“Usa il corpo come arma”. Ora è il digiuno di Cospito il motivo del carcere duro di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 febbraio 2023 A maggio scorso Alfredo Cospito fu sottoposto al “41 bis” perché dalla prigione in cui era rinchiuso “istigava” gli anarco-insurrezionalisti in libertà a compiere nuovi attentati. Il “carcere duro” gli ha precluso questa possibilità, ma ora è lo sciopero della fame contro quel regime detentivo (portato avanti da oltre no giorni) a fomentare i suoi compagni. E questo, secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio è il motivo per cui il “41 bis” non può essere revocato. C’era la strada alternativa indicata dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo - l’Alta sicurezza con “ulteriori opportune forme si controllo”, in grado di garantire l’incomunicabilità con l’esterno ma disinnescando le ragioni della protesta, e dunque il pericolo di nuove violenze - che però il Guardasigilli non ha voluto percorrere. Imboccando quello che al momento sembra un vicolo cieco, stando alle parole dell’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore di Cospito: “Lo do quasi per scontato che muoia, per quanto mi riguarda sono settimane che considero imminente il tracollo. Anche a sentire i medici Alfredo dimostra di avere una tempra particolarmente forte, ma che l’esito di questa vicenda sia la sua fine mi sembra scontato”. Conclusione che nessuno si augura. Anche perché pure da morto, proprio seguendo il ragionamento ministeriale che ha confermato il “carcere duro”, l’anarchico non cesserebbe di essere una minaccia. A conferma del vicolo cieco in qualche modo illustrato nel provvedimento firmato da Nordio. Quello che conta in questo momento, sostiene il Guardasigilli, non è il possibile “concorso” del detenuto “nelle singole azioni violente e intimidatorie” commesse fuori dal carcere (che pure sono “incontestabile conseguenza delle sue indicazioni ideologiche”), bensì “la sua capacità di orientare le iniziative di lotta verso strategie e obiettivi sempre più rilevanti”. Dimostrata proprio dallo sciopero della fame, “forma di protesta tradizionalmente non violenta che invece, nel caso di specie, ha assunto un significato assolutamente opposto”. Dopo che Cospito ha pronunciato la frase “il corpo è la mia arma”, si sono moltiplicate gli attentati compiuti in segno di solidarietà con la sua ribellione al provvedimento, e il ministro accusa: “Ciò rappresenta una ulteriore dimostrazione non solo della estrema pericolosità di Cospito, ma anche della persistente, e anzi aumentata, possibilità che egli mantenga contatti con una vasta area di gruppi collegati all’ideologia anarco-insurrezionalista”. Secondo il Guardasigilli “proprio il succedersi di eventi critici legati indubitabilmente alla galassia anarco-insurrezionalista” di cui il detenuto fa parte, cioè le proteste di piazza e le azioni violente a suo sostegno, “aumenta il rischio di collegamento operativo del detenuto con la sua associazione criminale di riferimento”. Un pericolo che può essere “contenuto” - secondo il provvedimento in cui Nordio cita il parere della Procura generale di Torino, ma non quelli della Procura distrettuale e della Dna - solo con il mantenimento del “41 bis”. L’avvocato Rossi Albertini lamenta che il ministro non sia entrato nel merito delle contestazioni contenute nella sua istanza di revoca, e ritiene che “il rigetto non sia scevro da condizionamenti esterni di tipo politico”; annuncia un nuovo reclamo al tribunale di sorveglianza di Roma, nel quale però nutre scarsa fiducia; considera l’accusa di “istigare una galassia” talmente fumosa da diventare un pretesto per zittire il proprio assistito, e cita le sue parole: “Hanno deciso di tumularmi dentro un sarcofago di cemento”. Il prossimo passo è l’appuntamento alla Corte di cassazione, dove il 24 febbraio si terrà l’udienza per discutere il ricorso dello stesso avvocato contro il diniego della Sorveglianza pronunciato a dicembre. L’ex senatore Luigi Manconi, promotore di una campagna d’opinione in favore di Cospito, si augura che in caso di annullamento di quel diniego il ministro torni sui suoi passi revocando il “41 bis”, che il difensore dell’anarchico considera l’unica possibilità per far cessare il digiuno del suo assistito: “Non accetterebbe né l’alimentazione forzata né la sospensione temporanea della pena per motivi di salute”. Ma Nordio ha già interpellato il Comitato nazionale di bioetica per chiedere come comportarsi con un detenuto che metta volontariamente a rischio la propria vita. Cospito, “il corpo come arma”: Nordio preme per il Tso di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 febbraio 2023 Per il ministro, il digiuno dell’anarchico non è nonviolento. E scrive al Comitato di Bioetica. L’avvocato Rossi: “Smetterà lo sciopero della fame solo se gli revocano il 41 bis”. L’”articolato provvedimento” con il quale il ministro Nordio giovedì ha rigettato la richiesta di revoca anticipata del 41 bis per l’anarchico Alfredo Cospito - documento reso noto ieri dall’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini, in conferenza stampa alla Camera con il professor Luigi Manconi - rischia di trasformarsi in una toppa peggiore del buco che il silenzio/diniego del Guardasigilli avrebbe lasciato se non avesse risposto fino a domani, domenica 12. Perché nelle nove pagine di analisi tecnico-giuridica sulla situazione del detenuto, che dal 20 ottobre scorso è in sciopero della fame, il giurista Carlo Nordio sembra perdere la bussola del garantismo arrivando ad affermazioni che somigliano più a opinioni politiche. “Alfredo Cospito ha iniziato lo sciopero della fame, forma di protesta tradizionalmente non violenta che invece, nel caso di specie ha assunto un significato assolutamente opposto - scrive Nordio - La dimostrazione la si trae da una frase pronunciata da Cospito: “Il corpo è la mia arma”. Il corpo di Alfredo Cospito è divenuto il catalizzatore che serviva all’azione strategica del detenuto che chiedeva unità di intenti e obiettivi pur lasciando a ciascuna formazione la libertà e l’autodeterminazione in relazione alla tipologia di atti da compiere”. Una frase, secondo l’ex senatore Luigi Manconi, fondatore dell’associazione A buon diritto, che “è un chiaro esempio di analfabetismo sintattico e culturale, perché quel dire “il corpo è la mia arma” è un’immagine retorica di quel tipo di lotta, un topos della letteratura che ha il suo fascino”. Nello spiegare che “gli appelli del detenuto - al di là dell’assenza di un suo specifico mandato per ogni singola vicenda violenta e intimidatoria - non solo non vengono ignorati ma si sono trasformati in un’onda d’urto propagatasi sul territorio nazionale e all’estero”, il ragionamento politico di Nordio senza contraddittorio trascura poi il paradosso che ad aver veicolato e amplificato maggiormente il messaggio di Cospito, trasformandolo in una sorta di martire, è stato lo stesso atteggiamento “irriducibile” del ministero che non ha accolto il suggerimento della Direzione nazionale antimafia di spostare l’anarchico in regime di Alta sicurezza. In ogni caso, secondo Nordio, le manifestazioni, le azioni, le minacce e gli attentati che si sono registrati nelle ultime settimane, in supporto all’uomo che attualmente è detenuto nel carcere di Opera-Milano, “rappresentano - si legge nel documento ministeriale - un’ulteriore dimostrazione non solo della estrema pericolosità di Cospito ma anche della persistente, e anzi aumentata, possibilità che egli mantenga contatti con una vasta area di gruppi collegati alla ideologia anarco-insurrezionalista”. Riguardo le novità processuali sulle quali l’avvocato aveva fondato il ricorso al ministro Nordio, “desta sconcerto leggere - commenta Rossi Albertini nella sala stampa di Montecitorio - che l’assoluzione con formula piena degli imputati nel processo Bialystok non abbiano per il Guardasigilli alcuna valenza, malgrado lo stesso decreto applicativo del 41bis firmato dall’allora ministra Cartabia era fondato sulle accuse formulate in quel procedimento”. Riguardo poi la salute di Cospito, “si è in presenza - scrive Nordio - non già di una persona affetta da una patologia cronica invalidante ma di un soggetto sano e lucido che si sta volontariamente procurando uno stato di salute precario per finalità ideologiche”. L’avvocato spiega però che l’anarchico “sospenderà lo sciopero della fame solo quando gli sarà revocato il 41bis, e non si accontenterà di un dibattito parlamentare o pubblico sul regime di carcere duro” cui sono sottoposti oltre 740 detenuti. Neppure la possibile sospensione della pena sarebbe accettata dall’anarchico, assicura Rossi Albertini. Eppure, insiste Manconi, “il pallino è ancora nelle mani di Nordio che potrebbe cambiare idea se il 24 febbraio prossimo fosse positivo il responso della Cassazione”. Ma i tempi sono incompatibili con lo sciopero della fame del detenuto, e lo sono tanto più per il ricorso al Tribunale di sorveglianza contro il rifiuto del ministro che l’avvocato sta già preparando. D’altronde, ammette Manconi, “questa forma di lotta personale può prevedere, nell’ideologia di Cospito, anche la sua conclusione tragica”. Nel frattempo però, secondo fonti di via Arenula, “il ministero ha inviato il 6 febbraio al comitato nazionale di bioetica - con una nota a firma del capo di Gabinetto - un quesito relativo alle disposizioni anticipate di trattamento, qualora arrivino da un detenuto che in modo volontario abbia deciso di porsi in una condizione di rischio per la salute e che indichi il rifiuto o la rinuncia ad interventi sanitari anche salvavita”. “Cospito rischia la vita, lo Stato ha il dovere di ricorrere al Tso” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2023 Se le condizioni precipiteranno il detenuto sarà sottoposto ad alimentazione forzata in ospedale: “Non si può far morire un uomo”. Il giorno dopo la conferma del 41-bis all’anarchico Alfredo Cospito da parte del ministro Carlo Nordio, l’avvocato Flavio Rossi Albertini si dice sicuro del peggio: “Ma è possibile che nel 2023 un anarchico in sciopero della fame possa morire in carcere? Io do quasi per scontato questo esito”, ha detto il legale, ricordando che in quasi quattro mesi “è dimagrito di 47 kg”. Cospito è arrivato a maggio a Sassari, alla sezione 41-bis che pesava 117 kg, ora 70 e, nel frattempo, è stato trasferito a Opera che ha una struttura sanitaria migliore. L’avvocato prospetta ciò che nessuno vuole che accada, la morte del detenuto, ma lo Stato, se le condizioni di salute di Cospito dovessero precipitare, ha la via per salvarlo, doverosamente, tramite un trattamento sanitario obbligatorio, anche se il detenuto ha già fatto sapere che lo rifiuterà. “La diffida inviata dall’avvocato al ministero non vale nulla - spiegano al Fatto fonti giudiziarie - i medici penitenziari hanno il dovere di salvare una vita. È come se un agente assistesse al tentato suicidio di un detenuto e non lo fermasse”. Nel dubbio, il ministero della Giustizia il 6 febbraio ha chiesto un parere anche al Comitato di bioetica sul comportamento da tenere qualora un detenuto rifiuti interventi sanitari anche salvavita. Al momento le condizioni di salute di Cospito sono “stabili”, dicono fonti mediche di Opera, ma se dovessero aggravarsi verrà trasferito nel reparto penitenziario dell’ospedale San Paolo di Milano. Ed è lì che i medici, secondo la procedura, sentito il parere di uno psichiatra, possono chiedere l’autorizzazione al sindaco per operare un trattamento sanitario obbligatorio per ricorrere all’alimentazione forzata. Cospito ieri ha di nuovo rifiutato la visita psichiatrica, ma se le sue condizioni peggiorassero, lo psichiatra può comunque fare una relazione sulla base di documentazione medica disponibile e dare il parere positivo al Tso. Tuttavia, altre fonti giudiziarie, poiché la materia non è del tutto regolamentata, ci hanno spiegato che il medico, di fronte a un intervento salvavita, può comunque agire anche senza il parere dello psichiatra. Da escludere l’altra possibilità per porre fine allo sciopero della fame, ossia la richiesta della grazia al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che realisticamente viene scartata dall’avvocato: “Conoscendolo non credo che faremo appello a Mattarella. Allo stesso modo non ci rivolgeremo nemmeno a Papa Francesco. Il mio assistito è un anarchico individualista. In ogni caso, nessuno la concederebbe”. Il difensore ribadisce che Cospito vuole l’abolizione del 41-bis: “Hanno deciso di tumularmi in questo sarcofago di cemento”, ha detto ieri al suo legale, il quale, con riferimento alle conversazioni contro il 41 bis di Cospito con boss, dice: “È strumentale vedere convergenza fra lui e la criminalità organizzata”. Rossi Albertini fuga anche qualsiasi ipotesi residua di fine sciopero della fame: “Lo sospenderà solo quando sarà revocato il 41-bis e non se si avvierà un dibattito parlamentare sul regime di carcere duro. Non è una simulazione”. Ma le forze di governo e di opposizione hanno ribadito che non si può revocare una misura “sotto ricatto”. Il ministro della Giustizia Nordio, nel provvedimento di conferma del 41-bis, aveva scritto che “permane immutata la capacità del detenuto di orientare le iniziative di lotta della galassia anarco-insurrezionalista verso strategie e obiettivi sempre più rilevanti… Le condizioni di salute di Cospito derivanti in via esclusiva dallo sciopero non sono tali da incidere in maniera significativa sulla sua rilevante pericolosità sociale” e non giustificano l’annullamento del 41-bis, dato che “si è in presenza non già di una persona affetta da una patologia cronica invalidante, ma di un soggetto sano e lucido” che sta utilizzando il corpo “come un’arma” per “finalità ideologiche”. Per “orientare le iniziative di lotta della galassia anarco-insurrezionalista”. L’unica via che resta a Cospito è quella giudiziaria: il 24 febbraio, la Cassazione deciderà se dare ragione al Tribunale di Sorveglianza di Roma, che ha confermato il 41-bis deciso dall’ex ministra Marta Cartabia, o se dare ragione all’anarchico che ne aveva chiesto la revoca. In questo caso, tornerebbe all’Alta sicurezza, ma il ministro della Giustizia Nordio, se rilevasse nuovi elementi di pericolosità, rispetto ai precedenti, potrà firmare un nuovo provvedimento di 41 bis. Cospito “Sano e lucido, si è ammalato da solo”, le motivazioni di Nordio al no alla revoca del 41 bis di Viola Giannoli e Liana Milella La Repubblica, 11 febbraio 2023 Gli appelli dell’anarchico, scrive il ministro, “al di là dell’assenza di un suo specifico mandato per ogni singola vicenda violenta e intimidatoria, non solo non vengono ignorati ma si sono trasformati in un’onda d’urto propagatasi sul territorio nazionale e all’estero”. L’istanza di Alfredo Cospito di revoca anticipata del regime del 41 bis è stata respinta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio perché “permane peraltro immutata la capacità del detenuto di orientare le iniziative di lotta della galassia anarco-insurrezionalista verso strategie e obiettivi sempre più rilevanti”. È questo uno dei passaggi che si leggono nel provvedimento firmato ieri dal ministro della Giustizia. “La pericolosità confermata dalle azioni degli anarchici” - Il ministro evidenzia: “I profili di pericolosità correlati al ruolo associativo di Alfredo Cospito (al di là della sua partecipazione di tipo concorsuale negli specifici episodi illeciti) risultano confermati dal moltiplicarsi delle azioni intimidatorie e violente seguite alla adozione del regime carcerario differenziato da parte di gruppi anarco insurrezionalisti”. Gli appelli di Cospito, “al di là dell’assenza di un suo specifico mandato per ogni singola vicenda violenta e intimidatoria, non solo non vengono ignorati ma si sono trasformati in un’onda d’urto propagatasi sul territorio nazionale e all’estero”. Così si legge nel provvedimento che riguarda l’anarchico detenuto a Opera. “Invero, il mondo antagonista si muove ispirandosi ad Alfredo Cospito e a sostegno di costui, mediante azioni violente e di grave intimidazione, ossia proprio ciò che il detenuto propugna e che viene immediatamente raccolto e tradotto in pratica e in atti concreti”, viene sottolineato nel provvedimento. “Sano e lucido, si provoca da solo uno stato di salute precario” - Non solo: “Si è in presenza non già di una persona affetta da una patologia cronica invalidante ma di un soggetto sano e lucido che si sta volontariamente procurando uno stato di salute precario per finalità ideologiche, perseverando nella sua condotta nonostante i reiterati inviti da parte dell’autorità sanitaria a desistere dal mantenere tale condotta autolesionistica”. Per il ministro “le condizioni di salute di Cospito, derivanti in via esclusiva dallo sciopero della fame da lui attuato sin dalla data del 20 ottobre 2022, non sono tali da incidere in maniera significativa sulla sua rilevante pericolosità sociale e non sono idonee a giustificare l’adozione del domandato provvedimento di revoca anticipata del regime differenziato previsto dal 41 bis”. “Il suo sciopero della fame è violento” - E ancora, nel provvedimento si legge: “Alfredo Cospito ha iniziato lo sciopero della fame, forma di protesta tradizionalmente non violenta che invece, nel caso di specie ha assunto un significato assolutamente opposto. La dimostrazione la si trae da una frase pronunciata da Cospito: ‘il corpo è la mia arma’. Il corpo di Alfredo Cospito è divenuto il catalizzatore che serviva all’azione strategica del detenuto che chiedeva unità di intenti e obiettivi pur lasciando a ciascuna formazione la libertà e l’autodeterminazione in relazione alla tipologia di atti da compiere”. “La richiesta di revoca non demolisce il 41 bis” - Infine Nordio scrive: “Gli elementi addotti a sostegno della richiesta di revoca anticipata del regime carcerario differenziato previsto dall’art. 41 bis applicato nei confronti del detenuto non sono dotati della necessaria portata demolitoria dei presupposti per il mantenimento di tale regime e risultano, in realtà, di valenza neutra”. Cospito dopo il no alla revoca del 41 bis: “Hanno deciso di tumularmi in questo sarcofago” di Francesco Grignetti La Stampa, 11 febbraio 2023 La denuncia dell’anarchico in sciopero della fame. Il suo avvocato: “Morirà”. Alfredo Cospito, a differenza del suo avvocato, non si era illuso. Pensava che gli avrebbero confermato il carcere duro e così è stato. Perciò ha accolto la notizia con aplomb britannico. “Grazie, me l’aspettavo”. Dal suo punto di vista, la questione è semplice: la battaglia continua ad oltranza, e se finirà con la sua morte, il suo volto si trasformerà in uno spettro che inseguirà in eterno Giorgia Meloni e Carlo Nordio. Cospito se l’attendeva perché ritiene da sempre che il regime del 41bis che il precedente governo gli ha imposto, sia stata una scelta del potere - e qui da anarchico individualista non fa alcuna distinzione tra potere politico e potere giudiziario - per tappargli la voce. “Mi considerano troppo sovversivo e per questo mi hanno tumulato vivo in un sarcofago di cemento armato”, ha detto al suo avvocato Flavio Rossi Albertini, con frase melodrammatica. A Cospito, che prima di essere un terrorista è soprattutto un ideologo, piacciono le frasi ad effetto. Quando annunciò lo sciopero della fame, il 20 ottobre scorso, ben 113 giorni fa, disse: “Il mio corpo sarà la mia arma”. L’ex senatore Luigi Manconi, che più di tutti ha preso a cuore la sua protesta, lo definisce “un topos letterario” e chi lo prende letteralmente è “un analfabeta funzionale”. Al contrario, secondo i magistrati interpellati dal ministro Carlo Nordio, che due giorni fa ha confermato il carcere duro, quella frase è inquietante e allusiva. Nonostante il digiuno, resta la pericolosità sociale. I suoi appelli “al di là dell’assenza di un suo specifico mandato per ogni singola vicenda violenta e intimidatoria - scrive Nordio - non solo non vengono ignorati ma si sono trasformati in un’onda d’urto propagatasi sul territorio nazionale e all’estero”. Il ministro qualifica lo sciopero della fame come una forma di lotta politica. “Si è in presenza - scrive ancora - non già di una persona affetta da una patologia cronica invalidante, ma di un soggetto sano e lucido che si sta volontariamente procurando uno stato di salute precario per finalità ideologiche”. Non si tratta di un detenuto malato a cui eventualmente sospendere la pena, ma che cerca di forzare la mano ai magistrati e all’Esecutivo. Come conferma peraltro il suo avvocato: “Cospito non mollerà finché sarà al 41bis. Andrà fino in fondo in quanto soggetto politico. Sono rassegnato all’esito inevitabile”. La Superprocura aveva ipotizzato una soluzione che avrebbe salvaguardato le esigenze di sicurezza e quelle umanitarie: il passaggio dal carcere duro all’Alta sicurezza, con obbligo di censura sulle comunicazioni. Per Manconi, “sarebbe stata una soluzione intelligente. Invece è arrivata una decisione squisitamente politica”. E ormai è tardi. Il ministero ha inviato il 6 febbraio al comitato nazionale di bioetica un quesito relativo alle disposizioni anticipate di trattamento, “qualora arrivino da un detenuto che in modo volontario abbia deciso di porsi in una condizione di rischio per la salute e che indichi il rifiuto o la rinuncia ad interventi sanitari anche salvavita”. Il parere del comitato potrebbe