Lezioni dal carcere di Simonetta Lucchi huffingtonpost.it, 8 dicembre 2023 Di fronte alla lettera dei detenuti di Montorio in cui si dissociano dalla protesta contro Filippo Turetta e allo sconforto di Antonella Zarri, madre dei due fratelli Alberto e Alice Scagni, per il violento pestaggio subito dal figlio in prigione, la domanda è: i nuovi mostri, chi sono? Le finestre che si chiudevano, al loro passaggio. Chi può dimenticare? Liliana Segre, partita dal binario per Auschwitz il 30 gennaio 1944, sopravvissuta al campo di sterminio, oggi è costretta a girare con la scorta. A causa dell’odio del web, ossessivo, quotidiano, senza ritegno, ormai principale fonte di informazioni dei più, da cui si traggono opinioni e linguaggio. La stessa Liliana che, a proposito degli scomparsi Piero Terracina e Franco Schonheit, ricordava “...hanno scelto di raccontare come me, senza mai parlare di odio e vendetta”. L’uscita da San Vittore per partire verso “ignota destinazione”: “Quando uscimmo da quel carcere - che nel suo squallore era pur sempre a Milano - nessuno ci guardò. Solo i detenuti degli altri raggi, incarcerati per chissà quale motivo, furono capaci di pietà, facendoci coraggio, rassicurandoci che ce l’avremmo fatta, lanciandoci una arancia, del pane, una sciarpa. Uno di loro mi disse, in milanese: “Ehi tusa me ciami Bianchi, non dimenticarti mai di me”. Furono fratelli. La pietà è un sentimento che arricchisce chi la riceve, ma soprattutto chi la prova. Da quel momento in poi incontrammo solo mostri”. Mostri... i detenuti della sesta sezione-infermeria del carcere di Montorio, dov’è rinchiuso Filippo Turetta, scrivono oggi una lettera: “Vogliamo precisare il disgusto nell’aver visto “giudizi in diretta” prima che Filippo o qualsiasi indagato fosse sentito, e senza rispetto dei genitori, colpiti entrambi da una violenza psicologica” “Non c’è stata alcuna protesta da parte nostra - aggiungono, riferendosi a notizie di stampa - per la consegna dei libri dovuti al detenuto Turetta. Tenendo conto che è indagato per un reato diverso dal nostro, la popolazione carceraria non avrebbe acconsentito ad agevolazioni di favore rispetto ad altri”. Ecco... Antonella Zarri, madre dei due fratelli Alberto e Alice Scagni, ha intanto affidato a un post social della senatrice Ilaria Cucchi le sue parole in merito al violento pestaggio subito dal figlio, il secondo, in carcere: “Picchiato per tre ore, un macello...I ragazzi nelle celle vorrebbero parlare, ma vengono rapidamente istruiti a non esporsi”. Due genitori che hanno chiesto in tutti i modi aiuto, per il figlio, per tutti loro, sempre inascoltati. Un dolore che si rinnova. I nuovi mostri, chi sono? Garanti dei detenuti: eletti i nuovi coordinatori Il Mattino, 8 dicembre 2023 Si è conclusa ieri la Conferenza dei Garanti territoriali dei diritti delle persone private della libertà, presieduta dal Portavoce nazionale Samuele Ciambriello Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il Portavoce ha riunito la Conferenza dei Garanti per istituire il Forum dei Garanti regionali e delle province autonome, il Forum dei Garanti provinciali e delle Città metropolitane e il Forum dei Garanti comunali. Ciascun Forum ha eletto il proprio coordinatore. Il Forum dei Garanti regionali e della provincia autonoma di Trento ha eletto come coordinatore Bruno Mellano Garante del Piemonte; Valentina Farina è andata al Provinciale mentre per i Comuni è stata eletta Valentina Calderone. Alla fine della Conferenza Nazionale il Portavoce Samuele Ciambriello ha sottolineato che “la Costituzione è il baluardo del nostro agire”. Perché è un guaio per l’Italia avere pm che considerano un “atto burocratico” applicare la legge di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 dicembre 2023 I magistrati sono burocrati, per legge, in quanto pezzi da novanta della burocrazia, ma molti non vogliono accettare questo limite perché rivendicano una soggettività politica, perché vogliono influenzarla. Chiedere ai magistrati di non esondare non significa trasformarli in passacarte. Eroi sì, ma anche burocrati. Fra i temi politici che hanno dominato la settimana che ci lasciamo alle spalle ce n’è uno che non ha catturato a sufficienza l’attenzione degli osservatori. Il tema è complicato, delicato, difficile, contorto ma è un tema al centro del quale vi è l’essenza del rapporto malato che esiste in Italia tra la parola democrazia e la parola giustizia. Ci avrete fatto caso anche voi e forse non avrete dato il giusto peso a questa affermazione. Ma all’indomani delle considerazioni mosse dal ministro della Difesa Guido Crosetto sul tema dell’opposizione giudiziaria che esiste nel nostro paese, numerosi magistrati hanno scelto di farsi sentire, di mostrare la propria indignazione e il proprio dissenso, non attaccando direttamente il governo, o almeno non solo in questo modo, ma sventolando una bandierina apparentemente neutrale. La frase è più o meno questa e capiterà spesso di leggerla nei prossimi giorni: la politica vuole trasformare il magistrato in un burocrate. La definizione perfetta l’ha data ripetutamente nella settimana uscente il nuovo capo della procura di Napoli, il dottore Nicola Gratteri, in una delle sue rare interviste concesse agli organi di stampa: “Le riforme del governo ci consegneranno un magistrato burocrate, pavido e passacarte che perderà di vista il fine primario: fare una giustizia giusta. C’è da pensare che sia questo l’obiettivo”. Nel corso dell’assemblea organizzata dall’Associazione nazionale dei magistrati a Roma, lo scorso 26 novembre, la stessa espressione è stata utilizzata in molti casi. Un pm ha detto: “Il magistrato che non partecipa alle manifestazioni che non rende visibile il suo pensiero politico, che non è attivo, che non è militante in tutti gli ambiti di interesse sociale, è un burocrate che non tutela i diritti e tradisce la Costituzione”. Un altro ha aggiunto: “La separazione delle carriere crea il forte rischio di una burocratizzazione della magistratura”. Un altro ancora ha affermato: “L’interpretazione delle norme non può essere mai meccanicistica”. Dietro l’affermazione apparentemente neutrale e universalmente accettata che il magistrato non possa essere un burocrate vi è però un mondo inquietante che improvvisamente si apre e che improvvisamente si mostra. Il magistrato che non vuole considerarsi un burocrate è un magistrato che sostiene il diritto e il dovere di interpretare le norme e di essere un soggetto “attivo” della resistenza costituzionale. In questa logica, essere dei burocrati, “dei passacarte”, significa qualcosa di più sottile rispetto a quello che i magistrati vogliono lasciare intendere (“non essere assoggettati al potente di turno”). Significa, molto semplicemente, che la magistratura non vuole limitarsi ad amministrare la giustizia ma sceglie di identificarsi in toto con il potere giudiziario. La legge siamo noi. E spesso in modo letterario. Non è raro che siano magistrati a scrivere le leggi all’interno di un ministero. Non è raro che siano magistrati a riscrivere le leggi alle sezioni unite se non sono soddisfatti dei risultati. Non è raro che siano i magistrati a chiedere alla politica, quando non siano loro a scrivere le leggi, di avere norme non definite, con reati non chiari, per avere a disposizione la più ampia discrezionalità possibile per trasformare un teorema in un’indagine senza aver bisogno di passare dalla complicata e noiosa sessione della ricerca di una prova. I magistrati che combattono l’idea che un pm o un giudice possa essere un burocrate non lo fanno perché si considerano garanti di un’interpretazione della legge coerente e conforme sia alla Costituzione sia al diritto europeo e internazionale. Ma lo fanno perché pensano che applicare semplicemente la legge sia di per sé un atto burocratico. I magistrati sono burocrati, per legge, in quanto pezzi da novanta della burocrazia, ma molti magistrati non vogliono accettare questo limite perché rivendicano una soggettività politica, perché vogliono influenzare la politica attraverso l’attivismo politico all’interno della propria corporazione e perché in definitiva vogliono essere il più possibile irresponsabili nell’esercizio del loro lavoro e delle loro funzioni. I giudici italiani, spesso, interpretano il loro ruolo come fattore palingenetico, per così dire, e alla fine non sono né si sentono, “sottoposti alla legge”, non pensano di dovere essere assoggettati a criteri minimi di buon andamento degli uffici pubblici, perché, molto semplicemente, la legge sono loro. In alcuni casi, non voler essere un magistrato burocrate significa rivendicare il diritto a debordare, a esondare, a liberarsi dalle catene imposte dalle norme, per poter dare libero sfogo a tutte le prerogative assegnate a un magistrato dalla Costituzione non materiale del paese, che ha contribuito a trasformare la figura del magistrato in un qualcosa di simile a un custode della morale, del buon senso, della buona politica, delle buone riforme e della giustizia sociale. In questa logica, un magistrato che esonda, che esterna, che lotta, che fa politica attraverso la sua azione, oltre che attraverso la sua corrente, è un magistrato che fa “davvero” il suo lavoro. Mentre un magistrato che si limita davvero a fare il suo lavoro, preoccupandosi di cosa significhi essere terzi, di cosa significhi essere percepiti come indipendenti, di cosa significhi dover far tutto per non essere considerati attori della politica, è un magistrato che, in quest’ottica perversa, accetta di essere un semplice burocrate, rassegnandosi a svolgere solo il suo lavoro. Ma se un magistrato chiamato a far rispettare la legge chiede di non trasformare in un’anomalia il suo essere debordante, quel magistrato sceglie semplicemente di trasformare la magistratura non in uno dei fondamentali “check and balance” dello stato ma in un contropotere della politica. E un paese che accetta di considerare come ordinaria e non anomala la presenza di magistrati che chiedono a gran voce di non essere solo dei burocrati è un paese che ha fatto due scelte drammatiche: trasformare lo stato di diritto in un valore negoziabile e considerare la terzietà come un principio sacrificabile sull’altare del protagonismo della magistratura. Eroi sì, ma anche burocrati. Prescrizione, Nordio riflette sulla norma transitoria e Costa sbotta: “Una follia” di Simona Musco Il Dubbio, 8 dicembre 2023 Per il deputato di Azione la richiesta dei presidenti di Corte d’Appello è un’intrusione: “Non hanno bisogno di tempo”. La norma transitoria non ci sarà, anzi sì, anzi, ci stiamo pensando. È caos attorno alla nuova prescrizione, dopo il blitz dei 26 presidenti di Corte d’Appello, che hanno scritto al ministro della Giustizia Carlo Nordio chiedendo di poter introdurre in maniera soft la nuova normativa, in base alla quale “il corso della prescrizione rimane sospeso, in seguito alla sentenza di condanna di primo grado, per un tempo non superiore a due anni e, in seguito alla sentenza di appello che conferma la condanna di primo grado, per un tempo non superiore a un anno”. La riforma dovrebbe essere votata il 12 alla Camera, ma i tempi rischiano di allungarsi. Non solo per via della legge Finanziaria, che incombe sui lavori dei deputati e che potrebbe comunque rallentare l’iter, ma anche per via del pressing dei magistrati, secondo cui è necessario diluire la riforma per rendere possibili tutti i calcoli necessari. Che, come sostiene Repubblica, sarebbero “assai complessi anche perché tutto avviene ancora “a mano”“. Da via Arenula, per il momento, non trapela alcuna certezza: “Se ne sta discutendo - fanno sapere fonti qualificate -, ma non è stata presa alcuna decisione”. E qualora la decisione andasse nel senso auspicato dalle toghe, ha twittato Enrico Costa, deputato di Azione e relatore della proposta, si tratterebbe di “un boicottaggio bello e buono”, al punto da indurlo a lasciare l’incarico. Anche perché, spiega al Dubbio il deputato, non è necessario alcun calcolo complesso, né alcun lavoro aggiuntivo per far partire la riforma. “Normalmente si chiede di dilatare i tempi di entrata in vigore di una norma quando questa richieda una forte riorganizzazione - sottolinea -. Ora stiamo passando dalla improcedibilità, che è una mannaia inderogabile, a un sistema che ti dà 24 mesi di tempo per celebrare l’appello. Ed è lo stesso tempo che viene dato ordinariamente prima dell’improcedibilità. Insomma, ci sono due anni per celebrare i processi e addirittura si hanno tempi di prescrizione più lunghi rispetto alla situazione attuale. Non vedo l’esigenza di riorganizzarsi”. Quale sarebbe, dunque, la ratio di questa iniziativa? Per Costa tutto ha il sapore dell’ingerenza e non si tratterebbe nemmeno del primo caso. “A me cominciano un po’ a stufare questi tentativi di condizionamento del legislatore - aggiunge ancora Costa -. Se io domani scrivessi una lettera a un presidente di Corte d’appello prima di una sentenza, dicendo che secondo me l’imputato andrebbe assolto, cosa mi direbbero? Chiaramente verrei accusato di interferire con il processo e di minare l’autonomia, l’indipendenza della magistratura. Ma l’indipendenza e l’autonomia del Parlamento non esistono rispetto all’ordine giudiziario?”