Amore in carcere: Nordio inganna la Corte di Franco Corleone L’Unità, 7 dicembre 2023 Il Dap ha fatto ricerche sugli spazi per l’affettività, studi dimostrano che una sperimentazione è possibile già oggi. Ma il Ministero omette di dirlo alla Corte che chiedeva informazioni sui locali disponibili per incontri intimi tra i detenuti e i propri affetti. Dice invece che i progetti di edilizia penitenziaria del Pnrr non li prevedono. Confusione o un tentativo di condizionamento? Il 5 dicembre si è svolta la attesissima udienza della Corte Costituzionale dedicata alla questione del diritto delle detenute e dei detenuti a poter usufruire colloqui senza controllo visivo. Questa possibilità interessa il mondo della detenzione, uomini e donne e le famiglie, mariti, mogli, compagne e compagni che subiscono una orrenda limitazione degli affetti e delle relazioni intime. Il confronto tra il relatore, la difesa e l’avvocatura dello Stato è stato assai approfondito. Purtroppo vi è stata una nota preoccupante, in quanto il Ministero della Giustizia ha provocatoriamente segnalato alla Corte Costituzionale un documento sulla colpevole assenza nei progetti di otto nuovi padiglioni in altrettante carceri di spazi per l’affettività. La Corte aveva chiesto che il Ministero della Giustizia fornisse indicazioni sulla disponibilità di locali idonei per l’esercizio del diritto a colloqui senza controllo visivo. Il Gabinetto del Ministro ha parlato d’altro, cioè della costruzione di otto padiglioni per ampliare la capienza di otto carceri, finanziati con i fondi del PNRR che vedranno la luce nel 2026. Non ha citato la ricerca effettuata pochi mesi fa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sulla possibilità di spazi adeguati nei 189 Istituti penitenziari e sui costi per i necessari adeguamenti. Una magra figura motivata forse dalla volontà di dichiararsi impreparati a una novità straordinaria. In realtà le ricerche che sono state compiute in questi anni da varie associazioni dimostrano che è facilissimo ricavare quegli spazi già oggi nelle carceri italiane. Già venticinque anni fa, il direttore del Dap, Michele Coiro, chiese a tutte le direzioni di fornire un quadro delle possibili soluzioni. Quella documentazione è ancora disponibile. Nel 2021 il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, Giuseppe Fanfani, con la collaborazione della Fondazione Michelucci ha elaborato una ricerca sulle possibilità di individuare spazi per l’affettività nelle carceri toscane. Anche nel carcere di Udine in cui è in corso una importante ristrutturazione per aumentare spazi per socialità e attività trattamentali è previsto uno spazio per incontri che garantiscano la riservatezza e l’intimità. Il ministero della Giustizia ha compiuto un inaccettabile sgarbo istituzionale alla Corte Costituzionale censurando elementi che dimostrano che sarebbe realizzabile una immediata sperimentazione e una rapida messa a regime del cambiamento delle relazioni familiari. Il fatto è ancora più grave se lo scopo della informativa fosse quello di condizionare la scelta della Corte Costituzionale sulla base della impossibilità di applicazione del diritto costituzionale atteso da troppi anni. Il relatore, il giudice Massimo Petitti, ha illustrato con estrema precisione il ricorso presentato dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi per denunciare l’incostituzionalità delle norme che di fatto vietano l’esercizio di un diritto fondamentale che già la Corte Costituzionale nel 2012 aveva definito come esigenza reale e fortemente avvertita, lanciando un invito al Parlamento per legiferare. Questi undici anni sono trascorsi inutilmente e il monito della Corte è rimasto inascoltato, nonostante le proposte di legge presentate alla Camera e al Senato, anche da parte dei Consigli regionali della Toscana e del Lazio. Qualcosa è cambiato però nel mondo e in Europa solo l’Italia non ha una legge che garantisca un nocciolo significativo della persona, come gli Stati generali dell’esecuzione penale avevano definito la questione. Le pronunce del Consiglio d’Europa e del Parlamento europeo sono chiare ed esplicite. Daniela Palma e Alessio Mazzocchi, della difesa del detenuto di Terni che ha dato origine al nuovo caso, hanno illustrato le ragioni per un accoglimento del ricorso, citando l’importanza dell’Appello promosso dalla Società della Ragione, dal CRS e dalla Associazione Coscioni intitolato “Il corpo recluso e il diritto all’intimità”, redatto dal prof. Andrea Pugiotto e sottoscritto da più di duecento tra giuristi, avvocati, esponenti dei movimenti per i diritti. Vi era molta curiosità per l’intervento dell’Avvocatura dello Stato. Massimo Giannuzzi non si è limitato a chiedere una decisione di inammissibilità a causa di un insostituibile intervento legislativo, quasi come una clausola di stile, ma ha voluto affermare la fondatezza dei principi sostenuti nel ricorso e ha lamentato l’inerzia del Parlamento. Addirittura ha espresso il dispiacere per la richiesta di inammissibilità, affidandosi comunque alla saggezza della Corte per individuare una alternativa tra quelle suggerite nell’Appello. Questo intervento ha suscitato emozione per il suo coraggio civile. Una nota finale. È stata sottolineata l’importanza della norma (art. 19) dell’Ordinamento penitenziario minorile che può costituire la norma applicabile anche alla detenzione degli adulti. Per una evidente ragione, infatti negli Istituti penali per minori sono presenti anche soggetti fino a 25 anni di età, quindi sarebbe paradossale che godano di un diritto e nel momento di trasferimento in un carcere per adulti lo perdano. È diffusa la fiducia che la Corte Costituzionale non si limiti ancora a una sollecitazione al Parlamento ma determini una soluzione. “I detenuti mi dicono che è l’unico modo per umanizzare le carceri” di Angela Stella L’Unità, 7 dicembre 2023 Intervista a Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, tra i firmatari dell’appello per il riconoscimento all’affettività dietro le sbarre. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, è tra le centinaia di firmatari dell’appello elaborato dal costituzionalista Andrea Pugiotto per il riconoscimento del diritto all’affettività in carcere, su cui la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi a breve. Perché ha sottoscritto l’appello? Da quando faccio volontariato in carcere e da quando è nato Ristretti Orizzonti, è uno dei primi e più importanti temi che abbiamo affrontato. Ne discutiamo da 25 anni ma tuttora il diritto all’affettività non è garantito; stiamo ancora discutendo della sua. costituzionalità. Dal suo punto di vista privilegiato, cosa può dirci rispetto a quello che le comunicano i detenuti? Sono appena uscita dal carcere (al momento di ieri dell’intervista, ndr) e i detenuti mi hanno sommersa di domande, perché speravano che la Consulta avesse già deciso. Mi dicono che l’unico modo di umanizzare le carceri e salvare le famiglie che vivono all’esterno è quello di permettere loro un po’ di intimità in più, che non significa necessariamente compiere un atto sessuale. Vorrebbe dire vedere i propri cari senza il controllo della telecamera, senza essere circondati da altri detenuti con i propri parenti, sarebbe anche più facile scoppiare a piangere, esprimere dolore e sofferenza senza occhi indiscreti addosso. Invece come accolgono questa possibilità gli agenti di Polizia penitenziaria? Dipende. Una parte di loro, quando si è tirato fuori questo argomento, lo ha minimizzato purtroppo parlando di “celle a luci rosse”, spesso provocati dalle dichiarazioni dei loro sindacati di categoria. Ma non credo che questa sia l’opinione di tutti perché c’è una fascia sempre più consistente di agenti che hanno voglia di confrontarsi, di dare al loro lavoro non solo una connotazione diretta alla sicurezza ma altresì deve puntare ai rapporti umani, a partire dalla consapevolezza che il tema dell’affettività non può restare un tabù. È ottimista rispetto alla decisione della Consulta? Spero, anche in base agli ultimi pronunciamenti di questi anni, che la Corte Costituzionale accolga la questione sollevata da un magistrato così preparato e profondo come Fabio Gianfilippi Il giudice di sorveglianza, a differenza dei suoi colleghi, si occupa della persona e non del fatto e lui è riuscito a mettere in evidenza tutti gli aspetti importanti di questa questione. Auspico che arrivi una decisione positiva, anche perché è un periodo difficilissimo per le carceri. Infatti il sovraffollamento è in aumento e stiamo tornando ai tempi che portarono alla famosa sentenza Torregiani. Come invertire la rotta? Siamo ad oltre 60mila detenuti. Occorre smetterla di vedere come unica soluzione alle insicurezze e ai problemi della società l’aumento delle pene e il carcere. Questo abuso del diritto penale, per cui sembra che ad ogni evento di cronaca si inserisca nel codice un nuovo reato, non è accettabile. Nel nostro ordinamento ci sono già le pene e non sono affatto leggere. Bisogna invece prendere consapevolezza che se un detenuto accede alle misure o alle pene alternative al carcere ci rende tutti più sicuri. E poi occorrerebbe svuotare le carceri, attraverso percorsi guidati, dai reclusi che hanno pene o residui di pena. bassi. In generale qual è il clima all’interno delle carceri? I detenuti sono delusi o arrabbiati? Io percepisco un clima di grande delusione, paura, frustrazione perché sono anni che si parla di riformare il carcere ma nulla viene fatto, anzi si proclamano sempre di più slogan, sia da parte della politica che della società, come “buttare via la chiave” e “galera per tutti”. E poi vedo tanto disagio mentale, tanta sofferenza psichiatrica, soprattutto da parte di giovani, che manifestano spesso sentimenti di rabbia. Conosco detenuti appunto giovani che immagazzinando rabbia in carcere hanno accumulato nuove pene, rovinandosi ancora di più la vita. Il senso (illegale) di Travaglio per la pena di Michele Passione* L’Unità, 7 dicembre 2023 Prendendo le mosse dalla vicenda del duplice omicidio del gioielliere di Grinzane Cavour, le cui immagini agghiaccianti hanno fatto il giro del web, concionando come suo solito Marco Travaglio conferma la sua idea incostituzionale della pena (fino alla fine), alimentando ancora una volta quello che ipocritamente denuncia essere un pericolo: l’adesione della pubblica opinione alla giustizia fai da te. L’antidoto promosso nell’articolo, spacciato per “equilibrio e serietà”, è il solito: per evitare che la gente si armi, le pene scritte in sentenza dovrebbero essere “scontate fino in fondo”, cioè marcire in galera (come propugna una certa “destra becera che ci sgoverna”). Funzionale alla tesi dell’impazzimento collettivo, ovviamente, “il perdonismo della sinistra”, con richiamo alle visite (“un pellegrinaggio”) in carcere di parlamentari ad un detenuto ristretto al regime differenziato, che solo nella malcelata confusione del tribuno significa appiattimento sulla figura del condannato, piuttosto che esercizio di una prerogativa prevista. La notizia non è dunque che un sottosegretario alla Giustizia non possa ignorare la legge, violandola, ma che qualcuno incontri un detenuto, nel rispetto di un essenziale presidio di legalità. Ma siccome non basta, occorre mettere in fila i cattivi, chiamando in causa Cesare Battisti, che avrebbe ottenuto “sei anni di liberazione anticipata” - definita “un abbuono” - e potrebbe chiedere un permesso premio (si chiama così, anche se al nostro non piace). Che poi Travaglio ignori che per i reati commessi da Battisti occorrano requisiti ben più stringenti che il mero decorso del tempo “per farlo uscire” da parte del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Emilia (che non esiste) non è una novità. L’importante è dirla grossa, épater le bourgeois. Ed infine, il ripetuto uso dell’indecente neologismo (la “schiforma”), dietro al quale si cela la scarsa conoscenza (diciamo le cose come stanno). Se non sai, ti inforni, studi, approfondisci, ma spacciare la Giustizia riparativa con “quattro chiacchiere” con chi ti ha ammazzato un parente disvela, ancora una volta, il pregiudizio e il chiodo fisso del direttore, secondo cui la pena non può che essere il raddoppio del male. Non è una farsa l’ergastolo italiano (più di 1800 gli ergastolani, vaglielo a dire), ma piuttosto la sua conformità all’art. 27/3 Cost.; ma il Direttore può star tranquillo, ché infatti c’è qualcuno che ha già pensato a una bella modifica. “L’effetto di ammonimento e di moralizzazione prodotto dalla minaccia della pena... dissuadendo i consociati con la minaccia di una pena esemplare e senza chance di impunità per i criminali dal violare le norme dell’ordinamento”; così si legge nella relazione alla pdl (in)costituzionale d’iniziativa dei Deputati Cirielli, Lucaselli, Zucconi. A ciascuno il suo; ma a Travaglio piace così. *Avvocato Carceri: progetto di reinserimento Giustizia-Lottomatica-Elis di Marco Belli gnewsonline.it, 7 dicembre 2023 Favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso gli strumenti chiave della formazione e del lavoro. È questo l’obiettivo del progetto “Ripartenze: riprendiamoci il futuro!”, promosso da Fondazione Lottomatica in collaborazione con Ministero della Giustizia e in partnership con Elis, associazione non profit specializzata nella formazione e nell’avviamento al lavoro di chi è socialmente ed economicamente più svantaggiato. Ieri, in Via Arenula, la firma del protocollo d’intesa, che avrà durata di un anno. Il documento, che rappresenta la cornice istituzionale all’interno della quale saranno poi declinate concretamente le modalità operative del progetto, è stato sottoscritto dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo, dal capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità Antonio Sangermano, dal presidente di Fondazione Lottomatica Riccardo Capecchi e dall’amministratore delegato di Elis Pietro Cum. Presenti il Viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e l’amministratore delegato del Gruppo Lottomatica Guglielmo Angelozzi. La prima fase, sperimentale, del progetto si svolgerà nel territorio della Regione Lazio. Sarà rivolta alle persone condannate a pene detentive in uno degli istituti penitenziari regionali, ai soggetti sottoposti alla misura della messa alla prova, a sanzioni sostitutive ovvero a misure alternative alla detenzione e a quelli ammessi all’esecuzione penale esterna. La fase operativa nell’ambito del Ministero della Giustizia sarà demandata al Dap o al Dmgc, secondo