Carceri fuori controllo, tempo scaduto di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 dicembre 2023 In Italia siamo arrivati di nuovo a 60.000 detenuti su 47.000 posti, con 18.000 agenti di custodia mancanti. Lo Stato sembra non garantire più l’incolumità di chi detiene. Che screanzato, questo detenuto egiziano agli arresti da due giorni per furto. Che maleducazione impiccarsi al V raggio di San Vittore (715 posti, media annuale di 896 presenze, al momento più 1.110 ristretti di cui 450 con dipendenze certificate), mandando così a casa già a metà del secondo atto del “Don Carlo” di Verdi la “società civile” che celebrava il rito del risotto e panettone con i detenuti dopo aver visto assieme sul maxischermo la “Prima” della Scala. Il sessantunesimo suicidio in carcere proprio nelle ore del ritorno dopo 2 anni e mezzo sopra i 60.000 detenuti in Italia (60.117, da 300 a 700 in più al mese, media +117% rispetto alla capienza teorica ma +126% rispetto ai 47.000 posti disponibili, punte vicine al 200% in istituti come Foggia o Brescia, Grosseto o Como, 18.000 agenti di custodia meno del dovuto). San Vittore ha del resto anche il record di spesa pro capite in farmaci antipsicotici dati al 40 per cento degli “ospiti”: 83 euro per detenuto, quasi il triplo di 5 anni fa, 12 volte la media della gente fuori. Sbalzo che (pur con tutte le ovvie differenze) fa comprendere il dubbio mesi fa del presidente della “Società italiana di epidemiologia psichiatrica” se nelle carceri si stia “sedando i disturbi o i disturbanti”. E istruttiva è anche la contraddizione tra l’importanza (additata a parole nel messaggio giovedì sera del ministro Carlo Nordio) di “favorire il più possibile le occasioni di lavoro in carcere”, e l’ordine di servizio in vigore dal 15 settembre proprio a San Vittore: testo che, “vista la situazione dei fondi sul capitolo per il pagamento delle mercedi ai detenuti lavoratori” - 128 milioni il budget nazionale non del lavoro esterno “vero” e professionalizzante, che in Italia coinvolge meno del 5% dei detenuti, ma dei già pochi impieghi orari interni a rotazione alle dipendenze dell’Amministrazione, senza i quali ogni istituto si bloccherebbe nelle pulizie, cucine e mini-manutenzioni - ha comunicato ai detenuti “la riduzione delle ore”. Riduzione che molte testimonianze segnalano però al Corriere essere solo delle ore dichiarate (e quindi retribuite), e non anche delle ore ugualmente lavorate dai detenuti: i quali tuttavia non se ne lamentano non solo perché temono di esserne esclusi, ma anche perché comunque, nel sovraffollamento reso ancor più insopportabile dalla scelta governativa di tornare dalla “vigilanza dinamica” alle celle chiuse quasi tutto il giorno, finisce per essere un modo di respirare anche il lavorare pur senza essere pagati (prassi che, quand’è praticata dai caporali nei campi di pomodoro, è perseguita dallo Stato che nelle carceri invece se ne avvale). A caldo della “Prima” scaligera interrotta dal suicidio, gli avvocati della Camera Penale e dell’Ordine hanno additato “la contraddizione esplosa con la sgradevole sensazione di una ricorrenza in cui si fa finta che vada tutto bene”, mentre “i numeri sono destinati troppo spesso a sopraffare le persone”. Ma ci sono segnali altrettanto significativi, benché meno percepiti, del quasi punto di rottura del sistema nazionale. I disordini sempre più frequenti, come giorni fa a Como, dove da fuori sono dovuti correre pompieri e polizie a spegnere un incendio non più metaforico. I casi non più di sporadiche prevaricazioni tra detenuti, ma di eventi (come omicidi a Genova e Velletri, quasi un terzo l’altro ieri a Pescara, o la tortura dell’assassino della sorella a Sanremo) che, protraendosi per ore nelle celle, disvelano il non controllo dello Stato sull’incolumità di chi detiene. E il prorompere di alcuni tabù linguistici non sulla bocca di pericolosi sovversivi o velleitarie anime belle, ma nei comunicati di sindacati di polizia penitenziaria: come quello (Uilpa) che il 3 dicembre, oltre a tornare a chiedere personale e strutture, ha “invitato il governo Meloni” a prendere atto dell’emergenza e a varare “provvedimenti deflattivi della densità penitenziaria”. Prima, magari, che a fare la deflazione arrivi la Corte Costituzionale, la quale giusto 10 anni fa, dopo la condanna dell’Italia per “trattamenti inumani e degradanti” in contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, arrivò a un soffio dal considerare l’idea di carceri “a numero chiuso”, dove cioè l’esecuzione delle pene sia sospesa qualora non vi siano più posti disponibili. All’epoca i detenuti erano 66.000: ancora un anno, e ci si arriverà di nuovo vicini. Ricordiamo Mandela abolendo il 41 bis di Sergio D’Elia* L’Unità, 9 dicembre 2023 Nelson Mandela è venuto a mancare dieci anni fa. Ma nessuno può veramente dire che ci ha lasciati o che ha lasciato un vuoto. Tanti sono quelli che della sua mancanza hanno fatto in questi anni una presenza, tanto è quello che in nome suo e del suo vissuto è diventato stato di vita e di diritto. Il capolavoro del padre del nuovo Sudafrica si chiama “Commissione verità e riconciliazione”. Mandela lo ha concepito alla fine dell’apartheid quando, insieme a Desmond Tutu, ha pensato a un altro modo di rendere giustizia alle vittime di violenze inaudite. Quando, per ricucire le ferite del passato, non si è affidato al solito tribunale penale ma ha concepito una istanza di verità per non dimenticare le vittime del passato e una di riconciliazione per dare un futuro al Paese. Un cambio di paradigma radicale della giustizia, che non punisce e separa ma riconcilia e ripara. Nelson Mandela continua anche per questo a essere esempio, fonte di ispirazione e proposta di governo per le grandi questioni del nostro tempo e del nostro mondo. È il miracolo della “compresenza dei morti e dei viventi” di cui parlava Aldo Capitini e di cui era fermamente convinto Marco Pannella, convinzione che ripeteva come un mantra nelle assemblee radicali, che viveva e dimostrava agli occhi increduli dei suoi compagni di lotta. Contro il luogo comune che vuole il morto non debba afferrare il vivo, che il morto è morto e non torna mai più. A ben vedere, invece, la compresenza è il prodigio di una realtà che diventa di tutti mentre prima era di uno solo, financo di una realtà compiutamente liberata proprio dal venir meno della persona fisica che l’aveva immaginata. Che lo si voglia o no, che lo si creda o meno, è una realtà evidente, al di là di ogni evidenza. “Su ogni assemblea passa il soffio della compresenza”, diceva Capitini. La compresenza va oltre la fisica della materia, opera nella quarta dimensione, quella dello spirito, l’essenza che illumina, letteralmente crea una nuova realtà, la orienta ai valori umani universali. Veni creator spiritus! Non esiste assemblea umana sulla quale non spiri il vissuto di chi è passato prima di noi, illumini il presente e prefiguri il futuro. Nelson Mandela, il suo vissuto, i suoi 27 anni passati in carcere, compreso quello duro dell’isolamento totale, hanno ispirato nel 2015 l’Assemblea della Comunità Umana Universale, quando le nazioni si sono riunite nell’atto di scrivere le regole dette appunto “Mandela”, per porre un limite al potere degli Stati nel momento del giudicare, del condannare, del sorvegliare, del punire e isolare un essere umano. Come pro-memoria ai finti smemorati del potere e del dis-ordine costituito ricordiamo quelle essenziali: la regola 44 dice che è isolamento il confinamento per 22 ore o più al giorno in una cella senza significativi contatti umani e che è isolamento prolungato quello superiore a quindici giorni consecutivi; un trattamento questo che, insieme all’isolamento indefinito, la regola 43 considera una forma di tortura o un trattamento o punizione crudele, inumana e degradante; la regola 45 stabilisce poi che, in ogni caso, è proibito l’isolamento dei detenuti che abbiano disabilità mentali e fisiche quando le condizioni possano aggravarsi in ragione della misura applicata. Lo spirito di Mandela svanisce alla vista dei dannati del 41 bis, nelle sezioni del “carcere duro” dove le sue regole minime sono profanate, dove la perdita dei sensi e dei sentimenti umani fondamentali si aggiunge a quella della libertà e si traduce in vere e proprie pene corporali. La mancanza della vista di un tramonto, di un monte o del mare, di un orizzonte che vada oltre i pochi metri di lunghezza della cella, rende ciechi. La negazione di affetti e del calore di un contatto fisico di una mano e di una carezza di una persona cara, ti fa perdere il senno, spezza letteralmente il cuore. La proibizione di una parola possibile di conforto o un solo saluto scambiato tra una cella e l’altra, rende sordi e muti. Il ricordo negato del sapore e del profumo di un cibo familiare della propria infanzia e del paese d’origine, fa perdere il sapore, l’olfatto, i denti. Le sezioni del “carcere duro” sono diventate istituti per ciechi, sordomuti, sdentati, stazioni terminali per malati terminali: di cuore, di cancro, di mente, di tutto. “Cimiteri dei vivi” chiamava le carceri Filippo Turati. Lo sono non solo il “carcere duro”, ma anche il “carcere normale”, dove è concentrato tutto quello di inumano, incivile e mortifero che nella storia dell’umanità abbiamo abolito, perché, appunto, inumano, incivile, mortifero: i luoghi di tortura, i bracci della morte, i manicomi, i lazzaretti. Tali sono le celle di isolamento, le sezioni di osservazione, ordine e sicurezza, i reparti di transito e di assistenza detta “sanitaria” del “carcere normale”, dove sono cumulati e tumulati tossici, minorati fisici, malati terminali e malati mentali che in altri tempi tenevamo in luoghi di cura, non di pena. Nelson Mandela e le sue regole sono oggetto di preghiera soprattutto nelle celle di isolamento che si trovano di solito nella parte più bassa, buia e sperduta del carcere. Dove la luce filtra malamente da finestre di pochi centimetri quadrati. Dove a una fila di sbarre si aggiunge una rete a trama molto fitta che impedisce non solo di guardare fuori, sia pure un muro di cinta, ma anche all’aria di scorrere libera. Dove, nella stanza di pochi metri quadri, tutto è piantato alla parete o al pavimento di cemento: branda, tavolo, sedile, armadietto, lavabo. Dove tutto è “a vista”, anche il gabinetto che a volte è la solita tazza, altre volte il water incastonato nel cemento, altre ancora il “cesso alla turca”. Dove l’ora d’aria può avvenire uno alla volta in una vasca di cemento armato lunga e larga pochi metri, con le mura invece altissime e sopra, a chiudere il tutto, una rete come quella di un pollaio. In questi luoghi dove la sola permanenza induce alla pazzia, ho visto coi miei occhi: persone in “cura psichiatrica” da anni, con il corpo segnato da cicatrici per i continui atti di autolesionismo, sorvegliate a vista giorno e notte perché a rischio di suicidio; persone trovate nude con una coperta sulle spalle in celle con la branda priva di materasso, lenzuola e cuscino piantata su un pavimento ricoperto di cibo, urina ed escrementi; evidenti casi psichiatrici di persone che, però, erano state dichiarate del tutto capaci di intendere e volere. È una pena dell’anima vivere tutto ciò, non solo per l’uomo privato della libertà, ma anche per l’occasionale visitatore e, soprattutto, per il suo custode, condannato a lavorare ogni giorno in un tale degrado umano e ambientale. In tutti gli istituti di pena del nostro Paese, nell’ufficio del direttore, accanto alla foto del Presidente della Repubblica, dovrebbe essere incorniciata anche quella dell’ex Presidente del Sudafrica. Nei corridoi delle sezioni, accanto ai murales di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dovrebbe essere pitturato il volto sorridente di Nelson Mandela. Nelle biblioteche del carcere, dove è raro trovarlo, oltre al Regolamento d’istituto, dovrebbero essere stampate in più lingue e messe a disposizione di detenuti e detenenti anche le Regole Mandela. Non solo in Italia, lo spirito di Mandela e delle sue Regole continua a essere invocato nelle celle di isolamento di tutto il mondo dove non splende mai il sole, dove “vivono” anime sempre in pena, dove sono ridotti a zero quei significativi contatti umani senza i quali una persona è sottoposta a trattamento inumano e degradante, dove il diritto diventa torto, e tutto si torce nel senso della tortura. *Associazione Nessuno Tocchi Caino “Il caso Zuncheddu? Poteva capitare a chiunque, molti altri innocenti in carcere” di Giuliano Guida Bardi tpi.it, 9 dicembre 2023 “In Italia un’ingiusta detenzione ogni 8 ore”. Irene Testa, storica tesoriera del Partito Radicale Transnazionale e Transpartito, lotta da sempre nelle carceri, come i radicali, come ha insegnato Marco Pannella. Oggi è Garante per i detenuti della Regione Sardegna. Conosceva già il caso di Beniamino Zuncheddu? “No. Nel mese di agosto scorso sono stata contattata dall’avvocato Mauro Trogu. Mi ha parlato delle condizioni di salute del suo cliente e, naturalmente, del processo di revisione che si stava svolgendo a Roma, ma con troppa lentezza”. E allora? “E allora ho pensato, insieme all’avvocato Trogu, che bisognava portare all’attenzione della pubblica opinione questo caso incredibile, far conoscere le intercettazioni che erano scandalosamente chiare nel dimostrare questo tragico errore giudiziario. Ma soprattutto mi colpì una cosa”. Quale? “Questo giovane avvocato che veniva a parlare di lavoro a cavallo di Ferragosto. È un’anomalia, ad agosto si pensa ad altro. Si sa. Allora ho pensato che questo caso meritasse di essere approfondito. E a Radio Radicale abbiamo fatto quello che noi sappiamo far bene: esercitare il diritto alla conoscenza. Abbiamo chiesto la registrazione del processo e l’abbiamo mandata in onda”. Risultato? “Un’accelerazione vistosa delle udienze. L’ultima, quella decisiva, sarà il 19 dicembre. E intanto Beniamino Zuncheddu ha ottenuto la libertà condizionale”. Merito suo? “No. Io ho fatto il mio dovere. Ma il merito è tutto della sorella di Beniamino che non si è data per vinta, dell’avvocato che è stato bravissimo e della professionalità della allora procuratrice generale di Cagliari, Francesca Nanni (oggi procuratrice generale di Milano, ndr). Hanno studiato, hanno fatto riaprire le indagini, sono state raccolte nuove e decisive intercettazioni, sono stati ri-interrogati gli attori del processo. Ed è saltata fuori la verità”. Quanti sono i casi Zuncheddu in Italia? “Abbiamo un numero, parziale, che fa terrore. Un dato che segnala una patologia grave del sistema. Mille persone ogni anno. Tre persone al giorno. Una ogni otto ore viene carcerata ingiustamente. È un dato preoccupante e drammatico”. Perché dice parziale? “Perché questo è il dato delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione che pervengono al Ministero dell’Economia. Ma, ovviamente, non tutti fanno in tempo a fare domanda perché i termini sono molto stretti e molti altri rimangono innocenti in carcere, come Beniamino Zuncheddu”. La riforma della Giustizia promossa dal Governo migliorerà la situazione? “Non credo. I problemi di cui stiamo parlando non sono affrontati. Per nulla. Soprattutto non c’è una sola parola sul carcere. E il carcere è l’ultimo anello di un sistema che non funziona. Non ha funzionato. Basta guardare in faccia Beniamino Zuncheddu, che in carcere ha vissuto più tempo di quanto non abbia vissuto da uomo libero”. Che uomo ha restituito il carcere? “Aveva 26 anni, ne ha 58. Chiunque può osservare il suo fisico e il suo sorriso. Non mi faccia aggiungere altro”. Parla da Garante dei detenuti o da storica attivista radicale? “Non distinguo, ma certo la giustizia è nel Dna dei radicali. Siamo il partito di Enzo Tortora. Lui era una persona nota, ma Beniamino Zuncheddu no. Certo, non posso non rilevare che Zuncheddu chiese aiuto a tanti uomini e donne delle istituzioni, ma non ebbe mai risposta. Oggi, invece, mi risulta che si sia affacciata la politica per strumentalizzare questo successo”. Chi? “Non lo dirò, ma certo è che una tendenza allo sciacallaggio è un virus presente nella politica italiana”. Stiamo tornando a una contrapposizione politica/magistratura? “Non lo credo. La politica ha paura delle procure. Il Parlamento dovrebbe essere sovrano, ma non fa le riforme che promette. Il ministro Nordio ha fatto un tratto distintivo della separazione delle carriere di inquirenti e giudicanti. Eppure, nulla. I cittadini vogliono una giustizia giusta ed efficiente. L’anno chiesta nei referendum”. Ma veramente l’ultimo referendum non ha neppure raggiunto il quorum… “È stato boicottato. La stampa l’ha oscurato, la gente non sapeva nulla. E i 7 milioni di persone che hanno votato, hanno per la quasi totalità votato Sì. Il Referendum sulla responsabilità civile dei magistrati del 1987 portò l’85% delle persone alle urne”. Altri referendum all’orizzonte? “Qualcosa