portare all’alimentazione forzosa. “Se si arrivasse a tanto - commenta l’avvocato - sarebbe contrario alle disposizioni della persona, irrispettoso delle sue volontà. E anche se andrebbe contro le ragioni dell’etica, ci opporremmo”. Ora il difensore può fare ricorso al tribunale di sorveglianza. Ma non ci crede. “Sarà inutile. La volta scorsa ci sono voluti 8 mesi per fissare un’udienza”. L’alternativa è sperare in un annullamento con rinvio da parte della Cassazione il prossimo 24 febbraio. “A quel punto, potrebbe essere considerato un fatto nuovo che ci permetterebbe un altro ricorso al ministro”. Ma è un braccio di ferro senza vie di fuga perché il governo non intende cedere e Cospito, che ritiene il suo 41bis “una torsione del diritto”, vuole andare fino in fondo. Non sono previste alternative. Dice l’avvocato: “Forse non avete capito che è un anarchico individualista. Non farà mai appello al Presidente della Repubblica o al Santo Padre”. Nordio condanna a morte Cospito, l’anarchico non mangia da quattro mesi: “Si lascerà morire” di Frank Cimini Il Riformista, 11 febbraio 2023 Il ministro Carlo Nordio con un provvedimento articolato ha rigettato la richiesta di revoca dell’articolo 41bis presentata dall’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini. Resta la speranza del ricorso in Cassazione contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza. La scelta di Nordio a questo punto era largamente prevedibile nonostante la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo diversamente dal parere della procura generale di Torino nettamente contraria avesse lasciato qualche speranza con la possibilità di sostituire il 41bis con l’alta sorveglianza. Ma il ministro ha deciso di restare sulla stessa linea scelta in pratica dall’inizio della vicenda. “Alfredo Cospito ha perso quasi 50 chili, non prende più gli integratori. Aspettiamo la giornata di sabato quando il nostro medico di parte gli farà visita, riuscirà a vedere le cartelle cliniche e a farsi un’idea del suo effettivo stato di salute. Cospito andrà avanti fino alle estreme conseguenze e se è giunto fino a oggi non ho ragione di dubitare che sia determinato ad arrivare alle estreme conseguenze, a morire”. Così l’avvocato Flavio Rossi Albertini all’uscita del carcere di Opera dopo un colloquio di un paio di ore con il suo assistito prima che arrivasse la notizia della decisione assunta dal ministro della Giustizia. Il legale dice di temere “queste affermazioni che aleggiano ogni tanto da parte dei medici su possibili Tso, su possibili valutazioni di natura psichiatrica che potrebbero aprire le porte all’alimentazione coatta. Non si comprende perché una persona che ha chiaramente espresso il suo punto di vista debba essere minacciato o posto nella condizione di quello che sarà il futuro sulle iniziative dei medici”. Secondo Flavio Rossi Albertini “mancano due settimane al pronunciamento della Cassazione sul nostro ricorso con cui abbiamo impugnato la conferma del 41bis da parte del Tribunale di Sorveglianza e due settimane mi sembrano tante considerando che ci avviciniamo a quattro mesi di sciopero della fame”. L’avvocato spiega inoltre che Cospito “è assolutamente cosciente e consapevole della gogna alla quale è sottoposto, della volontà di privare di pregio e di argomenti reali la sua battaglia, tentando di utilizzare altre forme come quella di essere uno strumento nelle mani della mafia”. Intanto si allarga la protesta studentesca come forma di solidarietà a Cospito. Dopo l’occupazione dell’ateneo di Lettere e Filosofia della Salienza a Roma e di una parte della facoltà di Farmacia della Statale di Milano, i collettivi hanno preso possesso anche dell’Istituto Orientale di Napoli. Oggi pomeriggio alla Camera dei Deputati la difesa di Cospito terrà una conferenza stampa per fare il punto della situazione sull’intera vicenda con l’obiettivo di replicare alle ricostruzioni fatte dai media. Parteciperanno Luigi Manconi presidente di “A buon diritto Onlus”, l’avvocato Rossi Albertini, l’onorevole Nicola Fratoianni e la giornalista Angela Stella. Domani a Milano e in altre città ci saranno ancora cortei e manifestazioni di appoggio alla battaglia di Cospito. L’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli ha ricordato di aver negato la revoca del carcere duro per esponenti della mafia che in cambio offrivano la possibilità di dissociarsi. “Ma tutto ciò sarebbe potuto apparire come una trattativa, come un cedimento da parte dello Stato, per cui dopo aver sentito il parere di importanti magistrati io dissi di no”, sono le parole di Castelli. Cospito, i Garanti: sì all’assistenza sanitaria, no all’alimentazione forzata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2023 Nella vicenda di Alfredo Cospito si intrecciano almeno tre questioni distinte: la tutela della sua vita e della sua salute, la legittimità del provvedimento di applicazione del regime di 41bis e della sua perdurante attualità e la questione dello stesso regime del 41bis. Tutte questioni che meritano risposte adeguate nel merito e nei tempi, sulle quali la Conferenza dei Garanti delle persone detenute, nominati dalle regioni, dalle province e dai comuni, prende posizione in un documento ad hoc. Secondo la Conferenza dei Garanti territoriali, l’Amministrazione penitenziaria, è responsabile delle condizioni di vita e di salute di Alfredo Cospito, ma “non certo della sua volontà di condurre il suo sciopero della fame anche fino alle estreme conseguenze, volontà che però non può essere coartata o negata, neppure attraverso forme di trattamento sanitario obbligatorio sotto forma di alimentazione forzata, se e quando dovesse perdere coscienza”. Quel che l’Amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza competente possono e debbono fare sulla base delle valutazioni mediche delle condizioni cliniche di Cospito, “è decidere - si legge nel documento della Conferenza dei Garanti territoriali - se e quando si manifesti necessario il trasferimento in ospedale, in modo da garantire nell’immediatezza gli interventi del caso che il paziente- detenuto ritenga di poter accettare sulla base del principio generale del consenso informato”. In merito alla legittimità dell’applicazione del 41bis a Cospito, i Garanti territoriali ricordano che “anche se il ministro ha respinto l’istanza di revoca presentata dal suo avvocato, è pendente il giudizio della Cassazione sulla decisione con cui il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto legittimo il decreto ministeriale di applicazione del regime speciale al militante anarchico, anticipato al prossimo 24 febbraio” e “che nuovi argomenti contro l’applicazione del 41bis nel caso specifico chiamano il ministro a una rivalutazione del caso anche sulla base dei pareri resi nei giorni scorsi dalle autorità giudiziarie e investigative competenti”. Sul regime previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, i Garanti territoriali ricordano che la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura hanno più volte giudicato legittimo la specialità del regime. Diverso il discorso sulla sua attuazione concreta. Non è del 41bis che si discute, ma “delle persone sottoposte a un regime di sostanziale isolamento per dieci, venti, trenta o più anni; dell’immiserimento di ogni possibilità di relazione affettiva; delle vessazioni cui coloro che ne sono destinatari sono costretti in virtù di leggi, circolari e prassi”. Prosegue la Conferenza dei Garanti territoriali che “non per cedere a ricatti, ma perché lo hanno chiesto nelle loro deliberazioni il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il Garante nazionale delle persone private della libertà, la Commissione diritti umani del Senato e finanche la Corte costituzionale, quando ha legittimato il 41bis nella misura in cui anche i detenuti a esso sottoposto siano destinatari dell’offerta trattamentale per il reinserimento che spetta a tutte le persone detenute in virtù dell’articolo 27 della Costituzione”. Si sottolinea nel documento che “di questo, dunque, si discuta, anche nelle sedi deputate, sulla base della copiosa documentazione istituzionale sulle storture e i limiti dell’applicazione concreta del 41bis, magari attraverso una indagine conoscitiva delle competenti commissioni parlamentari”. Il documento della Conferenza dei Garanti territoriali interviene infine sul tema della sorveglianza e della natura giuridica delle relazioni di polizia sulle informazioni raccolte in carcere durante le conversazioni tra detenuti, con i propri familiari o con persone in visita per funzioni istituzionali. “Lungi da noi voler entrare nel merito della polemica politica - si legge a tale proposito nel documento -, è emerso un difetto di regolamentazione legale di queste prassi che andrebbe colmato al più presto. E comunque va detto che le informazioni di polizia, a qualsiasi titolo raccolte, se rilevanti, vanno indirizzate all’autorità giudiziaria o alla superiore autorità di pubblica sicurezza, non già ai vertici ministeriali, politici o amministrativi”. La prova di forza di Nordio dettata da pure ragioni politiche di Ezio Menzione Il Dubbio, 11 febbraio 2023 Il caso Cospito non ha nulla a che fare col caso Ebru Timtik, si sente dire. Lui protesta contro un regime carcerario inumano, lei protestava contro un processo al di fuori di ogni legalità; lui ha accettato il processo, ma chiede modalità diverse di carcerazione, lei chiedeva che il processo farsa che l’aveva condannata venisse annullato; l’unico punto di contatto sarebbe lo sciopero della fame, con tutte le sue conseguenze, prevedibili per Cospito, già tragicamente consumate per Ebru. Ma è proprio così? I due casi sono poi così distanti? Dipende da cosa intendiamo per processo e quindi per fare giustizia. Il nostro ordinamento (e il nostro stesso codice di procedura penale), disciplina e articola sia i momenti in cui si forma la decisione penale, sia i momenti in cui la si esegue. È sempre stato così, almeno dai tempi di Beccaria: le due fasi non possono essere disgiunte e quando parliamo di giusto processo dobbiamo intendere anche esecuzione della pena secondo giustizia: anche la pena deve seguire criteri cui presiede la norma costituzionale. Anche sul processo a Cospito ci sarebbe molto da dire: basti considerare che i giudici del primo appello avevano escluso che il suo comportamento avesse integrato il reato del 285 Cp (strage politica) e dovesse essere inquadrato nel più mite, ma più logico 422 (strage comune) poiché non vi era in gioco la sicurezza dello Stato. La Cassazione aveva ribaltato questo punto con una arzigogolata sentenza che sembra partire da un preconcetto politico e a questo volersi attenere. Il giudice del rinvio, in evidente imbarazzo ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale perché si pronunci sul punto se vi sia modo di mitigare la pena dell’ergastolo che necessariamente discenderebbe dal 285. Ce ne è abbastanza per nutrire qualche dubbio. Ma oggi, di fronte alla decisione di Nordio di negare la revoca (o la sospensione) del 41 bis a Cospito, simili considerazioni sembrano un fuor d’opera, ma vanno tenute di conto come sfondo e presupposto della discussione sul 41 bis per l’anarchico detenuto. Oggi si discute se sia giusto lasciarlo morire per lo sciopero della fame. È arrivata infatti la notizia che Nordio ha formalmente rigettato l’istanza di revoca del 41 bis del detenuto Cospito, in sciopero della fame da 110 giorni e conseguentemente in fin di vita. Si noti: Nordio poteva mantenere il silenzio e fra tre giorni (a trenta giorni dall’istanza) tale silenzio avrebbe significato diniego. Invece ha voluto negarlo espressamente. Si noti anche: la Direzione Nazionale Antimafia, nel suo parere, si era espressa per “ridurre” il 41 bis al diverso e leggermente migliore regime di Alta Sicurezza (AS). Questo decalage, poteva indurre Cospito a cessare il suo sciopero della fame. Neanche a questo ha voluto accedere Nordio, che pure poteva scegliere fra revoca, sospensione e cambio di regime. In sostanza ha voluto dimostrare di “non cedere al ricatto” e di condividere la linea della “fermezza” del governo cui appartiene. Una decisione schiettamente e fortemente politica. Ma è lecito chiedersi: è giusto che una decisione così delicata sia inquinata da considerazioni politiche? Tutto l’itinerario del fare giustizia dovrebbe rispondere solo alle norme penali e di procedura, lasciando spazio semmai solo a considerazioni di umanità (vedi l’art. 133 CP), che sempre meno vengono riconosciute, ma che in questo caso avrebbero dovuto indurre a una qualche sia pur minima mitezza. Si potrà dire che Nordio è tenuto sotto pressione da tutto il governo di destra. Che una decisione difforme non poteva essere presa all’antivigilia di importanti elezioni regionali, quando la maggioranza dei cittadini (si dice, ma chi lo dice? I sondaggi? Bah!) sarebbe per rendere il 41 bis ancora più duro. Tutte motivazioni, come si vede, schiettamente politiche che non dovrebbero trovare spazio nel lungo iter del processo, all’interno del quale sta anche la disciplina dell’esecuzione della pena, anche quando, come in questo caso, essa è rimessa ad un atto amministrativo del Ministro. Ora la questione è di nuovo rimessa ai giudici: il tribunale di sorveglianza che dovrà pronunciarsi sulla legittimità del diniego odierno e la Cassazione sul ricorso stesso al 41 bis. Ma ci arriverà Cospito a tali date o morirà prima? Non era più logico sospendere il 41 bis fino a tali decisioni? Minimi criteri di precauzione lo imponevano. Ora si apre (ma si è già aperta) la questione del Trattamento Sanitario Obbligatorio, dell’alimentazione forzata e altre questioni che peraltro hanno già una risposta nella nostra Costituzione e nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. Gli animi si esacerberanno e intanto Cospito morirà, a meno che il giudice competente non decida in extremis di sospendere non il 41 bis, ma la pena stessa, come fortunatamente è già avvenuto in passato. Ragioni politiche e falle logiche nella decisione di Nordio sul 41 bis a Cospito di Giulia Merlo Il Domani, 11 febbraio 2023 Nelle motivazioni del ministero, si legge che l’anarchico ha usato “il corpo come arma” e che la sua protesta ha provocato gli attacchi dei giorni scorsi. Per questo deve rimanere al carcere duro. Seguendo questo argomento, però, l’unico modo per far sì che Cospito interrompa ogni istigazione delle azioni violente all’esterno sarebbe appunto quello di revocargli il regime speciale. L’altra opzione, confermandogli il 41 bis, è quella che lui muoia. Secondo l’avvocato Flavio Rossi Albertini, l’esito della vicenda è “quasi scontato”, ovvero la morte di Cospito, arrivato a 113 giorni di digiuno e con 47 chili persi, il cui tracollo sarebbe “imminente”. Dopo il rigetto dell’istanza di revoca del 41 bis all’anarchico Alfredo Cospito da parte del ministero della Giustizia, è il tempo dell’attesa. L’avvocato del detenuto, Flavio Rossi Albertini, ha annunciato l’impugnazione ma è il primo a non credere che possa essere efficace: “I tempi non sono compatibili con la salute di Cospito”, ha detto, specificando che lo stesso vale per l’udienza della Cassazione del 24 febbraio, su cui avrà un’influenza anche il rigetto ministeriale. Cospito era il primo ad aspettarsi il rigetto, ha confermato Rossi Albertini, secondo cui l’esito della vicenda è “quasi scontato”: la morte di Cospito, che ha perso 47 chili dopo 113 giorni di sciopero della fame. Il tracollo sarebbe “imminente”. La conferenza stampa alla Camera del legale, accompagnato dall’ex senatore Luigi Manconi, è stata anche il momento per replicare a distanza agli argomenti per il rigetto utilizzati dal ministero della Giustizia, che ha scelto di appoggiarsi soprattutto sulle argomentazioni del parere della procura generale di Torino, invece che su quelle della Direzione nazionale antimafia. La sentenza “neutra” - L’istanza si basava sull’elemento nuovo della sentenza di assoluzione degli anarchici del “Bencivenga occupato” da parte della corte d’assise di Roma che, secondo l’ipotesi accusatoria, erano ispirati anche dagli scritti di Cospito. Nel rigetto, il ministro Carlo Nordio ha definito la sentenza “di valenza neutra” per valutare la possibilità di modificare il regime del 41 bis per Cospito. Eppure, come ha spiegato Rossi Albertini, i presupposti per collocare al carcere duro un detenuto sono quelli di recidere i legami con organizzazioni terroristiche che commettono atti violenti. Tanto che proprio l’inchiesta sul “Bencivenga occupato” veniva citata nell’atto del ministero datato 5 maggio 2022 con cui il 41 bis è stato disposto, in cui si legge che i pm di Roma hanno rilevato una “continuità tra i dettami dell’ideologo Alfredo Cospito, detenuto, con la creazione di un’associazione con finalità di terrorismo e le condotte degli appartenenti a questa, individuati negli indagati del procedimento romano”. Tradotto: per il ministero l’indagine a carico degli anarchici è stata considerata uno degli argomenti di esempio per giustificare il 41 bis. La sentenza che ne è seguita e che ha assolto gli imputati escludendo ogni legame causale con gli scritti di Cospito, invece, non ha valore. L’avvocato ha smentito le tesi di collusione di Cospito con la mafia portate avanti dal deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, ricordando che i gruppi di socialità in carcere vengono decisi dall’amministrazione carceraria e che “Cospito condivideva i ragionamenti sul suo sciopero della fame con gli unici con cui poteva, limitatamente, parlare”. Fino al 23 dicembre il suo gruppo di socialità era composto da detenuti considerati inoffensivi, tanto è vero che non esistono conversazioni trascritte tra di loro. È a gennaio che l’amministrazione lo sposta di gruppo, inserendolo in uno composto da un boss mafioso, un ‘ndranghetista e un camorrista. Il corpo come arma - Al netto del dettaglio specifico, l’argomentazione principale utilizzata da Nordio per giustificare il mantenimento del 41 bis non è un cavillo giuridico. La tesi è che Cospito abbia aggirato il divieto di comunicare con l’esterno a cui serve il carcere duro con lo sciopero della fame. Secondo Nordio, il ruolo pericoloso di Cospito nell’influenzare la “galassia anarco insurrezionalista” è dimostrato dalle “azioni intimidatorie e violente seguite all’adozione del regime carcerario differenziato” e l’atto cita la lettera anonima arrivata al Tirreno del 28 dicembre 2022, l’incendio di un ripetitore a Torino il 28 gennaio e l’incendio di cinque macchine a Roma del 30 gennaio. Il ragionamento è stato recepito dal parere della procura generale di Torino, che è l’unica a venire citata nei passaggi di merito dell’atto. Secondo Nordio, quindi, prima del 41 bis Cospito orientava i comportamenti degli anarchici attraverso i suoi scritti. Dopo il 41 bis, li ha ugualmente orientati ma attraverso lo sciopero della fame che, “forma di protesta tradizionalmente non violenta”, nel caso di Cospito “ha assunto un significato assolutamente opposto”. A sostegno di questa tesi viene citata la frase pronunciata dal detenuto: “Il corpo è la mia arma”. Questi, secondo il ministero, sono le ragioni che impongono di mantenere Cospito al 41 bis, come unico strumento “capace di eliminare, o quantomeno di limitare, l’attività istigatrice” che mantiene nei confronti degli anarchici. Si pone però un problema logico. Il ministero sostiene che Cospito, dal regime di carcere duro, influenza gli anarchici non più attraverso gli scritti ma con lo sciopero della fame, che è disposto a cessare solo con la revoca del 41 bis. Seguendo questo ragionamento l’unico modo per far sì che Cospito interrompa ogni istigazione delle azioni violente all’esterno sarebbe appunto quello di revocargli il regime speciale. L’altra opzione, confermandogli il 41 bis, è quella che lui muoia. Col rischio, però, di trasformarlo in martire. Cosa succederà - “Si può ancora intervenire senza che questo comporti cedimenti per lo stato”, ha detto Manconi, riferendosi all’opzione dell’Antimafia di spostare Cospito al regime di alta sorveglianza con censura della corrispondenza. Altre strade per evitare che l’anarchico muoia nel carcere di Milano Opera non ne esistono. L’avvocato ha confermato che non ci saranno richieste di grazia al Quirinale e nemmeno un ricorso per chiedere la sospensione della pena per ragioni di salute, perché questo non servirebbe solo a differire la pena ma non ad eliminare il 41 bis. Inoltre, Cospito ha confermato nelle sue disposizioni anticipate di trattamento di non voler essere alimentato forzatamente. L’interrogativo, ora, come si possa intervenire e se qualcuno voglia farlo. Certo è che il ministero ha portato sul piano politico più che giuridico il confronto. Nella scelta di mantenere la linea della fermezza, infatti, si sente l’eco delle parole della premier Giorgia Meloni, quando ha detto di non voler cedere al ricatto terroristico generato dagli attacchi anarchici. Come può un uomo in fin di vita essere una minaccia allo Stato? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 11 febbraio 2023 Diremmo forse che se il regime iraniano smettesse di torturare i dimostranti avrebbe perduto autorevolezza e credibilità? Che cosa vuol dire “non cedere al ricatto?” Niente. È solo populismo. Ma quando un autocrate, esposto alla pressione di una protesta, o anche solo alla sorveglianza dell’opinione pubblica che ne denuncia i soprusi, decide di porre fine all’andazzo della sua prepotenza e la smette di perseverare nel proprio arbitrio, noi che cosa facciamo? Diciamo che ha ceduto al ricatto? I regimi segregazionisti avrebbero fatto bene a irrigidirsi, e noi avremmo compreso e giustificato quell’irrigidimento, giusto perché contro l’apartheid si sono sviluppate anche episodiche - e a volte anche molto gravi - manifestazioni di violenza? Ma voglio andare oltre, rendendomi conto di quanto possa apparire urticante il paragone: se, soverchiato dallo sdegno del mondo civile, il regime iraniano smettesse di torturare i dimostranti rastrellati dalla polizia morale, noi che cosa diremmo? Che ha perso di credibilità e autorevolezza calando le brache davanti a quella riprovazione? Quando, qualche giorno fa, Khamenei ha annunciato un pur improbabile e limitato intervento di clemenza, abbiamo forse pensato che in tal modo quella dittatura teocratica rischia di perdere la faccia? A chi obiettasse che è blasfemo assimilare il caso del 41 bis, e dell’iniziativa di Alfredo Cospito, e della “fermezza” che qui si rivendica, alle mostruosità e al contegno impassibile dei sistemi oppressivi, risponderei che si tratta invece - ed esattamente - della stessa questione. Anche qui si pretende infatti che la risposta dello Stato sia commisurata al comportamento di chi protesta anziché all’esigenza di ricondurre a giustizia un dispositivo di gratuita brutalità, il quale non ha nulla a che fare con le pretese esigenze securitarie che ne costituirebbero la giustificazione. Anche qui ci si esercita nello scrutinio della buona creanza di chi protesta, ma qui con punte di oltranza inquisitoria che lasciano allibiti, con il Guardasigilli liberale che si esibisce nell’investigazione grammaticale dei proclami del detenuto per concludere che l’iniziativa di sciopero della fame eccede il perimetro della nonviolenza: per il ministro, infatti, Cospito ha fatto denuncia del proprio subdolo tentativo insurrezionale dichiarando che il suo corpo è la sua “arma”. E anche qui si pretende di difendere un regime speciale di trattamento dei detenuti opponendone la manutenzione al più classico pericolo, l’”attacco allo Stato”, secondo la definizione di un altro ministro di questo governo: altrove lo Stato di Dio e della Rivoluzione, qui lo Stato dell’antimafia e lo Stato dell’antiterrorismo, i feticci in adorazione dei quali sono forse stati arrestati in questo Paese più innocenti che colpevoli. Lo Stato che riformasse questo incivile rimedio dell’ordinamento penitenziario non si piegherebbe davanti alla protesta di Cospito, ma davanti alla propria ingiustizia, e non si risolleverebbe più debole, ma più forte. Non si inchinerebbe agli intendimenti dei mafiosi che avrebbero istigato l’anarchico a proseguire lo sciopero, ma all’esigenza di farla finita con la giustizia dei piombi, con il finalismo giudiziario che per recidere il tentacolo del crimine non esita a mettere alla rinfusa sul ceppo e ad affidare indiscriminatamente al boia qualsiasi altro diritto. Una soluzione diversa sarebbe stata un’occasione di riscatto dello Stato, la dimostrazione della capacità dello Stato di emendarsi, di riconoscere un proprio difetto e di porvi rimedio, e invece lo Stato ha dimostrato in questo modo di soggiacere in condizione di inerzia, che non è vigore, non è rispettabilità, a un’iniziativa cui sarebbe stato possibile rispondere con la forza del diritto anziché con questa sciocca intransigenza persecutoria. Se quello di Cospito era un ricatto, allora lo Stato avrebbe potuto liberarsene concedendo a sé stesso, non alla situazione di quel condannato, la possibilità di un incivilimento che non avrebbe avuto nulla di concessorio alle farneticazioni dell’anarchico né agli atti di violenza cui si sono abbandonati alcuni pericolosi dimostranti. E il ministro della Giustizia avrebbe potuto dare prova di qualche aderenza tra la sua predicazione garantista e la linea esecutiva che ha concretamente ritenuto di intraprendere. Avrebbe potuto decidere di essere un ministro diverso, al costo di non essere più ministro, e invece ha deciso di non essere un ministro diverso pur di continuare a essere ministro. Su Cospito Nordio ignora l’Antimafia e istiga le piazze di Giovanni Tizian e Nello Trocchia Il Domani, 11 febbraio 2023 C’è molta amarezza negli uffici di via Giulia, la sede della procura nazionale antimafia e antiterrorismo, l’ufficio guidato da Giovanni Melillo. Amarezza e disorientamento per la decisione del ministro della giustizia Carlo Nordio di prorogare il 41 bis all’anarchico Alfredo CospitoAlfredo Cospito, in sciopero della fame da oltre cento giorni per protestare contro il regime di carcere duro cui è sottoposto da maggio 2022. La procura nazionale ha elaborato un parere dettagliato sulla pericolosità di Cospito suggerendo tuttavia la possibilità al ministro di riportarlo nel circuito dell’alta sicurezza, mantenendo misure adeguate sul controllo delle comunicazioni con l’esterno. In sintesi, l’ufficio di Melillo, non ha chiesto alcuna proroga del 41 bis. Ed è un parere che vale doppio, perché la procura nazionale, ha ascoltato sia le forze dell’ordine impegnate nel contrasto al terrorismo sia la direzione distrettuale antimafia di Torino, procura sul territorio e in diretto coordinamento con quella nazionale di via Giulia. Posizione diversa è stata invece inviata a Nordio dalla procura generale del capoluogo piemontese, molto netta nel dire che il 41 bis è ancora necessario per limitare l’azione di Cospito, condannato per la gambizzazione del manager di Ansaldo Nuclerare e per altri reati. “Non ricordo un precedente in cui il parere della procura nazionale sul carcere duro non sia stato tenuto in conto, altrettanto curioso che la valutazione della procura generale sia tenuta in considerazione più di quella della procura nazionale”, dice un’autorevole fonte dell’Antimafia e antiterrorismo. Naturalmente al ministero la pensano diversamente ritenendo entrambi i pareri necessari per una valutazione complessiva. Di certo però dovrebbe avere valore più di altri quello espresso dalla massima autorità in materia. In questo senso è anomalo che nelle nove pagine con cui Nordio conferma il 41 bis per Cospito non c’è traccia dell’analisi della procura nazionale, quasi che non esistesse. È citata, invece, espressamente la procura generale di Torino: “La completa ricostruzione degli atti di violenza in continuità con gli insegnamenti di Cospito è contenuta nel parere della procura generale di Torino”. Nessuno dei magistrati della super procura per ora vuole parlare. “Hanno troppo rispetto per le istituzioni”, commenta chi lavora al loro fianco. Non è escluso però che prossimamente da via Giulia arrivi una presa di posizione ufficiale. Anche perché i primi a essere esposti contro quello che il governo ha definito “pericolo anarchico” sono proprio i magistrati che lavorano tra queste mura, obiettivi indicati dai volantini dai gruppi anarchici al fianco di Alfredo Cospito, recluso in regime di 41 bis. Antimafia isolata - La valutazione della procura nazionale inviata al ministro Nordio avrebbe dovuto suggere maggiore cautela: la procura di Melillo ha offerto al governo una via d’uscita straordinaria dal vicolo cieco in cui si era cacciato il governo Meloni. Ma ancora una volta ha pasticciato, preferendo il 41 bis all’alta sicurezza, il regime di grado appena inferiore suggerito dai magistrati di via Giulia. Così facendo Nordio e il governo, con una sequenza di dichiarazioni e atti, hanno ottenuto il risultato di esacerbare gli animi che popolano i presidi solidali con l’anarchico in un weekend di cortei e manifestazioni. Con l’antimafia Nordio ha sempre dimostrato freddezza. Indizi di tale atteggiamento si rintracciano nelle parole pronunciate in aula all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro, l’occasione per attaccare i pm “ossessionati” dalla borghesia mafiosa, che vedono la mafia ovunque. Il caso Cospito e l’aver considerato il parere della super procura di Melillo al pari di un consiglio di terza categoria non è che un ulteriore indizio di questa avversione. Il parere della super procura, composta da magistrati esperti con esperienze sul campo sia contro le cosche che contro terroristi di ogni risma, comprendeva anche la posizione della distrettuale antimafia di Torino, soggetta al coordinamento nazionale della prima. Uffici, dunque, molto esposti, e che nonostante tutto hanno mantenuto, in un momento così delicato, la lucidità di analizzare l’affaire Cospito e dire al ministro che il 41 bis non è l’unica misura possibile, anzi: Cospito, a parere loro, poteva rientrare nell’alta sicurezza con le misure adeguate di controllo delle comunicazioni con l’esterno. L’uscita dal 41 bis avrebbe peraltro fermato i contatti con le organizzazioni mafiose e frenato il tentativo di queste ultime di usare il corpo dell’anarchico per legittimare la loro trentennale richiesta di abolizione del carcere duro. Curioso, poi, che alla diffusione di messaggi all’esterno da parte di Cospito abbiano contribuito gli stessi membri del governo leggendo pubblicamente nelle aule parlamentari i colloqui in carcere dell’anarchico. Nordio non ha saputo sfruttare l’occasione. “Ha preferito appoggiarsi alla procura generale di Torino che non dava alternative al 41 bis”, dice un’autorevole fonte dell’antimafia e antiterrorismo. La scelta di Nordio si è fondata su “ragioni politiche più che altro, non aveva possibilità di sconfessare il governo”, continua la fonte. Pericolosità - Il parere della procura nazionale sottolinea la pericolosità di Cospito, non la riduce affatto. Ma colloca l’anarchico in un movimento eversivo senza un vertice e senza capi. “Cospito non consegna ordini all’esterno, parla e rivendica, ma le azioni anarchiche non sono innescate da un suo ordine”, spiega una fonte vicina al dossier. La scelta di Nordio può essere la miccia di disordini e guerriglia urbana? Difficile fare previsioni, qualificate fonti dell’antiterrorismo spiegano che non c’è un allarme diverso rispetto al solito, quantomeno nessun segnale di un salto di qualità rispetto alle azioni costanti portate avanti dai gruppi anarchici negli ultimi 15 anni: pacchi bomba alle ambasciate e alle caserme, sabotaggi alle linee elettriche e telefoniche. “Il loro modo di agire è identico dal 2003, l’anno in cui è nata la Fai, federazione anarchica informale, gli anarco-insurrenzionalisti cui appartiene Cospito”, dice chi si occupa di intelligence sul magmatico mondo anarchico Lo scenario, però, è di quelli in perenne evoluzione. Potrebbe darsi che le rivolte scoppino solo dopo il verdetto della Cassazione, che il 24 febbraio dovrebbe decidere sul ricorso presentato dalla difesa di Cospito contro l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Roma che ha confermato il regime speciale per quattro anni. Oppure nel caso estremo in cui Cospito si lasci morire in carcere. “È un quadro abbastanza confuso, sarebbe necessario abbassare i toni, c’è stato un innalzamento dell’attenzione per i magistrati della procura nazionale, che restano un obiettivo”, spiegano fonti che monitorano l’evolversi della situazione. Serve un martire per cambiare il 41 bis? di Massimo Donini Il Riformista, 11 febbraio 2023 Le forze politiche si sono rissosamente divise sul tema incostituzionale: “Ma da che parte stai?”. Noi non dobbiamo stare da nessuna parte che non sia quella del diritto, di un diritto umano e non violento. Lo Stato non deve avere paura di mostrarsi umano, nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, senza per questo essere fesso. Del carcere duro va modificata una larga parte inutile e vessatoria. Ma pare che in Italia le leggi emergenziali non si possano toccare, a meno che non ci scappi il morto. Il caso Cospito è un paradigma del bisogno nazionale di martiri della legge per riuscire a cambiarla, ma anche dello scacco per lo Stato di diritto nel cedere al ricatto dei violenti. Una delle ragioni per le quali esistono regimi differenziati di esecuzione della pena e diverse sanzioni è che la delinquenza, che pure c’è anche se non tutti gli autori di reato sono riconducibili all’immaginario collettivo del criminale - anzi, sono assai spesso normalissime persone - presenta figure e tipologie di autori che costituiscono uno specifico problema penale-criminologico. Sono orientati al delitto, per educazione, selezione sociale, psicologica o per convinzione. Per queste persone soprattutto si dispiega il carcere, mentre per gli altri esiste solo per far paura a tutti, perché non si commettano i reati. In questa seconda e principale situazione si può vedere una strumentalizzazione dell’individuo per scopi di prevenzione generale, accettata (finora) dalla società come una immoralità necessaria. Invece, nei casi di autori a orientamento delittuoso c’è una esigenza di neutralizzazione e rieducazione specifica, che comprende le forme più serie di segregazione carceraria. Non è un problema di giustizia o di retribuzione, ma di difesa sociale. Il normale detenuto può svolgere un lavoro all’esterno e avere permessi premio. Chi continua a essere inserito in un contesto di criminalità terroristica o mafiosa, pur essendo detenuto, non ha questi diritti. Ma ne conserva comunque tanti altri. Di questo dobbiamo parlare. Superato lo step della commisurazione della pena, applicata in giudizio, si aprono varie opzioni esecutive. Poiché in tale fase lo Stato ha nelle sue mani la persona, e potrebbe distruggerla, si profilano molti problemi di orientamento della pena al rispetto dei diritti fondamentali e al “senso di umanità” (art. 27, co. 3, Cost.). La Costituzione pone il problema dell’umanità dello Stato, non solo della pena, come un dovere. Se il carcere in sé, per le sue logiche e le sue ‘leggi’, le sue compresenze inquietanti, rappresenta una sfida in generale alla dignità delle persone nella normalità dei casi, nei regimi differenziati i problemi si accentuano. La maggior parte delle persone che provengono dalla criminalità organizzata e mafiosa o che hanno comunque scelto la via del delitto, sono più preparate al carcere, che fa parte della loro cultura e della loro vita. Ma la realtà effettiva può risultare comunque devastante. Si aggiungono qui misure speciali di neutralizzazione e sorveglianza, di divieti o limitazioni estreme di comunicazioni con l’esterno, di restrizione dei rapporti con altri detenuti, riduzione dei colloqui, loro videosorveglianza, esclusione o limitazione di letture, musica, per non parlare di affetti, che di per sé si pongono in tensione o in collisione con l’art. 27, co. 3, Cost.: perché non solo la neutralizzazione si sostituisce alla rieducazione, ma vede aggiungersi alle sue modalità contenuti inutilmente afflittivi e disumani. Il regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario si inserisce in tale contesto per “situazioni di emergenza” definite gravi, al di là dei casi di rivolta, e prevede la sospensione del normale trattamento penitenziario. A questa ipotesi di base, peraltro, la norma introduce, al comma 2, una estensione della misura, e cioè della sospensione del normale trattamento in caso di delitti con finalità di terrorismo mediante atti di violenza, oltre che di delitti di mafia o con finalità di agevolare le associazioni mafiose, là dove sussistano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica. Anche chi non partecipa a una rieducazione “attesa” e alla richiesta di collaborazione prevista dall’art. 4-bis ordin. pen. per reati associativi, e si trova a non avere accesso ai normali benefici (sempre ai sensi dell’art. 4-bis) dimostrando, oggi in base a indizi concreti e non più a presunzioni, di essere ancora inserito in contesti criminali esterni, può risultare tra i possibili destinatari delle limitazioni imposte dall’art. 41-bis: c’è infatti un collegamento diretto tra mancata collaborazione indiziante il mantenimento di rapporti criminali con le organizzazioni esterne, e carcere duro, in questi casi. Non collabori e sei pericoloso, dunque non puoi godere dei benefici (permessi premio, lavoro all’esterno, misure alternative alla detenzione) ma sei anche, in aggiunta, soggetto a un regime detentivo di maggiore esclusione. È il carcere che non può rieducare perché deve segregare. È la pena come misura di sicurezza, sine die, perché dopo i primi quattro anni si può prorogare la misura di due anni via via senza limiti, se non quelli della pena complessiva da scontare: una temporaneità spesso di fatto apparente. Ma è anche qualcosa di più rispetto allo “scopo”, cioè attuare le restrizioni “necessarie” per impedire i collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza (art. 41-bis, co. 2): perché le condizioni o le prescrizioni di fatto, che non sono scritte nella legge, restituiscono una realtà più afflittiva e disumana, per restrizioni di spazi, impedimento di rapporti familiari minimali per anni, limitazione di diritti a istruzione, vita sociale anche in carcere. Applicate in molti casi prima che la decisione di condanna sia divenuta definitiva. Non è poi difficile vedere nel ricordato nesso tra 4-bis e 41bis, se non si dovesse rispettare la “necessità” di evitare i collegamenti con le associazioni di riferimento, una costrizione a collaborare mascherata, una forma di tortura, peraltro imposta non con atto giurisdizionale, ma del Ministro deldi la Giustizia. È una pena aggiunta, nell’esecuzione, irrogata dal Ministro, cioè da un organo politico-amministrativo. Un aspetto di straordinaria ed eccezionale costruzione giuridica. Questo tipo di disciplina esprime quello che è stato definito “diritto penale del nemico”. Il condannato è meno “persona” di altri reclusi, perché ha fatto una scelta anti-Stato, contro i valori minimali della società civile, in favore della delinquenza violenta organizzata: è un nemico perché non ha capacità dialogica sui valori di base. Lo Stato, dunque, adotta un trattamento escludente, per impedire la perpetuazione di rapporti con realtà criminali organizzate attuali. Una parte non marginale dei penalisti ha negato (sdegnata) che esista un diritto penale del nemico (illegittimo, non-diritto, ma violenza). Ma quel “diritto” esiste e ha nella criminalità mafiosa e terroristica il suo nucleo più consistente, peraltro allargatosi a tanti altri tipi di autore e reati (v. l’elenco assai più ampio dell’art. 4-bis ordin. pen.). Siamo ai livelli più afflittivi, per queste forme di esecuzione, in un confronto europeo. Ed è qui che si colloca la discussione attuale: il caso Cospito, che ha alla base anche l’iniquità sanzionatoria di una aleggiante condanna all’ergastolo dopo l’annullamento della condanna a trent’anni per un attentato alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo) senza vittime reali (fatto riqualificato in Cassazione come art. 285 c.p.), quale emblema della resistenza dello Stato a uno sciopero della fame che veicola la richiesta di una modifica legislativa per tutti, cioè in pratica per quasi tutti i “mafiosi” al 41-bis. È la contestazione della logica del nemico, ma anche la richiesta “irricevibile” cedere a uno sciopero della fame a vantaggio non solo di un “delinquente per convinzione”, ma di ben altre figure criminali, supportata dall’escalation in atto di manifestazioni violente. L’osservatore non comprende perché lo Stato non mostri di voler restare o diventare umano, rispettando il “senso di umanità” dell’art. 27, co. 3, Cost., senza per questo essere fesso. Ne ha tutti mezzi. Non deve avere paura. Il diritto del nemico è una realtà pensata per uno stato di guerra, dove chi delinque dovrebbe essere annientato. È un fenomeno normativo da contrastare. Premesso che esistono, come detto, situazioni differenziate sul piano criminologico, che giustificano trattamenti diversi, non deve essere messa in discussione l’umanità di questi trattamenti, l’uomo come fine, sempre. Che cosa, in concreto, si deve modificare del 41-bis? Una larga parte inutile e vessatoria dei suoi tratti esecutivi e l’estrema ampiezza della sua applicazione a base politica. Dunque, ciò che si deve discutere è il “caso Cospito”, o il “caso 41-bis”? Le forze politiche si sono rissosamente divise sul tema incostituzionale “ma da che parte stai?” Noi non dobbiamo stare da nessuna parte che non sia quella del diritto, di un diritto umano e non violento. Cospito, invece, deve avere un trattamento uguale, non disuguale, agli altri circa 750 detenuti al 41bis, se sussistono le condizioni di legge. Ma che non sussistano quelle condizioni, ancora sub iudice,è un tutt’altro aspetto della vicenda, che si è legata al tema più generale di una riforma sollecitata da anni dai giuristi più attenti. È invece dispiegato un tratto dello spirito nazionale, che le leggi emergenziali, poi divenute quasi sempre permanenti (tale il regime penitenziario dell’art. 41-bis), non si debbano più cambiare, a meno che non ci scappi il morto. Come i morti producono legislazioni di emergenza, c’è bisogno di un martire della legge, reale o immaginato, perché la razionalità e l’umanità ritrovino insieme una nuova direzione. È una regola non scritta delle leggi sanguinarie. È dunque prevedibile che se Alfredo Cospito non morirà per sua scelta vittimaria, magari impedito coattivamente, l’art. 41-bis non sarà modificato, salvo l’intervento di una qualche Corte suprema a risolvere i problemi di una politica e