i destinatari coinvolti nel progetto. Le persone ammesse al programma saranno formate sulla base di un apposito programma messo a punto da Elis. Al termine della formazione, verranno avviate al lavoro in una delle aziende partner del progetto, che saranno selezionate tra le centinaia che attualmente già aderiscono a Distretto Italia, la community di grandi e medie imprese creata da Elis per favorire l’occupazione stabile e di qualità nel nostro Paese. “L’articolo 27 della Costituzione non è, per il Ministero della Giustizia, soltanto un principio; deve essere una scelta capace di incidere sulla realtà dell’esecuzione della pena”, ha ricordato il Viceministro Sisto. “La firma di oggi costituisce un importante segmento di una linea che con continuità e determinazione porta a offrire alla parola recupero una concreta chance di risultati. L’attività lavorativa, senza alcun dubbio, è terreno privilegiato per poter dare all’esperienza di esecuzione della pena un significato costituzionalmente orientato”. L’Amministratore delegato di Lottomatica Angelozzi ha sottolineato che “la sostenibilità sociale è uno dei driver fondamentali che guidano le nostre scelte e le nostre azioni. In questo senso l’obiettivo è provare a dare un contributo alla costruzione del bene comune, che passa anche attraverso la formazione, il lavoro e la partecipazione. Tutti ingredienti presenti in questa iniziativa - ha proseguito Angelozzi - che sono davvero felice la nostra Fondazione abbia deciso di avviare. Un progetto che conferma l’impegno assunto da Lottomatica per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, in particolare per il lavoro dignitoso e la crescita economica e la riduzione delle disuguaglianze”. “Siamo entusiasti di contribuire a questo progetto in un campo, la formazione al lavoro, che da sempre rappresenta la nostra missione”, ha detto l’Amministratore delegato di ELIS, Cum. Il lavoro costituisce uno strumento essenziale di emancipazione personale, offre l’opportunità di mettersi al servizio degli altri ed è un elemento fondante di qualsiasi progetto di vita. Perché tutto ciò sia possibile, è necessario che a monte vi sia un’adeguata formazione che incroci le competenze dei lavoratori con le esigenze delle aziende. Vogliamo costruire opportunità di inserimento lavorativo, in grado di tradursi concretamente in occasioni di riscatto per tutte le persone coinvolte”. Al via “Riprendiamoci il futuro” per il reinserimento sociale dei detenuti di Cristina Gambini La Discussione, 7 dicembre 2023 “Ripartenze: riprendiamoci il futuro!” è il progetto promosso da Fondazione Lottomatica in collaborazione con il ministero della Giustizia e in partnership con Elis, associazione non profit specializzata nella formazione e nell’avviamento al lavoro di chi è socialmente ed economicamente più svantaggiato che ha l’obiettivo di favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso gli strumenti chiave della formazione e del lavoro. Il protocollo d’intesa che dà il via all’iniziativa è stato firmato a Roma presso la sede del Ministero della Giustizia e ha durata annuale. A siglare il documento, che rappresenta la cornice istituzionale all’interno della quale saranno poi declinate concretamente le modalità operative del progetto, sono stati il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo, il capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità Antonio Sangermano, il presidente di Fondazione Lottomatica Riccardo Capecchi e l’amministratore delegato di ELIS Pietro Cum. Alla firma erano presenti anche il Viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e l’amministratore delegato del Gruppo Lottomatica Guglielmo Angelozzi. Prima fase nel Lazio - La prima fase, sperimentale, del progetto si terrà nel territorio della Regione Lazio. Sarà rivolta alle persone condannate a pene detentive in uno degli istituti penitenziari regionali, a chi sia sottoposto alla misura della messa alla prova, a sanzioni sostitutive ovvero a misure alternative alla detenzione e ai soggetti ammessi all’esecuzione penale esterna. La fase operativa nell’ambito del ministero della Giustizia sarà demandata al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria o al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, secondo i destinatari coinvolti nel progetto. Le persone ammesse al programma saranno formate sulla base di un apposito e dettagliato programma messo a punto da ELIS. Al termine della formazione, verranno avviate al lavoro in una delle aziende partner del progetto. Queste ultime saranno selezionate tra le centinaia che attualmente già aderiscono a Distretto Italia, la community di grandi e medie imprese creata da ELIS per favorire l’occupazione stabile e di qualità nel nostro Paese. Raccolta delle adesioni - La fase di raccolta delle adesioni da parte delle aziende sarà effettuata già all’inizio del progetto, in modo che la selezione delle persone ammesse al programma e le attività di formazione siano in linea con il fabbisogno delle imprese. Dopo la firma del protocollo d’intesa, il cronoprogramma prevede nelle prossime settimane la definizione del modello e dei processi operativi, a cui seguiranno l’inizio della selezione dei candidati e l’attivazione dei percorsi di formazione. L’obiettivo finale è avviare al lavoro e inserire in azienda il maggior numero possibile delle persone ammesse al progetto. “Non importano i tempi: la separazione delle carriere si farà” di Simona Musco Il Dubbio, 7 dicembre 2023 Non importano i tempi, non importa chi sarà l’autore. La riforma della separazione delle carriere si farà. A garantirlo è Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia alla Camera. Secondo cui gli annunci del ministro Carlo Nordio e del presidente del Senato Ignazio La Russa - che di fatto declassano tale intervento - non devono preoccupare: la riforma, sottolinea, “è nel programma di governo di tutte le forze di maggioranza”. Alla faccia della guerra tra toghe e politica, alla quale, comunque, non crede. Anche se “sarebbe bello - aggiunge - se ognuno riuscisse a fare il proprio mestiere senza invadere altre sfere di competenza e senza guardare a ciò che fanno gli altri”. Sulla separazione delle carriere si prospetta uno slittamento in avanti, nonostante sia indicata come una priorità. Non teme che questo possa portare ad un suo insabbiamento? Sulla tempistica, essendo capogruppo in Commissione Giustizia e primo firmatario della legge, non mi pronuncio. Posso solo dire che è una riforma costituzionale che è nel programma non soltanto di Forza Italia, ma anche di altri partiti di maggioranza. Sono convinto che al di là del mese in più o in meno, che non è un fatto fondamentale, questa sia una riforma assolutamente da fare, perché è nel nostro programma. Sono molto fiducioso. Però a quanto pare c’è anche la volontà del ministro di presentare una proposta di legge in materia, come già accaduto rispetto ad altri temi. C’è però già un iter parlamentare avviato: non pensa che questo sia un modo per bloccare tutto? Anche questo non è un problema. Come sa ci sono tre proposte, una di Forza Italia, una della Lega e una di Azione. Se il ministro presenterà una proposta valuteremo cosa fare, ma non è importante di chi sia l’iniziativa, l’importante è che venga modificata la Costituzione e che vengano separate le carriere. Rispetto a tutte le reazioni della magistratura, anche in merito alle cosiddette pagelle, crede sia in atto una guerra tra politica e toghe? No. Forza Italia ha il massimo rispetto per la magistratura, io ne ho altrettanta. Non partecipiamo e non vogliamo partecipare a queste diatribe. Siamo dei parlamentari e abbiamo il dovere di scrivere le leggi. Non ci appassionano queste guerre, come le ha definite. Non so se ci siano o meno, da parte nostra sicuramente no. Abbiamo il massimo rispetto nei confronti di tutti gli ordini e i poteri dello Stato. Le parole del ministro Crosetto, però, e le polemiche che ci sono state in merito ad alcune decisioni giudiziarie fanno pensare il contrario… Il ministro Crosetto ha brillantemente riferito in Parlamento, quindi credo non ci sia niente da aggiungere... Io non posso essere l’interprete del suo pensiero, anche perché oltretutto è venuto in Parlamento a riferire in maniera abbastanza completa. Le riforme messe in atto finora non sono in linea con l’anima garantista che il ministro ha sempre manifestato. Nuovi reati, inasprimenti di pena… Questo non mette a disagio un partito come Forza Italia? Noi abbiamo anche portato avanti le nostre idee su tutto, come le modifiche sulle intercettazioni o la modifica sulla Spazzacorrotti, di iniziativa del nostro capogruppo al Senato Pierantonio Zanettin. Ovviamente ci sono delle anime diverse all’interno della maggioranza e su questo credo non ci siano dubbi. Ma noi abbiamo l’obbligo, come Forza Italia, di essere - come sempre - il presidio del garantismo. Siamo molto fiduciosi per il tempo che verrà, perché ad esempio in Senato abbiamo presentato degli interessanti emendamenti al ddl Nordio e siamo molto fiduciosi sulla loro approvazione. Per Forza Italia essere garantisti non significa pretendere che non si affermi la pretesa punitiva dello Stato, essere garantisti significa arrivare al verdetto finale attraverso un giusto processo, attraverso regole probatorie che siano di garanzia per l’imputato. Per noi è fondamentale il processo, non tanto i minimi e i massimi edittali della pena. Questo è un fatto relativo, anche perché nella quantificazione della pena interverrà sempre il giudice. E ci saranno tre giudici, due sicuramente quelli di merito, che si occuperanno di ciò. Per Forza Italia è importante arrivare ad un giudizio attraverso un processo giusto. Tornando alle pagelle, il Dubbio ha messo in evidenza che il sistema informatico attualmente disponibile non consente alle procure di mettere in relazione le informazioni, dunque si potrebbe trattare di una riforma che non porta da nessuna parte. Questo non vi preoccupa? Ci saranno dei decreti successivi, immagino, che andranno a sistemare il problema che ha evidenziato. Ma è importante il principio, se è giusto o sbagliato, non le problematiche tecniche che sottendono i principi. Vale in questo caso come vale per tutti. Secondo il procuratore Gratteri il rischio è quello di creare magistrati pavidi, che mirano più ad avere le carte in ordine che di fare giustizia. Crede sia un rischio reale? I magistrati sono persone all’altezza, capaci, che hanno superato un concorso. Non credo che si corra questo rischio. Un magistrato sa cosa fare, conosce le leggi. Non si tratta di osare o essere pavido, si tratta di applicare le leggi. Ho molta fiducia nella loro capacità di farlo. Cosa manca ancora alla giustizia per completare le riforme? Le nostre proposte riguardano soprattutto le regole del processo. Il processo deve essere giusto, dalle intercettazioni all’assunzione delle informazioni testimoniali, passando per le garanzie dell’imputato. Per noi è importante arrivare alle pene, e su questo dobbiamo essere chiari, con la certezza che le garanzie siano state rispettate, ovviamente anche nella fase delle indagini. Il garantismo è questo. Su questo ci stiamo molto impegnando. Quindi non temete alcuna opposizione giudiziaria? Verificheremo caso per caso. Siamo parlamentari e siamo un partito che ha delle tradizioni di garanzia e cercheremo di portarle avanti. Dobbiamo pensare al nostro lavoro. Sarebbe fondamentale - ma questo forse è uno Stato ideale - se ognuno riuscisse a fare il proprio mestiere senza invadere altre sfere di competenza e senza guardare ciò che fanno gli altri. Intercettazioni e fango, giustizialismo a targhe alterne di Danilo Paolini Avvenire, 7 dicembre 2023 Una celebre frase attribuita a Giovanni Giolitti recita: “Le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici”. Di certo è ciò che succede, nella nostra Italia, con le garanzie, di riservatezza e processuali, che dovrebbero essere un diritto riconosciuto di tutti i cittadini. Qui da noi, infatti, troppo spesso tali garanzie si invocano per difendere i propri amici, o i propri padroni, mentre nei confronti di tutti gli altri si possono allegramente violare, utilizzando poi il risultato di quella violazione come un manganello sulle teste dei malcapitati di turno. È un po’ quel che accade in questi giorni con una campagna stampa che, prendendo spunto da un procedimento penale in corso a Ragusa a carico dell’equipaggio della nave Mare Jonio dell’associazione di promozione sociale Mediterranea-Saving Humans, ha messo nel mirino la Conferenza episcopale italiana, alcune diocesi e anche questo giornale. Tutti soggetti che nel processo in questione non sono minimamente coinvolti, ma che hanno il “torto” di essere citati in conversazioni finite agli atti delle indagini e poi nel tritacarne mediatico. L’opinione che abbiamo sull’utilizzo delle intercettazioni sui media, ampiamente minoritaria nel nostro ambiente, è già nota ed è la stessa da anni: per fare cronaca giudiziaria non è necessario pubblicare paginate di conversazioni tratte da telefonate o da messaggi, in particolar modo se penalmente irrilevanti e se coinvolgono persone che non sono interessate dall’inchiesta di cui si parla. Anche perché, non di rado, la semplice trascrizione non rende il contesto, il tono o il senso di certe frasi. Ma tant’è, l’usanza - chiamiamola così - prosegue e, con tutta probabilità, proseguirà. Anche se il fango, una volta sparato fuori, non si può rimettere nel ventilatore. Ieri era in programma a Ragusa l’udienza preliminare del procedimento sulla Mare Jonio, che è poi stata rinviata a febbraio per un difetto di notifica: l’inchiesta si basa sull’ipotesi di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, con l’aggravante dall’averne tratto profitto, per il trasbordo di 27 naufraghi da un’imbarcazione mercantile avvenuto nel settembre del 2020. Ebbene, rovistando nel materiale raccolto dagli investigatori sono emerse le conversazioni in cui indagati e non indagati parlano di presunte donazioni della Chiesa cattolica a Mediterranea, frasi poi dettagliatamente pubblicate e commentate. E portate in primo piano rispetto al fatto oggetto dell’inchiesta penale, quasi a far pensare - ma sicuramente si tratta di un pensiero malizioso - che il bersaglio da colpire fosse un altro. Poco importa, insomma, se la Conferenza episcopale italiana non ha mai sostenuto finanziariamente Mediterranea. Poco importa, anche, se le diocesi che hanno effettuato le donazioni e che sono finite su un