intenzioni. Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da 115 giorni, è stato trasferito “in via precauzionale” nell’ospedale San Paolo di Milano, in una stanza per i detenuti in regime di 41bis. E ora si apre il dilemma sulle cure. Il ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio ha fatto sapere di aver inviato il 6 febbraio al Comitato nazionale di bioetica un quesito relativo alle disposizioni anticipate di trattamento, qualora arrivino da un detenuto che in modo volontario abbia deciso di porsi in una condizione di rischio per la salute e che indichi il rifiuto o la rinuncia ad interventi sanitari anche salvavita. Il Comitato non si riunirà prima della prossima settimana. Abbiamo chiesto a Marco Ruotolo, costituzionalista all’Università Roma Tre ed esperto di diritti dei detenuti, di rispondere alle nostre domande sull’ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio e alimentazione forzata nei confronti di Cospito. Professore, cosa si intende per Tso? “Significa trattamento sanitario obbligatorio ossia sottoposizione del paziente a cure mediche a prescindere dalla sua volontà. Di solito si applica, in casi di necessità e urgenza, a fronte di patologie psichiatriche che richiedano solleciti interventi terapeutici”. Chi può disporre un Tso? “Il Tso è disposto dal Sindaco del Comune ove la persona risiede o si trova momentaneamente, su proposta motivata di due medici”. Se un paziente, come nel caso di Cospito, ha manifestato la propria volontà di opporsi a trattamenti sanitari cosa accade? “Ciascuno può esprimere la propria volontà in materia di trattamenti sanitari in previsione di un’eventuale futura incapacità, con riguardo ad accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche, singoli trattamenti sanitari. E queste volontà devono essere rispettate dal personale sanitario, secondo quanto previsto anche da una legge del 2017 e dal codice di deontologia medica. Una situazione particolare si ha per il Tso psichiatrico, che può essere disposto a fronte di gravi alterazioni psichiche o comportamentali che richiedano cure ospedaliere in fase acuta”. Come vanno manifestate queste volontà perché abbiano valore? Cospito le ha espresse a voce, scritte su un foglio consegnato al suo legale che ha sua volta ha presentato una diffida al ministero della Giustizia... “Le disposizioni anticipate di trattamento (Dat) possono essere rese con atto pubblico o scrittura privata presso un notaio o l’Ufficio di stato civile del Comune di residenza o le strutture sanitarie regionali competenti. Il rispetto del principio di autodeterminazione imporrebbe comunque che di queste volontà si tenga conto anche ove espresse in altre forme”. Valgono anche per una persona detenuta? “Certo. Il diritto alla salute e ai trattamenti sanitari, che comprende anche il diritto a non essere curati, deve essere garantito alle persone detenute come alle persone libere”. Se un paziente non ha più la capacità di intendere, valgono le sue volontà precedentemente espresse? “Sì, la volontà espressa in previsione di una futura incapacità deve essere sempre rispettata”. Dunque, se chi è in sciopero della fame decide di continuare a non nutrirsi, cosa possono fare i medici? Limitarsi ad assisterlo? “Sì, cercando di convincerlo a recedere da tale comportamento, informandolo sulle possibili conseguenze, nonché verificando che la decisione di digiunare sia davvero volontaria e non derivi da patologie psichiatriche o pressioni esterne. Ma questo non significa che il rifiuto protratto di alimentarsi sconfini necessariamente, a partire da un certo momento, in disturbo mentale che possa legittimare il Tso”. Non esiste un principio di “salvaguardia della vita”? “Sì, ma non può giustificare una coazione diretta a vincere il rifiuto, cosciente e volontario, di alimentarsi. La legge che prevede il Tso richiede il rispetto della dignità della persona e, sulla base dei principi costituzionali, si dovrebbe ritenere che l’imposizione del trattamento sanitario sia possibile quando ad essere in gioco, oltre alla salute dell’interessato, sia anche quella di terzi. Nemmeno la responsabilità dell’istituzione carceraria sulla vita dei detenuti autorizza a varcare i limiti imposti dal rispetto della persona e della sua autodeterminazione”. Nel caso in cui intervengano, ad esempio, aritmie cardiache, temute dal medico di fiducia dell’avvocato difensore di Cospito, i sanitari possono intervenire per salvare la vita di un paziente? “Sì, ma questo non significa che poi si possa ricorrere all’alimentazione forzata, se espressamente rifiutata”. Nell’articolo 32 della Costituzione si legge: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Cosa significa quel “se non per disposizione di legge”? “Che l’intervento può avvenire coattivamente solo se la legge lo prevede. E sempre entro i limiti imposti dal rispetto della persona umana, com’è scritto nello stesso articolo 32 della Costituzione”. Apprese le volontà del paziente, c’è qualcuno che può ordinare interventi differenti? “In base alla normativa vigente questa possibilità dovrebbe escludersi. In senso contrario sarebbe assai discutibile invocare la previsione della normativa penitenziaria che consente l’uso della forza nei confronti dei detenuti qualora indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, anche a garanzia della loro stessa incolumità. Una cosa è contrastare con la forza la commissione di atti di violenza, altra cosa sarebbe impedire un comportamento puramente omissivo e passivo come il digiuno”. Cospito è libero di lasciarsi morire? Ecco cosa dice il nostro ordinamento di Vitalba Azzolini* Il Domani, 12 febbraio 2023 L’anarchico Alfredo Cospito è risoluto nel proseguire lo sciopero della fame, iniziato ormai da oltre 110 giorni, affinché il governo intervenga sul regime previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354/1975) che, com’è noto, comporta una drastica limitazione delle attività consentite in carcere. Siccome il governo ha più volte espresso la determinazione di non modificare tale norma, può ipotizzarsi che lo sciopero di Cospito sia destinato a proseguire, fino all’esito estremo. A fronte di questa situazione, è probabile che a breve si porrà un interrogativo che riguarda il piano giuridico, oltre a quello etico. La volontà del detenuto di lasciarsi morire attraverso il rifiuto della nutrizione può essere ostacolata da parte dell’amministrazione penitenziaria? È lecito che quest’ultima proceda all’alimentazione coatta del recluso, ove ciò sia necessario per impedirne il decesso? Insomma, considerato che lo stato di detenzione pone il detenuto sotto la custodia di un’amministrazione dello stato, quest’ultima ha il dovere di intervenire sullo sciopero della fame e potrebbe essere reputata giuridicamente responsabile in caso di morte, qualora non lo facesse? Il tema è se il regime carcerario comporti la compressione del diritto all’autodeterminazione sanitaria della persona privata della libertà. Va preliminarmente rilevato che Cospito ha sottoscritto “disposizioni anticipate di trattamento” (Dat), definite anche “testamento biologico” o “biotestamento” (l. n. 219/2017). La legge prevede che, in previsione di un’eventuale futura incapacità di poter scegliere e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte, ogni persona possa dettare le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, esprimendo il consenso o il rifiuto di accertamenti diagnostici, prestazioni terapeutiche ecc.. Cospito ha espresso la determinazione di rifiutare, in caso di perdita della coscienza, l’alimentazione artificiale e altri trattamenti forzati. Il diritto del detenuto a non curarsi - Il caso Cospito interroga sull’equilibrio tra interessi confliggenti, tutti meritevoli di tutela, dal diritto di autodeterminazione terapeutica alla salvaguardia della vita umana, in una particolare situazione qual è la reclusione in carcere. L’art. 32 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di tutelare la salute, “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, disponendo inoltre che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, e sempre entro “i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Dunque, l’art. 32 sancisce il diritto del singolo di scegliere se, quando e come curarsi, quindi anche il diritto di non curarsi. Ai sensi della norma citata, il rifiuto di curarsi può essere superato solo in forza di una legge dello stato che individui lo specifico trattamento da somministrare e, secondo l’interpretazione data dalla Corte costituzionale, a condizione che vi sia una necessita? di cura della persona che subisce tale trattamento e di contestuale salvaguardia della salute collettiva (si pensi, ad esempio, all’obbligo del vaccino anti-Covid). Quindi, la Costituzione prevede il diritto di rifiutare le cure, fino a lasciarsi morire, e solo una legge può comprimere tale diritto, nel rispetto di alcune condizioni. Occorre, pertanto, valutare se esista una disposizione di legge che possa autorizzare un trattamento sanitario obbligatorio - l’alimentazione artificiale, che è un trattamento di natura sanitaria - nei riguardi di un detenuto che prosegua a oltranza lo sciopero della fame, sancendo che la salvaguardia della vita umana in carcere prevalga sul suo diritto a rifiutare trattamenti forzati in caso di perdita di coscienza, fino alla morte. La responsabilità dello stato - Una norma dell’ordinamento penitenziario (art. 41) legittima gli operatori dell’amministrazione carceraria - sotto la cui responsabilità si trova il detenuto - all’impiego della forza fisica “per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti”, nonché al ricorso a mezzi di coercizione diversi dalla forza fisica “al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto”. Tale norma, pur ponendo a carico dell’amministrazione carceraria l’obbligo di evitare suicidi o atti autolesionistici delle persone che ha in custodia, non le consente di procedere a un trattamento sanitario - qual è l’alimentazione forzata - nei confronti del detenuto in sciopero della fame che manifesti la volontà di rifiutare il cibo a oltranza. Infatti, questa norma dell’ordinamento penitenziario non sembra rispondere alle condizioni prescritte dalla Costituzione per poter procedere a un trattamento sanitario in forma coattiva: non indica uno specifico trattamento da somministrare né una specifica malattia da curare o prevenire nell’interesse della salute della collettività, considerato che la resistenza del digiunante ad alimentarsi non mette in pericolo altre persone. La norma citata, invece, si limita a elencare una serie di condotte generiche da contrastare mediante un generico richiamo all’uso della forza fisica o di mezzi di coercizione diversi. Peraltro, essa prevede l’intervento degli operatori carcerari a fronte di condotte attive del detenuto, e non di una condotta passiva qual è il lasciarsi morire. Dunque, l’amministrazione carceraria, non essendo legittimata a intervenire coattivamente nei riguardi del recluso che manifesti la volontà di non volersi nutrire e di non voler essere nutrito anche ove cadesse in stato di incoscienza, non potrebbe essere considerata responsabile della sua eventuale morte. Qualcuno ipotizza che al detenuto che rifiuti il cibo a oltranza possa essere imposto un trattamento sanitario obbligatorio come previsto dalla legge per le persone affette da malattie mentali (l. n. 833/1978, artt. 34 e 35), nel presupposto che il digiuno continuativo per un periodo di tempo rilevante determinerebbe uno stato assimilabile a un disturbo mentale. Ma il presupposto dell’intervento non potrebbe essere dato per scontato, e andrebbe dimostrato in concreto. L’obbligo dell’amministrazione penitenziaria di tutelare la salute, nonché il bene della vita, dei reclusi in sciopero della fame può considerarsi assolto ponendo in essere alcuni adempimenti stabiliti da una serie di circolari del Dap relative proprio a questa specifica ipotesi: informare il digiunante sulle conseguenze di una eccessiva prosecuzione dello stato di mancata alimentazione; tenerlo sotto costante osservazione e controllo medico per monitorare le sue condizioni di salute; con il protrarsi dell’astinenza, trasferirlo in strutture sanitarie dell’amministrazione penitenziaria. Il diritto di Cospito di non alimentarsi - Dunque, può reputarsi che - in mancanza di consenso a ricevere un trattamento sanitario, qual è l’alimentazione forzata, nonché di un’apposita norma di legge che lo imponga - il detenuto che rifiuti il cibo a oltranza abbia il diritto di farlo e che l’amministrazione penitenziaria non disponga di una base giuridica idonea a consentirle di procedere coattivamente alla sua nutrizione. Tanto più che lo sciopero della fame nuoce solo a chi lo pratica, e non a terzi. In conclusione, il recluso