. Il tentennamento del ministro Nordio, d’altronde, non sorprende Costa, data la presenza massiccia di magistrati a via Arenula e l’utilizzo costante delle toghe nelle Commissioni deputate a scrivere le riforme che riguardano la magistratura stessa. Una situazione che rende difficile ipotizzare una reale tensione tra governo e ordine giudiziario. “Non esiste nessuna guerra - continua Costa -. Nordio poteva rendere il ministero molto più leggero, invece non solo ha riempito il legislativo di toghe, ma ha fatto un disegno di legge sui fuori ruolo facendolo scrivere agli stessi fuori ruolo. Quando la magistratura si oppone a una norma, come il fascicolo del magistrato così come lo avevo scritto io, si mobilita. Avete visto le barricate sulla riforma del Csm di Nordio? No. Mentre hanno scioperato contro la riforma Cartabia, perché erano terrorizzati che la delega venisse esercitata in modo rigoroso. Qui il problema non si è posto: se la sono scritta da soli, in una commissione con 18 magistrati e tre avvocati. Siamo tornati alle valutazioni a campione”. Ma la verità è che la prescrizione, secondo Costa, non era una priorità del governo. Ed è per questo che quella sul piatto è frutto di un compromesso. “Però se mettono la norma transitoria, con la riserva mentale che prima di farla entrare in vigore si possa anestetizzare o rimodulare, non ci sto. Non voglio farle fare la fine della separazione delle carriere”, aggiunge il deputato. Convinto, dunque, la riforma delle riforme non si farà mai. “Finiranno per chiedere l’audizione di chi passa per strada pur di allungare il brodo”, conclude. Secondo Repubblica, la possibilità di concedere una norma transitoria ai magistrati avrebbe contrapposto il viceministro forzista Francesco Paolo Sisto al Guardasigilli. Con un’intera mobilitazione di Forza Italia alla Camera, negata, però, da Pietro Pittalis, vicepresidente della Commissione Giustizia. “Da parte nostra rimane ferma la volontà di andare avanti - spiega al Dubbio -, ma non ho sentore di alcune “guerra” tra il mio partito e le altre forze di governo. Non so chi stia montando questa cosa, ma se ci fosse stata lo avrei detto”. Insomma, al ministero pare che sul punto ci sia perfetta armonia. Mentre è secco anche il no del capogruppo Tommaso Calderone: “Forza Italia è assolutamente contraria alla norma transitoria - spiega - e per quanto mi riguarda è già tanto che non sia stato varato il ritorno secco all’ex Cirielli, alla prescrizione sostanziale. Sia la riforma Bonafede sia quella Cartabia erano inaccettabili. Come diceva Carnelutti, subire un processo penale è una pena, subirlo per tutta la vita è una doppia pena. Bisogna accorciarli i processi, non allungare la prescrizione. Anche perché con l’innalzamento delle pene i termini prescrizionali vanno alle stelle. Quindi la norma transitoria non ha alcun senso”. Zanettin (Forza Italia): “Le informazioni penalmente irrilevanti non possono diventare pubbliche” di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 dicembre 2023 Intervista intorno al caso di Mediterranea. Il senatore della maggioranza: “C’è un problema di privacy: in smartphone o computer si trovano informazioni personali che riguardano la sfera complessiva della persona. Lo dice anche la Cassazione”. Pierantonio Zanettin è senatore di Forza Italia. Ha depositato un disegno di legge per limitare la circolazione dei materiali contenuti in smartphone e pc sequestrati agli indagati, considerandoli al pari di intercettazioni. Le pare possibile che siano pubblicate chat di colloqui privati tra indagati o con altre persone? Non è la prima volta. È la storia giudiziaria di questo paese. In tante occasioni a seguito di indagini penali sono acquisite conversazioni, video e chat penalmente non rilevanti che però confluiscono nel fascicolo processuale e diventano di pubblico dominio. Tra i casi più recenti ricordo le chat in cui Luca Zaia esprimeva giudizi su Andrea Crisanti o i “video hard” del sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei. Quindi ritiene scorretto quanto sta accadendo sulle pagine di Panorama e La Verità nei confronti di Mediterranea... Non entro nel caso specifico, che non ho esaminato. Non faccio una battaglia per questo o quello. Quando tali dati sono acquisiti scatenano il voyeurismo di giornalisti e opinione pubblica. Di volta in volta la tifoseria di destra o sinistra si esalta in base a chi è coinvolto. A me interessa andare oltre, perciò ho depositato in Senato un disegno di legge per limitare il fenomeno rispetto ai sequestri di smartphone e dispositivi. Non sono regolati per bene. La legge non protegge la privacy degli indagati? Non adeguatamente. C’è un vuoto normativo in parte colmato da alcune pronunce di Cassazione e Corte costituzionale. Perché quando vengono sequestrati smartphone o computer sono trattati come elementi di reato. Come un fucile che ha sparato, per esempio. Ma dentro ci sono foto, video e informazioni private che riguardano la sfera complessiva della persona. Perciò la Cassazione e la dottrina più raffinata dicono che il sequestro va trattato come le intercettazioni. La ratio del mio testo è che da questi dispositivi bisogna selezionare solo ciò che è penalmente rilevante e serve per l’inchiesta. Tutto il resto deve finire nell’archivio riservato della procura, come con le intercettazioni telefoniche a partire dalla riforma Orlando. Se venisse fuori che oltre alle chat sono stati pubblicati brogliacci di telefonate o colloqui con gli avvocati difensori sarebbe più grave? Il principio è lo stesso, ma bisogna vedere se questi brogliacci sono parte del fascicolo o, come successo in passato, filtrano dalle procure. In tali casi si fanno denunce per violazione di segreto ma, ahimé, tante volte ottengono ben pochi risultati. Chi è responsabile della protezione di queste conversazioni? Dipende se sono confluite nel fascicolo o meno. In quello relativo a Tidei erano finiti video senza alcuna attinenza, in sede di selezione il pm non aveva valutato bene. Nella vicenda di Zaia, invece, le chat che riguardavano Crisanti erano tra quelle non rilevanti e quindi c’è stata una violazione del dovere di vigilanza, tendenzialmente in capo al procuratore della Repubblica. Dipende da caso a caso, non si può fare di tutta l’erba un fascio. Rendere di pubblico dominio simili materiali a ridosso dell’udienza preliminare rischia di influenzare il giudice? Non direi, i giudici sono sufficientemente impermeabili a questi comportamenti o informazioni. Il problema è la privacy. Credo possa diventare pubblico solo ciò che è penalmente rilevante, il resto va cancellato. Poi è diverso per i reati di mafia e terrorismo, dove può esserci un margine più ampio sulle cose rilevanti. La questione è molto complessa, non va fatta una battaglia a favore di Zaia o Casarini. Sono strumenti estremamente intrusivi e serve grandissima tutela. Non si possono intaccare i diritti civili dei cittadini. “Punire gli innocenti è giusto”, così l’Italia difende le misure di prevenzione antimafia davanti alla Cedu di Errico Novi Il Dubbio, 8 dicembre 2023 L’Avvocatura dello Stato ha trasmesso alla Corte europea dei Diritti umani, lo scorso 30 novembre, le risposte ai quesiti posti dai giudici di Strasburgo nell’ambito del ricorso proposto dai Cavallotti, gli imprenditori che, pur assolti dalle accuse di mafia, hanno visto confiscati tutti i loro beni. Nelle argomentazioni italiane viene rivendicato un principio abominevole. In limine mortis. Il 30 novembre lo Stato italiano, attraverso la propria Avvocatura, ha risposto ai quesiti della Corte di Strasburgo relativi agli abusi antimafia. Vogliamo essere precisi: la replica riguarda una causa, generata dal ricorso (numero 29614/16) dei fratelli Cavallotti alla Cedu. E ancora più precisamente: lo Stato italiano era stato chiamato dai giudici europei a spiegare, nell’ambito della causa, se la confisca ai danni di Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti fosse compatibile con la presunzione d’innocenza, considerato che quella spoliazione era stata inflitta nonostante i tre imprenditori palermitani fossero stati assolti con formula piena, nel processo penale, dall’accusa di 416 bis. In limine mortis, si è detto. In due sensi. Primo: il 30 novembre era l’ultimo giorno che lo Stato italiano aveva a disposizione per replicare agli interrogativi rivoltigli, in seguito al ricorso, dal giudice europeo, dopo che l’Avvocatura di Roma aveva chiesto di prorogare il termine iniziale del 13 novembre. Secondo: in limine mortis anche nel senso che la fragilità delle risposte esibite dallo Stato italiano lascia intravede un esito favorevole ai ricorrenti e, forse, la “morte”, l’inizio delle fine, per un sistema indegno. In virtù dell’eccezionalismo antimafia, quel sistema punisce, con spregio del diritto, le persone innocenti. Forse la possibile vittoria dei Cavallotti nella causa contro lo Stato, la possibile affermazione, da parte della Cedu, del principio per cui i tre fratelli di Belmonte Mezzagno, dichiarati pienamente innocenti nel processo penale, non avrebbero dovuto vedere i loro beni confiscati, travolgerà l’intero abominio delle confische far west. E forse la pronuncia europea interverrà prima ancora che il Parlamento italiano arrivi ad approvare la legge concepita con lo stesso fine - salvare gli innocenti - e messa in calendario a Montecitorio su iniziativa di Forza Italia. Ma quel che potrà accadere tra qualche mese, quando la Corte di Strasburgo emetterà la propria sentenza sul ricorso Cavallotti, resta ovviamente materia per aruspici. Qui interessa altro. E cioè il modo, le argomentazioni con cui l’Avvocatura dello Stato difende gli abusi dell’Antimafia. Argomentazioni che, come detto, sono fragili. Seppure legato alla necessità di motivare scelte compiute da altri (prima dal legislatore e quindi dai singoli magistrati), il filo logico proposto dall’Italia dinanzi ai giudici europei è al limite della provocazione intellettuale. Così lo Stato ha difeso gli abusi dell’antimafia Di fatto, l’Avvocatura dello Stato ha difeso il principio per cui una persona innocente andrebbe spogliata di tutto perché divenuta vittima dell’estorsione mafiosa. Una sorta di scenario da Superfantozzi: i Cavallotti hanno visto i loro beni confiscati (con la decisione resa definitiva dalla Cassazione il 12 novembre 2015, sentenza numero 4305) perché avevano pagato il pizzo a Bernardo Provenzano e al capomandamento di Belmonte Mezzagno. Prima sono stati spremuti da Cosa nostra e poi, in virtù di questo, depredati di ogni cosa dallo Stato. Incredibile. È incredibile che lo Stato italiano, pur con le argomentazioni sofisticate dei propri avvocati, difenda un principio così abnorme. Forse è un’autodenuncia che prepara il ravvedimento operoso in arrivo con la riforma del Parlamento. Fatto sta che la difesa dei fratelli Cavallotti avrà tempo fino al 18 gennaio prossimo per controdedurre le argomentazioni dell’Avvocatura pubblica. Poi toccherà alla Corte europea dei Diritti umani. Gli interrogativi rivolti da Strasburgo erano tre. Il primo è decisivo. In sintesi, la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha voluto chiedere all’Italia, prima di emettere la sentenza, se ritenga compatibile con la presunzione d’innocenza una confisca inflitta a persone già precedentemente assolte, per gli stessi fatti, in un processo penale. Ebbene, l’Avvocatura dello Stato ha replicato che sì, la presunzione d’innocenza non è affatto contraddetta, perché le misure di prevenzione, dunque pure le confische ai Cavallotti, non sono inflitte in virtù di un reato, cioè per la sussistenza dell’associazione mafiosa. Derivano piuttosto da quella che nella memoria dell’Avvocatura è qualificata come “appartenenza” o anche “contiguità funzionale”. Circostanza che non è reato, non poteva dunque essere oggetto di un processo, e quindi non se ne può essere “innocenti”. Un dribbling alla Garrincha, o un sofismo alla Protagora, se preferite: in termini più brutali, un artifizio dialettico. Con una sfumatura ai limiti del sadismo: perché quel concetto di “appartenenza”, poco più avanti nella memoria dello Stato italiano, si sostanzia in termini di assoggettamento alle prevaricazioni di Cosa nostra, cioè all’imposizione del pizzo mafioso. Nello sviluppo delle memorie, gli avvocati dello Stato ricordano i pizzini di Bernardo Provenzano, le rimembranze di Giovanni Brusca, le testimonianze di Angelo Siino al processo penale che ha visto assolti i Cavallotti: tutti passaggi in cui si invoca la “messa a posto”, cioè la spremitura, delle aziende poi confiscate agli imprenditori palermitani, all’epoca (seconda metà degli anni Novanta) veri leader non solo siciliani nel settore della metanizzazione. In alcun modo l’Avvocatura ha potuto sottoporre alla Corte dei Diritti dell’uomo elementi che attestassero un’appartenenza dei Cavallotti alla mafia, né in termini di “partecipazione” e neppure in quanto strumento con cui i boss realizzavano i loro affari. Semplicemente, emerge l’esazione del pizzo ai danni dei tre fratelli. Non a caso assolti, per gli stessi identici fatti richiamati dall’Avvocatura dello Stato, con formula piena nel processo penale il 4 febbraio 2016. E qui il (corto) circuito logico dell’Avvocatura prova a chiudersi: la “confisca preventiva”, si afferma, non è “punitiva” ma “preventiva e riparatoria”. Quindi: sono innocenti, e non potevamo punirli. Perché per lo Stato italiano, privare tre imprenditori dei loro beni, delle loro aziende, financo della casa in cui abitavano, è servito a evitare che la mafia potesse approfittarsi di loro, ma non è una punizione, no, per carità. Ecco il sofisma con cui ci siamo presentati alla Corte dei Diritti umani. Che dovrà decidere se, a furia di giocare con le parole, l’Italia non abbia giocato con la dignità. Petrelli (Ucpi): “Altro che misure di prevenzione, siamo all’arbitrio che nega il diritto” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 dicembre 2023 Il governo italiano ha fornito alla Cedu le risposte sulla disciplina delle misure di prevenzione antimafia, spiegazioni richieste dai giudici di Strasburgo in seguito al ricorso proposto dalla famiglia Cavallotti (come illustrato in altro servizio del giornale). Ne parliamo con Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane. In merito al rischio che la norma violi la presunzione d’innocenza, lo Stato italiano sostiene che sia legittimo punire qualcuno per uno “status” e non per una responsabilità penale - risalente ad anni prima rispetto a quando la confisca è intervenuta. È un diritto extra- penale in cui non esiste, tra l’altro, il concetto di prescrizione? Il hoverno italiano ha nuovamente affermato che al di là dell’assoluzione dal reato di partecipazione ad associazione mafiosa, residuerebbe una condotta riferibile alla cosiddetta appartenenza, qualificabile in termini di pericolosità idonea a legittimare la confisca del patrimonio nel caso di beni di dubbia provenienza. Si continua, in altri termini, a percorrere un terreno manifestamente estraneo ai requisiti di tipicità e determinatezza della fattispecie, laddove la cosiddetta appartenenza si sostanzia in una sorta di colpa d’autore, che dovrebbe essere ripudiata da un moderno ordinamento giuridico democratico. Risulta evidente che la prevedibilità di ciò che è capace di integrare la pericolosità sociale incide negativamente anche sul principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, in quanto risulta amplissimo il margine di discrezionalità lasciato all’autorità di prevenzione. Con questo sistema il cittadino non può mai stare tranquillo, neanche dopo la morte: nulla a che vedere con il diritto e con lo Stato di diritto. Lo Stato non si sforza più di tanto di spiegare come sia possibile confiscare beni ad un innocente. Che ne pensa? In verità viene semplicemente ribadito il fumoso concetto di appartenenza che si collocherebbe tra la colpevolezza e l’innocenza, quale presupposto per l’applicazione della misura di prevenzione con confisca dell’intero patrimonio. I chiarimenti che la Cedu aveva richiesto al governo italiano sul caso Cavallotti sintetizzavano quella sostanziale contrarietà che, da sempre, le Camere penali esprimono nei confronti del procedimento di prevenzione, che ha del tutto abbandonato la propria vocazione di contrasto delle fonti di pericolo, rappresentando ormai un sistema punitivo fondato sulla repressione di stati soggettivi di pericolosità ricostruiti su base inquisitoria e svincolata dalle garanzie. La reale natura penale della confisca, ove riconosciuta dalla Cedu, impedirebbe l’applicazione della misura della confisca in assenza dell’accertamento di un reato. Le questioni rimaste aperte nelle risposte del governo italiano, in linea generale, potrebbero essere superate dalla proposta di legge Pittalis che, in luogo della categoria degli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416 bis c. p. prevede quella degli indiziati del reato di cui all’art. 416 bis c. p., con l’ulteriore precisazione che i predetti indizi dovranno essere gravi, precisi e concordanti. Scomparirebbe, così, la maschera della cosiddetta appartenenza. Rispetto alla natura delle confische, lo Stato, nel caso dei Cavallotti, arriva incredibilmente a sostenere