bisognerà pur farla. La giustizia è ingiusta. Non solo quella penale, ma anche la civile e l’amministrativa. E la storia di Beniamino Zuncheddu può capitare a chiunque. Ma non è solo il processo da riformare”. Cos’altro? “Le indagini preliminari. I dati dimostrano che quella fase è la più pericolosa nel creare ingiustizia. Lo è stata per Zuncheddu. Anche perché nel suo caso c’è stato un depistaggio di Stato operato da un esponente dalla polizia giudiziaria”. Depistaggio di Stato è un’espressione molto forte... “Non si possono sempre e solo dare le colpe ai magistrati. La Corte d’Appello di Roma appurerà con precisione come sono andate le cose, ma è evidente che chi indaga ha molto potere e nessun contropotere”. Proposte? “Bella domanda. Quis custiodet custodes? (Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?, ndr) Io penso che dovremmo andare nella direzione di rafforzare i poteri e le prerogative della difesa. Altrimenti non saremo molto lontani da Kafka e da quel Josef K. che “qualcuno doveva aver calunniato poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, fu arrestato”. Natale, i “regali sospesi” per i bambini dei detenuti di Monica Coviello vanityfair.it, 9 dicembre 2023 Per i 100 mila bambini in Italia che hanno la mamma o il papà in carcere, dal 10 al 30 dicembre è attiva una speciale raccolta. Ci sono bambini da cui Babbo Natale potrebbe non passare per la consueta consegna dei regali. Sono quei 100 mila in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno la mamma o il papà in carcere. Per assicurare anche a loro la magia del Natale, dal 10 al 30 dicembre è attiva la raccolta dei “regali sospesi” per i piccoli che frequentano gli Spazi Gialli della Rete nazionale di Bambinisenzasbarre (l’associazione che da 20 anni difende i diritti dei bambini ed è impegnata nella cura delle relazioni familiari durante la detenzione di uno o entrambi i genitori) nelle carceri italiane. Lo Spazio Giallo è un luogo fisico e relazionale dove il bambino si può preparare all’incontro con il genitore detenuto, un momento fondamentale per mantenere il legame affettivo. Il primo è nato nel 2007 dall’esperienza di Bambinisenzasbarre nel carcere di San Vittore, e oggi è diventato modello esteso su tutto il territorio nazionale, un punto di riferimento per la cura delle relazioni familiari anche in detenzione. È possibile aderire all’iniziativa attraverso una donazione a Bambinisenzasbarre, collegandosi alla pagina dedicata alla Campagna di Natale. L’associazione sceglierà e consegnerà i giochi ai bambini presenti nello Spazio Giallo. Oltre ai “regali sospesi”, Bambinisenzasbarre organizza una staffetta simbolica degli Spazi Gialli distribuiti su tutto il territorio italiano con data e ora di raccolta giochi per i bambini che li frequentano. L’evento rientra nell’ambito della consueta Campagna di Sensibilizzazione di Natale e ha come ha come obiettivo la sensibilizzazione sul tema della genitorialità in carcere e la valorizzazione della presenza della rete degli Spazi Gialli. Ecco il calendario con indirizzi e orari dei punti di raccolta. 10/24-12-2023 a Osimo (An) 10:00 - 18:00 Oh che Bel Castello, libreria e giocattoleria, Via della Sbrozzola 17/K 12-12-2023 a Napoli - 15.00 - 19.00 Lazzarelle Bistrot, Galleria Principe di Napoli 25 13-12-2023 a Foggia - 08:30 - 18:00 ENAIP Foggia, Via Luigi Rovelli, 48 15-12-2023 a Catania - 10:00 - 17:00 Christmas Market 2023, Piazza Università 16-12-2023 a Torino - 11:00 - 17:00 Fabrica Laboratorio Creativo, Via A. Mensa 16 Venaria Reale (a pochi metri dalla Reggia di Venaria) 16-12-2023 a Brindisi - 12:30 - 17:30 Movimenti- Laboratorio Urbano, via Felice Carena 2 17-12-2023 a Cosenza - 09:00/13:00 e 16:00/19:30 Libreria per bambini Raccontami, viale P. Borsellino 16-18 (di fronte scuole primarie di Via Negroni) 21-12-2023 a Milano - 10:00 - 18:00 Sede Bambinisenzasbarre, C.so Venezia 24 Magistrati e democrazia. Parla Tullio Padovani di Angela Stella L’Unità, 9 dicembre 2023 “Non appartengono a nessuna maggioranza. Sono necessariamente, in quanto tutori dei diritti, potenzialmente contro la maggioranza. La polemica contro quelli che hanno disapplicato i provvedimenti governativi non ha senso. Se c’è un potere incontrollato, che può travolgere la vita di chiunque, è quello dell’accusa”. Le pagelle dei magistrati? “Chiacchiere al vento”. Questione giustizia: il professore avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, dice la sua sulle ultime vicende. Cosa ne pensa di questo scontro tra politica e magistratura che si esacerbato nelle ultime settimane, a partire dalle dichiarazioni di Crosetto? È la ripetizione stanca di un canovaccio ormai diventato logoro. La crisi dei rapporti tra politica e una parte della magistratura, e cioè gli uffici di procura, risale ad alcuni decenni fa. Che si possa parlare di ‘complotti’ variamente orditi mi sembra un non-senso. Non sarebbe proprio il caso di ‘complottare’. Nel nostro Paese si è verificata una lenta ma costante traslazione di poteri che ha finito con l’attribuire agli uffici di procura un potere enorme, al punto da poterli qualificare come titolari di una sovranità. Da molti anni vedo rileggendo in modo descrittivamente provocatorio l’art. 1 della Costituzione (‘L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione’) secondo questa versione realistica: “L’Italia è una Repubblica giudiziaria, fondata sull’esercizio dell’azione penale. La sovranità appartiene ai pubblici ministeri, che la esercitano in modo discrezionale”. Quindi, non confondiamo le acque: l’ordine giudiziario è una totalità all’interno della quale occorre distinguere nettamente tra pm e giudici: ai pm è riservato il potere di accusa, che - come notava il grande magistrato francese Antoine Garapon - è “anomico e terribile”. Con l’aggiunta che i pm sono sostanzialmente immuni da qualsiasi responsabilità. Tuttavia ad essere messi sotto attacco dalla politica sono i giudici in questi mesi, che hanno disapplicato provvedimenti governativi. Quindi lo scontro è su questo... Sulla questione condivido pienamente quanto scritto da Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa (Il contromaggioritario e la libertà dei giudici, ndr). I giudici sono sotto attacco perché non si vuol comprendere che essi non appartengono a nessuna maggioranza e sono necessariamente, in quanto tutori dei diritti, potenzialmente contro la maggioranza. Il giudice svolge una funzione singolarmente preziosa quando tutela i diritti individuali e le minoranze. La democrazia, intesa nella sua assolutezza, è un tragico e tirannico ordinamento, perché consegna alla maggioranza la vita e la morte dei cittadini. Per essere accettabile la democrazia deve essere liberale e presupporre quindi che esistano ai poteri della maggioranza limiti invalicabili, a tutela dell’individuo e delle minoranze, stabiliti, appunto come dice Zagrebelsky, dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali. Pertanto la polemica contro i giudici per aver reso provvedimenti sgraditi al Governo è senza senso. La pronuncia del giudice potrà essere errata, e riformata quindi in altra sede giurisdizionale, ma il magistrato non può essere aggredito per essersi ‘opposto’ alla legge della maggioranza. Ma siamo fuori di testa? È la sua funzione naturale applicarla solo se conforme alle garanzie assicurate da fonti superiori, altrimenti precipiteremmo in una tirannia della maggioranza preludio di una ‘democratura’. L’articolo di Zagrebelsky espone con semplicità e chiarezza i rudimenti basici di un sistema liberal-democratico. Al suo articolo mi permetterei solo una postilla. Lui conclude scrivendo: “i sistemi che si fondano sul principio che ‘un potere ferma l’altro’ quando siano in gioco i diritti e le libertà, sono complicati e faticosi. Ma nel corso della storia sono stati adottati per l’esperienza tragica prodotta da quelli semplici”. Soggiungo: attualmente viviamo in un contesto in cui un potere non è fermato da nessuno, ed è precisamente quello dell’accusa, come dicevo in precedenza, che è in grado di sconvolgere la vita di chiunque, senza che nessuno risponda dei suoi esiti eventualmente (e non raramente) nefasti. Ma adesso ci sono le nuove valutazioni di professionalità dei magistrati, molto osteggiate dalla categoria... Non cambierà nulla. Mi pare si tratti di chiacchiere al vento, anche perché le riforme che poi passano sono filtrate dai destinatari e, spesso, anche confezionate dai destinatari. In questo Paese non vedo ombra di cambiamento in materia di giustizia, se non in peggio. Quindi secondo lei anche il rinvio della riforma costituzionale della separazione delle carriere è dovuto a questo? Non so da che cosa dipende. Ma siccome è assai comodo, per i pm, abbinare ad un potere sovrano un’indipendenza quale quella garantita ai giudici, non vedo l’orizzonte di questa riforma. Se fosse approvata lo considererei un miracolo. Per quanto concerne gli ultimi provvedimenti del Governo, stiamo assistendo ad un abuso del diritto penale? Questo Governo fa le stesse cose di tutti gli altri governi, magari con un ‘colore’ un po’ diverso dagli altri, ma non poi di molto. Siamo ben votati all’uso disinvolto dello strumentario penale: la mania di tutto governare col mezzo dei criminali giudizi, diceva Francesco Carrara centocinquant’anni fa. Si tratta di una tecnica divenuta frenetica negli ultimi 50 anni, secondo un modulo di Governo inesausto e tenace. La corsa al penale corrisponde ad un meccanismo della politica legislativa - se di politica possiamo parlare - che svolge una funzione ‘rassicurante’: suggerisce all’opinione pubblica l’idea che gli agenti del potere punitivo vengano schierati armi in pugno contro i malvagi del momento, con tutta la potenza di un monopolio pubblico inesorabile: manette, galera, sequestri, confische, interdizioni e quant’altro, per tutti e di più. E lo fa a costo ritenuto zero: le leggi penali si fanno senza difficoltà perché non sono considerate, salvo casi eccezionali, leggi di spesa. Mentre è vero esattamente il contrario: le leggi penali sono costosissime, anche se lì per lì non pare. In questo modo ci assicuriamo a buon mercato - ma non è buono se lo guardiamo attentamente - una soluzione che rappresenta solo una novella raccontata prima di andare a letto per dormire più sereni. Gli incubi si presenteranno al risveglio. A proposito di galera: ci stiamo avvicinando ai numeri di popolazione detenuta che portarono alla sentenza Torreggiani... Da decenni (e in realtà da secoli) parliamo di sovraffollamento con andamento ondulatorio. La popolazione carceraria cresce e cala in funzione di leggi proprie di una struttura sociale che - sia chiaro - prescinde in larga parte dalle norme penali. Il carcere si gonfia per meccanismi di reattività sociale, che determinano gli afflussi. Il fatto è che bisogna saper reagire al sovraffollamento in modo drastico e radicale. In Italia abbiamo, prima di tutto, una situazione che si caratterizza per l’obsolescenza vergognosa degli edifici penitenziari, di cui la gran parte non è assolutamente idonea ad ospitare esseri umani. E poi per la cinica noncuranza con cui si sottopongono i detenuti a trattamenti inumani e degradanti, peggiori di quelli riservati agli animali. Se noi fossimo un Paese civile dovremmo allora mettere subito in atto due misure. La prima è che il magistrato di sorveglianza sia investito del potere - dovere di chiudere le carceri che non risultano conformi alle regole minime di trattamento. Il giudice, garante dei diritti, deve far cessare la loro violazione. La seconda: nelle strutture idonee a ospitare reclusi bisogna predeterminare il numero di persone che possono essere ricevute al massimo della capienza. E se occorre farne entrare di nuove, bisogna liberare le carceri da quelle più prossime al fine pena, adottando eventualmente misure sostitutive. Nordio e Sisto: siamo in sintonia, nessuno scontro sulla prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 9 dicembre 2023 Il ministro e il vice smentiscono le ricostruzioni secondo cui ci sarebbe una divergenza sullo stop alla legge. Che in realtà è sgradito a entrambi. Nessuno scontro. Anzi, molte perplessità condivise. Via Arenula smentisce categoricamente, con una nota diffusa nel pomeriggio di ieri, un conflitto, sulla nuova prescrizione, tra il guardasigilli Carlo Nordio e il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. “Nessuno scontro, nessun litigio, ma un quotidiano e costruttivo dialogo su tutti i temi della giustizia”, recita testualmente il comunicato. Che prosegue: “Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il vice, Francesco Paolo Sisto, smentiscono “con vigore” le indiscrezioni di stampa relative ad un loro presunto dissidio sulla riforma della prescrizione. Totale armonia e costante confronto su tutto”. E insomma, il quadro rispetto a quanto era circolato nelle ore precedenti è assai diverso. Non è vero che il guardasigilli propenda per il “congelamento” della nuova legge, né che Sisto sia inviperito e contrariato per le esitazioni di Nordio. Da quanto si apprende, sono entrambi molto perplessi di fronte alla richiesta avanzata dieci giorni fa dai presidenti di Corte d’appello di tutti e 26 i distretti giudiziari d’Italia: una norma transitoria che renda applicabile la nuova disciplina sulla prescrizione solo ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore. Un’ipotesi con la quale le toghe intendono sottrarsi al ricalcolo dei termini per i procedimenti già in corso. Ma la soluzione che i capi di Corte prospettano è sì in apparenza giustificata dall’ansia per gli obiettivi del Pnrr, ma di fatto promette di complicare ancora di più il quadro. E il motivo è semplice. Giacché la prescrizione è istituto di diritto sostanziale, indagati e imputati dei processi già in corso potrebbero tranquillamente eccepire l’illegittimità costituzionale della norma transitoria. Quanto meno in tutti quei casi in cui la disciplina attuale, connotata dall’improcedibilità nelle fasi d’impugnazione, prevede termini più lunghi di quelli che la riforma del centrodestra introdurrebbe. Si finirebbe cioè con una catena di processi bloccati in attesa che la Corte costituzionale decida sulla questione di costituzionalità. Con conseguenze ancora più devastanti per il rispetto degli impegni assunti col Pnrr. I contenuti della riforma e il no delle toghe - Ma perché una legge che sembrava pronta per il primo via libera alla Camera è impantanata da oltre un mese? La risposta è forse in un sortilegio che sembra incombere su ogni riforma della prescrizione. Come se la materia debba inesorabilmente accendere gli animi. In Parlamento, certo. Ma anche fra magistrati e politica. Forse perché la disciplina dei termini di estinzione del reato per il decorso di un tempo eccessivo sublima il conflitto fra due visoni del diritto penale. Da una parte la visione autoritaria della potestà statale, detentrice di un potere assoluto sull’individuo, e se possibile ancora più intrusivo se il cittadino è imputato. Dall’altra il diritto penale liberale, che concepisce il processo e la pena in armonia con i limiti della ragionevolezza, dei diritti della persona, incluso quello a non essere perseguiti quando ormai la propria vita è cambiata. Sono due mondi che, quando si incontrano, sprigionano una sorta di big bang idelogico-dottrinale. Ed è successo pure stavolta. Adesso il quadro è il seguente. La legge sulla nuova prescrizione è pronta. Ha visto, già da ottobre, l’accordo delle forze di maggioranza: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Si è partiti dalla ex Cirielli, con un provvidenziale reset: spazzate via le ultime tre precedenti riforme, ossia la Orlando del 2017, la Bonafede entrata in vigore nel 2020 e la Cartabia del 2021. Base di partenza semplificata (il termine di prescrizione, per ciascun reato, corrisponde al massimo edittale della pena prevista aumentato di un quarto) e successivo emendamento dell’intero centrodestra, che ha riassimilato l’impianto normativo alla riforma Orlando, con qualche lieve differenza. Si è tornati cioè alla sospensione dopo la condanna in primo grado, che era di 18 mesi in base alla riforma del 2017 e che diventa di 24 mesi con la nuova legge. Ripristinata anche la sospensione dopo l’eventuale condanna in secondo grado (di 12 mesi, con Orlando era di 18), ma stavolta solo a patto che la pronuncia di colpevolezza in appello confermi la sentenza di primo grado. Contemplata pure la cosiddetta “rimessa nel conto” delle due appena citate sospensioni, nel caso in cui l’imputato venga prosciolto, come avveniva già con la Orlando, ma adesso anche nel caso in cui il grado di giudizio in questione non si concluda (col deposito della relativa sentenza) entro il tempo concesso dal “bonus”. In tal modo questo eventuale supplemento temporale non solo consente l’effettiva celebrazione del giudizio ma è anche un pungolo per sbrigarsi. Un