resta titolare di diritti costituzionalmente garantiti, qual è quello all’autodeterminazione terapeutica, che non sono affievoliti dal suo stato detentivo, e la somministrazione forzata dell’alimentazione nei suoi riguardi non potrebbe essere considerata legittima. Pertanto, Cospito è libero di decidere della sua vita, della quale ha disposto in conformità alla legge sulla Dat. Può sembrare una conclusione cinica, forse inaccettabile. Di fatto, è il riconoscimento dell’affermazione di una libertà piena, probabilmente l’unica di cui dispone chi è al 41-bis. Forse il senso più profondo del digiuno di Cospito è proprio questo. *Giurista Il prigioniero non dispone che del corpo di Franco Corleone L’Espresso, 12 febbraio 2023 Che lezioni si possono ricavare dal lungo sciopero della fame contro il 41bis e l’ergastolo ostativo di Alfredo Cospito, esponente della rete anarchica informale, responsabile di gravi reati di violenza? La prima è la superficialità con cui un detenuto, da nove anni nel circuito dell’Alta sicurezza, è stato spostato nel regime riservato ai componenti delle organizzazioni criminali. È bastata la richiesta di una Procura generale per mettere in moto un meccanismo che lo ha equiparato a un capo di una struttura stragista con una catena di comando rigida e inflessibile. Con Cospito al 41bis si è fatto risorgere il fantasma del terrorismo e si è arrivati al ragguardevole numero di 738 rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza (il 40 per cento appartenenti alla Camorra, Cosa Nostra si attesta sul 28 e la Ndrangheta al 22). La seconda lezione: la decisione assunta con la legge 279 del 2002 di rendere permanente il regime speciale - che in precedenza era confermato ogni anno con una discussione in Parlamento - dovrebbe obbligare a una verifica rigorosa delle applicazioni concrete affinché siano funzionali alla motivazione originaria di rompere la catena di comando e degli specifici trattamenti previsti da circolari o prassi, affinché non siano contrari allo Stato di diritto. Le limitazioni circa il vitto, il possesso di libri e giornali, l’ascolto di radio e musica, l’esposizione delle foto di parenti, la presenza di agenti nei colloqui con il medico, rappresentano pure vessazioni e si avvicinano pericolosamente al confine della tortura. La terza lezione viene dalla scelta di Cospito di ricorrere allo strumento classico della non violenza, lo sciopero della fame, rendendo protagonista della vicenda il suo corpo, centrale nella detenzione. Il corpo privato della libertà ma anche di altri diritti fondamentali a cominciare da quello della sessualità, il corpo troppo spesso percosso e segnato dall’autolesionismo, il corpo ridotto a contenitore di psicofarmaci: sono tante facce della materialità della galera. Quel corpo è l’unica cosa di cui il prigioniero può davvero disporre. Di fronte a questo scenario, il governo ha immediatamente innalzato la bandiera dell’intransigenza e esplicitato l’accusa di ricatto allo Stato, bloccando di fatto ogni possibile dialogo e ricerca di soluzione. È incredibile tanta iattanza unita a pochezza, specie guardando al passato: nel 1989 di fronte a uno sciopero della fame compiuto da Sergio Segio, leader di Prima Linea, contro il rifiuto del magistrato di sorveglianza di Torino di concedere il permesso di lavoro esterno presso il Gruppo Abele, non solo si mobilitarono tanti esponenti politici e intellettuali, ma il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli incontrò una rappresentanza del Comitato di sostegno, tra cui Padre Davide Turoldo e Luigi Ciotti. La morte di Cospito farebbe assomigliare l’Italia alla Turchia, dove nel 2020 morirono l’avvocata curda Ebru Timtik e il musicista Ibrahim Gokcek, e assisteremmo a una sconfitta del senso di umanità. Non c’è però da stupirsi, Giorgia Meloni e il sottosegretario Andrea Delmastro sono i primi firmatari di una proposta di legge di stravolgimento dell’art. 27 della Costituzione sui fondamenti della pena come pensati da Cesare Beccaria e da Aldo Moro. I sabotatori del 41 bis. Dall’interno di Enrico Bellavia L’Espresso, 12 febbraio 2023 Nato per interrompere i legami tra i boss e l’esterno è diventato una pena accessoria esemplare. Con contorno di abusi e situazioni kafkiane. Come la bolgia sul caso Cospito. Il portone della cella, sbarrato dalle 22 alle 7 in estate e dalle 20 in inverno. L’interruttore della luce, fuori, in corridoio. Libri centellinati e dalla biblioteca interna, mai più di uno, quattro se si studia. Ci sarebbe il dvd, a proprie spese, ma solo per leggere cd e mai la notte. L’abbonamento ai giornali, senza edizioni locali: potrebbero veicolare messaggi. E anche la tv ha un menu bloccato. La radiolina, solo in modalità Am. A passeggio nel cubicolo per due ore al giorno e una di attività fisica o socialità. Ovvero lo svago, al massimo con altri quattro detenuti: un mazzo di carte, qualche gioco da tavolo nell’area comune. Il computer, quando c’è, sta lì. Doccia due volte a settimana, tranne che per i super-boss che l’hanno in cella. Il getto, equanime, dura però dai tre ai sette minuti. Una visita dei parenti al mese, dietro al vetro, e per un’ora. Neppure quella, se si opta per una telefonata di dieci minuti. Controllata come i colloqui. Il pacco con viveri e biancheria, al massimo dieci chili. Più che duro doveva essere blindato. Impermeabile dall’esterno, a compartimenti stagni all’interno. Questa era l’intenzione di chi immaginava un carcere che, nel recinto della Costituzione, fosse in grado di interrompere il circuito di informazioni tra affiliati a mafia e terrorismo. Niente notizie, niente ordini, niente pizzini, nessun contatto fisico tra detenuti e familiari. Poche interazioni e mai tra componenti di uno stesso clan o di clan alleati. Controlli rigorosi, ascolti, telecamere e gli occhi degli agenti a scrutare ogni mossa e a memorizzarla. Il 41 bis, la norma dell’ordinamento penitenziario massicciamente applicata dopo l’orrore degli eccidi del 1992-1993, salvo alcuni episodi, ha realizzato quell’obiettivo. Lo ha mancato quando l’ordine di uccidere passato dalle maglie dei rigori ha colpito gli stessi agenti della polizia penitenziaria. Ha contribuito a stroncare la dittatura corleonese, ha poi spezzato la catena di proselitismo delle rinnovate Br. Ha scongiurato altro sangue. E alimentato un patrimonio di informazioni su quel che covava sotto la cenere. Perché il carcere è da sempre lo specchio di ciò che avviene nell’universo delle cosche. Voci di dentro, che la reclusione amplifica, segnali che, se colti, anticipano i tempi. Ma il 41 bis si è trascinato dietro anche una quantità di danni. In larga parte evitabili. Perché non la norma ma la sua applicazione, la prassi e la discrezionalità, fatta di circolari ministeriali, regolamenti carcerari, provvedimenti dei magistrati di sorveglianza, hanno generato disparità, abusi, interventi estemporanei, fino a farne un surplus di pena, al limite della tortura. In un impasto di pressioni psicologiche e situazioni kafkiane. L’albo dei ricorsi ne è pieno. Friggere melanzane due ore prima del pranzo è violazione da punire. Da fuori, sì alle patate al forno ma niente pollo. Per le dodici donne su un totale di 738 ristretti al 41 bis (nel ‘93 erano poco di più di 500) c’è il limite al numero di assorbenti: tre. La nipotina alla quale è stato concesso di abbracciare il nonno per dieci minuti oltre il vetro ha però scartato una merendina. Il rumore ha coperto la registrazione e la circostanza è finita in una nota. La lista dei generi acquistabili a Opera è una, a L’Aquila cambia. Anche il numero di mollette da bucato è ballerino. Una o dieci da un carcere all’altro. E la risposta al ricorso contro l’applicazione del 41 bis (4 anni, poi estesi di biennio in biennio) arriva anche dopo che è stata confermata la proroga. E si ricomincia. Il sistema che si arrabatta tra organici carenti, strutture fatiscenti e sovraffollate, lungaggini burocratiche e giudiziarie, non trova certo lì il proprio riscatto. In nome di successi innegabili, poi, ci sono le violenze, tollerate, talvolta negate fino all’insabbiamento, relegate a una sorta di metaverso abitato solo da garantisti e pochi legali. Come Rosalba Di Gregorio, che da avvocato di fede radicale non ha taciuto. Non lo ha fatto quando il falso pentito della strage Borsellino, Vincenzo Scarantino, incubato proprio nell’inferno di Pianosa degli anni 90 diventò l’accusatore eterodiretto che ha lasciato in cella per 25 anni sette ergastolani innocenti. Era il tempo delle irruzioni notturne delle temibili squadrette, dei soprusi, delle perquisizioni corporali a familiari e detenuti anche molto invasive. Del “pèntiti o marcisci qui dentro” e giù calci e vessazioni. Di Calogero Ganci, rampollo dei Corleonesi raccontarono che non sopportasse quella galera. Da pentito confermò: “A Pianosa i detenuti erano massacrati di botte. Il cibo arrivava con gli stessi carrelli della spazzatura”. Da allora molto è cambiato, l’Asinara e Pianosa chiuse, alcuni correttivi introdotti ma sul rispetto rigoroso dello spirito del 41 bis bisognerebbe stare attenti a non deragliare. Tanto più adesso, di fronte al digiuno di Alfredo Cospito. Con trent’anni da scontare, fino a qualche mese fa poteva pubblicare sulle riviste anarchiche. Con il cambio di imputazione si è ritrovato al 41 bis. Quando forse sarebbe bastato lasciarlo nell’alta sicurezza censurandogli la posta. Sostanzialmente indifferente ai tormenti penitenziari che non hanno grande appeal, neppure quando il numero dei suicidi dietro le sbarre raggiunge il numero di 84 in un anno, la giustizia da talk show replica il cliché. Richiama in servizio buonisti e manettari che oscillano tra Parlamento e salotti tv. E dà il via alla bolgia. Perfino l’ovvio, e cioè che i mafiosi guardano con favore alla battaglia di Cospito, anziché rafforzare la convinzione di attenersi al dettato della norma ed evitare derive indiscriminate, diventa terreno di speculazione politica d’accatto. Perché per difendere la  bontà di uno strumento ritenuto essenziale bisognerebbe preservarlo dalle storture. E la vicenda dell’anarchico, con il suo boomerang mediatico, sembra andare nella direzione opposta, quella afflittiva, quasi una pena accessoria. Esemplare. Che la natura del 41 bis non ha. O non avrebbe mai dovuto avere. Gli argomenti di Nordio sono una sconfitta del 41bis e dei suoi sostenitori di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 12 febbraio 2023 Nella discussione sul caso Cospito si sono stabilite pian piano delle assunzioni presto divenute terreno comune. Innanzitutto, l’equiparazione fra 41bis per i mafiosi e per Cospito: alcuni giudici hanno sostenuto che Cospito dava ordini agli anarchici fuori, come i mafiosi. Ma la decisione di Nordio potrebbe essere usata per un attacco al 41bis. Come è stato detto già efficacemente da Giulia Merlo su questo giornale, la decisione di Nordio sul 41bis a Cospito contiene svariate falle logiche. Ma essa contiene anche qualcosa di più, o meglio queste falle logiche possono andare oltre il discredito degli insegnanti di logica giuridica. La decisione di Nordio potrebbe essere una specie di sentenza suicida. Nella discussione sul caso Cospito si sono stabilite pian piano delle assunzioni presto divenute terreno comune. Innanzitutto, l’equiparazione fra 41bis per i mafiosi e per Cospito: alcuni giudici hanno sostenuto che Cospito dava ordini agli anarchici fuori, come i mafiosi. Altri hanno negato questo nesso causale. E, come ho sostenuto in precedenza su questo giornale, la funzione deterrente e preventiva del 41bis cade se non c’è nesso causale dimostrato o dimostrabile fra parole del detenuto e atti criminali all’esterno. Un altro livello dell’equiparazione è stato impostato da esponenti politici del governo, che hanno documentato colloqui fra Cospito ed esponenti della criminalità organizzata e li hanno usati a fini di lotta politica, e da Cospito medesimo, che ha sostenuto di lottare per l’abolizione del 41bis per tutti, non solo per lui o per gli anarchici. Infine, molti (inclusa Meloni) hanno sostenuto che concedere a Cospito un regime diverso avrebbe significato cedere a un ricatto - ho considerato quest’argomentazione anch’io, su questo giornale - e avrebbe portato al progressivo dissolvimento dell’istituto del 41bis. Nordio favorisce sottilmente un attacco al 41bis - La decisione di Nordio sembra accettare questi presupposti. Ma sottilmente li sconvolge e potrebbe essere usata per un attacco al 41bis. Nordio sostiene, per esempio, che Cospito si è ammalato da solo, e che la sua malattia non ne attenua la pericolosità sociale. Questo sottintende la tesi del ricatto. E poi Nordio aggiunge che Cospito, anche senza scrivere, anche senza nessi causali stabiliti fra quello che dice e gli atti dei suoi seguaci, è