che una persona può essere annientata due volte: la prima quando paga il pizzo e la seconda quando i beni gli vengono confiscati perché paga il pizzo. Non le sembra una teoria giuridica ai limiti del sadismo? La prevenzione si è oramai trasformata in un autonomo e spietato sistema punitivo che si è andato affiancando a quello penale, divenendo uno strumento repressivo e punitivo privilegiato proprio perché svincolato delle garanzie tipiche del sistema penale. Il sistema di prevenzione non è infatti bilanciato da alcuna garanzia, come ad esempio un autonomo procedimento di formazione della prova, per cui il sistema è del tutto sbilanciato sugli accenti inquisitori e di polizia. Accenti che hanno travolto anche le misure patrimoniali non destinate alla confisca, con effetti altrettanto devastanti sul circuito del mercato legale: in tal modo, abbandonando la logica recuperatoria che dovrebbe ispirare tali misure, si certifica molto spesso la morte aziendale dell’imprenditoria sana, che si trova esposta, da un lato, alle intemperanze della criminalità e, dall’altro, alla incapacità dello Stato di offrire concrete vie d’uscita e programmi di bonifica dall’inquinamento mafioso. Proprio quello che è accaduto nella vicenda Cavallotti: lo Stato persevera nel voler condannare un individuo dichiarato innocente che doveva invece essere protetto dalla pervicacia della criminalità organizzata. C’è in questa legislatura un certo atteggiamento timoroso verso la magistratura antimafia, emerso quando è stato approvato un decreto per “rimediare” a una sentenza della Cassazione sulle intercettazioni, ma anche sull’ergastolo ostativo. Come giudica questa sudditanza? La debolezza della politica è divenuta nel nostro Paese una caratteristica che segna l’intera storia della politica giudiziaria degli ultimi trent’anni, sempre più connotata dall’egemonia delle Procure, antimafia e non. Basti ricordare l’atto fondante di tale squilibrio: nel 1994, in piena tangentopoli, i pm del pool di Mani pulite affondarono un decreto del governo presentandosi a favore di telecamere e minacciando di dimettersi da quel ruolo. La condizione di subalternità della politica alla magistratura è un evidente vulnus per l’intero assetto istituzionale, perché nessuno ha il coraggio o si assume la responsabilità di quelle vere e radicali riforme delle quali la giustizia di questo Paese ha invece un urgente bisogno: dalla restituzione del processo al suo modello accusatorio, alla riforma dell’ordinamento giurisdizionale, che passano entrambi dalla fondamentale riforma della separazione delle carriere. La sudditanza si coglie pure nella scelta di prevedere un taglio risibile dei magistrati fuori ruolo... Qui si tocca un passaggio esemplare di questo scompenso fra i poteri. La limitazione del numero dei magistrati fuori ruolo operata dalla riforma dell’ordinamento è evidentemente risibile in quanto non incide che di 20 unità la somma delle presenze all’interno dei ministeri, che sono dieci volte tanto. Non a caso si tratta di una norma scritta da una Commissione di magistrati che non avrebbe potuto seriamente incidere sulla sua stessa rilevanza politica, perché il ruolo dei magistrati all’interno dei ministeri è inevitabilmente di natura politica: anche la tecnica in una norma che tocca il processo penale assume in ogni caso un formidabile contenuto politico. Si rischia così di compromettere anche la riforma sulla separazione delle carriere? La vedo diversamente. Mi sembra che la presenza dei fuori ruolo nel ministero e il ritardo nell’attuazione della riforma costituzionale della separazione delle carriere siano entrambe conseguenza di quella stessa situazione di profonda crisi sistemica che favorisce le legislazioni compulsive, da slot machine, di nuovi crimini e nuove pene, che stravolgono i principi cardine del diritto penale liberale, e stenta invece a porre in essere quelle riforme radicali di ampio respiro che sole potrebbero restituire legittimazione al giudice e credibilità alla giurisdizione. La norma transitoria della Cartabia non fa scattare la pena alternativa in base al residuo ancora da scontare di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2023 Il parametro per l’applicazione ai procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore della riforma è la condanna. Il limite di quattro anni che consente l’applicazione delle pene sostitutive in base alla norma transitoria della riforma Cartabia, anche ai processi pendenti, non si riferisce alla pena residua da espiare, ma solo ed esclusivamente alla pena comminata. Quindi nel caso di procedimento pendente in Cassazione al momento dell’entrata in vigore e al cui esito derivi una condanna non superiore ai quattro anni è consentito al condannato di chiedere - entro 30 giorni dalla definitività della pronuncia - di domandare al giudice dell’esecuzione di sostituire la pena detentiva breve con una pena alternativa. Ma non si riterrà però rispettato il limite massimo dei quattro anni grazie alla sottrazione della pena già espiata. La corte di cassazione - con la sentenza n. 48868/2023 - ha perciò respinto non solo la domanda del ricorrente, che riteneva di rientrare a pieno titolo nel perimetro della norma transitoria in base alla pena residua ancora da espiare, ma anche lo specifico rilievo di incostituzionalità sollevato dallo stesso per la lamentata disparità di trattamento di chi soggiaccia a una pena “residua” non superiore ai quattro anni rispetto ai cosiddetti “liberi sospesi” cioè i condannati la cui carcerazione sia stata sospesa in attesa della decisione del giudice di sorveglianza. La Cassazione boccia in radice la questione di costituzionalità anche rilevando che pure nel caso dei liberi sospesi l’applicazione della pena alternativa è legata comunque alla circostanza che la condanna comminata non sia superiore ai 4 anni. Ugualmente la Corte di legittimità boccia l’invocata possibilità di un’applicazione della norma transitoria ispirata al principio del favor rei: cioè una lettura “favorevole” dell’articolo 95 del decreto attuativo della Riforma che consenta di tener conto, ai fini della sua applicazione, del caso in cui - al momento dell’entrata in vigore - il condannato debba ancora espiare una pena per un periodo non superiore a quattro anni. Ma sul punto la Cassazione è stata tetragona nell’interpretare la norma facendo esplicitamente rilevare che essa letteralmente fissa il parametro quantitativo della pena riferendosi a quella comminata. In effetti, il ricorrente doveva scontare una condanna alla detenzione di soli pochi mesi superiore ai quattro anni e al momento della domanda rientrava nel perimetro dei quattro anni in base alla pena residua ancora da scontare. Milano. “Prima” della Scala a San Vittore, detenuto tenta il suicidio: visione sospesa dopo due ore di Andrea Gianni Il Giorno, 8 dicembre 2023 “Scusate ma non me la sento di andare avanti. Il carcere è anche questo: un luogo di sofferenza, dove ci sono persone che stanno male”. Il direttore del carcere di San Vittore, Giacinto Siciliano, ha comunicato così, agli ospiti e ai circa 60 detenuti radunati per assistere alla Prima della Scala, la decisione di sospendere la proiezione al rientro dal secondo intervallo. Una decisione presa dopo il tentato suicidio di un uomo, un detenuto egiziano di 46 anni, entrato in carcere mercoledì pomeriggio con l’accusa di furto. Attorno alle 20 avrebbe cercato di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella al quinto raggio mentre a poca distanza, nello spazio dove è stato allestito lo schermo, il “Don Carlo” di Giuseppe Verdi veniva trasmesso in diretta dal Piermarini. Una tragedia seguita da momenti concitati, con la corsa degli agenti della polizia penitenziaria, degli operatori Areu presenti e dello stesso direttore del carcere per prestare i primi soccorsi all’uomo, poi trasportato in ospedale a bordo di un’ambulanza, in gravi condizioni. Le parole di Giacinto Siciliano, ieri insignito dell’Ambrogino d’Oro, sono state seguite da numerose strette di mano e messaggi di vicinanza. Poi i detenuti sono stati riaccompagnati nelle loro celle, mentre gli ospiti sono usciti dal carcere. In silenzio, dopo l’ombra calata su una giornata di festa e di incontro. Il dramma ha interrotto quel “ponte”, tra il carcere e il mondo esterno, che si era creato durante la Prima, da dieci anni trasmessa anche nella casa circondariale in piazza Filangieri. È saltata anche la tradizionale cena a base di risotto e panettone, piatti offerti dai detenuti agli ospiti e agli agenti al termine della Prima. “Episodi come questo, dai contorni ancora da chiarire - ha spiegato l’assessore alla Sicurezza del Comune di Milano, Marco Granelli - ci fanno capire, ancora una volta, che servono più risorse per le carceri, per migliorare le condizioni dei detenuti e di chi ci lavora a tutti i livelli. Accendono un faro su un mondo dove, purtroppo, questi problemi sono all’ordine del giorno”. I problemi irrisolti delle carceri, d’altra parte, sono stati citati più volte anche nei discorsi delle autorità, prima della tragedia che ha interrotto la rappresentazione dell’opera. A San Vittore si trovano più di mille detenuti, con una condizione cronica di sovraffollamento. “La bellezza di simili iniziative non cancella le criticità del sistema penitenziario, non nasconde i tanti problemi anche dell’istituto di San Vittore”, è il messaggio del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, letto prima dell’inizio della diretta organizzata nell’ambito del progetto “Scala diffusa”, per portare l’opera nei quartieri e in “luoghi di sofferenza” come il carcere di San Vittore e Opera. “Proprio simili occasioni possono contribuire a diffondere la consapevolezza delle complessità, dei bisogni e dei diversi volti del sistema penitenziario - sottolinea Nordio -. Desidero rinnovare la mia gratitudine per il personale dell’amministrazione penitenziaria a tutti i livelli, perché solo la loro straordinaria dedizione rende possibili progetti come questo”. Il ministro, che l’anno scorso era presente a San Vittore e quest’anno ha mandato un messaggio, ha espresso il suo impegno per “favorire il più possibile le occasioni di cultura, sport e soprattutto di lavoro in carcere, essenziali per restituire alla città persone non più disposte a delinquere”. Anche il direttore Giacinto Siciliano, nel suo discorso, ha parlato delle “problematiche storiche” di San Vittore, dove “entrano sempre più persone”. E ha invitato gli ospiti a “fare qualcosa per dare una mano”, anche attraverso i tanti progetti che hanno l’obiettivo di migliorare le condizioni dei detenuti e offrire occasioni di reinserimento e recupero. A San Vittore, tra gli altri, erano presenti magistrati e avvocati, il presidente dell’ufficio gip del Tribunale di Milano Aurelio Barazzetta, l’assessore Granelli, la senatrice e atleta paralimpica Giusy Versace con la tuta delle Fiamme Azzurre. Poi la giornalista Lina Sotis, che da anni si spende per i progetti nelle carceri. “Quando tanti anni fa sono entrata in carcere - ha ricordato - mi sembrava un posto da aiutare. Invece è anche un luogo che aiuta, perché aiutare chi ha bisogno rende più liberi”. Ha parlato anche del suo sogno, quello di organizzare una esibizione dal vivo del ballerino Roberto Bolle in carcere. Discorsi che hanno preceduto la tragedia del tentato suicidio durante la diretta, mentre i numeri fotografano un’emergenza. L’anno scorso si sono tolti la vita negli istituti penitenziari italiani 84 detenuti: è il numero più alto dal 1990. In media nel 2022 si è suicidato un detenuto ogni quattro giorni e mezzo, secondo l’associazione Ristretti Orizzonti, che si occupa di raccogliere, elaborare e divulgare notizie sulle carceri. Un’incidenza 20 volte più alta rispetto alla popolazione generale. Pescara. Maxi rissa in carcere, detenuto in fin di vita rainews.it, 8 dicembre 2023 Una maxi rissa tra detenuti è scoppiata nel terzo reparto del carcere di Castrogno. Gli autori delle violenze, circa una decina, si sono presi a colpi di sgabelli e lamette da barba, tanto da ridurre un recluso in fin di vita. I disordini si sono protratti fino al tardo pomeriggio anche con l’incendio di due camere di pernottamento. La situazione è degenerata dopo giorni di tensione alimentata dall’arrivo di parecchi detenuti allontanati dagli istituti laziali per motivi di ordine e sicurezza. A darne notizia la Segreteria Provinciale del Si.N.A.P.Pe: “Ancora una volta - si legge in una nota - sono state messe a dura prova quelle poche unità che quotidianamente cercano di garantire l’ordine e la sicurezza dei reparti detentivi sovraffollati. Questa situazione - prosegue il sindacato - ormai appartiene alla quotidianità di Castrogno ed i poliziotti montano in servizio affidandosi alla divina provvidenza con la speranza di smontare ad orario prestabilito ed incolumi”. Cagliari. I detenuti del Gruppo Sinodale scrivono alla famiglia Turetta: “Siate vicini a Filippo” di Riccardo Benotti agensir.it, 8 dicembre 2023 “Conosciamo il vostro dolore. Con le nostre famiglie abbiamo percorso sino in fondo tutte le stazioni del vostro Calvario. Lungo il percorso, con la nostra croce sulle spalle, le nostre madri, i nostri padri, i nostri fratelli e sorelle hanno potuto udire solo il ‘crucifige’ incessante di chi riduce la luce di una vita al buio di un momento. Quando la carità intorno si dissolve e la fede collettiva sceglie la lapidazione, resiste la speranza di poter dare ancora un senso al tempo che rimane, con la certezza che il buon Dio riporrà il nostro pentimento e le nostre lacrime tra i suoi tesori più cari”. È un passaggio della lettera degli amici del Gruppo Sinodale della Casa Circondariale di Cagliari - Uta indirizzata al papà e alla mamma di Filippo Turetta, recluso nel carcere Montorio di Verona dove si trova per aver confessato l’omicidio di Giulia Cecchettin. “Siate vicini a Filippo, non abbandonatelo un solo istante, non giudicatelo. Dategli speranza quando andrete a trovarlo. Non manchi il sorriso sul vostro volto e la forza calorosa di un abbraccio”, prosegue la lettera: “Mentre le corti e i sinedri discutono su quali e quante leggi occorra ancora promulgare per assecondare l’onda emotiva nazionale, nel vostro sorriso e nel vostro abbraccio Filippo riconoscerà la legge che davvero ha violato: la legge dell’amore per il nostro prossimo che ha nell’amore coniugale l’elevazione più alta che conduce a Dio”. “Filippo lavorerà tanto su sé stesso per poter testimoniare che questa sola legge basterebbe a impedire la violenza e l’assassinio. Solo chi è caduto si rialzerà, solo chi si è perduto può ritrovare il cammino. Quando Filippo si sarà rialzato e avrà ritrovato la strada - concludono i detenuti del Gruppo Sinodale - diventerà testimone vero e credibile dell’infinita misericordia di Dio. Siamo vicini al grande dolore della famiglia di Giulia, che comprendiamo e che ci tocca nel profondo del cuore”. Roma. Asl 4 e Casa circondariale di Civitavecchia, insieme per costruire una rete di aiuto per i detenuti quotidianosanita.it, 8 dicembre 2023 Matranda: “Il progetto e i risultati a cui hanno condotto le passate edizioni denotano come la strategia della rete, che mette in campo azioni di sistema e interventi su