immaginario “banco degli imputati” lo hanno fatto nell’ambito di progetti molto più ampi che riguardano il tema delle migrazioni e che da sempre sono portati avanti nella massima trasparenza. Poco importa, ancora, se nessuno di questi soggetti - lo ripetiamo - è parte in causa nella citata vicenda giudiziaria. E pochissimo o nulla importa, a quanto pare, se quel materiale istruttorio non era pubblicabile. Di certo non è caduto dal cielo, con tanti saluti alle pretese “leggi bavaglio” denunciate da più parti. Niente di nuovo, purtroppo, nel Paese del garantismo interessato e del giustizialismo a targhe alterne. Caso Apostolico, Nordio “assolve”, ma annuncia la stretta sulla vita privata delle toghe di Liana Milella La Repubblica, 7 dicembre 2023 Gli ispettori di via Arenula hanno indagato sulla giudice di Catania e anche sui profili social del suo compagno. Sostengono che tutti i video lanciati dal leader leghista erano pubblici. Matteo Salvini “innocente” per i video contro la giudice Iolanda Apostolico. Erano pubblici. Nessuna “colpa” per la magistrata e neppure per il suo compagno nella vita. Però il Guardasigilli Carlo Nordio conclude l’indagine sulla giudice, che è anche per lui del tutto “non colpevole”, con l’annuncio che bisogna ripristinare un vecchio illecito disciplinare che vieta alle toghe, anche nella vita privata, di tenere comportamenti che possono “compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza”. L’aveva previsto nel 2006 l’ex ministro della Giustizia leghista Roberto Castelli, all’epoca del governo Berlusconi, quando riscrisse l’ordinamento giudiziario, ma fu subito soppresso nello stesso anno dal suo successore Clemente Mastella, Guardasigilli del governo Prodi, quando il nuovo ordinamento, tuttora in vigore, fu pubblicato. Per i non addetti ai lavori significa che se anche la toga va a fare una pizza con gli amici, e discute con loro a tavola, deve stare attento a quello che dice perché i commensali vicini potrebbero ascoltarlo e le sue parole potrebbero diventare un illecito disciplinare. Salvini “innocente” - Carlo Nordio, con una risposta scritta, replica al Senato a un’interrogazione dell’ex vice presidente Maurizio Gasparri, che nel pieno del caso Apostolico ha fatto una dozzina di dichiarazioni contro di lei invocando, nell’ordine, dalla punizione disciplinare alla radiazione dalla magistratura. Nella risposta il Guardasigilli dà ben quattro notizie. La prima: c’è stato, a tutti gli effetti, un puntuale accertamento su Apostolico e sulla sua vita privata. La seconda: gli ispettori di via Arenula hanno verificato cosa dicesse all’epoca anche il suo compagno Massimo Migrino. La terza: Apostolico non è colpevole perché nonostante le affannose ricerche non sono emersi suoi comportamenti “anti Stato”. La quarta: sicuramente è del tutto “innocente” il suo collega di governo Matteo Salvini perché i video anti Apostolico, come sostiene l’assistente informatico coinvolto nelle ricerche dallo stesso ispettorato, “precisa di avere potuto svolgere ricerche accedendo a informazioni di natura esclusivamente pubblica”. Quindi, secondo questa ricostruzione, non ci sarebbero video e file segreti conservati da qualche parte per colpire le toghe. Questa, ovviamente, è la versione di Nordio e dei suoi ispettori. Apostolico “non colpevole” - È un fatto però che proprio la Lega sia stata protagonista di una campagna durissima contro la giudice, colpevolizzandola per i video di cinque anni prima. Ma gli ispettori di Nordio sono costretti a scrivere che, dopo un’analisi al microscopio di quelle immagini, non emerge alcuna “colpa”. Perché, nel primo video - dove la magistrata viene inquadrata mentre partecipa a una manifestazione indetta dal vescovo di Noto a favore dei circa 200 migranti della nave Diciotti che Salvini, allora ministro dell’Interno, non voleva far sbarcare - Apostolico “appare rimanere in silenzio per tutto il tempo del filmato, e non è dato cogliere alcuna espressione visiva o gestuale interpretabile come manifestazione di adesione o di dissenso alla contestazione in atto; il magistrato appare in un frame muoversi da una parte all’altra, guardando ora la polizia ora il gruppo di manifestanti”. Queste sono le parole che Nordio consegna al Senato. Quanto al secondo video di pochi secondi - dice Nordio - “la dottoressa Apostolico è presente e sembra avvicinarsi alle forze dell’ordine sollevando il braccio destro e pronunciando parole che, tuttavia, non sono udibili, stante anche il soverchiante rumore di sottofondo, né comprensibili, né interpretabili sulla base del movimento labiale”. Tuttavia, sappiamo bene che anche questo video è stato presentato in chiave anti Apostolico. E siamo al terzo video reso pubblico con Apostolico cerchiata in rosso. Ma adesso Nordio dice che “la persona sembra applaudire, assieme agli altri manifestanti, allo slogan ‘siamo tutti antifascisti’ pronunciato da un gruppo di persone sempre, verosimilmente, in occasione dei medesimi eventi al porto di Catania. Le riprese, non particolarmente nitide e realizzate a una certa distanza dal magistrato, non consentono di individuare se Apostolico abbia o meno pronunciato lo slogan”. E se le prove non ci sono, in Italia la giustizia non consente né di mandare in carcere una persona, né tanto meno di mettere sotto inchiesta disciplinare una toga. Non contenti comunque gli ispettori vanno anche a verificare cosa c’è nei profili social del compagno di Apostolico Massimo Migrino, quasi che pure i suoi comportamenti possano essere addebitati alla giudice. Ma anche qui devono rinunciare perché ci sarebbe un like della magistrata su un’iniziativa anti Salvini del 16 agosto 2018 - “festa di piazza, si balla, si salta, tutti insieme. Allegria, energia, gioia, Fan Salvini” - ma Nordio scrive al Senato nella risposta a Gasparri che “non è possibile formulare una valutazione in termini di certezza in ordine all’autenticità della provenienza di tale like dal magistrato, tenuto conto che lo stesso post non è presente e visibile sul profilo social di Migrino”. Nessuna prova contro Apostolico - Dunque Nordio è costretto ad ammettere che non ci sono prove contro la giudice. Tuttavia annuncia, a partire da qui, la sua stretta sulla vita privata delle toghe, ipotizzando di inserire nell’ordinamento giudiziario l’illecito sul comportamento “privato” dei magistrati. Alle toghe sarà precluso partecipare a una manifestazione per la democrazia in Italia e applaudire. Dovranno stare attenti a eventuali discorsi in pubblico. L’occhio di via Arenula scruterà le loro parole se vanno a un convegno. Non potranno più scrivere sui social le loro osservazioni personali. In una parola: diventare magistrato vorrà dire rinunciare del tutto al diritto di cui gode un cittadino italiano. Anche se la Costituzione, in nessun articolo, detta una regola di questo tipo. Niente permesso a Battisti: parte l’assalto di Repubblica di Frank Cimini L’Unità, 7 dicembre 2023 Il quotidiano ha fatto trapelare le carte con le quali l’ex esponente dei Pac ha richiesto il beneficio per condizionare la decisione dei giudici. Su Battisti e Cospito il terrorismo dell’antiterrorismo. L’altro ieri mattina il quotidiano Repubblica ha dedicato una intera paginata per cercare di bloccare l’iter di una richiesta di permesso inoltrata da Cesare Battisti sulla base del fatto che il giudice di sorveglianza di Ferrara aveva riconosciuto all’ex esponente dei Pac 540 giorni di detenzione scontati in più. Il dato sommato alle detenzioni già subite tra Francia, Brasile e Italia cumula una reclusione di 10 anni che permette di accedere ad alcuni benefici tra i quali la possibilità di chiedere un permesso premio. La richiesta sarà valutata prossimamente e saranno i giudici a decidere la lunghezza e le modalità del permesso. L’articolo del quotidiano fondato da Scalfari ovviamente fa riferimento al fatto che l’eventuale concessione del permesso sarebbe una beffa per i parenti delle vittime. E al Tg Uno inevitabilmente c’è stata la passerella dei familiari. La repubblica del vittimario. Con un gioco di parole, in tutti i sensi. Va ricordato che Battisti nel percorso di giustizia riparativa (un modello per molti versi oscurantista e reazionario) che ha intrapreso ha chiesto di incontrare i familiari delle vittime anche se questa circostanza non è indispensabile per accedere ai benefici nell’ambito della mediazione penale. Dal carcere di Massa dove Battisti di recente è stato trasferito in modo che i parenti residenti a Grosseto possano fargli visita sono state fatte uscire le informazioni che Repubblica ha utilizzato per “scandalizzare” la pubblica opinione nella prospettiva che Battisti, condannato all’ergastolo per fatti di lotta armata avvenuti oltre 40 anni fa possa trascorrere qualche ora, perché di questo si tratta, fuori dalla prigione, nell’ambito del principio di risocializzazione per i detenuti. Con ogni probabilità nel carcere di Massa c’è qualcuno che cerca di fare carriera e si vende le notizie. In questo allarmismo generale in materia di terrorismo vanno ricordate le parole usate dal ministero della Giustizia per motivare sulle informazioni comunicate al sottosegretario Andrea Delmastro in merito alla detenzione dell’anarchico Alfredo Cospito. I funzionari del Dap spiegavano che quelle informazioni era state rubricate “a divulgazione limitata” in relazione a conseguenze di ordine pubblico. Addirittura era stato esplicitato il pericolo di attacchi alle strutture del ministero nell’ambito delle manifestazioni a favore di Cospito. Queste manifestazioni con la partecipazione di qualche centinaio di persone avevano portato a qualche scontro con le forze di polizia e alla rottura di qualche vetrina. Ipotizzare altri fatti molto più gravi e indubbiamente lontanissimi dalla realtà odierna, una repressione senza sovversione, è da irresponsabili e da persone in mala fede che mistificano anche al fine di accrescere il proprio ruolo e sentirsi più importanti. Sì alla retroattività delle pene sostitutive per ricorsi inammissibili, ma non ai patteggiamenti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2023 La norma transitoria che estende la novella ai processi pendenti in Cassazione alla data di entrata in vigore non va limitata al rigetto. L’applicazione retroattiva del nuovo regime delle pene sostitutive non è preclusa se il giudizio, pendente in Cassazione alla data di entrata in vigore della riforma Cartabia, si è concluso con l’inammissibilità del ricorso. Quindi, va riconosciuta la possibilità di domandarne l’applicazione al pari del caso in cui il ricorso sia stato rigettato. Non è, invece, ammessa la domanda al giudice dell’esecuzione per ottenere la sostituzione della pena detentiva se questa è frutto dell’accordo stabilito dalle parti col patteggiamento. La Cassazione penale con la prima sentenza, la n. 48579/2023, ha chiarito i principi in base ai quali non è possibile escludere dalla richiesta di sostituzione della pena chi si sia visto dichiarare il ricorso per cassazione inammissibile, pur sussistendo il dato temporale fissato dalla norma transitoria della Riforma. Infatti, trattandosi di norma sopravvenuta di fatto “sostanziale” in quanto relativa al percorso afflittivo dello sconto della pena, va seguito il principio del favor rei: cioè un’interpretazione che renda fruibile il beneficio. Per cui secondo la Cassazione vanno equiparati i casi dell’inammissibilità e del rigetto del ricorso. Quindi la previsione transitoria della riforma che ne consente l’applicazione ai giudizi pendenti in Cassazione alla data del 30 dicembre 2022 va estesa anche al caso del ricorso dichiarato inammissibile. Il punto da chiarire sta nel fatto che in caso inammissibilità del ricorso per cassazione, di fatto il rapporto processuale non si instaura e quindi, parte dei giudici ritengono che ciò escluda la pendenza del procedimento di legittimità, che nella norma transitoria della riforma è il presupposto previsto per l’applicazione retroattiva del nuovo regime delle pene sostitutive anche ai processi instauratisi prima del 30 dicembre 2022. In effetti, dice la sentenza, la norma transitoria retroattiva richiede esplicitamente solo che il procedimento sia pendente alla tale data e non fa differenze in base alla sorte dei ricorsi di legittimità. Con la seconda sentenza, la n. 48554/2023, la Cassazione spiega invece, come non sia possibile chiedere la sostituzione della pena patteggiata. La decisione mette al centro l’accordo tra le parti in sede di patteggiamento per poi affermare che anche prima dell’entrata in vigore l’imputato e il pubblico ministro potevano optare per tale alternatività in quanto si tratta di trattamenti sanzionatori già presenti nell’ordinamento in base alla legge 689/1981 al momento dell’entrata in vigore. Da cui l’intoccabilità dell’accordo in base alla recente norma transitoria sui procedimenti in corso che va interpretata come riferita al solo processo ordinario. Calabria. Intervista al Garante regionale dei detenuti: “No a vendetta sociale, basta a etichette” di Federico Minniti avveniredicalabria.it, 7 dicembre 2023 Il Garante regionale per i diritti dei detenuti, Luca Muglia, suggerisce una riflessione che coinvolge un po’ tutti e riguarda del linguaggio utilizzato per etichettare quanti vivono la condizione detentiva. Il Garante regionale per i diritti dei detenuti, Luca Muglia, suggerisce una riflessione che coinvolge un po’ tutti e riguarda del linguaggio utilizzato per etichettare quanti vivono la condizione detentiva. Superare la logica dello stigma è un buon viatico per favorire il fiorire di vite davvero nuove. Nei giorni scorsi si è tenuto il consueto Rapporto del Garante regionale per i diritti dei detenuti in Calabria sull’anno trascorso nelle carceri calabresi. Abbiamo voluto approfondire col Garante in carica, l’avvocato Luca Muglia, alcuni aspetti emersi dalla sua relazione in questa intervista. Carceri in Calabria, un resoconto in chiaroscuro. Focalizziamoci sulle luci: c’è uno sfondo valoriale che le tiene insieme? Direi di sì. Le carenze di organici (polizia penitenziaria, funzionari giuridico-pedagogici e mediatori culturali) recano danno alle condizioni delle persone detenute, aggravando non poco le situazioni di vulnerabilità. Il sistema penitenziario, però, prova a reagire e cerca di sopperire alle mancanze. Esiste poi un universo invisibile, sommerso, di persone di buona volontà le quali, a diversi livelli e su diversi piani, hanno preso a cuore il pianeta carcere spendendo la propria vita per i più