d’ispirazione al movimento anarchico, come dimostrano i recenti attentati che sarebbero stati fatti a suo favore. Qui, come già detto da Giulia Merlo, la logica vacilla. Se Cospito parla col suo corpo ed è d’ispirazione con la sua testimonianza, mantenerlo al 41bis ed eventualmente causarne la morte non può certo ottenere i fini preventivi che premono tanto a Nordio e al governo. Se Cospito diventa un martire, la sua capacità di ispirare gli anarchici sarà eterna e potentissima. Se Cospito diventa un martire perché ha deciso di ammalarsi, chiunque di noi fumi, mangi troppo e si muova poco, nonostante i reiterati inviti di medici, coniugi e amici, diventa un ricattatore, solo che decida di ammantare la sua scriteriata condotta di ragioni ideali. “L’amore per te mi toglie l’appetito”, detto a un potenziale partner riluttante, non è romanticismo o maledettismo d’accatto. È sottile ricatto, forse stalking. E chiunque si ponga a ispiratore di gruppi di persone che possono trasgredire la legge dovrebbe essere fermato. Chi predica per esempio l’evasione fiscale in caso di tassazione troppo elevata non presenta idee, ma evade ed incita all’evasione. Chi tiene in casa il busto di un dittatore non custodisce la memoria del padre, ma incita alla dittatura. E così via. La decisione di Nordio come precedente? Ora, non è detto che una decisione di un ministro possa essere un precedente, possa far giurisprudenza. Ma se potesse, molti giudici potrebbero inasprire il regime carcerario di chiunque abbia ed esprima, anche senza parlare, coi soli propri atti, ideali men che condivisi dalla maggioranza. Si tratterebbe di una specie di estensione iperbolica del vecchio reato di plagio o del reato di istigazione alla violenza. Forse questo è quello che Nordio, che si presenta come un garantista, si augura. Perché naturalmente un uso così disinvolto di certi istituti giuridici, un passaggio così spericolato dal dare ordini ai picciotti, seppur cifrati, ad essere modello di presunta virtù rivoluzionaria non può che portare a una reazione, in una società liberale, una reazione che potrebbe vanificare il sottile lavoro di distinzione fatto dai giuristi che hanno elaborato il 41bis come misura specifica e transeunte per criminali e reati molto precisi. La miglior difesa del 41 bis sarebbe limitarlo ai mafiosi, non estenderlo. Campania. “Io, Garante dei detenuti, dico che il sistema carcere ha fallito” di Felice Massimo De Falco lavoceimpertinente.it, 12 febbraio 2023 “Il carcere d’oggi ha davvero scarsi mezzi e uomini per raggiungere il fine rieducativo della pena. Spesso incattivisce, proprio perché i reclusi si sentono abbandonati, inermi e anche a chi vuole cambiare spesso non ne viene data la possibilità. Mi illudo che almeno non diseduchi. La mancata tutela della salute, almeno secondo la mia esperienza in Campania, resta una delle problematiche più gravose per la popolazione detenuta. Le figure sanitaria sono pressoché assenti: mancano medici di reparto, specialisti, oltre alla figura dello psichiatra, quasi assente negli istituti di pena”. Prof. Samuele Ciambriello, secondo i dati, qual è lo stato di salute delle carceri campane? “La mancata tutela della salute, almeno secondo la mia esperienza in Campania, resta una delle problematiche più gravose per la popolazione detenuta. Le figure sanitaria sono pressoché assenti: mancano medici di reparto, specialisti, oltre alla figura dello psichiatra, quasi assente negli istituti di pena. Sappiamo bene come già all’esterno, almeno nelle regioni del Sud, è difficile curarsi nella sanità pubblica; per i diversamente liberi è almeno dieci volte più complesso. Visite diagnostiche con liste d’attesa inaccettabili, patologie gravi che non vengono diagnosticate in tempo e, spesso, morti sospetti, dietro cui si celano mancanze mediche. Sicuramente è l’ambito in cui investire risorse, sia in termini di uomini che di mezzi. So bene che un medico - anche considerata la carenza nel nostro Paese - non è per nulla interessato ad andare a lavorare in un luogo complesso come il carcere, per questo bisognerebbe ipotizzare delle misure incentivanti e queste soluzioni non possono che partire dalla politica” La condizione dei detenuti può dirsi consona alla colpa che devono espiare? “Il sistema carcere ha fallito nel suo fine ultimo e questa non è retorica garantista. Il detenuto è prima di tutto uomo e non, di sicuro, il reato che ha commesso. Chi farebbe mai vivere un uomo nelle condizioni in cui si vive nelle carceri? Io credo nessuno. La dignità negli istituti di pena viene annullata e questo perché l’intero funzionamento carcerario è poco incentrato sulla persona. Proprio la persona, però, viene messa al centro di tutta la nostra Costituzione. Credo che per risolvere gran parte dei problemi, dentro e fuori dalle carceri, dovremmo ritornare ad occuparci della persona e dell’individualità” Eppure secondo Antigone, nel solo 2022 si sono uccisi 84 detenuti. È la spia che il carcere ti fa desiderare la morte… “I suicidi in carcere sono la prova regina di come l’attuale sistema penitenziario non è utile, non solo alla rieducazione, ma soprattutto all’attaccamento alla vita. Siamo tutti d’accordo sul fatto che il suicidio è un evento non prevedibile, ma ci sono dei ‘campanelli d’allarme’, che ci devono preoccupare. Non possiamo ammettere rinvii, ritardi, piuttosto bisogna ricorrere ad adeguate misure preventive, che sicuramente possono ridurre di molto i tentativi, che poi a volte si realizzano, di suicidi. In Campania, dall’inizio dell’anno, si sono registrati 7 suicidi, molti tentativi, invece, sono stati sventati grazie al pronto intervento del personale della Polizia penitenziaria, che - io dico sempre - evitano delle stragi. La loro tempestività, tuttavia, non può essere il rimedio, bisogna certamente intervenire prima”. La politica cosa dovrebbe fare? “Io direi cosa non potrebbe fare… Tutta dipende da chi ci governa e da chi ci rappresenta in Parlamento. La politica ha lo scettro delle decisioni. Il problema serio è che il carcere è un mondo chiuso, un luogo in cui si pensa vivano ‘rifiuti umani’, quindi nessuno punta sui temi che riguardano la privazione della libertà, non solo perché farebbero poca presa, ma addirittura potrebbero adombrare quella parte di politica che decide di farsi carico dei bisogni anche degli ‘ultimi’. Chiaro che un Paese senza carcere non può esistere, sarebbe utopico persino immaginarlo, ma volere prigioni più dignitose, che davvero siano in grado di restituire il senso del fine ultimo che la Costituzione assegna alla pena, mi sembra un dovere di cui la politica deve farsi carico. Bisogna allentare le maglie sulle misure alternative alla detenzione, sui permessi. Basterebbe, più semplicemente, che il carcere ritorni extrema ratio. Sul caso Cospito che idea si è fatto? “Il caso Cospito ha riacceso certamente i riflettori sul tema del regime del 41-bis. Il ‘carcere duro’ nasce non come un aggravamento della pena, come una punizione ulteriore per il detenuto. Nei fatti così però non è, anzi è divenuto esattamente quello che non dovrebbe essere, per questo non la ritengo una misura legittima. Il caso Cospito, immagino, abbia toccato tutta l’opinione pubblica, che si trova divisa tra chi invoca forme di garanzia e tra chi, invece, ritiene che la decisione di lasciarlo al 41-bis sia più che giusta. Io credo si debba riflettere profondamente su quel che sta accadendo: lo si ritiene ancora socialmente pericoloso e questo legittimerebbe che resti nel regime di ‘carcere duro’, ma lo sciopero che sta portando avanti e che gli ha già provocato molte problematiche di salute, dovrebbe indurre a chi assume decisioni così delicate ad applicare un bilanciamento tra il valore costituzionale dell’ordine e della sicurezza pubblica e quello della dignità della persona umana. Nel caso Cospito mi sembra, invece, ci sia uno sbilanciamento verso la protezione dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Lei è molto attivo nei penitenziari campani, ha un sorriso per tutti. Di cosa hanno bisogno di più i detenuti quando vi parlate? “I detenuti hanno bisogno di tante cose e non perché eccessivamente esigente, ma perché si tratta di persone emarginate, dimenticate dallo Stato che li ha in custodia e spesso anche dalle loro famiglie. Vivono di solitudine, di disagio, di sofferenze che, spesso, sono sproporzionate rispetto al reato che hanno commesso, al male che hanno fatto. Io cerco di aiutarli nella mia qualità di Garante, quindi di organismo di garanzia, che può interagire con diversi ‘attori’ del mondo penitenziario - direzioni delle carceri, aree sanitarie, educatori, magistrati di sorveglianza. Cerco soprattutto di creare, seppure in maniera modesta, delle piccole opportunità di risocializzazione, attraverso progettazioni, eventi. Restituirgli anche solo piccoli attimi di evasione è già un gran risultato”. Questo carcere rieduca? “Ho detto già prima che il carcere d’oggi ha davvero scarsi mezzi e uomini per raggiungere il fine rieducativo della pena. Spesso incattivisce, proprio perché i reclusi si sentono abbandonati, inermi e anche a chi vuole cambiare spesso non ne viene data la possibilità. Mi illudo che almeno non diseduchi”. C’è una storia a lieto fine che può raccontare? “Accanto alle storie tristi, per cui ci sentiamo piccoli ed inermi, ci sono anche storie a lieto fine, che rendono questo mondo meno duro” Cosa introdurrebbe nelle carceri a supporto dell’umore dei detenuti? “Dovrebbe essere consentito loro di autodeterminarsi, di poter scegliere tra tante possibilità quella che poi li possa aiutare anche una volta finita di espiare la pena. Il carcere deve offrire possibilità, deve far riemergere i loro quei valori che hanno dimentico e in assenza dei quali hanno commesso degli errori. L’umore si può migliorare solo restituendo serenità. Negli anni di detenzione bisogna infondere speranza, ma costruire le basi per un futuro ritorno nella società, attraverso percorsi lavorativi, di studio… I detenuti staranno meglio quando verrà data loro realmente l’opportunità di decidere se cambiare o restare nell’errore”. Milano. A San Vittore un 21enne si impicca in cella e muore dopo 8 giorni di Rosario Di Raimondo, Massimo Pisa La Repubblica, 12 febbraio 2023 Luis Fernando Villa Villalobos era detenuto dal 31 dicembre a San Vittore dopo un arresto per furto aggravato. Peruviano, senza fissa dimora, avrebbe compiuto 22 anni a giugno ed era finito in carcere dopo essere stato fermato e processato per direttissima. Aveva 21 anni. Era detenuto dal 31 dicembre a San Vittore dopo un arresto per furto aggravato. Il 2 febbraio si è impiccato in cella: portato in condizioni gravissime al Policlinico, è morto nella notte di venerdì. È il primo suicidio in cella a Milano nel 2023 dopo un anno, quello appena passato, che è stato definito “nero” per gli istituti penitenziari di tutta Italia. L’ultimo detenuto a togliersi la vita si chiamava Luis Fernando Villa Villalobos. Era peruviano, senza fissa dimora, avrebbe compiuto 22 anni a giugno ed è finito a San Vittore dopo essere stato fermato e processato per direttissima. In queste ore il caso è arrivato sul tavolo del magistrato di turno Angelo Renna che, come da prassi, ha aperto un fascicolo necessario a svolgere gli accertamenti. Dalle prime ricostruzioni, non emergerebbero responsabilità di terze persone. Francesco Maisto, garante dei detenuti del Comune, racconta: “Ho seguito la storia da quando il detenuto è stato portato in ospedale. Purtroppo la sua morte era altamente prevedibile. So che a San Vittore era stato seguito con particolare attenzione sia attraverso visite psichiatriche sia con incontri dagli psicologi. Anche la collocazione in carcere era adeguata”. Secondo il garante, e anche in base ai dati raccolti da “Ristretti orizzonti” (aggiornati al primo febbraio), è il primo suicidio dell’anno a Milano e in Lombardia. Un fenomeno, quello dei detenuti che si tolgono la vita dietro le sbarre, che è stato anche al centro dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario a palazzo di giustizia. Nel solo distretto della corte d’Appello di Milano (che comprende anche Busto Arsizio, Como, Lecco, Lodi, Monza, Pavia, Sondrio e Varese) l’anno scorso si sono uccisi quindici detenuti, mentre l’indice di sovraffollamento degli istituti penitenziari è passato dal 122 al 128,5 per cento: 6.520 persone recluse al 30 giugno 2022. Proprio a San Vittore, la scorsa estate, due detenuti ventenni si sono tolti la vita: uno dei due, tra l’altro, sarebbe dovuto essere ospitato in una Rems, cioè le strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Per Maisto, “il problema serio è che il numero di suicidi aumenta sempre di più, non passa giorno che non ve ne siano. Ormai purtroppo sembra si sia arrivati a una sorta di assuefazione del mondo