gruppi oltre che sul singolo, fa la differenza nel centrare l’obiettivo di adottare buone pratiche che vanno poi a beneficio dell’intera comunità territoriale”. Promuovere il benessere psichico creando una rete di relazioni e di azioni di aiuto tra le persone ristrette, incentivare l’empatia per comprendere i bisogni dell’altro riuscendo così ad intercettare segnali di disagio e a prevenire episodi di aggressività auto o etero diretta. Sono questi i principali obiettivi del corso di formazione “Il detenuto peer supporter come coach alla quotidianità: sostegno alla fragilità e veicolo di evoluzione del clima relazionale nel sistema penitenziario”, organizzato dal Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 4 in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Civitavecchia. Il corso quest’anno è giunto alla V edizione e si articola in nove lezioni frontali, strutturate in modo interattivo, i cui relatori sono operatori afferenti a tutte le aree attive in ambito penitenziario: operatori sanitari dell’area salute mentale, Medici di Medicina Generale, infermieri, personale del Servizio delle Dipendenze, operatori della sicurezza (Polizia Penitenziaria) e dell’area trattamentale (educatori di ambito psicopedagogico). “L’ambiente carcerario - ha spiegato il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 4, la dottoressa Carola Celozzi - è un luogo dove il rischio che si verifichino situazioni di crisi o forte disagio, è molto alto. Spesso il disorientamento vissuto dal detenuto conduce a isolamento e mancanza di relazioni, una situazione che può sfociare in aggressività, violenza ma anche depressione. Non è facile intercettare queste dinamiche e facilitare l’accesso ai servizi. Per questo è fondamentale il coinvolgimento di tutti i membri della comunità carceraria. Soprattutto dei detenuti stessi. Molti di loro hanno già affrontato momenti di fragilità e, essendo i primi ad osservare segnali di disagio nei compagni, possono essere di grande aiuto nel fornire sostegno e al contempo interfacciarsi in maniera fattiva con gli operatori, fungendo anche da intermediari. Il beneficio poi è triplice: dare aiuto a chi vive un momento di disagio, creare un momento di crescita personale in chi sceglie di rivestire il ruolo di peer supporter, fornire agli operatori spunti per migliorare il benessere della comunità. Le esperienze precedenti hanno dato risultati apprezzabili e sono state utili sia per gli addetti ai lavori che per i detenuti. Sono stati proprio i risultati ottenuti, in termini di riduzione degli eventi aggressivi o autolesivi, che ci ha spinto a portare avanti il progetto”. L’obiettivo principale del corso è quello quindi di formare un “Peer Supporter”, ossia sostenitore alla pari, che sia una figura di riferimento relazionale per gli altri detenuti e un promotore di benessere capace di favorire la creazione di un’atmosfera emotivamente accogliente. In questa V edizione, partita a novembre e che terminerà a fine gennaio, sono dieci i detenuti che hanno deciso di aderire al progetto e che stanno partecipando alle lezioni. Il corso, appunto, prevede nove incontri nei quali i discenti si confrontano su vari temi, come l’empatia, il disagio e il disturbo psichico, le dipendenze, le esigenze di sicurezza, la cura e la prevenzione delle malattie organiche, il ruolo dell’area trattamentale nell’affrontare i bisogni quotidiani della popolazione detenuta. “Il progetto “Peer Supporter” - ha dichiarato la Direttrice della Casa Circondariale di Civitavecchia, la dottoressa Patrizia Bravetti - rientra in un piano di prevenzione più generale che ci vede collaborare con i servizi della Asl Roma 4 ormai da diversi anni. L’esperienza pregressa ha portato nel corso delle varie edizioni e dei diversi progetti ad affinare le procedure contribuendo favorevolmente alla riduzione dei rischi. La presenza dei peer supporter nel tempo si è rivelato un buon alleato non solo nel favorire un clima di benessere ma perché questo gioca un ruolo chiave nel ridurre le distanze tra detenuti e istituzioni contribuendo positivamente alla crescita del senso di comunità, fatta di detenuti e personale della struttura”. I benefici e i risultati positivi che il progetto porta con sé ad ogni edizione, non hanno ricadute solo sul benessere della comunità carceraria, ma anche sul sistema sanitario locale che riesce, in prima battuta, a raggiungere l’obiettivo di fare prevenzione sia a livello fisico che psicologico. “Tra gli obiettivi principali di ogni azienda sanitaria - ha concluso il Direttore Generale della Asl Roma 4, la dottoressa Cristina Matranga - c’è quello del favorire benessere e fare prevenzione, in special modo nelle fasce più deboli e fragili della popolazione. La popolazione carceraria è tra quelle dove si manifesta in maniera più forte il disagio, la depressione e anche la violenza. Situazioni che spesso scaturiscono dal senso di mal-adattamento al sistema carcerario, dalle paure e dall’isolamento. Trovare altri detenuti che, per esperienza personale o meno, si sono già confrontati con tali situazioni, e per questo vogliono mettere a disposizione la loro esperienza in favore degli altri per aiutarli e supportarli, per la nostra azienda e i nostri professionisti significa poter contare su validi alleati. Il progetto e i risultati a cui hanno condotto le passate edizioni denotano come la strategia della rete, che mette in campo azioni di sistema e interventi su gruppi oltre che sul singolo, fa la differenza nel centrare l’obiettivo di adottare buone pratiche che vanno poi a beneficio dell’intera comunità territoriale”. Paola (Cs). Lo sport per rinascere: 75 detenuti alle prese con rugby, badminton e calcio a 5 lacnews24.it, 8 dicembre 2023 Saranno impegnati per 18 mesi: il percorso servirà a lavorare sulle relazioni e le regole, su valori come legalità e cooperazione, sul significato della vittoria e della sconfitta. Promosso dall’associazione Polisportiva Azzurra Paola, in collaborazione con il gruppo sportivo Xerox Chianello e le associazioni Oltre il confine, Antico borgo di Badia e Gli amici del cuore di Paola, il progetto “Take your time - Sport per tutti”, finanziato dalla Società dello Stato per la promozione dello sport - in collaborazione con i dipartimenti dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità - è stato presentato nell’auditorium del comune affacciato sul Tirreno cosentino, ed ha visto la partecipazione - oltre al folto pubblico - di relatori illustri ed esperti del settore, che coordinati dall’ex vicesindaco Marianna Saragò, hanno spiegato le direttrici lungo cui si svilupperanno le diverse attività. L’iniziativa prevede il coinvolgimento di 75 detenuti, che saranno inseriti in percorsi sportivi attraverso la pratica del rugby, del badminton e del calcio a 5, supportati con attività educative e socio-psicopedagogiche, per una durata complessiva di 18 mesi, un tempo utile a lavorare sulle relazioni, sulle regole, su valori come la legalità e la cooperazione, sul significato della sconfitta e della vittoria e sulla “gestione delle frustrazioni”. L’incontro si è aperto con i saluti della vicesindaco Maria Pia Serranò, del presidente dell’Asd Polisportiva Azzurra Francesco Naccarato e del coordinatore regionale di Sport e Salute Walter Malacrino. Presenti anche il presidente del comitato regionale Fiba Adelino Liuzzi, il presidente regionale Figc Calabria Saverio Mirarchi, il delegato regionale Federazione Italiana Rugby Salvatore Pezzano, il delegato zonale Figc Alto Tirreno Battista Bufanio e don Aurelio Marino, cappellano della casa circondariale di Paola, mentre le conclusioni sono state affidate al consigliere regionale Giuseppe Graziano. Verona. “Un mondo senza carcere”, la lezione del Movimento No Prison di Marco Vincenzi heraldo.it, 8 dicembre 2023 L’Università di Verona ha ospitato Livio Ferrari, portavoce del Movimento No Prison, per approfondire le ragioni di chi chiede l’abolizione della prigione e un rafforzamento delle misure alternative alla detenzione. Un seminario per approfondire le ragioni dell’abolizionismo carcerario e riflettere sulle eventuali alternative alla prigione: lo ha organizzato l’Università di Verona, lo scorso 13 novembre, nell’ambito del corso “Il mondo del carcere tra falsi miti e realtà” coordinato dal professor Ivan Salvadori, associato di diritto penale nell’ateneo scaligero. Ospite dell’evento è stato Livio Ferrari, giornalista ed esperto di politiche penitenziarie, autore di numerose pubblicazioni sulle tematiche carcerarie. Ferrari è fondatore e direttore dell’associazione di volontariato “Centro Francescano di Ascolto” di Rovigo e direttore responsabile di “Prospettiva Esse”, la rivista dei detenuti della Casa Circondariale della città. Nel 2012, assieme a Massimo Pavarini, già ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, ha scritto il manifesto “No Prison”, da cui è nato l’omonimo movimento di cui è portavoce: venti punti per offrire un’alternativa al carcere, in una prospettiva di pace e riconciliazione per ridurre il più possibile la sofferenza e, in tanti casi, la morte delle persone che hanno commesso reati. Carcerizzazione senza sosta - A partire dal 1947, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, per vent’anni in Italia vi fu una significativa decrescita della popolazione detenuta, che passò da circa 65 mila a 21 mila unità. Successivamente, però, prese avvio un processo di carcerizzazione che ad oggi non conosce sosta: salvo pochi episodi di flessione, come con l’indulto del 2006 o negli anni della pandemia, il numero dei reclusi continua a crescere di anno in anno. Il portavoce del Movimento No Prison ha sottolineato i numeri sempre più alti dell’esecuzione penale in Italia: “Negli ultimi trent’anni le condanne penali sono più che raddoppiate, quelle detentive triplicate, e gli indici di delittuosità sono aumentati del 35 per cento”. I numeri sulla detenzione - Il diciannovesimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione mostra come, nei nostri 190 istituti penitenziari, i detenuti al 30 aprile 2023 erano 56.674, a fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti. Ci sono quindi più detenuti rispetto ai posti letto. Se ai posti regolamentari vanno sottratti i posti non disponibili, che a maggio erano 3.646, il tasso di affollamento ufficiale medio è del 119 per cento, con situazioni preoccupanti in Lombardia (151,8 per cento), in Puglia (145,7) e in Friuli-Venezia Giulia (135,9). Il valore più alto è raggiunto dal carcere di Lucca, con un tasso di affollamento del 190 per cento. Italia condannata dai giudici di Strasburgo - Sul tema del sovraffollamento carcerario italiano si è espressa a più riprese la Corte europea dei diritti dell’uomo. Nella causa Sulejmanovic, un cittadino della Bosnia-Erzegovina - detenuto nel carcere romano di Rebibbia per scontare una pena di un anno e nove mesi di reclusione per una serie di condanne inflitte per furto aggravato, tentato furto, ricettazione e falsità in atti - riferiva di aver soggiornato in celle di circa 16,20 metri quadrati condivise con altri quattro o addirittura cinque detenuti. Sulejmanovic invocava i parametri indicati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, che indicano in sette metri quadrati la superficie minima di cui ciascun detenuto deve poter disporre all’interno della cella. Con sentenza del 2009, la Corte ha affermato che la mancanza di spazio personale costituisce violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Il sovraffollamento come “problema sistemico” - Una seconda condanna dell’Italia sul tema è giunta nel 2013 con la sentenza Torreggiani. In questo caso, alcuni detenuti negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza avevano denunciato la mancanza di spazio vitale nelle celle, l’esistenza di gravi problemi di distribuzione di acqua calda e un’insufficiente aereazione e illuminazione. I giudici di Strasburgo hanno rilevato che “la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone”. Costruire nuove carceri non funziona - Spesso i Governi italiani hanno risposto all’emergenza penitenziaria con la costruzione di nuove carceri. Un’iniziativa non risolutiva, perché i nuovi istituti non bastano mai: si costruisce un nuovo edificio che si riempie nel giro di poco, lasciando inalterato il problema. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, in un report del 2022, segnalò all’Italia che “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno visto la loro popolazione detenuta aumentare di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”, mentre “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Lo spartiacque delle disuguaglianze - Attualmente gli stranieri detenuti, in totale 17.723, rappresentano il 31,3 per cento del totale. Rispetto al totale degli stranieri residenti il tasso di detenzione è pari a circa 340 detenuti ogni centomila unità, rispetto al tasso di detenzione dei detenuti italiani che è di circa 95 detenuti ogni centomila abitanti. Secondo Ferrari, le migliori ricerche scientifiche ci mostrano che la pericolosità criminale è distribuita equamente in tutte le classi sociali, ma i livelli di repressione si connotano con una dimensione sempre più rivolta a immigrati, tossicodipendenti, minoranze e soggetti poveri. “L’aula di tribunale, dove vengono decise la maggior parte delle misure alternative al carcere, determina uno spartiacque tra chi ha i soldi per pagarsi una buona difesa e chi deve sperare nel giudizio della Corte”, ha evidenziato il giornalista. “Chi arriva in carcere solitamente è una persona debole, economicamente o culturalmente, proveniente da strati sociali marginalizzati”. Chi finisce dietro le sbarre? Se il carcere fosse davvero l’extrema ratio, dovrebbe tendere a ospitare soprattutto persone con pene lunghe, autori di fatti più gravi. Ma i dati di Antigone dicono altro e mostrano una popolazione carceraria nutrita di persone recluse per fatti meno gravi: tra i detenuti a seguito di condanna definitiva, nel 2022 le persone in carcere con una condanna fino ad un anno erano il 3,7 per cento del totale, quelle con una condanna fino a tre anni il 20,3 per cento. All’estremo opposto, i detenuti con pena inflitta superiore ai vent’anni sono il 6,6 per cento, mentre gli ergastolani sono il 4,6 per cento. Questa situazione è in larga parte spiegata dal ricorso continuo del legislatore allo strumento del carcere, preferendolo anche per reati minori alle misure alternative alla detenzione, ossia l’affidamento in prova al servizio sociale, la semi-libertà, la detenzione domiciliare. Spesso dal Parlamento sono uscite leggi che creano ondate di incarcerazione, come la cosiddetta legge Fini-Giovanardi del 2006 in materia di sostanze stupefacenti o la Bossi-Fini sull’immigrazione. Se analizziamo i detenuti sulla base della categoria di reati commessi, notiamo che la violazione delle norme sulle droghe è la terza causa di carcerazione: degli ingressi in carcere nel 2022, il 26,1 per cento è avvenuto per violazione dell’articolo 73 del Testo Unico sulle droghe, detenzione a fini di spaccio. Sui 56.196 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2022, ben 12.147 lo erano a causa di questa norma. Il ricorso politico alla paura - Secondo