fragili. Le difficoltà, specie quelle dei detenuti con patologie psichiatriche, costringono le varie professionalità a svolgere compiti e mansioni che non gli appartengono cui, tuttavia, riescono a far fronte ricorrendo a doti personali o ad una spiccata sensibilità. Tra le iniziative positive ci sono molte che fanno riferimento al mondo dell’istruzione e del lavoro. Ci può dettagliare meglio questi interventi? I progetti di istituto racchiudono un’offerta sufficientemente articolata. Buona l’attività di taluni corsi professionalizzanti volti all’acquisizione di competenze nel mondo del lavoro e dei diversi laboratori artigianali. L’offerta scolastica, pur con qualche lacuna, appare rafforzata. La proposta didattica dei Poli Universitari Penitenziari è ben strutturata. La varietà delle offerte formative assume una importanza fondamentale, direi decisiva. Quando alle persone detenute si offrono occasioni di formazione e di crescita i risultati non tardano ad arrivare. Lavoro, formazione, scuola e università rappresentano un terreno fertile in cui le probabilità che la persona in conflitto con la legge maturi una diversa percezione di sé sono oggettivamente più elevate. Nella Relazione annuale lei fa riferimento a un’interlocuzione avviata con la Conferenza episcopale calabra (Cec) all’inizio del suo mandato. In che modo, secondo lei, la Chiesa può sostenere i germogli di cambiamento nel contesto della comunità penitenziaria? Nel corso della mia audizione dinanzi alla Conferenza episcopale calabra ho proposto a monsignor Fortunato Morrone ed ai vescovi calabresi un rapporto di collaborazione in favore delle persone detenute volto ad assicurare un sistema di accoglienza e di accesso ai programmi di giustizia riparativa (autori/vittime di reato). In tale ottica le diocesi, le comunità parrocchiali e le Caritas possono fornire un contributo importante. Un ruolo significativo riveste anche la funzione sociale dei Cappellani che operano negli istituti penitenziari calabresi. Di tutto ciò ho parlato anche con monsignor Francesco Savino, delegato alla Pastorale penitenziaria della Conferenza episcopale calabra e vicepresidente della Cei. Mi auguro che, in futuro, si possa concertare un piano efficace di intervento. Altro tema importante è il cambiamento di narrazione sui detenuti e, in questo, conta molto anche il linguaggio utilizzato. Qual è lo sforzo necessario in questa direzione? Nei mesi scorsi ho attivato una campagna di sensibilizzazione tesa al superamento dei pregiudizi culturali e delle etichette che colpiscono i detenuti, coniando lo slogan “per un linguaggio non ostile dentro e fuori il carcere”. Occorre prestare attenzione al linguaggio, dalle relazioni di sintesi in cui viene illustrata la condotta del detenuto e il programma rieducativo alla terminologia adottata da mezzi di informazione e social. Le parole aiutano a cambiare, aggettivazioni infelici, luoghi comuni e stereotipi costituiscono un ostacolo ed alimentano una visione della realtà poco inclusiva in cui prevalgono i sentimenti di odio, di rancore o vendetta sociale. Alla presentazione della mia relazione annuale in Consiglio regionale era presente una rappresentanza di studenti del Liceo Scientifico “Da Vinci” di Reggio Calabria, dell’Istituto di Istruzione superiore “Familiari” di Melito Porto Salvo e dell’Istituto d’Istruzione Superiore “Pizi” di Palmi, che abbiamo invitato proprio con l’intento di coinvolgere le nuove generazioni sul tema carcere. Per i cristiani è iniziato il tempo dell’Avvento, che messaggio si sente di porgere ai detenuti e ai loro familiari in occasione delle ormai imminenti festività natalizie? Il messaggio è quello di stimolare una maggiore vicinanza e solidarietà alle tante sofferenze umane, esistenziali, fisiche e psicologiche. Nessuno è esente, ciascuno ha le sue prigioni e porta le sue catene. Se vogliamo che le persone che hanno sbagliato siano messe nelle condizioni di imboccare la strada del cambiamento serve un’inversione di tendenza. In ognuno di noi esiste il bene ma per “diventare ciò che siamo veramente”, come direbbe San Giovanni Paolo II, è necessario l’aiuto e il contributo di tutti. Ai detenuti e ai loro familiari auguro fin d’ora un Natale di pace e serenità, che possano trovare la vera luce nella loro vita. La Colletta Alimentare dietro le sbarre I detenuti delle Case Circondariali di Reggio Calabria e di Arghillà non si sono lasciati vincere in generosità. In occasione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare che si è tenuta sabato 18 novembre, i detenuti dei due plessi hanno risposto all’appello senza alcuna esitazione per contribuire anche loro alla raccolta di generi alimentari che si è svolta a livello nazionale. Un gesto a dir poco commovente perché anche in un luogo come il carcere si è data la possibilità di praticare la carità verso i più bisognosi ma soprattutto perché gli uomini e le donne ristretti, per ovvi motivi, vivono già in una condizione di disagio e in molti casi di ristrettezze anche economiche. Ma chi conosce bene l’ambiente carcerario sa bene che all’interno del carcere vige la regola elevata a un valore di aiutarsi gli uni gli altri che significa condividere quello che si ha con i propri compagni. Si arriva a condividere una semplice sigaretta o una bottiglia di acqua minerale fino a qualche genere alimentare o capo di abbigliamento. Carità, attenzione e solidarietà verso gli altri e generosità sono principi che nella maggior parte dei casi vigono nelle relazioni personali tra i detenuti. Abbondante è stata la raccolta dei beni alimentari per la Colletta Nazionale espressione della generosità dei detenuti e delle detenute che saranno devoluti, tramite il cappellano, al Centro di Ascolto per gli immigrati della Parrocchia di sant’Agostino. Pasta, riso, scatolame, olio, merendine, biscotti, caramelle e altri generi alimentari finiranno nelle case e nelle dispense delle famiglie indigenti della nostra città che fanno fatica ad arrivare a fine mese. Un grazie corale va ai detenuti e alle detenute dei due Istituti di Reggio Calabria e di Arghillà per il gesto di carità e di solidarietà che hanno dimostrato per questa iniziativa in coincidenza con il vangelo dell’ultima domenica dell’anno liturgico - Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo - che riguardava proprio le sei opere di misericordia corporale: avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito, ero forestiero e mi avete accolto, ero malato e siete venuti e visitarmi, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. Ma questa volta i carcerati si sono fatti prossimi ad una necessità esterna al carcere e la loro sensibilità è andata oltre le sbarre che li limita della loro libertà fisica ma che ha superato ogni aspettativa nella speranza che questo possa superare anche qualche pregiudizio nei loro confronti. Trieste. Il Garante regionale dei detenuti: “Nel carcere del Coroneo situazione allarmante” triesteprima.it, 7 dicembre 2023 Nel carcere del Coroneo, spiega Paolo Pittaro, “i detenuti sono 225 (fra i quali 27 donne e 128 stranieri) su una capienza di 150 posti, con un indice di sovraffollamento del 150 per cento. In Fvg”. “Allarmante la situazione nel carcere di Trieste, dove i detenuti sono 225 (fra i quali 27 donne e 128 stranieri) su una capienza di 150 posti, con un indice di sovraffollamento del 150 per cento”. Lo dichiara Il Garante regionale di diritti della persona, Paolo Pittaro che, a seguito dell’informativa diramata dal ministero della Giustizia, ha reso noti i dati relativi ai detenuti italiani e stranieri presenti e le capienze per istituto aggiornati alla fine di novembre. “Per altro verso - spiega Pittaro - il personale della polizia penitenziaria è ovunque sotto organico con carenze anche in quello amministrativo, specie contabile. Trascuriamo, in quanto diverso e più complesso, il discorso sugli educatori (formalmente: personale giuridico-pedagogico)”. Per quanto riguarda i dati regionali, spiega Pittaro, “il sovraffollamento carcerario è in costante aumento: attualmente, su una capienza nazionale (sui 189 istituti esistenti) pari a 51.272 unità, i detenuti presenti sono 60.116, con un indice del 117,2 per cento (e di cui 18.868 stranieri). I cinque istituti penitenziari del Friuli Venezia Giulia (Trieste, Gorizia, Udine, Pordenone e Tolmezzo) hanno una capienza complessiva pari a 475 unità, ma con una presenza attuale di 632 detenuti, con un indice del 133 per cento e 232 stranieri. Le statistiche complessive vanno comunque elaborate e vagliate nelle sue componenti”. “Il carcere di Gorizia - dettaglia Pittaro nella sua nota - conta 68 presenze (di cui 26 stranieri) su 53 posti, con una percentuale del 128,3 per cento”. Concludendo, però, Pittaro sottolinea anche un dato positivo: “Se quattro anni or sono dei cinque penitenziari uno solo aveva un direttore stabile di ruolo (quello di Tolmezzo), mentre negli altri quattro istituti i direttori erano titolari di altre carceri in Veneto e rivestivano la ‘reggenza’ di uno o più istituti penitenziari del Fvg, lentamente, dopo l’ assenza più che decennale di concorsi e grazie alla riforma Cartabia che ha rimesso in moto il meccanismo, le carceri hanno man mano ottenuto un direttore stabile, sicché dal 20 novembre 2023 ognuna delle cinque case circondariali della Regione ne ha uno titolare”. Avellino. Il Garante regionale: “Criticità sanitarie e mancanza di personale penitenziario” corriereirpinia.it, 7 dicembre 2023 “Ogni volta che vengo al carcere di Bellizzi Irpino (AV), mi ricordo di quando negli anni 80 ho iniziato qui la mia attività di volontariato. Lo dico per ricordare a me stesso il valore della continuità di chi si vuole occupare della comunità penitenziaria, fatta sia da detenuti che da detenenti. Se stanno bene gli uni stanno bene gli altri. In questo senso la carenza in organico di 84 unità di agenti di polizia penitenziaria, di psichiatri, di operatori sociosanitari, non consente di coniugare con efficacia il dettato costituzionale del reinserimento sociale dei diversamente liberi, citato all’art. 27 comma 3 della Costituzione, né il diritto alla salute delle persone che è un diritto fondamentale, così come scritto all’art. 32 della Costituzione”, così il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, all’uscita dalla sua visita dal carcere di Bellizzi Irpino dove ha anche svolto decine di colloqui sia nella sezione femminile che in quella maschile, accolto dalla nuova Direttrice dell’Istituto Laura Abruzzese e dalla Vice comandante Stefania Cucciniello. Insieme al Garante era presente anche il volontario Padre Marco Masi, sacerdote missionario passionista. Oggi nel carcere di Bellizzi Irpino sono presenti 558 detenuti, di cui 25 donne e 2 detenute semilibere. Il Garante Ciambriello così conclude: “Detenuti che hanno bisogno di psichiatra che non c’è, detenuti che hanno bisogno di visite mediche e specialiste che non vengono effettuate, detenuti che hanno bisogno di una Direzione sanitaria stabile che non c’è. Il rischio è che si entra in carcere perché si è commesso un reato e che si esca dal carcere avendo subito dallo Stato un reato o di mala giustizia o di mala sanità”. Bologna. “Pratello, spazi per la semilibertà”. Interrogazione sul carcere minorile Il Resto del Carlino, 7 dicembre 2023 È quella presentata dai senatori Casini, Manca, Zampa e Bazoli al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Quando avranno inizio nell’Istituto penale minorile del Pratello i lavori relativi alla sezione autonoma dedicata ai giovani detenuti in regime di semilibertà, secondo l’articolo 48 dell’ordinamento penitenziario? È quanto chiedono in un’interrogazione indirizzata al Ministro della Giustizia Carlo Nordio i senatori Pierferdinando Casini, Daniele Manca, Sandra Zampa e Alfredo Bazoli. Interrogazione dove si spiega che l’Ipm ‘Pietro Siciliani’ è composto da una sezione unica maschile, che si articola in due reparti speculari sviluppati su un piano, e ha una presenza media giornaliera di 40 ragazzi, raggiunta dopo la riapertura di alcuni locali danneggiati dal sisma del 2012. “Attualmente - si legge nell’interrogazione - e come già avvenuto in passato, nell’Istituto sono presenti alcuni ragazzi che hanno maturato i requisiti per poter essere ammessi alla misura della semilibertà. Secondo quanto disposto dall’articolo 48 il regime di semilibertà consiste nella concessione di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per attività utili al reinserimento sociale. I condannati e gli internati ammessi sono assegnati in istituti o sezioni autonome di istituti ordinari. La mancanza di una sezione autonoma ha avuto negli anni pesanti ricadute sui giovani detenuti, ostacolandone nei fatti la possibilità di poter usufruire della predetta misura”. E ancora: “Il piano nazionale per gli investimenti complementari al Pnrr prevede lo stanziamento di 30,6 miliardi di euro. In particolare, per la Giustizia, sono stati stanziati 132,90 milioni di euro, suddivisi in due sub-investimenti. Gli interventi del sub-investimento 2 pari a 48,9 milioni di euro sono stati destinati a istituti di alcune città e riguardano l’adeguamento strutturale, l’aumento dell’efficienza energetica e interventi antisismici su quattro complessi, tra questi l’Istituto Penale per Minorenni Pietro Siciliani di Bologna. Tuttavia non si hanno ancora notizie in merito alla costruzione di un’apposita sezione da destinare ai detenuti in regime di semilibertà nell’ambito dei predetti investimenti”. Verona. La lettera dei detenuti di Montorio: “In carcere Turetta è trattato come noi” Corriere del Veneto, 7 dicembre 2023 “Filippo Turetta non è un carcerato vip”. I detenuti del carcere di Montorio scrivono ai giornali per smentire le notizie di “proteste” per un presunto trattamento di favore nei confronti del ventiduenne padovano. “Vogliamo precisare il disgusto nell’aver visto “giudizi in diretta” prima che Filippo o fosse sentito dal pm, e senza rispetto dei genitori, colpiti da violenza psicologica”. Lo scrivono in una lettera i detenuti della sesta sezione-infermeria del carcere di Montorio, dov’è rinchiuso Filippo Turetta. “Non c’è stata alcuna protesta da parte nostra - aggiungono, riferendosi a notizie di stampa rilanciate anche dal governo - per la consegna dei libri dovuti al detenuto Turetta. Tenendo conto che è indagato per un reato diverso dal nostro, la popolazione carceraria non avrebbe acconsentito ad agevolazioni di favore rispetto ad altri”. Continuano i detenuti: “Non sono stati colpiti