penitenziario e del mondo esterno, della società civile, rispetto a questi casi”. Biella. Torture in carcere, in sette interrogati dal Gip: “Spesso è inevitabile legare i detenuti” di Mauro Zola La Stampa, 12 febbraio 2023 Venerdì mattina sono stati sentiti 7 degli agenti della Polizia penitenziaria coinvolti, a vario titolo, nel caso delle torture nel carcere di Biella. Il gip Valeria Rey, infatti, prima di pronunciarsi sulle richieste di sospensione dal servizio fatte dalla Procura, ha voluto interrogarli tutti: sono quindi sfilati, accompagnati dai rispettivi avvocati, davanti a lei e al sostituto procuratore Sarah Cacciaguerra. Tutti avrebbero deciso di rispondere alle domande, in modo da evitare, se possibile, la sospensione. Se saranno stati convincenti lo si saprà nei prossimi giorni: il giudice per le indagini preliminari ne avrebbe cinque per decidere. C’è un comprensibile malumore tra gli indagati, ventotto compreso il commissario, l’estate scorsa vice comandante della penitenziaria, poi trasferito subito dopo la sanzione disciplinare, che l’aveva colpito insieme ad alcuni agenti per il caso del detenuto a cui sono state legate le gambe con il nastro adesivo, cosa vietata dall’Ordinamento penitenziario. È l’unico per cui il gip abbia accolto la richiesta di misura cautelare, che l’ha raggiunto a Palermo dove si trova distaccato e da dove per il momento non si muoverà. Sarebbe comunque stato sentito per via telematica, pare abbia deciso di non rispondere alle domande ma sulla questione in Procura le bocche restano cucite. Quel che lamentano gli agenti è di essere finiti nei guai per una pratica che, pur non regolare, non avrebbe alternative. Il detenuto in questione, 23 anni, dopo aver tentato di farsi del male sbattendo la testa contro una finestra (a questo si riferirebbero i referti medici), avrebbe continuato ad agitarsi anche dopo essere stato ammanettato. Bloccargli le gambe sarebbe stato quindi necessario. Prima sarebbe anche stato chiesto l’intervento del medico, che in effetti è stato ripreso dalle telecamere. Resta la questione delle presunte botte ricevute quando già erano in cella e quindi non inquadrati, anche se qualche dettaglio, come il ginocchio sulla schiena con cui un agente avrebbe spinto a terra l’uomo, lo si vede. Il detenuto georgiano ha presentato per questo il referto di uno psicologo, avrebbe riportato un trauma che non gli permette di frequentare altre persone nel carcere in cui si trova adesso. Tutti e tre i coinvolti hanno firmato una regolare denuncia. Coinvolti direttamente nei tre casi sarebbero una mezza dozzina di agenti, gli altri perlopiù avrebbero visto e non sarebbero intervenuti per bloccare i colleghi. Probabile che molti abbiano spiegato l’indolenza con la presenza del vicecomandante che dirigeva le operazioni. Biella. Mellano: “Carceri violente non solo in Piemonte, ma qui siamo più attenti” di Federica Cravero La Repubblica, 12 febbraio 2023 Tre carceri piemontesi travolte da inchieste in cui viene contestato a decine di agenti della Polizia penitenziaria il reato di tortura. L’ultimo caso a Biella, con 28 indagati per detenuti legati e picchiati. Prima Ivrea, dove le violenze nel cosiddetto “acquario” sono andate avanti per anni prima di vedere 45 indagati. E ancora Torino, dove è alle battute finali il primo processo in cui per la prima volta è stato individuato il reato di “ tortura di Stato” introdotto nel 2017. Esiste dunque un caso Piemonte? “Non esiste se intendiamo che in questa regione i detenuti vengono picchiati e maltrattati più che altrove. Ma certo ci sono delle peculiarità”, è l’analisi di Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte. Una è che qui siamo “particolarmente deficitari nelle figure apicali “: mancano direttori e comandanti della penitenziaria, alcuni sono “a scavalco” tra più sedi, a Biella c’è stata una “rotazione frenetica”, mentre a Torino, pur essendo considerato il carcere più complesso d’Italia, la direttrice è sola perché di sei vicedirettori che ci sono sulla carta, ce n’è appena uno “a scavalco”. E per quanto il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro abbia annunciato “ entro marzo direttori e comandanti fissi nelle carceri”, in Piemonte il timore è di “ perdere altri pezzi”, ammonisce Mellano pensando per esempio a Cosima Buccoliero, che ha avviato il conto alla rovescia per lasciare il Lorusso e Cutugno: candidata alle regionali in Lombardia, ha anche fatto domanda ditrasferimento. E le poltrone vuote non sono solo carenze amministrative: “Se vuoi raccontare un fatto ma non trovi nessuno, a chi fai la segnalazione?”, dice Mellano. Per contro - ed è un’altra caratteristica del Piemonte - qui si contano 13 garanti per 13 penitenziari. Sono stati loro in tutte queste inchieste a raccogliere e a portare all’attenzione delle autorità segnalazioni di violenze fisiche e psicologiche. E le denunce hanno iniziato a susseguirsi: “ Quando si accende una luce su un fatto, anche altri casi escono allo scoperto - continua il garante. “Tuttavia è importante che tutti vedano nei garanti una figura di garanzia appunto, anche a loro tutela, non antagonista. Gli stessi agenti e sindacati devono capire che sta a loro il compito di sporgere denuncia quando ci sono dei soprusi, per difendere la loro professionalità e per evitare che certe situazioni di malessere incancreniscano”. Con una considerazione: che il ruolo dei garanti si ridimensionerebbe “se ci fosse più attenzione da parte dei sanitari a intercettare problemi psicologici o familiari o personali che si trasformano in malessere o in aggressività”. Ma il problema è che spesso il personale è insufficiente: “A Biella per esempio è raddoppiata la struttura con un nuovo padiglione, si è duplicata la popolazione carceraria, ma sempre con lo stesso personale”, sottolinea il garante regionale. E gli agenti si ritrovano a fare un po’ di tutto, “gli educatori, gli assistenti sociali, gli psicologi. Quando ci vorrebbero molti più psicologi in carcere: per i detenuti, ma anche per il personale”. Torino. Baby criminali, la strategia del governo di Massimo Massenzio Corriere Torino, 12 febbraio 2023 Il ministro Piantedosi a Torino: “Ampliare la gamma degli strumenti di prevenzione”. “La criminalità giovanile è molto insidiosa. La scompostezza tipica di quell’età può portare a episodi gravi, come dimostra quello che è successo a Torino”. Nell’analisi “a 360 gradi” effettuata durante il Comitato ordine e sicurezza pubblica che si è svolto ieri in Prefettura, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi si è soffermato anche sul ferimento di Mauro Glorioso. “La criminalità giovanile è molto insidiosa. La scompostezza tipica di quell’età può portare a episodi gravi, come dimostra quello che è successo a Torino”. Nell’analisi “a 360 gradi” effettuata durante il Comitato ordine e sicurezza pubblica che si è svolto ieri in Prefettura, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi si è soffermato anche sul drammatico ferimento di Mauro Glorioso, lo studente di 23 anni colpito da una bicicletta lanciata dalla balconata dei Murazzi. Tanti i temi sul tavolo della riunione, presieduta dal prefetto Raffaele Ruberto, alla presenza del capo della polizia Lamberto Giannini e delle autorità locali: dalla Tav alle proteste anarchiche, passando per la situazione dei Cpr. Piantedosi ha annunciato possibili interventi normativi per arginare gli episodi di degrado urbano e “mala-movida”: “Quando si riferiscono alla fascia giovanile certi comportamenti non possono essere spiegati solo ricorrendo a tematiche di criminalità. La formula giusta è intercettare e prevenire i fenomeni. Possiamo quindi ampliare la gamma di strumenti di prevenzione applicabili in questa fascia di età affinché responsabilizzino gli adolescenti, permettendo loro di comprendere le conseguenze che può avere un determinato gesto. Strumenti che, si spera, possano avere quindi anche una funzione pedagogica”. L’attenzione a Torino si concentrerà sulle aree di maggiore aggregazione: “Non si tratta però di un problema “torinese” ma diffuso su tutto il territorio nazionale - ha precisato il ministro -. Ci ripromettiamo, come è già successo in altre città, di diffondere, in alcuni luoghi di particolare connotazione critica, ripetuti servizi di controllo. Non stiamo sottovalutando in nessun modo il problema”. A Torino ci saranno a breve una trentina di elementi in più nelle fila delle forze dell’ordine (fra nuovi ingressi e chi lascerà il servizio) per garantire la sicurezza del territorio. Un numero sicuramente inferiore alle attese, come riconosciuto dallo stesso Piantedosi, che però ha assicurato che il Governo metterà presto a disposizione altre risorse. Intanto oggi da piazza Cln partirà un nuovo corteo di esponenti dell’area anarchica in solidarietà ad Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis e in sciopero della fame da oltre 100 giorni: “Le sollecitazioni che vengono da quella galassia sono state sempre monitorate dalle forze di polizia - assicura il ministro -. Con molto equilibrio, mi sento di dire che, a partire dalle manifestazioni in programma a Torino e altrove, ci sono i presupposti perché possa andare tutto bene. Non abbiamo certezza di episodi gravi dietro l’angolo”. Sulla Tav, come del resto sui Cpr, nessun passo indietro. Ieri mattina il ministro ha visitato il cantiere di San Didero, sorvegliato quotidianamente, come quello di Chiomonte, da centinaia di operatori delle forze dell’ordine. Piantedosi ha assicurato che il contingente non sarà ridotto nell’ottica di un contenimento delle spese e ha invece precisato che si tratta di un “modello” di sorveglianza di cui tenere conto anche per altre grandi opere infrastrutturali. Milano. Pnrr, date una possibilità a noi carcerati di Dario Comini Tempi, 12 febbraio 2023 Lettera dalla Casa di reclusione di Bollate con proposta di affidamento al lavoro in occasione della riedizione del Codice degli appalti pubblici. Caro direttore, è tema di questi mesi per il nostro Governo la dedizione del cosiddetto Codice degli appalti pubblici (D.Lgs. n. 50/2016) per la necessità di recepire le norme delle tre Direttive dell’Unione Europea (2014/23, 24 e 25), integrandole ed ordinandole possibilmente in un’unica nuova procedura più snella e semplificata rispetto al su citato vigente Decreto. Peraltro, la ristrutturazione della disciplina degli appalti pubblici, fa parte del complesso crono-programma previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), nel quale sono previsti specifici obiettivi da raggiungere, pena la mancata erogazione dei finanziamenti comunitari già deliberati, basilari per la ripresa economico-produttiva del nostro Paese, dopo la crisi aggravata dalla recente pandemia. Tenuto conto della vastità e della complessità del tema in oggetto ed in relazione alle pesanti implicazioni che le nuove disposizioni avranno sulla gestione dei futuri contratti pubblici, a partire e con particolare riferimento, alle straordinarie sfide connesse alle opere del PNRR, i tempi per la definizione del testo della nuova legge in tema di appalti e di concessioni risultano molto stringenti. Risulterà probabilmente necessaria l’introduzione, già in queste fasi di definizione e di confronto tra i diversi “attori” chiamati in gioco nella stesura e nell’avvallo della nuova norma, di modalità, procedure e tempistiche completamente innovative e di più affidabile efficacia, rispetto al passato. Il vero auspicio per tutti gli italiani è che questa necessaria integrazione europea possa essere considerata come un’opportunità di rinnovo per uno dei principali temi di riforma che caratterizzeranno la ripresa economica e sociale del nostro Paese e che possa quindi confermarsi quale efficace strumento di modernizzazione ed efficientamento della attuale disciplina, eliminando le numerose criticità ed i gravi difetti che hanno fortemente condizionato la sua applicazione negli ultimi anni, malgrado le numerose revisioni ed emendamenti intervenuti sulla stessa. L’efficacia applicativa del nuovo codice sarà quindi una delle principali leve strategiche per vincere la sfida epocale della tanto auspicata rinascita economica, sociale e ambientale del nostro Paese. Una riflessione su questo tema, consapevolmente fuori dal coro, che proviene da un punto di vista per molti certamente inusuale, nasce pensando ad uno dei principali problemi di una minoranza spesso dimenticata, ovvero la possibilità di trovare idonei posti di lavoro da mettere a disposizione dei detenuti, per i quali il completamento del percorso di recupero trattamentale ne preveda l’opportunità/necessità di un affidamento al lavoro, come peraltro prescritto nel vigente Ordinamento Penitenziario, ma ancor prima sancito nella nostra Costituzione. È ben chiara a tutti l’estrema difficoltà di