congegno niente male - di cui si prevede, sempre come nella Orlando, l’applicazione anche al giudizio d’appello conseguente all’annullamento con rinvio - e che non a caso, nelle rimodulazioni introdotte rispetto alla riforma del 2017, recepisce appieno la logica indicata (inutilmente) nel 2021 a Cartabia dalla Commissione Lattanzi, cioè dal meglio della scienza giuridica. Ineccepibile. Sarebbe tutto pronto. Anzi: era tutto pronto. E infatti la nuova prescrizione è pure approdata nell’Aula di Montecitorio, lo scorso 6 novembre. Ma celebrato il rito della discussone generale, l’esame degli emendamenti e il voto finale sul testo sono misteriosamente slittati. E poi slittati ancora. Sulle prime, il silenzio. Poi la rivelazione: c’è di mezzo il non possumus dei presidenti di Corte d’appello di tutti e 26 i distretti giudiziari d’Italia. Sostengono, in una lettera inviata dieci giorni fa al guardasigilli Carlo Nordio e ai presidenti delle due commissioni Giustizia Ciro Maschio (Camera) e Giulia Buongiorno (Senato), che se la riforma entrasse in vigore d’emblée, cioè con i tempi canonici fissati in Costituzione, sarebbe un disastro. Ne va, dicono i capi di Corte, del Pnrr, perché l’immediato, improvviso impatto della prescrizione riformulata costringerebbe i loro uffici a ricalcolare i termini di estinzione per ogni singolo reato, con “tanto tempo di magistrati e personale amministrativo sottratto alle udienze” e distratto dal vero, unico e attuale obiettivo: abbattere il disposition time (cioè la quantità di sentenze in rapporto ai giudizi pendenti) e, soprattutto l’arretrato ultratriennale. Un’apocalisse giudiziaria. Forza Italia e Costa furiosi, pure Via Arenula perplessa - Il quadro da catastrofe biblica è sapientemente disegnato dalle toghe. Che hanno una certa ascendenza. Di riapprodo in Aula della nuova prescrizione, al momento, non si parla: c’era inizialmente una data, il 12 dicembre, ma la legge per ora è stata espunta dall’agenda di Montecitorio. Salvo improbabili miracoli, riapparirà dopo Natale. Di mezzo c’è sì la Manovra, ma soprattutto l’allarmisno delle Corti d’appello. Forza Italia è incavolatissima: vede nel grido di dolore togato una “inopportuna e indebita ingerenza”. La pensano così il vicepresidente azzurro della commissione Giustizia Pietro Pittalis, firmatario del testo base adottato dalla Camera, il capogruppo Giustizia Tommaso Calderone, e l’altra deputata forzista che siede in commissione, anche lei avvocata, Annarita Patriarca. La pensa così soprattutto l’inviperito deputato di Azione Enrico Costa, che non fa parte della maggioranza ma fin dall’inizio ha unito, con gli altri deputati di Calenda e con Italia viva, le proprie forze a quelle del centrodestra per spazza via la Bonadede e la Cartabia, tanto da essere, con il meloniano Andrea Pellicini, relatore del provvedimento. Sono meno intransigenti sull’ipotesi di un’entrata in vigore “differenziata” gli altri due firmatari, con Pittalis, dell’emendamento che ha riformulato il nuovo impianto normativo, ossia Carolina Varchi di FdI e Ingrid Bisa della Lega. Ma il guardasigilli Nordio e il viceministro Sisto non sono meno perplessi dalla norma cuscinetto con cui le toghe vorrebbero ritardare la riforma. Non sembrano voler inteferire, nella complicata dialettica, i due sottosegretari, il meloniano Andrea Delmastro e il salviniano Andrea Ostellari. Ma ciononostante la confusione c’è. Non nella testa dei decisori politici, ma nella sostanza delle cose. Perché è vero, se la riforma del centrodestra entrasse in vigore subito dopo il via libera in Parlamento (c’è in tutto questo sempre il passaggio in Senato da onorare, e state tranquilli che se si provasse a rendere solo formale quella lettura si scatenerebbe una rivolta delle opposizioni)ci sarebbe un bel po’ di calcolatrici da smanettare, nei Palazzi di giustizia. Ma è temibile anche l’altra prospettiva, accennata all’inizio. Persino nella lettera dei presidenti di Corte d’appello si allude un po’ sibillinamente a una “inevitabile e perdurante incertezza interpretativa” che la riforma imporrebbe ai giudici. Il riferimento è, con ogni probabilità, proprio alla preoccupazione che unisce Nordio e Sisto: per alcuni imputati la nuova disciplina consentirebbe di far intervenire in appello (e al limite anche in Cassazione) l’estinzione del reato prima di quanto non avverrebbe con l’improcedibilità prevista dalle norme tuttora vigenti, ed è chiaro che quegli imputati chiederebbero legittimamente, attraverso un ricorso alla Consulta, di far valere la retroattività della riforma, considerato che la prescrizione è, come ricordato, istituto di diritto sostanziale. La richiesta delle toghe ci porterebbe al 2026 - Poi c’è da dire una cosa. Se davvero si pretende di armonizzare i tempi di entrata in vigore della riforma con le esigenze del Pnrr, vuol dire che la nuova prescrizione, o meglio l’opportuno ritorno alla prescrizione sostanziale dovrà slittare addirittura di tre anni, a dopo giugno 2026, tempo di scadenza degli obiettivi di efficienza giudiziaria da raggiungere in relazione al Pnrr. Una beffa. Certo, il grido di dolore dei presidenti di Corte fa massa critica. Ma sull’altro piatto della bilancia c’è anche un rischio politico: non riuscire a portare a casa un obiettivo, la prescrizione, che sembrava il più praticabile nel campo della giustizia. A Meloni non fa piacere litigare con le toghe. Ma potrebbe cominciare a suonarle stonata anche l’impasse in cui puntualmente scivolano le leggi care al suo guardasigilli. Pinelli: “I magistrati lavorano per il Paese, la politica lo ricordi. Abbassiamo i toni” di Conchita Sannino La Repubblica, 9 dicembre 2023 Il vicepresidente del Csm: “Caso Apostolico? Non si può volere tutto: inamovibilità, autonomia e indipendenza non stanno insieme anche con la parzialità”. “Le dichiarazioni di Crosetto? Il ministro ha già parlato con i magistrati. Sarei del parere di non enfatizzare questo caso”. Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, è alle prese con una mission quasi impossibile: placare l’incendio riattizzato dalle dichiarazioni del ministro della Difesa. Le cui parole - solo pochi giorni fa - sono cadute nel silenzio eloquente del Capo dello Stato Mattarella, che presiedeva il plenum a Palazzo dei Marescialli. Tra poche settimane, a gennaio, per l’avvocato padovano sarà un anno esatto nell’ufficio di vertice del Csm. Un bilancio “positivo” che per Pinelli, incrocia uno dei momenti più tesi del rapporto tra toghe e governo. Vicepresidente Pinelli, il ministro della Difesa, cui afferiscono informazioni sensibili, considera la presunta “opposizione della magistratura” una minaccia per il governo. Lei condivide questo pensiero? “Reputo improprio interloquire sulle dichiarazioni del ministro Crosetto. Posso dire che, entro certi termini, è fisiologica una tensione: c’è la classe politica che scrive le regole e c’è la magistratura che ne controlla l’applicazione. E non è neanche un tema solo italiano. Basti pensare a ciò che è accaduto negli Stati Uniti, in Spagna o in Francia”. Eppure, il caso ha riacceso un conflitto che si sperava archiviato col berlusconismo... “Io credo molto alla necessità di trasmettere una cultura fondata sul rispetto reciproco delle istituzioni. E credo anche che i giudici svolgano un ruolo fondamentale nella nostra democrazia che debba essere loro riconosciuto: si fanno carico di un eccesso di risoluzione dei conflitti, derivante anche dalla desertificazione dei luoghi di mediazione. Allo stesso tempo, la magistratura non deve pensare di avere un potere di rappresentanza, perché la rappresentanza spetta alle classi politiche. Anche perché la giustizia non cancella il torto, non fa miracoli. Può riequilibrare ma non risanare. Il risanamento vero sta nella capacità delle persone di ricostruire legami sociali. Remy Heitz, nuovo procuratore generale della Corte di Cassazione francese, ha chiesto “sostegno morale e pubblico” per le toghe. E certamente questo sostegno lo meritano migliaia di magistrati che lavorano nell’interesse del Paese. La politica deve ricordarlo”. Altro caso clamoroso: il sottosegretario alla Giustizia, Delmastro, a processo per rivelazione del segreto d’ufficio... “Una materia che è in questo momento affidata alla valutazione della giustizia. Lasciamo che tutti lavorino con serenità”. Non possono lavorare sereni, invece, i 26 Presidenti di Corte di Appello che hanno scritto a Nordio: la sua riforma sulla prescrizione paralizza la giustizia. Non trova singolare che non abbiano avuto una risposta? “Sul tema dell’opportunità politica delle riforme non entro. Anche perché sono vicepresidente di un organo assembleare. Trovo legittimo che i presidenti di Corte di Appello si rivolgano al ministro: rappresentano le esigenze di chi vive sui territori il sistema giustizia, ed il ministro ha sempre chiesto una leale e forte collaborazione. Auspico che ci sia un miglioramento del dialogo”. Lei ha visitato i Tribunali più esposti, visto criticità e sofferenze... “E dobbiamo tener presente, da qui, che favorire una buona organizzazione degli uffici può produrre una migliore risposta di giustizia. Non esiste giustizia, se non tempestiva, anche nell’ottica del raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. Quindi siamo andati nei luoghi più disagiati: a Gela, a Vibo Valentia, a Caltanisetta, a Trani, a Napoli Nord, ad Agrigento...”. Ci sono anche le “Caivano” della magistratura? “Nelle zone ad alta densità criminale ci sono magistrati molto giovani che hanno bisogno di sentire la vicinanza dello Stato e che meritano quel sostegno morale e pubblico a cui facevo riferimento. In tanti di questi luoghi mi ha colpito che il Csm fosse avvertito come un organo lontano. Noi stiamo cercando, di contro, di far sentire che il Consiglio deve essere sempre più un’istituzione al servizio dei magistrati: capire le loro esigenze, essere rapidi nelle valutazioni di professionalità, approvare le tabelle organizzative in tempi rapidi”. Il dialogo, spesso auspicato, non è risolutivo. Per far funzionare la giustizia servono, ad esempio, i 1700 magistrati che mancano. “Ma anche qui occorre lavorare insieme. Lo sa, oggi, quanto tempo passa tra il bando e il momento della presa di funzione del magistrato? Quattro anni. Ma se siamo d’accordo che la carenza di organici è un’emergenza nazionale, allora bisogna sedersi e riconoscersi reciprocamente: la legittimità del potere politico di intervenire su un tema tanto delicato e le prerogative della magistratura di rivendicare i requisiti di qualità”. Il procuratore di Napoli, Gratteri, per il quale lei ha votato in plenum, dice a Repubblica che con le nuove “pagelle” i magistrati diventeranno “pavidi passacarte”... “Non commento le interviste di Gratteri. E aggiungo che, in generale, non abbiamo bisogno di incrementare la tensione”. Forse andrebbe detto anche ad alcuni ministri della Repubblica? “Lo ribadisco in termini generali. Mentre la nostra parte, come Consiglio, proviamo a farla fino in fondo. Un esempio. In dieci mesi di attività, abbiamo ridotto del 41 per cento i tempi di vacanza dei direttivi. Se prima passavano quasi due anni tra il procuratore che usciva e quello che entrava, adesso trascorrono 11 mesi”. Non pochi comunque... “Che, a fine dicembre, diventeranno 8-9 mesi. Stiamo facendo un lavoro straordinario grazie ai consiglieri ed alla struttura che vanta professionalità di prim’ordine”. Lei è il vicepresidente che vota anche con plenum che si spacca: è intervenuto con esito decisivo per la Procura di Firenze. “Conosco l’obiezione ma non la condivido. Ho esercitato un diritto. E alcuni vicepresidenti votavano molto più di me. Neppure si può dire che prima ho svolto la funzione di avvocato anche in quel territorio perché questo è assolutamente fisiologico. L’ho svolta con passione in tutta Italia e ora sono cancellato dall’albo”. Quello che verrà sarà l’anno del premierato: con quali conseguenze? “È del tutto inopportuno che io entri in questo dibattito”. Il caso del giudice Apostolico. Il Plenum si esprimerà sulla pratica a tutela... “Machiavelli diceva che i buoni costumi per mantenersi hanno bisogno di buone leggi. Ma anche le leggi hanno bisogno di buoni costumi. I comportamenti contano: perché avvalorano e suffragano il prestigio, e la reputazione, su cui si reggono le istituzioni. Anche un singolo gesto, o scelta, incidono sulla credibilità della magistratura”. Un magistrato che va in piazza per partecipare a una manifestazione sui diritti diventa parziale? “Io ritengo che un magistrato debba non solo essere ma anche apparire terzo, come indica anche la Cassazione. Non si può volere tutto: inamovibilità, autonomia e indipendenza non stanno insieme anche con la parzialità”. “Il reato di tortura non si tocca”. Il governo mente a Strasburgo di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 dicembre 2023 È passato effettivamente qualche tempo da quanto Matteo Salvini e Giorgia Meloni promettevano pubblicamente, un giorno sì e l’altro pure, ai sindacati di polizia (soprattutto penitenziari) più destrorsi di cancellare o neutralizzare la legge 110 che, dopo quasi trent’anni dalla ratifica italiana della relativa Convenzione Onu, ha introdotto nel 2017 il reato di tortura nel nostro ordinamento penale. Ma da qui, dalle promesse fatte ora in sordina, fino a giurare davanti al Consiglio d’Europa - impegnato questa settimana a vigilare sull’esecuzione della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa nel 2015 in merito alla “mattanza” compiuta dentro la scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova - che il governo italiano non ha “alcuna intenzione di abrogare l’attuale reato di tortura previsto dal codice penale”, ce ne passa. Non solo: l’esecutivo Meloni ha tentato di rassicurare l’organizzazione internazionale con sede a Strasburgo - che preme affinché l’Italia garantisca a tutti gli effetti lo stato di diritto - giocandosi la carta dei progetti di legge che introducono i codici identificativi per gli agenti di tutte le forze di polizia. Proposte in realtà presentate dalle opposizioni e osteggiate dalla maggioranza, negli anni più volte assegnate e poi bloccate nelle commissioni parlamentari. Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa infatti, dopo aver “constatato con profondo rammarico che lo statuto di prescrizione precluda l’apertura di qualsiasi nuova indagine sugli atti di tortura subiti” durante il G8 del 2001 da Arnaldo Cestaro e dagli atri ricorrenti, ha chiesto conto con preoccupazione dei progetti di legge (presentanti da Fd’I in entrambe le camere e assegnati già alle commissioni in sede referente) volti ad abrogare il reato di tortura per sostituirlo con “un’aggravante generica sui reati di lesioni personali (art. 582) o percosse (art.581), quando sono commessi da un pubblico ufficiale infliggendo dolore fisico o psicologico acuto o sofferenza a una persona con l’obiettivo di ottenere informazioni”. Per la cronaca, c’è anche un terzo Pdl del M5S il cui obiettivo sarebbe quello di correggere alcune “storture” della legge per migliorarne l’applicazione, ma che rischia di trasformarsi in un’occasione d’oro per gli abolizionisti. In ogni caso, rispondendo a Strasburgo, “le autorità italiane hanno sottolineato che la posizione del governo, come trasmessa al parlamento italiano dal ministro della Giustizia, è quella di mantenere le disposizioni del codice penale sulla tortura, che rimarranno un reato specifico”. E, alla richiesta esplicita che “un messaggio ad alto livello politico di tolleranza zero sui maltrattamenti sia formalmente consegnato alle forze dell’ordine pubblico”, il governo Meloni ha risposto citando “una direttiva emessa dal Capo della Polizia nel 2009 e le Linee guida emanate dal Ministero degli Interni nel 2019 (dicembre, quando c’era Lamorgese, ndr) e aggiornate nel 2021 che forniscono indicazioni agli agenti” sui limiti da usare nella forza pubblica. Tutta farina di altri sacchi, insomma. In parte rassicurato, l’esecutivo del Consiglio d’Europa ha comunque invitato “caldamente le autorità italiane a garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della Cedu”. Eppure, manca ancora una legge che introduca i codici alfanumerici per identificare agenti e carabinieri. Strasburgo ne chiede conto, preme perché si agisca “rapidamente”. Ma anche in questo caso il governo italiano ha informato i ministri dei 46 Paesi Ue che sono stati depositati in materia tre progetti di legge alla Camera e due al Senato (ma sono di +Europa e delle altre opposizioni), e che già sono state distribuite molte bodycam da applicare sui caschi delle forze dell’ordine. Il Consiglio d’Europa stavolta non ci casca. E “osserva che il loro uso, come indicato dalle autorità, mira a documentare eventi pubblici e, in questo contesto, episodi di violenza che possono scoppiare anche contro gli agenti”. Ne consegue che, “sebbene si