di un Paese troppo divisi, ingovernabili senza la mediazione di un deus ex machina capace di imporre un diritto migliore delle leggi. Perché il valore identitario dello Stato si misura sulla capacità di resistere ai violenti con le ragioni, ma anche con la forza del diritto. “Usare il corpo come un’arma” per Nordio è violenza? Metterebbe anche Gandhi al 41 bis… di Iuri Maria Prado Il Riformista, 11 febbraio 2023 “Il suo sciopero della fame è violento”. Quando abbiamo letto le motivazioni sulla base delle quali il ministro Nordio ha deciso di rigettare la richiesta di revoca del carcere duro ad Alfredo Cospito, abbiamo pensato ad un refuso. Cioè a un errore di stampa. Abbiamo verificato a lungo, con vari interlocutori: nessun refuso. Il ministro Nordio ha scritto proprio e testualmente così: “Alfredo Cospito ha iniziato lo sciopero della fame (20 ottobre 2022), forma di protesta tradizionalmente non violenta che invece, nel caso di specie, ha assunto un significato assolutamente opposto. La dimostrazione la si trae da una frase pronunciata da Alfredo Cospito: “il corpo è la mia arma”. Il corpo è diventato il catalizzatore che serviva all’azione strategica del detenuto”. Ci siamo messi le mani nei capelli. Chi ha scritto questo documento è il ministro della Giustizia? (Onore a Bonafede!!!...). È stato candidato al Quirinale? È stato considerato da tutti noi (scriteriati!) un campione del garantismo? Possibile davvero che Nordio non sappia che l’uso non violento del corpo al posto delle armi è la chiave di volta di tutte le teorie nonviolente? Da Gandhi, a Capitini, a Pannella, a Danilo Dolci e a tantissimi altri? È incredibile che non sappia queste cose. Lui ha letto la parola “arma” e ha pensato alla lotta armata. E così, terrorizzato, ha deciso che lo Stato è in pericolo e che la vita di Cospito vale bene la salvezza “della nazione”. E ora che si fa? Si continua a sperare che sia lui a fare la riforma della giustizia? Poveri noi! L’avvocato Flavio Rossi Albertini spiega che per lui “l’esito è quasi scontato, sono settimane che considero imminente il tracollo di Alfredo Cospito che sta dimostrando comunque di avere una tempra particolarmente forte anche a sentire i medici”. E pure Luigi Manconi si dice “molto pessimista”. È la conferenza stampa della difesa dell’anarchico in sciopero della fame dal 20 ottobre e che il diretto interessato ha tutta l’intenzione di proseguire fino alle estreme conseguenze. Solo la revoca del 41 bis porterebbe a interrompere il digiuno. Non basterebbe l’avvio di un dibattito parlamentare sul carcere duro e nemmeno una sospensione della pena per motivi di salute. “Non è uno sciopero della fame per finta, non è una simulazione”, sono le parole di Rossi Albertini. E non ci può essere richiesta di intervenire al presidente Mattarella sia perché spiega l’avvocato “Cospito è un anarchico individualista”, sia perché aggiunge Manconi “Cospito non ha una sentenza definitiva per cui si potrebbe chiedere la grazia”. Ipotesi irrealistiche insomma. “Hanno deciso di tumularmi”, è stata la reazione del detenuto la notizia della mancata revoca del 41bis. Il provvedimento del ministro viene definito prettamente politico da Flavio Rossi Albertini e da Luigi Manconi. Manconi spiega che non ci può essere violenza nel dire “il mio corpo è come un’arma, perché si tratta semplicemente di un topos della letteratura e così in questa vicenda siamo arrivati all’analfabetismo funzionale”. Il presidente di “A buon diritto onlus” aggiunge che la decisione di Nordio arriva in un clima dove è stata costruita una guerra simulata, un’aggressione anarchica allo Stato “mentre qui gli anni 70 c’entrano assolutamente niente”. Luigi Manconi poi racconta che fino al 22 dicembre dell’anno scorso i detenuti del gruppo di socialità con Cospito erano considerati del tutto inoffensivi. Poi il gruppo è stato cambiato e sostituito con tre reclusi appartenenti a mafia, camorra e ‘ndrangheta. Ebbene, aggiunge Manconi, a quel punto “sono cominciate le intercettazioni o captazioni che hanno dato il là alle su un accordo tra anarchici e mafia. Io sono contrario a ipotizzare complotti però in questo caso qualche domanda almeno bisogna porsela”, conclude sul punto. Flavio Rossi Albertini aggiunge che al 41bis un detenuto non si sceglie i compagni di socialità per cui sul punto c’è stata una terrificante strumentalizzazione. Dal supercarcere di Opera arriva la notizia che Alfredo Cospito ha rifiutato ancora di sottoporsi ad una visita psichiatrica. Le sue condizioni vengono definite al momento stabili. Continua ad assumere sale, acqua e zucchero. Uno sciopero della fame che il ministro Nordio ha definito “non più non violento”. Secondo il ministro Cospito sta mettendo a rischio deliberatamente la salute e la vita per ragioni ideologiche. L’avvocato Flavio Rossi Albertini dice che presenterà ricorso al Tribunale di Sorveglianza impugnando il provvedimento del ministro ma che al di là del merito i tempi della decisione sono incompatibili con le condizioni di salute del detenuto. Secondo Manconi “la soluzione c’è e sta nelle mani di Nordio”. Il ministro ricorda Manconi non ha tenuto conto del suggerimento del procuratore nazionale Melillo che aveva ipotizzato il passaggio dal 41bis al regime di alta sorveglianza. L’appuntamento più vicino resta la Cassazione del 24 febbraio. Sempre che il fisico di Cospito resista fino a quella data che in origine era il 20 aprile e poi è stata anticipata per ben due volte dalla Suprema Corte. Uno dei pochi dettagli che lascerebbe qualche speranza di evitare una tragedia ritenuta imminente. Nella conferenza stampa inoltre è stato detto che la difesa si sente più che pronta alla battaglia contro l’alimentazione forzata. Cospito e le regole di un paese civile di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2023 La Corte costituzionale ha ritenuto legittimo il 41-bis sia per le limitazioni necessarie a impedire i contatti con il contesto criminale sia per il divieto di ricevere dall’esterno libri e riviste. Nella vicenda relativa ad Alfredo Cospito, detenuto che afferma di effettuare lo sciopero della fame (da oltre 100 giorni) per l’abolizione del regime penitenziario di cui all’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), si sentono opinioni che non sembrano basate sulla conoscenza dei fatti e della norma. Anzitutto più che uno sciopero della fame il detenuto sembra ricorrere a un’alimentazione selettiva, posto che la possibilità di sopravvivere senza assumere cibo ragionevolmente non può superare due mesi e mezzo. Nel marzo del 1981 Bobby Sands, a cui si aggiunsero altri suoi compagni dell’Ira (Irish Republic Army) detenuti nel carcere di Long Kesh (nei pressi di Belfast), iniziò uno sciopero della fame (vero) per ottenere lo status di prigioniero politico e morì al 66° giorno di digiuno. Il 16 gennaio 2023, Alfredo Cospito avrebbe detto che il suo sciopero della fame “è il più falso della storia”. Lo scrive il generale Mauro D’Amico, capo del Gom (Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria), nella relazione al ministero della Giustizia. Cospito avrebbe anche raccontato di assumere una grande quantità di integratori e di stare fisicamente molto meglio, tanto da aver notato un grande miglioramento dell’asma cronica che lo affligge. In secondo luogo, taluni sostengono che il regime di cui all’art. 41-bis sarebbe contrario alla Costituzione della Repubblica. L’articolo, nel primo comma prevede la facoltà, “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza” per il ministro della Giustizia “di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto” e non ha alcuna attinenza con il caso in questione. Il secondo comma stabilisce: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente. In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4-bis” (dell’ordinamento penitenziario). Altri commi poi aggiunti disciplinano il procedimento di applicazione e revoca di tale regime e le impugnazioni e specificano varie limitazioni. Non si tratta quindi di “carcere duro” ma di modalità necessarie “per impedire i collegamenti con l’associazione”. Queste modalità possono creare (e concretamente creano) disagio ai detenuti sottoposti a tale regime, peraltro giustificati da “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”. La Corte costituzionale si è pronunciata numerose volte sulle limitazioni previste dalla norma, talvolta dichiarando l’incostituzionalità di alcuni aspetti (ad esempio censura della corrispondenza con i difensori, la limitazione dei colloqui visivi e telefonici con i difensori, il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, ritenuto non proporzionato, il divieto di cuocere cibi), ma ha ritenuto legittimi sia le limitazioni necessarie a impedire i contatti con il contesto criminale sia altri particolari aspetti, quali il divieto di ricevere dall’esterno libri e riviste e la partecipazione del dibattimento a distanza. Ovviamente è possibile dissentire da queste decisioni e criticarle, ma affermare che il regime di cui all’art. 41-bis è incostituzionale senza argomentare su queste pronunzie della Corte costituzionale, fa pensare che tali affermazioni siano semplice manifestazione di ignoranza. La questione centrale è se, in uno Stato di diritto, anziché far valere le proprie ragioni nei modi previsti dalla Costituzione sia possibile esercitare pressioni sul legislatore (posto che nella specie Cospito non pone una questione relativa alla sua sottoposizione al regime speciale, ma chiede l’abrogazione di tale regime in generale). A mio avviso la risposta non può che essere negativa e qui la questione potrebbe essere chiusa se non fosse per quanto accaduto alla Camera dei deputati, dove un parlamentare ha accusato altri parlamentari, fra cui l’On. Andrea Orlando (che, nell’esercizio delle facoltà loro riconosciute, avevano visitato Cospito) di non essere dalla parte dello Stato, ma dei mafiosi e terroristi disvelando (essendo la seduta pubblica) il contenuto di un colloquio di Cospito con altri detenuti. L’accusa appare ingenerosa e ingiustificata, ove si consideri che l’On. Andrea Orlando, quand’era ministro della Giustizia, non revocò il regime di cui all’art. 41-bis nei confronti di Bernardo Provenzano, ritenuto capo di Cosa Nostra, neppure quando questi era oramai in fin di vita (pur dando atto che si trattò di una decisione sofferta). Si pone però un altro problema. Il ministro Nordio ha escluso che le notizie rivelate non fossero coperte da segreto di Stato (e su ciò non sembra sostenibile il contrario) ma non si è pronunciato sul fatto che fosse stato violato il segreto d’ufficio. Per quanto è dato comprendere, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, con delega al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) ha avuto legittimamente conoscenza di tali notizie nell’esercizio e a causa di tali sue funzioni. Le avrebbe comunicate all’On. Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), anch’egli tenuto al segreto d’ufficio. Quest’ultimo le ha rese note alla Camera di appartenenza in seduta pubblica e non segreta. Della vicenda si occupa la Procura di Roma che, fra l’altro, dovrà accertare se (come si può ipotizzare) le conversazioni fossero state registrate con intercettazioni preventive, come tali segrete. Zagrebelsky: “La Costituzione è la coscienza dello Stato, sul 41 bis va rispettata” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 11 febbraio 2023 L’ex presidente della Consulta: “L’Italia è forcaiola con l’anarchico che arriva a suicidarsi pur di colpevolizzare il nostro sistema”. “Il carcere duro nella visione di qualcuno deve fare spavento, tanto più efficace quanto più crudele. Ma questa idea è quanto di più lontano ci sia dalla nostra Costituzione”. “Lo Stato può ritenersi innocente, nel caso un uomo sotto la sua custodia si lasci morire, solo a una condizione: quella di avere la coscienza a posto”. Per capire il senso profondo di quel che Gustavo Zagrebelsky dice sul caso Cospito, l’anarchico condannato al 41 bis in sciopero della fame da oltre 100 giorni, bisogna tornare al 1949. E precisamente, al terzo numero di una rivista fiorentina fondata da Piero Calamandrei: Il ponte. L’articolo che dà il via a quel numero - con contributi dello stesso Calamandrei, Emilio Lussu, Leone Ginzburg, Adele Bei - si intitola: “Bisogna aver visto”. Perché per parlare di carcere, per capire il carcere - spiega Zagrebelsky - “è necessario conoscerlo come lo conoscevano molti dei nostri padri costituenti”. In quel numero Calamandrei scrive: “Mai come ora è presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta. Se neanche questa volta si facesse qualcosa per cominciare a portare un po’ di luce di umanità nel buio delle carceri, non si potrebbe addurre la comoda scusa burocratica della mancanza di precise informazioni!”... “Quella rivista parlava del carcere che proveniva dal fascismo, ma poneva un problema più generale: la condizione carceraria. Un problema che negli anni successivi è stato oggetto di sparuti interventi, interrogazioni, perfino di una legge - la Gozzini del 1986 - che prometteva di alleviare le condizioni dei carcerati ritenuti meritevoli con percorsi di riabilitazione fuori dal carcere. Ma il nucleo fondamentale, l’esistenza del carcere come istituzione, non è mai stato toccato”. Lei ha partecipato, insieme tra gli altri a Stefano Anastasia, Gherardo Colombo, Luigi Manconi, alla stesura di un libro manifesto che si intitolava: “Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini”. Un controsenso, una provocazione? “Un libro provocatorio che prende atto di una realtà: il carcere non è sempre esistito. Un tempo i criminali venivano uccisi, li si mandava in esilio, li si fustigava. La nascita delle prigioni è stata a suo modo un passaggio di civiltà. Lo Stato dice: invece di ammazzarti ti teniamo sotto controllo. L’idea del carcere però è questa: prendi degli esseri umani e li metti dietro le sbarre”. Persone che hanno fatto del male ad altre persone che la società ha il dovere di proteggere. Non sarebbe ingiusto rinunciare a farlo? “È possibile che nel corso della civilizzazione non si sia inventato qualcosa di diverso dalle sbarre? Qualcosa che non elimini la pena, ma la trasformi da costrizione fisica in qualcos’altro? Il carcere con le sbarre andrebbe limitato alle persone violente e pericolose. Per il resto, sarebbe necessario immaginare forme diverse”. Il discorso pubblico ha sempre trattato la condizione carceraria come marginale, ininfluente? “Non è elettoralmente gratificante. E l’opinione pubblica, se non viene sensibilizzata come occorrerebbe, su questi temi è forcaiola. E qui veniamo al caso Cospito”. Di cui, secondo la suddetta opinione pubblica, ci stiamo occupando tutti fin troppo... “Innanzi tutto noi in questa discussione ci stiamo occupando delle condizioni dei detenuti, ma dovremmo occuparci anche di quelle delle guardie carcerarie, che in presenza di un carcere fatto come uno zoo sono portate a considerarsi guardiane dello zoo. Una situazione pesantissima che spiega lo scoppio di violenze e i suicidi anche tra di loro. Ma veniamo alla questione del 41 bis”. Una misura eccessiva, in questo caso? “Questa misura, nata dopo le stragi di mafia degli anni 90, doveva essere temporanea, emergenziale. E per questa ragione era demandata alla decisione del ministro della Giustizia, che in caso di emergenza poteva e può sospendere le normali regole di trattamento dei detenuti. Cospito è sottoposto al 41 bis come i boss di mafia perché è considerato ugualmente pericoloso per l’ordine pubblico. La misura è la stessa, ma la premessa sociale è molto diversa: da una parte c’è la mafia, dall’altra oggi c’è l’anarchia, ma un domani potrebbe esserci qualsiasi altra cosa lo Stato decida di considerare una minaccia”. Alcuni di coloro che protestano a favore di Cospito lo fanno a suon di minacce, intimidazioni, o mettendo bombe sotto le macchine di diplomatici italiani nel mondo come Susanna Schlein... “Loro sì, ma questo anarchico offre il suo corpo, la sua vita biologica, il soma, in una prova di forza contro lo Stato sfidandolo sul suo stesso terreno, cioè la Costituzione. Il che, essendo un anarchico, è un paradosso. Come Antigone contro Creonte, lo sciopero della fame di Cospito - visto dal suo punto di vista e da quello di chi lo difende - è una forma di resistenza civile spostata al limite del sacrificio personale”. Ma vista dal punto di vista del governo, della sua maggioranza e di molti cittadini comuni, è un ricatto allo Stato... “Certo. Perché mentre Antigone è l’innocente, Cospito si è macchiato di crimini orribili: la gambizzazione di un manager dell’Ansaldo, una tentata strage che per come era stata congegnata ricorda gli attacchi jihadisti, con due bombe messe l’una a poca distanza dall’altra alla scuola carabinieri di Fossano per fare più male possibile. Ma il punto è che come al solito l’interpretazione delle istituzioni segue logiche partitiche ed elettorali che nulla dovrebbero entrare in questa vicenda”. Quali logiche? “Hegel diceva: “Lo Stato sa quel che vuole. E non può essere costretto a volere altrimenti”. La maggioranza dice: tu vuoi piegare lo Stato, offri il tuo corpo contro di me come se fosse una bomba e vuoi farmi passare per Stato assassino. Ma sono io il custode della legalità, non tu. Si parla del possibile suicidio del detenuto come di un ricatto, ma più che altro si tratta - come per molti suicidi - di un atto di colpevolizzazione. Dove il colpevolizzato può far finta di niente solo a una condizione: che abbia la coscienza a posto”. Possiamo averla? “Nel caso di uno Stato la coscienza è la Costituzione, quindi le istituzioni devono poter dire: abbiamo rispettato la Costituzione. Una cosa è certa: non si può parlare di Stato assassino perché lo Stato non costringe nessuno a suicidarsi, né può impedirlo. Il potere di togliersi la vita a differenza di un tempo, quando anche quella era proprietà del principe, sfugge alla regolamentazione giuridica. Quindi dire “Stato assassino” è completamente fuori luogo. Resta la questione della buona coscienza”. Che implicherebbe analizzare il caso Cospito al di là dello sciopero della fame, al di là delle minacce anarchiche, guardando solo ai principi della nostra Carta e ai diritti che vi sono inscritti? “Uno dei problemi di questo Paese è che si sono persi i confini. Se fossimo stati in un momento politico diverso si sarebbe aperto un dibattito sulle condizioni carcerarie. Il 41 bis nasce per evitare i contatti tra chi è dentro e chi è fuori, ma è possibile che questo tentativo debba trasformarsi nel sepolcro di Antigone? Che la prigione debba diventare, per il detenuto che vi è condannato, una tomba? Due ore d’aria al giorno, ma nessun contatto. Divieto di avere libri, pezzi di carta, una matita con cui tenere un diario. Possibile che con tutti i nuovi strumenti di controllo che lo Stato ha grazie alle nuove tecnologie sia assolutamente necessario questo vuoto assoluto?”. Ormai anche solo parlarne sembra un cedimento... “Io parlo di un’eventuale revisione dell’istituto del 41 bis, non della sua abolizione. Di cercare un nuovo equilibrio tra le esigenze della sicurezza e quelle dell’umanità di cui la Costituzione si fa carico. Nel caso specifico di quest’anarchico, credo poi che vada fatta almeno una piccola riflessione sul fatto che la pericolosità dei detenuti per mafia sia molto diversa da quella di un detenuto per anarchia, visto che per sua stessa definizione l’anarchia non ha struttura, capi o esecutori. Sono cani sciolti. Posso citare Dostoevsky?”