trovare una rappresentanza in tali contesti per coloro che da sempre sono tenuti e ritenuti al fuori dai tavoli decisionali, però è davvero storica l’occasione per non tentare di sensibilizzare qualcuno dei commensali, ad introdurre tra i criteri di revisione del dispositivo in esame, qualcosa a favore di una componente sociale certamente sfavorita. Dovrebbe infatti essere universalmente riconosciuta la possibilità di rimettersi in gioco, soprattutto se attraverso l’assunzione di un impegno lavorativo concreto, che gli metta a disposizione una vera seconda possibilità, soprattutto in favore di chi, abbia dato prova della volontà di un corretto e convinto riscatto. Tecnicamente si tratterebbe di prevedere, nell’ambito delle maestranze impegnate nelle attività connesse ad un pubblico appalto, l’indicazione vincolante entro opportuni valori, che potrebbero, per esempio, essere valutati in percentuale degli addetti complessivamente coinvolti nelle attività operative connesse all’appalto, di introdurre anche una rappresentanza di ex detenuti. Chiaramente gli stessi dovranno essere stati in precedenza qualificati e formati mediante percorsi e programmi codificati, sia per la conferma del provato recupero dei necessari requisiti etico-morali e sia per il possesso dei requisiti necessari per l’accesso alle misure alternative alla restrizione intramuraria. Tale innovazione prescrittiva fornirebbe un epilogo concreto ai tanti progetti di recupero trattamentale e un nuovo inizio di risocializzazione attiva. Peraltro sarebbe un’opportunità aggiuntiva a tanti percorsi di affidamento al lavoro, già oggi spesso largamente pianificati da diversi Istituti Penitenziari in accordo alle previsioni dell’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario, ma solo in parte attuati, spesso per l’assenza di sufficienti disponibilità offerte dal mondo del lavoro. Per agevolare l’individuazione di tali risorse in modo semplificato e non delegato quale ulteriore onere alle Imprese Appaltatrici, vista la delicata, impegnativa e rischiosa verifica dei necessari requisiti effettivamente posseduti dai soggetti così assoldati, si potrebbe individuare ed incaricare una apposita Commissione, coordinata e rappresentata dalle principali aree trattamentali degli Istituti Penitenziari italiani e da delegati degli ulteriori Enti Pubblici di competenza. Attraverso questa Commissione, si potrebbe costruire una banca dati di soggetti preselezionati, mediante specifici percorsi di messa in prova e di formazione/addestramento sia comportamentale, che professionale, da cui poter attingere, con criteri anche di territorialità, i soggetti più idonei per essere assunti in ogni specifica collaborazione. Napoli. Da ex cappella a pizzeria, un progetto per il recupero dei detenuti metropolisweb.it, 12 febbraio 2023 La Chiesa di Napoli, per il recupero sociale di detenuti, affida in comodato d’uso gratuito un locale non più adibito al culto. È stato firmato presso la Curia Arcivescovile di Napoli il comodato d’uso gratuito con cui viene concessa alla Impresa sociale Consul Service Soc. Coop. la ex cappella di Santa Caterina al Pallonetto di Santa Chiara, ridotta allo stato profano nel 1968 dall’Arcivescovo di quel tempo, Cardinale Corrado Ursi. Una ex cappella che ora diventerà una pizzeria. L’affidamento, si legge in una nota, “è finalizzato alla realizzazione del progetto sociale “Brigata Caterina” che ha la mission di favorire il recupero sociale e la promozione lavorativa di detenuti in esecuzione penale, oltre che ex detenuti, attraverso il mestiere di pizzaiolo. Un progetto teso a valorizzare il processo di ritorno alla vita sociale libera e nella comunità affrontando le criticità personali ed ambientali che costituiscono i principali fattori di recidiva, ed attivando uno spazio di riflessione al fine di far acquisire risorse e strumenti di autovalutazione per la costruzione di un nuovo progetto di vita”. Nel locale verrà, infatti, realizzata una pizzeria dove con un meccanismo di rotazione, per favorire l’inserimento lavorativo anche in altre aziende del settore, saranno promossi percorsi professionalizzanti per i detenuti selezionati, con particolare attenzione a quelli che, nel carcere di Poggioreale, avranno acquisito la qualifica di pizzaiolo. Il progetto prevede la collaborazione sinergica delle associazioni dei pizzaioli, del Comune di Napoli, dell’Università Federico II e di altri attori, istituzionali e non, che vorranno unirsi al progetto. L’iniziativa, si sottolinea in una nota, “rientra nella volontà dell’arcivescovo don Mimmo Battaglia di destinare i beni della chiesa di Napoli per la valorizzazione di progetti che da un lato possano rigenerare e recuperare sitii in decadenza, e dall’altro creino opportunità di riscatto sociale e lavorativo per soggetti svantaggiati”. Reggio Calabria. Forum giustizia riparativa: la riforma Cartabia punta alla pacificazione sociale di Anna Foti ilreggino.it, 12 febbraio 2023 Il palazzo della corte di appello ha ospitato un confronto tra giudici, avvocati e rappresentanti del terzo settore. La riforma della ministra Marta Cartabia e la disciplina organica in materia di Giustizia riparativa sono stati al centro del forum svoltosi nella sala adibita alla formazione presso il palazzo della Corte di Appello di Reggio Calabria. Promosso dal centro comunitario Agape, dalla rete di avvocati Marianella Garcia, dall’ordine degli avvocati di Reggio Calabria, il forum è stato animato dagli interventi dei presidenti dell’ordine degli avvocati e del tribunale di Sorveglianza reggini, rispettivamente Rosario Infantino e Daniela Tortorella, della garante dei diritti dei detenuti, Giovanna Russo (che ha inviato un messaggio), e della delegata del centro regionale della giustizia minorile Cinzia Santo. Dopo l’introduzione, si sono avvicendati Mario Nasone, presidente Centro Comunitario Agape, Massimo Canale e Carlo Morace, avvocati della rete Marianella Garcia, Stefano Musolino, segretario nazionale di Magistratura Democratica. Poi ancora Rosa Maria Morbegno, direttrice dell’Ufficio servizio sociale per minori, Daniela Barillà in rappresentanza dell’Ufficio esecuzione penale esterna, Giuseppe Marino, coordinatore regionale Camere Minorili, e Luciano Squillaci, portavoce regionale Forum Terzo settore. Un momento di confronto essenziale vita la portata rivoluzionaria della riforma che innova la giustizia investendo inevitabilmente gli attori e le attrici che ogni giorno la perseguono dentro e fuori dalle aule dei tribunali. La riparazione in luogo della punizione - Una riforma che traduce in legge una realtà di fatto già delineatasi, in cui la riparazione si contrappone alla punizione. Non vi sono solo lo Stato che punisce e l’autore del reato che poi viene condannato e sconta la pena. Parte integrante del paradigma diventa la vittima e fase essenziale è il suo “incontro” con l’autore del reato. In questo senso si parla di Giustizia che ripara, ricucendo uno strappo, risanando la lesione del patto sociale che è alla base del reato. Una lesione che, anche in caso di autori adulti (ed è questo uno degli aspetti più rivoluzionari), potrebbe non condurre a una condanna. “Dobbiamo tendere verso una cultura della riparazione piuttosto che della punizione. Questa riforma, marcatamente orientata verso una giustizia appunto riparativa ci offre la possibilità di confrontarci sulla portata rivoluzionaria che la contraddistingue. Non più una contrapposizione tra chi con il reato ha violato il passo sociale e chi il reato lo ha subito. Piuttosto l’individuazione di percorsi di mediazione e, appunto, riparazione con il coinvolgimento della comunità”. Lo ha sottolineato Lucia Lipari, responsabile avvocati Marianella Garcia, anche moderatrice del forum. Una riforma che ha recepito la realtà - Una riforma definita rivoluzionaria anche se recettiva di una realtà. Nei fatti già si era delineata, laddove la giustizia già cercava e trovava varchi nuovi per svecchiarsi e meglio rispondere alle sue finalità di tutela dei diritti. I principi che ispirano la giustizia riparativa erano, infatti, già alla base di azioni sperimentali e innovative dai risultati incoraggianti come la messa alla prova, istituto nato nell’ambito della giustizia minorile, e poi esteso anche agli adulti. Prima del processo - “Con la riforma Cartabia, la giustizia riparativa anticipa la sua portata nell’ambito del processo intervenendo prima dell’esecuzione della pena e non solo per in ambito minorile. Diventa, cioè, uno strumento alternativo alla pena e alla sanzione, anche in fase delle indagini preliminari e addirittura prima”. È quanto ha spiegato il magistrato Stefano Musolino. Un momento decisamente alternativo all’avvio del procedimento penale, mantenendo la dimensione di una conciliazione volontaria tra vittima e autore del reato. Una fase funzionale alla cura di quella ferita che il reato ha generato nel contesto sociale e che l’autore del reato ha causato alla vittima. Gli effetti possono variare dall’attenuazione della pena in caso di condanna alla concessione di benefici, nel caso di cui essa intervenga durante l’esecuzione della pena. Tra le novità vi è la messa alla prova, non più un istituto tipico di giustizia minorile. Esteso agli adulti su disposizione dei tribunali di sorveglianza, esso diventa una concreta alternativa a qualunque pena e per qualunque tipo di reato. Un’alternativa che non è completamente esaustiva della sanzione ma che riduce la sanzione medesima e i suoi effetti”. È quanto ha spiegato ancora Stefano Musolino, segretario nazionale di Magistratura democratica. Un intento deflattivo dei processi che ha ricadute profondamente innovative in tema sociale. Una riforma che tuttavia non è esente dal generare qualche perplessità. Dalla punizione alla pacificazione sociale - “Non più un processo penale incentrato sulla punizione - ha spiegato l’avvocato Massimo Canale - ma un processo penale che punta alla pacificazione sociale. Una prospettiva nuova per noi avvocati. Da oggi in poi, tra i nostri doveri deontologici ci sarà anche quello di proporre percorsi di giustizia riparativa. Il legislatore ha adottato un approccio prudenziale. Non è prevista una immediata estinzione del reato al momento della scelta, frutto di volontarietà e consapevolezza, di adesione ai programmi di giustizia riparativa, nel caso di reati entro un certo livello di pena. Ciò sarebbe stato invece auspicabile per concludere la vicenda penale, proprio in ragione dell’attitudine alla ricerca di una pacificazione sociale. I programmi di giustizia riparativa, dunque, incidono sull’entità della pena per tutti in reati, rimarcando la centralità del valore della pacificazione sociale”. È quanto ha spiegato ancora Massimo Canale, avvocato della rete Marianella Garcia, associazione di legali impegnati pro bono nella tutela dei diritti delle fasce più deboli. Una giustizia di comunità - “Questa riforma restituisce alla comunità il senso della Giustizia. Quando si commette un reato si genera una frattura sociale che non può essere sanata rimanendo chiusa dentro le aule di un tribunale. Così facendo si persegue solo una giustizia punitiva. Invece questa riforma, non parlando di mera riparazione ma di Giustizia riparativa e dunque di giustizia di comunità, coinvolge tutte le componenti e restituisce una dimensione unitaria a quella frattura. Un’esperienza che non nasce con questa riforma. Il Terzo settore accompagna, infatti, questi processi già da tempo. Lo fa attraverso le esperienze dell’associazionismo e del volontariato impegnato in attività di mediazione in collaborazione con i tribunali. Il suo ruolo adesso è riconosciuto come elemento di congiunzione. Come parte integrante di un nuovo modo di fare giustizia”. Così ha concluso Luciano Squillaci, portavoce forum regionale del Terzo Settore. Verona. Responsabili di incidenti stradali e vittime a confronto di Angiola Petronio Corriere di Verona, 12 febbraio 2023 Alcol o droga. Chi ha causato incidenti, chi è stato fermato ai controlli: i partecipanti ai corsi che li mettono a confronto con le vittime di incidenti. Il primo, di quest’anno, sarà a marzo. Il secondo a maggio, il terzo a ottobre. La sintesi di quello che saranno è nelle parole del comandante della polizia stradale di Verona, Girolamo Lacquaniti. “Nell’ambito dei reati stradali la giustizia riparativa rappresenta una chiave di volta. L’omicidio stradale ha oggi una sua norma precisa e adeguata a dare giustizia ai familiari delle vittime. Ma lo scopo che noi tutti abbiamo è di far sì che quegli incidenti non avvengono”. Per farlo a Verona da tre anni c’è un progetto che quasi nessuno conosce. Il nome è scolpito nel burocratese, “messa alla prova e reati in ambito stradale”, ma raccoglie spaccati di vita e di “presa di coscienza”. Una serie di corsi, in media