tratti di uno sviluppo interessante”, l’iniziativa “non sembra garantire l’identificazione degli agenti da parte di persone” maltrattate “durante un’operazione di contrasto” o mentre sono “sotto la custodia della polizia, come richiesto dalla giurisprudenza della Corte”. Verona. Terzo suicidio in un mese nel carcere di Montorio di Laura Tedesco Corriere Veneto, 9 dicembre 2023 È successo ancora. Un nuovo suicidio in cella a Verona. Un’altra vita spezzata nel carcere scaligero di Montorio, diventato il più “attenzionato” e sotto i riflettori d’Italia da quando, sabato 25 novembre, è arrivato Filippo Turetta, il 22enne assassino dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, tuttora rinchiuso nella sesta sezione infermeria (con una sorta compagno di cella-tutor) anche per scongiurare possibili atti autolesionistici. Quello che si è appena consumato nel venerdì dell’Immacolata è stato il quarto suicidio all’interno della casa circondariale di Verona - più di cinquecento detenuti per 350 posti negli ultimi quattro mesi, addirittura il terzo nel giro di un mese. E come purtroppo spesso accade, i detenuti che arrivano al gesto estremo di farla finita attuano il passo più tragico proprio nei giorni di festa, quando le mancanze e le crisi esplodono in tutta la loro angoscia. Forse è capitato così nel pomeriggio dell’8 dicembre anche al giovane detenuto Saidiki Oussama, di nazionalità marocchina: gli mancavano appena tre mesi da scontare dietro le sbarre per tornare in libertà. Invece ne ha avuto il tempo, anzi non se lo è dato: si è impiccato in cella d’isolamento a metà pomeriggio. Erano circa le 16.30 di venerdì: secondo le voci di “Radiocarcere” era detenuto da tre anni, si trovava recluso in quinta sezione e in passato avrebbe già dato segni di disagio mentale, dando fuoco alla cella. Avrebbe manifestato problemi anche nel pomeriggio dell’Immacolata, ragion per cui è stato visitato da uno psichiatra. Dopodiché sarebbe stato condotto in una cella d’isolamento, dove la situazione è inaspettatamente e improvvisamente degenerata, con il giovane detenuto nordafricano che si è impiccato. Non è stato possibile, purtroppo, evitare l’irreparabile e salvargli la vita: “Ho appena appreso la notizia - reagisce addolorato don Carlo Vinco, garante dei detenuti nel carcere di Verona -. Era da tanto che non avevo occasione di vederlo e attendo di saperne di più. Di certo è il terzo detenuto che si toglie la vita nell’ultimo mese, è una situazione che mette una grande tristezza”. La luttuosa scia nel penitenziario scaligero è tragicamente iniziata il 9 agosto 2023, con il gesto estremo (anche se manca la conferma definitiva dalle indagini ancora in corso) di Christian Mizzon, veronese di 44 anni, vittima (pare) di una overdose di farmaci. Il 9 novembre 2023 è la volta del detenuto afghano Farhady Mortaza, 30enne con cittadinanza austriaca e status di rifugiato: soffriva di disturbi psichiatrici, si è impiccato nonostante il tentativo delle guardie di salvarlo. Domenica 19 novembre tocca purtroppo a Giovanni Polin di 34 anni, nato in India, italiano di seconda generazione dopo essere stato adottato insieme alla sorella da una coppia veronese: anche lui, morto impiccato in cella. Una drammatica linea di dolore che fa insorgere l’associazione Sbarre di Zucchero: “A poche ore dalla notizia del decesso in ospedale del detenuto di San Vittore che si era impiccato mentre era in corso la diretta della Prima della Scala di Milano, ci giunge notizia dettagliata dell’ennesimo suicidio nel carcere di Verona - è la veemente reazione degli attivisti dell’associazione pro detenuti, Monica Bizaj, Micaela Tosato e Marco Costantini- Un giovane marocchino di nome Oussama Saidiki si è impiccato in una cella di isolamento, nei pressi dell’Ufficio Matricola. Non stava bene, aveva già dato ampi segnali in passato di disagio psichico, ingerendo vetri e incendiando la sua cella. L’8 dicembre è stato portato a colloquio con lo psichiatra, dove si è agitato così tanto da diventare aggressivo; da qui la decisione di non ricondurlo in quinta sezione ma di metterlo in isolamento, da solo. E Oussama si è impiccato. È il terzo suicidio nel carcere di Montorio in meno di un mese - denuncia Sbarre a gran voce - Storie diverse ma un denominatore comune per questi tre ragazzi, il silenzio ormai insopportabile di Istituto e Garante dei detenuti, da parte loro tutto tace, ancora ed ancora. Perché? Adesso pretendiamo delle risposte urgenti, sperando di “non disturbare” la quiete, in questo freddo ponte dell’Immacolata”. Milano. San Vittore, morto il detenuto che si è impiccato durante la diretta della “Prima diffusa” Corriere della Sera, 9 dicembre 2023 È morto il detenuto 46enne di origine nordafricana che si è impiccato giovedì sera a San Vittore, in cella, mentre nella rotonda centrale del carcere veniva trasmessa la “Prima” del Don Carlo alla Scala. Le sue condizioni sono apparse da subito gravissime: non ha superato la notte. “Per una gravissima improvvisa emergenza sanitaria ritengo che sia opportuno interrompere questa serata: scusate, purtroppo il carcere è anche questo”. Con queste parole il direttore Giacinto Siciliano ha interrotto la rappresentazione a cui ha preso parte una sessantina tra detenuti e detenute più altrettanti ospiti esterni tra magistrati, avvocati, volontari e cittadini che in questa occasione più che mai sono un piccolo simbolo o di quell’incontro fra “dentro” e “fuori” cui dovrebbe tendere la quotidianità del carcere per essere luogo non solo di espiazione ma di ricostruzione, secondo quanto disposto dall’articolo 27 della Costituzione. Mentre il secondo atto si concludeva, un uomo al quinto raggio si è impiccato. Immediati i soccorsi, inutili i tentativi di salvarlo. L’episodio, nella sua tragicità, descrive purtroppo meglio di qualsiasi discorso la realtà di disperazione in cui si trova un numero impressionante di detenuti che, nonostante l’impegno del personale e degli operatori del carcere, sconta un disagio legato in primo luogo al sovraffollamento: cinquemila detenuti in più solo negli ultimi cinque mesi. Il detenuto che ha tentato di togliersi la vita era stato arrestato due giorni prima per furto. Già all’inizio della serata il direttore Siciliano aveva approfittato del suo momento di saluto per sottolineare - con una intensità particolarmente accorata persino rispetto agli anni durissimi del Covid - la situazione sempre più difficile delle carceri, “con una popolazione in continuo aumento e proveniente da contesti sociali di emarginazione e solitudine”. Tutto questo, ricordiamo noi qui, in un periodo contrassegnato dalla progressiva chiusura a livello nazionale delle celle e, conseguentemente, di molte attività. Nordio: “I volti opposti del carcere” (gnewsonline.it) “Con profondo dolore ho appreso della morte in ospedale dell’uomo che ieri, nella casa circondariale di San Vittore, a Milano, ha tentato il suicidio. Ai suoi familiari, agli operatori dell’istituto, che subito hanno provato a salvarlo, e all’intera comunità dell’amministrazione penitenziaria giunga il mio commosso pensiero e la mia vicinanza. Purtroppo, anche il 2023 è stato un anno drammatico per i suicidi in carcere, ad oggi 61. Dietro ogni numero, c’è il dramma di una persona e c’è la sconfitta dello Stato, per non essere riusciti ad evitarlo. L’uomo era appena entrato in istituto, il momento più difficile insieme a quello del ritorno in libertà. A San Vittore, come ahimè in molti altri istituti, il sovraffollamento è tornato a livelli preoccupanti, rendendo molto più difficile il compito di quanti ogni giorno lavorano per garantire - insieme alla sicurezza della società - una pena volta alla rieducazione, come vuole la Costituzione. Ieri a Milano, il mondo del carcere ha mostrato due volti opposti: inizialmente quello dell’apertura all’esterno, con la visione della Prima del teatro alla Scala - una splendida iniziativa a cui ho voluto mandare un messaggio di plauso; poi il dramma del suicidio. Al Ministero della Giustizia, stiamo lavorando in più direzioni per cercare di migliorare le condizioni di vita e di lavoro per l’intera comunità del carcere, ma davanti ai drammi dei suicidi non possiamo che interrogarci sulla nostra sconfitta”. Così il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Ieri il Guardasigilli aveva indirizzato un messaggio al direttore della Casa circondariale “Francesco Di Cataldo” di Milano San Vittore, Giacinto Siciliano, per la proiezione in diretta del “Don Carlo” di Giuseppe Verdi nella Rotonda dell’istituto, in occasione della Prima della Scala. “Da dieci anni - scrive il Guardasigilli - la ‘Scala diffusa’ porta la festa di Sant’Ambrogio anche in quest’istituto e più di recente ad Opera: è il carcere che si apre all’esterno, al ‘mondo di fuori’, ricordando a tutti che il carcere vive del contatto con il territorio”. Nel messaggio il ministro esprime il suo “grande rammarico” per non poter replicare quest’anno l’emozione di assistere alla Prima dalla Rotonda, “un luogo così significativo per la città e per il mondo della giustizia”. E ringrazia il personale dell’Amministrazione Penitenziaria per la “straordinaria dedizione” che rende possibili progetti come questo: “iniziative nate dalla lungimiranza di alcuni e dalla capacità di tanti di operare in sinergia con le autorità locali per rendere la bellezza uno strumento di recupero”. Come da tradizione, la serata inaugurale della stagione operistica, nel giorno di Sant’Ambrogio, è riservata ai detenuti e al personale dei due istituti penitenziari milanesi, San Vittore e Opera, che per l’occasione ormai da diversi anni aprono le loro porte a ospiti della società civile. Cagliari. Il ragazzo 14enne detenuto per tentato omicidio “era vittima dei bulli” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 dicembre 2023 Il Tribunale per i minorenni di Cagliari ha recentemente convalidato l’arresto di un giovane di 14 anni, accusato di tentato omicidio e attualmente detenuto nell’istituto minorile di Quartucciu. L’adolescente, in stato di shock e sofferenza, ha scelto di non rispondere alle domande, invocando la sua incapacità emotiva, come affermato dall’avvocato difensore Piergiorgio Piroddi. Nel corso delle dichiarazioni spontanee, il ragazzo ha accennato a una profonda “sofferenza” che sembra essere collegata a episodi di bullismo che avrebbe subito. Il padre ha gettato luce su un passato difficile, delineando un quadro in cui il figlio è stato costantemente vittima di denigrazione e umiliazioni. Dietro l’aggressione, afferma il genitore, si cela l’esasperazione accumulata nel tempo per essere stato deriso. Tuttavia, la risposta della società a questo drammatico evento ha sollevato interrogativi su quale debba essere il percorso giusto per un ragazzo così giovane. Maria Grazia Caligaris, rappresentante dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”, ha espresso preoccupazione per la decisione di inserire il giovane nell’Istituto Penitenziario Minorile di Quartucciu, sottolineando che dovrebbe essere la prima volta, almeno in Sardegna, per un ragazzo così giovane trovarsi in tale contesto. “Penso che un ragazzino di 14 anni abbia bisogno d’aiuto, non di essere inserito in un Istituto Penitenziario, seppure per Minori. Non si tratta di buonismo ma di buon senso”, ha dichiarato Caligaris. “L’episodio di Capoterra deve far riflettere sui bisogni delle ragazze e dei ragazzi, sui loro diritti. Sulle loro fragilità e sulle loro scarse speranze e prospettive. Sulla solitudine dei genitori”. La militanza di Caligaris è fondata sull’esperienza personale nel mondo scolastico, dove ha vissuto il crescente disagio giovanile e ha visto di persona a cosa possa portare la frustrazione. Ha sottolineato la necessità di rispondere a queste situazioni con ragione e prevenzione, anziché relegare i giovani al carcere minorile senza esaminare le radici del problema. L’appello è a riflettere sui bisogni reali dei ragazzi, sui loro diritti violati e sulle sfide che affrontano. Si solleva la questione della necessità di risposte basate sulla ragione e sulla prevenzione, anziché su giudizi facili e lapidari che puniscono i giovani dopo averli forse già abbandonati. “Non possiamo pensare di risolvere i problemi delle nuove generazioni con un giudizio “facile” e lapidario che li punisce dopo averli abbandonati”, conclude Caligaris. “L’auspicio è che si possa individuare al più presto una comunità in grado di offrire oggi a questo ragazzo e domani al compagno ferito, non appena sarà in grado, ciò di cui entrambi hanno bisogno affinché possano trovare una risposta ai loro perché”. In questa drammatica vicenda, l’invito è a guardare oltre il gesto e ad affrontare le radici del problema, offrendo sostegno e aiuto, anziché isolare e punire. I numeri dei minori in carcere - La storia del giovane detenuto per tentato omicidio, manifestazione evidente di una profonda disperazione causata dal bullismo subito, solleva nuovamente il dibattito sulla detenzione dei minori. I dati forniti dall’associazione Antigone svelano una realtà cruda: al 15 marzo 2023, in Italia, sono 380 i minori dietro le sbarre, con soli 12 di loro donne. Questi numeri emergono dal rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, che evidenzia un aumento dei minori in carcere dopo una temporanea diminuzione durante la pandemia da Covid. Nel febbraio 2020, i giovani presso gli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) erano 374, mentre a maggio dello stesso anno scesero a 280. Attualmente, gli Ipm ospitano 180 minori, mentre 200 giovani adulti tra i diciotto e i venticinque anni scontano pene comminate quando erano ancora minorenni. Dall’analisi dei dati, emerge che i ragazzi stranieri rappresentano il 46,8% del totale dei detenuti minori, pari a 178 individui, con soli 5 casi che coinvolgono ragazze. Nel 18,9% dei casi, la detenzione riguarda reati contro la persona, considerati i reati più gravi, mentre il 61,2% è legato a reati contro il patrimonio. I minori stranieri, nel 2022, rappresentavano il 22% del totale dei ragazzi coinvolti nei servizi della giustizia minorile, ma in modo sorprendente costituivano il 38,7% dei collocamenti in comunità e addirittura il 51,2% degli ingressi in carcere. Attualmente, in Italia, sono attivi sedici Ipm, con dimensioni che variano da Nisida con 54 detenuti a Pontremoli con 5, l’unico Ipm interamente femminile del Paese. Le città più popolate di giovani detenuti includono Roma con 48, Torino con 34, Airola con 31 e Milano con 27. Poi ci sono 8 ragazzi a Cagliari, 9 a Caltanissetta, 11 a Catanzaro e 13 a Firenze. La chiusura dell’Ipm di Treviso nell’aprile 2022, a seguito di disordini, ha portato ad un numero ridotto di strutture attive. La riapertura annunciata per la fine di febbraio non si è materializzata, lasciando interrogativi sulla gestione delle strutture e la necessità di una revisione del sistema di detenzione minorile. In questo contesto, l’attenzione si sposta su come la società possa affrontare le radici della criminalità giovanile, ponendo l’accento sulla prevenzione e sulla creazione di opportunità per il recupero dei giovani, piuttosto che relegarli in un sistema carcerario che potrebbe non essere la risposta più appropriata. La necessità di un codice penale adattato ai minori - L’associazione Antigone solleva una domanda cruciale: perché non un codice penale dedicato ai minori? Secondo loro, il sistema attuale di reati e pene per gli adulti, ancorato al codice Rocco, non risponde affatto al principio del “superiore interesse del minore”, sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989. Antigone sottolinea che l’articolo 27 della Costituzione italiana conferisce alla pena una funzione rieducativa e pone limiti sull’esercizio del potere di punire, al fine di evitare trattamenti contrari al senso di umanità. In conformità con l’evoluzione giurisprudenziale costituzionale, Antigone afferma che le pene devono mirare a favorire la reintegrazione sociale della persona condannata, proteggendo la dignità umana che non deve mai essere messa in discussione. Questi principi, rileva l’organizzazione, necessitano di una riformulazione per adattarsi alle dinamiche specifiche dei ragazzi e delle ragazze, richiedendo un’enumerazione diversa dei reati e una gamma più ampia di sanzioni. Secondo Antigone, sarebbe giunto il momento di considerare il superamento definitivo del ricorso al carcere per i minori di 16 anni o per i minorenni in generale. L’organizzazione sottolinea che l’utilizzo degli istituti penitenziari per minori in Italia sta gradualmente diventando marginale, una tendenza positiva, ma che al contempo comporta la sfida di costruire percorsi e spazi riservati ai giovani in queste strutture sempre più vuote. L’invito di Antigone è a compiere un passo ulteriore verso la residualizzazione del carcere, escludendo completamente i minori di una certa