solo i genitori di Filippo in prima persona, ma tutta l’opinione pubblica, che non vorrebbe mai leggere di queste terribili vicende, solo l’onnipotente - è scritto ancora - sarà in grado di giudicare e perdonare, sempre se il responsabile avrà pieno pentimento. Un essere umano non può dare giudizi prima della chiusura delle indagini”. Fonti ben informate dicono che i detenuti di Montorio sono consapevoli dello stato psichico grave in cui si trova il giovane, e in queste ore stanno cercando di preservarlo da notizie che potrebbero aggravare il rischio che tenti il suicidio in cella. Per questo evitano di alzare il volume dei tg che parlano di Giulia e di sottoporgli articoli di giornale sull’omicidio. Milano. L’Ambrogino d’Oro a Giacinto Siciliano, direttore del carcere di San Vittore di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 7 dicembre 2023 “Dedico questa medaglia all’agente De Rosa rimasto ferito tre mesi fa. È un riconoscimento al lavoro di tutta la squadra. La struttura è sempre sovraffollata, aumentano i disturbi mentali”. “Nel carcere troviamo una rappresentazione di ciò che la città produce di negativo: uno spaccato di marginalità, una concentrazione di problemi psichiatrici (in aumento), dipendenze, fragilità. Ma per uscire, in tutti i sensi, per far sì che le persone dietro le sbarre tornino alla città, c’è bisogno del contributo della città stessa. Ecco, l’Ambrogino d’Oro per me vuol dire questo: un riconoscimento per il lavoro svolto finora, che è un lavoro collettivo, e un invito a tutti a partecipare a questo processo, perché il carcere non è “altro” rispetto a Milano ma ne è parte”. Lo sottolinea Giacinto Siciliano, da 6 anni direttore della Casa circondariale San Vittore, che domani riceverà l’Ambrogino d’oro (su proposta del consigliere di Fdi Enrico Marcora). Che cosa rappresenta per lei questa medaglia? “A titolo personale è un riconoscimento importante. Io sono originario di Lecce ma vivo a Milano da 30 anni e sicuramente mi fa molto piacere ottenere la massima onorificenza. Soprattutto, però, è un riconoscimento per il lavoro non solo mio ma di un’intera squadra: San Vittore è una realtà complessa, è come un quartiere; una macchina che funziona grazie a centinaia di persone: circa 500 agenti di polizia penitenziaria, una quarantina di dipendenti amministrativi più i professionisti del comparto sanitario e decine di volontari di associazioni. L’Ambrogino è per tutti coloro che lavorano, invisibili. Tra i tanti cito Carmine De Rosa, l’agente di 28 anni rimasto gravemente ferito mentre tentava di fermare un detenuto in fuga dall’ospedale San Paolo lo scorso 21 settembre. Dedico l’Ambrogino a lui, che incarna lo spirito di tutto il gruppo”. Difficile gestire una struttura dove la capienza viene abbondantemente superata? “È complicato. Cerchiamo di fare del nostro meglio e ci riusciamo collaborando e creando un clima familiare. Al momento abbiamo 1.030 uomini e 80 donne in un luogo con capienza massima di 850 persone. In carcere arriva generalmente chi si trova ai margini, chi è in difficoltà. E i numeri alti certamente rendono più difficile seguire tutti”. Quali sono le difficoltà principali? “Ultimamente sono aumentate le persone con problemi psichiatrici. I servizi mirati non mancano ma, se i numeri sono alti, la qualità dell’intervento chiaramente diminuisce. Abbiamo 450 detenuti con problemi di dipendenza certificata e 250 ragazzi sotto i 25 anni in carcere. E poi la maggioranza (700) è di origine straniera, cosa che rende più difficile comunicare e pianificare un percorso. C’è anche da mettere in conto che la permanenza a San Vittore è piuttosto breve: la media è di 3, 4 mesi al massimo, perché gestiamo prevalentemente imputati in attesa di giudizio, che dopo il processo, se condannati, vengono trasferiti altrove. La maggior parte è legata alla criminalità spicciola”. Qual è il suo desiderio, per San Vittore? “Che sia sempre più parte di Milano. È il carcere storico, l’unico in centro città, e questo è importante perché i cittadini passando lo vedono ed è più facile anche creare un rapporto, un ponte tra dentro e fuori (io sono stato anche direttore della Casa circondariale di Opera, ed era molto più difficile instaurare un legame con il territorio). San Vittore favorisce la partecipazione: apriamo le porte durante eventi come Bookcity e per la Prima diffusa della Scala. Lo faremo anche quest’anno. Tra l’altro, San Vittore ha aperto la strada, 12 anni fa, a quella che poi è diventata una tradizione estesa in più quartieri”. Napoli. Lazzarelle all’istituto Grenoble: “Dal carcere alla buvette” di Mariangela Barberisi Il Mattino, 7 dicembre 2023 La Francia sempre più vicina alle donne napoletane grazie alla sensibilità della console generale di Francia a Napoli, Lise Moutoumalaya che ha dato il via a una cooperazione con le Lazzarelle, il progetto che impegna alcune detenute del carcere di Pozzuoli tra caffè e torte e che, per il mese di dicembre, ha messo a disposizione la buvette che si trova all’interno dello storico Palazzo Grenoble. “Ho scoperto il lavoro di questa cooperativa di sole donne - ha raccontato Moutoumalaya - quando la loro presidente ha ricevuto la nomina a Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Ho voluto incontrarle al bistrot nel cuore di Napoli e ho avuto modo di assaggiare prodotti buoni e di ottima qualità. Per me è importante dare sostegno alle donne e sono orgogliosa di aver sposato la loro filosofia. Abbiamo iniziato a cooperare durante la rassegna cinematografica al femminile e spero di proseguire anche in futuro”. La Cooperativa sociale Lazzarelle produce caffè artigianale seguendo l’antica tradizione partenopea all’interno del carcere femminile di Pozzuoli. Con il tempo è nata poi l’idea di portare il lavoro delle detenute anche fuori le mura del carcere, inaugurando così il bistrot aperto alla città all’interno della Galleria Principe, realizzando doppia mission: dare il via ad una piccola impresa in grado di creare indotto e sostenere le donne che concludono il proprio percorso detentivo. “Con la console abbiamo trovato un’intesa fin da subito - ha spiegato Imma Carpiniello, presidente della Cooperativa Lazzarelle - ha condiviso con noi la nostra politica femminista. Per noi è fondamentale lavorare per dare alle detenute una possibilità di scelta, formazione, autonomia. Il traguardo ultimo è far lavorare le detenute, prepararle e trovare loro contratti di lavoro”. Ed è in questa direzione che va la collaborazione con il Consolato generale sia per far conoscere il progetto Lazzarelle e supportare il reinserimento sociale e lavorativo delle donne sia per incrementare la promozione dei prodotti dell’economia femminile. “In queste settimane - ha poi rilanciato la console francese - vorremmo condividere le ricette tipiche francesi e dare loro la possibilità di scoprire nuove culture”. Valorizzazione del territorio e sostegno anche alle piccole realtà, Lazzarelle infatti acquista i grani di caffè da una cooperativa che promuove progetti di cooperazione con i piccoli produttori, si procede poi alla lavorazione del caffè senza aggiunta di additivi, rispettando i tempi naturali di preparazione dell’antica scuola artigiana napoletana e in vista delle festività hanno lanciato una serie di idee regalo a scelta tra tanti tipi di caffè in confezioni regalo con all’interno tazzine e piattini dipinti a mano da un ceramista di Vietri e ancora tra le proposte, c’è sempre il caffè protagonista indiscusso, l’artigianato campano ma in aggiunta una tovaglietta della NewHope la cooperativa che impiega donne immigrate che vogliono integrarsi nel territorio. Numerose dunque le collaborazioni promosse dalla cooperativa dal 2010, con enti e associazioni. Roma. Detenuti romani al lavoro per Casa rifugio Telefono Rosa ansa.it, 7 dicembre 2023 Pronte due t-shirt per raccolta fondi contro violenza di genere. Contro la violenza sulle donne e i femminicidi si leva una voce dal carcere: l’associazione Made in Jail ha coinvolto i detenuti dei corsi di serigrafia di tre Istituti di pena romani - Rebibbia, Regina Coeli e Terza Casa - nella realizzazione di due t-shirt contro la violenza sulle donne la cui vendita andrà a finanziare interamente una casa rifugio per donne vittime di violenza nel II Municipio di Roma del Telefono Rosa, l’associazione che dal 1988 è impegnata contro la violenza di genere e nella protezione delle donne vittime e dei loro figli. L’iniziativa, che intende contribuire nella sensibilizzazione su un tema di forte e drammatica attualità, mira anche a lanciare culturalmente il messaggio che - come spiegano i promotori - “anche dal carcere può nascere un contributo ad una battaglia sociale così importante e così sentita da tante persone detenute”. Il progetto verrà presentato ufficialmente sabato 16 dicembre in occasione del lancio del progetto educativo contro ogni genere di violenza e come contrasto alla criminalità rivolto alle scuole di Roma e del Lazio, organizzato da Made in Jail e dalla società di comunicazione Numidio, che si terrà alle 16.30 al Polo Educamedia, in Viale dei Salesiani 19. Mail in Jail è un’associazione che da 35 anni aiuta le persone detenute a reinserirsi nel tessuto sociale, culturale e lavorativo con i suoi corsi di stampa serigrafica in carcere. Rovigo. Giustizia riparativa per la prof impallinata. Mediazione penale agli studenti indagati di Antonio Andreotti e Natascia Celeghin Corriere del Veneto, 7 dicembre 2023 Proposta per evitare il processo ai tre allievi coinvolti negli spari alla docente del “Viola Marchesini” Gli avvocati della parte lesa: “Andremo all’incontro ma l’idea è quella di procedere con la querela”. In corso tentativo ufficiale di mediazione penale per i tre giovani studenti che l’11 ottobre 2022, all’epoca tutti quattordicenni e in Prima superiore, colpirono al volto la docente di Scienze e Biologia Maria Cristina Finatti. La professoressa fu raggiunta da due spari di una pistola ad aria compressa durante una lezione in una classe dell’istituto di Istruzione superiore “Viola-Marchesini” di Rovigo. A immortalare il tutto un video girato da uno dei tre ragazzi, diffuso sui social e diventato virale. Un caso che ebbe enorme clamore mediatico, anche a livello nazionale e che innescò una querela della docente per lesioni, atti persecutori e diffamazione a mezzo social. L’indagine della Procura minorile di Venezia nei confronti dei tre studenti è ancora aperta e, come sempre in questi casi, non sono note le contestazioni penali mosse. Nella procedura proposta alla Finatti il mediatore incontrerebbe la professoressa (avvocati Tosca Sambinello e Nicola Rubiero) perché, si legge nel testo presentato alla docente, “racconti quanto vissuto e poi partecipi ad un eventuale e successivo incontro di mediazione”. Gli obiettivi della procedura, come si legge nel sito Internet del ministero della Giustizia, sono di criterio riparativo. L’autore del reato viene stimolato al confronto con le conseguenze delle sue azioni. La vittima viene contattata, informata, sostenuta non alla fine del processo burocratico, ma lungo tutto il percorso giudiziario, fin dal momento in cui ha subito il reato, essendo messa così nella condizione di conoscere e capire. Per la società, vengono promossi valori e modelli nuovi, volti a superare la contrapposizione ideologica e morale fra reo e vittima. Cauti gli avvocati Sambinello e Rubiero che assistono Maria Cristina Finatti. “Andremo a Mestre all’incontro proposto e l’insegnante sarà ascoltata, anche se in linea di massima l’idea è quella di andare avanti con la querela. Siamo soddisfatti però che il Tribunale ha dimostrato interesse per la denuncia, mostrando attenzione agli atti di bullismo che l’hanno vista coinvolta”. Certo, conclude il legale “se i ragazzi dovessero dimostrare ravvedimento o pentimento, può essere che ritiriamo la querela”. Quella mattina dell’11 ottobre dell’anno scorso, pare per una sfida social tra alcuni studenti, vennero sparati due colpi che colpirono al volto la Finatti con tanto di ripresa col cellulare della “performance”. Scattò d’ufficio una denuncia per interruzione di pubblico servizio a carico dei tre 14enni ritenuti dalla Procura dei minori autori del fatto. La docente poi l’8 gennaio scorso decise di querelare tutta la classe per percosse e diffamazione a mezzo social. Le scuse collettive alla docente arrivarono a fine gennaio, ma non vennero accettate dalla docente che le ritenne “forzate”. Finatti, dopo il fatto dell’11 ottobre, venne sollevata dall’insegnamento in altre due classi del biennio oltre alla Prima teatro dell’episodio. Lo scorso marzo la docente venne sentita dalla Settima commissione Cultura, Istruzione pubblica, Ricerca, Spettacolo e Sport del Senato, invitata in audizione incentrata sul tema delle violenze a scuola alla presenza del ministro dell’istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. A fine anno scolastico bocciato, per scarso rendimento, solo lo studente che aveva portato a scuola la pistola. Promossi gli altri due, anche con voto positivo in Condotta. Giustizia, l’analisi di Barbano: “Nomine e intercettazioni, ora il sistema va cambiato” di Adolfo Pappalardo Il Mattino, 7 dicembre 2023 Non è solo quel singolo episodio in sé, quanto capire se il fenomeno sia riuscito ad arrestarsi. Parliamo del famigerato incontro romano all’hotel Champagne di Luca Palamara con Cosimo Ferri, Luca Lotti e cinque componenti del Csm: al centro della discussione la nomina del nuovo procuratore di Roma. Ma più complessivamente si discuteva del risiko dei vertici delle Procure italiane. Ruota attorno a quest’episodio, e alla domanda iniziale di cui sopra, il libro di Alessandro Barbano, ex direttore del Mattino e oggi condirettore del Corriere dello Sport (“La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana”, edito per i tipi della Marsilio) presentato ieri al Circolo dell’Unione a Napoli. A discuterne, oltre all’autore e all’introduzione del sindaco Gaetano Manfredi, Francesco de Core, direttore del Mattino, Marco Demarco, editorialista del Corsera, la giornalista e scrittrice Titti Marrone, il filosofo Massimo Adinolfi e l’avvocato cassazionista Vincenzo Maiello. Un libro che mette a nudo le derive del sistema giustizia e che vuole scarnificare e censurare certi arbitrii della magistratura. Che sono davvero terminati?, è la domanda che si snoda in tutto il saggio di Barbano. “Barbano è un cantore civile dell’etica della Costituzione italiana. Questa vicenda non può ridursi al singolo