. Può sempre... “Come nei Demoni, che erano dei cospiratori, c’erano i quintetti, l’anarchia ha una struttura reticolare che è molto diversa da quella mafiosa. Ci sarà pure una riflessione da fare sul tipo di pericolosità e sulla possibilità di contrastarla con gli strumenti di prevenzione e repressione ordinari”. L’alta sorveglianza con censura, come consiglia la Procura nazionale antimafia? “Tutto ciò che eccede ciò che sarebbe possibile controllare con la tecnologica, attraverso strumenti ordinari, è ingiustificato ed è l’idea del 41 bis come super-pena. Il “carcere duro”, che nella visione di qualcuno deve fare spavento, tanto più efficace quanto più crudele. Ma questa idea è quanto di più lontano ci sia dalla nostra Costituzione”. “Il carcere duro rimane essenziale. Meno rigidità su tv, libri e telefonate” di Francesco Curridori Il Giornale, 11 febbraio 2023 “Il 41-bis è uno strumento essenziale”. L’ex presidente della Camera, Luciano Violante, non si pronuncia sul caso specifico che riguarda il terrorista Alfredo Cospito, ma difende il regime di “carcere duro” introdotto dal nostro ordinamento nel 1992. Violante, che prima di entrare in politica è stato un illustre magistrato, ci tiene a precisare che “i diritti umani vanno garantiti”. Nel caso del 41-bis, a cosa si riferisce esattamente? “C’è un tema da affrontare sui libri da leggere, i canali televisivi da vedere e le telefonate con i familiari. Queste limitazioni non devono essere inutilmente afflittive, ferma restando la separazione tra il detenuto e il mondo criminale esterno”. Come giudica, invece, la riforma della giustizia che vorrebbe attuare il ministro Carlo Nordio? “Aspetterei che vengano presentate progetti di legge. A quel punto discuterei volentieri. Passiamo alle riforme istituzionali. Qual è, secondo lei, la forma di governo che garantisce maggiormente la governabilità? Il presidenzialismo o il premierato? “Abbiamo bisogno di governi stabili. La stabilità dipende dalla forza del governo in Parlamento, dalla forza del premier nel governo e dalla capacità di decidere del Parlamento. Il premierato nella esperienza italiana potrebbe comportare che il presidente della repubblica, sulla base dei risultati elettorali e delle consultazioni proponga alle Camere il presidente del consiglio; che il Parlamento in seduta comune voti la fiducia al solo presidente del consiglio; che il presidente del consiglio, dopo la fiducia, proponga al presidente della Repubblica i nomi dei ministri e quindi costituisca il governo; che il presidente del consiglio possa proporre al presidente della Repubblica la revoca di un ministro. Il Parlamento deve poter votare a Camere riunite almeno la fiducia, la sfiducia, le leggi di bilancio. Occorre inoltre uno strumento analogo alla sfiducia costruttiva. Credo che un sistema di questo tipo garantisca la stabilità all’interno dell’equilibrio tra i poteri, più di quanto non facciano il presidenzialismo e il semi-presidenzialismo”. Quali sono i difetti dei sistemi presidenzialisti? “Negli Usa, il presidente Biden, democratico, deve fare i conti ogni giorno con la Camera dei rappresentanti, repubblicana. Per il semipresidenzialismo posso rinviare al vivace dibattito in Francia sui gravi difetti di quel sistema. Ma c’è altro. Queste due forme di governo si adattano bene in società pacificate, nelle quali lo sconfitto accetti il verdetto dei cittadini. Le società occidentali contemporanee non sono così. I presidenzialismi sono privi di arbitri. Le faccio io una domanda: quali sono le condizioni che consentirebbero di giocare una partita di calcio senza un arbitro? Quelle condizioni ci sarebbero in Italia, Francia, Stati Uniti?”. Il cancellierato, in Italia, di quali altri correttivi avrebbe bisogno? “Credo che vada stabilito, come in Germania, il termine entro il quale il cancelliere deve avere la fiducia. Superato quel termine, o le Camere propongono entro un termine breve, un altro candidato o vengono sciolte. Io penso poi che dovremmo trovare il modo di discutere del finanziamento pubblico dei partiti e dei danni di questa scriteriata riduzione del numero dei parlamentari”. In Germania, però, il cancellierato ha dato vita a molti governi di coalizione. Governi che, in Italia, invece, non sembrano aver funzionato altrettanto bene come quelli tedeschi. O sbaglio? “Lei ha perfettamente ragione, ma la pluralità delle opinioni politiche, e quindi dei partiti, è nella storia e nella realtà dei paesi europei. Piuttosto servirebbe una clausola di sbarramento severa per fare entrare in Parlamento forze veramente rappresentative”. Come valuta l’atteggiamento del Pd che, al momento, non sembra neppure volersi sedere al tavolo delle trattative sulle riforme? “Allo stato attuale non c’è nessuna proposta concreta. Quando ci sarà una proposta, sarà ragionevole discuterla. Piuttosto credo che bisognerebbe riflettere sul finanziamento pubblico dei partiti, se ne sta occupando la Commissione Affari Costituzionali del Senato, e sui danni di questa scriteriata riduzione del numero dei parlamentari”. Crede che il disegno di legge del ministro Roberto Calderoli sull’autonomia differenziata spaccherà l’Italia? “Prima di rispondere vorrei conoscere il testo definitivo che uscirà dal Consiglio dei ministri. Non mi pare corretto pronunciarmi solo sulle ipotesi”. “L’infanzia non si incarcera”. Che sia la volta buona di Laura Liberto* huffingtonpost.it, 11 febbraio 2023 Le soluzioni normative proposte disegnano un sistema articolato sulle case famiglia protette come soluzione principale, sia in fase cautelare che di esecuzione della pena, lasciando in piedi il ricorso alla custodia o detenzione in istituto a custodia attenuata soltanto in via residuale, per i casi più gravi. Proprio in questi giorni la giornalista Francesca Fagnani ha portato sul palco di Sanremo un bellissimo monologo scritto insieme ai ragazzi del carcere minorile di Nisida: “Non tutte le parole sono uguali, per arrivare su questo palco ci sono parole che devono abbattere muri, pareti, grate e cancelli chiusi a tripla mandata”, esordiva così la giornalista che ha portato all’attenzione degli spettatori un universo, quello penitenziario, che solo a singhiozzo catalizza l’attenzione pubblica. Lo fa quando esplodono emergenze, come, da ultimo, quella del numero elevatissimo dei suicidi, quando arrivano i pesanti richiami delle istituzioni europee per le condizioni di intollerabile sovraffollamento delle strutture, o se emergono episodi di efferata violenza sui detenuti consumati tra le mura, quando si promuovono battaglie estreme, combattute immolando il corpo e la vita, per la tutela dei diritti umani di chi è sottoposto al regime detentivo speciale del 41 bis. Esiste, in quell’universo, un paradosso gravissimo che, pur consumandosi da anni, difficilmente assurge agli onori della cronaca: quello dei bambini reclusi. La presenza di bambini costretti a trascorrere i primi anni di vita negli istituti penitenziari assieme alle madri detenute è una contraddizione inaccettabile del nostro sistema; un paradosso finora irrisolto ed incredibilmente trascurato, sul quale negli ultimi anni come Cittadinanzattiva ci siamo impegnati, in sinergia con altre organizzazioni, per richiamare l’attenzione pubblica e delle istituzioni e per formulare e sollecitare l’adozione di soluzioni di sistema idonee a risolverlo definitamente. Ciò nella convinzione che la tutela della salute psicofisica dei bambini debba prevalere su ogni altra ragione o interesse pubblico e debba costituire il principale, se non l’unico, criterio guida per la costruzione di misure dedicate. È oramai dimostrato che i piccoli che crescono in carcere ricevano danni profondi sul piano dello sviluppo psicofisico, dai problemi nella deambulazione (visto che sono abituati a muoversi dentro spazi ristretti), a ritardi nella articolazione della parola, ad una serie di difficoltà nello sviluppo delle relazioni con gli altri, nella socializzazione, fino all’attaccamento morboso alla madre per poi subire il trauma ulteriore e profondissimo del distacco improvviso da essa, quando raggiungono i limiti di età previsti dalla legge. Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, aggiornate al 31 dicembre scorso, sono 16 le madri e 17 i bambini che risultano ristretti negli istituti penitenziari, tra sezioni nido delle case circondariali e gli ICAM. Il dato numerico sui piccoli reclusi oscilla nel tempo, dai primi anni del 2000 non è mai sceso al di sotto delle 10 presenze per toccare, in alcuni momenti, il picco massimo delle 50. Se è vero, dunque, che quando si parla di bambini in carcere parliamo sempre di piccoli numeri, è innegabile che le ridotte dimensioni del fenomeno non possono ridimensionare la gravità dell’incarcerare l’infanzia. E anzi, rendono ancor più contraddittorio e sorprendente il fatto che nel tempo non si siano approntate soluzioni decisive per superarlo. D’altra parte, sono trascorsi ben 12 anni dall’ultimo intervento legislativo in materia, la novella del 21 aprile 2011 n. 62, che nell’ottica della salvaguardia del rapporto tra detenute madri e figli minori, ha configurato un circuito penitenziario cosiddetto a “custodia attenuata”, dedicato alle madri con figli al seguito -e in via residuale anche ai padri- con l’istituzione degli Icam e, al contempo, ha istituito le case famiglia protette quali luoghi idealmente alternativi al carcere, di esternalizzazione della detenzione dei genitori che devono accudire i figli. Una delle contraddizioni più macroscopiche di quella legge riguarda il vincolo economico relativo alle case famiglia protette, da realizzarsi senza oneri a carico dello Stato. Ciò ne ha evidentemente impedito l’implementazione, tant’è vero che nell’arco di più di un decennio si sono sviluppate soltanto due esperienze su tutto il territorio nazionale: una casa famiglia Roma ed una a Milano. La soluzione prevalente è rimasta quella della carcerazione di madri e bambini, all’interno degli istituti penitenziari oppure negli Icam, che restano pur sempre istituti di detenzione; di fatto, pertanto, le esigenze cautelari o la pretesa punitiva nei confronti degli adulti sono rimasti finora prevalenti rispetto alla tutela del benessere psicofisico dei bambini, nonostante le molteplici indicazioni e gli obblighi sanciti sia a livello internazionale che costituzionale sulla preminenza da riconoscere al superiore interesse del fanciullo rispetto ad altre ragioni di natura pubblica. Su queste contraddizioni finora irrisolte ci siamo impegnati nella formulazione e richiesta di soluzioni concrete e di sistema, attraverso la campagna L’infanzia non si incarcera! ed in una proficua ed intensa collaborazione con Paolo Siani e gli altri Deputati che, nella scorsa legislatura, hanno lavorato a una proposta di legge, tesa proprio a rimuovere quegli ostacoli, di natura giuridica ed economica, che continuano a produrre nuovi ingressi di bambini in carcere al seguito delle madri. Ora, quella stessa proposta, che, nonostante l’approvazione della Camera dei Deputati, non ha potuto completare l’iter di approvazione in seguito alla caduta del governo Draghi, è stata ripresentata nella legislatura corrente ed ha ottenuto in Aula la deliberazione d’urgenza e la possibilità di essere esaminata con celerità. Come abbiamo avuto modo di evidenziare in occasione di un’audizione presso la Commissione Giustizia della Camera tenutasi la scorsa settimana, il testo - che ricalca integralmente i contenuti della proposta di legge Siani e raccoglie buona parte delle nostre sollecitazioni - riconosce centralità alla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori e si pone nella prospettiva indicata a più riprese dalla Corte Costituzionale e dalle convenzioni internazionali: la protezione del superiore interesse del fanciullo, della salute psico-fisica dei minori, di cui la tutela del legame genitoriale è parte integrante e fondamentale in particolare nei primi anni di vita. In quest’ottica, le soluzioni normative proposte disegnano un sistema articolato sulle case famiglia protette come soluzione principale, sia in fase cautelare che di esecuzione della pena, lasciando in piedi il ricorso alla custodia o detenzione in istituto a custodia attenuata soltanto in via residuale, per i casi più gravi. Inoltre, il provvedimento impegna il Ministero della Giustizia a stipulare convenzioni con gli enti locali per individuare le strutture idonee ad ospitare le case famiglia protette ed interviene a rimuovere i limiti economici (quel “senza oneri per lo Stato”, contenuto nella legge 62/2011) che finora hanno impedito la nascita del sistema delle case famiglia. Già con un emendamento da noi proposto ed approvato con la legge di bilancio per il 2021, si era ottenuto l’istituzione di un fondo triennale, di 4,5 milioni di euro, dedicato al finanziamento dell’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case famiglia. Ora, le misure contenute nella proposta di legge all’esame della Camera prevedono di stabilizzare quel finanziamento affinché si costruiscano le condizioni concrete e stabili per la realizzazione del sistema delle case famiglia per l’accoglienza delle mamme detenute con i loro bambini. Ci auguriamo sia la volta buona per abbattere anche questo muro e far sì che, attraverso un iter parlamentare speriamo rapido, questa opportunità non venga nuovamente sprecata, e si dimostri finalmente - come si dichiara nella relazione introduttiva della proposta di legge - la volontà di “intervenire a difesa dei bambini innocenti che si trovano a vivere chiusi tra le sbarre di un istituto di pena”. *Coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti - Cittadinanzattiva Nordio annuncia un “tavolo” per riformare la legge Cartabia - “Cambieremo la prescrizione” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2023 Pinelli (Csm): “Poniamo al centro del dibattito sulla stagione delle riforme del diritto penale liberale del prossimo futuro il tema, grande e urgente, della tutela della reputazione individuale”. “Il programma che ho enunciato alle Camere e che coincide in gran parte con le vostre proposte è già in fase di elaborazione. Non sono in grado di anticipare nel merito i disegni di legge, perchè sarebbe irriverente, ma quanto esposto sarà oggetto delle nostre prossime iniziative”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel videomessaggio inviato all’Unione delle Camere penali riunite per l’inaugurazione dell’anno giudiziario al Teatro nuovo di Ferrara per due giorni di dibattiti, dal titolo “Idee per una stagione di riforme liberali della giustizia penale”. Nordio ha ribadito l’intenzione di dar vita a un tavolo tecnico su decreti attuativi della riforma Cartabia, una riforma che andava nella “giusta direzione ma con una serie di limitazioni” dovute anche alla “debolezza della coalizione” che sosteneva il precedente governo. “Il nostro è un governo solido, la maggioranza è compatta, si profila una durata della legislatura fisiologica, penso che le nostre riforme potranno essere attuate nei tempi compatibili con il loro contenuto. Cambiare una norma costituzionale richiede un tempo più lungo che una norma del codice di procedura penale che è relativamente facile”. Il Guardasigilli, ha poi richiamato l’importanza della figura degli avvocati “fondamentale per attuare la cultura della giurisdizione e parte della triade assieme al pubblico ministero e al giudice”. “Spero - ha poi aggiunto - di potere trattare il tema della separazione delle carriere, che è nel nostro programma, con tutte le parti, così come vorremmo fare senza pregiudizi ideologici, con l’acccademia con la magistratura con gli avvocati, per tutte le riforme”. “Modificheremo - ha annunciato - la legge sulla prescrizione che ha introdotto il principio della improcedibilità, agendo invece su un istituto di diritto sostanziale”. E sulla pena: “deve essere certa, rapida, e proporzionata, ma deve anche essere equilibrata e tendere alla rieducazione del detenuto”. “Le persone più potenti - ha detto Nordio - sono quelle più intimorite davanti al magistrato, soprattutto inquirente perché hanno di più da perdere”. “Paradossalmente, ho constato nella mia esperienza che era privo di mezzi nemmeno si presentava o assumeva un tono arrogante, mentre gli imputati ricchi tremavano come foglie e non dormivano da giorni perché avevano la vita distrutta e molto da perdere, e qui il ruolo anche psicologico degli avvocati è fondamentale”. Intervenendo dopo il Ministro, il neo vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli ha ammonito: “Poniamo al centro del dibattito sulla stagione delle riforme del diritto penale liberale del prossimo futuro il tema, grande e urgente, della tutela della reputazione individuale”. “Tutelare la reputazione, oggi - ha proseguito - , è importante tanto quanto lo era tutelare la libertà un tempo, visto che gli spazi di ripristino in sede giudiziaria della libertà violata sono molto più efficienti rispetto a quelli della reputazione compromessa, che quando è tale lo è spesso senza possibilità di recupero” ha spiegato. “A ben vedere nella società digitale e dell’informazione globale la reputazione è la forma contemporanea di sintesi dei diritti di libertà”, ha evidenziato Pinelli. “Una persona lesa irrimediabilmente nella sua sfera relazionale e reputazionale, è una persona compromessa nell’esercizio dei suoi più elementari diritti di libertà, ad iniziare da quelli inerenti alla propria vita privata e familiare”. Nordio rassicura i penalisti: “Attuerò il vostro programma” di Errico Novi Il Dubbio, 11 febbraio 2023 La presidente del Cnf Masi: “Sulle riforme è necessaria una task force fra avvocati e giudici”. Pinelli, vicepresidente Csm: “La toga è simbolo della loro pari dignità”. “Ci saranno. Le riforme ci saranno, e vi posso assicurare che sono già in fase di elaborazione, anche se sarei irrispettoso nell’anticiparvene i contenuti”. Carlo Nordio lo dice in videocollegamento, ma la sua non è una voce che arriva sfumata da un sottofondo di convenienza. Si collega all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione camere penali, in corso a Ferrara, dal suo studio di via Arenula. Assicura e conferma che tra gli interventi in programma ci sono “la separazione delle carriere” e “il ritorno alla prescrizione sostanziale”. E annuncia la convocazione a breve del “tavolo” che si era impegnato ad allestire già nel primo incontro con l’Ucpi di Gian Domenico Caiazza: un “tavolo tecnico con avvocati e magistrati per l’analisi della riforma Cartabia e dei suoi decreti attuativi”. Quel ridisegno della giustizia penale, ricorda l’attuale guardasigilli, “va nella giusta direzione ma sconta una serie di limiti, legati alla fragilità e all’eterogeneità della maggioranza da cui è stato partorito”. Se si considera che l’Ucpi per il proprio evento celebrativo in Romagna ha scelto come titolo “Idee per una stagione di riforme liberali della Giustizia Penale”, si può dire che il primo ad aderire al programma è il ministro. E fra le sue considerazioni più incisive c’è il passaggio con cui nobilita la separazione delle carriere dei magistrati come epilogo necessario per “la vera unità della giurisdizione”. Ricorda che, da magistrato, di fronte alle obiezioni degli ex colleghi sul divorzio fra giudici e pm, ribatteva così a chi richiamava la “comune cultura della giurisdizione di requirenti e giudicanti” come valore che la separazione avrebbe compromesso: la giurisdizione, rovesciava il concetto Nordio, “va intesa o come jus dicere, e dunque attività che compete essenzialmente al giudice, oppure come dialettica, in cui però non possono esserci solo il magistrato giudicante e il pm: l’unità della giurisdizione si realizza in una triade di cui fa parte anche l’avvocato. È una dialettica tra parti”. È il modo più sofisticato, intelligente, colto e profondo per legare la riforma costituzionale sulle carriere alla dignità stessa della professione forense, al ruolo del penalista nel processo. Ed è una risposta brillante, definitiva, a chi quella riforma contrasta. È il prologo di una due giorni che si chiuderà oggi con l’intervento del presidente Caiazza e che ieri si è subito annunciata viva, ricca, anche di prospettive: concetto, quest’ultimo, evocato più volte nell’altro videocollegamento, quello in cui ha rivolto i propri saluti la presidente del Consiglio nazionale forense Maria Masi: “Adesso siamo di fronte alla fase attuativa di riforme che come avvocatura abbiamo criticato e critichiamo con approccio costruttivo: e”, appunto, “la prospettiva è verificare la capacità di sostenere l’impatto della riforma penale con l’organizzazione, con le strutture. Si deve partire dagli aspetti sicuramente positivi, innanzitutto dalla coerenza con la presunzione di non colpevolezza, e con la tenuta delle garanzie difensive”. Il vertice della massima istituzione forense si sofferma a propria volta sulla necessità di restituire il primato alla “competenza”, ma anche alla “sensibilità comune” degli operatori di giustizia, dunque avvocati e magistrati insieme. Ritiene che sia effettivamente l’ora di una “task force” che si confronti sulle riforme. Anche per discutere di “spazio e qualità della pena, materia sulla quale la riflessione non è più rinviabile” . Non che Nordio non la pensi come Masi, ma certo i passaggi del suo intervento, ricco e come sempre vivissimo nonostante la forma del video a distanza, sono più generici proprio sull’esecuzione penale. Che, si limita di fatto a dire il guardasigilli, deve essere non solo “certa e definita con rapidità: la pena deve essere innanzitutto equilibrata”. Ma di Nordio va anche riconosciuta la decisione del suo impegno su riforme certamente destinate a incontrare ostacoli come la separazione delle carriere. Di sicuro, osserva, “il programma della maggioranza e del governo sarà attuato in tempi compatibili con il contenuto dei diversi interventi: se si può in poco tempo modificare una norma del codice penale, diverso è il discorso per le riforme costituzionali”, ed è ancora un chiaro riferimento alle carriere dei magistrati. In ogni caso, è la rassicurazione forse più convincente che il ministro offre alla platea dell’Unione Camere penali, “il programma sulla giustizia coincide in gran parte con le vostre proposte”. Certo, il discorso sull’unità della giurisdizione scandisce come una costante l’intera prima “giornata inaugurale” dei penalisti. Anche l’atteso, primo discorso a un evento dell’avvocatura pronunciato da Fabio Pinelli, nuovo vicepresidente del Csm, parte proprio dalla “toga che è simbolo immortificabile di civiltà”, ma che è anche “l’uniforme comune a tutti i giuristi del processo”. Tanto da rappresentare “il ruolo paritario di dignità di tutti i suoi protagonisti tecnici”. Riconoscimento che sintetizza rispetto ma anche appartenenza, considerato che Pinelli è a propria volta avvocato. Nella parte che il vertice di Palazzo dei Marescialli riserva all’analisi, ne emerge però soprattutto il profilo accademico. Non solo quando si sofferma sul valore della “reputazione”, diventata centrale “nelle dinamiche comunicative del processo”, seppur non indicata come “bene primario nel nostro ordinamento”. Pinelli rivela il proprio tratto più riflessivo soprattutto