età, anche se giuridicamente imputabili, indipendentemente dal reato commesso. Tale approccio, secondo l’organizzazione, rispecchia l’impegno per un sistema di giustizia minorile più equo, centrato sulla riabilitazione e il benessere dei giovani, anziché sulla mera privazione della libertà. In un contesto in cui la società evolve, Antigone suggerisce che le leggi e le pratiche giuridiche dovrebbero riflettere questa evoluzione, garantendo un trattamento adeguato ai minori coinvolti nel sistema penale. Ma il governo attuale, con il cosiddetto decreto Caivano, frutto dell’ennesima legge nata sotto l’onda dell’emozione, aggrava e non migliora. Reggio Calabria. I progetti di inclusione tengano conto del tempo deformato che ha vissuto il detenuto di Paolo Praticò* ilreggino.it, 9 dicembre 2023 Le riflessioni del Garante metropolitano per i detenuti: “Chi esce in libertà dopo un periodo più o meno lungo, trova il mondo cambiato”. L’inclusione in un progetto di vita per chi lo ha interrotto con una detenzione, non può prescindere dal considerare il tempo deformato dal quale proviene il detenuto. per colpa o per dolo non ha importanza, perché nessuno della società civile può sentirsi esente da responsabilità quando una parte di essa sbaglia o dei singoli individui sbagliano. Il bene e il male, il giusto e l’ingiusto non hanno una separazione netta ma coesistono in equilibrio dinamico la cui alterazione può far sconfinare da una parte o dall’altra e talvolta soggetti a punti di vista. Tempo deformato perché in carcere il tempo rallenta, quando, addirittura non si ferma. Chi esce in libertà dopo un periodo più o meno lungo, trova il mondo cambiato. La tecnologia procede rapidamente, a volte, ancora in maniera più rapida della velocità di adattamento delle persone in libertà, immaginiamo perciò come potrà adattarsi chi esce da una lunga detenzione. Un detenuto mi ha raccontato come si è sentito dopo quindici anni di carcere, portando ad esempio un gattino che aveva allevato in cella e per regalargli la libertà lo fece uscire ma, non essendo abituato finì sotto una macchina appena fuori. Un’altra detenuta mi raccontava di quanto la infastidisse il suono del telefono quando era a casa e di quale gioia provasse in carcere quando poteva telefonare. Si tratta di alcuni esempi ma, ne esistono a decine, sui quali intervenire, sul come bisogna discutere. *Garante dei detenuti Città metropolitana di Reggio Calabria Novara. In carcere si insegna il mestiere di muratore. Una seconda possibilità per i detenuti di Cecilia Colli lavocedinovara.com, 9 dicembre 2023 Un progetto pilota nato dalla sinergia tra Senfors e Ance in collaborazione con la casa circondariale di Novara, il Comune e il Provveditorato alle carceri. Dieci detenuti del carcere di Novara stanno seguendo un corso professionalizzante per imparare il mestiere di muratore. All’interno dell’istituto penitenziario costruiranno una rampa per disabili, un campo da bocce in trasformando alcuni spazi detentivi in luoghi di socializzazione e altri lavori si vedranno in futuro. Si tratta di un progetto pilota nato dalla sinergia tra Senfors, Sistema Edile Novarese Formazione e Sicurezza e Ance, Associazione nazionale costruttori edili. “Il corso ha l’obiettivo di creare competenze professionali che i detenuti, una volta terminato il loro periodo di carcerazione, potranno spendere all’esterno e iniziare una nuova vita” ha spiegato ieri la direttrice della casa circondariale Rosalia Marino, insieme all’assessore comunale alle Politiche Sociali Teresa Armienti, il presidente di Ance Novara Vercelli Luigi Falabrino, Cristian Borghese, Gianni Marani e Davide Commisso rispettivamente presidente, vicepresidente e direttore di Senfors. “C’è fame di manodopera nel nostro settore che non si attinge nelle università, ma nei gradi inferiori delle scuole. Per noi questa è una grande opportunità” ha aggiunto Falabrino. L’interesse da parte dei detenuti non manca: “In 58 hanno presentato la domanda per partecipare al corso; solo 10 sono stati ammessi, tra i 30 e i 40 anni che hanno dimostrato maggiori manualità nel settore edilizio e che sono più vicini alla fine della pena” ha spiegato il comandante della Polizia penitenziaria, Daniele Squillace. Questa settimana i detenuti hanno terminato le 40 ore di teoria sul tema della sicurezza e dispositivi; ora si darà avvio alle altre 40 di pratica. Al termine riceveranno un attestato che potranno mostrare ai centri per l’impiego una volta usciti. “Il nostro compito è quello di creare un ponte tra il carcere e l’esterno, riuscendo a fare in modo che le persone che entrano qui possano uscire migliori - ha aggiunto la direttrice Marino -. Qui a Novara siamo in una specie di isola felice: in undici anni abbiamo avviato diversi percorsi di recupero con Assa per la pulizia delle strade e la manutenzione del verde”. Un concetto ribadito anche dal provveditore alle carceri di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Rita Monica Russo: “Un’esperienza già provata a Cuneo con buoni risultati. Novara è un fiore all’occhiello e questi progetti sono la dimostrazione che, nonostante ci sia poco personale, le cose si vogliono fare bene”. Venezia. Fondamenta delle Convertite, un progetto per le detenute di Marta Gasparon gente veneta, 9 dicembre 2023 Tornare a sentirsi considerate persone, nella consapevolezza che attraverso il bello e il buono si può conoscere il vero. Il bilancio del progetto dell’associazione “Fondamenta delle Convertite”, finanziato con risorse regionali e supportato dagli “Amici dei musei e monumenti veneziani”, è più che positivo. I risultati finora raggiunti sono stati presentati nella sede di The Human Safety Net e sono il frutto di una serie di attività dedicate alla casa di reclusione femminile della Giudecca con lo scopo di offrire alle detenute la possibilità di riappropriarsi gradualmente di un contatto con il “fuori”, fornendo un supporto concreto al loro percorso di reintegrazione con la città. “Esisterebbe l’obbligo, che lo Stato italiano impone nella gestione del carcere, di garantire ad ogni detenuto un tipo di trattamento che gli permetta di recuperare la sua credibilità sociale. Ma questo non avviene quasi mai, se non attraverso le associazioni di volontariato, che affrontano il tema”, ha puntualizzato Giampaolo Sprocati, presidente dell’associazione veneziana, specificando come il progetto, che ha preso ufficialmente il via da inizio 2023, con scadenza prevista a fine anno, si fondi su tre cardini. Il primo riguarda il rapporto con la città, che si basa sul fornire alle ristrette una conoscenza di ciò che le circonda; una realtà a loro spesso sconosciuta a causa dell’isolamento a cui sono sottoposte. Il secondo, invece, è strettamente collegato all’uscita dal carcere di alcune detenute, per una giornata, grazie all’autorizzazione ottenuta dal magistrato di sorveglianza. Tra i luoghi visitati anche Palazzo Ducale, Gallerie dell’Accademia e Basilica di San Marco. “Questo è un aspetto fondamentale, per instaurare davvero un rapporto con la città - ha commentato Sprocati -. Trentaquattro le uscite effettuate ed altrettante le ristrette coinvolte nell’iniziativa”. Donne entrate a contatto con un mondo in continua trasformazione e per le quali fermarsi davanti ad una vetrina o poter scegliere che cosa ordinare in un ristorante sono passaggi particolarmente importanti. E c’è chi, per l’emozione del momento, non è riuscita a celare la paura di tornare a percorrere le vie del centro storico, dovendosi aggrappare al braccio dei volontari a causa di qualche capogiro. “Per il magistrato di sorveglianza le prime uscite costituiscono un’occasione per verificare la possibilità di concedere permessi speciali, di recarsi al lavoro o di ottenere i domiciliari”. Infine il terzo punto cardine del progetto, che arriva a coinvolgere una quarantina di detenute: i laboratori, basati su conferenze, filmati e spiegazioni su Venezia, la sua storia e le curiosità che la contraddistinguono. Il tutto in collaborazione con gli “Amici dei musei”. “Nel corso dell’anno - ha illustrato Sprocati - al femminile forniamo anche abbigliamento, coperte e lenzuola, mentre al maschile abbiamo due psichiatri pronti a gestire le situazioni più delicate, legate a persone violente”. “Monumenti, calli e musei veneziani sono intrisi di una cittadinanza del passato, con un patrimonio di valori che arriva anche ai giorni nostri”, ha detto Marco Foffano, garante per i detenuti, soffermandosi sul tema del lavoro, nell’ambito delle realtà carcerarie italiane un versante ancora troppo debole. “Faccio un appello - ha aggiunto - ad imprenditori e cooperative: bussate alla porta del carcere. Incontrerete delle difficoltà, ma questo è un punto su cui bisogna insistere”. Palermo. Vita dei bambini in carcere, una mostra a Giurisprudenza di Marta Occhipinti La Repubblica, 9 dicembre 2023 Un viaggio negli Icam (istituti a custodia attenuata per detenute madri) compiuto dalla fotografa Anna Catalano. Nelle loro stanze il crimine non ha un nome. Ha però suoni e colori. Quello degli spioncini quadrati da dove si affacciano gli agenti e del pianto di una voce vicina, ma invisibile. Zinetta, 4 anni, capelli lunghi, sta seduta da sola su una panchina esterna dell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Lauro. A pochi metri, dietro una finestra sbarrata affacciata sul cortile una manina chiede di uscire: non può, perché in isolamento preventivo da Covid con sua madre, in un’ala dedicata. La vita per i bambini in carcere è ristretta pure nella fantasia: attualmente sono 26 i figli, tra gli zero e i sei anni, di detenute madri rinchiusi negli Icam di Torino, Milano, Venezia, Avellino e Lauro, in Irpinia. Altri dieci, invece, si trovano negli asili nidi delle case circondariali. Nessun Icam è presente in Sicilia. Nel 2022 i bambini dietro le sbarre erano dieci in meno, il numero è destinato ad aumentare in seguito al nuovo decreto sicurezza che elimina l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte o con giglio fino a 3 anni che vengono condannate. A madri e figli dietro le sbarre ha rivolto il suo sguardo di donna e fotografa, Anna Catalano, che dopo cinque anni di reportage dall’interno degli Icam italiani ha raccolto storie e fotografie nella mostra “Senza colpe”, esposta fino al 18 dicembre nell’atrio del dipartimento di Giurisprudenza. La mostra, finanziata dalla prorettrice alle Pari opportunità di Unipa, Beatrice Pasciuta, con il patrocinio del Garante per la tutela dei diritti dei detenuti e la curatela scientifica di progetto di Laura Lorello, è un viaggio dentro “quelle case grigie”, come le definiscono gli stessi bambini detenuti, che nate per essere luoghi transitori in attesa di giudizio dei genitori diventano un limbo negli anni più importanti della crescita di un bambino. “Ho voluto raccontare l’infanzia negata di chi vive dietro le sbarre. Gli Icam sembrano diventare per le madri delle scorciatoie detentive - dice Catalano - ma che diventano prigioni per i loro figli. E per loro stesse. Spesso i controlli pediatrici sono ridotti al minimo e le relazioni genitoriali finiscono per diventare problematiche, con traumi psicologici che diventano disagi sociali fuori dal carcere”. Catalano è stata tra le sostenitrici della proposta di legge dell’ex deputato Pd Paolo Siani per la valorizzazione delle case famiglia, bloccata lo scorso marzo in Parlamento. La pena prima del verdetto di Natalino Irti Corriere della Sera, 9 dicembre 2023 L’afflizione delle indagini, l’angoscia dell’attesa. Per l’imputato si può parlare di una sorta di “diritto del dolore”. Già subire un processo è un’esperienza punitiva: la riflessione di Giovanni Bazoli. processo e pena vengono percepiti, nel diffuso sentire e nella quotidianità del linguaggio, come un prima e un dopo, un presupposto e una conseguenza. Il processo si conclude con il giudizio; la pena è irrogata nella sentenza. Due diversi momenti dello stesso cammino: nel processo si muovono le figure del giudice e dei difensori, l’imputato ne è quasi semplice oggetto; nella pena, invece, il condannato sta chiuso al centro dell’immagine, e tutta la tiene e domina. L’imputato, che finora era assistito dalla presunzione di non colpevolezza, è ormai colpevole per forza di sentenza, e perciò “recluso”. Cioè, separato, reso estraneo, abitante in un “mondo a parte”. Queste immagini sono dettate da una sorta di semplicismo scolastico, comode per tutti gli usi, fruibili in ogni occasione. Ma la stessa sentenza di assoluzione incrina un quadro così appagante: l’assolto, colui che è stato sciolto dalla imputazione, ha vissuto, anch’egli, il processo. Il grande Beccaria aveva già intuito il problema: l’assolto ha subìto la sofferenza del processo: “Qual è dunque quel diritto se non quello della forza, che dia la potestà ad un giudice di dare una pena a un cittadino mentre si dubita se sia reo o innocente?”. Questa lunga e operosa sequenza di fatti - “avvisi”, interrogatori, ispezioni di cose e luoghi, confronti testimoniali, e tutte le risorse investigative suscitate dal sospetto o dagli “indizi” - si va ormai svolgendo. C’è un uomo “indagato”, su cui si accendono luci di stampa e di televisione; e nulla egli può proteggere della propria vita, né affetti, né amicizie, né pagine di segreto diario: “indagine” è proprio questo guardar dentro l’esistenza altrui, forzarne i cancelli, e trascinare l’intimità nel cerchio mediatico. Alla sofferenza di questa irruzione occhiuta e pervicace si aggiunge l’angoscia dell’attesa, una nuda e disperata aspettazione della parola giudicante. Ancora la voce di Beccaria: incertezza, “la più crudele carnefice dei miseri”. Ecco che il processo, considerato nella sua essenza di angoscia e di attesa, si rivela come una pena, un’afflizione del corpo e dell’animo. Un libriccino di Giovanni Bazoli, edito con riservata sobrietà da un editore bresciano (La Quadra) e preceduto da una sensibile nota di Tino Bino, ci pone di nuovo dinanzi alla identità fra processo e pena. È la dichiarazione resa da Bazoli il 14 settembre 2021, alla fine del dibattimento dinanzi al Tribunale di Brescia, che lo assolse, al pari della successiva Corte d’Appello, da ogni accusa. Nove anni durò il processo; e la sobria e lucida prosa di Bazoli ne fa avvertire la tensione emotiva e l’interiore dignità civile. Il titolo, “Il processo e la pena”, può ben convertirsi in “il processo è pena”. La tormentosa indagine muta l’esistenza stessa dell’uomo, che si ripiega nella memoria, ripercorre l’intera vicenda, e rimane in attesa. Se c’è un giurista, un eminente studioso di diritto capace di cogliere la pena del processo, questi è stato Francesco Carnelutti, giunto, negli anni estremi del suo magistero, alla cattedra romana di Diritto processuale penale. La prolusione del 1946, che è documento di alta cultura giuridica e di estrema finezza spirituale, muove da una premessa: “Il diritto penale è il diritto del dolore”. Dolore, sì, del reato compiuto, ma anche dolore del processo che non conosce distinzione tra innocenti e colpevoli, e tutti avvolge nella sofferenza e nell’attesa del giudizio. Le pagine di Bazoli, riaprendo il problema e lasciando intravvedere la terribile equazione tra processo e pena, impongono una concreta scelta legislativa: ossia di considerare la durata del processo, come tale, nell’equo calcolo della pena irrogata al colpevole. La sofferenza del giudizio non può essere isolata dalla sofferenza della sanzione: è, essa stessa, già condanna dell’imputato colpevole; già capitolo di quel “rieducare”, che l’articolo 27 della Costituzione stabilisce come finalità della pena. La durata di quella sofferenza non va cancellata dalla realtà né dal “conto” che la società presenta al colpevole. Anche il processo appartiene al diritto del dolore. Superato è il dualismo tra processo e pena, poiché ambedue si raccolgono sotto il segno dell’angoscia, e rivelano che anche l’innocente ha patito la sofferenza dell’indagine e atteso la parola del giudizio. Ma se il processo ha tale carattere, ed è già un male del vivere, allora la sanzione deve farne il giusto conto e trarlo nella misura della condanna. La durata del giudizio, qualche che ne sia il definitivo risultato, come che si risolva l’incognita tra innocenza e colpevolezza, è, essa stessa, una pena dolorosa. Contro la pornografia del dolore di Guido Stampanoni Bassi formiche.net, 9 dicembre 2023 Il diritto a informare ed essere informati è sacrosanto ma esiste una netta differenza tra cronaca e voyeurismo. Non sono un giornalista e, quindi, non spetterebbe a me dire come si pubblica una notizia. Non sono neanche un direttore o un editore di un quotidiano (lo sono, in realtà, ma di una rivista giuridica) e, quindi, non spetterebbe a me stabilire cosa sia una notizia e cosa no. Suppongo lo sia tutto ciò che è in grado di far vendere. È quindi nella veste di semplice lettore che mi chiedo