episodio di una cena con i cinque protagonisti: dietro c’è il racconto di ciò che è avvenuto per le scelte decisionali per i vertici delle più importanti procure italiane. È il racconto delle miserie, delle involuzioni che caratterizzano la fase di scelta dei procuratori della Repubblica. È la decadenza dei valori costituzionali”, spiega l’avvocato Maiello. “Un saggio pungente che dovrebbe indignare tutti per quello che racconta attraverso fonti inedite. Sono passati 4 anni e non mi sembra che ci siano state modifiche sensibili in certi atteggiamenti della magistratura. A cominciare dal correntismo esasperato e le guerre tra due gruppi. Come accadde per la procura di Roma con lo scontro tra una cordata di destra e una di sinistra di magistrati per decidere il nuovo vertice degli uffici giudiziari”, fa notare amaramente il filosofo Massimo Adinolfi. De Core sottolinea, invece, come il lavoro di Barbano nasca “per gemmazione di un altro libro. Ma questa vicenda era troppo ghiotta dal punto di vista giornalistico: naturale che Alessandro Barbano si sia dedicato a questa storia, raccontandone tutti i dettagli”. Poi si entra nei dettagli della vicenda che sconvolse, 4 anni fa, la magistratura italiana facendola tremare sin dalle sue fondamenta. “Grave sconcerto e riprovazione per quanto accaduto”, tuonò non a caso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella invocando una riforma del Csm, quando quel “complotto” finì sotto i riflettori. “In questa storia c’è un dato non trascurabile: il trojan ha riportato questa conversazione. Il giorno dopo, però, la cena che vede insieme, tra gli altri, Palamara e Pignatone, non viene registrata: operò allora qualche manina?”, si domanda invece de Core che sottolinea “le liturgie e i tempi del Csm per le nomine degli uffici giudiziari più importanti. E oggi, con questo libro, si torna a parlare di vicende che hanno fatto scalpore anche per il rapporto conflittuale tra politica e magistratura”. Il caso dell’hotel Champagne ha portato alla individuazione di Palamara - all’epoca dei fatti indagato a Perugia - come un colpevole assoluto, radiato poi dalla magistratura, ma anche alla miniaturizzazione delle altre responsabilità. Di chi, insomma, con l’ex giudice, intavolava accordi su propositi lottizzatori. “Un lavoro complesso, questo libro, che pone più temi. Non solo il caso Palamara, ma quello delle intercettazioni e quello del rapporto tra i magistrati e la carta stampata. Aprendo l’autore una serie di fronti di discussione che hanno al centro i poteri forti di questo Paese. E senza avere alcuna paura”, ragiona, invece, Demarco. Infine l’autore, Barbano che premette: “Un libro sicuramente scomodo, ne sono consapevole ma questa storia meritava di essere raccontata in tutti i suoi risvolti”. Poi aggiunge: “La Procura di Roma vale tre ministeri, un ruolo di un peso enorme su cui si fanno accordi a tavolino: questo racconta la vicenda dell’hotel Champagne. Credo però di aver dimostrato, in questo libro, che le intercettazioni non sono la verità ma un magma scandalistico che può portare a risvolti enormi. A cominciare dalla morsa che ha stretto i protagonisti dell’incontro, condannandoli alla gogna”. Teatro. La forza delle storie sbagliate: l’Amleto di Stefano Te con attori detenuti di Giuseppe Distefano exibart.com, 7 dicembre 2023 Stefano Te porta in scena un Amleto acuto, capace, essenziale, con attori professionisti e detenuti della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia: il debutto al Teatro delle Passioni di Modena. “La Danimarca è una prigione”, dice Amleto: e l’involucro della messinscena del regista Stefano Te con all’opera un gruppo di attori detenuti della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, affiancati da alcuni attori professionisti, è uno spazio scuro, un palazzo austero di scale, pareti e piani neri sfalsati che si intersecano tra loro fino a confondersi. È, il Castello di Elsinor, il luogo dove si tessono le trame della tragedia scespiriana, dove le parole che risuonano portano in sé la consapevolezza di una condizione fisica ed esistenziale “altra”. E sono, ancora, diversi passaggi del grande testo di Shakespeare, a dare una particolare temperatura emotiva a questo spettacolo, notevole di visioni e straziante di pensiero, che va al cuore delle questioni con un linguaggio semplice, privo di retorica, dove le parole pronunciate arrivano dirette portando la forza della verità di uomini segnati da storie sbagliate di cui pagano le azioni e le conseguenze. Emblema delle inquietudini dell’uomo moderno, di angosce, ossessioni e visioni, Amleto lo è ancor di più recitato da questo stuolo di persone che vivono la condizione carceraria, rendendo carne viva le parole. Ha l’accento napoletano il protagonista (del quale non si può riportare il nome, né quello degli altri interpreti), un Amleto malinconico e sarcastico, più che un folle un arrabbiato, che trasforma la rabbia in ironia e scherno, un uomo dal portamento asciutto e volto e occhi segnati d’umanità, la cui giovinezza diventa l’asse portante a cui vincolare i temi e gli interrogativi contenuti nel testo. Debitamente sfrondata rispetto all’originale, la drammaturgia essenziale di Vittorio Continelli e Stefano Tè, ne fa una messinscena di grande naturalezza, con un suo ritmo interno, serrato e dilatato, intimo e corale, dettato anche dalla musica - vera e propria protagonista - eseguita dal vivo dalla pianista Alessandra Fogliani, che alterna composizioni originali, citazioni ed elaborazioni ispirate dalla musica tardo romantica e barocca, e da quella popolare del tango. La varietà di cromatismi sonori che fluiscono dalle sue note, accompagnando movimenti e atmosfere con tempi anche improvvisati che nascono dall’ascolto circolare e dalla sensibilità del momento, evidenziano la tensione e il climax che avviene in scena. Ed è di struggente bellezza la sequenza della follia di Ofelia, complice una sedia bianca sulla quale la donna siede, si culla, si trascina, cade e rialza ripetutamente, avvolta da una musica ispirata alla tradizione folklorica della cantante norvegese Mari Boine. Di divertente trovata è, invece, la scena dei becchini con maschere, movenze e gerghi da commedia dell’arte, in arrivo con una pala in mano e trascinando una carriola piena di terra che si sparge al suolo, poi ammutoliti quando giunge Amleto con in braccio il corpo senza vita di Ofelia gocciolante d’acqua e deposta su un mucchietto di terriccio con una rosa. Tutto concentrato sul lavoro degli attori - secondo la lunga pratica del Teatro dei Venti -, anche questo, come il precedente Giulio Cesare scespiriano, è un Amleto acuto e capace, essenziale, dove non c’è da ricercare una precisa chiave di lettura - tante quelle viste -, né particolari codici espressivi. Basta a sé per la forza, la verità, l’umanità di quei corpi che incarnano personaggi e vicende di una storia più grande dove potersi immergere, ritrovare, e riscoprirsi “altri”. La compagnia del Teatro dei Venti, impegnata dal 2006 a realizzare progetti di creazione artistica e di professionalizzazione dentro il carcere, oltre ad occasioni di incontro tra carcere e città attraverso il teatro, rappresenta una delle realtà più importanti di teatro-sociale. E questo spettacolo, oggi in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, segna il primo esperimento di professionalizzazione dei detenuti nell’ambito del progetto europeo AHOS All Hands On Stage, a cui aderiscono per 30 mesi organizzazioni e Istituti penitenziari di ciqnue Paesi (Italia, Germania, Polonia, Romania e Serbia) per coinvolgere i carcerati in processi di inserimento lavorativo nell’ambito dello spettacolo dal vivo. Questo Amleto, insieme al podcast Macbeth alla radio costruito con le voci degli attori e delle attrici degli istituti penitenziari di Modena e Castelfranco, e allo spettacolo Giulio Cesare prodotto all’interno della Casa Circondariale di Modena, chiude la trilogia shakespeariana sviluppatasi nell’arco del biennio 2022/23. Dopo il debutto al Teatro delle Passioni di Modena, sarà il 17 dicembre ad Arienzo (CE), nell’ambito di “Dialoghi di libertà”, il primo Festival del Sud Italia dedicato al Teatro in Carcere, e il 25 gennaio 2024 a Maranello (MO), all’interno della stagione curata da ATER Fondazione, all’Auditorium Enzo Ferrari. Povertà. In Italia tre minori su dieci sono a rischio, il 46% al Sud di Alessia Guerrieri Avvenire, 7 dicembre 2023 Il rapporto dell’Istat fotografa un quadro per cui la percentuale sale al 41% per famiglie monogenitoriali e per i minori stranieri. Unicef: un bimbo su 5 povero nel mondo, il 25% in Italia. Sono quelli che pagano sempre le conseguenze più pesanti, soprattutto per scelte non loro. E anche il fronte della povertà non fa eccezione, visto che secondo l’Istat quasi tre minori su dieci in Italia è a rischio povertà (contro il 24% della popolazione adulta), una percentuale che cresce fino al 46% al Sud. Una fragilità confermata nello stesso giorno anche dall’Unicef, per cui un bimbo su quattro nel nostro Paese vive in condizioni di povertà legate al reddito e l’Italia è al 34esimo posto nella lista della povertà monetaria nei 40 Paesi più ricchi del mondo in cui la povertà minorile colpisce un bimbo su cinque. La fotografia dell’Istat - Il rischio di povertà o esclusione sociale ha colpito nel 2022 il 28,8% dei bambini e ragazzi di età inferiore a 16 anni, a fronte del 24,4% del totale della popolazione. Non lasciano molto spazio all’interpretazione i dati dell’ente di statistica italiano che conferma come i minori sono più svantaggiati quando risiedono nel Sud e nelle Isole (46,6%), rispetto al Centro (21,4%) e al Nord (18,3%). Altra discriminante è anche il rischio di diventare poveri tra le famiglie monogenitore (39,1%) rispetto alle coppie con figli minori (27,2%). In particolare, la percentuale sale 41,3% quando in famiglia è presente solamente la madre. Ancora più complessa la situazione per i minori di cittadinanza straniera che mostrano un rischio di povertà o esclusione sociale pari a 41,5%, un valore superiore di quasi 15 punti percentuali rispetto al dato dei coetanei di cittadinanza italiana (26,9%). Questa differenza raggiunge il suo massimo nel Mezzogiorno, dove il rischio di povertà o esclusione sociale è pari rispettivamente a 89,2% e 45,4%; nel Nord, il dato per i minori di cittadinanza straniera è in linea con quello nazionale (41,1%) mentre il valore per i coetanei di cittadinanza italiana è molto contenuto (13,4%). Unicef: 69 milioni di bambini nel mondo vivono in povertà - Più di 1 bambino su 5 vive in povertà in 40 dei Paesi più ricchi del mondo, stando all’ultimo report dell’Unicef, secondo cui Francia, Islanda, Norvegia, Regno Unito e Svizzera hanno registrato forti aumenti della povertà minorile tra il 2014 e il 2021, mentre Lettonia, Lituania, Polonia e Slovenia hanno ottenuto le maggiori riduzioni. Il rapporto analizza le politiche di sostegno al reddito dei governi per le famiglie con bambini e rileva inoltre che, nonostante la diminuzione complessiva della povertà di quasi l’8% in 40 Paesi tra il 2014 e il 2021, alla fine del 2021 c’erano ancora oltre 69 milioni di bambini che vivevano in famiglie che guadagnavano meno del 60% del reddito medio nazionale. L’Italia è al 34° posto su 39 Paesi nella classifica della povertà monetaria dei bambini nei Paesi ricchi, si colloca al 33° posto per quanto riguarda la povertà minorile in termini di reddito più recente e al 25° posto circa la variazione della povertà minorile tra il 2012-14 e il 2019-21. Dalla fotografica scattata dall’Unicef risulta che in Italia più di 1 bambino su 4 (25,5%) vive in condizioni di povertà relativa legata al reddito (media tra il 2019 e il 2021). Secondo Unicef Innocenti - Global Office of Research and Foresight, “l’Italia ha compiuto pochi progressi verso l’eliminazione della povertà minorile: la diminuzione è stata inferiore all’1% (più precisamente, 0,8%)”, nonostante sia aumentata negli ultimi anni la protezione sociale per chi ha figli. La povertà in Italia è spesso di natura persistente. Nel 2021, infatti, è stato stimato che il 17,5% di tutti i bambini ha vissuto in condizioni di povertà anche nei 2 anni precedenti. Questo dato è preoccupante, continua l’associazione, perché “periodi più lunghi di povertà hanno un impatto ancora più negativo sui bambini. I bambini che vivono in famiglie monoparentali hanno un rischio di essere poveri (33,5%) doppio rispetto a quelli che vivono in famiglie con due genitori (15,8%)”. In merito alla povertà “non monetaria”, invece, tra il 2015 e il 2021, l’Italia ha ridotto la percentuale di bambini che vivono in condizioni di grave privazione materiale dal 15,8% al 7,1%. Si tratta “di un miglioramento impressionante”, ammette l’Unicef, aggiungendo però che “c’è ancora molto spazio per i progressi”, visto che ad esempio, in Finlandia, lo stesso tasso è dello 0,7%. Gino Cecchettin e il senso politico dell’amore di Lea Melandri Il Manifesto, 7 dicembre 2023 Una famiglia di straordinaria sensibilità e consapevolezza dà voce e incisività alle parole che generazioni di femministe hanno gridato da tempo sulle piazze, inascoltate. Un cambiamento la morte di Giulia lo ha già portato, nel momento in cui sono state le persone a lei più legate a spostare lo sguardo su una società che soffre degli stessi mali. Lo slogan femminista, “Il personale è politico”, è stato citato ieri dal manifesto a proposito delle parole pronunciate da Gino Cecchettin al funerale della figlia Giulia difronte alla grande quantità di persone che hanno affollato la basilica di Santa Giustina a Padova. Uno slogan che non poteva tornare al centro dell’attenzione in un modo più adeguato e insieme più sorprendente. La vicenda dolorosa, inquietante di un ennesimo femminicidio, anziché chiudersi nel riserbo “privato” di una famiglia ferita, per la prima volta ha visto aprirsi le porte di casa e uscire da quegli interni domestici parole che finora si erano sentite solo nelle manifestazioni del femminismo in particolari ricorrenze, come la Giornata del 25 novembre. Benché la violenza sulle donne sia ormai riconosciuta da tempo anche dalle istituzioni come “fenomeno strutturale”, i media hanno continuato a relegarla fuori dal discorso politico, come “caso di cronaca” e i provvedimenti governativi che dovrebbero contrastarla limitarsi a norme più severe di controllo e di carcerazione. L’aggettivo “imprevisto”, usato agli inizi degli anni Settanta da Carla Lonzi per descrivere la comparsa delle