tre all’anno, suddivisi in incontri e in tre gruppi, ciascuno formato da 8-9 persone. Quelle persone “messe alla prova” dopo aver causato incidenti stradali, con pene comunque inferiori ai 4 anni, o essere state fermate alla guida sotto l’effetto di alcol o sostanze stupefacenti. Un progetto dell’Udepe, l’ufficio distrettuale del ministero di Giustizia per l’esecuzione penale esterna, che ha competenza su Verona e Vicenza, in collaborazione con l’associazione La Fraternità e finanziato, nell’ambito del progetto Esodo, da Fondazione Cariverona. Corsi a cui nell’arco di questi tre anni ha partecipato una novantina di persone e che, tra i pochi in Italia, mette a confronto i “colpevoli” con le vittime. Progetto nato dall’idea di una funzionaria dell’Udepe, Silvana Frangiamore, che ha coinvolto anche la polizia stradale e Avisl onlus, l’associazione vittime incidenti stradali e infortuni sul lavoro. “In tutta Italia e anche a Verona - racconta Frangiamore che con la psicologa de La Fraternità Paola Feroni conduce gli incontri - la maggior parte di richieste di messa alla prova riguarda reati in ambito stradale e soprattutto per guida in stato di ebbrezza. Quando ho elaborato il progetto l’ho fatto nell’ottica della “giustizia riparativa”, mettendo insieme tutte le parti che riguardano gli ambiti dei reati stradali. L’idea di coinvolgere sia le forze ordine che le vittime mi è venuta perché facendo questo lavoro da 22 anni ho capito che la sofferenza, in questo tipo di reato, è da tutte le parti. Riuscire a vedere quello che accade anche agli altri e capire il perché del comportamento che ha spinto a commettere quel reato per non ripeterlo, è lo scopo del corso”. E quell’incontro con le vittime rimane uno dei fulcri del progetto. “Quando me lo hanno proposto ho chiesto se fossero matti”, le parole di Patrizia Pisi, referente veronese dell’Avisl che con il marito Stefano Benato partecipa agli incontri. Loro figlio Alberto è stato investito e ammazzato a 17 anni da un automobilista ubriaco a cui era già stata ritirata la patente tre volte. “Poi ho riflettuto e abbiamo accettato. Io ero chiusa nel mio dolore. Vai alle manifestazioni, segui gli altri familiari, ma stai nel tuo spazio. Questa cosa mi ha fatto entrare di nuovo nel mondo”. Spiega suo marito Stefano che “per noi è un crescere e un rimettersi in discussione, perché andiamo a confrontarci con chi potenzialmente avrebbe potuto essere la causa del nostro dolore. Vedere i risultati positivi di questo confronto, provare a farli entrare nelle nostre scarpe, a farli comprendere che a loro bastava un niente e magari avrebbero avuto un bagaglio di rimorsi fortemente traumatico, ha come chiuso il cerchio”. Stefano, che ai corsi ripete sempre la stessa frase: “Voi siete stati fortunati perché vi siete fermati al limite”. “E - dice - loro questa cosa la colgono”. Un “canale” continuo di scambio. “Nel mio caso spiega Lacquaniti - è probabilmente più quello che ho ricevuto di quello che ho dato. Il mio intervento mira non tanto alla conoscenza delle regole, perché le regole le conosciamo tutti, ma al raggiungimento di uno scopo diverso, che è quello della consapevolezza dell’utilità di quelle regole. Quando pensiamo a qualcuno che ha causato un incidente dopo aver bevuto o usato droghe, immaginiamo un delinquente. Invece questo è un tipo di reato commesso da gente assolutamente normale. Il “mostro” può essere chiunque di noi”. È convinto Lacquaniti che “l’unico modo per far diminuire gli omicidi stradali sia quello di far prendere consapevolezza sui rischi di quelle condotte che portano a un evento non voluto. In questi corsi trovi uno spaccato dove ti rendi conto che se tu non stai attento puoi essere dall’altra parte. La mia semplicistica ed empiristica deduzione è che l’esperienza ti regala una consapevolezza diversa. Il problema è dare questa consapevolezza senza l’esperienza negativa”. Cosa che, in parte, questo progetto sta riuscendo a fare. Perché molti di coloro che lo frequentano diventano poi “ambasciatori” di sicurezza stradale. “Qualcuno - racconta Paola Feroni - al primo incontro è quasi aggressivo, magari con le forze dell’ordine, accusandole di mettersi fuori dai locali per fare gli agguati e togliere le patenti. Arrivati all’ultimo incontro sono i primi dire che la prevenzione è importante e che di controlli se ne dovrebbero fare di più”. Giustappunto lo scopo della “giustizia riparativa”. Le disuguaglianze sociali sono sempre più profonde. E per le mafie è un’ottima notizia di Giuseppe De Marzo L’Espresso, 12 febbraio 2023 Crescono simultaneamente ricchezza e povertà estreme. Ma nessun governo si è impegnato a difendere ed estendere i diritti dei più deboli. Così il welfare criminale conquista spazi e consensi. La disuguaglianza non conosce crisi. In costante crescita a livello globale, come denuncia l’ultimo rapporto di Oxfam. L’1 per cento più ricco si è impossessato di quasi due terzi della nuova ricchezza generata lo scorso anno. Al restante 99 per cento della popolazione mondiale è andato solo il 37 per cento. Ma c’è una novità: crescono simultaneamente ricchezza e povertà estreme. Non era mai successo negli ultimi 25 anni. I super ricchi vedono i loro patrimoni crescere di 2,7 miliardi di dollari al giorno, mentre quasi 2 miliardi di lavoratori diventano sempre più poveri a causa dell’aumento dei prezzi e del costo della vita. Secondo Oxfam basterebbe una tassa sulla ricchezza del 5 per cento su multimilionari e miliardari per ottenere 1,7 trilioni di dollari e consentire a 2 miliardi di persone di uscire dalla povertà. Pandemia, guerre e aumento dei prezzi hanno contribuito ad amplificare una tendenza già in atto da tempo. Lo abbiamo visto nel nostro Paese, dove i divari vengono da lontano. Basta leggere le serie storiche Istat ed i rapporti del Censis degli ultimi 15 anni per comprendere quanto grave sia la situazione. Mai prima d’ora così tanti italiani in difficoltà, minacciati dalla povertà assoluta, dall’analfabetismo di ritorno, dalla dispersione scolastica, dal lavoro povero, dalla precarietà e dallo sfruttamento, dall’impossibilità di accedere alle cure mediche. Se il modello di sviluppo non garantisce più diritti sociali, lavoro e salute, è la politica che deve intervenire per cambiarlo, imponendo limiti agli interessi privati, orientando il mercato verso una nuova base produttiva che risponda agli interessi generali. E invece nessun governo negli ultimi anni ha mai assunto davvero la sfida di cancellare le disuguaglianze, ponendosi come obiettivo l’estensione e la garanzia dei diritti sociali per tutte e tutti. La legge di bilancio del governo Meloni conferma questa regola: fa cassa sui poveri, taglia diritti, non affronta i limiti del nostro modello industriale, ignora la crisi ecologica, spreca soldi pubblici e fondi europei per sostenere le lobby delle armi invece di dare risposte a milioni di lavoratori poveri, precari e sfruttati. Un governo che spinge le persone ad accettare qualsiasi lavoro, contrario ad un salario minimo legale, che abolisce il reddito di cittadinanza, garantisce privilegi corporativi, cancella i contributi per il diritto all’abitare, attacca l’unità della Repubblica e l’uniformità dei diritti con la cosiddetta autonomia differenziata, mentre dimentica la lezione della pandemia per continuare l’opera di demolizione del servizio sanitario pubblico nazionale. Un governo che accelera il processo di impoverimento economico e culturale. In assenza di risposte e di alternative, sono gli interessi criminali e mafiosi ad aver speculato sui bisogni della popolazione. L’enorme crescita dei reati spia (usura, frodi fiscali, cambi societari, interdittive, ecc.) conferma come le mafie stiano facendo grandi affari. Perché la forza delle mafie sta fuori dalle mafie, nelle convergenze, nelle alleanze, nella zona grigia, nel familismo amorale, nel patriarcato, nell’insofferenza per la democrazia. La fragilità della politica favorisce la corruzione. L’assenza di diritti sociali rafforza la presenza sui territori del welfare sostitutivo mafioso. Siamo dinanzi ad una politica latitante, come ci ricorda Luigi Ciotti, incapace di investire su un altro modello sociale ed economico che abbia come priorità equità sociale e sostenibilità ambientale: due cose inscindibili. La vita dei senzatetto con 10 euro al giorno: “Mio figlio lavora qui, finge di non conoscermi” di Marco Imarisio Corriere della Sera, 12 febbraio 2023 Sotto i portici di Torino, tra gelo, coperte e cellulari nascosti nelle mutande. Antonino: “Prima ho finito gli amici, poi i soldi”. Cristina: “Vorrei andare al mare con il mio nipotino”. È raddoppiato in 3 anni il numero di chi vive per strada: tanti tra i 40 e i 60 anni. “Io nella vita una cosa l’ho capita, che la gente è cattiva”. Cristina aveva un figlio, un marito, una casa, un impiego, e ora non ha più niente. Uno schiocco di dita. “Ci vuole tanto così, basta un attimo”. Chissà quando è successo. Quando si è rotto il ghiaccio sotto ai piedi di una esistenza normale. Quale è stata la disperazione che ti ha obbligato a convincerti che questo strato di cartone sopra al marmo freddo e queste coperte che non bastano mai sono stati davvero una scelta, e non un vicolo cieco. “Se cadi, sono contenti, e gli piace lasciarti a terra, li fa sentire fortunati”. Cristina è considerata la decana dei portici. Quando parte per i suoi viaggi senza destinazione, nessuno occupa il suo posto sotto all’insegna luminosa del negozio Mont Blanc. Se un nuovo arrivato ci prova, trova sempre qualcuno pronto a fargli cambiare idea, con le buone o con le cattive. Ma lei non fa mai caso a quel che le succede intorno. Tutto il suo mondo e i suoi ricordi stanno dentro un sacchetto da supermercato, oggetti sparsi alla rinfusa, che lei estrae per esibirli come fossero una prova, non è sempre stato così, anche io sono stata come voi, anche io sono stata felice. “Ho pure un nipotino, lo sa? Guardi la foto, come è bello”. È una donna impegnata a conservare la propria dignità, che per prima cosa mostra le sue unghie pulite e il suo astuccio per la toilette agli estranei che la stanno disturbando. “Stavo per andare a letto” dice con la sua voce da cantilena piemontese. E ci aggiunge un sorriso che richiede complicità. Ma è difficile ricambiarlo. Le strade del lusso - Notte di inizio febbraio. Tira un vento gelido, uno sguardo al telefonino rivela che siamo già sottozero, tra due ore si scenderà a -4. Per tutte queste persone accampate tra via Roma e Galleria San Federico magari è normale. Però fa proprio tanto freddo, da battere i piedi sul selciato dove loro invece dormono, o almeno ci provano. Gli articoli sui clochard all’addiaccio sono come le strenne natalizie, riservano sempre poche sorprese, quando arriva la stagione si guarda e si scrive, poi finisce lì, fino al prossimo inverno. O al prossimo dolente ritratto sul morto senza nome dimenticato da tutti. Torino ne è una capitale, a malincuore. Oltre 2.200 persone senza casa, una ogni cinquecento abitanti. Negli ultimi tre anni sono raddoppiate. Via Roma e i suoi portici sono il cuore commerciale della città, una passerella a cielo aperto. Tutte le sere intorno alle 19.30 è come se avvenisse un passaggio di consegne tra il popolo di sopra e quello di sotto. Gli ultimi pendolari corrono verso la stazione di Porta Nuova, i turisti rientrano in hotel, pregustando le cene, la partita in televisione, il calore di una casa. Le strade del lusso si svuotano. Come dal nulla, spuntano decine di persone, che attendevano solo il momento per sistemare il loro giaciglio, le loro cose chiuse nei sacchetti, ammassati in carrelli della spesa sbilenchi. All’ultimo censimento fatto dei vigli urbani, un mese prima della pandemia, si contavano nel giro di poche centinaia di metri circa 250 “senza fissa”, come li chiamano gli operatori sociali, lasciando cadere dalla definizione quel “dimora” ormai inutile. Quando la trasformazione è compiuta, il contrasto tra le vetrine illuminate dei negozi alla moda e quelli che ci dormono fuori non potrebbe essere più violento. Sacchetti e riviste - “È una vita che consuma, che ti spegne come una candela. Ma hanno fatto più male i dispiaceri”. Ogni tanto Cristina fugge, non solo dal freddo di questi marmi, ma da un dolore al quale non riesce a dare un nome. Sale su un treno interregionale che la porta in Liguria, e poi verso il mare, su fino alla Costa Azzurra. “Immagino di fare le vacanze con mio nipote, che oggi dovrebbe avere sette anni. Ma poi mi viene in mente che non so neppure più dove abita, che forse non saprei riconoscerlo. E torno indietro”. Scende per ultima e fa incetta di giornali e libri dimenticati dagli altri passeggeri. Tira fuori da un altro sacchetto una guida di Nizza, un libro in francese di Anna Politkovskaja, giornali vecchi di qualche