come mai, a ogni tragica vicenda di cronaca, si debba assistere al solito susseguirsi di dettagli macabri e notizie per lo più irrilevanti al solo scopo di solleticare l’attenzione dell’opinione pubblica. La chiamano “pornografia del dolore” (trauma porn) e consiste nella pubblicazione di contenuti - articoli, foto, video, eccetera - che sfruttano traumi altrui per generare scalpore o attenzione. Si tratta di un fenomeno che riguarda diversi ambiti (pensiamo alle raccolte fondi) e, nel 2016, era stata anche presentata una proposta di legge avente a oggetto la “disciplina della comunicazione pubblica destinata alla promozione di iniziative di solidarietà”. Nella proposta di legge - che non riguardava il tema della cronaca giudiziaria - si prevedeva che i contenuti della comunicazione finalizzata a promuovere la raccolta di fondi fossero rispettosi di una serie di principi, tra i quali il rispetto della “sensibilità pubblica”, i principi di “umanità, neutralità, imparzialità e non discriminazione”, la garanzia della completezza e della correttezza delle informazioni” nonché l’opportunità di “evitare l’uso di immagini o di testi potenzialmente scioccanti e lesivi della dignità della persona” nonché quelli tali da “sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della persona, generando sentimenti di paura o grave turbamento, ovvero rappresentando in modo esasperato la natura del problema sociale oggetto della comunicazione”. La cronaca non è ovviamente immune a tale deriva e, solo per rimanere ad alcune delle più recenti vicende, la spettacolarizzazione del dolore ha accompagnato la narrazione della tragedia del Mottarone o degli omicidi di Carol Maltesi e di Giulia Tramontano (su cui non ci sono stati risparmiati neanche i più macabri dettagli). La spettacolarizzazione ha caratterizzato, nelle ultime settimane, il racconto - quasi minuto per minuto - dell’omicidio di Giulia Cecchettin, su cui l’informazione ci ha propinato, in ordine sparso, i seguenti dettagli: durante il viaggio che lo portava in Italia, Filippo Turetta aveva la barba incolta e indossava una tuta; dormiva con un orsacchiotto e questo sarebbe sintomo di una regressione infantile; l’analisi della sua grafia avrebbe fatto emergere poco spazio tra le lettere, il che sarebbe la prova di una sorta di “bulimia affettiva”; una volta arrivato in carcere, avrebbe chiesto ansiolitici e libri; fonti della biblioteca del carcere avrebbe indicato addirittura i titoli dei libri: “La figlia del capitano” di Aleksandr Puškin e un giallo di Agatha Christie (“ma non sarebbe stato chiarito se i titoli siano stati scelti dal detenuto o se sia stato il giudice a volere che Filippo li leggesse”); gli altri detenuti si sarebbero lamentati dei privilegi concessi al detenuto “vip”; inizialmente i genitori di Turetta avrebbero rinunciato a vedere il figlio in carcere in attesa di ricevere adeguato supporto psicologico; poi, al primo incontro con i genitori, Turetta sarebbe apparso tranquillo e non avrebbe versato una lacrima; il papà di Turetta, in un’intervista, avrebbe chiesto come faccia una psicologa a definire suo figlio “mostro”; pochi giorni dopo l’arresto, su Facebook sarebbero stati creati gruppi nei quali si mostrava solidarietà nei confronti di Turetta; la sorella di Cecchettin si è fatta un tatuaggio; la nonna ha presentato un libro proprio il giorno della autopsia sulla nipote e avrebbe addirittura sorriso durante un’intervista; durante i funerali, Turetta non avrebbe acceso la televisione e gli sarebbero stati tolti anche i giornali. E poi trasmissioni televisive e articoli nei quali si riportano il numero di coltellate inferte, i disperati tentativi della povera Giulia di sottrarsi all’aggressione o le condizioni in cui è stato ritrovato il corpo. Se certe reazioni sono giustificabili e umanamente comprensibili da chi ha subito la perdita di una persona cara - così come è comprensibile la reazione dei familiari ai quali i medici comunicano una tragica notizia - sfruttare il loro dolore per pure esigenze di marketing è un’operazione che dovrebbe essere condannata a reti unificate. Come dicevamo, il caso Cecchettin non è il primo e, certamente, non sarà l’ultimo. Vi abbiamo assistito nel caso della funivia del Mottarone, quando, a seguito della diffusione del video che riprendeva i tragici momenti del crollo, la Procura aveva diramato un comunicato con il quale si invitavano tutti, inquirenti e organi di informazione, al doveroso rispetto per le vittime e per l’intera comunità. Analogo invito era stato rivolto, nel caso Cecchettin, anche dal procuratore di Venezia, il quale, pur comprendendo l’attenzione suscitata da un caso così grave, non aveva risposto a domande su particolari “che servono solo a creare ulteriori tensioni e problemi” e aveva ricordato “il diritto di Turetta, al pari di ogni indagato, a essere trattato in maniera obiettiva, sia dalla Procura, che garantisce i diritti delle parti in causa in questa fase, sia dall’opinione pubblica” al fine di garantire i diritti all’indagato e la serenità alle parti. Se il diritto a informare ed essere informati è sacrosanto e non può essere messo in discussione, occorre però ricordarsi (così almeno evitiamo di dimenticarlo) che esiste - o quantomeno dovrebbe esistere - una netta differenza tra ciò che è diritto di cronaca e ciò che è spettacolarizzazione e voyeurismo. Cari uomini, inutile dire: “è un mostro” di Grazia Zuffa L’Unità, 9 dicembre 2023 Ho ascoltato le parole del padre di Giulia Cecchettin al funerale della figlia. Gino Cecchettin ha scelto di dare un senso alla storia tragica della figlia allacciandola alle tante storie tragiche di donne uccise dai loro compagni. Lo stesso aveva fatto la sorella di Giulia, rivendicando il suo lutto come pubblico e politico, non solo privato. È come se, per ambedue, il dolore personale abbia dato la forza per scavare, con determinazione e sguardo più acuto alle radici del “male” sociale della violenza contro le donne: “per trasformare questa tragedia in una spinta al cambiamento” ha detto il padre. Un cambiamento c’è già stato. Lo dimostra la risposta forte delle manifestazioni per la giornata internazionale della violenza sulle donne. Ancora, sono stati la sorella e il padre di Giulia a ribadire i punti fermi in un dibattito a dir poco erratico sul patriarcato. Il più importante è che la violenza sulle donne è questione di uomini (“mi rivolgo per primo agli uomini”). Perché gli uomini fanno fatica ad accettare che le donne non siano più soggette al loro desiderio. O, forse è meglio metterla così, non sanno e insieme non vogliono confrontarsi col desiderio dell’altra. Se la libertà femminile ha posto fine al patriarcato, la risposta violenta riconferma quanto di intrinsecamente violento c’era in quella struttura di potere. Una violenza che appare tanto più assurda e sconcertante in quanto non più “contenuta” nel “vecchio” ordine patriarcale, dei ruoli maschile e femminile. Una violenza che non di rado sfocia nel suicidio -ha fatto bene Ida Dominijanni a sottolinearlo (Internazionale, 23/11) “come se, privato del possesso di una donna, un uomo non solo si sentisse autorizzato a sopprimerla, ma non potesse sopravviverle”: poiché incapace di trovare ragioni d’esistenza fuori dalla “gabbia” dell’identità maschile tradizionale. Non c’è altro orizzonte possibile nel rapporto di un uomo con una donna, non c’è futuro - questo sembra essere il loro messaggio. Un altro modo per negare il messaggio che le donne, proprio sottraendosi al dominio maschile, hanno implicitamente inviato: che è possibile e auspicabile un rapporto non basato sul potere dell’uno sull’altra ma sulla differenza, per “rivolgersi all’altro e all’altra come differente, prestando attenzione e ascolto a quello che è differente” (Maria Luisa Boccia, intervista Unità, 25/11). Viene in mente il gesto di Giulia, che ha continuato a frequentare l’ex compagno anche dopo la fine della relazione amorosa. Il no netto a un amore inaccettabile non implicava per lei rifiutare “l’attenzione e l’ascolto” all’uomo che era stato suo intimo per un periodo di vita. Il significato di questa sua scelta non cambia, anche se le è costata la vita. Nell’esplosione di distruttività (e di autodistruttività) del femminicidio, nell’aggrapparsi all’identità patriarcale “fuori tempo massimo” (nota ancora Dominijanni), c’è un’insensatezza spaventosa. Da qui la tentazione di imboccare la via più facile, quella di etichettare il femminicida come “mostro”, il criminale particolarmente odioso, da cui per primi gli uomini vogliono prendere le distanze. Così “mostro” da stimolare in alcuni la tentazione di toglierlo di mezzo dalla comunità dei “normali” con il facile escamotage della “infermità mentale”. Così diventa chiaro come la “mostrificazione” sia il dispositivo principe per tirarsi fuori dal tanto che c’è di responsabilità collettiva. E per alimentare il filone retorico del “più carcere” come soluzione principe di governo delle nostre società. I femminicidi sono tanti, in relativa stabilità, come documenta uno studio dell’università di Torino dal 2016 al 2021, commentato da Pietro Pellegrini (il Vaso di Pandora, 5 dicembre). Come previsto, nell’84,5% dei casi la tipologia di relazione fra la vittima e l’uccisore è “intima e intensa”. Questa caratteristica, insieme alla stabilità/cronicità del fenomeno, confermano che il femminicidio affonda le radici in un modello preciso di relazione uomo/donna nel campo agitato del post patriarcato. Dunque, al di là della risposta estrema del femminicidio, tutti gli uomini sono chiamati a interrogarsi sul loro rapporto con donne che non sottostanno più al loro desiderio; e a cominciare a parlare di questo, per contribuire al discorso pubblico. Non solo. La parola che nasce dalla comprensione di sé è preziosa anche nel privato. È premessa per prendere posizione nella relazione con l’altra/o e predisporsi all’ascolto. E anche al conflitto, che è parte dell’incontro con la/il differente da sé. Il conflitto può risolversi nel sangue, lo sappiamo bene in questi tempi di guerre oltre che di femminicidi. All’opposto, ci si può anche ritrarre dalla relazione proprio per non affrontare il conflitto. Dobbiamo stare attente al senso del tramonto della sessualità, un tema che pure è stato centrale nel discorso pubblico e nel vissuto delle scorse generazioni. Un sintomo di scivolamento verso la non-relazione fra i sessi è l’accettazione diffusa, o quanto meno la scarsa riflessione collettiva sulla nuova modalità del “procreare senza sesso”, inaugurata dalle tecnologie della riproduzione. In mezzo, tra il sangue e il non contatto fra uomini e donne (ben raffigurato nel dipinto The lonely ones di Edvard Munch), sta la gestione di quel conflitto: faticosa e fallimentare se sfocia in un continuo corpo a corpo di sopraffazione dell’altra e di auto- annichilimento del sé maschile, come avviene oggi per tante coppie. Ma c’è anche un altro modo, seppur faticoso anch’esso, di venire a patti con l’altra/o, in una continua mediazione fra il desiderio e il sentire dell’uno/a e quello dell’altro/a: la quale può permettere la sopravvivenza e il dispiegarsi maturo della relazione. Il post patriarcato vede, per fortuna, anche questo esito. Per merito delle donne, soprattutto. Ma forse anche gli uomini ci mettono del loro, seppure con più avarizia e minore consapevolezza. Di questa mediazione vorremmo sapere di più, seguendo una traiettoria che dal personale procede verso il politico della nuova cultura da più parti invocata. Ancora una parola, sulle possibili conseguenze della presa in carico della questione “violenza sulle donne” da parte degli uomini. Per cominciare, le donne, le potenziali vittime, dovrebbero per parte loro essere scaricate di pesi impropri. Non mi convincono gli inviti pressanti a “riconoscere” i primi segnali dell’uomo Violento con la maiuscola, se non altro perché le “mele marce” stanno in un paniere dove il baco alligna. Dunque, è una identificazione difficile, che nell’immediato rischia di risolversi nella colpevolizzazione della donna che, se non “riconosce” per tempo quei segnali e, peggio, se indugia in quel rapporto “malato”, dimostrerebbe di essere ancora sotto il giogo maschile. Anche la denuncia del partner maltrattante andrebbe ricondotta al suo corretto significato: va perseguita non tanto per il valore simbolico di “rifiuto” del rapporto violentole donne non hanno bisogno di questo, tantomeno oggi - ma in quanto strumento di effettiva difesa dal rischio di ulteriori violenze. Qui sta la debolezza della risposta sociale, fra la pressione sulle donne perché denuncino (e la loro matura risposta positiva) e l’incapacità del sistema giustizia a difenderle. Come diventano operative le nuove leggi? Su quali priorità si muovono gli apparati di repressione nell’applicazione delle norme? Quale impulso riescono a dare le tante donne oggi impegnate nel sistema giustizia in direzione di una efficace prevenzione della violenza di genere? Sappiamo che la notte dell’uccisione di Giulia un giovane uomo, richiamato dalle sue grida, non si tirò indietro e chiamò i carabinieri. Che non dettero seguito alla segnalazione, decidendo di impiegare le loro forze altrove (per sedare una rissa, pare). Ecco, appunto. Ripartiamo da qui. Scuola, il fallimento dell’ascensore sociale di Serena Sileoni La Stampa, 9 dicembre 2023 Il sistema scolastico italiano è in grado di preparare i nostri figli ad affrontare il mondo dei grandi? È difficile valutare un sistema scolastico irrigidito come il nostro. Anche per questo è utile leggere i risultati dell’indagine PISA 2022 dell’OCSE, per quanto possa mostrare i limiti tipici dei tentativi di misurazione di fenomeni complessi. L’indagine riguarda le competenze e le conoscenze degli studenti quindicenni nelle tre principali aree del sapere: matematica, lettura, scienze. L’obiettivo non è valutare loro, ma il sistema educativo che deve prepararli al futuro, prima di tutto insegnando loro a comprendere e a farsi comprendere, a risolvere problemi, a pensare con spirito critico. I risultati dell’indagine 2022 si possono leggere in due modi: in maniera sincronica, rispetto agli altri paesi dell’Organizzazione; e in maniera diacronica, rispetto ai risultati per l’Italia delle indagini precedenti. Quanto alla prima comparazione, gli esiti sono peggiori in scienze, sostanzialmente in linea con la media in matematica e superiori in lettura. Rispetto alla seconda comparazione, gli esiti sono peggiorati in matematica, migliorati in lettura e in scienze. Mettendo insieme il quadro sincronico e diacronico, emerge che in ogni anno di valutazione l’Italia ha dimostrato sempre risultati peggiori rispetto alla media OCSE, allineandosi in lettura solo ora, in ogni caso con un crollo rispetto agli anni precedenti tra il 2012 (2014 per matematica) e il 2018. Ciò vuol dire che il miglioramento rilevato nel 2022 deriva da una sorta di contraccolpo rispetto ai risultati precedenti. In sostanza, in matematica e in comprensione di un testo scritto il calo tra il 2014 e il 2022 ha vanificato in parte i miglioramenti osservati a partire dal 2006; mentre in scienze il miglioramento rispetto al 2018 nasconde uno dei risultati peggiori di sempre, parificabile solo a quello della prima valutazione. Altri due dati significativi: abbiamo meno studenti che raggiungono i risultati migliori; e gli studenti più bravi sono anche quelli più fortunati, vengono cioè da contesti socioeconomici e culturali migliori. La relazione tra lo status socioeconomico e culturale, come definito da un apposito indice PISA, e il livello di competenze raggiunto è infatti proporzionale, anche se, comparando tale relazione con alcuni paesi stranieri, si può notare come, a parità di vantaggio socio-economico, i nostri studenti tendono a raggiungere punteggi peggiori. Infine, l’indagine riporta che il 30% degli studenti frequenta una scuola il cui dirigente ha la responsabilità principale di assumere gli insegnanti, contro una media OCSE che è esattamente il doppio; mentre l’86% è iscritto in una scuola in cui gli insegnanti hanno la responsabilità principale di scegliere i materiali didattici da utilizzare, contro una media OCSE inferiore (76%). Il fatto stesso di partecipare al programma PISA e di discuterne i risultati dimostra che accettiamo di confrontare i sistemi scolastici di diversi Paesi, e di misurare le capacità degli studenti che li frequentano. Ciò vuol dire che noi valutiamo i due estremi del processo educativo, lo schema generale stabilito dalla legge e il risultato finale che esso produce. Ma è difficile che l’analisi dei risultati porti a riformare il primo, ed è del tutto improbabile che modifichi il secondo. È su quello che sta in mezzo che dobbiamo riflettere, e lavorare: questo è l’insegnamento che si deve trarre dai risultati PISA 2023. E in mezzo c’è la realtà degli istituti scolastici nella loro