donne come “soggetti politici” sulla scena pubblica, con l’idea che la storia andasse riscritta a partire da un evento che sconvolgeva la millenaria separazione tra il corpo e la polis, tra i destini di un sesso e dell’altro, ritorna oggi di attualità a proposito del dominio millenario di una comunità storica di soli uomini. Solo un “padre” che ha saputo guardare al di là del suo ruolo genitoriale e pensarsi “uomo” tra altri uomini, accomunati da una cultura virile che oggi li costringe ad interrogarsi di fronte alle sue manifestazioni più violente, poteva eclissare la figura del “Patriarca”, a cui ancora molti guardano con malcelato rimpianto. La guerra tra i generi ha avuto nella famiglia il suo radicamento più forte e insieme la sua più forte copertura per la perversa confusione tra amore e violenza. Non poteva essere perciò che una famiglia di straordinaria sensibilità e consapevolezza del rapporto tra gli affetti primari, più intimi e un sessismo che dura da millenni, a dare finalmente voce ed incisività politica alle parole che generazioni di femministe hanno gridato da tanto tempo sulle piazze, inascoltate. Se la critica più radicale alla violenza maschile sulle donne ha potuto rimanere così a lungo ignorata, osteggiata o tenuta sotto silenzio, è perché il cambiamento delle coscienze avvenuto con la rivoluzione del movimento delle donne degli anni Settanta attendeva ancora quella dichiarazione pubblica - “ci riguarda” - che avrebbe finalmente portato al centro non la vittima ma l’aggressore, non la patologia del singolo ma la cultura che aliena le vite di uomini e donne a partire dalle esperienze più intime, come la sessualità e la maternità. È questo il discorso lucido e commosso con cui Gino Cecchettin ha dato l’ultimo saluto alla figlia, dopo l’effetto dirompente che aveva già avuto la lettera di Elena, sorella di Giulia, al Corriere della Sera. È toccato alle figure di un padre e di una figlia aprire una breccia in quella corazza che sono stati finora i ruoli familiari, mettere in discussione la ‘normalità’ fatta di pregiudizi atavici che ha “privatizzato” e “naturalizzato” rapporti storici di potere. La più toccante lezione di un amore possibile è venuta oggi sorprendentemente a seguito di quella affermazione selvaggia di potere di vita e di morte che è il femminicidio. “Trasformare la tragedia in una spinta al cambiamento” appartiene non alla fede, ha detto Gino Cecchettin, ma alla “speranza”. In realtà, un cambiamento la morte di Giulia lo ha già portato nel momento in cui sono state le persone a lei intimamente più legate che, invece di chiedere pene all’altezza del loro dolore per il giovane ex fidanzato che l’ha uccisa, hanno spostato lo sguardo su una società che soffre degli stessi mali, che si pone nella solitudine del “privato” gli stessi interrogativi in attesa di soluzioni fuori dell’ambito familiare, sempre rimandate. Il richiamo alla scuola, ai mezzi di informazione, alle istituzioni, non è nuovo quando si parla di prevenzione della violenza sulle donne, ma in questo caso ci sono fatti, verrebbe da dire “rivoluzionari”, che possono rendere quanto meno difficile fermarsi alle parole, alle buone intenzioni. A parlare di “guerra tra i generi”, di “pace”, di “perdono”, di educazione alla non violenza, sono state in questi giorni le massime autorità religiose, dal vescovo di Padova, durante la cerimonia funebre, al Papa, e in un Paese dove ancora serpeggia un aggressivo fondamentalismo cattolico, sarà sicuramente più problematico d’ora innanzi agitare lo spauracchio della Gender Theory contro ogni tentativo di affrontare nella scuola le problematiche del corpo, delle identità e dei ruoli di genere. La forza delle famiglie e quel filo che lega Giulia Cecchettin e Giulio Regeni di Luca Bottura La Stampa, 7 dicembre 2023 Dalla perdita di un figlio all’impegno sui diritti civili i Regeni non si sono mai arresi. I Cecchettin sono già un simbolo della lotta per un mondo migliore. Ma non nel senso di istituzione. Quella, può piacere o non piacere. Può unire o dividere. Può essere assunta come obiettivo o come pretesto per escludere, menare, discriminare qualcuno. Ci salverà la famiglia nel senso di entità viva. Di coacervo pulsante. Di contenitore del bene, del male, che però al momento giusto sceglie il bene, si compatta, semina, supplisce a quella carenza di nitore, speranze, coraggio, che come Paese - anzi: come Nazione - abbiamo smarrito. Sommersi da un mare di cattivismo, circondati da curve, perduti in un racconto che spinge al prossimo click, al prossimo titolo, al prossimo “qui e ora”, non importa quanto scomposto, per mere ragioni di Iban. E di vanità. Quasi sempre intrecciati. Ci salverà, forse, è sperabile, magari, sarebbe davvero bello, una famiglia alla volta. Specie quando per i casi del destino si associa a un’altra, l’accompagna nei titoli di cronaca, nei commenti, nel resoconto che persino tra i media più cinici, più disonesti, e tra i loro fruitori più o meno consapevoli, si fa carne, senso, speranza. Una, è la famiglia di Giulio Regeni. Che in questi giorni ha vissuto la piccola epifania di un processo che si farà. Di un cammino verso la giustizia improvvisamente riaperto, possibile, a portata di sfioramento. Loro, il padre e la madre di Giulio, piccoli lancillotti tra mulini a vento e affari di Stato. Loro, indifesi rispetto ai contratti da chiudere, la macropolitica, i piccoli inciuci, gli Al Sisi che comprano fregate e non si peritano di darcene. Loro, circondati dal calore di chi non sa da che parte girarsi per portare avanti due valori di tolleranza, rispetto. Loro, così piccoli e pure fortissimi di fronte a ogni schiaffo, a ogni malagrazia, a ogni chissenefrega. Loro e i loro braccialetti gialli, di testimonianza, fregio utopico contro l’evidenza che no, il loro ragazzo, giustizia non l’avrebbe ricevuta mai. Eppure… l’altra, è la famiglia di Giulia Cecchettin. Di papà Gino, di sorella Elena. Così composti eppure intangibili. Così consapevoli benché aggrediti: dalla sorte, dai media, dal futuro che sarà un lungo e difficile cammino. Così scintillanti nel loro decoro, compostezza, coraggio. Ché ad andare su Rete 4 come ha fatto Giulia, a dire quel che era giusto contro un modello culturale, non politico, contro la resa civile che ci porta a considerare anche i femminicidi come una curva ultrà, contro chi appena sente la parola “patriarcato” mette mano all’editoriale paternalistico o violento, magari entrambe le cose, servivano sprezzo del pericolo, consapevolezza. Anche incoscienza. Ché le nostre televisioni, i loro dibattiti, i professionisti dell’astio, i cattivisti e le macchiette buoniste, hanno per i giovani un peso infinitesimale. Per quello lo superano. Per quello si espongono. Per quello guardano avanti. Dovremmo imitarli. La compostezza dei Regeni, le parole di Gino dall’ambone funerario, rappresentano un patrimonio che sarebbe non solo bello ma utile, necessario, decisivo, dissipare. La battaglia civile dei genitori di Giulio, le parole del padre di Giulia. Speculari, fortissime. Gino Cecchetin sapeva che il suo discorso sarebbe stato sezionato con gli occhiali tossici dell’eterno Processo del Lunedì in cui ci è dato di vivere. Poteva essere doroteo, accontentare tutti. Poteva aggredire chi l’aveva aggredito, travisandone parole e postura. Ha scelto di lanciare lo sguardo oltre l’orizzonte. Tratteggiare un posto in cui è bello vivere, e anche sicuro, e non si muore per futili motivi. Ha chiesto ascolto. Ha accudito la figlia contro chi l’aveva aggredita. Ha seminato nel campo concimato a letame della nostra povera informazione, della nostra politica incosciente, volando così in alto che chi era piccino lo risultava davvero. Ha unito, ché quello voleva. Se è vero, ed è vero, che destra e sinistra sono categorie superate, non c’è niente di più decoroso, forte, decisivo ove accada, che astrarsene. Che traslare, a fatica, soffrendo, un dramma personale per ricordare che, appunto, la famiglia è decisiva. Se Giulio Regeni è morto occupandosi della libertà altrui, se Giulia Cecchetin è morta perché voleva essere leale e accogliente verso il disagio di un amore tristemente acuminato, diciamo pure per bontà, perché pensava fosse giusto, evidentemente avevano respirato in casa un’aura di tolleranza, rispetto, compassione, che qualcuno definirebbe buonista. Solo che il buonista non è un alieno superbo: è una persona normale che banalmente vorrebbe essere meglio di quel che è. Per sé, per gli altri. Per la propria famiglia. Che sì, quando non sia pretesto di rancore, opportunità di esclusione, alibi strumentale, è un proprio un bel posto. Un luogo superstite in cui sopravvive il senso dell’opportunità. E i Regeni, i Cecchettin, sono stati molto più che opportuni. Necessari. Adesso, soprattutto da parte di chi ha abdicato all’invidia del bene (altrui) è tempo di non lasciarli soli. Perché è quella l’Italia migliore. E se non vince, sarà buio per tutti. Attivisti di Ultima Generazione in carcere per un blocco stradale: accanimento che mi sconcerta di Ferdinando Boero Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2023 Sono un reduce del ‘68, ho occupato il mio liceo e fatto blocchi stradali davanti al provveditorato di Genova, in via Assarotti. Eravamo seduti per terra e lo slogan era: Più aule più professori. Il Liceo Scientifico Enrico Fermi faceva i doppi turni e una girandola di supplenti rendeva difficile lo svolgimento dei programmi. Non protestavamo per motivi “globali”, chiedevamo che la scuola pubblica funzionasse meglio. La Polizia si schierò di fronte a noi e un signore con fascia tricolore gridò: in nome della legge, scioglietevi! Restammo lì seduti, per terra. Tre squilli di tromba e partì la carica. Mi alzai dalla prima fila e mi misi di lato, contro un muro. Gli altri, dietro, non fecero in tempo e furono travolti. Ho ancora chiara nella memoria una mia compagna presa per i capelli e trascinata via, con tre poliziotti che la manganellano mentre è a terra. Era solo l’inizio delle contestazioni che, tragicamente, finirono con morti ammazzati da entrambe le parti, le P38, il terrorismo. Per fortuna, all’università, mi concentrai su altre cose (la biologia marina) e mi allontanai dall’attivismo. Anche perché presto mi accorsi che i “gruppuscoli” si stavano facendo la guerra tra loro. A Genova non c’erano fascisti, e i ragazzi di sinistra se le davano tra loro. Ho frequentato qualche riunione di Lotta Continua. Si programmava l’affissione notturna di manifesti, contendendo gli spazi con Lotta Comunista, Servire il Popolo, Potere Operaio, Avanguardia Operaia e altri, compresi Luddisti. Una situazione ben descritta in Brian di Nazareth, con il Fronte Popolare di Giudea. Abbandonai la militanza. Oggi i ragazzi fanno a botte tra tifoserie e, oramai, non cercano neppure pretesti, si danno appuntamenti in rete e se le danno. Alcuni, però, tornano a protestare, senza violenza. Sono molto frammentati ma il motivo delle proteste è unico: il degrado delle condizioni ambientali e la disattenzione per il problema da parte dei potenti del mondo. Riuniti in una Cop28 in cui si afferma che non possiamo abbandonare i combustibili fossili (parola di chi li vende) e che tutt’al più possiamo pensare al nucleare. Gli attivisti di oggi fanno quello che facevamo noi: si siedono per terra e bloccano il traffico. Oppure si incollano al vetro che copre un’opera d’arte. O leggono Laudato Si’, che dice quel che dicono loro, durante una messa particolarmente significativa (dove si parla d’altro). Quando lo fanno sanno che ci saranno conseguenze. La tolleranza per queste azioni sta diminuendo: le pene previste passano da sanzioni pecuniarie al carcere. E’ il caso di dodici attivisti di Ultima Generazione, ancora in carcere per un blocco stradale a Roma. Un automobilista esasperato ha forzato il blocco, investendoli, e nessuno ha pensato di perseguirlo. Questo accanimento contro chi protesta per cose ritenute sacrosante persino dal Papa mi lascia sconcertato. Lo scandalo non sono loro, lo scandalo è che i petrolieri siano riuniti a Cop28 a parlare di clima: un congresso di pediatri organizzato da pedofili, mi verrebbe da dire. Non credo che questo modo di protestare sia efficace, ma io ho 72 anni. Quando ne avevo 18 pensavo che lo fosse. In Parlamento ci sono molti “anziani” che hanno avuto trascorsi burrascosi in termini di scontri in strada. Uno è la seconda carica dello stato. Poi si cresce. Per cambiare le cose bisogna influire sui processi decisionali, bisogna arrivare nei posti dove si decide e agire di conseguenza, usando le armi della democrazia. Prima di tutto il voto. Mi metto nei panni di questi ragazzi. Al loro posto chi voterei? Me la faccio anche io questa domanda. Non mi risulta che ci siano partiti che mettono il tema più importante (lo stato del pianeta) al primo posto nei loro programmi, e non lo troviamo neppure al secondo. I movimenti ambientalisti sono anch’essi frammentati e non riescono a parlare con un’unica voce. Eppure abbiamo ricevuto 209 miliardi soprattutto per fare la transizione ecologica. Le direttive europee chiedono cose ben precise, che restano disattese, e danno anche le risorse per farle. Chi protesta chiede che si passi dalle parole ai fatti, visto che non si fa. Il mio consiglio a questi ragazzi mi sconforta, perché mi tocca ripetere, ma con altre intenzioni, le parole di Fassino: che facciano un partito, che si presentino alle elezioni, e vediamo quanti voti prendono. Il primo partito, nei sondaggi, ha il 40% delle scelte: sono quelli che non votano. Nei sondaggi, se sommate le percentuali, abbiamo il 100%, ma il primo partito, con il 30%, ha il 30% del 60% di chi si esprime. La percentuale è molto minore di quella dichiarata. E così gli altri. Protestare può servire per smuovere le acque, ma poi bisogna dar seguito, e agire. Per farlo bisogna arrivare dove si decide, portando quel 40% a votare. Protestano i ragazzi e protesta il Papa, dicendo le stesse cose. Per questo i ragazzi finiscono in prigione. Francesco è malandato, non è andato a Cop28, ma ha mandato un discorso molto incisivo. Visto che ha ricevuto Greta, penso che in cuor suo ci sia anche lui, seduto per terra prima, e in prigione poi. Migranti. Al vaglio la possibilità di inasprire la procedura di frontiera anche per i bambini di Leo Lancari Il Manifesto, 7 dicembre 2023 Oggi il negoziato tra Parlamento e Consiglio europeo sul Patto immigrazione. Procedure di frontiera più rigide, con la possibilità di coinvolgere anche famiglie con bambini molto