quando avverte che “la rincorsa di riforme su riforme rischia di generare una complessità ingestibile per i tecnici, e capace di creare sfiducia fra i cittadini”. Ecco perché, dice, serve “una pausa di applicazione”, sulla riforma Cartabia, prima di pensare a come rivederla: “Ne va prima testato l’impatto operativo”. La due giorni dei penalisti ha un programma ricchissimo: oggi, con Caiazza, vedrà sul palco, tra le altre, figure del calibro di Margherita Cassano, Giorgio Lattanzi e Francesco Paolo Sisto. Già ieri, con Masi, Nordio e Pinelli, si è assistito anche a un intenso confronto sulla pena fra Vittorio Manes, Gian Luigi Gatta e Carlo Renoldi. Merito della Camera penale di Ferrara presieduta da Pasquale Longobucco che, come ha ricordato il vertice del Coa romagnolo, Eugenio Gallerani, “è riuscita in un’impresa notevolissima nonostante non si tratti di una delle più numerose”. Ma gli avvocati sanno essere al centro del dibattito ben al di là della forza dei numeri. Milano. Cospito, le tensioni per il corteo: si temono arrivi anarchici da fuori città di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 11 febbraio 2023 La protesta è stata riaccesa dal no del ministro Nordio alla revoca del carcere duro per Alfredo Cospito: elusa una presenza massiccia delle frange estremiste. Gli anarchici in piazza, il rischio di incidenti, Cospito al 114° giorno di sciopero della fame con le condizioni di salute che si aggravano sempre di più. E il no alla revoca del carcere duro per l’anarchico del Guardasigilli Carlo Nordio agita ancora di più la protesta. Oggi alle 16 il corteo organizzato dall’”Assemblea cittadina contro il 41 bis e l’ergastolo”. Ossia l’ala insurrezionalista del movimento anarchico milanese - il circolo Galipettes del Corvetto e il Cuore in gola di via Gola - ma anche gli anarchici per così dire moderati, il collettivo universitario “Cambiare rotta”, i sindacati di base Si Cobas e una parte del mondo antagonista. I timori però sono legati al possibile arrivo da “fuori” di gruppi ben più determinati a prendere la scena. Come gli anarchici varesini, quelli di Lecco, Monza, Bologna, Rovereto, Bologna e Torino. Su questi ultimi - il fronte più agguerrito visto che Cospito, benché nato a Pescara appartiene all’area torinese -, c’è l’incognita di un presidio che sarà organizzato nelle stesse ore fuori dal carcere delle Vallette in solidarietà a una militante No Tav arrestata. Quello che appare chiaro alla vigilia è che comunque non dovrebbe trattarsi di una manifestazione a carattere nazionale visto che i gruppi del centro e sud Italia non sono previsti in maniera massiccia a Milano. Il no arrivato dal ministro della Giustizia però ha certamente ravvivato la protesta anche dell’area più moderata. Per questo il segnale più importante per capire il tenore della manifestazione e il rischio di violenze è legato al numero di partecipanti. La frangia dura e considerata dagli inquirenti pericolosa sul fronte dell’ordine pubblico non dovrebbe superare le 150-200 unità. In un corteo da 300-400 partecipanti sarebbe più controllabile da parte delle forze dell’ordine. Con il crescere dei numeri in piazza, e magari con 800-1.000 persone in strada, “gestire” le intemperanze anche solo di 150 manifestanti diventerebbe cosa ben più complessa. Finora l’impatto delle manifestazioni milanesi in sostegno all’anarchico Cospito è stato tutto sommato “limitato” a cortei improvvisati o a qualche intemperanza verso la stampa e contro il carcere. Oggi il corteo dovrebbe muoversi dopo le 16 da piazza Ventiquattro Maggio verso corso Lodi. Almeno così il percorso è stato “preavvisato” con una mail anonima arrivata in Questura. Digos, Nucleo informativo dei carabinieri, agenti e militari in tenuta anti sommossa presidieranno i Navigli fin dal primo pomeriggio. Anche perché i piani dei manifestanti potrebbero cambiare all’improvviso (anche in base al numero di partecipanti) e cercare invece di muoversi verso il centro o San Vittore. “Cospito usa il suo corpo come un’arma”, ha scritto nelle sette pagine del rigetto il ministro Carlo Nordio. Per il Guardasigilli ci sarebbe quindi una “corrispondenza” tra lo sciopero della fame del 55enne detenuto e l’agitarsi della piazza. Per questo un repentino aggravamento della sua salute rischia ancora di più di infiammare la protesta. Pisa. Ilaria Cucchi in visita al carcere: “Condizioni disumane e mancano le telecamere” di Luca Lunedì Corriere Fiorentino, 11 febbraio 2023 Il sopralluogo della senatrice Cucchi, che attacca: “Non ci sono telecamere, gravissimo”. “È brutto vedere persone costrette a vivere in condizioni che definire disumane non rende bene l’idea”. Va dritta al punto Ilaria Cucchi al termine della sua visita nel carcere Don Bosco di Pisa. “Una struttura in condizioni pessime, senza nessun tipo di manutenzione, anche quella più essenziale e con enormi carenze anche dal punto di vista igienico” dice la senatrice di Sinistra/Verdi. La sua visita è durata più di due ore, durante le quali Cucchi ha avuto modo di parlare con i detenuti di diverse sezioni, con il personale di polizia penitenziaria e con gli addetti delle associazioni di volontariato che lavorano all’interno del carcere: “Il personale è stato estremamente disponibile, ancora una volta bisogna dirlo e ricordarlo, abbiamo avuto a che fare con persone che sono costrette a svolgere il loro lavoro ogni giorno in maniera difficilissima. Ho incontrato inoltre una volontaria di una delle associazioni che operano in carcere e, anche con lei, ho avuto la sensazione che anche queste persone sono abbandonate a se stesse”. Carenze di strutture e spazi quelle riscontrate, ma in cima alla lista delle priorità va un punto specifico: “In questo carcere non ci sono le telecamere e questo io lo trovo un fatto estremamente grave, su questo sicuramente vorrò andare fino in fondo. In questo carcere come in tutti gli altri ci devono essere le telecamere, oltre che la necessaria manutenzione che consenta a queste persone recluse una vita dignitosa”. Cucchi fa poi riferimento alla vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico in regime di 41 bis che da giorni è in sciopero della fame: “Io sono stata a trovarlo la settimana scorsa e ci sono stata per un motivo: mio fratello è morto in carcere e di carcere e il mio desiderio più grande è che questo non accada più a nessuno”. Regime di carcere duro che, in attesa della pronuncia della Cassazione, è stato confermato a Cospito dal ministro della Giustizia Nordio: “Non voglio strumentalizzare la vicenda - ha detto Cucchi - ci sarà modo di parlarne, io sono andata perché preoccupata per le sue condizioni di salute”. In chiusura però qualcosa di più si lascia sfuggire: “Se il 41 bis è stato introdotto per un motivo, la domanda che dobbiamo porci è perché esista ancora. E la risposta è che è il fallimento di uno Stato che non mette in condizione i magistrati di fare serenamente il proprio dovere”. Parma. Il dramma di Ernesto Fazzalari, al 41 bis con un tumore aggressivo di Luigi Longo Il Riformista, 11 febbraio 2023 “La tutela della salute di ogni detenuto costituisce un’assoluta priorità”, questo è il pensiero del Ministro della Giustizia Carlo Nordio. E così, in effetti, dovrebbe essere perché il diritto alla salute, che discende dal più generale diritto alla dignità, è un bene fondamentale per l’uomo, ancor prima di quello retributivo, teso a infliggere una sofferenza al reo quale compenso per il male commesso. Diritto, quello alla salute, che - come sostenuto da G. Silvestri - “non si acquisisce per meriti né si perde per demeriti”. Da mesi Ernesto Fazzalari, detenuto al 41 bis presso il carcere di Parma ed ex numero due - dopo Matteo Messina Denaro - tra i ricercati più pericolosi d’Italia e arrestato il 26 giugno 2016, è sottoposto a cicli di chemioterapia in quanto affetto da adenocarcinoma duttale di tipo a cellule chiare: una forma di tumore al pancreas aggressiva e dalla prevedibile prognosi infausta. Il suo generale stato di salute appare già molto compromesso, rilevandosi dall’analisi della cartella clinica la vascolarizzazione della neoplasia unitamente alla presenza di metastasi linfonodali. Ciò nonostante, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha rigettato l’istanza di differimento pena. Secondo i magistrati, fuori dal circuito carcerario, Fazzalari non potrebbe ricevere cure diverse o migliori di quelle praticate in regime detentivo attraverso il continuo monitoraggio effettuato dai sanitari e la ininterrotta vigilanza del personale di Polizia penitenziaria, in grado di allertare in qualunque momento l’ausilio medico occorrente. Orbene, è innegabile che il regime speciale al quale è sottoposto Fazzalari limiti in maniera significativa l’indispensabile sinergia che dovrebbe sussistere tra divisione inframuraria e strutture sanitarie esterne, così compromettendo la tempestività delle cure e l’efficacia di quegli interventi che, nel suo caso, potrebbero rivelarsi perfino salva-vita. La mancata concessione del differimento di pena lede, infatti, il diritto alla salute del condannato, nella misura in cui gli nega la facoltà di scegliere di curarsi presso la struttura sanitaria da lui ritenuta più conforme alle sue esigenze e alla sua specifica condizione individuale. Infatti, è costretto a curarsi presso l’ospedale di Parma mentre non ha la facoltà di scegliere, in maniera libera e consapevole, il tipo di terapia a cui sottoporsi (ad esempio scegliere un metodo sperimentale praticato nei centri IRSSC o il metodo Di Bella) o finanche di rinunciare alle cure per essere accompagnato, attraverso apposite pratiche del dolore, verso una morte dignitosa e umana né è garantito alcun sostegno psicologico. Il difensore del Fazzalari, l’avvocato Antonino Napoli, ha più volte chiesto la nomina di un perito che valuti la compatibilità con il regime carcerario e persino l’accesso in carcere di un consulente di parte non viene autorizzata nonostante è stata da tempo chiesta al magistrato di sorveglianza e al direttore del carcere. Non vi è dubbio che una persona affetta da cancro non curabile può morire da solo in una cella in regime di 41 bis, lontano dall’affetto e dal sostegno dei propri cari, e che la chemioterapia può essere praticata in regime di Day Hospital, ma questa impostazione culturale è insensibile e disumana, oltre che di tipo vendicativo. Se ai carcerati, al pari di ogni altro soggetto, debbano essere riconosciuti il diritto alla salute, alla vita e alla dignità personale - che, in un ideale bilanciamento, prevalgono financo rispetto alle esigenze repressive dello Stato democratico-costituzionale - appare evidente che costringere Fazzalari a curarsi presso il CDT di Parma e l’Unità Operativa Complessa di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera della medesima città, non accordandogli il diritto di sottoporsi a cure e trattamenti, anche sperimentali, praticati presso centri d’eccellenza, presenti in altri luoghi del territori nazionale, costituisce una grave lesione del suo diritto alla salute, al consenso informato e all’autodeterminazione terapeutica. Così agendo lo Stato si trasforma in un dispotico, feroce e insensibile leviatano, che impone a un suo cittadino - in nome di una medievale concezione di giustizia retributiva, che rasenta la vendetta - una sofferenza che varcando i confini dell’umana tollerabilità, diviene, eticamente e giuridicamente, inaccettabile e non condivisibile. Bologna. Senzatetto rubò cibo per 5 euro nel 2006, dopo diciassette anni finisce in carcere di Francesca Sabella Il Riformista, 11 febbraio 2023 Giustizia ritardata è giustizia negata, diceva Montesquieu. E lo si sa bene che quella italiana è una giustizia lumaca, una lumaca che però ferisce a morte i cittadini che incontra lungo il suo cammino. Ed è successo ancora, se di giustizia in questo caso si può parlare. Questa volta la vittima è un uomo di 55 anni, un senzatetto, che ora finirà in prigione per aver rubato, ben diciassette anni fa, 5 euro di cibo. Sì. avete letto bene i numeri: 5 euro, 17 anni fa. E ora dovrà pagare con il carcere, il criminale senza scrupoli che si macchiò dell’atroce delitto finirà in gattabuia a Bologna. Il reato, gravissimo, si consumò a Firenze mentre il senzatetto era in struttura per homeless. Volete sapere quanto dovrà rimanere in una cella? Due mesi. Due mesi per cinque euro, due mesi per fame. L’assurda vicenda è stata ricostruita questa mattina dal giornale il Carlino e dalla Nazione. A suo tempo, era il novembre del 2006, l’uomo venne bloccato e poi denunciato per il tentato furto di pochi alimenti che vennero pure recuperati. Gli venne riconosciuta l’attenuante della lieve entità, la procura di Firenze chiese il rinvio a giudizio. Ebbene, ci furono i processi con la condanna, anche in appello, a due mesi. Quando la sentenza è diventata definitiva, nessuno però ha chiesto per lui una misura alternativa alla detenzione in carcere, richiesta che di solito fa il difensore, un legale d’ufficio in caso non ci sia l’avvocato di fiducia. L’avvocato d’ufficio, però, al tempo si è dimenticato di chiedere la sospensione della pena. E quindi due giorni fa i carabinieri hanno rintracciato il 55enne in una struttura di accoglienza per senza fissa dimora a Bologna e lo hanno portato al carcere di Dozza. Ma vi pare normale? Ma parliamo di uno Stato di diritto o di Polizia? Ma vi sembra questa una giustizia giusta? Ci manca solo che gli taglino le mani come si faceva nel Medioevo quando un ragazzino rubava una mela. È la storia di chi vive ai margini della società, di chi è invisibile agli occhi degli altri, di chi viene dimenticato prima, dopo e durante. Sempre. È una storia che fa venire i brividi per la non umanità. La legge va applicata, certo, ma l’idea dell’interpretazione della legge “secondo buonsenso”, com’è noto, nacque dall’intimo e puro convincimento che l’uomo sia per sua natura buono e giusto, e sappia perciò discernere ciò che è lecito e ciò che non lo è. Convincimento evidentemente sbagliato. Napoli. “Il ragazzo che sparò a mio marito ora mi chiama mamma” di Simona Brandolini Corriere del Mezzogiorno, 11 febbraio 2023 Lucia Montanino ha incontrato a Nisida il giovane che uccise il marito Gaetano e da anni lo segue nel suo percorso di riscatto: “Aveva solo 17 anni e aspettava un bambino. La prima volta che mi vide collassò dal dolore. Oggi lavora”. La Lucia che Francesca Fagnani ha ringraziato sul palco dell’Ariston è un angelo custode di Nisida. Ma soprattutto Lucia Di Mauro è una donna che ha avuto il coraggio di incontrare Antonio, l’assassino di suo marito, proprio in quel carcere minorile. Un dolore che s’è trasformato in riconciliazione e in riscatto. Gaetano Montanino era una guardia giurata e la sera del 4 agosto del 2009 fu ucciso durante un tentativo di rapina da parte di quattro giovanissimi. Il più piccolo della banda era Antonio, 17 anni. Condannato a 22 anni. Ma al compimento del venticinquesimo anno di età non è stato trasferito a Poggioreale, come avviene di solito. Se è rimasto nel carcere ‘e mare (così Claudio Mattone descrive quell’istituto di pena costruito su un’isola ai piedi della collina di Posillipo nel musical Scugnizzi) e poi ora è in libertà vigilata è proprio grazie a Lucia. Che ha adottato lui e la sua famiglia (ha due figli e una compagna), nel senso che se ne prende cura. “Per Antonio sono l’unica mamma che ha, me lo ripete in continuazione”. Come è avvenuto il vostro primo incontro? “Mica è stato facile, c’è voluto tempo. Da un dolore, attraverso un altro tipo di sofferenza, però può nascere qualcosa di buono. Il mio incontro con i ragazzi in carcere e con i detenuti. È la mia missione e Francesca l’ha capito e saputo esprimere. Non volevo che emergessero come mostri, sono figli nostri, devono avere una seconda possibilità se vogliamo che tornino nella società. Quando è morto mio marito mi sono chiesta: sono colpevoli quei quattro ragazzi o è tutto il sistema?”. E cosa si è risposta? “Mi sono sentita in colpa subito. Cosa avevo fatto per loro? Dovevo dare un senso diverso a quella morte ingiusta. Se la morte di mio marito servirà per salvare un solo ragazzo ci sarà un senso”. Antonio aveva diciassette anni... “E, da una settimana, aspettava un bambino. Il direttore di Nisida un giorno mi disse che voleva incontrarmi. Io non sapevo neanche chi fosse, mi ammalai subito di herpes zoster per lo stress. Mi facevo un sacco di domande: lo voglio incontrare per punirlo? E poi cosa faccio? Mia figlia non aveva la forza. Alla fine decisi di vederlo, ma avevo bisogno di tempo. Così ho iniziato ad andare a Nisida, a fare volontariato, a parlare, a raccontare”. Quindi vi incontrate in carcere? “La prima volta no. È successo per caso il 21 marzo durante la manifestazione di Libera. Mi giro verso il gruppo degli educatori e vedo questo bambino piangere. Don Tonino Palmese mi dice: non è il momento. Ma io lo avevo guardato negli occhi, tremava. Quando mi si è avvicinato è collassato, e io l’ho abbracciato. Abbiamo pianto insieme per un tempo infinito. Poi gli ho detto “fammi una promessa: facciamo insieme questa battaglia di legalità”. Dopo un anno il magistrato per la prima volta ha attivato un rapporto di riconciliazione tramite mediazione penale. Ma sa cosa abbiamo scoperto? Che a Napoli non ci sono mediatori, è un servizio che non esiste”. Antonio è in libertà vigilata dal 2017. Cosa fa? “Appena è uscito, nel 2017, è andato a lavorare in un bene confiscato intitolato a mio marito. Perché nessuno lo voleva. Poi con la pandemia ha perso il lavoro. Ci vediamo e ci sentiamo tutti i giorni. Ora abbiamo trovato un nuovo lavoro. Io non ho fatto con mia figlia quello che faccio per lui. Sono circondata da tanti amici, ma una mano da parte di un’istituzione mai”. Lei non ha solo perdonato chi le ha ucciso il marito, se ne prende cura. Come si fa? “Attraversando quattordici anni di sofferenza, ma serve uno sguardo verso l’altro. Non servono le commemorazioni, servono azioni che danno un senso a noi che rimaniamo. Non è questa la strada che può andare bene per tutti, ma per me sì. Tanti ragazzi in me ora vedono una speranza nel futuro. Ma io sono impotente e invece basterebbe poco. Penso da tempo a una proposta di legge: tu Stato, che hai risparmiato 14 anni di carcere per Antonio, investi quelle risorse in borse lavoro. Senza di me Antonio sarebbe tornato in carcere”. Cosa le dicono i ragazzi di Nisida? “Fanno tante attività, studiano, fanno musica, teatro, cucina. Ci dicono: perché tutto questo non ce lo avete fatto vedere prima che sbagliassimo. Molti preferiscono restare in carcere piuttosto che scontare pene alternative a casa. Ma ci deve essere qualcosa che li leghi al dopo”. Lei va in carcere, lunedì sarà a Poggioreale e a Secondigliano, ne ha fatto una ragione di vita. “Ma molti familiari delle vittime mi criticano, dicono che vado a braccetto con l’assassino di mio marito. Non elaborare il lutto ti trasforma. Sbagliano. Sono sicura che mio marito sarebbe stato contento invece. Mi appoggiava in tutto. Avevamo il sogno di aprire una casa famiglia insieme. Continuo da sola. Ma continuo”. Perché Mare Fuori non è solo carcere ma speranza: c’è la forza della scuola. E dello Stato di Valerio Papadia fanpage.it, 11 febbraio 2023 La serie Rai si conferma di fondamentale importanza nel convogliare l’attenzione dell’opinione pubblica sugli istituti penitenziari minorili e sulla condizione degli adolescenti, grazie a una narrazione non scontata nella quale tutti, a Napoli, a Roma o a Milano, possono riconoscersi. Al Festival di Sanremo si sono accesi i riflettori sul carcere minorile di Nisida, a Napoli, grazie al monologo della giornalista Francesca Fagnani. A calcare quello stesso palco saranno anche i protagonisti di Mare Fuori, serie targata Rai che parla proprio di un gruppo di giovanissimi reclusi nell’istituto penitenziario minorile di Napoli (l’isolotto di Nisida e il carcere minorile non vengono mai menzionati, la serie non è girata lì, ma il riferimento è chiaro). Prima della Fagnani a Sanremo, però, è stata proprio la fiction targata Rai - distribuita anche su Netflix - in tempi recenti a convogliare nuovamente l’attenzione dell’opinione pubblica sugli istituti penitenziari minorili e sulla condizione degli adolescenti in generale. Lo ha fatto grazie ad una narrazione non scontata, che si muove da Napoli e arriva sul palco dell’Ariston non soltanto per una questione di mera pubblicità (si tratta pur sempre di una fiction Rai, che in un evento Rai come il Festival di Sanremo è giusto trovi il suo spazio), ma perché in tre stagioni è riuscita a raggiungere tutte le periferie d’Italia, una storia in cui tutti si possono riconoscere. Chi si immedesima nei ragazzi di Mare Fuori - Ci si riconosce, ad esempio, in Filippo Ferrari, uno dei protagonisti, interpretato da Nicolas Maupas: milanese, di famiglia ricca, talento musicale in erba. Uno come lui non dovrebbe avere niente a che spartire con un istituto penitenziario, eppure Filippo si ritrova in carcere per un errore: dopo una notte di eccessi, il ragazzo provoca accidentalmente la morte del suo migliore amico. Ci si riconosce in Carmine Di Salvo (l’attore è Massimiliano Caiazzo), che vuole emanciparsi dalla sua famiglia criminale, vuole solo fare il parrucchiere e vivere con la sua Nina: Carmine perde molto, praticamente tutto, ma in fondo non perde mai la speranza di quella vita