giorno. “Cerco di tenermi aggiornata, di capire qual è il nostro futuro. Vivere per strada non significa mica essere privi della propria dignità”. Ma a cominciare dai verbi sempre coniugati al passato, tutto in lei induce al rimpianto. Dal balcone di casa sua vedeva i soldati della caserma di fronte che ogni sera uscivano a suonare il silenzio. Suo marito era un tecnico della Fiat. Poi cosa è successo, Cristina? “La gente muore, la gente che resta delude. Chi è più debole sta male. Io non ce l’ho fatta, non ho retto. Ma un giorno mi rialzerò. Sono qui di passaggio. Appena trovo una casa, mi sistemo”. In cerca di un riparo - Nessuno dice di essere qui per restare. La rientranza nel portico del cinema Lux è uno dei luoghi più riparati. È già passata mezzanotte quando una voce chiama da sotto un cumulo di coperte. Antonino, 44 anni, un tempo artigiano decoratore a Moncalieri. Problemi con le droghe, una denuncia durante il lockdown per avere aggredito un carabiniere. Una fidanzata che non ne poteva più di lui. Prima sono finiti gli amici, poi i soldi. La solitudine è sempre l’inizio della discesa. Fino a Natale racconta di essere stato ospite del dormitorio di Rivoli. “Ma lì comandano gli africani. E poi qui si sta meglio, almeno non hai obblighi”. Giaccone, cuffia di lana, scarpe ai piedi, telefonino e portafoglio nascosti nelle mutande. La notte si dorme poco. I piccioni disturbano, il mal di schiena morde, ogni tanto qualcuno prova a rubare qualche oggetto al proprio vicino di giaciglio. Antonino conosce tutto e tutti, vita, morte e miracoli. Ma racconta di essere arrivato in Galleria San Federico appena tre mesi fa. “È più facile “scollettare” con i passanti che trovare un lavoro. Per fare la spesa al Lidl mi bastano dieci euro al giorno. Tanto alle 22.10 arrivano sempre i volontari con il cibo caldo. Se fai passare troppo tempo finisce che ti ci abitui. Ancora qualche giorno e me ne vado”. Nel mondo di sotto - La foto di denuncia fa sempre il suo effetto, anche se negli anni ha perso ogni significato. La prospettiva di via Roma è una lunga fila di rudimentali fagotti, i sacchi a pelo sono merce rara, uno per ogni rientranza di negozio, illuminati dalle insegne dei marchi più famosi e di prestigio. Ma non c’è causa e non c’è effetto. Non è il consumismo altrui che trasforma una donna o un uomo in un clochard. È come se le crisi economiche degli ultimi anni avessero ridisegnato la mappa del cosiddetto disagio sociale, definizione quasi rassicurante coniata per nascondere la nostra paura dell’abisso, della povertà estrema, che non sembra ma è lì a un passo. Non ti accorgi del piano inclinato, e ci scivoli sopra. Nel gennaio del 2020 uno studio dei Servizi Sociali del Comune aveva tolto qualunque patina da scapigliatura e di ribellione al destino di chi dorme per strada. Più della metà dei senza tetto era di nazionalità italiana e aveva un’età compresa tra i quaranta e i sessant’anni. I giovani, solo stranieri, quasi tutti dell’Europa dell’Est, perché il Covid ha cambiato ancora una volta tutto obbligando intere comunità all’esodo. Anche nel centro di Torino è come se il mondo di sotto fosse diviso in due. Agli italiani vanno gli anfratti più riparati, conservati talvolta con l’aiuto dei volontari che forniscono lucchetti e catene per fissare il proprio bagaglio. Quelli in galleria, quelli dove c’è una qualunque sporgenza che protegge e rende più tollerabile il freddo. I rumeni appena giunti da Satu Mare, centomila abitanti ai piedi delle montagne di Transilvania, dormono dove capita insieme ai loro cani. Antonio, uno di loro, chiede aiuto. Accanto a lui c’è una sua anziana parente, Adeliana, che trema in modo vistoso. Il suo unico riparo è un lenzuolo usa e getta di tessuto sintetico, di quelli che si usano nelle case di riposo. “Da noi non c’è niente. Quando arriva la neve grande, veniamo da voi”. Verso la stazione - Alle 4.20 si alzano quasi tutti. A quell’ora apre l’atrio della stazione e il suo bar interno. Esiste un patto tacito con i vigili urbani, niente bisogni in strada, altrimenti i commercianti protestano e arriva la nettezza urbana che carica sui camion la spazzatura e i giacigli. L’unica toilette è quella del parcheggio sotterraneo in piazza CLN, ma è lontana. Molti clochard usano i pannoloni, che al mattino gettano nei cestini pubblici. Mentre seguiamo il piccolo gruppo che attraversa piazza San Carlo, si sveglia Massimo, che ha preso residenza vicino allo storico Caffè Torino. Il suo unicorno appoggiato ai piedi del materassino da yoga sul quale dorme è l’esca che usa per attirare le elemosine. Con la barba bianca incolta e lo sguardo buono, è diventato un elemento del paesaggio. Ex operaio, un figlio trentenne che lavora in un bar poco distante. “Abbiamo il patto che fingiamo di non conoscerci”. Trecento euro per la pensione di invalidità, affetto da depressione bipolare. “La verità è che abbiamo tutti problemi mentali. Altrimenti chi si lascerebbe andare in questo modo?”. Fino a qualche mese fa puliva le stalle in un maneggio, poi non ce l’ha più fatta. “Non avere un tetto è un lavoro a tempo pieno. Ma sono ottimista, tra poco me ne andrò da qui”. Anche lui sente il bisogno di ripeterlo, in primo luogo a se stesso. Perché una piccola speranza di futuro vale più di una casa. Come per Cristina, che cerca solo qualcuno che le voglia bene. Come per Antonino, che aspetta l’aiuto di un amico perduto. Contano i giorni, e sono qui da anni. Rimpatri, respingimenti e pugno duro con le Ong: sui migranti avanti con la linea Piantedosi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 12 febbraio 2023 La strategia del governo dopo il vertice di Bruxelles. Dall’Ue solo impegni ma nulla di concreto. Le mosse del Viminale a partire dagli accordi più stretti con la Libia. Avanti con la realizzazione di nuovi centri per il rimpatrio, riammissioni a tutto spiano sulla rotta balcanica, pugno duro per piegare le Ong e accordi sempre più stretti con la Libia e con i Paesi d’origine per fermare i flussi migratori. Eccolo il ruolino di marcia del Viminale per i prossimi mesi in attesa che quella che Giorgia Meloni, tornando da Bruxelles, si è rivenduta come un’affermazione storica della linea italiana nelle politiche migratorie europee trovi una qualche concreta applicazione mentre il governo continua a contare il raddoppio degli arrivi. Se ne riparlerà a marzo, al momento sono solo impegni. Il regolamento di Dublino - Cercando l’appoggio dell’Olanda per il varo di un codice sulle Ong a livello europeo, la premier ha di fatto allontanato l’unica riforma che davvero cambierebbe qualcosa in Italia, quella sul regolamento di Dublino, impegnandosi invece ad una rigorosa applicazione delle norme esistenti che, di fatto, aprono le porte dell’Italia a decine di migliaia di migranti, i cosiddetti “dublinanti” che, sbarcati nel nostro Paese, hanno cercato di ottenere asilo nei Paesi del Nord, che ora spingono per rimandarli al di là delle Alpi. Neanche menzionata nel documento la riforma del regolamento di Dublino, Meloni si è impegnata con il premier olandese Rutte a rispettare le regole del patto di Dublino che obbligano l’Italia a registrare nel database europeo tutti i migranti che sbarcano e a farsi carico della loro accoglienza e dell’esame della richiesta d’asilo. Regole che, da sempre, vengono interpretate con grande “libertà”. E infatti i migranti registrati dall’Italia nell’Eurodac sono sempre molti di meno di quelli effettivamente sbarcati, a migliaia vengono lasciati andare nella consapevolezza che la loro destinazione finale è fuori confine. E che, se non saranno registrati, potranno presentare richiesta di asilo altrove. Il codice per le Ong - L’obiettivo è far adottare dall’Europa le regole del decreto Piantedosi. Giorgia Meloni ha ottenuto che il codice per le Ong sia sul tavolo della prossima riunione di marzo ma le sensibilità tra i 27 sono molto diverse e la Germania, ad esempio, non vede affatto di buon occhio l’ostacolo all’azione delle navi umanitarie. Nello stesso passaggio in cui si riconosce la specificità dei confini marittimi dell’Europa è “inclusa la salvaguardia delle vite umane” e “il rafforzamento della cooperazione sull’attività di ricerca e soccorso”. E per altro, prima la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa poi il presidente della commissione libertà civili del Parlamento europeo hanno chiesto all’Italia il ritiro del decreto Piantedosi. I confini marittimi - Riconosciuta dal Consiglio europeo la “specificità del confine marittimo”, nulla cambia per l’Italia che non potrà che continuare a soccorrere, con le nostre motovedette, tutti i migranti che tenteranno la traversata. La Ue non ha neanche preso in esame una nuova missione militare nel Mediterraneo e i fondi che verranno stanziati per infrastrutture mobili, auto, telecamere, torri di controllo, sono destinate a sorvegliare le rotte terrestri dalle quali continua ad entrare in Europa la maggior parte dei migranti. Anche gli accordi con la Libia per la fornitura di motovedette e la formazione della guardia costiera, al momento, restano totalmente a carico dell’Italia. L’unica menzione nel documento europeo è alla necessità di dare priorità all’approvazione del piano d’azione per il Mediterraneo centrale. Rimpatri e redistribuzioni - L’unico elemento di concretezza nella risoluzione del consiglio europeo è quello sui rimpatri dei migranti a cui non viene riconosciuta la protezione internazionale. Ora l’ordine di rimpatrio emesso da uno Stato nei confronti di un immigrato irregolare sarà riconosciuto in tutta Europa e dunque, se un migrante dovesse riuscire a sottrarsi al rimpatrio in un Paese cercando rifugio altrove, quell’ordine verrà ritenuto valido senza dover ricominciare tutta la procedura. Resta la difficoltà concreta nell’ottenere l’assenso alle riammissioni da parte dei Paesi d’origine. Un baco che l’Europa intende affrontare sposando la linea italiana degli accordi di partenariato con gli Stati di origine e transito. Totalmente in stallo invece il meccanismo di redistribuzione dei migranti che sbarcano nei Paesi costieri. Il patto in vigore è arenato, dall’Italia sono andati via solo in 200 a fronte degli 8.000 previsti entro maggio 2023, e la Meloni ha apertamente dichiarato che la strada della redistribuzione all’Italia non interessa, mettendo così la pietra tombale all’unica via di alleggerimento dei centri di accoglienza nell’attesa di un futuro accordo sul Patto migrazione e asilo. Il processo agli assassini di Regeni non si farà. Il governo ricorra alla Corte dell’Onu di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 12 febbraio 2023 Solo il Tribunale internazionale dell’Aia può affrontare quello che ormai è diventato un conflitto tra Stati. A meno di non voler privilegiare i rapporti economici e politici su gas, armi, terrorismo, migranti e Libia. Al rientro dalla sua visita al governo egiziano, il ministro degli Esteri Tajani si è detto rassicurato dal presidente al-Sisi sulla disponibilità a collaborare alle indagini sulle torture e sull’uccisione di Giulio Regeni nel gennaio 2016. Sono passati sei anni e la collaborazione non c’è mai stata. Ci sono invece stati sviamenti e rifiuti, fino a che la Procura generale egiziana ha dichiarato che non c’è più nulla da fare per identificare i responsabili e che il procedimento in corso in Italia è privo di basi. Le indagini in Italia si sono svolte tra enormi difficoltà, ma hanno portato comunque la Procura della Repubblica di Roma a identificare alcuni funzionari di uno dei Servizi di sicurezza egiziani, che sono stati rinviati a giudizio davanti alla Corte d’Assise. Ma il processo non ha potuto aver luogo perché non è stato possibile notificare l’atto di accusa agli imputati in Egitto, con la data e luogo dell’udienza e gli avvisi stabiliti dalla legge. Una impossibilità che deriva dall’ostruzionismo delle autorità egiziane, insuperabile da parte italiana. Ora la Corte di cassazione ha confermato che senza quelle notificazioni agli imputati non è possibile in Italia procedere al giudizio, che deve svolgersi secondo le regole del giusto processo stabilite dalla legge in uno Stato di diritto. Poiché le rassicurazioni di cui il ministro degli Esteri si è fatto portavoce non hanno alcuna credibilità, è molto probabile che quel processo, “che non s’ha da fare”, effettivamente non si faccia mai. Vi sono in Italia i genitori di Giulio Regeni che fin da subito si battono perché la verità venga accertata in giudizio. Vi è anche un generale diritto alla verità, che è stato riconosciuto a livello internazionale, in casi gravi come quello di cui Regeni è stato vittima. Il governo italiano è tenuto a proteggere i propri cittadini all’estero, cosicché oggi è obbligato ad agire perché i responsabili siano identificati e puniti. L’uccisione di Regeni mentre