piccoli; Paese terzo sicuro dove rimandare immediatamente i migranti senza neanche esaminare la domanda di protezione internazionale e, infine, “solidarietà flessibile”. E’ soprattutto su questi tre punti che si concentrerà la riunione di oggi a Bruxelles tra i rappresentanti del Parlamento e del Consiglio europeo chiamati a negoziare le modifiche al Patto immigrazione e asilo, e le previsioni della vigilia annunciano un confronto tutt’altro che sereno. A rendere complicata la trattativa sarebbe la richiesta avanzata dal Consiglio di rendere ancora più stringenti i criteri su chi debba essere coinvolto nella procedura di frontiera, già in vigore in alcuni Stati membri - come l’Italia - e che prevede la possibilità (oggi facoltativa ma che si vorrebbe rendere obbligatoria) di trattenere un migrante fino a un massimo di quattro settimane. Nella proposta avanzata della Commissione Ue dovrebbe riguardare tutti coloro che provengono da un Paese che ha una percentuale di riconoscimento delle richieste di asilo inferiore al 20%, una soglia che il Parlamento vorrebbe alzare contro il parere del Consiglio che la ritiene un deterrente contro i cosiddetti migranti economici. Un trattamento che non escluderebbe neanche i bambini. Sempre la Commissione inizialmente ha previsto il divieto di trattenere alle frontiere le famiglie di migranti con bambini sotto i 12 anni. In discussione oggi ci sarebbe invece la possibilità di sottoporre a procedura di frontiera anche i nuclei con bambini a partire dai 6 anni. C’è poi la questione del paese terzo sicuro: se nel suo viaggio verso l’Europa un migrante ha attraversato un paese che garantisce livelli anche minimi di tutela, la sua richiesta di asilo può essere bocciata senza neanche un esame preliminare e il migrante rimandato indietro. E’ quanto succede oggi per alcune nazionalità tra Grecia e Turchia, un principio che si vorrebbe replicare anche per Paesi, ad esempio, come la Tunisia. Per questo, spiegava ieri una fonte del Parlamento europeo, serve “una lista di criteri ben determinata, che va compilata assieme alle agenzie internazionali che si occupano di rifugiati”. Ma non è tutto. Un giro di vite sarebbe previsto inoltre anche per quanto riguarda i ricongiungimenti familiari all’interno del regolamento di Dublino, per i quali vorrebbe cancellata la possibilità, proposta sempre dalla Commissione Ue, di attuarli tra fratelli, uno dei quali beneficiario della protezione internazionale. L’unico punto sul quale oggi non dovrebbero esserci discussioni riguarda la “solidarietà flessibile”, il meccanismo che prevede il ricollocamento dei migranti, solo in teoria obbligatorio visto che per uno Stato che rifiuta l’accoglienza sono previsti in alternativa contributi finanziari destinati a Paesi maggiormente sotto il peso degli sbarchi. Le modifiche al Patto preoccupano quanti lavorano per assistere i migranti. In un documento comune 17 Ong - tra le quali Amnesty International Picum, Border Violence Monitoring Network - denunciano i rischi di un aumento delle discriminazioni nei confronti dei migranti e di “un attacco potenzialmente irreversibile” al sistema di asilo. Medio Oriente. Due detenuti palestinesi picchiati a morte in cella di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 dicembre 2023 Il giornale Haaretz accede alle autopsie dei detenuti morti nelle carceri israeliane dal 7 ottobre 2023: due i casi accertati di pestaggi, altri tre morti per mancate cure mediche. Trovano conferma le accuse di altri prigionieri politici. Usciti di prigione durante la breve tregua della scorsa settimana, alcuni ragazzi palestinesi avevano riportato di decessi in cella. Da ex prigionieri, avevano raccontato degli abusi subiti, intensificati dopo il 7 ottobre. Di quei sei decessi, tutti successivi al giorno in cui Hamas ha perpetrato l’attacco più sanguinoso contro Israele, non si era saputo più nulla. Alle denunce delle ong palestinesi non era stato dato seguito. Ieri a parlarne è stato il quotidiano israeliano Haaretz, citando le autopsie compiute sui corpi di alcuni dei sei detenuti trovati senza vita. Almeno due di loro avevano chiari segni di percosse: lividi sul petto, sul collo e sulla testa, sterno rotto, costole rotte. Due giovani adulti, il 33enne Abdul-Rahman Maree (detenuto a Megiddo e morto il 13 novembre scorso) e il 38enneThaer Abu Assab (deceduto cinque giorni dopo nella prigione di Ktzi’ot). In altri casi, le morti sarebbero riconducibili - secondo l’autopsia - a pestaggi precedenti o alla carenza di cure mediche. Il corpo di Maree, scrive Haaretz citando l’autopsia, parlava da sé: trauma alla testa, costole e sterno rotti, lividi su collo, schiena, braccia. Non aveva malattie pregresse, era in buona salute. Difficile parlare di infarto, come ufficiosamente le autorità penitenziarie avevano fatto nei giorni successivi. Il quotidiano cita anche dei testimoni, altri prigionieri palestinesi: Maree è stato picchiato con estrema brutalità, soprattutto alla testa, dalle guardie carcerarie. Aveva risposto ad alta voce agli insulti al padre morto da poco. Per picchiarlo, gli avevano legato le braccia dietro la schiena. Morto di botte anche Abu Assab. Di lui aveva parlato la scorsa settimana Khalil Mohamed Badr al-Zamaira, 18 anni, liberato dopo due anni di prigione nello scambio con gli ostaggi israeliani in mano ad Hamas. “Aveva solo chiesto a una guardia se c’era la tregua. Lo hanno picchiato a morte. Abbiamo gridato aiuto, ma i dottori sono arrivati un’ora e mezza dopo. Era già morto”. Anche nel suo caso non ci sono cause ufficiali del decesso, ma i segni sul corpo sembrano chiarissimi. Nessuna risposta per la morte di Omar Hamzeh Daraghmeh, 58 anni. Era stato arrestato appena due giorni prima del decesso e stava bene. In altri tre casi (Arafat Hamdan, 25 anni, e Raja Mansour, 46, entrambi malati di diabete; e Majed Zakol, 32, malato di tumore) sembra che la causa principale sia la mancanza di cure mediche, del tutto sospese nelle carceri israeliane dal 7 ottobre. Zakol e Samour erano lavoratori di Gaza, due delle centinaia di gazawi arrestati in quanto tali. Nessuna accusa, solo quella buttata là dal ministro della difesa israeliano Yoav Gallant: sono da considerare a prescindere “combattenti infiltrati”, non manovali né contadini. Con la campagna di arresti di massa seguita al 7 ottobre (3.580 nuove detenzioni, che surclassano il numero di rilasci nei giorni di tregua, 280 prigionieri, per lo più donne e bambini) il numero di detenuti politici palestinesi si attesta oggi a 7.800. Di questi 2.873 sono stati posti in detenzione amministrativa, senza accuse ufficiali né processo. Gilda Ammendola, morta in un carcere francese: il giudice riapre il caso sul suicidio di Gennaro Scala Corriere del Mezzogiorno, 7 dicembre 2023 “Vicenda poco chiara”. Fu trovata impiccata il giorno dopo il suo arresto a Parigi. Il suo nome in un’inchiesta sul traffico di stupefacenti: il giallo dei sei viaggi in Africa. Morta misteriosamente nell’istituto di pena Fleyry-Mèrogis di Parigi, il nome di Gilda Ammendola spunta tra le carte di un’inchiesta per traffico di stupefacenti e il gip di Napoli riapre il fascicolo sul decesso della ragazza, trattato finora come un suicidio. Secondo il giudice “la vicenda è poco chiara”. Adesso si attende la risposta della Procura di Roma che si occupa dell’inchiesta. La morte - La 32enne di Ercolano, in provincia di Napoli, fu trovata impiccata all’interno della sua cella a gennaio. La storia del suicidio non ha mai convinto la famiglia che si rivolse a un avvocato, Domenico Scarpone, che presentò un esposto per fare luce su quella morte che appariva misteriosa. Quasi come se il suicidio fosse stato una messa in scena e che, in realtà, la ragazza fosse stata uccisa da qualcuno in carcere. Gli ultimi giorni e l’inchiesta - L’ingresso in carcere risale al 21 gennaio con una telefonata con cui la ragazza chiedeva alla famiglia l’invio di effetti personali. A distanza di poche ore, però, la famiglia ricevette una seconda chiamata con cui un funzionario del carcere informava che Gilda si era suicidata in cella. L’inchiesta per far luce sul decesso è stata riaperta proprio dopo l’indagine che si è incrociata con la vicenda di Gilda Ammendola. Si tratta di un’inchiesta su un presunto gruppo di narcotrafficanti che importava chili di stupefacenti dall’Africa all’Europa. Proprio nelle carte spunta il nome della 32enne. Era 10 luglio del 2021 presso l’aeroporto parigino atterrò il volo 4Z163 partito da Lusaka, in Zambia, e con destinazione finale Lione. Parigi era solo uno scalo intermedio come quello precedente di Johannesburg, questo, tuttavia, non impedì ai doganieri di procedere a un controllo sui bagagli dei passeggeri, tra cui c’erano la Ammendola e un uomo. I controlli portarono alla scoperta dello stupefacente, diviso in otto panetti, custodito all’interno di due valigie di proprietà dell’uomo. Con la droga furono vengono trovati anche alcuni effetti personali della Ammendola, motivo per cui anche lei fu arrestata. I due furono trasferiti in carcere il 14 luglio e le loro strade si divisero. I sei viaggi in Africa - Si è scoperto che Gilda Ammendola è stata detenuta fino al marzo del 2022 quando, su istanza dei suoi legali, fu rilasciata, sebbene sottoposta alla sorveglianza speciale presso la sua abitazione a una ventina di chilometri da Parigi. È in quella casa che avrebbe atteso la sentenza definitiva che, a fine gennaio di quest’anno, le ha riaperto le porte del carcere. Il tragico epilogo della sua storia è noto. Dai timbri sul passaporto della Ammendola, gli investigatori francesi scoprirono che nei 18 mesi precedenti al suo arresto, in ben 6 occasioni, si era recata in Africa facendo poi ritorno a Parigi passando, in almeno 5 occasioni, per Johannesburg. L’indagine della Finanza s’innesta qui. La ragazza potrebbe aver svolto il ruolo di reclutatrice. Selezionava donne che potessero trasformarsi in corrieri della droga spacciandosi per turiste. Il sistema usato era quello delle valigie con il sistema del doppio fondo. Il tutto per compensi variabili dai due ai quattromila euro a viaggio. Un’inchiesta che potrebbe fare luce anche sul perché la 32enne abbia trovato la morte in carcere. Iran. Il grido di Narges: da una settimana l’attivista è in isolamento nel carcere di Evin di Francesca Paci La Stampa, 7 dicembre 2023 Domenica sarà il marito a ritirare il suo premio Nobel per la pace. Nella lettera che pubblichiamo l’ultimo appello contro le esecuzioni. Domenica 10 dicembre Taghi Rahmani, marito dell’attivista iraniana e neo Nobel per la Pace Narges Mohammadi, salirà sul palco dell’accademia di Oslo con i figli per ritirare il premio a nome della moglie, arrestata per l’ennesima volta 21 mesi fa e detenuta nel famigerato carcere di Evin, dove da una settimana si trova in isolamento perché, evidentemente, basta la sua voce, capace di trovare una qualche via di fuga anche dalla cella più remota, a spaventare il regime di Teheran. Le ultime parole arrivate all’esterno sono quelle contenute nella lettera che pubblichiamo, pietre contro l’ennesima esecuzione di due attivisti, uno dei quali minorenne, giustiziati a novembre. Poi il silenzio, pesantissimo: anche il telefono della prigione da cui solitamente Narges parla con la sorella non risponde più. Troverà un altro modo, è sicuro: per ora deve tacere. Nel frattempo altri due oppositori sono stati impiccati dopo processi farsa e confessioni che le organizzazioni per i diritti umani denunciano essere state estorte con la tortura. La macchina della morte è uno schiacciasassi che avanza sull’Iran divorando i suoi figli. L’eco della guerra che si allarga dal Medioriente all’Ucraina, isolata nel più glaciale dei suoi inverni, è musica per le orecchie del regime di Teheran che in queste settimane, per occultare la rivoluzione “Donna vita libertà”, ha messo in campo tutti gli sforzi geopolitici possibili giocando su tavoli multipli, da quello energetico con gli ex arcinemici sauditi fino a Mosca, dove il presidente iraniano Raisi arriverà oggi per discutere con l’omologo russo Vladimir Putin la crisi nella striscia di Gaza. Tutto, pur di silenziare le attiviste e gli attivisti che, trasparenti in questo momento sui media internazionali ma niente affatto afoni, hanno aggiunto al nome di Mahsa Amini quello della sedicenne Armita Garavand, morta anche lei dopo le percosse della polizia religiosa, e quello di Narges Mohammadi, la piccola grande voce che le sbarre non riescono a contenere. Gli ayatollah stanno dunque vincendo la loro sfida interna, con la complicità della distrazione delle grandi potenze e della stanchezza dell’opinione pubblica mondiale? La risposta è nelle ragazze che, dopo quasi 600 morti e ventimila persone arrestate in un anno e mezzo, continuano a uscire di casa senza velo sotto lo sguardo minaccioso ma impotente degli agenti del regime. “La Repubblica Islamica dell’Iran non è un attore internazionale con cui dialogare per accordi di pace, accordi economici e commerciali, è una dittatura che promuove terrorismo, mafie e guerre” scandiscono le attiviste del Movimento italo iraniano “Donna Vita Libertà”, unendosi a Narges Mohammadi nel chiedere al governo di Roma, alla Commissione Europea e al Parlamento di Strasburgo di spendersi per fermare le esecuzioni in Iran e liberare Bahareh Hedayat, Sepideh Qolian, Fatemeh Sepehri, tutte le donne e gli uomini arrestati per il loro impegno civile. Citano Gramsci (“L’indifferenza è il peso morto della storia”), ricordano le precarissime condizioni di salute della irriducibile Premio Nobel, mettono in guardia dal sottovalutare la campana che oggi suona per le donne iraniane e domani chissà. L’Italia, dicono gli attivisti nel nostro Paese, ha un ruolo. Lo spiega Shady Alizaheh, avvocata italo-iraniana: “L’importanza del movimento “Donna, vita, libertà” sta nel fatto di aver elevato i diritti delle donne a diritti umani universali e questo messaggio ha unito allo stesso tempo un popolo in Iran con quattro realtà importanti anche in Italia che hanno sottoscritto il nostro appello, Amnesty International, i sindacati con l’adesione del segretario della CGIL Maurizio Landini, la segretaria del Pd Elly Schlein e la Casa Internazionale delle Donne”. Resta l’apprensione per la sorte di Narges Mohammadi. “Ha dichiarato che non indosserà mai il velo obbligatorio neppure per avere le cure mediche di cui necessita” racconta l’attivista iraniana e Premio Amnesty per i diritti Parisa Nazari. Non lo indosserà, e troverà il modo di raccontarcelo.