migliore che sogna da sempre. Ragazzi come Filippo e Carmine, ma anche come Pino, Edoardo o Totò, come Naditza e Silvia, ci sono a Napoli come a Milano, a Genova, a Udine, a Roma. Sono ragazzi che hanno commesso un errore, con sogni e speranze, difetti e contraddizioni, in cui tutti, senza bisogno di commettere un reato e finire in carcere, possono immedesimarsi. Non è Gomorra: in Mare Fuori c’è speranza - Dal 2019, anno in cui Mare Fuori ha debuttato su Rai Uno, c’è stato chi ovviamente ha accostato il prodotto a un’altra serie ambientata nel mondo criminale napoletano: Gomorra. Chi ci ha visto, ci vede o ci vedrà punti di contatto, però - a detta di chi scrive - sbaglia. Non inducano in errore il dialetto napoletano marcato, la violenza, gli atteggiamenti e il contesto criminale che contraddistinguono alcuni personaggi; in Mare Fuori c’è qualcosa che in quattro stagioni di Gomorra si è soltanto intravisto: lo Stato. E la speranza. Il comandante della Penitenziaria, Massimo Esposito (interpretato da Carmine Recano) dedica tutto sé stesso ai ragazzi dell’istituto. E così fa l’agente Liz (interpretata da Anna Ammirati), che spesso oltrepassa il confine tra vita professionale e privata affinché i ragazzi capiscano l’importanza di studiare. Oppure Beppe, l’educatore dell’istituto (interpretato da Vincenzo Ferrera) che sprona i ragazzi ad inseguire le proprie passioni: la musica, la poesia, la vela. Atteggiamenti positivi, modelli da seguire per i ragazzi, non soltanto all’interno dell’istituto: una speranza per quella che sarà la vita all’esterno, fuori, dove ci sono il mare, e la luce, ad attenderli. Peripezie da “vite di scarto” di Arianna Di Genova Il Manifesto, 11 febbraio 2023 “Non esisto”, l’ultimo romanzo di Alberto Schiavone, pubblicato da Clichy. Fa male la luce quando è abbacinante. Soprattutto quando investe la strada con la sua propensione metafisica e Maria, varcato il cancello, si ritrova in un desertificato “fuori”, soleggiato e afoso. Lei è sola, con quella libertà appena riconquistata che non dà gioia ma soffoca perché è rarefatta, senza confini né luoghi. È un vuoto, uno stordimento fisico e mentale. Così Alberto Schiavone ci presenta la protagonista del suo romanzo, che incontriamo il giorno in cui esce dal carcere senza nessuno che la porti via da lì, verso una possibile salvezza esistenziale. “Non esisto” (edizioni Clichy, pp. 180, euro 18,50, dal 14 in libreria), racconta la vertigine di uno sperdimento, l’emarginazione emotiva di chi non ha comunità e intuisce il proprio destino scritto nei precipizi. Maria cammina, incespicando più volte, sul bilico perenne tra bene e male: abbandonata dalla famiglia, inseguita dal caricaturale figlio di un boss che la vuole uccidere, barbona in una scuola in disuso dove subisce violenze, tradita da amica e amante, quando apparentemente risorgerà in una stanza d’appartamento abitato da “vite di scarto” (direbbe Bauman), non può che trasformarsi nell’anti-eroina designata di un mondo che a tratti si fa fumettistico - ma non per questo meno tragico. Come quando troverà il suo futuro compagno, ubriaco e sudicio, dentro un bidone dell’immondizia (fa la netturbina e gli effluvi maleodoranti le si attaccano addosso, condannandola a essere rifiuto urbano lei stessa). Maria ha notato una mano che spuntava dal cassonetto, ma il romanzo non prende la direzione di una trama splatter. Non è un cadavere, ma un’altra “vita di scarto” da soccorrere, una promessa d’amore effimera. Schiavone è nato a Torino nel 1980, lavora per Feltrinelli e nel corso del tempo ha pubblicato “La libreria dell’armadillo” (Rizzoli), “Dolcissima abitudine” e “Ogni spazio felice” (Guanda). Ha pure una consuetudine con il linguaggio “visivo” delle graphic novel avendo affrontato in questa forma le biografie di Belushi e Simenon e, in questo romanzo, sfodera una scrittura puntigliosa e insieme poetico-surreale che rende quotidiana l’eccentricità dei suoi personaggi, insistendo sulla finzione letteraria e sul gioco narrativo a incastri. Anche il titolo “Non esisto” allude, oltre che al disagio dell’isolamento che ognuno sconta ferocemente a modo suo, a un fantomatico agitarsi di persone inafferrabili, pronte a svanire al risveglio del lettore/lettrice. Per questo motivo, la storia non ha alcuna velleità sociologica pur pescando nelle periferie dell’immaginario, in quelle zone d’ombra in cui Maria riesce a rendersi visibile grazie alla sua stessa luce. Che però fa male. “Più ordine e disciplina” per intercettare le pulsioni del Paese di Enzo Risso Il Domani, 11 febbraio 2023 La maggioranza degli italiani vuole più ordine e disciplina. E non empatizza con chi viola le regole. Anzi, potendo, preferisce farsi giustizia per conto proprio. Il caso di Alfredo Cospito, anarchico detenuto al 41 bis, se da un lato polarizza il dibattito politico favorendo uno scontro muro contro muro, dall’altro deve fare i conti con i sentimenti contrastanti di un paese dove non mancano certo posizioni giustizialiste. Il tema del bisogno di ordine e disciplina è un refrain che riecheggia spesso quando si interrogano gli italiani. Il 56 per cento delle persone avverte l’esigenza che in Italia si affermino maggiormente proprio questi valori, specie nei ceti popolari (63 per cento) e nel nord est (60 per cento). Anzi, per il 70 per cento degli italiani, l’obbedienza e il rispetto per l’autorità sono i valori più importanti che i bambini dovrebbero imparare e che i genitori dovrebbero insegnare. Per il 63 per cento dell’opinione pubblica, inoltre, nel nostro paese non è necessario battersi per incrementare i diritti civili, ma occorre un maggior impegno su legge o ordine. Su questa linea sono schierati maggiormente il ceto medio basso (67 per cento), gli over cinquanta (70 per cento) e i residenti nel nord ovest (69 per cento). Sindrome del giustiziere - Nelle viscere della società italiana troviamo anche alcuni elementi che riecheggiano la sindrome del giustiziere. Per il 46 per cento degli italiani è necessario farsi giustizia da sé, perché il sistema giudiziario non funziona e i ladri e i criminali vanno in giro liberi. Un dato che si avvicina al 59 per cento tra i ceti popolari e oltre il sessanta per centro tra gli elettori di Fratelli d’Italia e della Lega. Il 68 per cento degli italiani, per di più, ritiene assolutamente giusto e legittimo difendersi da soli se un ladro entra in casa o in un negozio, anche a rischio di uccidere il reo. L’accordo su questo argomento coinvolge il 66 per cento delle persone di età compresa tra i 31 e i 50 anni, dei residenti nel nord ovest e nelle isole, nonché quasi il settanta per cento di astensionisti e indecisi su quale partito votare (oltre, ovviamente, il 68 per cento delle basi elettorali di Fdi e Lega). Il dato tocca, anche se in forma minoritaria, una parte dell’elettorato di centrosinistra: il 46 per cento degli elettori del Pd e il 43 per cento di quelli di Matteo Renzi e Carlo Calenda. Sul crinale tra civismo e interventismo sostitutivo alle autorità, si muove il 63 per cento delle persone che si arrabbiano e si sentono legittimate a intervenire direttamente se vedono una persona che non rispetta le norme. Si tratta in particolare di soggetti di età superiore ai cinquant’anni, elettori all’81 per cento della Lega, al 74 per cento di Forza Italia e al 68 per cento di FdI. Anche in questo caso il dato è leggermente più basso nelle altre aree politiche, con il 49 per cento di interventisti tra i supporter di Azione e Italia viva. Leader forti - Insieme alle spinte da sindrome del giustiziere possiamo riscontrare altri sintomi che mostrano un quadro accondiscendente verso posizioni autoritarie come, ad esempio, il bisogno o l’auspicio di trovare un leader politico forte e determinato, in grado di spazzare via tutte le cose che non vanno nel nostro paese (59 per cento). Un’esigenza avvertita in particolare dal 64 per cento di donne e di trenta-cinquantenni, dal 66 per cento dei ceti popolari e dal 63 per cento dei residenti nel nord ovest. Nelle profondità dell’Italia appare maggioritario un certo spirito convenzionalistico. Il 59 per cento degli italiani ritiene che sia meglio essere virtuosi e obbedire alle leggi piuttosto che mettere sempre in discussione le fondamenta della nostra società. Ne sono convinti, soprattutto, gli uomini e gli over cinquantenni (65 per cento), nonché i residenti nel nord ovest. Maggiormente anticonvenzionali risultano, invece, le donne e i giovani. Le pulsioni autoritarie e la sindrome del giustiziere, come hanno mostrato molti studi, anche recenti, sono una delle possibili risposte all’ansia provocata dalla percezione che la propria realtà, la propria esistenza, stia perdendo stabilità. Tale reazione è tanto più forte quanto maggiore è il bisogno dell’individuo di vivere in un contesto stabile e ordinato. La polifonia delle crisi cui sono sottoposte le persone in questi anni (Covid, guerra, inflazione, rischio posto di lavoro, clima ecc.), alimenta la sensazione di non riuscire a vedere una via d’uscita e il 54 per cento è alla ricerca di calma e tranquillità. Un humus in cui possono facilmente far breccia le sirene dei partiti conservatori, ma anche le istanze di chi apprezza, nella politica e nei suoi leader, modelli dirigisti. *Ricercatore I diritti al tempo di Internet di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 11 febbraio 2023 Siamo la terza economia in Europa, ma la nostra popolazione ha basse competenze nella digitalizzazione. E si rischia di aumentare le diseguaglianze. La digitalizzazione avanza nel Paese. È una priorità del Pnrr. In 10 anni gli utenti di internet sono passati da 29 a 44 milioni. Le differenze di genere nella popolazione fino a 60 anni si sono azzerate. Nord e Sud si sono riavvicinati. La quasi totalità dei lavoratori usa Internet. I valori più bassi si evidenziano tra operai e lavoratori in proprio che nel 12% dei casi non lo utilizzano. I bimbi da 6 a 10 anni hanno fatto un balzo con la pandemia di 27 punti anche grazie alla didattica a distanza. Tuttavia permangono importanti criticità. Innanzitutto, perché gli ultrasettantacinquenni ne sono esclusi. Solo il 17% usa Internet. Ma c’è un altro grave problema, le basse competenze della popolazione. Oltre la metà dei cittadini non dispone di competenze digitali di base. Anche tra i giovani. Siamo la terza economia in Europa ma ci collochiamo al venticinquesimo posto per capitale umano impiegato specificamente in questo ambito. Abbiamo pochi laureati, in generale, e in particolare in Ict, nell’area delle nuove tecnologie. Soltanto l’1,5%, 5 punti in meno della media europea. Meno lavoratori specializzati e con differenze di genere elevate. Le donne sono solo il 16% degli specialisti Ict. Il basso tasso di iscrizione a questi corsi di laurea frena le prospettive di crescita futura. Meno laureati vuol dire meno lavoratori futuri all’altezza delle sfide nel settore e in tutto il mondo del lavoro. Il rafforzamento delle competenze digitali e lo sviluppo del capitale umano sono punti cruciali. Senza non sarà possibile garantire una trasformazione digitale veramente inclusiva e all’altezza delle necessità. E la stessa digitalizzazione incontrerà ostacoli a svilupparsi. Non potrà che essere meno incisiva. E invece di diventare una opportunità per tutti, e garanzia di democrazia, può trasformarsi in motivo di ulteriori diseguaglianze e di indebolimento della stessa democrazia. Se non si potenzieranno le competenze, non crescerà la consapevolezza nell’utilizzo e sarà più facile essere truffati, diventare vittima di qualsiasi raggiro o violenza e anche delle fake news. La consapevolezza cresce con lo sviluppo delle competenze. L’educazione all’uso delle nuove tecnologie è parte stessa dell’istruzione e, insieme alla partecipazione, è un ingrediente fondamentale per l’esercizio della democrazia. Se non sapremo intensificare gli sforzi per la crescita di una vera alfabetizzazione informatica, la digitalizzazione stessa non potrà svilupparsi adeguatamente. Investire in formazione, soprattutto nell’ambito Ict, è il presupposto per sviluppare il pensiero critico, per dare spazio alla creatività in tutti i sensi, sia essa scientifica, artistica o tecnologica. Il potenziale offerto dalle nuove tecnologie per lo sviluppo della democrazia è grande, ma ci vuole un governo consapevole del processo. Senza un allargamento significativo dell’utenza e della sua competenza i rischi diventeranno maggiori delle grandi opportunità. Abbiamo bisogno di dar corpo ad una cittadinanza attiva anche su questo terreno; di far sì che Internet sia sempre di più una grande risorsa per la democrazia. Dobbiamo farlo, sviluppando skill utili ad esercitare i diritti di cittadinanza digitale e garantire una partecipazione democratica più ampia possibile. Sapere è potere. Non stiamo facendo abbastanza per chi non sa o sa troppo poco. Un Paese democratico non può non promuovere la crescita dei saperi dei cittadini, specialmente su quegli aspetti che rappresentano il modo in cui si eserciterà il potere in un futuro molto prossimo. Altrimenti l’esercito degli esclusi si ingrosserà. E il potere di pochi aumenterà. Migranti. Lo “scambio” tra Meloni e Rutte porta l’intesa tra i leader Ue di Marco Bresolin La Stampa, 11 febbraio 2023 L’Italia accetta di riprendere i rifugiati fuggiti a Nord in cambio di un vago accenno alle navi delle Ong. “Io ho bisogno del tuo sostegno per far inserire nelle conclusioni un riferimento alla necessità di regolamentare l’attività di ricerca e salvataggio delle Ong”. “Ok, io però voglio che l’Italia dia il via libera a un passaggio che chiede di rispettare le regole di Dublino sulla registrazione dei migranti e sul loro ritorno nei Paesi di primo ingresso”. Durante il Consiglio europeo di giovedì, Giorgia Meloni e Mark Rutte si sono chiusi in una stanza per una trattativa serrata in formato bilaterale. La premier italiana e quello olandese ne sono usciti dopo 45 minuti con un accordo frutto dello scambio di cui sopra e che poi è stato sottoposto agli altri leader. L’intesa ha permesso di sbloccare l’impasse che si era creata al tavolo del Consiglio europeo sul capitolo immigrazione. Un risultato che ha consentito a entrambi i leader di cantare vittoria per aver portato a casa ciò che volevano. L’Olanda a costo praticamente zero, l’Italia al prezzo di una stretta sui controlli per prevenire i movimenti secondari dei migranti che fuggono verso il Nord Europa. Il passaggio frutto del “do ut des” è stato aggiunto al punto 27 delle conclusioni e recita così: “Il Consiglio europeo prende atto dell’intenzione della presidenza di discutere, in occasione della prossima sessione del Consiglio “Giustizia e Affari interni”, dell’attuazione della tabella di marcia di Dublino, nonché dell’impegno effettivo dell’Ue alle frontiere esterne, anche per quanto riguarda le operazioni di entità private”. Per Giorgia Meloni quest’ultimissima parte (“anche per quanto riguarda le operazioni di entità private”) rappresenta la breccia attraverso la quale cercare di convincere i partner Ue ad adottare un codice di condotta per le navi umanitarie delle Ong che fanno attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. L’Italia avrebbe voluto una formulazione più esplicita, ma il testo inizialmente concordato con Rutte è stato poi emendato durante l’esame degli altri leader. L’intesa è stata esaminata con attenzione da diversi capi di Stato e di governo, soprattutto da Emmanuel Macron, dal belga Alexander De Croo, dall’austriaco Karl Nehammer e da Olaf Scholz. Il tedesco ha apprezzato il passaggio sulla tabella di marcia di Dublino - che di fatto imporrà ai Paesi come l’Italia di registrare tutti i migranti e di riprendersi i cosiddetti “dublinanti” - perché anche la Germania ha il problema dei movimenti secondari, ma ha cercato di annacquare il più possibile il passaggio sulle “operazioni di entità private”. Il governo di Berlino si oppone fermamente alla regolamentazione dell’attività delle Ong e anche il premier lussemburghese Xavier Bettel è intervenuto durante la plenaria per dire a Meloni che bisogna stare attenti a non violare il diritto internazionale e i valori europei. E infatti nelle conclusioni - laddove si riconosce “la specificità delle frontiere marittime”, come richiesto dall’Italia - i leader hanno voluto mettere nero su bianco l’importanza della “salvaguardia delle vite umane”, dunque delle operazioni di salvataggio. Il muro di Orban - Al summit ha tenuto banco il tema del finanziamento con i fondi del bilancio Ue delle barriere ai confini, richiesta in particolare da Austria, Grecia, Polonia, Bulgaria e Ungheria. Viktor Orban ha detto di aver bisogno di soldi perché la barriera che protegge la frontiera ungherese non è abbastanza alta e vorrebbe portarla a 5 metri. La formulazione nel testo delle conclusioni è volutamente generica, ma fa un passo in quella direzione: il Consiglio “chiede alla Commissione di mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere”. La patata bollente passa dunque nelle mani di Ursula von der Leyen che deve fare i conti con le posizioni divergenti dei due principali partiti politici che sostengono la sua maggioranza al Parlamento europeo: i popolari sono nettamente favorevoli, mentre i socialisti si oppongono. Gli aiuti di Stato - Rutte e Meloni - che all’inizio della settimana si erano sentiti al telefono proprio per avviare questa cooperazione - hanno discusso anche di come affrontare il capitolo relativo agli aiuti di Stato. L’allentamento delle regole che favorisce Francia e Germania non piace a Italia e Paesi Bassi, ma per ragioni opposte. Meloni è scettica perché teme l’accentuarsi delle disparità all’interno dell’Ue tra chi ha maggiori margini di bilancio e chi invece ha una possibilità di spesa più limitata. Rutte è invece convinto che sia sbagliato “drogare” l’industria europea con i sussidi pubblici. Per questo hanno spinto per chiedere alla Commissione l’impegno a monitorare la situazione con report periodici da trasmettere al Consiglio, al fine di evitare una frammentazione del mercato interno. Ma le due posizioni sono destinate a dividersi presto, visto che l’Italia non si accontenta della flessibilità ottenuta sui fondi del Pnrr. Il governo è pronto - a partire dal Consiglio europeo di marzo - a dare battaglia per chiedere nuovi finanziamenti comuni. Una posizione che Rutte non soltanto non sostiene, ma che cercherà di osteggiare a tutti i costi perché ritiene che non sia necessario fare ricorso a ulteriori fondi. Su questo la sua posizione è destinata a riallinearsi con la Germania, che resta contraria all’emissione di nuovo debito comune. Migranti. L’Italia canta vittoria ma il cambio di passo non c’è di Claudio Tito La Repubblica, 11 febbraio 2023 La premier è riuscita a mediare con l’Olanda e ha detto sì alla costruzione dei muri in cambio di risposte europee: mancano però tempi certi e fondi. “Sulle migrazioni siamo molto soddisfatti dei risultati ottenuti al vertice. La giornata di ieri stabilisce un principio: si cambia approccio”. Giorgia Meloni ieri cantava vittoria. In particolare per come il Consiglio europeo aveva affrontato la questione migratoria. E puntava l’accento su due aspetti: il riconoscimento che l’emergenza è “un problema europeo e richiede una risposta europea” e la “specificità” delle frontiere marittime. Ossia le nostre. Ma è davvero un cambio di approccio? Al di là delle conseguenze pratiche di queste due affermazioni contenute nel documento finale del vertice, non sembra che sia davvero una “rivoluzione” e nemmeno un “cambio di approccio”. Marzo 2016, riunione del Consiglio europeo. Capo del governo italiano, Matteo Renzi. Documento finale: “Si conferma la propria strategia globale intesa ad affrontare la crisi migratoria. Diversi elementi della nostra risposta europea comune sono ormai istituiti e stanno dando i loro frutti”. E ancora: “La ripresa del controllo delle nostre frontiere esterne continuerà a costituire una priorità”. Quindi la “risposta europea” era già contemplata. Dicembre 2016, riunione del Consiglio europeo. Capo del governo italiano, Paolo Gentiloni. Documento finale: “Si ribadisce inoltre l’esigenza di rimanere vigili riguardo ad altre rotte, anche nel Mediterraneo occidentale, in modo da essere in grado di reagire rapidamente in caso di evoluzioni della situazione”. Quindi il Mediterraneo occidentale, la parte di mare che ci riguarda, era già specificatamente menzionata. Giugno 2018, riunione del Consiglio europeo. Capo del governo italiano, Giuseppe Conte. Documento finale: “È una sfida, non solo per il singolo Stato membro, ma per l’Europa tutta”. E ancora: “L’Ue resterà al fianco dell’Italia e degli altri Stati membri in prima linea a tale riguardo”. Anche in questo caso quindi la “risposta europea” era già contemplata. Nessun “cambio di approccio”. Ma al di là del sovradimensionamento dei risultati raggiunti ieri su questo terreno, anche in questo caso tutto è stato rinviato almeno al prossimo mese. Giorgia Meloni è riuscita a mediare con un interlocutore ostico come l’olandese Rutte, ma il prodotto finale resta impalpabile. Pur di ottenere una qualche forma di apertura, l’Italia ha dato il via libera alla costruzione di eventuali muri a tutela delle frontiere terrestri. Richiesta pervenuta in particolare dai leader Conservatori alleati della premier italiana. In cambio di cosa? La conferma che le risposte