Livio Ferrari, negli anni abbiamo assistito, da parte del sistema politico-legislativo, ad un vero e proprio “martellamento comunicativo che ha influenzato l’opinione pubblica”. Politiche di law and order, di tolleranza zero, che alimentano il falso mito secondo cui la risoluzione dei problemi della società può avvenire solo tramite una giustizia severa. È il cosiddetto “diritto penale del nemico”, che ha come scopo principale la sicurezza cognitiva del cittadino: un uso politico e strumentale del diritto penale, in funzione simbolica di lotta contro il male, che fa leva sulle paure delle persone nei confronti della criminalità per creare un meccanismo di scambio tra elettori ed eletti. Con questa narrazione, si alimenta nei cittadini l’aspettativa di un sistema penale poliziesco, di difesa sociale tramite la reclusione di soggetti appartenenti a frange avvertite come pericolose. Vendetta di Stato - E, alla fine, il carcere diventa una vera e propria vendetta, lo strumento per applicare la legge del taglione. “L’idea che al male si debba reagire con il male finisce così per non essere messa in discussione, quasi fosse una ovvietà”, si legge nel manifesto di No Prison. “Il sistema della giustizia penale come solo dispensatore di sofferenza non è tollerabile. Neppure infliggere dolore all’autore di una strage è utile al miglioramento della società”, perché “al sangue delle vittime si aggiungerebbe unicamente una sofferenza in più: quella del pluriomicida condannato”. “Se è questa la vera finalità della pena, significa che le funzioni di prevenzione e rieducazione previste dalla nostra Costituzione rimangono simboliche”, ha commentato Ferrari. Il carcere non previene e non rieduca - La società occidentale per lungo tempo ha ritenuto che la pena detentiva avesse sia la capacità di intimidire le persone dal delinquere e di educare i condannati a non sbagliare ancora. I dati, al contrario, dimostrano l’incapacità della punizione carceraria di prevenire i reati: l’aumento della popolazione che vive dietro le sbarre rende evidente come la paura della prigione non sia di per sé sufficiente a spingere le persone a non delinquere. Ma il carcere, se guardiamo al tasso di recidiva, non raggiunge nemmeno lo scopo di reinserire nella società il condannato e sottrarlo al mondo criminale: secondo Antigone, al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38 per cento era alla prima carcerazione, mentre il restante 62 in carcere c’era già stato almeno un’altra volta; il 18 per cento, addirittura, era già stato recluso cinque o più volte. Al contrario, come dimostrano i dati elaborati dal Cnel, per coloro che in carcere hanno appreso un lavoro la recidiva scende drasticamente intorno al 2 per cento. Lesioni e morti in cella - Il 2022 è stato l’anno con più suicidi nelle carceri italiane sempre: secondo i dati pubblicati dal Garante Nazionale, sono state 85 le persone ad essersi tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario, una ogni quattro giorni. Si tratta 15,4 casi ogni diecimila detenuti. Un dato molto più alto rispetto ai suicidi fuori dal carcere, dove il tasso indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità è di 0,67 casi ogni diecimila persone. A questo si aggiungono gli atti di autolesionismo, fenomeno che nel 2021 Antigone ha registrato con una media di 19,9 casi ogni cento persone detenute. Abolire il carcere - Secondo i fondatori di No Prison, pensare di rieducare chi si è macchiato di un reato rinchiudendolo in una cella è una contraddizione in termini, perché la prigione è un luogo che umilia, annulla, dispensa sofferenza e crea o aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano. “L’articolo 27, in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, stride con i morti e le violenze che caratterizzano l’esperienza carceraria”, ha evidenziato Ferrari. I movimenti abolizionisti chiedono quindi di uscire dalla logica repressiva, per immaginare un sistema che rispetti vittime e colpevoli e usi il tempo della condanna per restituire dignità alla storia umana dei condannati, aiutandoli a recuperare rispetto a un errore commesso ritrovando la via della legalità. Un cambio di paradigma verso un nuovo modello di esecuzione penale che vada oltre il carcere e riduca al minino la perdita della libertà. “Qual è il senso di lasciare il detenuto chiuso in una cella a fare niente?”, è la domanda che Livio Ferrari a studenti e studentesse. “Tutti sbagliamo, ma da un errore si può uscire”. Le alternative - Serve quindi un potenziamento delle misure alternative: gli attivisti di No Prison ritengono che la maggior parte delle persone che si trovano in carcere potrebbero essere responsabilizzate e controllate in libertà, ad esempio attraverso opportunità pedagogiche ed assistenziali, esperienze lavorative e formative, oppure mediante opportunità di risarcimento del danno provocato. “Nei limitati casi in cui questo non sia immediatamente possibile”, conclude il manifesto, “solo eccezionalmente, si possono prevedere risposte di tipo custodiale nei confronti della criminalità più pericolosa, ma in quanto extrema ratio a precise condizioni”, come la previsione di ambienti carcerari che salvaguardino sempre e comunque la dignità delle persone e i loro diritti, nonché tempi di permanenza ridotti al minimo indispensabile in favore di programmi di inserimento. Progetto nazionale di teatro-carcere “SentierIncrociati. Per un senso di umanità” primocomunicazione.it, 8 dicembre 2023 Da lunedì 18 a mercoledì 20 dicembre 2023, a Pesaro, presentazione di “Sentieri Incrociati”, progetto speciale del Ministero della Cultura a cura del Teatro Aenigma e del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere con la rassegna “Destini Incrociati” con la direzione generale di Vito Minoia e direzione artistica di Ivana Conte, Grazia Isoardi, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà, Michalis Traitsis. “Grazie al Protocollo d’Intesa triennale per la Promozione del Teatro in Carcere, in accordo con il Ministero della Giustizia e ancora una volta con il sostegno del Ministero della Cultura, siamo riusciti quest’anno a dar vita a un evento significativo che consente di sviluppare un’ampia riflessione sul tema della dignità e dei diritti della persona a 10 anni dalla scomparsa di Nelson Mandela e a 65 anni dalla nascita della prima vera e propria esperienza di teatro in carcere contemporaneo: quella del San Quentin Drama Workshop (Stati Uniti). Al tempo stesso daremo corpo a un primo percorso di formazione e specializzazione sui linguaggi e le pratiche del teatro in carcere e a un focus inedito sulla crescita del fenomeno delle esperienze di Danza in Carcere, in collegamento con il lavoro dell’International Network Theatre in Prison e ospiteremo il Premio Internazionale Gramsci per il teatro in carcere promosso dalla Rivista Europea “Catarsi, Teatri delle Diversità” (Vito Minoia, Presidente del CNTiC e Coordinatore INTiP). La X edizione della Rassegna “Destini Incrociati”, che si svolgerà a Pesaro solo alcuni giorni prima dell’inizio del 2024, designato come l’anno della capitale della cultura italiana nella vivace cittadina marchigiana, presenterà performance, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, una sezione dedicata alla proiezione di video, strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, incontri, conferenze e un laboratorio di formazione e specializzazione. Un progetto articolato, quindi, in grado di restituire un ampio panorama delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che, da anni, lavorano sul campo con detenute e detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura e allestimento. La rassegna si aprirà lunedì 18, alle ore 11, presso la Sala Consiliare del Comune di Pesaro con la partecipazione di rappresentanti del Ministero della Cultura, Ministero della Giustizia, Comune di Pesaro, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Regione Marche, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e altre istituzioni che hanno collaborato alla realizzazione della manifestazione. L’evento scenico inaugurale “Il Filo di Arianna. Primo episodio METAMORFOSI” rappresenta l’esito del Laboratorio di formazione e specializzazione condotto dal 14 al 17 dicembre 2023 sui linguaggi e le pratiche del teatro in carcere a cura di Gianfranco Pedullà, in collaborazione con Grazia Isoardi e Michalis Traitsis per il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e con il Coinvolgimento della Compagnia “Lo Spacco” della Casa Circondariale di Pesaro e di un gruppo di 10 persone che già operano o che vorrebbero operare professionalmente con il teatro nei penitenziari. “ll filo di Arianna” è un’espressione che rinvia immediatamente al mito greco di Minosse e del Labirinto. È il filo che servì a Teseo per trovare l’uscita dal labirinto di Minosse dopo aver ucciso il Minotauro. Oggi l’espressione è utilizzata per indicare la necessità di trovare strumenti e occasioni per uscire da una situazione particolarmente complicata. METAMORFOSI è un invito a riappropriarsi della dimensione simbolica della vita, ad uscire tutti dalle piccole prigioni del nostro quotidiano. METAMORFOSI è una proposta di cambiamento: un invito a tuffarci nei miti del Mediterraneo per ripensare al nostro presente e immaginare un avvenire migliore. Si riprende nel pomeriggio alle 17 presso Palazzo Gradari con la tavola rotonda A 65 anni dalla fondazione della Compagnia San Quentin Drama Workshop con dedica a Sandro Baldacci di Teatro Necessario. Introduce Vito Minoia. Intervengono Yosuke Taki, Ronald Jenkins, Gianfranco Pedullà, Mirella Cannata e Carlo Imparato. A seguire, alle 18.30 si prosegue con la consegna del Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere 2022 promosso dalla Rivista Europea Catarsi Teatri delle Diversità a Elena Cánovas e Teatro Yeses di Madrid. In chiusura l’annuncio dell’assegnazione del Premio Gramsci 2023. Evento serale della prima giornata della Rassegna alle 21 al Teatro Rossini SPETTRI con gli attori detenuti della Casa Circondariale di Brindisi e i danzatori professionisti della Compagnia D’Arte Dinamica AlphaZTL diretta da Vito Alfarano. Al centro tematiche sociali come la violenza sulla donna, l’omosessualità, la libertà di amare. SPETTRI è lo studio, il confronto, la conoscenza e l’approfondimento di alcuni personaggi storici o iconici o semplicemente protagonisti di un evento che ha segnato la vita e i destini di tutti: Enzo Tortora, Madre Teresa Di Calcutta, Frida, Bernard Milk, Les Patronas, Peppino Impastato, Palmina Martinelli (quattordicenne della provincia di Brindisi bruciata viva per aver rifiutato di prostituirsi). Personaggi che hanno cambiato il mondo e hanno speso molte delle loro energie per cercare di trasformare, in meglio, l’umanità lasciando delle tracce di sé. Il secondo giorno della rassegna, martedì 19, si aprirà alle ore 10 presso la Casa Circondariale con la replica di METAMORFOSI. Prosegue alle 11.30 presso Palazzo Gradari con il FOCUS Danza in Carcere che prevede testimonianze e presentazioni video di Dario La Ferla, AlphaZTL, Koreoprject, Compagnia Lirya, Balamós Teatro, Compagnia Petra. Alle 15, sempre presso Palazzo Gradari apertura della rassegna video e incontri con gli autori, Nella prima sezione “Drammaturgie”, che si occupa di un panorama del teatro professionale che si fa e si vede in carcere, tra repertorio e innovazione, i contributi di TEATRO POPOLARE D’ARTE (Isola di Gorgona), STALKER TEATRO (Torino), TEATRO AENIGMA (Pesaro), ASSOCIAZIONE POLLUCE (Arienzo). Si prosegue alle 16.45 con la tavola rotonda Diritto e Dignità: “Prison Rules” di Nelson Mandela a dieci anni dalla sua scomparsa. Introducono Ivana Conte e Vito Minoia. Intervengono Bruno Mellano, Paola Ziccone, Federico Losurdo, Rosella Persi, Sergio Grossi. Alle 18.15 Il Terzo Paradiso a Piazza Tevere, valorizzazione dell’evento organizzato, nell’ambito del Progetto speciale Sentieri Incrociati a Roma il 9 ottobre 2023 dall’Associazione Tevere Eterno con la partecipazione del CNTiC grazie alla Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Spoleto. Intervengono Luca Zevi, Massimo Galletta e Giorgio Flamini. La giornata si chiude alle 21.30 alla Chiesa dell’Annunziata con lo spettacolo LA REGINA RESTA dell’Accademia Mediterranea dell’Attore con gli attori detenuti della Casa Circondariale di Lecce, regia di Lorenzo Paladini. Un’opera incentrata sul tema della genitorialità intesa come forza generatrice che smuove gli elementi dell’universo. I detenuti-attori scrivono, chiedono e cercano risposte a domande che da sempre non trovano risposta: cosa vuol dire generare? Cosa porteremmo nel nostro ideale, perfetto e perfettibile universo? Il terzo giorno si apre alle 10.00 nella Casa Circondariale di Pesaro con lo spettacolo GIOVANNINO INNAMORATO della Compagnia “Controvento” della Casa Circondariale di Pesaro (creazione collettiva), un’esperienza inedita di gruppo autogestito, quest’anno dedicata alla Commedia dell’arte, traendo spunto dalla tradizione meridionale della Raccolta degli Scenari di Annibale Sersale, conte di Casamarciano. Una significativa tappa di attraversamento per un percorso di formazione nella recitazione, dove gestualità, vocalità, recitare all’improvviso, sono tratti caratteristici che concorrono all’affabulazione dello spettatore. Il canovaccio, frutto di una rielaborazione dell’originale “Pulcinella innamorato”, mette in evidenza la creatività dei singoli attori, nel tentativo di mantenere vive le prerogative di una libera espressione, che tiene in vita ricerca di autostima e desiderio di trasformazione e di crescita personale e sociale. Alle 11.30 a Palazzo Gradari Rassegna Video seconda sezione “Nuove identità”, che si occupa della costruzione dell’identità collettiva delle nuove generazioni, tra scuola e carcere con i contributi di LA POLTRONA ROSSA (IPM Pontremoli e Catania), ANGELO CAMPOLO (IPM Catania e USSM Messina), SANGUE GIUSTO/ADDENTRO (Civitavecchia). Alle 15.00 si riprende con la terza sezione incentrata su “La cura”, intesa come prendersi cura di sé e dell’altro attraverso l’etica della relazione e i linguaggi del teatro in carcere (uno spazio dedicato ad Anna Solaro). Contributi video di TEATRO DELL’ORTICA (Genova), CETEC/Dentro-fuori San Vittore (Milano), TEATRO A CANONE (Ivrea). Si prosegue alle 16.30 alla Chiesa dell’Annunziata con lo spettacolo A FILO D’ACQUA di Voci Erranti, regia di Simone Morero, con gli attori della REMS di Bra (Cuneo). Un naufragio: la metafora di un’isola che il mare separa da tutto ciò che apparteneva alla vita di ciascuno. A un certo punto, scompare anche il mare. Ma se ne continua a sentire il rumore: acqua, vita in divenire che reclama altra vita. E la vita, ora, non può essere che quella sull’isola. Corpi, storie e sentimenti si incontrano: gioco, dolore, fiducia, profondità e leggerezza, un cappello, qualche dispetto e poesia. Alle 18.00 la Rassegna si conclude con LO STUPRO, monologo di Franca Rame con Gilberta Crispino, Donatella Massimilla e Mattea Fo. Regia di Donatella Massimilla. Un progetto di Fondazione Fo Rame e CETEC - Centro Europeo Teatro e Carcere (Milano) Lo stupro è un esempio emblematico e unico della drammaturgia di Franca Rame. È un testo