era nelle mani dei Servizi di sicurezza egiziani e il rifiuto delle autorità egiziane di collaborare con quelle italiane sono causa di responsabilità verso l’Italia. Poiché è ora di smettere di far finta di credere alle rassicurazioni egiziane, spetta al governo italiano ricorrere alle istanze internazionali competenti: in questo caso la Corte internazionale di giustizia. Dal 2016 si sono succeduti i governi Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi e ora, da poco, il governo Meloni. L’Italia con tutti i suoi governi ha ricevuto assicurazioni, seguite dalla umiliazione del rifiuto di collaborazione. Si tratta di un diritto stabilito dalle Convenzioni internazionali che legano sia l’Italia che l’Egitto. Anche il Parlamento europeo è intervenuto denunciando le prassi egiziane e sollecitando sanzioni contro i funzionari egiziani responsabili. Ma la responsabilità primaria è dell’Italia. Il conflitto è palesemente ormai tra Stati. Purtroppo, dopo la dichiarazione sopra riportata della Procura generale egiziana, il ministero degli Esteri ha dimostrato la volontà di sottrarsi al conflitto, riportando il contrasto al livello delle due magistrature. Ma ora non è più possibile farlo, continuando a perdere tempo e a illudere, forse, i genitori di Regeni e l’opinione pubblica italiana (ed anche indebolendo la credibilità internazionale dello Stato). Da tempo la via da imboccare è stata identificata e segnalata. Ne ho dato conto in un articolo su questo giornale del 3 gennaio 2021, due anni orsono. Ne ha indicato la necessità la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Regeni nella unanime sua relazione finale del 1° dicembre 2021. Nello stesso senso si è espressa la Società italiana di diritto internazionale. Ora la Corte di cassazione scrive che la soluzione dello stallo cui si è giunti non è risolubile a livello giudiziario; incombe invece sul governo anche alla luce degli obblighi di assistenza e cooperazione discendenti dalle Convenzioni internazionali, come quella contro la tortura del 1984, ratificata dall’Italia nel 1988 e dall’Egitto nel 1984. Cosa ci vuole di più perché il governo accetti la realtà di un conflitto tra Stati? Con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura gli Stati si sono impegnati ad impedire che atti di tortura siano commessi nel proprio territorio; essi si sono anche obbligati e svolgere indagini efficaci e indipendenti e darsi la più ampia assistenza giudiziaria in qualsiasi procedimento penale relativo alla tortura, comunicandosi tutti gli elementi di prova. È ormai sicura la violazione di quegli obblighi internazionali da parte dell’Egitto. Il governo italiano dovrebbe attivare subito gli strumenti previsti dalla Convenzione contro la tortura. Essa prevede che una controversia sulla sua interpretazione o applicazione, non risolvibile tramite negoziazione, sia sottoposta ad arbitrato. Se le parti non giungono ad un accordo sull’organizzazione dell’arbitrato, ciascuna di esse può sottoporre la controversia alla Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta della Corte delle Nazioni Unite che decide le controversie internazionali. Qui non c’è soltanto da far valere la ragione italiana in un caso di omicidio e tortura di cui è stato vittima un suo cittadino. La tortura è un crimine contro l’umanità. La comunità internazionale, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ha preso su di sé l’onere di far tutto il possibile per prevenire, far cessare e reprimere ogni fatto di tortura. Il governo italiano, membro della comunità internazionale, attivando i meccanismi della Convenzione contro la tortura, può dimostrare che essa esprime un impegno serio. I rapporti economici e politici tra Italia ed Egitto (gas, forniture militari, contrasto al terrorismo, migranti, Libia) sono molto importanti. È questo che spiega la ritrosia del governo italiano? Recentemente, per assicurarsi le necessarie forniture di energia, l’Italia ha sottoscritto accordi con alcuni Paesi più che problematici sul piano del rispetto dei diritti fondamentali. Se l’Italia con l’Egitto si dimostra debole e rassegnata, la sicurezza dei suoi cittadini anche in quei Paesi è messa a rischio. Non dovrebbe passare l’idea che “con l’Italia si può fare”. Stati Uniti. Colpito con il taser dalla polizia: muore un afroamericano di 32 anni di Alberto Simoni La Stampa, 12 febbraio 2023 Darryl Tyree Williams, afroamericano di 32 anni, è morto in ospedale dopo essere stato ripetutamente colpito con una pistola stordente dagli agenti di polizia a Raleigh, in North Carolina. L’episodio risale al 17 gennaio, ma i video - girati con le bodycam indosso agli agenti - sono stati diffusi solo venerdì sera dopo il via libera del giudice. Secondo il rapporto degli agenti Williams è stato avvicinato mentre si trovava sul sedile del guidatore di un’auto parcheggiata. Con lui c’era una seconda persona. Un poliziotto ha notato uno scatolone aperto con alcol e marijuana. E gli ha intimato di scendere dall’auto nella quale la polizia ha trovato due pistole, fra cui una rubata. In tasca Williams aveva dei dollari piegati e una “polvere bianca”. Il report della polizia dice che Williams ha avuto un alterco con gli agenti. E questo coincide con le immagini che sono state diffuse. Si sente Williams chiedere cosa ha fatto. Nel video si vedono gli agenti afferrare le braccia del giovane nel tentativo di ammanettarlo. L’uomo si dimena e cerca di resistere e a quale punto uno degli agenti a ricorrere al Taser. Le cariche stordenti sono state tre e, una volta che l’uomo si è calmato, una voce invita i colleghi a “rilassarsi” (“Chill Out”). Qualche secondo più tardi gli agenti si assicurano che ci sia ancora il battito cardiaco, quindi girano Williams a pancia all’insù. Sta ancora respirando. In un secondo video invece si vede un poliziotto appoggiare il ginocchio sopra l’uomo, si sentono dei lamenti. Poco dopo essere stato ammanettato, secondo il rapporto della polizia, l’uomo smette di respirare. La polizia gli ha praticato un massaggio cardiaco. Quando però il 32enne arriva in ospedale, trasportato dall’ambulanza, è già morto. Il giudice distrettuale Lorrin Freeman ha detto che l’autopsia è stata già compiuta ma che mancano i risultati definitivi. La famiglia non ha rilasciato alcune commento dopo aver visto in anteprima, giovedì sera, le immagini ha fatto sapere Dawn Blagrove che lavora per Emancipate NC, un movimento che si batte per la riforma della giustizia. I sei agenti coinvolti nella vicenda sono stati sospesi in attesa che termini l’inchiesta. E’ l’ennesimo caso di morte di un cittadino afroamericano durante un controllo. Il 10 gennaio a Memphis era morto Tyre Nichols, picchiato dagli agenti. La vicenda ha generato proteste in America e ha rilanciato la necessità di una riforma della polizia di cui anche Biden ha parlato nel discorso sullo Stato dell’Unione. Nicaragua. Ortega stringe la morsa sulla Chiesa: 26 anni di carcere al vescovo che non ha accettato l’esilio di Maria Antonietta Calabrò huffingtonpost.it, 12 febbraio 2023 Monsignor Álvarez è protagonista di un commovente video nel quale cantava un inno popolare mentre la polizia lo arrestava. Sono 222 i preti seminaristi e laici allontanati dal Nicaragua nei giorni scorsi. Un anno fa l’espulsione del nunzio apostolico: non accadeva dai tempi di Mao, in Cina. È stato condannato perché ha rifiutato di lasciare il Nicaragua per andare in esilio con altri 222 tra preti, seminaristi e laici in gran parte cattolici e altri oppositori al regime di Ortega (al potere dal 2007 e contro il cui regime dal 2018 si è registra una vera e propria sollevazione popolare soffocata nel sangue). Il vescovo ordinario di Matagalpa e amministratore apostolico della diocesi di Estelí, monsignor Rolando José Álvarez Lagos, dal 19 agosto 2022 era agli arresti domiciliari. E un commovente video rilanciato su Twitter dal direttore della Civiltà cattolica, Padre Antonio Spadaro, lo aveva mostrato al mondo mentre cantava alla polizia schierata alla porta la canzone popolare “El Amigo” l’equivalente nicaraguense del poema del cubano José Martì “Cultivo una rosa blanca”. I 222 hanno lasciato il paese qualche giorno fa, a seguito della pressione internazionale, riparando temporaneamente negli Stati Uniti. Il processo contro Álvarez doveva iniziare la settimana prossima, il 15 febbraio. Invece, visto che non ha voluto andarsene, la sentenza è arrivata prima dell’inizio del dibattimento. La Corte d’appello lo ha condannato a 26 anni di carcere. Leggendo la sentenza un giudice ha definito monsignor Álvarez, 56 anni, “un traditore della patria”. Se sopravviverà, potrà uscire di galera nel 2049. Il vescovo è stato accusato di “cospirazione per minare l’integrità nazionale e propagazione di notizie false attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione a danno dello Stato e della società nicaraguense”. Dopo la partenza per l’esilio dei 222, sono ancora detenuti nelle carceri nicaraguensi, oltre ad Alvarez altri due sacerdoti, Manuel García e José Urbina, del clero della diocesi di Granada. Altri cinque sacerdoti, un diacono e due seminaristi accusati di “cospirazione” e condannati a dieci anni di carcere sono invece arrivati negli Stati Uniti. Gli espulsi sono stati dichiarati “traditori della patria”, hanno avuto i loro “diritti cittadini sospesi a vita” e privati della cittadinanza. Per tutti i 222 la Spagna (secondo quanto riportato da Il Pais) potrebbe concedere la sua cittadinanza. Il presidente Daniel Ortega ha commentato la condanna di monsignor Álvarez alla televisione nazionale, definendo “assurda” la posizione del vescovo e affermando che è in carcere per “terrorismo”. In una lettera datata 6 febbraio e indirizzata a monsignor Carlos Enrique Herrera Gutiérrez, presidente della Conferenza episcopale del Nicaragua, il cardinale Jean-Claude Hollerich in qualità di presidente della Comece, la Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità Europea, ha pubblicamente denunciato che la Chiesa cattolica del Paese centramericano “sta affrontando una profonda sofferenza a causa della persecuzione dello Stato”, con una situazione che si è progressivamente aggravata di recente “con la chiusura di stazioni radio cattoliche, l’ostruzione dell’accesso alle chiese da parte della polizia e altri gravi atti che turbano la libertà religiosa e l’ordine sociale”. Il 12 marzo del 2022 è stato espulso addirittura il nunzio apostolico, cioè l’ambasciatore del Papa nel Paese. L’ultima volta nel mondo era accaduto nel 1951, quando il nunzio fu espulso dalla Cina di Mao. Ma in quel caso non si trattava di una nazione a maggioranza cattolica. L’espulsione era avvenuta dopo che, per lunghi anni, la Santa Sede e la sua diplomazia hanno cercato un dialogo con la dittatura di Ortega, nonostante essa abbia insanguinato il Paese, schiacciato l’opposizione e perseguitato la Chiesa nicaraguense, spingendosi fino ad un tentativo di assassinio di un vescovo, monsignor Juan Abelardo Mata Guevara. Un altro alto prelato, monsignor Silvio Báez, ausiliare di Managua, ha dovuto abbandonare il Paese, perché non gradito. È stato trasferito dal Papa da Managua a Roma (per metterlo al riparo da un altro attentato già programmato) e poi, per sua decisione si è stabilito a Miami, dove vive e lavora ora per il Nicaragua. Il punto è, comunque, che neppure questo è bastato ad Ortega, così come il negoziato perseguito dal Nunzio (contro il parere di tutti i vescovi nicaraguensi). Alla fine, Ortega ha buttato fuori anche l’Ambasciatore del Papa, Waldemar Stanislaw Sommertag, a Managua dal 2018. Il Nicaragua non è un Paese qualsiasi per gli italiani e per la storia d’Italia. Perché è stato rifugio sicuro per i protagonisti di due grandi misteri italiani e vaticani del secolo scorso: la bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e la storia del sequestro e uccisione di Aldo Moro. Grazie all’Ambrosiano Group di Managua (nel cui consiglio d’amministrazione sedeva il faccendiere sardo Flavio Carboni, morto nel gennaio 2022) sparirono nel nulla centinaia di milioni di dollari della banca milanese. E nello stesso periodo, agli inizi degli anni Ottanta si è rifugiato nel Nicaragua di Ortega l’unico brigatista rosso, Alessio Casimirri, per cui l’Italia nel 2018 ha chiesto formalmente l’estradizione e che non ha scontato neppure un giorno di carcere, nonostante la condanna definitiva per la strage di via Fani e l’assassinio di Aldo Moro ed altri cinque ergastoli per efferati delitti. La figlia di Casimirri ha guidato alcuni gruppi militari armati che hanno dato manforte al regime per soffocare la rivolta del 2018. Il Nicaragua, infine, è il paese di cui un figlio del capo della loggia massonica P2 Licio Gelli, Maurizio è stato per anni ambasciatore, prima in Uruguay e più di recente in Canada.