saranno europee. E di una “specificità” marittima. Ma questa sottolineatura non è stata accompagnata da nessuno strumento concreto che renda “specifico” l’intervento volto a bloccare la migrazione clandestina. La presidente del Consiglio ha insistito durante la conferenza stampa sulla necessità di sostenere i Paesi rivieraschi da cui partono i barconi che si dirigono verso la Sicilia. In particolare ha rimarcato l’urgenza di aiutare gli Stati africani, anche quelli subsahariani. Provvedimenti già evocati in passato ripetutamente. In questo caso, però, manca comunque la decisione. Non esistono fondi o stanziamenti nuovi in grado di affrontare questo tema. Il cosiddetto “modello Turchia” che ha comportato un costo per l’Ue di 6 miliardi di euro non sembra neanche una prospettiva. Palazzo Chigi aveva programmato uno scambio con la costruzione dei muri. Ma manca la merce barattata. Né soldi per aiutare i territori di partenza, né operazioni comunitarie come la vecchia “Sophia”. Né tantomeno il sogno della destra italiana: il blocco navale. Senza contare che la stessa Meloni ha ammesso che il percorso della redistribuzione dei migranti non esiste. Per soluzioni concrete, insomma, bisognerà ancora aspettare. Traffico di esseri umani, dal dark web alle piattaforme dei social media: i nuovi strumenti dei mercanti di persone La Repubblica, 11 febbraio 2023 Uno studio dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM) in collaborazione con il Bureau of Population, Refugees and Migration del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. L’uso della messaggistica istantanea. I trafficanti di migranti utilizzano sempre più frequentemente i social media e le applicazioni di messaggistica istantanea tipo whatsapp per promuovere e fornire i loro servizi illegali, secondo uno studio pubblicato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) e focalizzato su Messico, Repubblica Dominicana e America Centrale. Lo studio ha evidenziato come la tecnologia digitale abbia reso più facile per i trafficanti lo scambio di denaro, di beni e di informazioni e contestualmente abbia complicato l’intervento dell’autorità giudiziaria e le indagini di polizia. La maggior parte di queste attività illegali viene svolta attraverso piattaforme facilmente accessibili e attraverso applicazioni di uso comune piuttosto che sul Dark Web, gruppo di siti Internet nascosti e accessibili solo attraverso un browser apposito, per mantenere l’attività online anonima e privata, spesso a sostegno di attività illegali, ma non solo: in alcuni casi lo si usa per aggirare la censura imposta dal loro governo. Il contesto. La regione del Centro America, del Messico e della Repubblica Dominicana costituisce, per la sua posizione geografica, una delle principali vie di transito per migliaia di migranti che cercano di attraversare il confine meridionale degli Stati Uniti d’America. Questo aspetto, insieme alle difficoltà che i suddetti paesi vivono in termini di sicurezza, di amministrazione della giustizia e di protezione dei migranti, ha portato a un numero significativo di persone a cadere nelle reti del traffico di migranti (TIM). Numero che è ulteriormente cresciuto durante la pandemia a causa delle restrizioni imposte agli spostamenti. Le rotte dei migranti. Il Global Study on Migrant Smuggling dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC, 2018) ha rilevato che, come in altre regioni, le rotte del traffico di migranti nelle Americhe sono flessibili e soggette a cambiamenti rapidi e significativi. Tuttavia, si possono distinguere due grandi vie predominanti. La prima collega i flussi provenienti dall’America Centrale e Meridionale, prima con il Messico e infine con gli Stati Uniti e il Canada. La seconda è un percorso con più destinazioni tra paesi della stessa regione. La pubblicità sui social network. Girano video di trasferimenti andati a buon fine e poi li pubblicano sui social network per promuovere i propri servizi. Il marketing digitale ormai è diventato una specialità anche per i contrabbandieri. Grazie ai social network i trafficanti trovano i clienti e gli aspiranti migranti trovano i trafficanti. In questo modo entrano in contatto, condividono informazioni, organizzano e partecipano ai viaggi per passare da un paese all’altro. La messaggistica istantanea e le tecnologie di geo-localizzazione in tempo reale, inoltre, facilitano la pianificazione e l’esecuzione del viaggio. La testimonianza. “All’inizio del mio viaggio non mi è stato permesso di contattare il contrabbandiere per evitare il tracciamento delle comunicazioni”, ha raccontato all’IOM un migrante in transito in Messico. “Ma una volta arrivato in città, ho condiviso in tempo reale la mia posizione con i trafficanti e loro mi hanno guidato tramite un’applicazione di messaggistica perché io arrivassi a destinazione”. Lo studio. Per il dossier, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni ha intervistato 531 migranti in transito tra America Centrale, Repubblica Dominicana e Messico. Il 64 per cento degli intervistati ha viaggiato con uno smartphone e un collegamento a Internet. I risultati raccontano che la gran parte delle persone migranti comprese in una fascia di età tra i ventisei e i trentacinque anni utilizza le tecnologie durante la traversata, mentre gli over quarantasei le usano di meno. Il 47 per cento dei migranti maschi ha usato i social network per pianificare la partenza contro il 35 per cento delle donne. Solo il 18 per cento degli intervistati ha confermato di non avere utilizzato alcun tipo di tecnologia. Il contrasto alla criminalità organizzata. L’aumento dei flussi migratori nella regione dell’America Centrale, del Messico e della Repubblica Dominicana ha portato un numero significativo di migranti a rischiare di utilizzare i servizi delle reti di traffico di migranti (TIM) per attraversare i confini internazionali oppure per spostarsi all’interno dei paesi di transito, denuncia l’IOM. Nella regione il reclutamento dei migranti è solitamente un’attività attrattiva poiché i profitti percepiti sono sempre superiori ai costi. Ecco perché sono stati compiuti vari sforzi per combattere questo crimine. Uno dei più rilevanti è la preparazione del Piano di lavoro sul traffico di migranti 2019-2025 nell’ambito della Conferenza Regionale per le Migrazioni (CRM). Allo stesso modo sono nate delle operazioni guidate da Interpol con il supporto di altre organizzazioni internazionali, il cui obiettivo principale è combattere il traffico di migranti e la tratta di esseri umani nei paesi partecipanti. Carcere duro, l’Italia fa scuola anche in Belgio di Marco Perduca Il Riformista, 11 febbraio 2023 Esploso come scandalo di annacquamento di documenti del Parlamento europeo relativi a violazioni di diritti umani, il Qatargate sta mettendo a nudo gravi violazioni dello Stato di Diritto in Belgio. Ma in pochi lo denunciano. Malgrado il ferreo segreto istruttorio belga si ha notizia sulla pessima qualità della detenzione dei coinvolti, della custodia cautelare in carcere e dell’applicazione della normativa sui collaboratori della giustizia ricalcata sulle leggi antimafia italiane. Ma ricapitoliamo i fatti: il 9 dicembre 2022 vengono arrestati l’ex eurodeputato Antonio Panzeri, il suo ex-assistente Francesco Giorgi, Eva Kaili, all’epoca vice-presidente dell’europarlamento e Niccolò Figà-Talamanca, segretario dell’Ong “Non c’è pace senza giustizia” accusati di associazione per corruzione e riciclaggio. Il 3 febbraio Figà-Talamanca è stato liberato senza condizioni, gli altri restano dentro. Il 17 gennaio è emerso che Panzeri ha iniziato a collaborare con la giustizia firmando un memorandum che prevede un anno di reclusione, 80.000 euro di sanzione e la confisca dei proventi dalle attività criminali (circa 1 milione di euro). Nel 2018 il Belgio ha modificato alcuni articoli del codice di procedura penale che “riguardano sospetti che si sono pentiti”. Il patto sarebbe stato siglato a 24 ore dall’arresto. La legge belga sui collaboratori di giustizia si rifà talmente tanto alla nostra che si usa l’espressione italiana “pentiti” per riferirsi a chi se ne avvale. Il Qatargate è la seconda volta che queste norme vengono applicate, la prima fu il cosiddetto “Footbelgate” del 2017-19 nel corso delle cui indagini 23 persone furono accusate di uno o più reati ma 17 furono rilasciate su condizioni, sei senza. L’uso dei “pentiti” in Belgio è autorizzato a due condizioni cumulative: “che le esigenze dell’indagine lo richiedano e che altri mezzi non siano sufficienti alla manifestazione della verità”. La misura riguarda reati di una certa gravità. L’avvocato di Panzeri s’è affrettato a chiarire che il suo assistito ha firmato in stato di shock; indipendentemente dal fatto che si sia di fronte a una reale volontà di revisione delle proprie condotte, l’inchiesta ora si baserà su quelle dichiarazioni non occorre cercare prove di colpevolezza, il Procuratore Claise ha usato le confessioni di chi è stato scioccato dalla detenzione per cancellare l’immunità euro-parlamentare a Marc Tarabella e Andrea Cozzolino. Anche Giorgi ha iniziato a parlare ma non si sa se da “pentito”. Chi invece continua a proclamare la propria estraneità ai fatti è Kaili. Il giorno del suo arresto Eva Kaili è stata rinchiusa in una camera di sicurezza senza poter andare in bagno malgrado avesse le mestruazioni e privata del cappotto malgrado la stanza fosse gelida. Cosa ancora più disumana e traumatizzante, dalla sua “traduzione” al carcere di Haren continua a essere tenuta separata dalla figlia di due anni. È eccessivo parlare di tortura in questo caso? Rileggiamo l’art. 1 della Convenzione ONU che definisce la tortura come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni”. La legge belga prevede che le detenute madri possano avere con sé prole fino a tre anni di età, dopodiché i bambini non possono restare in carcere. A febbraio 2023 in Belgio le madri detenute con figli sono sei. Perché non si rispetta la legge nei confronti di una persona che, tra l’altro, si trova in regime di custodia cautelare? Possibile che, tranne la deputata italiana Deborah Bergamini che, nella sua veste di membro della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, ha formalmente interrogato Maria Buric, Segretaria Generale del Consiglio, sulle condizioni di detenzione di Kaili, le istituzioni europee stiano zitte? A dicembre 2022 un giudice olandese ha richiamato una recente relazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa sulle carceri in Belgio per negare un’estradizione. A oggi in Belgio sono ristrette 11.199 persone per una capienza regolamentare di 9.739 posti in strutture spesso vecchie anche di 150 anni. La carenza di agenti penitenziari ha fatto scattare scioperi che per settimane hanno impedito che i detenuti ricevessero biancheria o visite. La moglie di Figà-Talamanca è stata rimandata a casa un paio di volte. Il Belgio non ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura - un accordo per prevenire pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che consente la visita di autorità internazionali nelle carceri dello Stato dell’Onu. Anche in mancanza di obblighi internazionali, però, parlamentari nazionali o europei possono far richiesta di visita ispettiva a istituti di pena in Europa. Possibile che nessuno ci abbia provato? Neanche tentare l’impresa rende conniventi a queste patenti violazioni di diritti umani. Bielorussia. Otto anni di carcere duro al giornalista dissidente Poczobut di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 11 febbraio 2023 Scriveva per il principale giornale di opposizione Polacco. Il regime di Likashenko lo condanna per “istigazione all’odio e propaganza nazista”. Otto anni di carcere duro per il reporter bielorusso Andrzej Poczobut che potrebbero significare 96 mesi in campi di lavoro forzato sotto il regime di Lukashenko. Ritenuto dai giudici “una minaccia per la nazione bielorussa”, il giornalista e dissidente è stato condannato mercoledì scorso, in un processo svoltosi a porte chiuse, anche per i reati di istigazione all’odio e propaganda nazista. Poczobut era stato arrestato due anni fa nella città di Hrodna, bastione della folta minoranza polacca presente nel paese, di cui fa parte lo stesso giornalista. Era da lì che Poczobut scriveva i suoi articoli ? considerati scomodi dal potere ? per Gazeta Wyborca, il principale quotidiano di opposizione in Polonia. “In provincia la pressione sui giornalisti può essere perfino più forte lontano dagli occhi indiscreti della capitale. Ad ogni modo, la sicurezza di cui gode un corrispondente straniero sarà sempre maggiore rispetto a quella di qualsiasi giornalista locale. Nel mio caso il problema risiede nel fatto che sono un cittadino bielorusso difeso e tutelato da una redazione al di fuori del mio paese”, aveva confessato dopo il suo primo arresto nel lontano dicembre del 2010, a ridosso delle presidenziali dalle quali Lukashenko sarebbe uscito vincitore con un quarto mandato consecutivo nonostante le solite contestazioni e accuse di brogli. Nei due anni successivi viene arrestato altre due volte tra computer confiscati e diversi blitz del Kgb nel suo appartamento. La seconda volta viene liberato ma con il divieto di lasciare Hrodna. Anche se il giornalista bielorusso continua ad avere tutte le carte in regola per ottenere la cittadinanza polacca, non ha mai voluto lasciare il proprio paese per paura di non potervi fare ritorno. Poczobut è anche un esponente di spicco di quel ramo dell’Associazione dei polacchi in Bielorussia (Zpb), con sede nella stessa regione, considerato marcio dalle autorità bielorusse. Con la mancata “rivoluzione delle ciabatte”, partita dal basso e repressa nel sangue dal dittatore bielorusso nell’estate del 2020, anche la minoranza polacca finisce nel mirino di Lukashenko. Oltre a Poczobut viene arrestata anche l’ex-presidente della Zpb, Andzelika Borys, liberata poi a marzo scorso. Nessuno sconto invece per il giornalista: “Non nutro nessuna speranza sull’esito del processo. Accetterò il verdetto con serenità e finirò con la coscienza tranquilla in un lager. Questo è il mio destino”, aveva scritto qualche mese fa con un certo fatalismo in una delle sue ultime lettere dalla prigionia. “È una sentenza disumana e l’ennesimo atto di persecuzione dei polacchi in Bielorussia”, ha commentato il premier polacco Mateusz Morawiecki, un convinto sostenitore della pena di morte proprio come Lukashenko. Jihadismo in Africa, emarginazione e povertà sono fattori decisivi per il terrorismo di Antonella Sinopoli* La Repubblica, 11 febbraio 2023 Uno studio dell’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, riportato da Nigrizia, individua difficoltà economiche e impossibilità di inserimento in contesti lavorativi come cause che spingono i giovani ad unirsi ai gruppi jihadisti armati. Uno studio dell’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo - si legge in un articolo di Nigrizia - individua difficoltà economiche e impossibilità di inserimento in contesti lavorativi come principali cause che spingono i giovani ad unirsi ai gruppi jihadisti armati. Che hanno contato su un aumento del 92% di nuove reclute nel 2021. Insomma, nel caso ancora persistesse la convinzione che il fattore principale dell’adesione a gruppi terroristici sia la religione e il fondamentalismo religioso, questa analisi delle Nazioni Unite mostra invece come siano soprattutto altri fattori a determinare il coinvolgimento, soprattutto dei giovani, in gruppi armati. Parliamo di Viaggio nell’estremismo in Africa, un lavoro cominciato nel 2017 e che nella nuova e aggiornata edizione appena pubblicata mostra le reali motivazioni che spingono i giovani subsahariani a scegliere la strada della violenza. L’emarginazione produce radicalismo islamico. L’estremismo violento nell’Africa subsahariana ha raggiunto punte record, tanto che l’area è ormai considerata l’epicentro del radicalismo islamista violento con quasi la metà delle morti per terrorismo a livello mondiale (48%) registrate nel 2021. Ma il fattore trainante non è, come dicevamo, la convinzione religiosa. Solo il 17% ha infatti identificato la religione come fattore chiave - una diminuzione del 57% rispetto ai risultati del 2017 -, e solo il 6% ha indicato l’influenza degli capi religiosi. Il pull factor è piuttosto l’emarginazione sociale e la difficoltà (se non l’impossibilità) di inserirsi in un contesto lavorativo. Difficoltà economiche (personali e del paese in cui si vive), marginalità sociale, situazioni familiari di degrado e mancanza di attenzione, sono i motivi che non lascerebbero a molti giovani alcuna speranza. Mancanza di reddito e opportunità di lavoro. E sono tutti motivi che li rendono possibili vittime di reclutamento dei gruppi armati. E se dal rapporto risulta che ci sia stata una diminuzione del 57% nel numero di persone che si uniscono a gruppi estremisti per motivi religiosi, nel contempo si è registrato un aumento del 92% delle nuove reclute attirate dalla garanzia di un guadagno e migliori mezzi di sussistenza. Tutto questo sarebbe peggiorato nel periodo della pandemia e delle misure di isolamento, dal picco dell’inflazione che ha colpito praticamente in tutti i paesi subsahariani, ma anche dagli effetti e dalle crisi provocate dal cambiamento climatico. La mancanza di reddito, di opportunità di lavoro e mezzi di sussistenza, portano alla disperazione ed è questa - ha affermato Achim Steiner dell’Undp, “che sta essenzialmente spingendo le persone a cogliere qualsiasi opportunità, chiunque sia ad offrirle”. L’indagine in otto Paesi africani. Secondo il rapporto - che si basa su interviste a 2.200 persone in Burkina Faso, Camerun, Ciad, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan - circa il 25% dei giovani che hanno risposto alla chiamata di gruppi jihadisti ha citato la mancanza di opportunità di lavoro come motivo principale, mentre circa il 40% ha affermato di avere “urgente bisogno di mezzi di sussistenza”. Insomma un mix tossico di povertà, indigenza, mancanza di lavoro e di prospettive future. Gli intervistati provengono da vari gruppi armati che operano in tutto il continente. Tra questi Boko Haram in Nigeria, al-Shabaab in Somalia e, ancora in Africa occidentale, Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), alleato del gruppo Stato islamico. Le campagne militari sono state un fallimento. Nelle pagine del report si legge che dal 2017 sono stati documentati almeno 4.155 attacchi in tutta l’Africa. Attacchi che hanno provocato 18.417 morti. In Somalia il maggior numero delle vittime. Pochi, infatti, i progressi in questo paese nonostante le campagne militari e quella che il governo somalo sta attualmente portando avanti contro al-Shabaab che domina la regione da più di un decennio. Il fatto è che le campagne antiterrorismo, spesso con l’aiuto e la partecipazione di militari stranieri o di operazioni di paesi europei e supportati dall’Onu, non hanno sortito grandi effetti, ma anzi hanno esasperato la situazione e aumentato i sentimenti anti-occidentali. Gli effetti dannosi dei militari stranieri. Ci sono da considerare, ad esempio, le operazioni a guida francese Barkhane e Takuba, in Mali. Dopo anni le truppe sono state costrette al ritiro lasciando la situazione sul campo più critica di quanto fosse al loro arrivo. L’ondata di estremismo in Africa ovviamente non ha solo un impatto negativo sulla vita, sulla sicurezza e sulla pace, ma minaccia anche di invertire e vanificare i successi e lo sviluppo conquistati a fatica in questi anni. Continuare ad impegnare le forze militari non si è dimostrata, dunque, la risposta migliore. Anzi, tale approccio finisce per esacerbare le situazioni e a farne le spese sono soprattutto i civili. Le operazioni antiterrorismo - si sottolinea - oltre ad essere costose risultano poco efficaci e, nella maggior parte dei casi, controproducenti. L’ovvio sarebbe ricreare relazioni di fiducia Stato-cittadini. Azioni ovvie sarebbero quelle di ricreare una relazione di fiducia tra lo Stato e i cittadini e, soprattutto, creare condizioni sociali che diano ai giovani opportunità di esprimersi e di emergere. Oltretutto, dal rapporto emerge anche che circa il 71% di coloro che si sono uniti a gruppi estremisti - a volte convincendo anche le loro donne a farlo - sono stati influenzati e hanno personalmente vissuto violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza statali, come l’uccisione o l’arresto di membri della famiglia. Come emerge la brutalità dei gruppi. Violazioni e violenze a cui hanno assistito e che poi hanno a loro volta messo in pratica. Emerge così, che la brutalità dei gruppi estremisti non è altro che l’altra immagine di un sistema che alla giustizia antepone la forza e che vuole combattere la rabbia e la frustrazione di questi giovani con il pungo di ferro, ma senza venire a capo delle ragioni che stanno seminando tanta insicurezza nei paesi subsahariani. Infine, un aspetto su cui si concentra il report è la necessità di mettere in atto ogni tipo di azione - soprattutto intervenendo attraverso le comunità locali - per portare fuori questi ragazzi dai gruppi a cui hanno aderito dando loro fiducia, opportunità, percorsi sostenibili di crescita e di lavoro. Pare, infatti, che la maggior parte dei ragazzi che rinnega la partecipazione a questi gruppi non vi faccia più ritorno. *Nigrizia