che affronta con cruda sincerita? e coraggio la violenza sessuale, un problema drammaticamente attuale ancora oggi. Franca Rame ha scelto di mettere in scena la violenza, non per scioccare o scandalizzare, ma per far emergere la realta? nascosta e stimolare un dialogo urgente su questa piaga sociale. Per una donna vittima di violenza raccontare la propria esperienza è terribile; spesso è difficile anche denunciare l’aggressione. Eppure, Franca Rame ha trovato il modo e il coraggio per farlo, lasciandoci questo suo monologo, oggi rappresentato in tutto il mondo. Si chiude con un saluto di Mattea Fo (Presidente Fondazione o Rame), un messaggio volto ad affiancare con impegno sociale e civile un’iniziativa molto articolata come “Sentieri incrociati”. Incontri precedenti e successivi alla visione degli spettacoli, a favore degli allievi delle scuole secondarie di primo e secondo grado coinvolte, e di detenute e detenuti sono curati per la Rassegna da Ivana Conte, Romina Mascioli, Vito Minoia, Paolo Gaspari. Prevendite degli spettacoli Spettri, La regina resta, A filo d’acqua e Lo Stupro sono disponibili nel circuito Vivaticket (anche online) e presso il Teatro Rossini di Pesaro nei giorni e orari di apertura. Informazioni sul sito www.teatridipesaro.it e al numero 0721 387620. Gli appuntamenti in carcere sono riservati a detenute/i e agli spettatori autorizzati. Tutti gli altri eventi sono ad ingresso gratuito. Il rap: una strada per il riscatto di Cristina Lacava iodonna.it, 8 dicembre 2023 Dal carcere minorile al concerto con Sfera Ebbasta: storia di A., 17 anni, che grazie al laboratorio di musica rap dell’associazione CCO parteciperà l’8 al Sud Sound Festival di Reggio Calabria. Non una presenza spot ma un impegno serio, duraturo. È questo il senso di Presidio Culturale Permanente, il laboratorio di teatro e musica rap organizzato dall’associazione CCO (Crisi Come Opportunità) in diversi istituti penali minorili. Laboratori molto amati dai ragazzi, che partecipano con grande passione e anche con ottimi risultati. Il È il caso di A., 17 anni, ospite della Comunità del Centro di Giustizia Minorile di Catanzaro, che l’8 dicembre aprirà, insieme ad altri artisti emergenti, il Sud Sound Festival che si terrà al Palacalafiore di Reggio Calabria, e ospiterà dei big come Finesse, Ernia, Sfera Ebbasta. “A. si è applicato subito, meritava questa bella opportunità”, dice il rapper Kento, coordinatore dei laboratori del Presidio Culturale Permanente. “Noi crediamo che per lui sia un punto di arrivo e un punto di partenza. Punto di arrivo per il percorso fatto, e di partenza come spinta all’autonomia e rafforzamento dell’autostima”. Il rap appassiona i ragazzi - L’associazione CCO - Crisi Come Opportunità, da dieci anni realizza spettacoli teatrali, documentari, video lavorando nelle periferie, nelle carceri minorili e nelle scuole. Presidio Culturale Permanente “si articola sul teatro e il rap negli istituti penali minorili - gli IPM - di tutt’Italia, da Torino a Roma, a Catanzaro, Airola, Catania”, spiega Kento. “Poniamo l’accento sul “permanente” per far capire che la nostra è un’attività continuativa, non è che entriamo nelle carceri e ce ne andiamo. Le nostre sono attività formative che restano”. Kento si occupa direttamente del laboratorio di Casal del Marmo, a Roma, dove va tutte le settimane, e coordina le attività nelle altre sedi. “Abbiamo circa una decina di ragazzi per ogni laboratorio, hanno provenienze diverse ma sono tutti molto coinvolti. Insieme scriviamo rap, se possibile registriamo e realizziamo videoclip. Proprio ieri a Casal del Marmo abbiamo registrato una canzone in cinque lingue diverse, non mi era mai capitato”. Per A. l’8 dicembre si apriranno le porte della comunità di Catanzaro, andrà a Reggio Calabria e si esibirà sullo stesso palco dei rapper più famosi. Realizzando un sogno. Più libri più liberi. “Le donne che si ribellano ai clan scardinano le cosche” di Sara Scarafia La Repubblica, 8 dicembre 2023 I due giornalisti Lirio Abbate e Giuliano Foschini ragionano sulla condizione femminile dentro la criminalità organizzata. Il ruolo delle mogli è tutt’altro che secondario. Patriarcato e mafia: cosa succede alle donne che vivono nei territori dove la presenza della criminalità è ancora fortissima? Chi sono le donne che vivono con i clan? L’editorialista Lirio Abbate e l’inviato Giuliano Foschini provano a rispondere ad Arena Repubblica e Robinson. “Le donne dei clan non compaiono mai - dice Abbate - ma è davvero così?”. Abbate racconta che le donne di mafia si occupano della famiglia, gestiscono la cassa, spesso danno indicazioni agli uomini su strategie da portare avanti. “Ma gli uomini fanno i conti con la vergogna e non diranno mai che quell’idea viene da una femmina. Ma la donna ha un passo più avanti e gli uomini hanno paura di loro, paura che possano tradire le cosche. La verità è che la donna che collabora con la giustizia ha il potere di scardinare le cosche”. “Nella mafia barese che ha una struttura nata in carcere - dice Foschini - le donne portavano avanti i clan. A Bari recentemente è venuta fuori la storia di una famiglia di usurai che aveva una struttura gerarchica tutta femminile”. Foschini racconta la storia di Rosa Di Fiore, la prima pentita della mafia garganica, l’unica mafia che non ha pentiti. A San Nicandro Garganico c’erano due clan, i Tarantino e i Ciavarella, che nel corso degli anni avevano avuto faide tremende. In dieci anni erano state uccise 36 persone. Tutto era cominciato per un furto di bestiame poi diventato traffico di stupefacenti. “Rosa era figlia di un’insegnante. Si innamora di un Tarantino che entra e esce dal carcere. Fanno due figli. Tarantino era amico di uno dei Ciavarella. Non potevano farsi vedere insieme in paese ma si frequentavano e le famiglie si conoscevano. Rosa si innamora di Ciavarella. Hanno una storia. Ma la cosa si viene a sapere e quando Tarantino esce dal carcere, Rosa è incinta dell’amante. I Tarantino decidono di lavare l’onta riprendendo la faida che si era sopita”. Rosa viene segregata in casa, ha il suo bambino che le viene tolto. Ed è allora che lei decide: “Ci ha raccontato di aver capito che i fratelli, i suoi figli, si sarebbero uccisi tra di loro perché di padri rivali. Rosa scappa, si pente e fa arrestare il marito e il nuovo compagno. Solo la forza di una madre poteva guidarla”. E se la condanna a morte di Omar Trotta, un ragazzo di 28 anni che era destinato a essere ucciso perché aveva fregato i compagni di clan di Vieste, viene firmata dalla moglie che gli vieta di collaborare con la giustizia anche quando il procuratore di Bari gli dice che sta per essere ucciso, cosa che accadrà 19 ore dopo il suo no, qualcosa di simile accade al sicario dei Graviano Gaspare Spatuzza, come racconta Abbate. “Quando nel 1995 viene arrestato, il magistrato gli chiede di collaborare e lui chiede di parlare con la moglie: la signora arriva in tribunale. Spatuzza è seduto sulla sedia davanti al magistrato. Lei lo guarda con la sua borsa firmata e i gioielli e gli chiede cosa stesse facendo. Poi chiude la porta e se ne va e lui decide di non collaborare”. Ruoli attivi, certo. Ma le donne in terre di mafia sono anche vittime. “In Calabria, per esempio, in alcune zone, se una donna decideva di separarsi dal marito veniva uccisa inscenando un suicidio. Un problema sociale di comunità pervase dall’idea patriarcale e mafiosa”. Ma quindi qual è il ruolo delle donne? “Centrale - dicono Abbate e Foschini - ma hanno anche subito. Molte sono riuscite a ribellarsi, a denunciare e a decidere le sorti di una cosca”. La mafia, conclude Abbate, è un termine al femminile. Povertà assoluta, sono sempre di più le persone in questa condizione in Italia La Repubblica, 8 dicembre 2023 La proposta: parte dei fondi del Giubileo servano per gli alloggi dei senza casa. Lo afferma la Comunità di Sant’Egidio che ha presentato oggi la trentaquattresima edizione della Guida per chi vive per strada. In Italia per un numero sempre maggiore di persone far quadrare i conti è un problema quotidiano, mentre chi vive in condizione di fragilità fatica ad arrivare a fine mese. Cresce per questo anche il numero di quanti sono costretti a chiedere aiuto. A determinare questo stato di cose c’è l’inflazione alle stelle con i beni di consumo sempre più costosi, e poi la crisi energetica, il caro-bollette, gli stipendi fermi al palo. A delineare e a ricordare a tutti questo quadro è la Comunità di Sant’Egidio, che dal 1968 affianca le persone bisognose in Italia e in 70 Paesi del mondo, assistendo chi vive in povertà e ai margini. Per rispondere alla crescita della povertà, Sant’Egidio negli ultimi anni ha moltiplicato il suo impegno, aumentando la distribuzione di cibo e accogliendo un numero sempre maggiore di persone. Usare meglio i fondi destinati al Giubileo. Due, in particolare, le proposte di Sant’Egidio alle istituzioni, incentrate sul destinare parte dei fondi per la preparazione del Giubileo al sostegno delle famiglie in povertà assoluta: creare un fondo di sostegno alle locazioni, visto che quello per il contributo agli affitti e per la morosità incolpevole non è stato più finanziato; sfruttare l’enorme patrimonio immobiliare non occupato concordando con i proprietari immobiliari affitti calmierati (e sostenuti da un apposito fondo) a chi ne ha diritto. Sarebbe un atto di giustizia. “Realizzare questi due obiettivi - dice Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio - sarebbe un atto di giustizia e un vantaggio per l’intera collettività, segno di un’Italia che non lascia indietro nessuno. Del resto, la pandemia ci ha insegnato che nessuno si salva da solo. Il Giubileo, che riprende l’idea sabbatica di una redistribuzione dei beni e delle ricchezze prodotte - ha aggiunto Impagliazzo - può essere il momento adatto per una “restituzione” a chi ha più bisogno. Un’operazione da fare in modo intelligente, con una cabina di regia tra governo, Regioni, Comuni e società civile, perché si possa ripartire insieme senza dimenticarsi di nessuno”, ha concluso. Gli stipendi non bastano più. Secondo l’Istat, oltre 5,6 milioni di persone vivono in povertà assoluta, di cui 1,3 milioni sono bambine e bambini. Il numero di individui in povertà assoluta è aumentato nel giro di un anno, arrivando al 9,7% nel 2022 dal 9,1% dell’anno precedente, in gran parte a causa dell’inflazione e dei suoi effetti. L’impatto maggiore è sulle famiglie più povere e su quelle con un alto numero di componenti, con l’incidenza della povertà assoluta che arriva addirittura al 22,3% per quelle con tre o più figli minori. Il dato cresce anche per i nuclei con almeno una persona anziana (da 5,8% a 6,5%). A preoccupare sono anche la crescita degli sfratti, con 99mila richieste di esecuzione - numero triplicato rispetto al 2021 - e la povertà sanitaria, fenomeno emerso con la pandemia e accentuatosi nell’ultimo biennio e che porta 2 milioni di italiani a rimandare le cure e 4 milioni a indebitarsi per effettuarle. La risposta della solidarietà. Quest’anno, segnato dalle conseguenze economiche e sociali delle troppe guerre in corso, dall’Ucraina alla Terra Santa, Sant’Egidio ha aumentato le sue attività a sostegno di persone fragili e vulnerabili. I suoi servizi di aiuto hanno raggiunto 40mila persone, di cui 20mila nella sola Roma. I pacchi alimentari distribuiti dall’inizio del 2023 sono 250mila, di cui 120mila nella sola Roma. Per rispondere ai crescenti bisogni, la Comunità ha anche aumentato il numero dei centri di distribuzione alimentare nelle 35 città in cui sono aperti i suoi centri, dal Sud al Nord, senza contare i Comuni minori in cui raggiunge persone e famiglie in stato di necessità. A Roma le case dell’amicizia. A Roma i luoghi di distribuzione, chiamati Case dell’Amicizia perché oltre all’aiuto concreto forniscono anche ascolto e informazioni, sono passati dai tre iniziali a 28, a Genova da quattro a 10. A raccontare la difficile situazione sono anche i 120mila pasti serviti quest’anno nelle mense di Roma, Genova, Novara, Frosinone e Lucca: il doppio rispetto agli anni pre-pandemia. Inoltre, sono stati 200mila i pasti distribuiti in un anno nelle cene itineranti in tante città, da Padova a Catania, da Torino a Napoli. Oltre 60mila i capi di abbigliamento donati a chi aveva bisogno. Sant’Egidio ha aiutato anche molte persone senza dimora, anziane o con disabilità che hanno chiesto aiuto: solo a Roma, oltre mille persone hanno usufruito delle convivenze avviate negli anni recenti. A Natale aggiungi un posto a tavola. Le attività di Sant’Egidio per non lasciare indietro nessuno comprendono anche la campagna solidale “A Natale aggiungi un posto a tavola”, grazie alla collaborazione delle compagnie telefoniche, di Rai, Mediaset, Sky, La7 e al sostegno di tanti, a cominciare dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio. Per regalare alle persone più fragili un pranzo degno del 25 dicembre, con un pasto abbondante, un dono e il calore di una casa, tutti possono contribuire, inviando un sms o chiamando da rete fissa il numero 45586, fino al 26 dicembre. Quella prima volta a S. Maria in Trastevere. Era il Natale 1982 quando, per la prima volta, alcuni poveri furono accolti nella basilica di Santa Maria in Trastevere. Da allora, il banchetto si è allargato e ogni anno coinvolge circa 80mila persone in Italia e 250mila nel mondo. Diversi sono i luoghi dove si apparecchia il pranzo: chiese, case, scuole, ma anche istituti per anziani, carceri e ospedali. A consentire la capillare attività di Sant’Egidio sono le migliaia di volontarie e di volontari, giovani e non, che ogni giorno si dedicano alle persone più fragili. La Guida per chi vive i senza csa. La guida ‘DOVE mangiare, dormire lavarsi’, che viene presentata e distribuita nella sua 34esima edizione, è un compendio per orientarsi nel mondo della solidarietà, rivolto alle persone senza casa o che abbiano bisogno di aiuto. La guida è pubblicata a Roma, Napoli, Genova, Padova, Milano, in alcune città europee e a Buenos Aires. È distribuita gratuitamente dalla Comunità di Sant’Egidio per aiutare chi è in condizione di bisogno a individuare i servizi sul territorio. In 280 pagine sono elencati strutture e centri a cui rivolgersi per avere assistenza e accoglienza, come mense, dormitori, servizi di distribuzione alimentare, centri di ascolto. L’impegno di Sant’Egidio nei continenti. La Comunità di Sant’Egidio è presente in oltre 70 Paesi, con più di 60mila aderenti e una vasta cerchia di simpatizzanti e persone che collaborano. Tra le numerose attività portate avanti ci sono quelle a favore degli anziani in difficoltà e soli; delle persone migranti, con la realizzazione dal 2016 dei corridoi umanitari per i rifugiati; le “scuole della pace” per promuovere la scolarizzazione dei minori in difficoltà e l’educazione alla convivenza; il sostegno ai “bambini di strada” in Africa e in America Latina; la campagna per i diritti dei disabili al lavoro e a una vita pienamente integrata; l’impegno in Africa per la cura e prevenzione dell’Aids e di altre malattie; la campagna per la registrazione anagrafica in Africa; le iniziative per favorire la pace in diverse aree del mondo, dopo che nel 1992, grazie a Sant’Egidio, fu firmato a