varietà, coi loro dirigenti e insegnanti e con le famiglie dei ragazzi che li frequentano. Dalla lettura dei dati PISA sopra citati si possono trarre un paio di impressioni, su questa realtà. La prima è la conferma che la scuola non funziona come elevatore sociale, ma come stabilizzatore di una posizione che si eredita per puro accidente. Uno dei meriti dell’istruzione pubblica avrebbe dovuto essere quello di garantire anche ai figli delle famiglie meno agiate una istruzione che avrebbe consentito loro di cambiare lo status socioeconomico e culturale di provenienza. In buona parte, nel secolo scorso questo è effettivamente avvenuto. Non solo grazie alla scuola pubblica, ma anche grazie ad essa. Nel 1951 in Italia il 19,9% della popolazione era analfabeta. Nel 2011, poco più dell’1%. Tuttavia, una volta eliminato l’analfabetismo strumentale, l’impressione, ricavata anche dalle indagini PISA, è che non facciamo abbastanza per rendere la scuola lo strumento principale per garantire a tutti, a prescindere dalla loro condizione, le stesse opportunità di partenza. La seconda è che l’offerta scolastica resta dove sta: l’offerta non migliora, se non come effetto di rimbalzo rispetto ai suoi momenti peggiori. Come se la scuola avesse funzionato in passato, quando il problema era l’analfabetismo, ma è inadeguata ora, in un mondo più complesso. Pensando quindi alla realtà, ai dirigenti, agli insegnanti, alle famiglie, quanti presidi hanno un loro progetto educativo in testa, che desiderano realizzare e veder misurato, ma a cui è impedito di farlo dalle regole che disciplinano l’organizzazione scolastica? Quanti insegnanti sono dediti e appassionati, ma non sono stimolati dalla mancanza di una progressione e differenziazione di carriera o anche solo dalla soddisfazione di veder realizzato un piano in cui credono? Quanti genitori vorrebbero poter scegliere davvero dove mandare a scuola i figli, sulla base della qualità delle scuole? Ci sono tanti motivi per ritenere che uno dei problemi della scuola (al singolare) è che non è possibile alle scuole (al plurale) provare a offrire un’offerta diversa. In particolare, il reclutamento del personale scolastico è “subìto” dalle scuole stesse e risponde a logiche spesso derogatorie, caotiche e sempre, comunque, indistinte rispetto ai risultati. Tali motivi sembrano confermati da una lettura incrociata dei risultati PISA 2022 e dal dato, emerso nella stessa indagine, secondo cui l’autonomia nella scelta delle risorse è dimezzata rispetto alla media OCSE. La scuola rimane pubblica, obbligatoria e universale. Basterebbe cominciare ad aggiungere un aggettivo: “autonoma”, cioè capace di avere un suo piano, di conferire gli strumenti per attuarlo, mettendo a profitto l’orgoglio di fare e la soddisfazione di vederselo riconosciuto. Che è, da sempre, la ricette per far crescere un Paese. Noi abbiamo una ragione in più per trarre una lezione dai test PISA: perché noi siamo sotto la media anche quanto a crescita del PIL; e gli economisti sono unanimi nell’indicare nell’istruzione lo strumento principe per aumentare la produttività, e quindi il tasso di crescita. Migranti. “Tornerei lì dentro solo per aiutare quei ragazzi”: parlano gli ex dipendenti del Cpr di Milano di Gaia Scacciavillani Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2023 “Non siamo cattivi, abbiamo fatto del nostro meglio per aiutare quelle persone”. “Non è stato facile andarsene: ti tengono stretto lì dentro, perché non hanno personale”. “Dopo quell’esperienza sono ancora sotto Xanax, ma tornerei solo per aiutare quei ragazzi”. Sarà la bassa età media, sarà l’alta dose di empatia, fatto sta che i racconti di chi ha lavorato al Cpr di via Corelli a Milano e ha accettato di confidarsi con ilfattoquotidiano.it seppure in forma anonima, sono tutti diversi e originali, ma accomunati dalla convinzione di aver fatto il massimo per i cosiddetti trattenuti, i detenuti nei centri per il rimpatrio. Chi parla in alcuni casi è stato tra i protagonisti delle segnalazioni sulla gestione del centro che sono andate inascoltate in questi anni e che sono tornate di attualità in seguito alla notizia, la scorsa settimana, dell’indagine della procura di Milano sul Cpr. Addirittura chi è venuto via da poco si sente offeso per la parte delle accuse degli inquirenti milanesi che riguarda la qualità dei servizi e dell’assistenza (“è un lavoro pesante, brutto sentirsi attaccati”). Mentre chi ha già messo un po’ di tempo tra se stesso e via Corelli, si concede di ammettere di aver faticato ad andarsene sia per le pressioni ricevute, che per il fatto di essersi sentito indispensabile. “Non hanno personale e ancora meno personale specializzato, quindi alle poche persone che riescono ad agganciare fanno fare un po’ la qualunque, con ruoli non ben delineati: entri che dovresti fare l’assistente sociale, lo psicologo o il medico e invece ti ritrovi ad accendere sigarette, pulire il sangue con acqua ossigenata e così via”, è il racconto di una giovane donna che ha prestato servizio nella struttura. “C’era una sorta di paura ad andarsene, perché ci veniva raccontato che non solo non saresti stato pagato, ma che avresti anche dovuto risarcire il Cpr e in più avresti rischiato una denuncia penale per una sorta di abbandono del posto di lavoro con un atto di negligenza”. Ma non solo. “Ci eravamo convinti di poter fare qualcosa per le persone che erano lì dentro e allora ci chiedevamo: se ce ne andiamo chi chiama l’ambulanza? Chi discute e combatte con questi (i capi, ndr)? Chi chiede un tso? Chi dice di no? Chi fa sentire la voce di questa gente là fuori?”. Il racconto della donna parla di una nave dalla quale i medici della prima ora hanno preso il largo abbastanza rapidamente, mentre gli infermieri sono arrivati al punto da coprire i turni solo restando in struttura per diversi giorni di fila. “Così c’erano, ma era come se non ci fossero. Man mano i turni infermieristici e dei medici hanno iniziato ad essere scoperti e molti neo assunti non restavano più del primo giorno, così la struttura faceva ricorso per tutto all’Agenzia di tutela della salute (Ats). A un certo punto lo psicologo ha preso il posto di tutti: faceva amministrazione, scriveva i dosaggi dei farmaci, eccetera”. E alla collega che ritiene che l’erogazione dei servizi sia nella norma, manda a dire che “devi avere degli standard per capire se le cose sono fatte bene o no. Devi avere un occhio professionale, se non ce l’hai potresti farti plasmare”. Un esempio? “Molti operatori, cioè tuttofare, erano stranieri che parlavano più lingue, prestandosi così al ruolo di interprete, ma non si trattava né di mediazione culturale né di mediazione linguistica, cioè si andava sulla fiducia ma non c’era nessun obbligo professionale di terzietà e verità della traduzione”. Un altro esempio sono le pulizie: l’organizzazione del lavoro prevede che l’erogazione del servizio venga effettuata dalle 8 alle 15, il che semplifica la contrattualistica, ma non le condizioni igieniche: “Dopo un po’ che è stata fatta l’ultima pulizia è di nuovo uno schifo”, racconta una ex dipendente che spiega come gli spazi dei trattenuti siano divisi in settori da 24 persone l’uno in una struttura “che è quello che è, costruita per evitare oggetti contundenti, quindi è tutto molto ridotto all’osso”. Le stanze, spiega, sono di circa 15 metri quadrati e ospitano 4 letti, poi ci sono i bagni, un’area comune e un cortile esterno. “Solo gli addetti alle pulizie hanno accesso al dormitorio. Ci sono corridoi lunghissimi da un lato e dall’altro ci sono i dormitori con i servizi igienici. Quando è l’ora della somministrazione delle terapie l’infermiere si avvicina alla porta con il carrellino, la guardia apre la porta e chiama: ‘738 la terapia, 434 …’ Li chiamano per numero con la scusa che i nomi sono impronunciabili. La guardia controlla a vista”, spiega la prima collega. “Si incazzavano con me perché li chiamavo per nome”, si inserisce una terza ex addetta secondo la quale il colloquio di assunzione era stato prevalentemente incentrato sui divieti, il principale dei quali era “vietato parlare”. E loro, i trattenuti, chi sono? Su questo punto il racconto è pressoché unanime. “Sono persone che stavano sul territorio italiano da parecchio e avevano famiglia e amici. Ma c’erano anche altri non integrati che stavano in strada da anni, persone con dipendenza da farmaci e droghe, tanti disperati con tanti disturbi e palesi deficit cognitivi. Parecchi venivano dal carcere di Bollate, avevano scontato la loro pena, fatto dei corsi di formazione, dei laboratori. Che senso ha buttarli nel Cpr? Loro sapevano che sarebbero stati scarcerati e si sono trovati rinchiusi in via Corelli, dove stavano tutto il giorno senza fare niente”, dice la prima. Unanime anche il racconto sugli stipendi. “Finché sei dentro ti pagano regolarmente, dove regolarmente significa 30 giorni dopo la fine del mese lavorato per i dipendenti e tre mesi per le partite Iva. Quasi tutti quelli che se ne sono andati non hanno ricevuto né l’ultimo mese né il tfr. Si lavorava tanto e quindi si guadagnava tanto, ma la paga oraria era intorno ai 7 euro”, dice una, mentre l’altra sintetizza: “Non erano condizioni di lavoro in cui si poteva dare un servizio consono”. D’altro canto il gestore, prima sotto il cappello di Engel e poi sotto quello di Martinina, aveva accettato di prendere dallo Stato solo 40 euro per detenuto, 5 euro in meno della base d’asta, per un totale di circa 1,2 milioni di euro l’anno. Da qualche parte i conti andavano fatti tornare, dev’essere stato il ragionamento. Poco conta se nel mezzo ci sono state segnalazioni di ogni genere che in questi anni sono andate per lo più inascoltate anche da parte dell’autorità sanitaria, mentre solo lunedì 4 dicembre il consiglio Comunale di Milano si è espresso per la chiusura del centro. Il giorno di Sant’Ambrogio, fuori dal Teatro Dal Verme, è poi andata in scena la distribuzione dei Corellini d’oro, parodia degli Ambrogini, la benemerenza che la città conferisce ogni anno a cittadini ritenuti meritevoli il giorno del suo Santo patrono. Migranti. Un pastrocchio giuridico, perché il patto sui Cpr in Albania finirà al vaglio dei tribunali di Vitalba Azzollini* Il Domani, 9 dicembre 2023 Le valutazioni sul patto per i migranti sono destinate a spostarsi nei tribunali. In Albania andranno solo quelli imbarcati “su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale” dell’Italia e di altri paesi Ue. Ma le navi militari di uno stato sono “parte del suo territorio”. Ai migranti salvati da tali navi andrebbe, quindi, applicato il diritto Ue, che però non può applicarsi in uno stato terzo. Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge per la ratifica dell’accordo con l’Albania sui migranti. In un primo momento, sembrava che non vi sarebbe stato il passaggio in parlamento, poi la criticità è stata superata. Ma di criticità ne restano molte altre. L’accordo - I migranti - salvo donne incinte, minori e persone fragili - verranno portati in un hotspot a Shengjin, dove saranno identificati e potranno chiedere asilo. A quelli provenienti da paesi sicuri si applicherà la procedura accelerata di frontiera nel centro di Gjader. I giudici competenti saranno quelli del foro di Roma. Collegamenti in videoconferenza consentiranno ai migranti di comunicare con i loro avvocati nonché di essere ascoltati dai magistrati. L’entità dell’esborso per l’Italia non è ancora chiara, ma si stima che sarà di circa duecento milioni di euro, cui andranno aggiunte altre spese, ad esempio per “i restanti oneri del protocollo”, per il trasporto in Italia di chi non potrà restare in Albania e altro. Inoltre, i migranti destinati ai due centri potrebbero essere solo 700 al mese circa, e non i 3.000 annunciati da Giorgia Meloni. Dunque, l’accordo comporterà costi molto maggiori rispetto a quelli relativi ai centri per il rimpatrio siti in Italia (Cpr). Costi a carico dei cittadini italiani, e servirebbe che sul punto il governo fosse trasparente con i cittadini stessi. Salvataggi in acque internazionali - In Albania saranno portate esclusivamente “persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso”. Questa puntualizzazione ha una finalità precisa. Se i migranti fossero salvati nelle acque territoriali di uno stato dell’Ue, sarebbe applicabile il diritto europeo in materia di asilo: entrando nel territorio di uno stato membro, essi farebbero ingresso in Ue e vigerebbe il diritto dell’Ue. Ma il diritto europeo non potrebbe applicarsi in uno stato terzo, quindi l’Italia non potrebbe portarli in Albania. Ecco il motivo per cui nel protocollo si considerano solo i migranti salvati in acque internazionali. Ciò ha fatto sì che l’Ue non abbia dato un parere contrario all’accordo, come si evince dalle dichiarazioni - per quanto contorte - rese il 15 novembre scorso dalla commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson. La commissaria ha affermato che “l’accordo tra Italia e Albania “non viola il diritto dell’Ue” perché “è al di fuori del diritto Ue”, anche se “dal punto di vista legale” la legge italiana “deriva e dipende dal diritto Ue” e “si conforma al diritto Ue”. Ma la costruzione giuridica su cui si basa la non applicabilità del diritto dell’Ue ai migranti in discorso presenta una falla che potrebbe mettere a rischio l’accordo. I problemi giuridici - Nella sentenza Hirsi Jamaa del 2012, la Corte europea dei diritti dell’uomo affermò che una nave militare battente bandiera italiana in acque internazionali è soggetta all’esclusiva giurisdizione dello Stato italiano, dunque è come se fosse territorio nazionale. Lo stesso concetto è stato affermato in un parere del servizio giuridico del Parlamento europeo nel novembre 2018: le navi militari che battono bandiera di uno stato membro possono essere considerate “parte del suo territorio ai sensi e per gli scopi della direttiva 2013/32/UE”, relativa proprio alla protezione internazionale. Dunque, quando i migranti salgono su una nave militare italiana è come se fossero in territorio italiano, quindi in territorio dell’Ue. Pertanto, essi hanno diritto a presentare domanda di asilo ai sensi del diritto dell’Ue, che però non si può applicare in Albania. Le valutazioni sarebbero state diverse se l’accordo avesse riguardato i migranti salvati dalle navi delle ONG, che non costituiscono territorio del paese di bandiera. C’è poi un problema ulteriore. Le zone di trattenimento dei migranti in Albania “sono equiparate alle zone di frontiera o di transito”, per poter applicare in esse la relativa procedura accelerata per chi proviene da paesi “sicuri”. Ma, nelle scorse settimane, la finzione giuridica di reputare come zone di frontiera aree diverse da quelle di ingresso è stata giudicata illegittima da alcuni tribunali italiani, poiché in contrasto con la normativa europea. La questione ora è all’esame della Cassazione. Insomma, le valutazioni sul protocollo con l’Albania sono destinate a spostarsi nei tribunali. Tra costi ingenti e problemi giuridici, ci si chiede a chi giovi l’accordo. Di certo, non all’Italia. *Giurista Migranti. Il Patto europeo a un passo dal fallimento di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2023 Fonti Ue: “Negoziati saltati dopo un quarto d’ora, nessuno ha voluto mediare”. A Bruxelles i tempi sono sempre più stretti. Anzi, resta solo l’appuntamento del 18 dicembre per trovare l’accordo sul Patto migrazione e asilo al centro del negoziato tra Consiglio, Commissione e Parlamento Ue. La riunione del 7 dicembre poteva essere la volta buona o almeno quella decisiva. “Non vedo grandi problemi al trilogo, i colegislatori non sono sulla stessa linea ma l’atmosfera è serena, sono fiduciosa che raggiungeremo un accordo”, aveva detto la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson al Consiglio Interni del 5 dicembre. Ma a quanto riferiscono al Fatto alcuni funzionari Ue, “le cose sono andate molto, molto male”. Invece di sciogliersi, alcuni tra i nodi decisivi si sono addirittura complicati e tra Parlamento e Consiglio i toni si sono inaspriti. L’obiettivo dell’approvazione entro fine legislatura sembra tutt’altro che “a portata di mano”, come la Commissione vorrebbe lasciar intendere. Al centro del trilogo del 7 dicembre cinque file del Patto. Si va dalla banca dati Eurodac delle impronte digitali dei richiedenti asilo, al delicato dossier sulla gestioni delle crisi migratorie. Il Patto è stato presentato dalla Commissione europea più di tre anni fa e fin da subito è stata chiara la difficoltà di mettere d’accordo i tanti attori in gioco, a partire dai governi degli Stati membri. Per questo l’anno scorso è stata definita una tabella di marcia che permettesse ai negoziatori di raggiungere l’accordo sui regolamenti mancanti in tempo utile. Com’è andata? “Si è conclusa una maratona di 15 ore di triloghi sul Patto Migrazione-Ue. Sono stati fatti importanti