Roma l’accordo di pace per il Mozambico. Inoltre, la Comunità promuove il dialogo interreligioso per contribuire alla costruzione della pace. “Le relazioni tra sessi vanno ripensate alla luce della libertà femminile” di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 dicembre 2023 Intervista all’ex deputata Pd Anna Paola Concia, che coordinerà il progetto del ministro dell’Istruzione. “Non mi sento la foglia di fico del governo, perché Valditara a questo programma ci crede davvero, lo so. E poi così almeno inizieremo a lavorare davvero per le donne”. Dopo la circolare inviata ai dirigenti scolastici per sollecitare in ogni scuola momenti di riflessione e confronto tra studenti e insegnanti a partire dal discorso pronunciato da Gino Cecchettin ai funerali di sua figlia Giulia, uccisa dal suo ex fidanzato, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha spiazzato di nuovo annunciando: “Il progetto “Educare alle relazioni” sarà portato avanti da tre donne e la coordinatrice è Paola Concia”, ha detto ieri in audizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. L’avezzanese Paola Concia, una vita nel centrosinistra, da militante del Pci a deputata Pd, sposata con la psicologa e criminologa tedesca Ricarda Trautmann, ha abbandonato la politica di partito da tempo e vive con sua moglie a Francoforte. Ma il suo curriculum di attivista femminista e a favore dei diritti della comunità Lgbtqi+ è inossidabile, così come il suo rapporto con l’Italia. Paola Concia, come mai Valditara ha chiesto proprio a lei di coordinare questo progetto? In realtà lavoriamo insieme già da un anno. In qualità di coordinatrice del Comitato organizzatore di Fiera Didacta Italia, che è uno spin-off di Fiera Didacta Germania, l’evento più importante sul panorama internazionale sull’innovazione della scuola e dedicato agli insegnanti, il mio partner principale è il Ministero dell’istruzione italiana. Di Didacta Italia sono un po’ la mamma, ho fatto la prima edizione sette anni fa. Quindi è già da un anno che ragioniamo su questo progetto. Io sono una femminista, e il ministro Valditara lo sa benissimo. Conosce la mia storia. Per quanto mi riguarda, io non sono più iscritta ad alcun partito da tempo ma la penso esattamente come allora. Oggi, con Didacta, mi dedico ad un’attività che si può considerare servizio pubblico. E che reputo molto “politica”. Come sarà strutturato il progetto “Educare alle relazioni”? Ci stiamo ragionando in un gruppo ristretto, insieme a donne bravissime. Bisogna ripensare le relazioni tra gli uomini e le donne alla luce della libertà femminile. A partire dalla libertà delle donne bisogna costruire un nuovo modello di relazioni. E il fatto che Valditara parli di “lotta al maschilismo”, come ha fatto oggi, ci fa capire che usiamo le stesse parole, e dunque condividiamo gli stessi concetti. Come si educa alle relazioni, bastano delle ore di lezione inserite magari tra le nozioni di educazione civica? No, niente educazione civica. Sarà un’attività interdisciplinare alla quale parteciperanno attivamente anche gli studenti. I docenti dovranno essere formati, ma poi non insegneranno frontalmente: saranno, diciamo, dei referenti per gli studenti. Dei modelli. Si interverrà solo sugli studenti delle scuole superiori, secondo il progetto. Ma per educare non bisogna cominciare prima? Si partirà dalle scuole superiori, per ora, ma il ministro ha già comunicato che intendiamo lavorare fin dalla scuola primaria. E proprio in questi giorni ci stiamo ragionando su. Avete preso a riferimento un qualche modello che all’estero abbia già dato buoni frutti? Guardi, l’educazione all’affettività viene praticata nelle scuole tedesche già dagli anni Settanta, così come da tempo lo si fa in altri Paesi del Nord Europa. Ci documenteremo e confronteremo anche con altre esperienze europee, ma noi puntiamo ad un modello tutto italiano. Ci sono 15 milioni di euro stanziati attraverso i Pon (Programma Operativo Nazionale del Miur, ndr) per la formazione. E noi stiamo correndo per farlo cominciare il prima possibile. Non si sente un po’ la foglia di fico di un governo che parla tanto ma fa molto poco per le donne? No, perché in questo progetto Valditara ci crede davvero. E, su questo, io ci sto. Perché, appunto, così cominciamo a fare qualcosa per le donne. I genitori dei ragazzi salvati dalla droga: “Ho denunciato mio figlio o sarebbe morto” di Valentina D’Orazio Corriere della Sera, 8 dicembre 2023 I racconti di chi fa i conti con la dipendenza di un familiare: “Anche la nostra vita è distrutta”. L’andirivieni da Treviglio alle piazze dello spaccio milanese: “In una settimana lo stipendio era prosciugato. Ma dopo la denuncia, grazie alla comunità, il passato buio è alle spalle”. Delle porte in legno della cucina non rimane quasi nulla, distrutte in un momento di rabbia. I mattoncini Lego rossi e neri che Filippo usava da bambino sono finiti sull’asfalto, lanciati dal terzo piano dopo un altro litigio con i suoi genitori. Papà Piero è sceso e li ha raccolti uno per uno per rimontare la costruzione di suo figlio. La droga non consuma solo la vita di chi la usa ma anche quella dei genitori, dei fratelli e degli affetti più cari. Sono loro le vittime invisibili di cui nessuno parla ma la tossicodipendenza è anche questo: case distrutte, famiglie demolite, vite che si fermano. Sono le 10 di mattina. C’è anche Filippo nella stanza della Comunità Aga (Associazione genitori antidroga) di Treviglio, struttura per la cura delle tossicodipendenze. È solare, sorride. Lo sguardo di mamma Patrizia lo segue mentre se ne va e poi, con gli occhi orgogliosi, esclama: “Mio figlio è tornato!”. Non è facile raccontare quello che accade in casa di chi vive con un tossicodipendente. La droga entra silenziosa, si impadronisce dei legami e ruba gli affetti più cari. Milano è vicina, ed è una “piazza” pesante per chi cerca la droga. “Speri sempre che sia qualcosa di passeggero, che con il tempo si aggiusterà”. E invece Piero e Patrizia hanno visto loro figlio diventare un altro. Insieme alla sua vita, anche la loro stava cambiando: “Ti alzavi al mattino, speravi che arrivasse subito la sera per andare a letto e che non fosse successo niente di brutto. Non esistevamo più: vivevamo la nostra vita in funzione di tutto quello che faceva”. Durante il periodo più difficile, da maggio 2020 a luglio 2021, Patrizia confida di essersi annullata al punto tale da non ricordare più nulla. Piero, invece, aveva ben altro in mente quando, non appena tornato a casa da lavoro, andava a controllare se la macchina fosse nel garage. “In una settimana lo stipendio era andato. Una volta ho dovuto buttare mio figlio a terra, davanti alla porta di casa, per non farlo uscire. Certe volte ci riesci ma non sempre ce la fai. La paura non era soltanto per lui; se avesse fatto del male a qualcuno, non ce lo saremmo mai perdonati”. Filippo non è figlio unico; ha una sorella di 7 anni più piccola e anche lei ha vissuto il dramma con i suoi genitori. Non dormiva più, non usciva, non invitava più amiche a casa. Patrizia non trattiene le lacrime quando pensa al momento in cui ha chiesto a sua figlia se volesse trasferirsi da una zia, per avere un clima più sereno. La Relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze 2023 conferma: la cocaina è tra le droghe più consumate in Italia. Nel 2022 sono state mezzo milione le persone tra i 18 e gli 84 anni ad averne fatto uso. “La droga è un tappo al vuoto esistenziale che i ragazzi vivono”, sostiene lo psichiatra Leonardo Mendolicchio che si è a lungo occupato di disturbi e dipendenze tra gli adolescenti. “Per arrivare a maturare un cambiamento e ritrovare la pulsione vitale - continua - è fondamentale avere un supporto genitoriale”. Oggi però sempre più famiglie dicono di essere sole e senza strumenti per salvare un figlio che non vuole essere aiutato. “La droga va oltre ogni sentimento. È in grado di sovrastare ogni emozione, fino a che quello che hai davanti non è più tuo figlio”. Giuseppe e Stefania sanno di cosa parlano. La cocaina si era presa loro figlio fino a fargli perdere tutto: gli amici, gli affetti, il lavoro, la casa. “Quando lo abbiamo raccolto, aveva perso anche il cane”, racconta Stefania. Adesso, guardandosi indietro, si chiedono dove abbiano tirato fuori tutta quella forza. Fino a dove possa arrivare il coraggio di una madre e di un padre sono proprio loro a raccontarlo, spiegando il momento in cui sono arrivati alla scelta più difficile: denunciare loro figlio. “C’è stato un periodo in cui i nostri rapporti si sono interrotti. Una sera è arrivato a casa e chiedeva di entrare. Piangeva e minacciava di sfondare la porta. Sono intervenute due camionette dei carabinieri, hanno messo mio figlio con la faccia a terra e con le manette lo hanno bloccato. Da lì un’ambulanza lo ha portato in pronto soccorso”. Quella sera è scattata la denuncia per pericolosità sociale, l’ultimo tentativo per evitare il peggio, per fare in modo che iniziasse un percorso comunitario. La chiamano forza di sopravvivenza ma dietro a tanta tenacia si apre un mondo di dolore e sofferenza. Durante i mesi che hanno preceduto quella notte, Giuseppe e Stefania rimanevano a casa, con le serrande chiuse, rifiutando ogni contatto con il mondo esterno. “Sono stata malissimo: in quattro mesi e mezzo ho perso 9 chili, ho avuto un Herpes Zoster. Ho deciso così di prendere un’aspettativa dal lavoro. Sapevo che dovevo salvare mio figlio. Il giorno in cui lui ha deciso di entrare in comunità, sono tornata a lavoro”. Quello che rimane oggi è il senso di colpa per non aver agito prima e non aver capito che c’era un problema. Stefania lavora in un ospedale e ancora oggi si chiede come sia possibile che lei, che attraverso il suo lavoro aiuta le persone, non abbia saputo cogliere il malessere di suo figlio. La verità, spiega il marito, è che “hai quasi paura di guardare in faccia la realtà e certe volte, per timore, ti volti dall’altra parte”. Dopo tanto dolore, oggi Stefania guarda con sorriso suo figlio che, dopo essere stato per 4 anni e mezzo all’interno della comunità Aga di Treviglio, è ritornato a vivere. Con la sua, anche la loro vita è ricominciata. Permessi di soggiorno ai migranti: il Viminale multato per i gravi ritardi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2023 Il 5 dicembre 2023, il Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia ha emesso una sentenza fondamentale, accogliendo il ricorso presentato in una class action pubblica promossa da diverse organizzazioni, tra cui Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild), Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), Oxfam Italia Onlus, Spazi Circolari e Associazione Naga. Questa vittoria legale ha dichiarato la violazione dei diritti di oltre un centinaio di persone straniere e datori di lavoro, sottolineando il grave inadempimento delle amministrazioni nel rispetto dei tempi di definizione dei procedimenti di regolarizzazione. La sentenza numero 2949, ha stabilito che il mancato completamento dei procedimenti per la regolarizzazione entro i 180 giorni è ingiustificabile e rappresenta una violazione dei diritti e degli interessi dei ricorrenti. L’azione di class action, presentata da coloro che avevano subito ritardi nei procedimenti di regolarizzazione, ha ottenuto una condanna nei confronti delle amministrazioni coinvolte, con l’imposizione di un termine di novanta giorni per la conclusione delle pratiche. Il Tribunale ha evidenziato il ritardo significativo della Prefettura di Milano nel gestire le richieste di regolarizzazione, non solo dalla data di presentazione delle domande entro agosto 2020, ma anche rispetto alla scadenza dei 180 giorni stabiliti dal Consiglio di Stato. Questi ritardi prolungati hanno generato un grave inadempimento della Pubblica Amministrazione, costringendo migliaia di persone straniere a vivere nell’invisibilità sociale. Coloro che sono in attesa del permesso di soggiorno o della regolarizzazione non hanno la possibilità di stipulare contratti di lavoro, aprire conti correnti, effettuare l’iscrizione anagrafica e persino lasciare il territorio italiano per visitare le proprie famiglie. Le organizzazioni promotrici della class action considerano questa pronuncia del Tribunale Amministrativo Lombardo di fondamentale importanza per restituire i diritti violati. Esse auspicano che la Prefettura di Milano segua questa decisione e corregga la situazione, sperando che anche altre Prefetture inadempienti facciano altrettanto. La regolarizzazione, introdotta nel maggio 2020 dal Governo Conte II per le persone straniere impiegate in agricoltura e nel settore domestico, ha affrontato gravi criticità. A oltre tre anni dall’entrata in vigore dell’art. 103 D. L. n. 34/ 2020, molte richieste giacciono nelle prefetture ancora senza risposta. Questo ha portato alla presentazione di una class action pubblica anche verso la Prefettura di Roma, con un’udienza fissata al Consiglio di Stato per il 7 marzo 2024. Analogamente, un ricorso è stato presentato contro la Questura di Roma per i ritardi nell’emissione dei permessi di soggiorno, mentre un altro è in preparazione contro la Questura di Napoli. I ritardi gravi del Ministero dell’Interno nel rilasciare documenti essenziali per la vita quotidiana delle persone straniere hanno causato danni significativi, come la perdita del lavoro, la mancata iscrizione al Servizio sanitario nazionale e l’impossibilità di esercitare i diritti sociali collegati al permesso di soggiorno. Questi ritardi pongono le persone straniere in una condizione di marginalità sociale, diventando così materiale di propaganda politica. Per questo, le organizzazioni che di occupano dei diritti umani evidenziano l’urgente necessità di riforme nel sistema di regolarizzazione in Italia. Medio Oriente. La pace è possibile, riconoscere lo Stato di Palestina di Flavio Lotti* e Marco Mascia** Il Manifesto, 8 dicembre 2023 Domenica 10 dicembre, 75° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, si svolgerà ad Assisi una nuova Marcia della Pace per fermare le stragi a Gaza e nel resto del mondo. Ecco le proposte che saranno presentate nell’incontro dei costruttori di pace che si svolgerà prima della Marcia ad Assisi. È urgente fermare la carneficina a Gaza, fermare ogni altro spargimento di sangue in Palestina e Israele, liberare gli ostaggi, costruire una sicurezza duratura sia per il popolo israeliano che per quello palestinese, assicurare ai palestinesi la stessa dignità e gli stessi diritti che hanno gli israeliani, realizzare l’aspirazione del popolo palestinese a vivere in un proprio Stato indipendente. È urgente anche mettere fine a tutte le altre guerre che continuano nel Medio Oriente, fermare il traffico delle armi e promuovere un vero processo di disarmo nucleare e convenzionale del Medio Oriente, avviare un processo di vero sviluppo sostenibile e di costruzione della fiducia reciproca tra tutti i popoli della regione. Tutto ciò può essere messo in moto accogliendo immediatamente la Palestina come Stato membro delle Nazioni Unite. Il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e all’indipendenza e il progetto di una soluzione a due Stati per il conflitto israelo-palestinese sono stati chiaramente stabiliti dall’Assemblea generale dell’Onu in numerose risoluzioni, tra cui le risoluzioni 181 (II) (1947), 3236 (XXIX) (1974), 2649 (XXV) (1970), 2672 (XXV) (1970), 65/16 (2010) e 65/202 (2010), nonché dalle risoluzioni 242 (1967), 338 (1973) e 1397 (2002) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dal parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del 9 luglio 2004 (sulle conseguenze legali della costruzione di un muro nei Territori palestinesi occupati). A questo si deve aggiungere che lo Stato di Palestina è stato ammesso all’Onu in qualità di “Stato osservatore non membro” con la Risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale del 29 novembre 2012 ed è stato riconosciuto da 139 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite (la stragrande maggioranza della comunità internazionale). Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con il voto favorevole dei cinque membri permanenti, deve proporre all’Assemblea generale di ammettere immediatamente la Palestina all’Onu come “Stato membro” e impegnarsi a fornire sostegno politico, operativo e finanziario all’attuazione del Piano “due Stati per due Popoli”. La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve includere i seguenti punti: 1. l’istituzione immediata della Palestina come 194° Stato membro dell’Onu, con i confini del 4 giugno 1967, con capitale a Gerusalemme Est; 2. il rilascio immediato di tutti gli ostaggi israeliani a Gaza e dei palestinesi ingiustamente detenuti nelle prigioni israeliane; 3. il cessate il fuoco permanente di tutte le parti; 4. l’invio immediato di tutti gli aiuti umanitari indispensabili per salvare e curare la popolazione di Gaza; 5. il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza; 6. la costituzione e l’invio di una “forza di pace” dell’Onu in Palestina. L’approvazione di questa Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve essere accompagnata da una paziente quanto intelligente e determinata iniziativa di dialogo politico con tutte le parti. Israeliani e palestinesi devono essere aiutati ad accettare i compromessi necessari. L’Onu, con il deciso sostegno dell’Italia e dell’Unione Europea, si deve assumere la responsabilità di garantire la sicurezza sia d’Israele che della Palestina. L’invio in Palestina di una “forza di pace” dell’Onu sotto diretta autorità del Segretario generale può rispondere al bisogno di sicurezza di entrambi i popoli. Inoltre, la comunità internazionale, con un atto simbolico di grande forza, deve decidere di trasferire la sede dell’Onu a Gerusalemme trasformando per davvero questa città nella capitale della pace e della riconciliazione, una capitale per i due popoli e i due Stati, una città aperta a tutte le religioni e ai tutti i popoli di tutto il mondo. La comunità internazionale, riunita nell’Onu e nelle altre istituzioni internazionali democratiche, deve agire nell’interesse superiore della pace, dei diritti umani, della sicurezza internazionale nel mondo. L’Italia deve fare la sua parte, com’è serio e realistico fare, nella consapevolezza dei suoi limiti ma anche dei suoi interessi vitali, della sua prossimità e delle sue responsabilità. L’inazione di altri non può più giustificare la nostra. L’Italia può fare molto. Ma deve cambiare: smettere di essere di parte, assumere un ruolo attivo, propositivo e progettuale. L’Italia deve assumere un’iniziativa politica e deve operare coerentemente affinché venga fatta propria dall’Unione Europea. Per la realizzazione di questa politica, l’Italia può contare sul consenso della stragrande maggioranza dei propri cittadini e sull’impegno fattivo di un’ampia rete di gruppi, associazioni, Enti Locali e Regioni, attiva da più di trent’anni, ricca di relazioni, competenze, progetti ed esperienze con entrambi i popoli. Per questo deve agire come “sistema paese” con una strategia e un piano di lavoro integrati. La diplomazia dei popoli e delle città può arrivare dove i governi non arrivano e provare a costruire dal basso le condizioni di una pace che non può più attendere. A noi la scelta. Possiamo fingere di non sapere oppure guardare in faccia alla realtà. Possiamo schierarci con gli uni contro gli altri, oppure possiamo cercare di capire le ragioni di entrambi cominciando dalle vittime. Possiamo stare dalla parte del problema o cercare di essere dalla parte della soluzione. A noi la scelta. “La pace è possibile. Ci vuole buona volontà. La pace è possibile. Non rassegniamoci alla guerra! E non dimentichiamo che la guerra sempre, sempre, sempre è una sconfitta. *Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace **Centro Diritti Umani Antonio Papisca, Università di Padova Medio Oriente. La tenue separazione fra giustizia e vendetta di Ugo Tramballi Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2023 Alla Brown University, Rhode Island, hanno calcolato che in meno di due mesi gli israeliani a Gaza hanno ucciso lo stesso numero di civili morti in 20 anni di bombardamenti americani in Afghanistan. Questo, secondo il segretario alla Difesa Lloyd Austin, sta portando Israele “da una vittoria tattica a una disfatta strategica”. Austin sa di cosa parla, è un ex generale: vice di Centcom, il Comando strategico in Medio Oriente, e comandante delle forze in Irak. La sua previsione di una sconfitta strategica israeliana si fonda sulla teoria di un collega, il generale Stanley McChrystal che fu capo della missione in Afghanistan: “Insurgent math”, la matematica del ribelle. Per ogni vittima innocente, 20 sopravvissuti aderiscono alla guerriglia. È difficile calcolare cosa significhi questo a Gaza. Prima della guerra in un sondaggio di Arab Barometer il 67% dei palestinesi non aveva fiducia in Hamas. La settimana scorsa il 76 ne sosteneva l’aggressione a Israele. Quest’ultimo contesta il bilancio di circa 15mila vittime civili perché il ministero della Sanità che ne tiene il conto, è controllato da Hamas. Ma non sembra che la vice-presidente Kamala Harris, il segretario di Stato Antony Blinken, le Nazioni Unite, la Croce Rossa, le Ong che operano nella striscia dubitino del massacro in corso, mille morti in più o in meno. Dopo aver ordinato agli abitanti di abbandonare il Nord della striscia, ora gli israeliani vogliono che se ne vadano anche dal Sud: il nuovo obiettivo dell’offensiva. Un milione e 800mila civili di Gaza sono in cammino, avanti e indietro, senza sapere dove andare perché lungo i 360 chilometri quadrati della striscia non c’è più un posto dove andare. Immaginare un dopoguerra è un esercizio difficile; pensarlo con Hamas, impossibile. Solo il turco Recep Erdogan pensa che invece lo sia: ha sempre sostenuto il movimento dei Fratelli Musulmani e Hamas ne è la fazione palestinese. Ma la forbice fra una comprensibile necessità politica e il disastro umanitario di Gaza è sempre più incolmabile: la questione morale prevale. Non c’è diritto alla giustizia (quella rivendicata da Israele) che abbia margini così ampi da assomigliare a una vendetta. Giorno dopo giorno i toni dell’amministrazione Biden cambiano, diventando sempre più critici. Secondo un esperto citato dal New York Times, gli israeliani “stanno usando munizioni estremamente potenti in aree estremamente popolate: è la peggiore combinazione possibile di fattori”. Questo tuttavia non ha interrotto il costante rifornimento delle bombe usate su Gaza. Non è difficile per il crescente “Sud globale” accusare di doppio standard americani ed europei: riconosciamo agli ucraini quello che ai palestinesi non è concesso. Vladimir Putin è un paria, Bibi Netanyahu no. La battaglia per la difesa della democrazia che l’Occidente sta facendo in un mondo diffusamente ostile ai diritti civili, fatalmente ne risente. Il sospetto è che il sostegno al diritto israeliano di difendersi stia diventando un’involontaria sponda a Netanyahu: nonostante la guerra, i giudici stanno andando avanti nei processi nei quali è accusato di corruzione e tangenti. Più dura la guerra alla ricerca di una vittoria elusiva, più Bibi resta al governo. Medio Oriente. Sì, gli stupri di massa sono un crimine contro l’umanità di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 8 dicembre 2023 Il 7 ottobre centinaia di israeliane sono state violentate, rapite o uccise. Il corpo delle donne ancora campo di battaglia. Sono trascorsi due mesi e un giorno dal 7 ottobre. Quella mattina decine, probabilmente centinaia di donne israeliane sono state aggredite e violentate, uccise o rapite dai commando fuoriusciti da Gaza. Presto sarà possibile sapere quante. Corpi e storie, le commissioni di inchiesta cercheranno di ricostruire che cosa hanno subito. Anche l’Onu adesso promette un’indagine internazionale. Ma da settimane noi sappiamo già, benissimo, che nelle lunghe ore della mattanza è stato compiuto “un crimine contro l’umanità” così come viene descritto dalla Convenzione di Ginevra “se perpetrato sistematicamente”. È successo in tante guerre, forse in tutte, dal Ratto delle Sabine fino alla Bosnia, al Ruanda e al Darfur - anche se è vero che in questo lungo conflitto tra israeliani e palestinesi, dal 1948, non era mai successo: siamo dunque di fronte a qualcosa di inedito e terribile. Lo stupro di massa delle donne del “nemico”, il più brutale dei nostri giorni, da sempre il più letale degli “effetti collaterali” premeditati. Vorremmo qui, per una volta, parlare soltanto di loro. Delle ragazze ebree che stavano partecipando al Nova Festival, un rave pacifista nel deserto. Come delle donne, magari anziane e da una vita attiviste per il dialogo, abitanti dei kibbutz devastati. Delle bambine, atterrite e tenute in ostaggio, che sono tornate libere grazie alla trattativa, ma una volta “fuori” hanno continuato a sussurrare, a bisbigliare, quasi avessero perso per sempre la capacità di far sentire la propria voce in mezzo agli altri. Perché abbiamo esitato a prendere coscienza di queste violenze? Perché istituzioni internazionali e organizzazioni non governative - a braccetto con una parte consistente dell’opinione pubblica - hanno minimizzato, rimosso, a tratti negato? Physicians for Human Rights - un’organizzazione “moralmente impegnata a proteggere la salute di tutte le persone dal fiume al mare”, medici che curano palestinesi e israeliani, che stanno chiedendo un cessate il fuoco immediato perché “la nostra parte è quella delle vittime” - hanno messo insieme le prove delle violenze di genere commesse in quel sabato d’orrore. Ci sono i video. Quelli degli uomini di Hamas, pubblicati e ripuliti più o meno in fretta; quelli delle bodycam degli assalitori rimasti uccisi, recuperate e analizzate in Israele. Si sentono gli scambi tra terroristi che si accordano su chi stuprare e come. Ci sono le testimonianze di chi c’era ed è sopravvissuta, ha potuto vedere mentre era nascosta, ha sentito le voci e poi il silenzio. Sappiamo che cosa è successo, in parte. Sono stati recuperati corpi senza vita nudi, coperti di sperma, con le gambe e il bacino spezzati, le vagine lacerate e segni di mutilazioni genitali. Sappiamo di una ragazza, presa piegata e violentata in gruppo da miliziani in mimetica, finita con un colpo alla testa sparato da quello al quale era stato riservato l’ultimo turno. I seni asportati e usati per giocare tra complici. Sappiamo perché lo abbiamo visto anche noi direttamente - nelle prime immagini del 7 ottobre - di quelle ragazze portate verso Gaza, in tuta o in pigiama, con il sangue che colava tra le gambe. Abbiamo visto e memorizzato il corpo di Shani Louk, catturata al rave party, esibita in corteo, svestita e riversa sul pick-up, con le anche disarticolate, circondata da uomini urlanti, oltraggiata anche da chi - non potendo fare di più - ha voluto partecipare sputando sul cadavere. Il corpo delle donne - ancora - come campo di battaglia. Così strategico in diretta, ma spendibile nel tempo. Quasi sempre espunto dal conto ufficiale delle vittime di guerra. Sottovalutato, svalutato, fino a essere cancellato dai file che vengono scambiati sui tavoli della tregua. Dove di solito siedono soltanto uomini, in divisa o in grisaglia. Stati Uniti. Le suore azioniste di Smith&Wesson fanno causa ai produttori: “Basta armi d’assalto” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 8 dicembre 2023 L’azienda produce il famigerato AR-15, usato nella maggior parte delle stragi, e ha sede in Nevada, dov’è avvenuta l’ultima sparatoria. Le sorelle hanno comprato piccole quote azionarie. Quattro congregazioni di suore cattoliche hanno fatto causa al consiglio di amministrazione della Smith&Wesson per cercare di costringere l’azienda di armi a sospendere la produzione e la vendita di fucili d’assalto. Queste armi sono spesso usate nelle sparatorie di massa, 39 nel 2023, numero record negli ultimi 15 anni. La più sanguinosa in Maine, il 25 ottobre: 18 vittime a colpi di fucile d’assalto AR-15. La denuncia è stata presentata martedì in Nevada, dove l’azienda è legalmente costituita, nello stesso giorno e stesso Stato in cui è avvenuta l’ennesima strage: tre persone uccise all’università di Las Vegas, non è chiaro con quale arma, da un professore 67enne che aveva fatto domanda di assunzione ma non era stato scelto (tecnicamente non è considerata una “sparatoria di massa”, in cui si contano almeno 4 morti escluso l’attentatore). Le “Adrian Dominican Sisters” del Michigan, le “Sisters of Bon Secours” di Marriottsville in Maryland, le “Sisters of St. Francis of Philadelphia” e le “Sisters of the Holy Names of Jesus & Mary” dell’Oregon accusano i dirigenti di esporre la società a rischi di responsabilità legale e di violare intenzionalmente norme locali e federali. La particolarità del caso sta nel fatto che le suore fanno causa in quanto azioniste: è la prima causa intentata contro un consiglio di amministrazione per armi d’assalto. Hanno acquistato le azioni proprio per fare pressioni su Smith&Wesson, costringendola nel 2019 a redigere un rapporto sulla sicurezza, ma fallendo nel 2021 nel far sviluppare all’azienda una “politica dei diritti umani”. “Questi fucili non hanno altro proposito che l’omicidio di massa. Non sono armi per lo sport usate anche da membri delle nostre famiglie”, dicono le suore. Il loro avvocato traccia un paragone con gli oppioidi: “Come le aziende farmaceutiche sono state bastonate da cause civili e multe dopo anni di profitti per la vendita di pericolosi oppioidi, il consiglio di Smith&Wesson ignora deliberatamente l’esposizione della compagnia legata al marketing e alla vendita di armi create per omicidi di massa”. I produttori di armi sono stati protetti da responsabilità nelle sparatorie di massa da una legge del 2005. Ma l’anno scorso la Remington, rivale di Smith&Wesson, ha accettato di pagare 73 milioni di dollari alle famiglie delle vittime della sparatoria nella scuola elementare Sandy Hook. Gli Stati di New York, Illinois e California hanno adottato leggi che vietano i fucili d’assalto o rendono più facile far causa, ma la Corte suprema e altri Stati si sono mossi per espandere il diritto alle armi. Martedì al Congresso i repubblicani hanno bloccato una mozione per ri-autorizzare l’Assault Weapons Ban, approvato nel 1994 ma “scaduto” 10 anni dopo. “Preghiamo per la fine delle sparatorie di massa con AR-15”, affermano le suore.