progressi. Con il lavoro continuo e la determinazione possiamo risolvere le restanti questioni fondamentali di solidarietà e responsabilità”, ha twittato ancora la Johansson sui lavori appena conclusi. Ma chi la maratona l’ha fatta parla di un clima ben diverso, dove a naufragare sono stati anche i tavoli sui dossier apparentemente più semplici. Quello sul Regolamento Eurodac, modificato con l’introduzione del riconoscimento facciale per i maggiorenni e la rilevazione delle impronte digitali estesa ai minori di 6 anni, tra i pochissimi punti concordati, “è saltato dopo appena un quarto d’ora”. Al netto delle dichiarazioni di facciata, essere ottimisti era difficile. Sull’Eurodac, Consiglio e Parlamento divergono su utilizzo e accesso alle banche dati. Sul Regolamento screening discutono sull’uso facoltativo da parte degli Stati e sul monitoraggio dei diritti fondamentali. Per il Regolamento sulle procedure di asilo, le fonti Ue sintetizzano così: “Non c’è accordo su nulla”. In particolare, le divergenze vanno dalle procedure accelerate per la valutazione delle richieste di protezione, al concetto di Paese terzo sicuro, che Stati come l’Italia vorrebbero adottare per evitare di ammettere le domande d’asilo di chi vi è transitato. Questioni di governance e solidità finanziaria restano dibattute in merito al Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione. Infine il Regolamento sulla crisi, con dispute sull’ambito di applicazione, sul processo decisionale, sul meccanismo di solidarietà e sulle possibili deroghe alla normativa comunitaria. A quanto riferiscono fonti dell’Eurocamera, “a mancare è stata proprio la volontà di mediare: nessuna delle tre istituzioni ha lavorato per questo, per trovare possibili convergenze”. E se il Parlamento prova a mostrarsi fiducioso sulla possibilità di approdare a un risultato nel trilogo del 18 dicembre, gli addetti ai lavori confessano di essere “pessimisti”. Lo stesso trattato tra Roma e Tirana, un approccio inedito e pieno di incognite all’esternalizzazione del diritto d’asilo, risentirà dell’esito dei negoziati in corso. Ma il destino del Patto ha molto a che fare con l’appuntamento delle elezioni Ue e le destre europee, a questo punto, potrebbero volersi giocare il fallimento in funzione elettorale. E perché no, puntare a negoziati più favorevoli alle proposte del Consiglio. Una su tutte, l’estensione delle procedure di frontiera che comprendono il trattenimento, magari grazie a un nuovo Parlamento di diverso colore. Nondimeno, c’è chi considera l’approvazione del Patto targato Commissione e Consiglio come “uno storico inchino ai populisti di destra”. È il parere dell’eurodeputata tedesca Cornelia Ernst (Die Linke): “Il Consiglio rifiuta di esentare le famiglie dalle procedure di frontiera e vuole rinchiudere i bambini alle frontiere esterne. Insiste sul concetto di “strumentalizzazione” da inserire nel regolamento sulla crisi. Questo concetto è un cavallo di Troia di cui gli Stati membri abuseranno per fare dell’eccezione la regola. Così facendo, comprometteranno completamente il diritto d’asilo. Poiché non è stato raggiunto un accordo definitivo, la resa dei conti avverrà il 18 dicembre”. Migranti. Così il governo libico favorisce le partenze dalla costa di Zuwara di Nancy Porsia Il Domani, 9 dicembre 2023 Ecco perché riprendono le partenze dalla costa libica, dopo lo sciopero degli “uomini mascherati” che si occupano di contrastare il contrabbando e il traffico di esseri umani. Così contrabbandieri e trafficanti sono tornati a lavorare senza neanche nascondersi. Un peschereccio con 573 persone a bordo è arrivato a Lampedusa lo scorso lunedì 27 novembre. Era partito da Zuwara, città nell’estremo ovest della Libia, al confine con la Tunisia. La maggior parte delle persone a bordo erano uomini, poi donne con i figli e minori non accompagnati. Si tratta del terzo barcone con oltre cinquecento persone a bordo arrivato da Zuwara da inizio mese. Dopo poche ore, ne è arrivato un altro, sempre dalla stessa città. Questa volta sono sbarcate 259 persone. Fino a metà ottobre dalle spiagge di Zuwara in media partiva un barchino ogni due giorni con non oltre cinquanta persone a bordo. Il 20 ottobre scorso ne è invece partito uno con 245 migranti a bordo. Da lì in poi sono arrivati un barcone con 347 persone, un peschereccio con 426, un altro ancora su cui viaggiavano 531 migranti e, il 20 novembre, un altro peschereccio con 576 persone. A questi vanno sommati i gommoni con a bordo dalle 50 alle 130 persone che tutti i giorni vengono messi in mare dalle spiagge della città libica. In sintesi, in poco più di un mese, sono arrivate in Italia da questo pezzo di Libia oltre cinquemila persone. Ma i numeri poco dicono di quello che sta succedendo nella città che dista un braccio di mare dalle nostre coste. Gli uomini mascherati - Banalmente gli uomini che si occupano di attività di contrasto al contrabbando e in particolare alla lotta contro la rete dei trafficanti di esseri umani, da metà ottobre hanno incrociato le braccia. Lo scorso 12 ottobre un attacco di droni ha prima colpito un’imbarcazione nel porto di Zuwara e, subito dopo, una seconda nave attraccata nei presso del club sportivo acquatico Nadi Rimal. Mentre il governo di unità nazionale guidato dal primo ministro Abdul Hamid Dbeibah rivendicava l’operazione aerea contro imbarcazioni usate per il contrabbando, gli uomini dell’unità anticrimine accusavano Tripoli di aver colpito il porticciolo antistante allo sporting club dove ci sono anche i loro asset per il pattugliamento. L’unità investigativa anticrimine di Zuwara è meglio nota con il nome di “uomini mascherati” per via della balaclava che indossano. Una forma di protezione della propria identità e quindi della propria incolumità in un paese come la Libia dove chi osa ostacolare i grandi business e traffici diventa automaticamente nemico da abbattere. Sin dalla loro nascita, nel 2012, gli uomini mascherati sono rimasti a presidiare le strade, i punti di ingresso della città e le sue spiagge per tenere a freno quella rete di contrabbandieri che si è strutturata nei decenni a partire dai tempi dell’embargo degli Stati Uniti nei confronti della Libia di Gheddafi. All’epoca si contrabbandavano zucchero e banane via Tunisia. Alla fine degli anni Novanta sono arrivati i primi eritrei in cerca di un passaggio via mare verso l’Europa e gradualmente, a Zuwara, si sono attrezzati per organizzare le traversate. Nessuno in città aveva nulla da recriminare: da una parte c’era anche un senso di solidarietà verso quei disgraziati alla ricerca di una tavola di legno per attraversare il Mediterraneo, dall’altra il business rappresentava una forma di resistenza identitaria contro il regime panarabista di Gheddafi. Zuwara è la principale città Amazigh, o Berbera, in Libia. Per anni repressa, la sua gente è stata tra coloro che, per primi, sono scesi in strada per protestare contro il regime nel 2011. I berberi al fianco degli arabi, per la prima volta dopo quarant’anni. Tuttavia il connubio è durato solo pochi mesi, e già nel 2012 gli Amazigh si contendevano con le città arabe vicine la leadership sul pezzo di litoranea che passa davanti all’impianto Mellitah Oil and gas dell’Eni. L’attacco con i droni - Dopo le accuse degli uomini mascherati contro il governo di unità nazionale, Tripoli è tornata sui suoi passi dicendo che per certo i suoi droni avevano distrutto l’imbarcazione presente nel porto perché sospettata di essere utilizzata nel traffico di diesel, prendendo invece le distanze dall’attacco sulla barca attraccata all’interno dello sporting club. Una versione che non ha convinto gli uomini dell’unità investigativa, che così hanno sospeso le attività di contrasto al traffico di esseri umani. Nell’attesa di capire se non la strategia quantomeno la tattica di Tripoli, gli uomini mascherati hanno mantenuto le loro posizioni a Ras Jadeer, il valico di frontiera tra Libia e Tunisia. A metà novembre il ministro degli Interni Emad Trabelsi ha inviato a sud di Zuwara una coalizione di gruppi armati con il compito di supervisionare le operazioni di controllo alla frontiera di Ras Jadeer. Gli uomini mascherati hanno incassato il messaggio e sono rimasti lì. A una trentina di chilometri da Ras Jadeer, quei contrabbandieri che negli ultimi anni si erano visti costretti a ridimensionare il proprio giro di affari per via degli uomini mascherati, oggi possono lavorare praticamente senza nascondersi. Così da Zuwara le partenze verso l’Italia sono di nuovo aumentate. Medio Oriente. L’Onu: “Al punto di non ritorno”. No Usa alla tregua umanitaria per Gaza di Anna Maria Brogi Avvenire, 9 dicembre 2023 Washington mette il veto in Consiglio di sicurezza a una richiesta di cessate il fuoco immediato: “Hamas continua a rappresentare una minaccia per Israele e mantiene il controllo della Striscia”. “L’inazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e i veti degli Stati membri, in particolare gli Stati Uniti, li rendono complici del massacro” nella Striscia di Gaza. Non lascia spazio all’interpretazione la posizione dell’Ong Medici senza frontiere. Dalla ripresa dei combattimenti, il 1°dicembre dopo sette giorni di tregua, nel solo ospedale al-Aqsa hanno visto arrivare 1.149 pazienti, dei quali 350 sono deceduti quasi subito. E altri ne vedranno, dal momento che il colpo di mano del segretario generale António Guterres non è servito a sbloccare la posizione degli Usa. Venerdì sera il Consiglio di sicurezza ha respinto la bozza di risoluzione che chiedeva una tregua umanitaria. Con il veto degli Usa, l’astensione del Regno Unito e gli altri 13 voti a favore. “Un veto sarebbe un fallimento del Consiglio di Sicurezza” dichiarava nel pomeriggio l’ambasciatore francese all’Onu, Nicolas de Riviere. “Hamas continua a rappresentare una minaccia per Israele e mantiene il controllo della Striscia” ha detto il vice ambasciatore americano all’Onu, Robert Wood, e gli Usa preferiscono lavorare perché si creino le condizioni per “una pace duratura in cui sia israeliani sia palestinesi possano vivere in sicurezza”. Durissimo l’intervento di Guterres, che con un gesto senza precedenti aveva convocato il Consiglio invocando l’articolo 99 della Carta dell’Onu in presenza di “una minaccia al mantenimento della pace e alla sicurezza internazionale”. “La gente di Gaza vede l’abisso - ha scandito -. Non esiste una protezione efficace dei civili, nessun posto a Gaza è sicuro”. Rivolgendosi ai 15 membri del Consiglio, ha detto che la situazione è vicina al punto di non ritorno: “Le condizioni per l’effettiva consegna degli aiuti umanitari non esistono più. Gli intensi bombardamenti, le restrizioni israeliane ai movimenti, la carenza di carburante e le comunicazioni interrotte rendono impossibile per le agenzie delle Nazioni Unite e i loro partner raggiungere le persone. Anche il sistema sanitario sta crollando”. Evocando una “spirale da incubo” Guterres ha aggiunto che “stanno finendo le scorte di cibo” e che “ai palestinesi viene chiesto di muoversi come palline da flipper rimbalzando verso aree sempre più ristrette”. “Gli occhi della storia ci guardano - ha ammonito -. È tempo di agire. La brutalità di Hamas non giustifica la punizione collettiva”. In una giornata di intensi raid aerei, l’esercito ha detto di aver colpito 450 obiettivi in ventiquattr’ore. I soldati continuano a distruggere tunnel e altre infrastrutture di Hamas. L’altra notte sono state centrate anche capacità navali e di intelligence. Per due ore è stata bombardata la città di Khan Yunis, dove si troverebbe il leader di Hamas Yehya al-Sinwar. L’esercito ha distrutto postazioni nell’università al-Azhar di Gaza City: nel campus avrebbe trovato “un tunnel che correva fino a una scuola distante un chilometro”. C’erano “armi, ordigni esplosivi, parti di razzi e sistemi tecnologici”. “Vedo segnali che Hamas sta cominciando a cedere” ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant. Fallito invece un blitz per liberare alcuni ostaggi: la Brigata Ezzedin al-Qassam ha diffuso un video che mostra il cadavere di un rapito, un militare 24enne. Israele spiega che “due soldati sono rimasti gravemente feriti in un’operazione per salvare gli ostaggi”. L’esercito ha annunciato la morte di altri militari: il bilancio dell’offensiva sale a 93 caduti. Le vittime palestinesi, stando al ministero della Sanità di Hamas, sarebbero 17.487. “Ogni giorno perdiamo decine di feriti a causa della mancanza di cure”, denuncia il portavoce. Ucciso anche il poeta Refaat Alareer, docente di Letteratura inglese all’Università islamica. “Se dovessi morire... che questo porti speranza, sia un racconto”, aveva scritto. Medio Oriente. Cosa sappiamo sulla foto dei prigionieri senza vestiti a Gaza di Matteo Castellucci Corriere della Sera, 9 dicembre 2023 Per l’esercito israeliano si tratta di miliziani di Hamas, “catturati in zone che la popolazione avrebbe dovuto lasciare da settimane”. Secondo la CNN alcuni di loro sarebbero civili. Giovedì 7 dicembre, sui social e online, hanno iniziato a circolare alcune immagini che mostrano alcuni uomini catturati dalle truppe israeliane nel nord della Striscia di Gaza. In questi frame li si vede bendati, inginocchiati, con le mani bloccate dietro la schiena, spogliati dei vestiti e circondati dai soldati dell’Idf. Il video non è stato diffuso dai militari, ma l’Idf lo ha commentato. La prima versione a riguardo, avvalorata dai media dello Stato ebraico, è che si trattasse di miliziani di Hamas che si erano arresi agli israeliani. La Cnn, dopo aver parlato con parenti e colleghi di qualcuno di loro, sostiene però di poter escludere che fossero tutti miliziani: alcuni di loro sarebbero invece civili, non affiliati a a gruppi jihadisti. La foto - Il network americano è risalito alla posizione di alcune immagini: proverrebbero da Beit Lahia, circa 6 chilometri a nord di Gaza City. Durante una conferenza stampa, alla domanda di un giornalista israeliano, il portavoce dell’Idf, il viceammiraglio Daniel Hagari, ha parlato di “terroristi di Hamas arrestati durante le operazioni di terra”. La procedura dell’esercito, ha spiegato Hagari, prevede di “investigare chi ha legami con Hamas e chi no. Li arrestiamo tutti e poi li interroghiamo”. Il notiziario panarabo basato a Londra Al-Araby Al-Jadeed sostiene che tra i prigionieri sia finito un suo corrispondente (Diaa al-Kahlout, di cui il Committee to Protect Journalists ha già chiesto il rilascio) e denuncia che si tratti di un metodo, sistematico, con cui l’Idf intende “umiliare i civili” trattandoli come criminali. Lo Euro-Mediterranean Human Rights Monitor, ong con sede a Ginevra, condanna quelli che definisce “arresti arbitrari”. Le accuse - Secondo la versione inglese di Al Jazeera, si tratta di un centinaio di persone che si erano rifugiate nelle scuole “Khalifa bin Zayed” e “Nuova Aleppo”, “entrambe affiliate” all’agenzia Unrwa delle Nazioni Unite. C’è una seconda foto con uomini seduti in una via di Gaza City: la testa piegata, anche in questo caso addosso solo la biancheria intima; a poca distanza un cumulo di sandali e scarpe. Potrebbe trattarsi degli stessi della foto “di gruppo”, poi trasportati a bordo di camion militari. Sui social viene molto citata la Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra del 1949, che vieta “gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti” per accusare le forze armate dello Stato ebraico di aver violato il diritto internazionale. La replica del governo - “Stiamo parlando di individui trovati a Jabalia e Shejaiya, due roccaforti di Hamas”, ha detto il portavoce del governo israeliano, Eylon Levy. “Si tratta di uomini in età da servizio militare che sono stati scoperti in zone che i civili avrebbero dovuto lasciare già settimane fa”. Lo Stato ebraico ha ordinato alla popolazione civile di sfollare verso il Sud della Striscia alla vigilia dell’ingresso a Gaza. Gli islamisti, in quella fase, hanno ingiunto di non partecipare all’evacuazione. Le aree in cui sono stati presi i prigionieri, rimarcano i comandi, sono quelle in cui sono avvenuti “combattimenti corpo a corpo” con Hamas: secondo Levy, sarebbero miliziani “che si sono spacciati per civili”, nascondendosi in edifici residenziali. Secondo l’Idf, le informazioni raccolte durante gli interrogatori - a cui sarebbero seguite le prime liberazioni di chi ha dimostrato di non avere legami con i fondamentalisti - saranno utilizzate durante il proseguimento dell’offensiva. Il comitato internazionale della Croce rossa si è detto “preoccupato” di fronte alle immagini: tutti i prigionieri vanno trattati “con umanità e dignità, in accordo alle leggi internazionali”. Per la ong Al-Haq si tratta di “crimini di guerra”. Parole simili arrivano da un ufficiale di Hamas all’estero, Izzat El-Reshiq: l’organizzazione terrorista, però, usa i civili come scudo all’interno della sua strategia di guerriglia.